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Come ogni nazione è in grado

he di cronac

di mangiare, di bere e respirare, nello stesso modo è in grado di occuparsi dei propri problemi

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Gandhi di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 20 APRILE 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Questa mattina a Roma il primo step; fra due mesi al convegno della “Fondazione liberal” il passo definitivo

Al via il Partito della Nazione Oggi Casini lo lancia alla Costituente, a giugno il meeting di Todi Colpo di acceleratore al progetto dopo un vertice con Fini e Rutelli. Anche Pisanu è interessato. Intanto il Carroccio affonda nel caos del tutti contro tutti: soldi del partito per la casa di Calderoli La corsa per l’Eliseo vista da Roma

Parigi o Vasto? Hollande agita la sinistra italiana Domenica in Francia primo turno delle presidenziali: il candidato socialista è favorito su Sarkozy. Anche se al ballottaggio peseranno gli orientamenti dei candidati sconfitti dopodomani Enrico Singer • pagina 6

VOLTARE PAGINA

di Osvaldo Baldacci

È il momento giusto, mentre crolla la Lega (con la Seconda Repubblica)

erve un Partito della nazione? Anzi, la domanda più corretta è «serve un partito alla nazione?», «un partito per la nazione?». E, se sì, che tipo di partito serve? Su quali basi? Queste sono domande ineludibili che emergono con grande forza dalla realtà di fatto. Le prime risposte arriveranno oggi alla Costituente e a giugno al meeting della Fondazione liberal a Todi.

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di Giancristiano Desiderio llora, breve riassunto. Bossi piange e si fa da parte. Il Trota si dimette. Belsito è epurato. Rosy alla fine è cacciata. Boni dice “faccio come Bossi”. La linea di Maroni, con la scopa in mano, è stata chiara fin dall’inizio: pulizia, pulizia, pulizia. Però, è una linea che comincia a mostrare dei limiti. Se non si mette un punto, il rischio è quello di cacciare tutti dalla Lega e di restare solo. In questo il “caso Calderoli” e il “caso Reguzzoni” sono esemplari. a pagina 2

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Anche il “triumviro” finisce nell’occhio del ciclone

La cedolare secca l’ex ministro Dalle carte dell’inchiesta la conferma: Via Bellerio pagava l’affitto di un appartamento privato al Gianicolo. L’interessato conferma ma dice: «Sono solo calunnie, mi serviva per lavorare» Francesco Lo Dico • pagina 2

L’opposizione chiede la sospensione della gara. I piloti temono per la sicurezza

Appello dei vescovi Usa

Formula 1, testacoda in Barhein

Disobbedite alle leggi se offendono l’uomo

Polemiche e manifestazioni contro il Gran Premio nell’Emirato (Fia), perché si trovava costretto da «interessi nazionali superiori» a non poter ospitare la manifestazione. Oggi le istituzioni di Manama vogliono far passare il messaggio che non ci sia alcun pericolo. I ribelli dovrebbero rendersi conto che riflettori e telecamere venuti da occidente non possono che tornare utili alla loro causa. Questo ovviamente a rigor di logica. Perché la monarchia non può prevedere un’escalation di piazza. Mentre gli oppositori, stranamente, hanno già detto no al Gp. a pagina 10

di Antonio Picasso e tutto va come previsto, in Bahrein non sarà una moschea a fare da proscenio alla rivoluzione, bensì il circuito di F1 a Sakhir. A differenza dello scorso anno, il Gran Premio nell’opulento emirato si farà. L’occasione potrebbe tornare ghiotta sia per i ribelli che per il governo. Quest’ultimo spera di dimostrare che la situazione nel Paese è sotto controllo. A differenza della primavera 2011, quando l’emiro alKhalifa si era rammaricato con la Federazione automobilistica

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

77 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

William E. Lori oi siamo cattolici. Noi siamo americani. E siamo orgogliosi di essere entrambe le cose, grati per aver ricevuto il dono della fede che deriva dal nostro essere discepoli cristiani, e grati per il dono della libertà che ci deriva dalla nostra cittadinanza americana. Essere cattolici e americani dovrebbe significare non dover mai essere costretti a scegliere fra l’uno e l’altro.

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19.30


Il momento giusto per il Partito della Nazione

Una tegola per Maroni: sono coinvolti proprio tutti

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di Giancristiano Desiderio llora, breve riassunto. Bossi piange e si fa da parte. Il Trota si dimette. Belsito è epurato. Rosy alla fine è cacciata. Boni dice “faccio come Bossi”. La linea di Maroni, con la scopa in mano, è stata chiara fin dall’inizio: pulizia, pulizia, pulizia. Però, è una linea che comincia a mostrare dei limiti. Se non si mette un punto, il rischio è quello di cacciare tutti dalla Lega e di restare solo. Il “caso Calderoli” e il “caso Reguzzoni” sono esemplari. Poi, naturalmente, c’è l’altro caso clamoroso: il dossier. Insomma, per far al meglio queste grandi pulizie della Lega non ci vuole Maroni, ma Ercole che ripulì le stalle di Augia. Forse, è meglio che l’ex ministro degli Interni prenda in considerazione di non cacciare tutti dal partito ma di cacciare se stesso e di creare un nuovo partito.

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Fare dell’ironia è facile. È vero. Ma non vogliamo essere ironici. Il problema che Roberto Maroni ha davanti non è di facile soluzione perché non riguarda questo o quel soggetto ma il soggetto politico in sé che ha fatto della pulizia di Roma Ladrona la sua missione storica e politica, ancor più del federalismo, e ora si ritrova più sozza dei sozzoni che voleva cacciare. Si apre così il drammatico capitolo della “rifondazione leghista” come, dopo la fine del comunismo e del Pci, si aprì il capitolo della “rifondazione comunista”. Un capitolo amaro e triste perché nasce da un fallimento. Come non si può rifondare il comunismo, così non si potrà rifondare il leghismo. Altro che pulizia. La mancanza di pulizia è solo la parte più evidente del fallimento politico della Lega. Se fosse risolvibile facendo pulizia basterebbe un cambio di vertice, un fisiologico ricambio della classe dirigente del partito. Ma non è questo il problema che Maroni ha davanti. Il suo più serio problema è il naufragio del federalismo: quella classe dirigente che avrebbe dovuto realizzarlo e attuarlo e in base ad esso governare il Nord del Paese - soprattutto il Nord, è evidente - ebbene quella classe politica non è stata all’altezza del compito. In fatti come questi non c’è una seconda volta. Una basta e avanza. Il leghismo è stato la Seconda repubblica. Ancor più di Berlusconi e del berlusconismo. Non è un caso che è sempre stata la Lega a dettare l’agenda dei governi a guida Berlusconi. La strada è stata indicata dalla Lega e il leghismo, sia come moto di protesta sia come atto di proposta, è stato il “pensiero politico” della repubblica che avrebbe dovuto superare la partitocrazia e dare finalmente al Nord del Paese uno Stato degno del nome. Ma se tutto questo è miseramente fallito - come è fallito, eccome - come si può pensare di rimetterlo in piedi cacciando i cacciabili, tenendosi gli incacciabili e ricominciando con il ritornello dell’indipendenza della Padania? Ci rendiamo conto in che pasticcio si trovi Maroni, ma dovrebbe aver forse più considerazione della sua storia personale e politica. La Seconda Repubblica è ufficialmente finita. Come diceva Maurizio Costanzo al Parioli: “Sipario”. Ora è tempo di aprire un’altra storia o, più semplicemente, il nuovo capitolo della Prima repubblica. Perché, in fondo, dalla storia repubblicana iniziata nel dopoguerra non siamo mai usciti. È tempo di voltare pagina e di riprendere in mano il lavoro usato che si chiama “spirito nazionale”. Il tempo giusto, insomma, per dar vita al Partito della Nazione.

Per la Finanza, l’ex ministro della semplificazione ha «semplificato» anche la sua vita

La cedolare secca Calderoli

Ogni mese, 2200 euro per pagare la casa del triumviro; Pini denuncia le spese folli di Reguzzoni, il nuovo leader paragona Belsito ad Al Capone: la Lega è nel caos di Francesco Lo Dico

ROMA. Era un Calderoli crepuscolare, quello che affidava a Stefania Rossotti del Foglio il suo maggiore rovello: «Le sembrerà stupido, ma ho paura di morire prima di aver pagato tutto il mutuo». Già lo vedevi, l’amico di Nonna Speranza, intento a evocare Alberto da Giussano impagliato, i frutti di marmo (e non solo quelli) protetti dalle ampolle, le noci di cocco dei bingo bong. No. Le buone cose di pessimo gusto scelte a campione dal curriculum, non potevano restare a galleggiare nel barcone clandestino del fato. E così, il nostro ha deciso di liberarsi dall’affanno. Perché secondo quanto emerso dagli atti sequestrati dai carabinieri del Noe di Roma, l’affitto di casa dell’ex ministro era pagato con i soldi della Lega Nord: duemila e 200 euro mensili per un appartamento in via Ugo Bassi al Gianicolo.

La difesa del chirurgo maxillo facciale impegnato a fare il peeling del partito, è però un’ammissione di colpa. «Siamo all’incredibile. Si viene infangati per aver fatto il proprio dovere, per aver lavorato e tanto! E tutto questo senza aver mai preso un euro di stipendio, per aver lavorato sette giorni su sette, tutte le settimane dell’anno!». Ma dopo la geremiade, si arriva al punto. Pro-

prio come ci si attende da un ex ministro delle Semplificazioni. «Mi si infanga», dice, «per aver avuto in dotazione da parte del movimento una casa-ufficio dal costo di 2200 euro al mese, quando io ne verso mensilmente 3000 di euro alla Lega Nord». Morale: lo si infanga, ma la casa pagata ce l’ha per il semplice fatto che lui lavora tantissimo. Proprio come molti italiani che in banca non hanno ottenuto altrettanta ammirazione per l’impegno profuso in ufficio. Una brutta nemesi per colui che spesso si scaglia contro i rom campati dagli italiani: riscoprirsi mantenuto come l’ultimo degli zingari. Anche se Manuela Dal Lago, collega e triumvira, difende Calderoli a spada tratta. «Adesso basta, è ora di finirla con questo assurdo sputare fango addosso alla Lega Nord e ai suoi esponenti. Questa vicenda dell’affitto dell’appartamento utilizzato a Roma dal senatore Roberto Calderoli rasenta letteralmente il ridicolo», tuona. E poi aggiunge una singolare eccezione di legittimità all’uso del finanziamento pubblico. «Siamo arrivati al punto che un movimento quale la Lega Nord non è nemmeno più padrona di decidere come utilizzare le proprie risorse? È possibile che si metta alla berlina la scelta del movimento di dotare il proprio Coordinatore di un apparta-


La ricetta Capaldo contro i Lusi e i Belsito L’Udc rilancia la legge dell’economista sul finanziamento pubblico. Sì di Alfano e Bersani di Francesco Pacifico

ROMA. Neppure ventiquattr’ore prima Mario Monti aveva imposto ai partiti un’accelerata alla «riforma della governance della politica». Quella che, alla stregua del deficit commerciale o del pareggio di bilancio, spinge gli investitori a comprare il nostro debito sovrano o convince le imprese straniere a puntare sul Belpaese. Appello raccolto in toto da Pier Ferdinando Casini. Il quale ha mantenuto le promesse e ieri ha depositando una nuova proposta di legge sui partiti che ricalca il progetto di legge di iniziativa popolare messo a punto da Pellegrino Capaldo. Il testo, di fatto, supera il modello ideato nei giorni scorsi dai leader dei partiti che appoggiano il governo Monti: il segretari del Pdl Angelino Alfano, quello del Pd (Pier Luigi Bersani, e lo stesso Casini. Una mossa che – oltre a non dispiacere all’ex Guardasigilli e a ottenere un primo placet dal Nazareno – potrebbe preludere a un accorpamento dei progetti di legge sui bilanci dei partiti con le proposte per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione e dare un riconoscimento alle forze politiche. Soprattutto il modello Capaldo – che come dice il suo ideatore «vuole ricompattare il rapporto tra Stato e cittadino che ora invece è assolutamente conflittuale» – diventa il maggior argine alle critiche lanciate alla proposta del trio ”ABC”. Ieri, infatti, il primo presidente di Cassazione, Ernesto Lupo, si è preso la briga di scrivere al presidente della Camera Gianfranco Fini, sostenendo che «il coordinamento della Commissione che dovrebbe controllare i bilanci dei partiti affidato al presidente della Corte dei Conti non è coerente con

l’ordinamento vigente. E non tiene conto dell’ordine in cui si collocano, anche a livello dell’ordinamento costituzionale, le diverse giurisdizioni». E se Lupo ha paventato «conflitti tra le diverse giurisdizioni», mercoledì era toccato al servizio studi della Camera avvertire i partiti che non si possono introdurre nuovi controlli sui bilanci delle forze politiche senza prima aver definito una riforma complessiva dell’articolo 49 della Costituzione. L’economista Pellegrino Capaldo, un passato da banchiere alla Cassa di Risparmio di Roma e al Banco di

Previste sovvenzioni massime dai privati di duemila euro, per le quali lo Stato riconoscerà un credito d’imposta del 95% Roma, punta a riportare il sistema finanziamento pubblico nell’ambito della liberalità, senza però scadere nel mercimonio delle democrazie anglosassoni. La sua proposta prevede che le persone fisiche potranno sovvenzionare i partiti attraverso un contributo massimo di duemila euro, per il quale lo Stato riconoscerà un credito d’imposta del 95 per cento. Come ha scritto il Sole 24 ore, «in pratica, chi verserà duemila euro per il partito o l’associazione di cultura politica del cuore potrà vedersi rimborsato dallo Stato 1.900 euro. Versando dunque nel concreto la somma di 100 euro». Il professor Capaldo aveva presentato martedì scorso gli obiettivi della sua misura in una conferenza stampa nella sede della Fondazio-

mento a Roma per consentirgli di svolgere al meglio la sua enorme mole di lavoro?». «Vorrei ricordare a tutti», conclude Dal Lago, «che Roberto Calderoli da dieci anni lavora come un matto, e senza percepire uno stipendio per questo, senza fare mai ferie, girando per tutto il territorio quando non c’e’ attività parlamentare ed essendo sempre presente in Aula o nelle commissioni quando le Camere sono attive». Eppure il fatto resta inequivocabile. Il padre del Porcellum ha trovato il modo di estinguere il mutuo, senza mettere mano al lanciafiamme. Lo stesso arnese che ieri avrebbero usato in molti contro il deputato leghista Gianluca Pini. Ospite di La7 a Omnibus, il padre dell’emendamento che vorrebbe imporre la responsabilità civile dei magistrati si era fatto sfuggire uno scoop niente male: «Quando scopro che il mio ex capogruppo ha speso in un anno 90mila euro con la carta di credito del gruppo qualcuno mi deve giustificare come cavolo son stati spesi». La persona in questione non era altri che Reguzzoni. O più opportunamente, Re Guzzoni, componente del “cerchio magico”che faceva da bodyguard di Umberto Bossi fino a qualche settimana fa.

ne Don Sturzo, annunciando anche la presentazione di una proposta popolare. E subito la cosa aveva suscitato l’interesse del leader dell’Udc. Nel testo della proposta di legge dell’Udc (primi firmatari il suddetto Casini e il segretario Lorenzo Cesa) è previsto anche che ci vorranno cinque anni per completare il passaggio al nuovo metodo di finaziamento è calcolato in 5 anni. Secondo Capaldo questa tempistica permette di ridurre del 20 per cento all’anno il contributo attualmente corrisposto. Proprio ieri in Parlamento Lorenzo Cesa, e dopo aver discusso in Transatlantico di riforma dei partiti e legge elettorale con Alfano, faceva sapere ai cronisti: «Se ci sono questioni tecniche le affronteremo. L’intenzione è di andare avanti sulle riforme con determinazione». Infatti nel Pdl il sistema Capaldo trova un accanito supporter proprio nel suo segretario. Il quale ha annunciato al riguardo anche la presentazione di una sua proposta. «Le questioni sono tre e di sostanza. Uno: i controlli devono essere severi. Due: i bilanci devono essere trasparenti. Tre: i soldi invece che dal bilancio pubblico devono sempre più venire da una scelta dei privati». Ergo, «l’idea del professor Capaldo di un x per mille e di un maggiore protagonismo dei cittadini nell’individuazione delle risorse per i partiti è la strada giusta. Se tutti si avvicinano a quella strada io sarei contento, è possibile riuscirci». Una prima apertura arriva anche dal leader Pd, Pier Luigi Bersani. «Noi», ha chiarito intervenendo ieri mattina a “Radio Anch’io”, «non siamo lontanissimi dalla proposta di Capaldo. L’importante

zoni sui quale nessuno ci ha dato delle giustificazioni, magari è tutto regolare ma semplicemente chiediamo di sapere per cosa sono stati spesi». Ma il leghista non fa in tempo a concludere il concetto che il capogruppo del Carroccio alla Camera, Gianpaolo Dozzo, legge sul cellulare le parole di Pini su Reguzzoni e si lancia come un cirneco alla caccia del deputato romagnolo. Anche Manuela Dal Lago, membro del triumvirato impegnata nelle pulizie del Carroccio, saluta la rivelazione di Pini con parole da statista: «È un testa di cazzo…». Frattanto Dozzo intercetta Pini in Transatlantico e lo invita ad

è mettere un tetto alle spese di propaganda. E fare di più: infatti presentiamo in Parlamento delle proposte per la trasparenza e per ridurre ancora i finanziamenti».

Discorso ampliato poi da Vannino Chiti: «Si devono prevedere nella vita interna dei partiti percorsi di trasparenza e di democrazia nelle scelte politiche e nella selezione delle candidature. E il controllo esterno obbligatorio, perché se si vuole il finanziamento pubblico la certificazione deve essere eseguita da società riconosciute. E le stesse forme di finanziamento possono cambiare profondamente: la proposta Capaldo va secondo me nella direzione giusta».Nel Pd invece canta fuori dal coro lo storico segretario amministrativo dei Ds, Ugo Sposetti: «Approviamo rapidamente la proposta presentata in commissione a firma dei tre segretari e subito dopo i ballottaggi affrontiamo il nodo dell’articolo 49. Attenti, perché nella proposta di Capaldo, con il suo credito d’imposta del 95 per cento, la defiscalizzazione è a carico del bilancio dello Stato».

fare il gioco dei nostri detrattori. In un momento così delicato della vita del movimento è quanto mai necessario pesare le parole ed essere uniti».

Ma quando sul bagaglino padano sembrava calare il sipario, la scena si è illuminata con un terzo atto a sorpresa. Questa volta ci si sposta su Facebook, dove Roberto Maroni posta divertito: «Consiglio la lettura di Panorama, non solo per le puttanate che Belsito dice su di me (e ne pagherà le conseguenze, tanto lui i diamanti ce li ha...), ma anche per questa deliziosa vignetta che il settimanale ci regala. Padania libera da ladroni e dossieristi, viva la grande Lega». A corredo del tutto, il barbaro sognante pubblica in bacheca anche le foto di Belsito e Al Capone, accostate in ragione di una certa somiglianza, Che ovviamente esclude il talento criminale. Eppure, da quanto si è appreso in ambienti di Palazzo di Giustizia, nessuno all’interno del Carroccio credeva alla storia dei diamanti, finché nella sede milanese del movimento non sono arrivati ’fisicamente’ gli undici diamanti e i lingotti d’oro restituiti, assieme all’Audi del ’Trota’. Ieri da via Bellerio sono state inviate in Procura le copie dei certificati relativi alla qualità al peso e al valore degli undici diamanti e dei codici identificativi dei lingotti che furono acquistati da Belsito. La consegna servirà agli inquirenti per incrociare i dati con la documentazione già acquisita e capire se diamanti e lingotti ridati al Carroccio sono gli stessi acquistati da Belsito. Eridanio, prega per l’oro.

Pini in tv svela che l’ex capogruppo ha speso 90mila euro con la carta di credito del partito, ma all’arrivo in Transatlantico Gianpaolo Dozzo lo aggredisce e lo affronta in cortile. Anche Dal Lago la prende male: «È una testa di...»

Pini ha poi ribadito il concetto non appena giunto alla Camera. Ma invece che il tripudio dei triumviri, a trovato ad accoglierlo una gragnuola di improperi in celtico stretto. «Ci è stato comunicato – ha spiegato in Transatlantico – che sono state fatte spese significative con una carta di credito intestata a Marco Giovanni Reguz-

andare in cortile dandosi pose da terruncello. Ma più sobriamente, i due si confrontano seduti su una panchina. «Era un po’ nervoso con Pini?» Chiedono i giornalisti a Dozzo. E lui, con aria discola: «No, è il mio carattere un po’ esuberante». Nessuno saprà mai cosa si sono detti, proprio come Garibaldi e il re a Teano. Ma la vicenda deve aver creato un certo rossore, in un gruppo che da giorni tiene da conto l’imbarazzo come fosse un collega di scranno. Tanto che il gruppo leghista della Camera si è visto costretto a diffondere una nota sull’incidente: «Le odierne dichiarazioni incaute e non documentate da parte di un nostro deputato rischiano di


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erve un Partito della nazione? Anzi, la domanda più corretta è «serve un partito alla nazione?», «un partito per la nazione?». E, se sì, che tipo di partito serve? Su quali basi? Queste sono domande ineludibili che emergono con grande forza dalla realtà di fatto.

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Siamo in mezzo a scosse telluriche violentissime che investono il mondo, l’Italia, l’economia, il sistema politico. Quello che è stato finora non sarà più. Serve qualcosa di nuovo all’altezza del mondo nuovo. Ciò che non è adeguato ai cambiamenti, che non li comprende, che non li guida, è destinato a rimanere un rottame residuale del post-terremoto. Quindi la prima cosa da dire con forza è questa: il partito nuovo non è un’alchimia politica, un inguacchio di palazzo, un giochino trasformista. È piuttosto la risposta necessaria a un’esigenza, un bisogno che è fortemente presente nella società. I conservatori oggi sono coloro i quali negano che il mondo stia cambiando e vorrebbero mantenere tutto come prima. Sono i sacerdoti della seconda repubblica, gli osannanti del bipartitismo. Di questo ha bisogno la nazione? Bisogna stare ai fatti, e i fatti narrano del naufragio della Seconda repubblica, narrano di un mondo globalizzato radicalmente cambiato nei suoi equilibri economici, sociali, geopolitici, registrano di una terribile inadeguatezza della classe politica autoreferenziale affogata nel discredito e negli scandali, di un terribile ritardo di competitività dell’Italia che va urgentemente colmato. I fatti dicono di una grande emergenza per il Paese che ha urgenza di seppellire i fallimenti della Seconda Repubblica. E dicono che questa esigenza è così sentita e talmente impellente da rischiare di travolgere tutto mandando tutto all’aria: è questa l’antipolitica, vale a dire la forza distruttiva che scaturisce da problemi veri quando manca una classe dirigente capace di incanalare le energie verso lo sforzo costruttivo. Per questo serve un partito alla nazione. Questo vuol dire tornare alla Prima Repubblica? Certamente no, vuol dire costruire la Terza. Vuol dire che non di sacerdoti arroccati in fortini funerari ha bisogno il Paese, ma di profeti che sappiano guardare avanti. E guardare avanti vuol dire rinnovamento. Non nuovismo, che rischia di essere solo una delle tante ondate dello tsunami devastante. Ma di rinnovamento vero. Degli uomini, certamente, ma più ancora della mentalità, dei meccanismi, delle coscienze. Occorre guardare il mondo con occhi nuovi. E un elemento determinante di questa nuova visuale è nell’organizzazione politica, che deve smettere di essere orientata al leader e agli interessi suoi, delle sue corti e dei suoi cerchi magici, per tornare ad essere rivolta ai cittadini. Alla nazione serve quindi un partito che sappia convogliare nella politica, nelle istituzioni, nella classe dirigente le forze sane del Paese, le energie vitali e morali, le migliori capacità. Servono forze politiche capaci di esprimere il meglio dell’Italia e di coordinare tutte le qualità che servono per rilanciare un Paese da riformare e rilanciare, che ha ancora le potenzialità di essere leader nel mondo ma che ha oggettivamente bruciato molte delle sue riserve dando il peggio di sé. Un problema grave, strutturale e profondo che non si può imputare tutto alla politica: la politica ha comunque rispecchiato una società, un paese, una classe dirigente che ha imperver-

l’approfondimento Dall’economia all’etica, ci sono solo macerie: bisogna voltare pagina in fretta. Al Paese adesso serve uno strumento per convogliare nella politica, nelle istituzioni, nella classe dirigente le forze sane

Il Partito della Nazione

Ecco come nasce e come si svilupperà il progetto per andare oltre la Seconda Repubblica di Osvaldo Baldacci sato in tutti i campi. La casta esiste, ma è il punto più visibile di migliaia di caste presenti in Italia, ciascuna arroccata a difender ei propri privilegi, persino certe caste di“poveri”che non vogliono mettere in discussione quelle nicchie che si sono accaparrati, figuriamoci le caste di chi continua a succhiare ricchi benefici ai danni della comunità. Questo sistema di caste, di evasioni, di arrangiamenti si è profondamente incrostato e avviluppato, e se vogliamo guardarlo con un certo disincanto ha persino funzionato per un po’, ha creato un suo equilibrio, dove i privilegi degli uni si equilibravano con i privilegi degli altri.

Ma ora queste incrostazioni stanno portando a fondo l’Italia, incapace di essere protagonista in uno scenario più ampio e di crisi globale, dove quell’equilibrio tutto interno non può più reggere. Occorre avere il coraggio di liberarsi di questi vincoli che un tempo forse tenevano in-

sieme le cose, oggi le soffocano. L’antipolitica nasce anche dal senso di soffocamento che questi vincoli scatenano in ciascuno di noi, unito al senso di panico che naturalmente viene quando si vede sfilacciare la propria corda col giustificato timore che si spezzi lasciandoci in campo aperto mentre magari le altre non si spez-

zano e il Paese continua a essere protetto da questo gomitolo di privilegi, ma io no. Per questo l’antipolitica spinta da queste comprensibili ma irrazionali paure scatena solo un arabbia che vuole incendiare tutto, ma non è in grado di trovare quel bandolo della matassa che permette di sciogliere i nodi e rilanciare il paese senza bruciarlo insieme alle corde stesse. Per riuscire in questo invece occorre una nuova consapevolezza nel Paese, dell’impegno di tutti, ma anche e soprattutto di una classe dirigente capace di portare avanti con tenacia ed equità questi mutamenti rivoluzionari. Serve la competenza, il merito, la partecipazione delle forze sociali, della società civile, di tutti coloro che osano guardare avanti e possibilmente lontano. E servono anche i politici, quelli seri, quelli bravi, quelli onesti. Perché fare di tutta l’erba un fascio è un grave errore. Perché la politica è una tecnica che se non richiede la nascita di una casta di professionisti esclusivi richiede


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Questa mattina la riunione della Costituente

Oggi a Roma, a giugno aTodi: il cammino del nuovo soggetto politico

Pier Ferdinando Casini, Francesco Rutelli e Gianfranco Fini faranno nascere il Partito della Nazione. Ma tra i protagonisti ci sarà anche Beppe Pisanu

ROMA. Accelera il processo di fondazione del Partito della Nazione: il cammino definitivo comincerà questa mattina a Roma e arriverà fino a Todi, nel tradizionale convegno della Fondazione liberal in programma il prossimo 22 giugno. Ieri, intanto, vertice a sorpresa tra Casini, Fini e Rutelli: «Siamo in piena sintonia su tutto» ha sintetizzato il leader dell’Udc uscendo dallo studio del Presidente della Camera a Montecitorio. E poi ha annunciato una novità: la riorganizzazione dell’Udc, con l’azzeramento dei vertici e l’avvio di una struttura snella, appunto in vista della nascita del partito della Nazione. Il tutto proprio nella riunione della Costituente, presieduta da Savino Pezzotta, che si terrà all’Auditorium della Conciliazione di Roma (lo stesso, per inciso. dove nel 2010 Gianfranco Fini alzò il dito contro Silvio Berlusconi nel celebre «che fai, mi cacci?»). Dopo le fibrillazioni suscitate dall’affermazione di un possibile ingresso futuro di ministri del governo Monti nel nascituro Partito della Nazione, il vertice di ieri mattina ha impresso un’accelerazione netta al nuovo progetto politico. Per ora, dunque, il primo «step» è l’azzeramento dei vertici Udc, il cui scioglimento nei mesi scorsi è stato più volte anticipato da Casini. Nella riunione a porte chiuse della Costituente di Centro presieduta da Savino Pezzotta, che questa mattino vedrà riuniti all’Auditorium della Conciliazione il leader Pier Ferdinando Casini, il segretario Lorenzo Cesa, il presidente Rocco Buttiglione e gli organismi dirigenti regionali (capigruppo in regione e segretari regionali), Cesa compirà un’analisi della situazione ed annuncerà la riorganizzazione del partito in vista della costituzione del Partito Nazionale. Il secondo passaggio, poi, sarà il convegno della Fondazione liberal a Todi dal quale dovrebbe nascere la struttura del nuovo partito.

sto partito deve essere capace di scegliere. Quindi al limite ben venga se queste caratteristiche dovessero averle più di un nuovo partito. Ma noi occupiamoci del nostro campo, che è il più vasto e il più radicato. Per mobilitare le forze che abbiamo citato, per aggregare, per stimolare, per chiedere sacrifici, questo partito deve avere una grande ispirazione ideale. Questo vuol dire che si devono delineare dei valori di riferimento. E questi valori di riferimento non possono che essere i valori prevalenti degli italiani, quelli del moderatismo e del dialogo, della responsabilità e dell’impegno, ma anche più nel dettaglio quelli della economia sociale di mercato e della visione antropologica

senz’altro l’impegno di persone competenti non solo nelle loro materie, ma anche nella materia della politica in quanto tale. Perché la democrazia ha bisogno di partiti. Partiti seri, onesti, capaci di essere la cinghia di trasmissione della partecipazione dei cittadini alla politica. Quindi serve un partito di questo tipo alla nazione. Serve più che mai. Serve un Partito della Nazione. Un partito dei competenti, degli onesti, delle forze sane della società civile, dei responsabili, di quelli che hanno a cuore il bene comune e la sorte della nazione.

Questo partito necessariamente deve avere anche un’identità, non può essere un ectoplasma di buone intenzioni. È finita quell’epoca. La politica è scelta, e que-

stiana su cui possono convergere le migliori personalità del Paese. Che poi è quello che sta naturalmente succedendo. Casini e Buttiglione inseguono da lungo tempo questo progetto. Le forze sociali, produttive, lavorative lo guardano con attenzione. I movimenti politici più intelligenti di questi giorni, di queste ore non possono non orientarsi in questa direzione, basti leggere i contenuti del documento presentato ieri da Pisanu e dagli altri senatori.

Certo, anche tra i membri di questo governo ci può essere chi sente assonanza con questa linea. Perché no? Sono tecnici, nel senso di persone compe-

Bisogna andare a cercare le radici nei grandi movimenti popolari italiani: i gruppi politici più intelligenti di questi giorni vanno in questa direzione. Come è il caso del documento presentato ieri da Beppe Pisanu insieme a un gruppo di senatori dell’uomo di ispirazione cristiana. Che non vuol dire un partito confessionale o un partito dei cattolici, in senso esclusivo. È anzi necessario che si tratti di un partito laico ma nel senso più nobile del termine, non certo di un partito laicista o di un partito radicale di massa che imponga a un popolo il modo di vedere di un elite. Questo partito deve trovare le sue radici nella storia dei grandi movimenti popolari italiani, dei grandi leader, della stessa essenza della nazione ma anche dell’Europa, quei valori che danno senso e identità al nostro Paese e al nostro impegno. Quei valori di ispirazione laicamente cri-

tenti e non assorbite dalla partitocrazia morente. Ma questo non vuol dire che non possano avere proprie idee, e che non vogliano nel futuro continuare a mettere la loro competenza ed esperienza al servizio del Paese. Non c’è nulla da scandalizzarsi, c’è da rispettare ciascuno ruoli, momenti, percorsi. Ma che all’Italia serva un partito così, un partito per la nazione, pochi lo possono mettere in dubbio, forse solo quelli che ne sono l’antitesi, cioè da un lato i nuovi antipolitici del “tutto all’aria”e dall’altro i vecchi antipolitici della seconda repubblica. Di questi la nazione non ha bisogno.


Domenica la Francia va alle urne per il primo turno delle presidenziali. E il presidente uscente è dato in caduta libera

François il Secondo

Per la prima volta dopo Mitterrand la sinistra può tornare all’Eliseo. Ma come voteranno fra quindici giorni gli elettori degli esclusi? di Enrico Singer ultimo sondaggio si è abbattuto sull’Eliseo come uno tsunami. François Hollande, lo sfidante socialista, non solo resta il grande favorito per il ballottaggio finale, ma arriverà il testa anche al primo turno, domenica prossima. Perfino i più fedeli moschettieri di Nicolas Sarkozy hanno accusato il colpo. Il primo ministro, François Fillon – pescato in fuori onda dal Canard Enchainé – ha detto che «ovunque in Europa i candidati uscenti hanno perso per colpa della crisi economica e la Francia non farà eccezione». Anche il ministro degli Esteri, Alain Juppé, che è uno dei pesi massimi del governo e del partito del presidente, ha ammesso di «non crederci più». E i giornali già celebrano il sorpasso con titoli cubitali. L’unico che non molla è proprio lui, l’attuale inquilino del palazzo al numero 55 del Faubourg Saint-Honoré. Si sa che Sarkozy è un lottatore: «Non lasciatevi rubare questa elezione», ha gridato nel microfono di un meeting elettorale ad Arras. La sua è soltanto l’ostinazione di chi, fino all’ultimo, non vuole gettare la spugna, oppure ha davvero ancora qualche speranza di farcela? Fino a pochi giorni fa i sondaggi prevedevano la vittoria di Nicolas Sarkozy al primo turno (sia pure per pochi punti) e quella di François Hollande al ballottaggio grazie al

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travaso dei voti che è fisiologico nel sistema elettorale francese che al primo turno lascia la facoltà di scegliere tra diversi candidati – questa volta sono dieci – e poi obbliga a uno scontro a due che non tutti accettano (con il livello dell’astensione che spesso aumenta), o che spinge a votare non tanto per mandare uno dei pretendenti all’Eliseo, ma per impedire che ci vada l’altro. Così può anche accadere che chi vince al primo turno perde poi al ballottaggio. In realtà, è

– al ballottaggio con la maggioranza del 51,8 per cento dei voti contro il 48,2 di Valéry Giscard d’Estaing. L’ultimo precedente è del 1995: quella volta il socialista Lionel Jospin, che doveva raccogliere l’eredità di Mitterrand, superò al primo turno il neogollista Jacques Chirac (23,3 per cento contro il 20,8), ma fu sconfitto al ballottaggio con un distacco di oltre cinque punti: 52,6 per cento contro il 47,4. In tutti gli altri casi – ben cinque elezioni presidenziali – chi è arrivato in testa al pri-

Secondo la ricerca “Presidoscope 2012”, dal novembre scorso a oggi, un cittadino su due ha cambiato totalmente intenzione di voto un evento raro. Ma Sarkozy è convinto che se la regola poteva valere per Hollande, può valere anche per lui.

Nella storia della Quinta Repubblica, inaugurata da Charles de Gaulle nel 1965, ci sono soltanto tre precedenti simili. Nel 1974 il socialista François Mitterrand superò il centristaValéry Giscard d’Estaing al primo turno (43,2 per cento contro il 32,6), ma fu battuto da Giscard al ballottaggio per un pugno di voti: 50,8 per cento contro il 49,2. Mitterrand si prese la rivincita sette anni dopo, nel 1981: fu battuto da Giscard al primo turno (28,3 contro il 25,9), ma conquistò la presidenza – la prima di un socialista

mo turno si è assicurato anche il successo finale. Proprio come ha fatto Nicolas Sarkozy che, nel 2007, ha sconfitto la socialista Ségolène Royal prima con il 31,2 per cento contro il 25,9 e poi con il 53,9 contro il 46,1. Questo carosello di numeri si spiega con la vera “regola d’oro” del meccanismo elettorale: al primo turno si vota a favore, al secondo si vota contro. Il caso più clamoroso ed esemplare è quello del 2002: al ballottaggio la vittoria andò a Jacques Chirac con l’82,2 per cento dei voti contro il 17,8 per cento di Jean-Marie Le Pen, il paladino dell’estrema destra che, al primo turno, era riuscito a superare dello 0,7 per cento il socialista Lionel Jospin buttandolo fuo-

ri dalla corsa e decretandone la morte politica.

Gli altri candidati all’Eliseo: dall’alto, Jean-Luc Mélenchon, Marine Le Pen e François Bayrou

Adesso, però, il quadro è molto diverso e la partita a due tra Sarkozy e Hollande potrebbe decidersi per pochi voti. E, soprattutto, per il gioco incrociato dei sostegni che riusciranno a ottenere dai candidati che saranno esclusi dal ballottaggio. Ecco perché il risultato degli altri otto duellanti, che potrebbe sembrare secondario, è invece importante. Il consenso che andrà al tribuno rosso Jean-Luc Mélenchon, o alla pasionaria nera Marine Le Pen, o al moderato François Bayrou, ma anche quello che si cristallizzerà attorno agli altri cinque candidati meno noti – almeno fuori dalla Francia – non servirà soltanto a misurare le convinzioni e i sentimenti di un’opinione pubblica fortemente colpita dalla crisi economica. Peserà in modo determinante sul risultato finale del 6 maggio e potrebbe anche rovesciare il verdetto del 22 aprile. «A decidere saranno gli indecisi», ha scritto con un giro di parole Le Monde a pochi giorni dal primo turno. Anche perché, secondo il sondaggio “Presidoscope 2012”, che dal novembre scorso intervista sempre lo stesso campione di elettori, uno su due ha cambiato intenzione di voto in sei mesi. E se il grado d’indecisione è già alto adesso, figuriamoci quando una parte degli elettori non troverà più il


francia al voto

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Nicolas, l’ultimo Napoleone mancato Nel 2007 la sua elezione suscitò grandi speranze. Oggi sono in tanti a sentirsi traditi da lui di Maurizio Stefanini icolas Sarkozy. Nel 2007 era il candidato all’americana. Non solo nel senso che secondo lui le relazioni tra Stati Uniti e Francia avevano sofferto per «troppe incomprensioni causate dalla mancanza di dialogo e talvolta per un pelo di cattiva fede», e che dunque andavano ricostruire «per affrontare le sfide mondiali comuni». Parlava anche di una Francia più anglo-sassone: meno tasse, niente imposta di successione per i piccoli e medi patrimoni, stock options per tutti, libertà di scuola, «lavorare di più per guadagnare di più». Cinque anni dopo, promette invece l’imposta forfettaria sulle grandi imprese e la tassa sugli esiliati fiscali. E piuttosto che ricostruire le relazioni con gli Stati Uniti, si è dedicato a distruggere quelle i partner europei su cui volta a volta ha cercato di scaricare la responsabilità dei problemi francesi.

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figlio di un’ungherese, nipote di un ebreo sefardita di Salonicco e sposato con un’italiana figlia naturale di un brasiliano dice che in Francia ci sono troppi stranieri e che bisogna ridurre i flussi in entrata di almeno la metà. E minaccia di far uscire la Francia da Schengen. Nel 2007 era il presidente dell’apertura a sinistra. Quello che aveva nominato un socialista ministro degli Esteri, un altro socialista sottosegretario agli Affari Europei, un terzo socialista sottosegretario incaricato della valutazione delle politiche pubbliche, un quarto socialista sottosegretario al Commercio, un personaggio vicino all’Abbé Pierre Alto Commissario con-

tedesco sull’Europa. Nel 2007 era colui che ostentava la sua intraprendenza internazionale ricevendo Gheddafi all’Eliseo, poi si è messo a ostentare la sua intraprendenza internazionale mettendosi alla testa della crociata per rovesciare Gheddafi. Adesso si deve difendere da tutti i documenti che stanno saltando fuori dalla nuova Libia, e che dimostrano ad esempio che proprio lui stava per dare a Gheddafi una centrale nucleare.

Nel 2003 Sarkozy era contro la guerra in Iraq. Nel 2011 non solo ha voluto a tutti i costi l’intervento in Libia ma ha anche disposto l’intervento che ha deciso la guerra civile in Costa d’Avorio. Nel 2007 Sarkozy era colui che si è impegnato personalmente per portare il socialista ma francese Dominque Strauss-Kahn alla testa del Fondo Monetario Internazionale. Quattro anni dopo, c’è stato addirittura chi ha visto un complotto di Sarkozy nel rovinoso scandalo sessuale che ha costretto Strauss-Kahn alle dimissioni, togliendolo però anche di torno da una campagna elettorale francese in cui per il presidente in carica avrebbe potuto essere pericoloso. Nel 2007 Sarkozy fu classificato da Vanity Fair come la 68esima persona meglio vestita del mondo. Nel 2010 Sarkozy è sta-

Dal 2007 a oggi ha fatto marcia indietro su tutto, dall’economia alla politica internazionale: per questo molti, nel centrodestra, non lo rivoteranno

Nel 2007, Sarkozy si presentava come il presidente dell’integrazione. Si diceva favorevole al voto degli stranieri regolari alle municipali, s’impegnava a mantenere i raggruppamenti familiari, nominava ministro della Giustizia l’oriunda maghrebina Rachida Dati e sottosegretario ai Diritti Umani l’oriunda senegalese Rama Yade. Cinque anni dopo, il presidente suo candidato al ballottaggio e sarà costretta a scegliere tra i due rimasti in gara. Una parte che si annuncia rilevante: più del 40 per cento dei francesi se, come sembra, Sarkozy e Hollande domenica prossima si divideranno al massimo il 58 per cento dei voti. Allora vale la pena capire meglio chi sono, che cosa vogliono e che cosa chiederanno di fare ai loro elettori al ballottaggio i possibili perdenti del primo turno delle presidenziali 2012. I tre più noti sono Jean-Luc Mélenchon, Marine Le Pen e François Bayrou. Politico di lungo corso, a quasi 61 anni, Jean-Luc Mélenchon è la vera rivelazione di questa tornata elettorale. Entrato nel Ps alla fine degli Anni ‘70 e uscito nel 2008, rappresenta l’ala critica della sinistra – lo voteranno i comunisti, ma piace anche agli elettori socialisti delusi dalla linea “molle”di Hollande – e raccoglie una forbice tra il 13 e il 14 per cento delle intenzioni di voto. Oggi una delle grandi scommesse è proprio quanti sostenitori di Mé-

tro la povertà e un nipote di Mitterrand ministro della cultura. Cinque anni dopo, la Francia è piena di esponenti del centro-destra che dichiarano il loro voto per il socialista Hollande: primo fra tutti, l’ex-presidente Jacques Chirac con tutta la sua famiglia. Nel 2007 Sarkozy era colui che si opponeva all’eccessiva indipendenza della Banca Centrale Europea. Cinque anni dopo, si è abbassato a figurare come il tirapiedi di Angela Merkel nell’imposizione del diktat bancario

lenchon al primo turno voteranno Hollande al ballottaggio aprendogli le porte dell’Eliseo.

La stessa domanda, specularmente, vale per gli elettori di Marine Le Pen nei confronti di Nicolas Sarkozy. La debuttante Marine – è a capo del partito da un anno – è uno dei grossi interrogativi delle presidenziali. Quarantatre anni, capelli biondi e abiti sempre eleganti, la figlia del padre-padrone del Front national era temuta a destra e a sinistra. Aspirava a essere il volto rispettabile dell’estrema destra francese. Ma, almeno a credere ai sondaggi, focalizzare la campagna sui temi economici e sociali non le è servito: all’inizio della corsa era data al 20 per cento dei consensi, ora raccoglie una quota di preferenze attorno al 14 per cento. Di questi elettori almeno la metà, al ballottaggio, potrebbe astenersi perché l’avversione per il “nemico” Hollande è pari a quella per il “traditore” Sarkozy. In corsa per l’Eliseo c’è poi il cen-

trista François Bayrou, ormai veterano delle campagne presidenziali (a 60 anni è al suo terzo appuntamento) a riprova della stabilità e della consistenza dell’eliberaldemocratico lettorato francese. Nel 2007 la rivelazione delle presidenziali fu proprio lui che riuscì a ottenere il 18,6 per cento dei voti al primo turno: il terzo posto dopo Sarkozy e la Royal. Questa volta le previsioni non lo premiano. In tempo di crisi economica, tutta la sua campagna è stata votata all’imperativo

to classificato come la terza persona peggio vestita del mondo da Gentlemen’s Quarterly. In breve, nel 2007 Sarkozy era il candidato vincente. Cinque anni dopo sia il ministro degli Esteri Alain Juppé che quello dell’Economia François Baroin, l’ex premier Jean-Pierre Raffarin e il capo del partito di maggioranza Ump Copé ammettono in privato che “ormai la partita è persa”. Qualcuno ha osservato che Sarkozy si inseriva benissimo in quella particolare successione di capi di stato francesi che da Pipino il Breve passando appunto per VIII, Carlo Luigi XIV, Napoleone, Mitterrand e Chirac aveva l’«altezza inversamente proporzionale all’ego». Anche se non sono mancati i personaggi che come Carlo Magno, De Gaulle o Giscard d’Estaing avevano invece altezza e ego direttamente proporzionali. Ma il tappo Sarkozy rischia di restare collegato allo spilungone Giscard d’Estaing per un’altra particolarità storica: i due presidenti della quinta Repubblica non riconfermati.

e i sondaggi gli assegnano al massimo il 12 per cento dei voti. Ma proprio questa fetta di consenso potrebbe essere molto importante per l’esito del ballottaggio e si dice che Sarkozy potrebbe offrire a Bayrou la carica di primo ministro per suggellare la possibile alleanza.

Poi c’è Eva Joly, «Eva la verde». Ex magistrato, 68 anni, tra le sue mani sono passate molte inchieste sulla corruzione, nonché la messa sotto accusa di un presi-

François Bayrou è il paladino del ceto medio. Si dice che Sarkozy voglia offrirgli la carica di primo ministro per suggellare la possibile alleanza del rigore. Tra Sarkozy, che per natura è sempre sopra le righe, e Hollande che mette in discussione gli accordi con la Germania e gli impegni europei, Bayrou è rimasto fedele alla sua linea: l’uomo affidabile che non rinnega tagli e risparmi. Ma i francesi fanno fatica ad accettare l’austerity

dente della Corte costituzionale, il maggiore organo della giustizia francese. Norvegese di nascita e anticonformista di scelta, Eva Joly è passata dalle posizioni centriste all’impegno ecologista. Nel 2011 ha vinto le primarie del partito verde e per la prima volta è candidata alle presiden-

ziali. I voti dei Verdi (il 2 per cento secondo i sondaggi) al ballottaggio dovrebbero andare più a Hollande che a Sarkozy. Ma la “fronda” non c’è soltanto a sinistra. Anche a destra di Sarkozy, oltre a Marine Le Pen, ci sono altri due candidati. Nicolas Dupont-Aignan è per l’Ump (il partito del presidente) quello che Mélenchon è per il Ps: un fuoriuscito che prova a rubare voti. Infine c’è Jacques Cheminade che, a 71 anni, è al secondo tentativo per l’elezione all’Eliseo (la prima volta ci provò nel 1995). Il suo partito, Solidarietà e Progresso, ha il programma più immaginifico: propone anche l’industrializzazione della Luna. Ma, in fatto di voti, dovrà accontentarsi di qualche decimale di punto. L’ultima spiaggia di Sarkozy è recuperare tutti i voti sparsi del fronte conservatore, una buona dose di quelli della destra lepenista e unirvi il 10, 12 per cento dei centristi di Bayrou: un’impresa che sembra difficile anche per un lottatore come lui.


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francia al voto

icolas Sarkozy crolla nei sondaggi francesi che lo danno sconfitto addirittura al primo turno. Niente è scritto naturalmente ma che intorno a lui si senta odore di sconfitta lo dimostrano le defezioni a catena di quelli che nella sua ascesa avevano salutato nell’ex ministro dell’Interno il rinnovatore di Francia. Il presidente - fanno trapelare dal suo staff - studia una mossa bomba per rovesciare il campo puntando da un lato a recuperare l’astensione - 8 milioni di voti in libertà secondo un sondaggio OpinionWay realizzato per Le Figaro - dall’altro a capitalizzare al secondo turno il voto centrista di François Bayrou. Sta di fatto che finora l’antieuropeismo di ritorno usato dal presidente in campagna elettorale – l’ultima proposta in questa direzione è la sospensione del trattato di Schengen e il ripristino delle vecchie dogane - non gli ha fruttato molto.

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L’elettorato è di memoria corta, e quello francese non fa eccezione ma insomma fino a un certo punto. Sarkozy s’era rumorosamente presentato come uno dei custodi dell’Ue, il partner più affidabile della locomotiva tedesca, l’uomo che avrebbe sprovincializzato il nazionalismo francese. Un leader continentale. L’inquilino dell’Eliseo aveva allargato lo sguardo sul mediterraneo offrendo il suo contributo all’Italia per risolvere lo scacco del Paese: «Parlo io con Napolitano… Sblocco io la via a Monti»; candidandosi come consulente chiave per Atene; lasciando abilmente intendere la propria regia dietro l’attacco alla Libia. D’altra parte, nel gennaio scorso, dopo aver parlato di asse franco-italiano e poi di asse franco-tedesco-italiano, dopo aver presentato la Francia come attore in prima linea per la salvezza dell’Europa e dell’euro decideva di rinviare il vertice di Roma con la Grecia sull’orlo del default. Nicolas Dupont Aignan, che si presenta come il vero erede di De Gaulle, ha ipotizzato per Sarkò “un caso intenzionale di schizofrenia intenzionale e narcisistica”. La dimensione europea della leadership di Sarkozy alla fine si risolve nei riflessi che la sua sconfitta avrebbe sull’asse franco tedesco e sulle sinistre degli altri paesi europei, in particolare in quella italiana. Il segretario del Pd Bersani avanza già un’analisi politica sulla prospettiva della sconfitta di Sarkozy. Vede con favore le convergenze sulla linea di Francois Hollande, per una politica economica europea ”dal volto umano”. Una necessità talmente oggettiva che Bersani cita a conforto addirittura il

Ma Vasto non vale P

Che effetto può fare l’eventuale vittoria di Hollande sulla Può ridare fiato a chi punta tutto sull’alleanza con Vendo E portare il Pd lontano da quell’Europa che riparte tra rigo di Riccardo Paradisi parere dell’ex ministro della cultura italiano Sandro Bondi che diceva ”speriamo che vinca Hollande”. Ecco è una dimostrazione di più che serve una svolta. Svolta che se dovesse avvenire costringerebbe secondo il segretario Pd anche la cancelliera tedesca a una decisa riconversione di marcia: «Se dall’insieme delle prossime elezioni in Europa viene fuori un messaggio, e cioè che così non

Un patto con l’Italia dei Valori e gli antagonisti darebbe ai democrats l’illusione di non avere più nemici a sinistra ma segnerebbe l’addio definitivo al riformismo

va, la signora Merkel dovrà fare una riflessione. Secondo me non abbiamo il tempo di aspettare le elezioni tedesche. Il 2013 è troppo in là».

In effetti se cade Sarkozy a venir giù sarebbe un’intero paradigma europeo fondato su politiche che in Francia, in Germania, in Spagna, in parte anche in Italia eseguono a vario titolo i compiti a casa affidati

dai vertici di Bruxellelles.Tanto più che Il candidato socialista alle presidenziali francesi, Francois Hollande, ha assicurato ieri che «governerà a sinistra», che «non ci sarà apertura» e che il suo primo ministro sarà socialista se sarà eletto il 6 maggio: «Io sono socialista, sono di sinistra e governerò con la sinistra. Io dico tutto, non nascondo niente». Non ha mai nascosto Hollande che i dettati

europei a lui non piacciono, che vanno rinegoziate molte cose…a cominciare dal rigorismo tedesco. Che non è mai piaciuto per la verità nemmeno a Sarkozy anche se l’attuale inquilino dell’Eliseo non ha mai avuto potuto permettersi il lusso di dirlo apertamente.

Un rimosso riemerso clamorosamente a gennaio scorso intercettato da Le Canard in un fuori onda coi suoi collaboratori: «Paghiamo cara l’ortodossia della Germania. Da mesi continuo a ripetere che la Bce deve avere un ruolo maggiore e non può giocare a nascondino» Nel luglio scorso aveva fatto di peggio, definendo «L’egoismo dei tedeschi addirittura criminale». Sfoghi che stridono con le foto da primo della classe ligio ai dettami merkeliani nei vertici europei, pronto a segnare sulla lista dei cattivi greci, italiani, inglesi…


L’accordo con Idv e Sel è la vecchia tentazione dei dirigenti democrats Nichi Vendola, Pierluigi Bersani e Antonio Di Pietro nella celebre foto di Vasto che agita i sogni della sinistra. Specie in vista della possibile vittoria di Hollande in Francia tanza con i sondaggi francesi e con quelli che danno in crescita fenomeni antipolitici e demagogici come il movimento di Grillo (quotato al sette-otto per cento) Bersani annuncia che la coalizione che oggi appoggia Monti ha il timer tarato sul 2013: poi ognuno andrà per se. È intuibile quello che pensa Bersani. Cavalcare l’onda di reazione di sinistra in Europa e vincere le elezioni. Rifare l’alleanza a sinistra – la foto di Vasto – e ridimensionare l’esondazione populista. Una tentazione molto presente nel Pd dettata da uno schema della concorrenza a sinistra anche in Francia.

Parigi

sinistra italiana? ola e Di Pietro. ore e risanamento Che Sarkozy sia uno statista non ci ha mai creduto nessuno più di tanto, tranne la moglie Carla Bruni impegnata in questi giorni a promuoverlo in circoli di signore; la destra finiana, che nel 2007 lo presentava come una sua avanguardia europea e se stesso. Eppure la sua caduta avrebbe effetti europei come si diceva. Se il risultato delle urne francesi dovesse infatti confermare i pronostici e, quindi, decretare il ritorno di un socialista all’Eliseo lo scenario politico continentale subirebbe delle conseguenze. Che rischiano d’essere peggiorative rispetto al presente. Non perché la politica di ottuso rigorismo merkeliano sia stata positiva ma perché l’alternativa non sarebbe la riforma della governance europea ma il ritorno a logiche di chiusura e welfare insostenibile. Torniamo al caso italiano. In concomi-

Dove Hollande deve guardarsi le spalle dall’esponente della sinistra “radicale” euroscettica, Melénchon, che ormai vola vero attorno al 15%. Una tentazione che potrebbe avere il suo corrispondente simmetrico a destra in Italia. Dove qualcuno potrebbe immaginare di rispolverare lo scontro frontale contro la minaccia della sinistra rievocando la battaglia contro la tassazione per esempio, lo scontro sui temi del lavoro e ricreando il muro contro muro dello sterile quindicennio bipolare a cui solo l’intesa sul governo istituzionale ha trovato una parziale sintesi e composizione. Tentazioni simmetriche che porterebbero a simmetrici errori convergenti verso un unico fatale conseguenza: l’impossibilità conclamata di governare l’emergenza alla quale solo l’unità nazionale ha finora saputo opporre una resistenza. Ecco perché se da un lato la sconfitta di Sarkozy potrebbe indurre la Germania a più miti consigli - non avendo più un partner pedissequo e zelante seppur riottoso - dall’altro rischia di innescare richiami della foresta e riflessi condizionati. In questo senso rientrerebbe la tentazione del Pd di riesumare la foto di Vasto.

«Stai attento Bersani, è un abbraccio mortale» Il consiglio di Biagio De Giovanni: «Il Pd crede di poter tenere a bada gli alleati radical-populisti. Ma sbaglia» l politologo Biagio De Giovanni era presidente della commissione istituzionale del parlamento europeo nel 1998. Quell’anno tiene un comizio insieme a Francois Hollande allora segretario socialista oggi candidato all’Eliseo: «Lo conosco bene: è un vero socialdemocratico, un politico duttile e intelligente. È il favorito ma non darei per scontata la sua vittoria». Ammettiamo però che Hollande vinca, come dicono i sondaggi che in queste ore rendono scuro l’umore di Sarkozy: quale sarebbe l’effetto sull’Italia e in particolare sul Pd? «Hollande dice che se vincerà lui in Europa cambierà tutto. Non so se la sua Francia avrà la forza che non ha avuto Sarkozy. Vedremo. Sicuramente però Bersani coglierebbe subito l’assist che arriverà da Parigi tentando di mettere in rete il gol che ha sempre sognato: il Pd egemone al governo assieme agli alleati ritratti dalla foto di Vasto. Gli sembrerebbe di poter risolvere diversi problemi con una mossa sola: taciterebbe la sinistra del partito in pressing da mesi su lavoro e alleanze; non avrebbe nemici a sinistra, antica ossessione del Pd; verrebbe ribadita la centralità del Pd».

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mai stata in grado di governare e che continuerebbe a non governare il Paese». Insomma un boomerang per lo stesso Pd e per lo stesso centrosinistra ma un boomerang che nel suo volo farebbe intanto altre vittime. «Ove mai Bersani riuscisse a soddisfare questa sua tentazione la crisi si aggraverebbe con la perdita di credibilità politica dell’Italia ma verrebbe gettata una seria ipoteca anche su ogni seria ipotesi di riforma del sistema politico italiano. E anche la strategia di Casini e del centro sarebbe destinata a essere ricalcolata. Andrebbe in soffitta anzi tutto l’ipotesi di grande coalizione caldeggiata dal centro ma anche la subordinata dell’alleanza di centrosinistra con il Pd. L’Udc infatti non potrebbe mai partecipare a una coalizione dove fossero presenti Vendola e Di Pietro». Insomma si rimetterebbe in moto un processo politico e l’Udc dovrebbe ripensare la collocazione del costituendo partito della nazione, il suo rapporto con il Pd e il Pdl. Sarebbero gli effetti di un’incarnazione della foto di Vasto. Resta però il problema della governabilità. Come è possibile che i dirigenti del Pd credano ancora possibile governare l’Italia con le sante alleanze? «Vede – racconta De Giovanni – lo scorso settembre ho partecipato ad un convegno dove era presente Massimo D’Alema. Alla fine di quella manifestazione mi espresse la convinzione che la socialdemocrazia avrebbe vinto prima in Francia e poi in Germania. E una volta mutate le cose nell’Europa la musica sarebbe cambiata anche in Italia e sarebbe suonata l’ora del Pd. Vendola e Di Pietro si sarebbero adeguati, la prospettiva del governo li avrebbe indotti a una maggiore duttilità».

D’Alema è convinto che in vista del governo, Di Pietro e Vendola verrebbero a più miti consigli sulla linea da tenere in merito ai temi dirimenti. E poi il Pd eserciterebbe la sua egemonia. Un film già visto

Solo che alla fine il gol rischierebbe di essere un autorete. «Bersani crede che questa filiera di circostanze, dall’ascesa di Hollande all’Eliseo alle conseguenze che la sua vittoria avrebbe in Italia, segnerà la fine di tutti i suoi problemi. Ma è un’illusione ottica, per diversi motivi. Anzi tutto la complessità della situazione francese e la profonda diversità rispetto a quella italiana. Hollande è un mitterandiano, un politico molto duttile, un socialdemocratico di solida tradizione che ha alle spalle una coalizione coesa e vera. La foto di Vasto invece non è che la riproposizione in miniatura e in chiave parodistica dell’unione prodiana e segnerebbe la catastrofe dell’Italia. In un momento di crisi come questo l’idea di riproporre un governo di sinistra fatto da persone di questo tipo è una specie di follia. Un ipotesi che rimette in campo i cocci di una sinistra che non è

La vecchia presunzione del centralismo democratico, l’egemonia come tocco magico per far suonare a ognuno il suo spartito. Ecco cosa induce i dirigenti Pd a credere nei miracoli. «Sta di fatto – continua De Giovanni – che la vittoria di Hollande produrrebbe una pressione fortissima nel Pd. Che risucchierebbe definitivamente le già indebolite componenti liberal e moderate del partito da quella di Letta passando per Fioroni e rafforzando l’asse catto-comunista». Ragionamenti e prospettive che galleggiano però sulla perdurante crisi europea e italiana. Che non tengono conto della presenza e della possibile permanenza di Monti nel gioco politico. «Quella della crisi è una variabile che non possiamo calcolare. Invece di apparire in via di soluzione essa nei prossimi mesi potrebbe addirittura aggravarsi. Se così fosse Bersani non sarebbe così irresponsabile da proporre Vasto come plausibile ipotesi di governo». (Ric.Par)


mondo

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Anche lo scorso anno la gara venne cancellata per gli scontri, costati la vita a 35 persone. Adesso il Regno vorrebbe evitarlo

La F1 va fuori strada Sicurezza a rischio, opposizione in piazza. È polemica per il Gran Premio in Barhein di Antonio Picasso e tutto va come previsto, in Bahrein non sarà una moschea a fare da proscenio alla rivoluzione, bensì il circuito di F1 a Sakhir. A differenza dello scorso anno, il Gran Premio nell’opulento emirato si farà. L’occasione potrebbe tornare ghiotta sia per i ribelli che per il governo. Quest’ultimo spera di dimostrare che la situazione nel Paese è sotto controllo. A differenza della primavera 2011, quando l’emiro alKhalifa si era rammaricato con la Federazione automobilistica (Fia), perché si trovava costretto da «interessi nazionali superiori» a non poter ospitare la manifestazione. Oggi, visto che la manifestazione si terrà, le istituzioni di Manama vogliono far passare il messaggio che non ci sia alcun pericolo. I ribelli, a loro volta, dovrebbero rendersi conto che riflettori e telecamere venuti da occidente non possono che tornare utili alla loro causa. Questo ovviamente a rigor di logica. Perché la monarchia non

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può prevedere un’escalation di piazza domenica. Mentre gli oppositori, stranamente, si sono già espressi in maniera contraria al Gp. D’altra parte, la Formula 1 ha i suoi vantaggi, ma presenta altrettanti rischi per entrambi i contendenti. Se succedesse qualcosa ai piloti o agli uomini delle scuderie straniere, i diretti responsabili vedrebbero sfumare il loro sogno. La polizia sarebbe accusata di aver usato una mano un po’troppo pesante. I media internazionali innescherebbero la loro vena di curiosità e quindi dai riflettori sulla pista di Sakhir, si andrebbe a ficcanasare nelle carceri, dove probabilmente i ribelli, arrestati nel corso di questi undici mesi, non godono del benessere per cui l’emirato é celebre in tutto il mondo. Se invece il morto ci scappasse per colpa dei manifestanti, i loro desideri di libertà, democrazia e riforme crollerebbero come un castello di carta. La rivoluzione passerebbe per manifestazione violenta, promossa dal regime iraniano e le sue effettivamente buone ragioni perderebbero di qualunque significato. Per inciso: il fatto che ci sia l’Iran dietro le rivolte è vero solo in parte.

Queste previsioni sono state solo sfiorate l’altra notte, quando alcuni meccanici di Force India, nel tornare in hotel a Manama da Sakhir, si sono trovati nel bel mezzo di uno scontro polizia-ribelli. Una molotov è scoppiata al fianco della loro auto, ma sembra che nessuno si sia fatto male. La quattro persone, dopo un primo shock, hanno deciso di restare nel Paese. Mentre non ha seguito la stessa scelta un meccanico britannico, il quale al sapere dell’incidente, ha fatto richiesta alla propria casa automobilistica di poter essere rimpatriato. Due linee di comportamento discordanti, queste, che nascono dalla fluidità della situazione. L’ok del re al Gp dovrebbe far credere che sia tutto tranquillo. Ma i diretti responsabili della sicurezza pare che non siano della

Sopra, il circuito di Formula Uno del Bahrein. A sinistra, Fernando Alonso, pilota della Ferrari. In basso, immagini delle proteste in corso a Manama stessa opinione. John Yates, ex commissario di Scotland Yard e ora assoldato dagli emiri del Golfo, è il controllore del circuito. Ieri dalla sua intervista rilasciata al Guardian, è emerso un quadro diametralmente opposto a quello tracciato dalle autorità di Manama. «Non posso certificare che un idiota non si butti sul percorso mentre passano le macchine». Parole inequivocabili, le sue, che fanno trasparire da un lato lo scollamento tra il management del circuito e le istituzioni, dall’altro il totale disinteresse della Fia al mondo che la circonda. Già nel 2011, prima che il sovrano dicesse no al Gp, era montata la polemica circa l’inopportunità di realizzare una manifestazione tanto ludica in un cotesto così delicato. Parlare del Bahrein infatti significa fare riferimento a una striscia di terra abitata per lo più da una comunità sciita, governata in maniera poco democratica da pochi e ricchi sunniti. Vuol dire concentrarsi in quel Golfo persico congestionato da tante criticità geopolitiche ed energetiche. E per questo, significa chiamare in causa interessi economici, finanziari e di poteri globali in cui la Federazione passa, paradossalmente, per la sorella povera. Insomma, guardiamo la questione in cifre. Nel

Il leader religioso sciita Moqtada al Sadr ha lanciato un appello a boicottare la corsa: «Partecipare significa sostenere gli assassini, l’oppressione e la violazione della libertà popolare» 2010, il Gp del golfo ha richiamato 100mila visitatori, con un bilancio finale di mezzo miliardo di dollari. Poca roba, sia in termini di grande evento sportivo – una qualsiasi partita di Champions League sa fare meglio – sia a livello economico. I petrodollari del Golfo sono molti ma molti di più. Ed é proprio su questo ridimensionato peso specifico della manifestazione che lo scorso anno molti si erano dichiarati scettici sul correre a Sakhir. Ha senso, ci si chiedeva, organizzare una gara automobilistica in un Paese incendiato dalla rivolta?

In dodici mesi, la situazione non é cambiata. Anzi. Il patron della Formula 1, Bernie Ecclestone, classe 1931, non vuole sentire ragioni. A lui basta la parola dell’emiro. Non é così per piloti e tecnici di scuderia. Soprattutto alla luce dell’incidente capitato a quelli della Force India. Ai loro occhi, si rischia la vita. E visto che i corridori questa la mettono già in discussione quando sono al volante, non si capisce per quale

motivo dovrebbe accadere altrettanto a motori spenti. A questo punto, le contraddizioni prendono le sembianze degli anacronismi. Già di per sé età e patrimonio personale di Ecclestone (tre miliardi di euro stimati) suggeriscono la lunghezza del pelo sullo stomaco del personaggio. «Non mi importa della vita dei piloti, a me interessano i soldi», sembra dire l’attempato miliardario British. In maniera più ampia, siamo di COMUNE DI MASSA DI SOMMA (NA) Bando di gara per l'affidamento del servizio di gestione del ciclo integrato dei rifiuti per anni cinque 1)ENTE APPALTANTE: Comune di Massa di Somma - Via Veseri 5 CAP 80040 Massa di Somma (NA), Tel 081/7883211, Fax 081/77883223, sito: http//massadisomma.asmenet.it. 2)CATEGORIA E NUMERO CPV: CAT. 27 (all. IIB D. Lgs 163/2006) - CPV 90511100-3 906100006 3)MODALITA' E CRITERI PER L'AGGIUDICAZIONE DELL'APPALTO: Procedura aperta ai sensi dell'art. 55 co. 5 del D. Lgs.163/2006 s.m.i e art. 83 del D. Lgs. 163/2006 e s.m.i. - criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. 4)OGGETTO DEL SERVIZIO: SERVIZIO DI GESTIONE DEL CICLO INTEGRATO DEI RIFIUTI così come dettagliato nel capitolato speciale d'appalto 5)DURATA DELL'APPALTO: L'appalto avrà una durata di anni cinque. La durata dell'appalto è comunque subordinata all'attuazione del servizio di gestione integrato dei rifiuti con eventuale trasferimento all'Ambito Territoriale Ottimale competente ai sensi della vigente normativa in materia. Il servizio cesserà automaticamente da parte dell'affidatario all'atto del subentro del gestore unico, che sarà individuato dall'Autorità d'Ambito ai sensi delle vigenti disposizioni di legge in materia. In tal caso il Soggetto Affidatario del servizio non potrà avanzare alcuna pretesa di qualsiasi natura o ristoro per risarcimento danni. 6)RIFERIMENTI NORMATIVI: D. Lgs 152/06, D.Lgs. 163/2006 e s.m.i., Codice Civile, Piano Comunale di Raccolta Differenziata adottato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 6 del 07.03.2008, Ordinanza sindacale n. 16/2009. 7)SCADENZA Termine ricezione offerte: ore 12 del 11/6/2012. Per tutto quanto non previsto si fa rinvio al capitolato di appalto, disciplinare di gara e bando integrale, approvati con determinazione n.19/2012 e integralmente reperibili sull'albo pretorio on line dell'Ente al seguente indirizzo: http://albopretorio.insielmercato.it/AlboMassaSomma/ Il responsabile del I settore dott. Modestino Cicinelli


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e di cronach

Ufficio centrale Nicola Fano (direttore responsabile) Gloria Piccioni, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Orio Caldiron, Anna Camaiti Hostert, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

piano rispetto agli altri Paesi del Golfo. La piazza si sta ribellando contro questo regime dollaro centrico. Il fatto però che il Bahrein sia proprio di fronte all’Iran porta l’Occidente a far finta di nulla. La Manama sunnita va a braccetto con Stati Uniti ed Europa. La maggioranza sciita, al contrario,

«È possibile che ci sia un’incursione sul tracciato? Certo. Si tratta di un evento aperto al pubblico. E come si può fermare un idiota che si butta sull’asfalto?» ha detto il commissario Yates

fronte all’Occidente in crisi finanziaria incapace di rinunciare ai propri tradizionali divertimenti e, per questo, si rivolge ai satrapi d’Oriente. Questi però non si rendono conto che apri-

re case e palazzi ai media stranieri implica permettere loro di arrivare a ragionamenti critici. Come si diceva prima, in questi giorni una telecamera che inquadra le auto può far altret-

tanto sui manifestanti e su come questi vengono trattati dai poliziotti. Chiudiamo con i manifestanti. La logica delle cose dovrebbe suggerire loro che il Gp é appunto un’occasione per mostrare al mondo le reali condizioni del Paese. Le riserve nazionali di idrocarburi – 125 milioni di barili di petrolio e 500 milioni di metri cubi di gas – appaiono irrisorie se paragonate a quelle dei vicini. Il Bahrein é addirittura costretto a importare greggio dai sauditi.

Di conseguenza, la sua economia è più portata a valorizzare altri settori: banche offshore, istituti di credito islamici, turismo. Ed è proprio su questo comparto che le rivolte dello scorso anno, o meglio le proteste tuttora in corso hanno inciso negativamente. Il Fondo monetario internazionale prevede un Pil del 3,9% nel 2011, quasi un punto percentuale in meno rispetto al dato dell’anno precedente. Re al-Khalifa teme la recessione, non solo la rivoluzione. E con entrambe rischia di passare in secondo

viene classificata come amica dell’Iran. Il connubio però è azzardato. A Teheran infatti gli Ayatollah sono persiani.

A Manama gli sciiti sono arabi. Differenza sostanziale che spesso sfugge.Tant’è vero che le recenti prese di posizione in favore dei manifestanti non arrivano dall’Iran, bensì da Muqtada al-Sadr, esponente di spicco della Shia irachena, effettivamente al soldi di Teheran, ma comunque etnicamente arabo. In tutto questo, è strano che proprio Sadr abbia condannato il Gp di domenica. «Rivolgo un appello a tutti gli sportivi onesti affinché non partecipino a questa gara e manifestino sostegno al popolo del Bahrein nell’osteggiare questa competizione», ha fatto sapere l’imam dalla città santa di Najaf. In Iraq appunto. «Svolgere la gara in quel paese significa sostenere gli assassini, l’oppressione e la violazione della libertà del popolo del Bahrein». Nobile presa di posizione la sua. Poco tattica però. Perché, si corra o meno, alla rivoluzione serve un ritorno di immagine.

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shock negli Usa

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Documento shock dei Vescovi americani

Disobbedite alle leggi se offendono l’Uomo

La Chiesa statunitense avverte: «Mai come oggi l’esercizio della fede è in pericolo». E chiama i cristiani a reagire di William E. Lori, arcivescovo di Baltimora oi siamo cattolici. Noi siamo americani. E siamo orgogliosi di essere entrambe le cose, grati per aver ricevuto il dono della fede che deriva dal nostro essere discepoli cristiani, e grati per il dono della libertà che ci deriva dalla nostra cittadinanza americana. Essere cattolici e americani dovrebbe significare non dover mai essere costretti a scegliere fra l’uno e l’altro. Le nostre fedeltà sono ben distinte, ma non dovrebbero mai diventare contraddittorie. Dovrebbero, invece, essere sempre complementari. Questo è l’insegnamento della nostra fede cattolica, che ci obbliga a lavorare assieme con tutti i cittadini per il bene comune della società. Questa è la visione dei nostri Padri fondatori e della nostra Costituzione, che garantisce ai cittadini di ogni fede religiosa il diritto di contribuire alla nostra vita comune. La libertà non è un’esclusiva americana, ma noi la consideriamo come fosse una speciale eredità, conquistata a carissimo prezzo. Un’eredità da preservare. Ci sentiamo i sovrintendenti di questo dono, non solo per noi stessi ma per tutte le nazioni e le persone che desiderano essere libere. I cattolici, in America, hanno vegliato sulla libertà per moltissime generazioni. Nel 1887, quando l’arcivescovo di Baltimora, James Gibbons, divenne il secondo cardinale americano, difese l’eredità ame-

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ricana della libertà religiosa durante la sua visita a Roma per ricevere il porporato. Parlando del grande progresso della Chiesa cattolica negli Stati Uniti, Gibbons lo attribuì alla «libertà civile che noi godiamo nella nostra illuminata repubblica». Da molto prima del cardinal Gibbons, tuttavia, i cattolici d’America si erano battuti per la libertà religiosa, e i punti salienti del Concilio Vaticano Secondo sulla libertà religiosa sono stati raggiunti anche grazie all’esperienza americana. Noi siamo stati i più fervidi e solidi difensori di questa libertà nel passato. E abbiamo il solenne dovere di difenderla anche oggi.

Noi abbiamo, prima di tutto, il dovere di parlarci francamente quando le nostre libertà sono messe in pericolo. Oggi questo tempo è arrivato. Come vescovi cattolici e cittadini americani, noi mettiamo in guardia i cattolici e gli americani: fate attenzione, la libertà religiosa è sotto attacco, sia in casa che all’estero. Questo è stato notato sia qui che altrove. Il Papa Benedetto XVI recentemente ha mostrato la sua preoccupazione sullo stato della libertà religiosa negli Stati Uniti. Il pontefice l’ha definita la «più cara delle libertà americane», e di questo infatti si tratta. «Sono per me motivo di ansia alcune azioni fatte per limitare la più cara delle libertà americane, la libertà religiosa»,

ha detto il Pontefice ai vescovi Usa. In molti ci hanno fatto notare come ai cattolici sia spesso negato il loro diritto all’obiezione di coscienza. E come spesso si cerchi di ridurre la libertà religiosa a mera libertà di culto, senza garanzie di rispetto per la libertà di coscienza. Ecco perché c’è bisogno di una laicità cattolica impegnata, articolata e formata, dotata di un forte senso critico davanti alla cultura dominante e di grande coraggio per affrontare un laicismo riduttivo che delegittimerebbe la partecipazione della Chiesa nel dibattito pubblico sulle questioni che sono fondamentali per il futuro della società americana.

Libertà religiosa sotto attacco Sette esempi di come lo Stato delegittima i fedeli n un’azione senza precedenti, il governo federale obbligherà le istituzioni religiose a facilitare la diffusione di un prodotto contrario ai loro insegnamenti morali e pretenderà di definire quali istituzioni religiose siano “sufficientemente religiose” per meritare la protezione della loro libertà religiosa. Queste caratteristiche del mandato dei “servizi preventivi” equivalgono ad una legge ingiusta. William E. Lori, il nuovo arcivescovo di Baltimora e presidente del co-

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mitato ad hoc per la libertà religiosa, ha dichiarato al Congresso: «Non si tratta di decidere se la contraccezione possa essere proibita dal governo. Non si tratta nemmeno di decidere se la contraccezione possa essere sostenuta dal governo. Piuttosto, si tratta di decidere se le persone e le istituzioni religiose possano essere obbligate dal governo a fornire copertura per la contraccezione o sterilizzazione, anche se questo viola i loro ideali religiosi». 2. Le leggi sull’immigrazione.

Diversi stati recentemente hanno approvato delle leggi che vietano di dare asilo agli immigrati clandestini – un gesto che per la Chiesa è vera carità cristiana. I più duri, al riguardo, sono stati i legislatori dell’Alabama, tanto da costringere i vescovi cattolici, assieme ai metodisti e agli episcopali, a fare causa allo Stato.

È con tristezza che abbiamo portato avanti questa azione legale, ma anche con la profonda consapevolezza che noi – uomi-


shock negli Usa alcolisti anonimi o altri gruppi di recupero presso le nostre chiese. 3. Alterare la struttura e la gestione della Chiesa. Nel 2009 il Connecticut ha proposto un disegno di legge che avrebbe costretto le parrocchie cattoliche ad essere ristrutturate secondo un modello congregazionalista, richiamando la controversia del trusteeeism (ndt: gestione della parrocchia regolamentata dallo Stato) dell’inizio del XIX secolo, e anticipando i tentativi del governo federale di ridefinire il “ministero religioso” della Chiesa e il “datore di lavoro re-

semplice caso di discriminazione contro i fedeli. 7. Discriminazione contro i servizi umanitari cattolici. Nonostante per anni la United States Conference of Catholic Bishops’ Migration and Refugee Services abbia egregiamente amministrato i servizi per le vittime di human trafficking, il governo federale ha modificato le specifiche del contratto richie-

A un cattolico non può essere chiesto di non sfamare un immigrato. E se una norma del Governo lo impone, bisogna ribellarsi

ibertà religiosa non significa soltanto poter andare a messa la domenica o recitare il rosario a casa, ma investe altresì la nostra possibilità o meno di dare un contributo al bene comune di tutti gli americani. Possiamo compiere le opere di bene che la nostra fede ci chiama ad operare, senza dover scendere a compromessi su quella che è la nostra stessa fede? Senza capire bene a pieno cosa si intenda per libertà religiosa, tutti gli americani sono destinati a soffrire, in quanto privati di quell’essenziale contributo in campo educativo, sanitario, sociale, nel dar da mangiare agli affamati, nel battersi per i diritti civili che gli americani religiosi apportano ogni giorno, sia qui in

ligioso” negli anni successivi. 4. Gli studenti cristiani nei campus. Negli oltre cento anni di storia, l’Hastings College della facoltà di legge dell’Università della California ha negato lo status di organizzazione studentesca solo ad un gruppo, la Christian Legal Society, perché richiedeva che i suoi leader fossero cristiani e si astenessero dalle attività sessuali al di fuori del matrimonio.

ni di fede – non possiamo che difendere il diritto a professare liberamente la nostra religione. La legge in questione proibisce di assistere un immigrato clandestino o di incoraggiarlo a vivere in Alabama. Considera illegale che un prete cattolico battezzi, confessi, dia l’estrema unzione o semplicemente predichi la parola di Dio ad un immigrato clandestino. Ci vieta di incoraggiarli a seguire la Messa o di dargli un passaggio per andare a Messa. Considera illegale permettere loro di frequentare i gruppi di lettura e studio delle Scritture e offrirgli delle consulenze in momenti di difficoltà o in preparazione di un matrimonio. Proibisce di fargli frequentare i gruppi degli

5. I servizi cattolici di affido e adozione. Boston, San Francisco, il distretto della Columbia e lo Stato dell’Illinois hanno estromesso le associazioni benefiche cattoliche dal business che fornisce servizi di adozioni e affidi – revocando licenze, estinguendo contratti governativi – perché queste associazioni si erano rifiutate di sistemare bambini a coppie di omosessuali o di eterosessuali conviventi ma non sposati. 6. Discriminazione contro le piccole congregazioni religiose. La città di New York ha escluso per il Bronx Household of Faith e altre sessanta chiese la possibilità di affittare scuole pubbliche nei week end per attività di preghiera, anche se le stesse potevano essere affittate da gruppi non religiosi per numerosi altri usi. Mentre questo provvedimento non tocca direttamente le parrocchie cattoliche, che generalmente dispongono di strutture proprie, risulta devastante per molte congregazioni minori. Si tratta di un

dendoci di fornire o riportare servizi di contraccezione e aborto in violazione all’insegnamento cattolico. Le istituzioni religiose non dovrebbero essere escluse da un contratto governativo a seconda del loro credo religioso, e non dovrebbero in alcun modo essere costrette a rinunciare alla propria identità o libertà religiosa aderendo a simili contratti. E inve-

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ce un tribunale federale del Massachusetts ha dichiarato che un’esclusione per simili motivi è richiesta dal Primo Emendamento – e che il governo in qualche modo viola il concetto di libertà religiosa permettendo alle organizzazioni cattoliche di partecipare a questi accordi permettendogli di conservare i loro ideali su contraccezione e aborto.

Andare a messa serve. Ma non basta Ci deve essere permesso di vivere i nostri valori

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patria che all’estero. In gioco vi è la possibilità o meno da parte dell’America di continuare ad avere una società civile libera, solida e creativa, oppure se sia il solo Stato a stabilire chi debba contribuire al bene comune ed in che modo.

I credenti sono parte integrante della società civile americana, la quale si compone di vicini che si aiutano, di associazioni di quartiere, di circoli di mutuo soccorso, di federazioni sportive e gruppi giovanili. Ora, tutti questi Americani danno il loro contributo per il bene della nostra vita di comunità, e per farlo non hanno certo bisogno del benestare del governo. Qualunque restrizione alla libertà religiosa

rappresenta un attacco alla società civile e a quel talento tutto americano di associazionismo volontario (...). Molte religioni credono fermamente nella necessità di essere aperte ed impegnate nel più ampio contesto della società, e nei confronti dei concittadini appartenenti ad altre religioni. Nel suo legiferare, l’Amministrazione fa sì che il pregio di un tale atteggiamento di apertura diventi violazione dei principi religiosi di un’organizzazione, e questo ci delude profondamente. Non si tratta né di un problema cattolico, né di un problema degli ebrei, e neppure di un problema degli ortodossi, dei mormoni o dei musulmani. Questo è un problema americano.

Non dobbiamo essere tollerati Pretendiamo quel rispetto che sempre offriamo agli altri orreva l’anno 1634 quando un gruppo di coloni cattolici e protestanti proveniente dall’Inghilterra approdò a bordo dell’Arca e della Colomba sulle sponde dell’isola di San Clemente, a sud del Maryland. Erano giunti su invito del cattolico Lord Baltimore, a cui il re protestante Carlo I d’Inghilterra aveva ceduto il Maryland. Mentre in Europa cattolici e protestanti si uccidevano, Lord Baltimore immaginava che il Maryland diventasse una società in cui credenti di religione diversa potessero convivere pacificamente. Ben presto tale visione fu codificata nella Legge religiosa del 1649 in Maryland (altrimenti detta ”Legge sulla tolleranza”), la quale fu la prima legge nella storia della nostra nazione a tutelare il diritto di ogni individuo alla libertà di coscienza. Gli albori della storia del Maryland ci insegnano che, alla pari di ogni altra libertà, anche la libertà religiosa necessita di costante tutela e vigilanza, pena la soppressione. L’esperimento fatto in Maryland di garantire tolleranza religiosa si esaurì nel giro di qualche decennio. La colonia fu infatti posta sotto il controllo della corona e la

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Chiesa anglicana divenne l’unica religione ammessa. Furono pertanto varate leggi discriminatorie – con la conseguente perdita anche dei diritti politici – nei confronti di coloro che rifiutarono di conformarsi. Furono chiuse le cappelle cattoliche ed il cattolici costretti a praticare la propria religione in casa. La comunità cattolica visse in queste condizioni fino alla rivoluzione americana. Fu non prima della fine del secolo decimo ottavo che I padri fondatori della nostra nazione sancirono la libertà di religione come condizione essenziale di una società libera e democratica.

James Madison, sovente indicato come il Padre della nostra Costituzione, definì la coscienza «il più sacro di tutti i possedimenti» E scrisse che «pertanto la Religione di ogni uomo va lasciata al convincimento e alla coscienza di ogni singolo individuo, ed è diritto di ogni uomo esercitarla in base ai dettami della propria coscienza e delle proprie convinzioni». George Washington scrisse che «il riconoscimento della Libertà civile e religiosa è il motivo che mi ha spinto sul campo di battaglia».

(...) Il Primo Emendamento sancisce che «Non spetta al Congresso promulgare alcuna legge sul riconoscimento di una religione, o che ne vieti il libero esercizio». Recentemente, in una sentenza adottata all’unanimità da parte della Corte Suprema, la quale afferma l’importanza di quella prima libertà, il Presidente della Corte Suprema ha spiegato che la libertà di religione non è solo la prima libertà per gli americani, ma è addirittura la prima che si incontra nella storia della libertà democratica, facendone risalire le origini fino alle prime disposizioni della Magna Carta del 1215, se non addirittura prima. (...) È questa la nostra eredità di americani, la nostra libertà più cara. È la prima delle libertà in quanto se non siamo liberi nella nostra coscienza e nella nostra pratica della religione, risultano fragili anche tutte le altre libertà. Se il cittadino non è libero nella propria coscienza, come può esserlo nei confronti degli altri o dello Stato? Se i nostri obblighi e doveri nei confronti di Dio sono ostacolati, o peggio ancora, contraddetti dal governo, allora non possiamo più proclamarci terra di libertà e faro di speranza per il resto del mondo.


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shock negli Usa

Una legge ingiusta non va rispettata La nostra coscienza ci impone la ribellione urante il movimento per I diritti civili degli anni Cinquanta e Sessanta, gli americani fecero risplendere la luce del Vangelo sulla loro oscura storia di schiavitù, segregazione e intolleranza razziale. Il movimento per i diritti civili fu sostanzialmente un movimento religioso, un risveglio delle coscienze, e non solo un appello alla Costituzione, affinché l’America onorasse quelle libertà che aveva ricevuto in eredità. Nella sua celebre Lettera dalla prigione di Birmingham Jail del 1963, ll reverendo Martin Luther King Jr. ammetteva con coraggio: «L’obiettivo dell’America è la libertà». In qualità di pastore cristiano, egli affermava che chiamare l’America ad esprimere a pieno quella libertà rappresentava il contributo specifico che i cristiani sono tenuti a dare. E faceva affondare nelle radici della lunga tradizione cristiana le proprie argomentazioni di natura giuridica e costituzionale in materia di giustizia: «Sono d’accordo con Sant’Agostino, secondo cui “Una legge ingiusta non è affatto una legge”.

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Qual è infatti la differenza fra le due? Come si stabilisce che una legge è giusta o ingiusta? Una legge giusta è un codice prodotto dall’uomo, in linea con i dettami della legge morale o della legge di Dio. Una legge ingiusta è un codice non in armonia con la legge morale. Per dirla con S. Tommaso d’Aquino, una legge ingiusta è una legge umana non radicata nella legge eterna e nella legge naturale. Fa riflettere vedere il nostro governo promulgare una legge ingiusta. Non si può obbedire ad una legge ingiusta. Di fronte ad una legge ingiusta, non si può trovare un compromesso, soprattutto ricorrendo ad un linguaggio equivoco e a prassi ingannevoli. Se oggi intravediamo la prospettiva di leggi ingiuste, allora i cattolici, in America, in uno spirito di solidarietà con gli altri concittadini, devono avere il coraggio di non obbedire a tali leggi. Nessun americano lo desidera, e nessun cattolico lo vorrebbe, ma se dovesse ricadere sulle nostre spalle, dobbiamo farlo per dovere di cittadinanza e per obbligo di fede. È essenziale capire la distinzione tra obiezione di coscienza ed una legge ingiusta. L’obiezione di coscienza concede un certo sollievo a coloro che si oppongono ad una legge giusta per ragioni di coscienza; l’esempio più noto a tale riguardo è rappresentato dal servizio di leva militare. Laddove, una legge ingiusta

“non è affatto una legge”, non può essere rispettata e, pertanto, non si cerca di sgravarsi la coscienza, quello che si vuole è che venga abrogata. La Chiesa cristiana non chiede un trattamento speciale, ma semplicemente il riconoscimento dei diritti di libertà di religione a tutti i cittadini. Il reverendo King spiegava altresì che la chiesa non è né padrona né serva dello Stato, ma ne è coscienza, guida e critica. Noi cattolici sappiamo che la nostra storia ha ombre anche nel campo della libertà religio-

La Chiesa non chiede un trattamento speciale, ma il rispetto dei diritti di libertà sa, per tutte le volte che, ad esempio, non abbiamo esteso anche ad altri il dovuto rispetto di questa prima libertà. Eppure, il Magistero della Chiesa è inequivocabile in materia di libertà religiosa: La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Tale libertà significa che qualunque uomo deve essere immune da coercizione esercitata da parte di individui o gruppi sociali o da parte di qualsivoglia potere umano, in modo da garantire che in fatto di religione nessuno sia obbligato ad agire contrariamente al proprio credo… in privato o in pubblico, da solo o in associazione con altri, entro i dovuti limiti. Tale diritto di ogni persona umana alla libertà religiosa va sancito in una legge costituzionale che disciplina la società, divenendo in tal modo un diritto civile. In quanto cattolici, siamo tenuti a

difendere il diritto alla libertà di religione per noi stessi e per gli altri. Per fortuna, in questo siamo appoggiati dai nostri fratelli cristiani e dai nostri fratelli credenti di altre religioni.

In una recente lettera inviata al presidente Obama da una sessantina di leader religiosi, ivi compresi cristiani di varia denominazione ed ebrei, si scrive che «è con forza che non solo i cattolici si oppongono radicalmente al fatto che i piani sanitari da loro acquistati vadano a coprire le spese per con-

traccettivi ed altri metodi abortivi». (...) Tale dichiarazione congiunta chiarisce che, in qualità di cristiani appartenenti a varie tradizioni diverse, ci opponiamo ad una “piazza pubblica nuda”, denudata da argomentazioni religiose e priva di credenti. Non vogliamo neanche uno “spazio pubblico sacro”, che conceda speciali privilegi e benefici ai cittadini che professano una religione. Piuttosto vogliamo un forum civico, in cui tutti i cittadini possano dare il proprio contributo per il bene comune. Nella migliore delle ipotesi potremmo chiamarla una piazza pubblica americana.

I martiri della cristianofobia Impariamo da chi è perseguitato a reagire ella presente dichiarazione, noi, Vescovi degli Stati Uniti, ci riferiamo alla situazione che riscontriamo nel nostro Paese. Nel contempo, constatiamo anche con grande tristezza che la libertà religiosa è ancor più in pericolo in tante altre parti del mondo. Il nostro obbligo in patria è di difendere con forza la libertà religiosa, ma non possiamo dimenticare la situazione ben più grave in cui versano religiosi e credenti, in maggioranza cristiani, nel resto del pianeta. L’era del

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martirio non è ancora tramontata. Omicidi, bombardamento di chiese, il fuoco appiccato agli orfanotrofi: sono solo gli attacchi più violenti perpetrati a danno dei cristiani che soffrono a causa della fede in Gesù Cristo. Nelle leggi di molti paesi vi è la sistematica rinnegazione dei più basilari diritti umani, per non parlare degli atti di persecuzione perpetrati dagli adepti di altre religioni nei confronti dei cristiani. Se la libertà di religione sembra vacillare qui in patria, la difesa della libertà religiosa da parte degli

americani all’estero è ancor meno credibile. Ed un pericolo comune che aleggia sia sulla scena internazionale che su quella nazionale è la tendenza a ridurre la libertà religiosa a mera libertà di culto. È nostro compito rafforzare la libertà religiosa in patria, in maniera da poter poi difenderla con maggior vigore all’estero. A tal fine, la politica estera Usa, nonché la vasta rete internazionale di organismi cattolici, è chiamata a fare della promozione della libertà religiosa una priorità costante ed impellente.


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I politici cattolici si diano da fare Basta nascondersi. Tutti devono contribuire on chiediamo altro che ci venga garantito il rispetto del nostro diritto alla libertà religiosa, a noi concesso da Dio. Altro non chiediamo che la Costituzione e le Leggi degli Stati Uniti, che sanciscono e riconoscono tale diritto, vengano rispettate. Nell’insistere affinché le nostre libertà di americani vengano rispettate, noi vescovi riconosciamo la veridicità di quanto detto dal nostro Santo Padre. Questa opera appartiene ad «un laicato cattolico impegnato, articolato e ben formato, dotato di forte senso critico nei confronti della cultura dominante». Noi vescovi cerchiamo di portare la luce del Vangelo nella nostra vita pubblica, ma è ruolo della politica quello di dar voce a cattolici laici impegnati e coraggiosi. Li esortiamo ad impegnarsi e ad essere numerosi e articolati nell’insistere affinché da cattolici e da americani non si debba essere costretti a scegliere o gli uni o gli altri.

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Vi è un bisogno urgente affinché i fedeli laici, in collaborazione con cristiani, ebrei ed appartenenti ad altre confessioni, facciano comprendere ai nostri rappresentanti eletti l’importanza di difendere senza soluzione di continuità la libertà religiosa in una società libera. Ci rivolgiamo in special modo a coloro che detengono cariche pubbliche. È vostro nobile compito governare per il bene comune. E non è agire per il bene comune trattare le opere buone compiute dai fedeli come se fossero una minaccia al-

la nostra vita collettiva, ma al contrario occorre riconoscere quanto sono essenziali per il buon funzionamento della nostra collettività. È altresì vostro compito tutelare e difendere quelle libertà fondamentali sancite dal Bill of Rights. E questa non dovrebbe essere una questione di schieramento. La Costituzione non è né dei Democratici, né dei Repubblicani, né degli Indipendenti. La Costituzione appartiene a noi tutti. Riconosciamo l’enorme responsabilità che appartiene a tutti quei cattolici impegnati nella gestione del gran numero di ospedali, istituti di cura, università, atenei, scuole, agenzie di adozione, progetti di sviluppo internazionale, organismi socio-assistenziali che offrono assistenza ai poveri, agli affamati, agli immigrati, alle donne con gravidanza a rischio, ecc. Voi compite l’opera che il Vangelo assegna a noi di fare. Siete voi che potreste essere obbligati a scegliere tra le opere di bene che compiamo per fede e la fedeltà a quella stessa fede. Vi incoraggiamo a resistere, a tener duro, a prendere rapidamente posizione e a difendere ciò che vi appartiene di diritto in quanto cattolici ed americani. Per i nostri sa-

cerdoti, specialmente quelli che hanno la responsabilità delle parrocchie, i cappellani delle università e delle scuole superiori, chiediamo venga attuata una catechesi sulla libertà religiosa adatta alle anime che avete sotto la vostra responsabilità.

Come vescovi, siamo in grado di fornire una guida per aiutarvi, ma il coraggio e lo zelo per questo compito non può essere ottenuto dall’esterno, deve essere radicato nella vostra preoccupazione per la cura del vostro “gregge” e nutrito dalle grazie che avete ricevuto con i voti sacerdotali. La catechesi sulla libertà religiosa non è solo l’opera dei sacerdoti. La Chiesa cattolica in America è benedetta da un immenso numero di scrittori, produttori, artisti, editori, registi, e blogger che utilizzano tutti i mezzi di comunicazione – entrambi i media, sia vecchi che nuovi – per esporre e insegnare la fede. Anche loro hanno un ruolo fondamentale in questa grande lotta per la libertà religiosa. Chiediamo loro di utilizzare le proprie competenze e talenti in difesa della nostra libertà più importante. Infine, per i nostri fratelli vescovi, dobbiamo esortarci a vicenda, con carità fraterna, a essere audaci, chiari e insistenti nel mettere in guardia contro le minacce ai diritti della nostra gente. Lasciateci essere la «coscienza dello Stato», per usare le parole del reverendo King.

Due settimane per la libertà Dal 21 giugno al 4 luglio i vescovi istruiscano i loro greggi n particolare, si raccomanda ai nostri fratelli vescovi di concentrare «tutte le energie che la comunità cattolica può radunare» nella prossima estate. Come pastori del gregge, il nostro compito privilegiato è quello di condurre i fedeli cristiani in preghiera. Sia il nostro calendario civile che l’anno liturgico ci indicano in varie occasioni qual è il nostro patrimonio di libertà. Quest’anno proponiamo una speciale edizione di «Due settimane per la libertà», in cui i vescovi nelle loro diocesi potrebbero organizzare eventi speciali per sottolineare l’importanza della difesa della nostra prima libertà. Le istituzioni cattoliche potrebbero anche essere incoraggiate a fare lo stesso, soprattutto in collaborazione con altri cristiani, ebrei, persone di altre

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fedi e tutti coloro che vogliono difendere la nostra libertà più cara. Suggeriamo che i quattordici giorni che vanno dal 21 giugno – la vigilia delle feste di San Giovanni Fisher e San Tommaso Moro – al 4 luglio, Independence Day, siano dedicati a queste «Due settimane per la libertà», un grande inno di preghiera per il nostro paese.

Il nostro calendario liturgico celebra una serie di grandi martiri che sono rimasti fedeli di fronte alla persecuzione da parte del potere politico: San John Fisher e San Tommaso Moro, San Giovanni Battista, SS. Pietro e Paolo, ed i primi martiri della Chiesa di Roma. Culminante nel giorno dell’Indipendenza, questo periodo speciale di preghiera, studio, catechesi e azione

pubblica potrebbe sottolineare entrambi i patrimoni di libertà: sia cristiano che americano. Diocesi e parrocchie di tutto il paese potrebbero scegliere una data in quel periodo per eventi speciali che costituirebbero una grande campagna nazionale di insegnamento e testimonianza. Oltre al rispetto dell’impegno estivo, abbiamo anche sollecitato affinché la solennità delle celebrazioni del Cristo Re sia una giornata dedicata da vescovi e sacerdoti a predicare la libertà religiosa, sia qui che all’estero. A tutti i nostri fratelli cattolici, sollecitiamo l’intensificazione delle vostre preghiere e il digiuno per una nuova nascita della libertà nel nostro amato paese. Vi invitiamo ad unirvi a noi in una pressante preghiera per la libertà religiosa.


ULTIMAPAGINA Il piccolo arcipelago portoghese ha 250mila abitanti e sei miliardi di euro di buco

Madeira, un’isola in un mare di Colin Freeman nnidata ai piedi delle imponenti falesie della ventosa costa occidentale di Madeira, la Marina do Lugar de Baixo – costata 50 milioni di euro – doveva essere l’approdo ideale per i grandi yacht di lusso. Purtroppo, a causa delle imponenti ondate che dalla fine dei lavori del 2005 hanno demolito tre volte le banchine e le barriere del porto, neppure i capitani più coraggiosi si sono azzardati ad attraccare, per non parlare dei palazzi galleggianti dei miliardari. Oggi il porto è abbandonato: la strada che Roman Abramovich avrebbe dovuto imboccare è sbarrata da una catena e il club è deserto. Se i marosi di Lugar de Baixo sono spettacolari, non sono da meno le ondate di contanti provenienti dall’Unione Europea che hanno sommerso Madeira, possedimento portoghese conosciuto per il suo vino dolce e il sole in inverno. Anche se il porto è stato finanziato per lo più dal governo autonomo locale, l’Ue ha partecipato con 3,5 milioni di euro. Come altri investitori, Bruxelles ha fatto orecchie da mercante quando ha saputo che quel tratto di costa attirava soprattutto i surfisti più temerari e che non avrebbe potuto offrire riparo ai diportisti. Non lontano, lungo la vicina passeggiata e presso il ristorante di Frente Mar Madalena – dove una targa arrugginita ricorda la sovvenzione europea da 1,2 milioni di euro – gli operatori immobiliari hanno ignorato il pericolo di caduta massi dalle falesie. O, per lo meno, hanno fatto finta di niente fino a quando due anni fa un pezzo di roccia ha sfondato il tetto del ristorante, da allora sprangato.

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Ma il buco più grande è quello che questi cantieri, finanziati con fondi pubblici, hanno aperto nelle finanze dell’arcipelago, trasformato in un luogo di villeggiatura paragonabile alle Canarie, poco più a sud. Oggi Madeira è indebitata fino al collo. Sebbene le isole contino appena 250mila abitanti, il governo locale ha circa

di DEBITI venzioni accordate dall’Ue fino agli anni 2000: quando questa risorsa ha iniziato a prosciugarsi, Jardim ha incominciato a prendere in prestito capitali sul mercato tramite società di promozione e intermediazione immobiliare finanziate in parte dallo stato.

Secondo molti, la crisi finanziaria è il risultato dei folli investimenti del governo autonomo guidato da trentatré anni da Alberto João Jardim sei miliardi di euro di debiti, ovvero quasi il doppio del debito pubblico pro capite del Portogallo continentale. Questa crisi finanziaria, venuta alla luce soltanto nell’autunno scorso, arriva nel momento peggiore per il governo portoghese, già costretto a negoziare un bailout da 78 miliardi di euro con Bruxelles e l’Fmi. «Madeira è una sorta di Grecia dell’Atlantico», commenta Gil Cana, membro dell’Assemblea legislativa regionale di Madeira e del partito d’opposizione Nuova Democrazia. Mentre sorseggia un caffè in una piazza di Funchal, la capitale dell’arcipelago, Cana ha la stessa aria distesa dei turisti britannici e tedeschi di una certa età che passeggiano nei dintorni, attirati su quest’isola dalla sua reputazione di quiete e sicurezza. In realtà Cana tiene in tasca una bomboletta spray al peperoncino e quando esce la sera porta con sé una Browning di piccolo calibro. In questa piccola comunità infatti può essere un rischio

parlare apertamente di politica: Cana è già stato picchiato in un paio di occasioni, la sua automobile è stata data alle fiamme e altri veicoli appartenenti a suoi congiunti hanno subito atti vandalici. Cana accusa i sostenitori del presidente dell’isola, Alberto João Jardim, 69 anni, al potere dal 1978, uno dei leader europei più longevi. Combattivo erede del dittatore Salazar – per cui scriveva propaganda – ha una popolarità che è andata crescendo grazie alla cementificazione con cui ha sviluppato a colpi di miliardi un’isola che alla fine della dittatura portoghese nel 1974 era ancora un angolino sperduto e miserabile. Oggi le piccole frazioni sulle montagne sono collegate da una rete di 120 chilometri di strade e gallerie e per compiere il perimetro completo del suo territorio accidentato e vulcanico occorre soltanto un’ora, invece delle quattro di un tempo. I finanziamenti provenivano in gran parte dai due miliardi di euro di sov-

Così si è continuato a costruire, al punto che oggi anche i paesi più piccoli dispongono di centri culturali, piscine e campi da calcio. Come fa notare Journal, il quotidiano di proprietà del governo locale, il presidente ogni anno partecipa più o meno a 450 cerimonie di inaugurazione e se ne serve, con discorsi interminabili, come di meeting politici per accusare i propri avversari. «Mi ha accusato di essere un comunista, un marxista, un membro dell’Opus Dei, e altre cose ancora», sospira Micheal Blandy: direttore del Blandy Group, è uno dei rappresentanti della potente comunità imprenditoriale inglese arrivata nell’arcipelago due secoli fa (...). Se a un portavoce della Commissione europea sta a cuore ricordare che «a Madeira ci sono molti progetti eccellenti cofinanziati dall’Ue», Angela Merkel di recente ha citato l’isola come un eclatante esempio di spreco dei fondi dell’Unione per lo sviluppo regionale. A questa critica Jardim ha reagito come suo solito, denunciando l’«ignoranza» della cancelliera tedesca e facendo ricorso a quell’eloquio populista che tanto piace agli abitanti di Madeira che nell’ottobre scorso l’hanno rieletto per altri quattro anni, anche se soltanto con il 48 per cento delle preferenze: il peggior risultato dei suoi 33 anni al governo. © The Daily Telegraph


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