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ISSN 1827-8817

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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

he di cronac

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 14 APRILE 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

È proprio in questo momento di crescita esponenziale dell’antipolitica che occorre rilegittimare le diverse formazioni

Il mediagrillismo Ormai anche per l’informazione l’unico partito buono è quello morto Se riducono i parlamentari si grida: «Solo 200!». Se finalmente scelgono la trasparenza si contesta: «Intesa al ribasso!». Qualsiasi cosa facciano non basta mai. Raccontiamo un fenomeno pericoloso PARLA UGO VOLLI

CONSIGLI AL TERZO POLO

«Il vizietto della stampa italiana: distruggere»

Centristi state attenti, non confondetevi con tutti gli altri

Torna la “Questione Settentrionale”

di Francesco Lo Dico

di Enrico Cisnetto

e c’è dietro la mania di chiedere sempre di più? Il sociologo Ugo Volli non ha dubbi: «Dire che qualunque cosa andrebbe fatta diversamente, equivale a rilanciare di continuo l’asta del malcontento perché tanto non costa nulla. Ma alzare l’asticella è un modo per tirarsi fuori dal merito di ciò che andrebbe fatto per rifugiarsi nella rabbia e nelle accuse. E in una situazione di malcontento e difficoltà come la nostra, l’atteggiamento disfattista prende piede facilmente»

e io fossi Pier Ferdinando Casini, mi sgancerei dall’accordo sul finanziamento ai partiti raggiunto da quelli attualmente rappresentati in Parlamento e avanzerei una proposta autonoma e diversa. Ho l’impressione che se c’è una chances per chi sta dentro il recinto della politica di uscir vivo dai prossimi appuntamenti elettorali, essa passa dalla capacità di auto-rappresentarsi agli occhi degli italiani in modo distinto e distante dal resto della “politica militante”.

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Il Nord orfano della Lega: chi andrà al posto di Bossi & Co.?

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Dopo l’espulsione di Rosi Mauro e di Francesco Belsito, Maroni ha detto: «Pulizia è stata fatta». Ma forse per tutti i problemi continuamente irrisolti della zona trainante dell’economia del Paese, un solo colpo di scopa non basta. Un militante leghista della prima ora spiega perché. E come andrà a finire

La complicità Un sondaggio della Swg accredita a Grillo il 7,2% dei consensi (anche se il non-voto è al 50%): i media capiscono che stanno costruendo l’ideologia di questo scenario?

Giuseppe Baiocchi • pagina 6

GLI EQUIVOCI

I VALORI

Se il metodo Di Pietro diventa nazionale

Finanziamenti, la demagogia non aiuta il riformismo

Piazza Affari perde il 3,4%

di Giancristiano Desiderio

di Francesco D’Onofrio

ggi difendere i partiti non è facile. La democrazia, che è un portato della storia e non della natura, non vive senza i partiti. Si potrebbe dire che i partiti sono il prezzo della democrazia, sia dal punto di vista delle istituzioni sia dal punto di vista delle (nostre) tasse e tasche. Oltre ad esserne il prezzo, i partiti dovrebbero essere anche il valore aggiunto della vita democratica ma in Italia, purtroppo, si vede bene quale sia il costo dei partiti ma non si vede il valore aggiunto.

e clamorose vicende degli ultimi giorni hanno fatto riemergere con forza il tema del finanziamento pubblico dei partiti politici. Non si tratta soltanto del se e del quanto del finanziamento pubblico ai partiti politici in quanto tali, perché al fondo la questione concerne proprio la natura stessa di quelle particolari associazioni che sono i partiti politici. Non si tratta di una questione solo economica, perché si tratta in sostanza del rapporto tra potere pubblico e diritti privati.

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

Il ricatto Di Pietro e Vendola ieri hanno tuonato contro ogni ipotesi di accordo sulla riforma elettorale: il Porcellum garantisce loro la possibilità di tenere in scacco ogni maggioranza!

• ANNO XVII •

I mercati assediano le banche. Un altro venerdì nero per le Borse Ennesima giornata di fibrillazioni internazionali. Napolitano durissimo con evasori e speculatori: «Sono indegni della parola Italia». Il governo si prepara ad affrontare il nodo della crescita (martedì vertice ad hoc con i leader) e intanto vara la riforma della Protezione Civile: 5 cent sulla benzina per finanziarla Francesco Pacifico • pagina 8

NUMERO

73 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 14 aprile 2012

il mediagrillismo

Gli equivoci che si nascondono nell’antipolitica

Stile Di Pietro, un vizio nazionale? di Giancristiano Desiderio ggi difendere i partiti non è facile. La democrazia, che è un portato della storia e non della natura, non vive senza i partiti. Si potrebbe dire che i partiti sono il prezzo della democrazia, sia dal punto di vista delle istituzioni sia dal punto di vista delle (nostre) tasse e tasche. Oltre ad esserne il prezzo, i partiti dovrebbero essere anche il valore aggiunto della vita democratica ossia quella lotta di interessi e idee che rinvigorisce le istituzioni, ricambia le classi dirigenti, rinfresca l’aria. In Italia, purtroppo, si vede bene quale sia il costo dell’esistenza dei partiti ma non si vede il valore aggiunto. Così può farsi strada l’idea dell’inutilità dei partiti e se una cosa è inutile, cioè non serve a niente, si può anche eliminare. Peccato che i partiti non sono solo utili o inutili ma anche necessari. La loro eliminazione è subito rimpiazzata da qualcos’altro. Cosa? Dall’Antipartito.

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Antonio Di Pietro si sta dando da fare per togliere di mezzo qualsiasi forma di finanziamento pubblico dei partiti politici. Le sue ragioni corrispondono ai torti di chi, nei partiti ha usato soldi pubblici per le truffe, le fatture false, i bilanci farsa, le vacanze, i ristoranti, gli alberghi, i jet e tutte le cose che apprendiamo dalle cronache dei giornali e telegiornali. L’ex pubblico ministero del pool di Mani Pulite deve la sua notorietà popolare prima e la sua carriera politica poi proprio al finanziamento pubblico dei partiti. Oggi Di Pietro non è più in Procura ma in Parlamento ma sa che puntando dritto al cuore del finanziamento pubblico dei partiti riuscirà a cavalcare la tigre ed a primeggiare, ma solo fino a quando non arriverà un Cavaliere più abile e facoltoso che, proprio come accadde la prima volta, lo disarcionerà e cavalcherà la tigre in solitudine. La differenza rispetto al passato sta proprio qui: dopo l’Ottantanove e dopo la Bufera ci fu comunque un sistema di partiti che, storto morto, sopravvisse, mentre oggi i partiti, disancorati come sono dalla società italiana, rischiano di uscire di scena e con essa va via anche la signora democrazia. È una situazione intricata dalla quale si viene fuori solo con regole semplici. Se chi guida i partiti - e penso soprattutto all’Abc della politica - ne vuole dimostrare il valore ed evidenziare la necessità democratica, allora, dovrà con serietà e responsabilità ridurne il prezzo. Ridurne il prezzo significa che i rimborsi (limitati) devono essere solo rimborsi, i bilanci devono essere certificati, i controlli effettuati dalla Corte dei conti e le multe comminate. Questa strada non ha alternative. L’unica esistente è quella dell’Antipartito dipietrista che porta fuori strada. La demagogia dell’ex pm è pericolosa per tutti. La contraddizione che domina la demagogia dipietrista è visibile in quell’esistenza del Partito dell’Antipartito che è di fatto l’Idv. L’ex poliziotto pensa che l’unico partito che abbia valore sia il suo, mentre gli altri sono solo un prezzo di cui fare a meno. Il Partito dell’Antipartito è non solo l’Anticamera ma anche l’anticamera della fine della democrazia. Ormai, dopo il fallimento della Seconda repubblica, lo sappiamo per esperienza storica e non per sola teoria. Tuttavia, chi ha in mano il destino della vita democratica è l’Abc. Scelga.

L’auto-riforma dei partiti andrebbe incoraggiata, non snobbata come un diversivo

I media a 5 stelle Anche i grandi giornali (e i commentatori) alimentano il disfattismo. Ma senza la democrazia parlamentare resta solo il populismo. Che non risolve i problemi di Riccardo Paradisi er avere un’idea di quale sia il livello di credibilità dei partiti presso gli italiani – se non dovesse bastare l’inchiesta che due settimane fa registrava un residuo 5% di fiducia nelle forze politiche – basta dare un’occhiata al sondaggio pubblicato ieri dalla Swg. Dal quale risulta che il partito del non voto è al 49,9% - una coalizione di agnostici: 31,7% e astenuti: 18,2% – che avrebbe, questa si, la maggioranza assoluta del consenso. Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo è dato addirittura al terzo posto, nel sondaggio Swg, attestato dopo Pdl e Pd a oltre il 7%. Un italiano su due insomma sarebbe orientato all’astensione, una pulsione condita da dosi massicce di disprezzo e di rancore.

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Date queste premesse ragionare oggi dei partiti sine ira rischia di apparire una provocazione, un gesto paragonabile a quello di chi sostiene che il capo dei capi di Cosa nostra Bernardo Provenzano dovrebbe godere dei benefici di legge dovuti a gravi motivi di salute. È evidente che ci si espone ad ogni accusa e ad ogni sospetto. Eppure proprio in questo momento di credibilità zero dei partiti politici, di crescita esponenziale dell’onda antipolitica, di svuotamento di sovranità dei parlamenti da parte di organismi sopranazionali e dal ricorso necessario a governo tecnici, proprio in questo mo-

mento sarebbe necessaria una riflessione equanime, realista e serena sulla funzione dei partiti politici e sulla loro necessità. Sulla loro decisività nel garantire il gioco democratico, la rappresentanza degli interessi della società civile e delle categorie. E passi che a questa riflessione non diano un contributo Beppe Grillo o Antonio di Pietro, i corifei più noti dell’antipolitica di cui hanno fatto il loro brand ma insomma che al massimalismo terminatorio, all’accusa generalizzata, si associno anche autorevoli commentatori, grandi quotidiani borghesi e moderati, come si sarebbero chiamati una volta, settori qualificati della società civile lascia quantomeno perplessi. È

il caso infatti - ci si potrebbe chiedere, rischiando di passare per ingenui - di assecondare l’onda populista che rischia di travolgere insieme a partiti male in arnese un modello di democrazia rappresentativa dopo la quale s’aprirebbero solo delle derive? Dopo la quale cioè s’aprirebbero gli scenari di una democrazia elitaria o, peggio, di una democrazia populista che è quella che abbia-


il mediagrillismo

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La demagogia non aiuta il riformismo Anche su finanziamenti e trasparenza, non si possono mettere tutti sullo stesso piano di Francesco D’Onofrio e clamorose vicende degli ultimi giorni hanno fatto riemergere con forza il tema del finanziamento pubblico dei partiti politici. Non si tratta soltanto del se e del quanto del finanziamento pubblico ai partiti politici in quanto tali, perché al fondo la questione concerne proprio la natura stessa di quelle particolari associazioni che sono i partiti politici. Non si tratta di una questione esclusivamente o anche prevalentemente economica, perché si tratta in sostanza del rapporto tra potere pubblico e diritti privati. Non occorre infatti riandare all’Ottocento per scoprire che sul tema dei partiti politici si sono svolte le più significative indagini sociologiche, economiche, politiche e giuridiche. Queste concernevano proprio i nuovi soggetti politici che stavano pian piano sorgendo ed affermandosi sempre più quali strumenti per la conquista e l’esercizio del potere locale e nazionale. Affrontare pertanto la questione del finanziamento dei partiti politici deve costituire oggetto di un dibattito ampio e largo sul potere oggi in Italia. L’analisi storica degli ultimi due secoli ci insegna infatti che non esiste in nessuna parte del mondo una idea unica di partito politico. Anche senza voler andare ad analisi rigorose dell’esperienza britannica o di quella francese o di quella tedesca o di quella spagnola o di quella italiana, si finisce infatti con il rilevare l’intreccio complesso che esiste tra partiti e Stato da un lato, tra partiti ed organizzazioni economiche della società dall’altro, tra partiti ed esperienza religiosa dall’altro ancora. In questi complessivi e fondamentali intrecci risiede la ragione ultima del fatto che non esiste una idea unica di partito politico, ma idee diverse di partiti politici, proprio perché la conquista e l’esercizio del potere costituisce l’essenza stes-

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sa del partito politico. E, come è noto, l’una e l’altro sono stati e sono obiettivi molto diversi delle esperienze concrete dei partiti politici europei. Occorre pertanto operare nel contesto di quel che accomuna comunque tutti i partiti politici, anche a prescindere dalle diversità riscontrabili tra di essi. È a questo punto che viene in gioco la questione del rapporto tra democrazia e partito politico.

Si afferma ripetutamente che il finanziamento pubblico dei partiti politici è teso ad impedire che siano gli interessi privati organizzati a determinare anche la struttura e il funzionamento dei partiti politici, laddove dovrebbero essere proprio essi capaci di determinare persino gli obiettivi cosiddetti “generali”, alla stregua dei quali dovrebbero essere composti i diversi interessi “particolari” economicamente rilevanti. È a questo punto che viene in gioco non più soltanto il finanziamento pubblico dei partiti politici, ma l’estensione stessa del potere che essi esercitano una volta che abbiano conquistato in prima persona – o almeno pro-quota – il potere nelle istituzioni locali e nazionali. Il finanziamento dei partiti politici deve pertanto tenere conto anche della estensione di questo potere locale e nazionale, che si è tradotto sempre più nel potere di nomina dei componenti non solo degli organi di governo locali e nazionali in senso stretto, ma anche della svariata congerie di istituzioni comunque collegate agli organi di governo locali e nazionali. In tempi di crescente crisi della produzione e del lavoro, quali sono i tempi che anche l’Italia sta vivendo (come dimostrano anche i drammatici suicidi per motivi economici ai quali stiamo assistendo), risulta sempre più evidente che finanziamento pubblico dei partiti e co-

mo assaggiato negli ultimi anni ma che potrebbe mostrare volti ancora più estremi nei prossimi?

Dai media qualificati, dagli autorevoli commentatori, dai grandi giornali che una volta si sarebbero chiamati moderati e borghesi, ci si attenderebbe piuttosto un’opera pedagogica, impopolare e controcorrente, che non scontasse nulla a una partitocrazia parodistica, crepuscolare e cialtrona ma che pure indicasse i rischi delle alternative al sistema rappresentativo dei partiti. Certo a quest’opera di contenimento degli spiriti animali dell’antipolitica i primi a contribuire, se non altro per un istinto di sopravvivenza, dovrebbero essere proprio i partiti politici. Recuperando almeno il senso della decenza e del ridicolo, uscendo da quella presunzione di superiorità e di impunibilità novecentesca che, complici le ideologie, avevano reso gli apparati politici delle chiese-stato, i loro dirigenti degli arconti, i loro organismi paragonabili alle gerarchie ecclesiastiche, i loro congressi solenni liturgie e conclavi. Un mondo che non esiste più, spazzato via dalla storia degli ultimi trent’anni ma che sembra sopravvivere nelle pose di alcuni dirigenti attuali, terze file di vecchi partiti in cui hanno però subito l’imprinting. Ora qualcuno in questi partiti – i più avveduti o quelli che conservano un istinto

sto complessivo della politica sono sempre meno accettati dai cittadini singoli o associati che siano, quali che siano i fattori costitutivi della spinta ad organizzarsi in partiti politici per la conquista del potere. L’intreccio sempre più evidente tra le affermazioni della sovranità popolare da un lato (referendum compresi), e quella sorta per così dire di circolazione extracorporea dei partiti politici medesimi dall’altro rende ormai indilazionabile una decisione complessiva che ovviamente non può limitarsi agli aspetti puramente esteriori alla vita dei partiti politici medesimi.

Il richiamo all’articolo 49 della Costituzione deve necessariamente tener conto sia delle ragioni che indussero i costituenti ad affermare questo articolo quale parte essenziale dei diritti dei cittadini, sia delle ragioni fortemente politiche che fino ad ora hanno concorso a non far disciplinare il soggetto partito politico persino nello spirito del minimo comun denominatore che li concerne, sia a definire per un tempo ragionevolmente lungo la quantità di risorse pubbliche complessive che si devono chiedere agli italiani perché vivano in una democrazia articolata in partiti politici. Gli avvenimenti di questi giorni possono dunque rappresentare una occasione da utilizzare per una adeguata riflessione complessiva sul rapporto tra il finanziamento dei partiti politici e il costo della politica in un Paese di democrazia occidentale matura.

di sopravvivenza - comincia ad accorgersi che una società moderna e dinamica non è più disposta a concedere nulla a una partitocrazia molesta e machiettistica; a capire che se i vecchi partiti politici non vengono radicalmente e urgentemente riformati verranno semplicemente spazzati via. Nella bozza di riforma immaginata dalle forze politiche che sostengono il governo Monti ci sono tra le altre cose l’attuazione dell’articolo 49 a tutela delle minoranze e della democrazia interna ai partiti, la trasparenza sui finanziamenti e dei bilanci interni ai parti-

ti, la certificazione affidata a società esterne e la diminuzione dei rimborsi elettorali: un primo passo, non piccolo, nella direzione d’una più ampia riforma della politica.

Un passo a cui ne dovrebbero seguire altri a cominciare dalla reale apertura dei partiti alla società civile, dalla disarticolazione di oligarchie incrostate che hanno trasformato le forze politiche in aziende padronali o satrapie personali, ma che andrebbe incoraggiato e registrato co-

me positivo, invece che essere semplicemente derubricato come un diversivo. Ha ragione Rosy Bindi a dire che «il pericolo vero di questo momento sarebbe inchiodare il Paese ad un’alternativa tra populismo e tecnocrazia, tanto più che l’Italia è più incline di altri a questo rischio come la storia ha dimostrato». Il finanziamento pubblico ai partiti è necessario? Bindi lo preferisce a quello privato «il quale anche il più trasparente è comunque una forma di condizionamento della politica di un partito a delle lobby, come in America». Se ne può discutere, certamente, ricordando però che ognuno è il prodotto della propria storia e la storia continentale ha sempre previsto dei partiti strutturati, più espressione di idee e interessi sociali che non puri epifenomeni di cordate e lobby economiche. Certo appare paradossale come l’ex pm Antonio Di Pietro, che si prepara a tuffarsi nella battaglia referendaria per l’abolizione totale del finanziamento ai a partiti, sia anche il più deciso portavoce del lamento per la deriva tecnocratica del Paese, per l’invadenza e lo sfondamento della finanza nei processi decisionali, per il commissariamento della politica e dei parlamenti. Senza rendersi conto, o senza volersi rendere conto, che dopo le democrazia parlamentari e i partiti politici che ne sono l’ossatura, vengono i commissariamenti sovranazionali o, peggio, le elite tecnocratiche e finanziarie.


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il mediagrillismo

Il semiologo commenta la diffidenza dei media: «Si boccia qualunque provvedimento perché si pretende la ghigliottina»

I distruttivisti

«C’è sempre qualcuno pronto ad approfittare del lavoro degli altri... pronto a dire che tutto può essere fatto meglio... l’importante è evitare accuratamente ogni responsabilità». Fenomenologia del ”mediagrillismo” secondo Ugo Volli ROMA. La caccia al reprobo leghista ha sguinzagliato i sani istinti del cronista nella palude delle molte opacità covate per anni in seno ai partiti. Ma il clima arroventato che si respira sui media in questi giorni, rischia di travolgere a priori i tentativi, seppure tardivi, di porre rimedio alla disinvolta gestione del tesoro di cui hanno dato prova Lusi e Belsito. Nel mirino di molti commentatori, è finito per ultimo l’emendamento sulla trasparenza dei bilanci concordato da Alfano, Bersani e Casini, e poi bocciato dalla presidenza della Camera perché incompatibile con il decreto fiscale. Una normativa che i tre segretari hanno ora inviato alla commissione Affari costituzionali sotto forma di disegno di legge da approvare rapidamente in sede legislativa, che però ha acceso le ire di quanto lo ritengono soltanto uno stratagemma per lasciare le cose così come sono. Aspre critiche arrivano alla coalizione Monti anche sul versante delle riforme istituzionali, e in particolare sulla legge elettorale, reputate anche queste come soluzioni di co-

di Francesco Lo Dico modo, del tutto inadeguate a produrre un reale cambiamento.

Ma davvero è tutto da buttare, o si può per lo meno intravedere un segnale di buona volontà dietro il faticoso lavorio che ha prodotto finalmente dopo vent’anni di vuoto qualche disegno di legge concreto, e soprattutto condiviso? «Il meglio è sempre nemico del bene», dice a liberal Ugo Volli, docente di Semiotica all’università di Torino. «Dire che bisogna fare di più, che non basta mai, che qualunque cosa andrebbe fatta diversamente, equivale a rilanciare di continuo l’asta del malcontento perché tanto non costa nulla. Ma alzare l’asticella è un modo per tirarsi fuori dal merito di ciò che andrebbe fatto per rifugiarsi nella rabbia e nelle accuse. E in una situazione di malcontento e difficoltà come quella che sta attraversando il Paese, l’atteggiamento disfattista prende piede facilmente». Della legge sulla trasparenza dei rimborsi, è stata molto contestata, in particolare, il rinvio dell’ultima

rata dei rimborsi elettorali, 100 milioni in totale, che saranno versati ai partiti il 31 luglio. Ed è assai discussa anche la proposta di affidare a una Commissione composta dal presidente della Corte dei Conti, dal presidente del Consiglio di Stato e dal primo presidente di Corte di Cassazione il vaglio dei bilanci, in quanto le eventuali sanzioni riscontrate non scatterebbero in automatico, ma soltanto dietro parere favorevole dei presidenti di Camera e Senato. «Il malcon-

«Molti media attaccano i partiti nella speranza di colpire Monti»

tento è per sua natura estremista», annota Ugo Volli, «e spesso si esagera perché nonostante la medicina di Monti sia molto amara, il Paese non si è rivoltato come è accaduto in Grecia. Così che molti cittadini, giornali e forze politiche che non appoggiano il governo tecnico, hanno scelto di battagliare a prescindere contro il cosiddetto esecutivo dei banchieri».

Ma sarebbe ingenuo credere che i rivoltosi coincidano tout

court con gli oppositori di Mario Monti. Buona parte dell’elettorato del Pd e del Pdl è in subbuglio per ragioni uguali e opposte. Ed entrambi soffrono di notevoli questioni morali, finora irrisolte, che indignano la famosa base. «Più in generale, in questo momento i cittadini guardano al sistema politico con enorme diffidenza», chiosa il semiologo, «perché sono stanchi della casta, dei privilegi, delle ruberie e dell’infinita serie di scandali che ha coinvolto trasversalmente tutto il Parlamento. Il sistema delle comunicazioni intercetta questo disagio di massa perché sa bene che il pubblico ha bisogno di dare contorni definiti alla sofferenza sociale. E dai media ai cittadini, il malumore rimbalza soprattutto nei social network, dove la rabbia verso il potere assume spesso connotazioni truculente». Oportet ut scandala eveniant. È bene che gli scandali avvengano e che ricevano gli spazi informativi che meritano. Ma spesso accade che nella piena si lascino correre via anche gli sforzi riformisti


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Casini e il Terzo Polo sono gli unici a potersi proporre come i fondatori della Terza Repubblica

Centristi state attenti, non confondetevi con gli altri

Si sta preparando un’ondata simile a quella del 1992: chi non la merita, deve cambiare rotta immediatamente per non farsi travolgere di Enrico Cisnetto e io fossi Pier Ferdinando Casini, mi sgancerei dall’accordo sul finanziamento ai partiti raggiunto da quelli attualmente rappresentati in Parlamento e avanzerei una proposta autonoma e diversa, molto diversa. Ho proprio l’impressione, infatti, che se c’è una chances per chi sta dentro il recinto della politica di uscir vivo dai prossimi appuntamenti elettorali, essa passa dalla capacità di auto-rappresentarsi agli occhi degli italiani in modo distinto e distante dal resto della “politica militante”. Non si tratta né di alimentare né di subire la tendenza, per molti versi pericolosa, del rifiuto della politica, che sta – per colpa di un ceto politico mediocre e ribaldo – imperversando nel Paese. Ma di prendere atto, questo sì, del livello di disgusto e rifiuto che i cittadini hanno e farci i conti prima che alle elezioni siano loro a fare i conti con i partiti – tutti, senza distinzione alcuna – negando il consenso ai soggetti esistenti e dando deleghe in bianco a chiunque, dicasi chiunque, abbia la possibilità di presentarsi come “nuovo”. Dunque, è proprio per scongiurare una nuova deriva “nuovista”, dopo quella dagli effetti devastanti del 1992-1994, che occorre fare in modo che chi abbia in mente un progetto di “ricostruzione”del Paese e si voglia intestare l’apertura di una nuova stagione politica virtuosa (la Terza Repubblica), venga percepito come “nuovo” anche se ha una provenienza antica.

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L’Udc prima e il Terzo Polo poi, hanno fin qui cercato di centrare questo obiettivo prendendo le distanze dal bipolarismo armato e per molti versi dall’intera esperienza della Seconda Repubblica. Fino a qualche tempo fa – cioè prima che il governo Monti aprisse una fase di discontinuità che speriamo sia propedeutica ad un cambio di regime politico – poteva essere sufficiente. Ma da quando gli italiani hanno scoperto che si può governare con altri mezzi e stile, aumentando così il loro distacco dai partiti esistenti, occorre una scelta più drastica. Bene essersi allontanati dalla contesa bipolare, benissimo aver favorito e sostenuto il governo della discontinuità, ma adesso c’è bisogno di un segnale più forte. E con l’aria che tira, dopo quanto è emerso con il “caso Lusi” e dentro la Lega – e quanto probabilmente ancora accadrà, un po’ ovunque, se i rumor che si sentono sono fondati – il punto su cui far leva è proprio quello del finanziamento dei partiti. Diciamo subito che quanto è emerso finora, decreto o disegno di legge che sia, non va per nulla bene. Sia per le modalità di controllo delle spese – basta con le authority, che inevitabilmente sono nominate da chi dovrà esse-

re controllato – sia per l’entità dei denari a disposizione. Ma soprattutto perché la normativa che in fretta e furia si vorrebbe adottare non incide assolutamente sia sul nodo fondamentale del finanziamento privato – e dunque sul rapporto affari-politica le cui distorsioni non sono mai state davvero affrontate fin dai tempi di Tangentopoli – sia sulla fisionomia dei partiti, che devono smettere di essere “personali” e tornare alla sana abitudine della partecipazione e delle regole democratiche. Come ha giusta-

Occorre dar vita subito a una forza nuova che rompa chiaramente con abitudini e valori passati

mente osservato Davide Giacalone, vicepresidente di Società Aperta, «l’obiettivo da raggiungere non è mettere sotto tutela la politica, ma liberarla». Per questo sono d’accordo con la sua proposta: abolire il finanziamento pubblico in denaro dei partiti, che deve invece essere affare dei cittadini in modo volontario, anche – io aggiungo, soprattutto – verso quelle formazioni politiche, associazioni e movimenti che non sono ancora rappresentati in parlamento ma intendo provarci; mantenere un finanziamento in servizi diretti (edifici, collegamenti telefonici e internet) e indiretti (spazi di comunicazione). Qualcuno aggiunge: rendiamo questi finanziamenti privati detraibili dalle imposte (non dall’imponibile), per esempio assegnando ad ogni contribuente che lo desideri un voucher anonimo per un ammontare pari all’1% dell’imponibile, che poi girerebbe al partito o movimento preferito, mantenendo intatta la privacy; mentre sarebbe obbligatorio rendere pubblici finanziamenti, non detassabili, di entità superiore.

Insomma, la chiave è: i partiti attuali sono delegittimati agli occhi degli italiani, il finanziamento pubblico – che io non demonizzo, per carità – serve a consolidare un esistente che invece deve essere superato. Perciò abolirlo in questo momento – magari per poi reintrodurlo un domani quando le cose saranno cambiate, certo con ben altre regole – è necessario al fine di favorire quella dialisi del ceto politico e delle sue forme di rappresentanza che gli italiani pretendono. E che se non verranno li vedranno costretti o ad astenersi o a dirottare i loro consensi su chi innalzerà la bandiera della protesta qualunquista. Ecco perché se io fossi Casini sceglierei questa strada. Non per il gusto di rompere con “A e B” (Alfano e Bersani), ma per costruire quella forza politica nuova di cui lui stesso parla da tempo come di una necessità inderogabile, sia come evoluzione di Udc e Terzo Polo, sia soprattutto per il bene del Paese che rischia di rimanere orfano di offerta politica adeguata sia per il palato dei moderati che dei riformisti. Naturalmente, questo passaggio non basta, una forza che voglia essere davvero nuova ha bisogno di un’inedita identità valoriale e capacità programmatica. Ma quello della ricostituzione del rapporto fiduciario con i cittadini, che si snoda tra ruolo e finanziamento dei partiti e restituzione del diritto di scegliere i propri rappresentanti, è il primo tassello, senza il quale tutto il resto sarebbe un inutile sforzo. (www.enricocisnetto.it)

messi in campo da Pd, Pdl e Udc per cambiare la legge elettorale, rompere il bicameralismo perfetto e far nascere una nuova legge elettorale. È vero. Giornalisticamente molto meno appetibili, ma altrettanto degni di essere divulgati ai cittadini. «In un clima del genere», commenta il professor Volli, provvedimento «qualunque che non sia la ghigliottina lascia tutti insoddisfatti e viene reputato come una presa in giro. Molta parte dell’opinione pubblica è per il momento disattenta a discorsi di scala e logiche riformiste. Prevale la diffidenza e l’ansia di punire i colpevoli con veemenza. E la stampa, come già accaduto nel caso di Repubblica quando era presidente del Consiglio Berlusconi, si presta facilmente al ruolo di agit prop, non fosse altro che per semplici questioni di marketing».

Se la rabbia violenta va censurata sempre e comunque, la diffidenza e la delusione sono fardelli che i partiti devono invece portare con buona pace, dopo un ventennio all’insegna della totale inconcludenza. Senza contare che l’indignazione popolare portò alla fine della Prima Repubblica e alla nascita di un sistema che allora sembrava nuovo, e che oggi risulta simile a quello vecchio che aveva promesso di abbattere. Che cosa c’è dietro quello che sembra il secondo epilogo della nostra storia repubblicana? «All’epoca di Tangentopoli covava uno sdegno molto più diffuso e ansioso di ricostruire l’Italia da zero», risponde Ugo Volli. «Allora la rottamazione della Prima Repubblica fu considerata conclusa con la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Oggi invece va detto che nel fuoco protestatario non si intravedono alternative credibili, soprattutto per quanto riguarda un nuovo orizzonte morale. Da Vendola al figlio di Di Pietro, dalla Lega a Penati, non c’è schieramento politico che possa rivendicare una leadership etica su cui ricostruire la politica. La rabbia dei cittadini consiste soprattutto nella drammatica assenza di offerta politica alternativa, nella impossibilità di un ricambio». Sarà forse per questo che buona parte della stampa, sempre ostica verso il Carroccio, adesso si sciolga in elegie commoventi verso quello che all’improvviso si scopre essere stato l’unico vero e nobile partito. «È un classico tic all’italiana. Il migliore è sempre quello che è morto, anche se in vita non destava commenti lusinghieri», spiega il professor Volli. «Ma attenzione», avverte, «la Lega è l’unico partito che sta dando ai suoi elettori piena soddisfazione». La trota che fa un passo indietro, è in effetti un esempio riformista pressochè impareggiabile.


a vicenda della Lega, i suoi tormenti e la mala gestione delle sue finanze tocca certo l’annosa questione dei costi della politica ma apre pure uno scenario in movimento sulle prossime scelte del Nord. Se l’emergere delle mediocri porcherie di tesorieri infedeli e parenti scialacquatori ha certamente abbassato l’immagine del Carroccio, il lavacro purificatore imposto da Maroni restituisce al partito un briciolo di prospettiva, anche perché il ruolo di unica opposizione parlamentare al “governo tecnico”consente l’opportunità per la Lega di farsi collettore del disagio, se non del rancore, di vasti ceti popolari e mediobassi che saranno “torchiati” dalle prossime stangate sulla casa oltre all’aumento generalizzato di bollette e consumi, benzina compresa. E per un partito dalle passioni forti e dalla scarsa diplomazia la liturgia delle scope e la catarsi della “pulizia” acquista un nuovo appeal, coinciso con le dimissioni dei Bossi, padre e figlio. Perfino l’uscita di scena del Trota (con la rinuncia ai 12000 euro al mese da consigliere regionale) conquista il rispetto, (se non l’invidia) di tutti gli altri partiti, alle prese con le proprie “pecore nere”(da Lusi a Penati ai tanti del Pdl) saldamente avvitate alle prebende e alla poltrona. Il Car-

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Tutti i sondaggisti preconizzano una flessione dei Lumbard alle amministrative e una ripresa di consenso nell’anno che ci separa dalle elezioni politiche

roccio è certamente malconcio dopo la deludente esperienza del governo con Berlusconi (e i tagli lineari di Tremonti ai tanti Comuni virtuosi amministrati dai padani) e gli scandali diVia Bellerio sull’uso “disinvolto” dei finanziamenti pubblici da rimborsi elettorali. Tuttavia non è un caso che tutti i sondaggisti ne preconizzino unanimemente una contrazione limitata e contingente dei suffragi e parimenti la possibilità di una ripresa di consenso nell’anno che ci separa dalle prossime elezioni politiche generali.

Piuttosto, da antico osservatore e testimone della parabola leghista fin dai suoi lontani esordi, chi scrive anticipa come la vera incognita che si prepara per l’ex ministro dell’Interno e il suo stuolo di “barbari sognanti” stia nella tenuta della coesione territoriale del movimento. Ovvero che le tensioni sotterranee tra le diverse componenti regionali possano riemergere prepotenti dopo che ormai vent’anni fa il rude e bizzoso genio politico del Bossi le aveva unificate sulla via completamente “laica”(e mai etnica o razziale) della lotta per lo smontaggio dello Stato e la sua ricostruzione in chiave federalista. La scommessa del “padanismo” non è probabilmente del tutto accantonata, anche se resta confinata nelle aree di provincia e nelle grandi ed articolate periferie del Nord: e tuttavia, anche se la Lega mostra ormai i segni di tante sconfitte riformatrici e di qualche tradimento dell’ideale originario nella quotidiana gestione del potere, non risulta consegnata al dimenticatoio della Storia. Semmai, proprio perché inadeguata al raggiungimento del suo obiettivo più ambizioso, ha comunque seminato sul territorio e in un vasto interclassismo sociale una insoddisfazione diffusa e profonda che non è esorciz-

Dopo la caduta (rovinosa) del Senatùr e famiglia

Il Nord orfano Chi prenderà il posto di Bossi e Co.? Le rabbie e le speranze dalle quali quasi trent’anni fa nacque il Carroccio sono ancora tutte lì. Qualcun altro dovrà intercettarle. Un ”antico osservatore” ci spiega chi e come di Giuseppe Baiocchi


politica

zabile con le accuse di razzismo e xenofobia. Perché tutte le ragioni che ne hanno visto il sorgere e l’affermarsi sono ancora lì, irrisolte e forse ancora più “marcite”. Il paradosso di questi mesi sta nel fatto di un governo al più alto tasso di“nordismo” quanto ad origine territoriale, a storie professionali, a culture di formazione e di impegno civile, (incentrato sull’asse Milano-Torino e l’evidente estraneità di una lobby mediatica come quella di Repubblica si manifesta al riguardo con tutto il suo malessere di potere perduto ) eppure meno sensibile alle esigenze, se non al “grido di dolore” dei ceti produttivi del Nord, massacrati insieme dalla crisi finanziaria, dalla sordità delle banche e dalla esplicita ostilità dell’apparato dello Stato.

A confermarlo, con la spietata eloquenza dei numeri, non sono agitatori in verde padano, ma studiosi dall’inappuntabile pedigree e di una dichiarata appartenenza alla sinistra politica. Il più noto, il sociologo Luca Ricolfi, ha dimostrato in maniera inequivocabile nel suo Sacco del Nord come da tre regioni settentrionali (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) partano ogni anno come minimo 50 miliardi di euro (con punte fino ad 80 miliardi) prelevate dai ceti produttivi e ingoiati dalla macchina infernale dello Stato. Non certo impiegati per stimolare lo sviluppo delle aree più sfortunate del Paese, ma per nutrire lo sterminato apparato delle alte burocrazie che, tenendo al guinzaglio la politica (tacitata con piccoli anche se sgradevoli privilegi), si autoalimenta e si automoltiplica in un sistema di totale impunità e di consumo parassitario della fiscalità generale. Tra il sovraccarico regolamentare degli adempimenti burocratici e le complicazioni e i ritardi delle giustizie civili,

amministrative, contabili e tributarie (con un costo annuo pari almeno a 3 punti di Pil) il carico parassitario diventa una zavorra sempre più pesante sull’economia del Paese, che non può più ricorrere, come ai tempi della lira, alle svalutazione periodica della moneta. E la crisi finanziaria, con il tormento dello spread , ha fatto venire al pettine tutti insieme i nodi irrisolti del debito pubblico e della spesa dello Stato. E monta, proprio tra i ceti produttivi del Nord (non solo imprenditori e artigiani, ma dipendenti privati e professionisti del terziario) il disincanto, se non l’evidente malumore contro l’incapacità anche di questo governo di tagliare la spesa pubblica e ridurre il debito, in modo da allentare la pressione fiscale che strozza l’economia e impedisce la crescita. C’è un intellettuale collettivo (che si presenta sotto il nome storico di Gabrio Casati) che con un libro e interventi sul web (in particolare sul sito de linkiesta.it) segnala la necessità di un qualche aggregato politico dall’impostazione nordista che riprenda a pretendere dallo Stato la fine dello spreco e dell’endemica inefficienza, perché l’economia «non può più permetterselo».

E ormai, di fronte alla involuzione che attraversa la Regione Lombardia, si innesca la speranza di un nuovo “Risorgimento lombardo”, lanciato da Piero Bassetti, il politico e intellettuale che l’anno scorso ha lucidamente ispirato e promosso la rivolta “arancione” che ha portato all’inatteso successo di Pisapia a Milano. Ed è Bassetti che sostiene da anni la necessità, soprattutto a sinistra, di “un partito del Nord” che non solo contrastasse la rappresentanza quasi esclusiva affidata al duo Berlusconi-Bossi ma costruisse una alternativa credibile di coraggiosa e moderna riforma dello Stato. Ma in passato tutti i tentativi di un “Pd del Nord”, disegnato ad esempio pri-

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ma da Massimo Cacciari e poi da Sergio Chiamparino, si sono regolarmente infranti di fronte all’inerzia del Palazzo e al centralismo strutturale dei partiti romani.

Con il pratico commissariamento dell’Europa (tale ormai viene interpretato il governo Monti, non solo al suo insediamento ma nella sua azione di questi mesi) si apre una finestra temporale fino alle prossime elezioni dove chi ha più filo ha molto da tessere. Perché nulla è dato più per scontato, la situazione è tutta in movimento e, paradossalmente, quanto più si accentua la sfiducia complessiva nei partiti, tanto più si nota nelle città un fervore di iniziative propedeutiche all’impegno politico. Infatti la disillusione sul recente passato si accompagna alla chiara comprensione

La situazione è tutta in movimento e, per paradosso, quanto più si accentua la sfiducia nei partiti, tanto più si nota un generale fervore simile all’impegno politico della necessità di rappresentanza democratica: e l’arcipelago di sigle, di cenacoli intellettuali, di gruppi di pressione testimonia una vitalità sommersa non ancora intercettata dal sistema mediatico consolidato. Anche i social-network e le comunità virtuali sul web appaiono alla ricerca di canali di rappresentanza politica in una forma e in una insistenza che sembra smentire l’immagine della disaffezione collettiva. Con il collegamento più stretto all’esperienza del vissuto territoriale e il bisogno di esprimere interessi vuoi generazionali vuoi di ceto sociale meno universali e più localizzati. Tra questi fermenti si gioca la futura partita del Nord, dove non manca il coinvolgimento emotivo, ad esempio per il numero crescente di piccoli imprenditori suicidi perché abbandonati dalle banche

e ingannati dallo Stato che non paga mai i suoi conti in tempi civili. Anche questi episodi diventano rivelatori, più di tanti dibattiti televisivi, dell’incapacità non solo delle forze politiche ma addirittura delle istituzioni di dare risposte efficaci e persuasive, le uniche in grado di ristabilire il rapporto di fiducia tra governanti e governati. Così pure sfugge al Palazzo la progressiva disillusione verso l’Europa, sentita sempre più come un esoso gendarme piuttosto che una opportunità di salvezza e di crescita.

Le tensioni sulla moneta e sulla sopravvivenza di Eurolandia, come l’altalena delle Borse, lasciano intravedere nel futuro scenari inquietanti. In molti ambiti si parla già dell’esito della crisi verso una “doppia moneta”, forte per il Nordeuropa, debole per i paesi mediterranei. E il Nord Italia si trova già e sicuramente si troverebbe in mezzo al guado. Con un sistema produttivo e un assetto sociale omogeneo alle nazioni transalpine e una macchina pubblica costosa e inefficiente che lo trascinerebbe verso un ineluttabile impoverimento. Tra un anno, e cioè al momento del voto, molte cose saranno più chiare: ma con la crisi del Pdl e il lento sciogliersi del suo blocco sociale, il Nord è terreno privilegiato, se non esclusivo, della sfida politica decisiva. Dove la competizione per il consenso sarà certamente più difficile e (magari con un nuovo sistema elettorale) del tutto inedita e con motivazioni forti ancora da inventare. E se i partiti nazionali (tutti !) non si danno una mossa e non organizzano una proposta specifica per il Nord, rischiano di restare rinchiusi nel recinto romano e di lasciare campo libero non solo ai movimenti protestatari, ma , come vent’anni fa, a una Lega in formato 2.0.


politica

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Il differenziale tra Btp e Bund a 382 punti, Piazza Affarui perde il 3,43%. Ma è l’Europa nel mirino della speculazione

L’assedio dello spread

Martedì il premier vede i leader dei partiti per discutere di crescita. Ma intanto avverte: difficile difendere un Paese spesso inadeguato di Francesco Pacifico

ROMA. Lunedì il governo aggiornerà le stime sulla crescita. E se è certo un ribasso – si parla di una riduzione tra il 1,3 e il 1,5 per cento del Pil per il 2012 – aumentano anche le scommesse su una nuova manovra per centrare il pareggio di bilancio nel 2013, come concordato in Europa. Da Palazzo Chigi smentiscono l’ipotesi. Ma è Pier Luigi Bersani, il leader del secondo partito della coalizione, a dichiarare senza mezzi termini: «Senza contenere la recessione tenere a posto i conti diventa un esercizio molto, molto difficile». Mario Monti – ospite della Protezione civile – getta acqua sul fuoco: «Sono un volontariato chiamato dal Capo dello Stato per la messa in sicurezza del Paese. Di un sistema Paese spesso inadeguato perché frammentato». Mentre Giorgio Napolitano si scaglia – nel giorno in cui PIazza Affari perde il 3,4 per cento – contro «l’Italia della speculazione edilizia e dell’evasione fiscale», che «non merita di essere associata alla parola Italia».

Ai più pessimisti bastano due semplici considerazioni per temere il peggio. Innanzitutto il crollo della produzione industriale a febbraio (-0,7 per cento mensile, 6,8 a livello annuo). E siccome il centrostudi di Confindustria fa sapere che a

marzo non ci sarà rimbalzo, c’è chi ipotizza un calo del Pil tra lo 0,6 e lo 0,7 per cento nel primo trimestre, difficilmente recuperato in corso d’opera. Se non bastasse, ecco i mercati che tornano a scommettere contro l’Europa: a vendere al ribasso i titoli di Stato dei Piigs e a incassare forti plusvalenze grazie a Cds, ai contratti assicurativi sui rischi di fallimento. Ieri, a metà giornata, lo spread tra il nostro decennale e il Bund tedesco è balzato da 361,8 a 382 punti base. Lontano dai giorni nei quali

re: «Incontro sulle questioni della crescita? Io le chiamo più semplicemente: dare un po’ di lavoro, limitare e contrastare la recessione, perché invertirla sarà difficile». Ma è difficile invertire il trend perché l’Italia è finita stretta nella stessa morsa che sta strozzando tutta l’Europa. Alla base di tutto c’è un gap di fiducia, quella dell’America e degli emergenti, del Fondo Monetario e dell’Ocse, che hanno chiesto al Vecchio Continente di trovare risorse per la crescita e che per tutta risposta si sono

Frena l’industria. Ammette Corrado Passera: «Dobbiamo spingere sullo sviluppo, perché cresce il disagio sociale». Intanto Roma è presa d’assalto dai sindacati in difesa degli esodati. Rateizzata l’Imu sembrava credibile un default della Grecia – quando lo spread sopra i 500 punti ci è costato secondo il Fmi 16 miliardi di euro in più in termini di servizio al debito – ma comunque in grado di mettere allentare re il firewall previsto dal Tesoro contro la speculazione. Cioè gli 8,2 miliardi già inseriti nel Def per questa voce. Per tutto questo martedì Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini vedranno Mario Monti. E gli obiettivi non sono dei più ambiziosi se il leader del Pd fa sape-

trovati il rifiuto della Germania ad ampliare la stazza del Fondo Salva Stati e la Bce a imporre alle economie più a rischio nuovi interventi di bilancio. Con la Cina che indietreggia (è cresciuta “soltanto” dell’8,1 per cento) anche per il crollo delle vendite nella Ue, la speculazione dà quasi per scontato il fallimento della Spagna. Madrid, infatti, non ha convinto con le sue riforme e sta in piedi soltanto grazie a 227,6 miliardi (160 dei quali spesi per il proprio debito) presi in prestito all’1 per cento dall’Eurotower.

Così ieri lo spread tra Bonos e Bund è volato a 418 punti (con un rendimento medio del 5,9 per cento), mentre viaggia stabilmente sopra la soglia dei 400 punti, mentre i Cds toccano la quota record di 505 punti.

Questo scenario fa ammettere al ministro dello Sviluppo, Corrado Passera: «Il governo ha un’urgenza fondamentale, accelerare il ritorno alla crescita perché il disagio sociale e occupazionale è di gravissima serietà». A dargli ragione la manifestazione indetta a Roma dai sindacati contro la riforma delle pensioni e in difesa degli esodati. Come ha notato il sindaco Gianni Alemanno, non certo un iscritto alla Cgil, «erano attese 5mila persone e ne sono arrivate invece 25mila». Per frenare questo clima le forze di maggioranza hanno deciso un emendamento nel decreto fiscale per rateizzare il pagamento dell’Imu, infischiandosene delle critiche dell’Anci. Una scelta che – come il rallentamento degli aumenti energetici – rischia di rivelarsi un palliativo mentre corre la benzina. Non a caso ieri l’Istat – nell’ultima rilevazione sull’inflazione – ha comunicato che a fronte di un dato complessivo stabile (+3,3 per cento), hanno registrato sostanziali aumenti le voci pane e pasta, caffé, zucchero e vino.

L’ira di Napolitano

«L’evasione indegna dell’Italia» ROMA. Complice la platea – quella degli Stati generali della Protezione civile – il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha lanciato un duro monito al Paese: «Non contrappongo l’Italia della solidarietà e del volontariato a quella della speculazione edilizia o dell’evasione del fisco perché queste ultime, per quanto diffuse, non meritano di essere associate alla parola Italia». Ieri, intanto, il governo ha approvato in via preliminare la riforma della Protezione civile. Tra le novità il passaggio dell’ente sotto l’egida di Palazzo Chigi (superando il concerto con il ministro dell’Economia) e l’aumento immediato e obbligatorio dell’accisa sui carburanti per supplire all’eventuale esaurimento del fondo spese impreviste”. «Un’altra riforma strutturale», ha commentato Monti.


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Una volta spettava a Jean Austen narrare dei moti del cuore e ad Alexandre Dumas scrivere di guerre e d’avventure. Ma ormai le carte e i ruoli si sono mischiati e oggi sono sempre più numerosi gli scrittori che s’immergono in universi emozionali. Specialmente familiari…

INTIMISMO AL MASCHILE di Pier Mario Fasanotti

li uomini scrivono romanzi d’avventura e di guerra, le donne scrivono romanzi d’amore e di famiglia. Questa è una delle più sbagliate linee di separazione tra un certo tipo di letteratura e l’altro, a seconda che sia maschile o femminile la mano che impugna la penna. Se forse valeva una volta, e si pensi a Alexandre Dumas e a Jean Austen, oggi le carte si sono mischiate. Tuttavia l’ossatura di questi «distinguo» permane nella tribù, che si fa sempre più minoritaria, di coloro che entrano in libreria. Ciò è dovuto all’enorme successo di alcune scrittrici, soprattutto straniere (molte spagnole come Clara Sanchez), che vivisezionano le dinamiche familiari e dipanano grovigli d’amore. L’impatto è forte e basta scorrere le classifiche dei libri più venduti. Ci sono però due «ma» di cui tener conto. Il primo è legato al fatto che aumenta il numero dei lettori-donne a grande discapito degli uomini. È un fatto incontestabile ormai: la navicella letteraria solca ancora i mari perché a gonfiare le vele sono le lettrici. Gli uomini sono in ritiro, oppure impigliati in scorribande in internet o imbesuiti da una tv di puro, anzi, mediocre intrattenimento.

G


intimismo al

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maschile

Monumento a una madre

to apparteneva a una giovanissima donna che non era ancora «sua madre». Si cerca un ricordo, per custodirlo nella cassaforte emotiva: «Ma il ricordo è personale, quando lo comunichi a un altro, non è più un ricordo (una figura): diventa una parola, quasi niente». Il marito di quella donna silenziosa e instancabile, Elena ma tutti la chiamavano Neni, s’affatica nella costruzione di un altare. In sua memoria. Ricordando anche ciò che riste, emozionante, narrativamente straordinario l’inizio Neni fece nel tempo aspro della guerra, di uno dei più grandi romanzi «familiari» della seconda ossia quando dette indicazioni sbagliate parte del Novecento: «La bara avanzava ondeggiando. Io al nemico e salvò un uomo. Il grumo depensavo a mia madre, mi sembrava giusto che la bara ongli affetti e delle abitudini familiari deggiasse: mia madre non aveva mai avuto un’andatura dritta, emerge nitidamente nella rievocazione era sempre piuttosto stanca, parlava poco mentre lavorava e dei gesti piccoli e quotidiani. L’ambiente ogni tanto smetteva per andarsi a sedere sotto le vigne, all’omè refrattario alle smancerie, ai barocchibra, senza fiatare, chinando la testa». Così Ferdinando Camon smi sentimentali e al gusto per l’espresin uno dei libro più riusciti, Un altare per la madre che oggi Garso. A tavola manca un piatto, quello delzanti ripropone a prezzo modico (121 pagine, 11,00 euro). Nel la madre. Il padre «borbotta senza for1978 l’autore veneto, che ambienta il doloroso recupero di memare parole… guarda il posto vuoto, domorie e radici nella campagna padovana, vinse con questo folve si sedeva mia madre. Quando mia gorante testo il Premio Strega. A differenza di Pier Paolo PasoDe Chirico, “Autoritratto con la madre” madre era viva, non guardava mai là. lini - come annotano i critici più attenti - Camon non pone a Qualche volta litigavano, ma di solito si confronto, e a scontro, la semplice e rude ruralità di un tempo, quello dell’immediato dopoguerra, con un presente nel quale i valori si sfaldano. ignoravano, ognuno pensava a sé. Dormivano ai due lati opposti del letto…». EleNo, Camon non sfiora l’analisi sociologica e nemmeno la polemica. Descrive e na «si pettinava i capelli a memoria», poi diventò bianca e allora «inventò un albasta, come osservò Luigi Baldacci, «il recupero dell’etica cristiana che è stata al- tro trucco: smise di guardarsi i capelli… diventò curva, e cominciò a ignorare il la base di quella civiltà e di quella cultura… lo scrittore ha capito o ha sentito che suo corpo tutto quanto, come se non ci fosse più». Ma c’era ed era dentro il marinon si poteva resuscitare l’immagine della madre trascurando quei valori di to, era dentro i figli. Ecco, non deve scomparire. E allora gli esseri rimasti in vita bontà che erano stati la regola naturale e quasi biologica di tutta la sua vita». E inalzano un altare: il padre lo fa con le mani armeggiando con il rame e le pietre, quella donna esile e curva per una vita intera ridiventa presenza quando muore, Camon con le parole. È un monumento all’amore. Se è vero che arriva sempre «il con marito e figli, ciascuno a suo modo, impegnati nel tentativo di disegnare il tempo in cui non si può più correggere niente», è altrettanto vero che quel nucleo suo profilo, esterno e interiore. Camon, assieme al fratello, sceglie la foto che cre- duro e dolce in mezzo alla fredda campagna del Nord scava dentro di sé, e non de migliore, va in un negozio specializzato per un ingrandimento, salvo poi ac- smette mai di farlo, per allargare lo spazio da riservare alla donna che era «la per(p.m.f.) corgersi che gli occhi della mamma sono quasi una luce e, soprattutto, quel vol- sona più forte in famiglia… ma cussì bella».

T

Il secondo «ma», che dà ragione allo scompigliar di carte è il fatto che donne scrittrici si misurano con temi un tempo tradizionalmente maschili. Qualche esempio. Melania Mazzucco, diventata molto nota con Vita (Rizzoli), nella sua ultima prova (Limbo, Einaudi) si misura con la guerra in Afghanistan. Sul versante giallo è da segnalare l’ottima prova di Bertuzzi (Il Francesca carnefice, Newton Compton), un thriller incalzante che ha ben ragione di collocarsi nell’ambigua e ombrosa provincia italiana. Senza dimenticare che due anni fa vinse il premio Campiello opera prima e arrivò seconda allo Strega Silvia Avallone con Acciaio (Rizzoli), romanzo di operai, belle ragazze e fabbriche impiantate nella plumblea Piombino.

In questo ultimissimo periodo sono gli uomini che danno prova di eccellenza nel trattare i cosiddetti temi delicati, connessi strettamente alle figure parentali e alle loro emozioni. Da qualche settimana è in testa alle classifiche il libro di Massimo Gramellini (Fai bei sogni, Longanesi), il quale ci coinvolge nella vicenda, straziante e misteriosa, della madre scomparsa, della madre (ma su questo tema voglio essere evasivo per non far dispetto al lettore) che rinuncia alla propria esistenza a favore di quella del figlio, a vantaggio di una verità dura ma liberante. Sul rapporto padre-figlio è di grande levatura il roanno V - numero 14 - pagina II

manzo del romano Edoardo Albinati, Vita e morte di un ingegnere (edito da Mondadori, di cui ha dato puntualmente conto su queste colonne Maria Pia Ammirati). È la scomparsa del genitore, come accade spesso oppure quasi sempre, che fa scoppiare l’affettuosa brama della ricostruzione: per capire, per non smarrire la figura che ci ha dato la vita, l’essere colpevolmente o solo distrattamente ignorato in vita, per riabbracciare con dolorosa e pietosa consapevolezza «quel papà» che come molti papà pareva sempre aver poco tempo e poche parole per i figli. Albinati, con linguaggio secco, preciso e puntuale anche quando si fa intimistico, mette insieme i tasselli di una personalità a lui nota, anzi notissima, ma solo in apparenza. Quella del padre ingegnere, appunto. L’autore in questo viaggio a ritroso, che diventerà delicatissimo e toccante nel periodo della malattia dell’uomo che pareva sereno e complice solo quando andava in vela col figlio, è spietato con se stesso nel senso che non si ripara, meglio, non si nasconde dietro borbottii giustificatori di banale psicologismo. Ammette: «Io mio padre non l’ho mai capito. Era un uomo spaventosamente ambiguo».

Ancora il padre, ancora la famiglia intesa come necessario perno dell’intera esistenza nell’ultimo romanzo di Marcello Fois (Nel tempo di mezzo, Einaudi). Una prova eccellente sul significato di quelle radici,

spesso occultate e non per colpa nostra, senza le quali il viaggio dell’esistenza pare solo un vagabondaggio o un insignificante spostarsi da un luogo all’altro, da una persona all’altra. Fois, con uno stile che poggia sulla puntualità espressiva ma anche su una sontuosità atta a delineare con precisione elegante un grumo significante, racconta di un giovane uomo, reduce dalla guerra in Russia, «macelleria dell’universo», al quale un notaio di Gorizia svela finalmente d’essere figlio di un sardo e non più di padre ignoto. Comincia così il viaggio da Trieste verso quella zattera di terra che è la Sardegna, lui straniero e con lingua quasi straniera, alla ricerca, nel nuorese, della famiglia originaria.

Sa finalmente di chiamarsi Vincenzo Chironi e quando apre la porta d’una casa, in una stagione febbrile, infetta e minacciata da cavallette e caldo malato, si trova dinanzi al nonno. Questi è ormai un uomo insecchito per mancanza di eredi, e a poco a poco, in presenza di quel suo «sangue» con i lineamenti di persona che arriva inaspettatamente, «come un miracolo», da molto lontano, riprende a poco a poco la sua attività di fabbro, ossia a muoversi, parlare, gesticolare, vivere insomma. Nella Barbagia «dalla lingua tagliente» e dai comportamenti sinceri ma bruschi (il che non è sinonimo di aridità emozionale, tutt’altro), Vincenzo trova anche zia Marianna. Donna complessa, con una vita

di delusioni alle spalle e immersa in un presente di contorta solitudine, è attratta quasi morbosamente dal nipote. Ma questi confiderà al nonno, in una notte di insolita e da lui mai vissuta confidenza familiare, d’essersi invaghito della sedicenne Cecilia.

Sullo sfondo dell’intreccio che costituisce la «vita nova» di Vincenzo Chironi, lo scorrere delle vicende italiane, a cominciare dalle elezioni per scegliere se l’Italia sarà monarchica o repubblicana. Nella piccola «Atene sarda» che è Nuoro (promossa dal fascismo al rango di città) scorre il «tempo di mezzo» (da cui il titolo del romanzo), «un tempo sospeso a metà… non moderni, non antichi, ma sensibili, esposti al contagio». Tutto questo fuori. Mentre dentro ognuno se la deve vedere «con i propri fantasmi». Non fantasmi, ma ricordi lucidissimi nel breve romanzo di Erri De Luca, la cui scrittura continua a essere come scolpita su pietra assorbente, con tratto mai tremolante, essenziale e al tempo stesso dentro un cerchio evocativo. S’intitola I pesci non chiudono gli occhi (Feltrinelli). Ci sono il padre, la madre, la sorella («due anni di meno, era una catapulta di istinti»), il mare, la pesca, «castelli di libri» del papà che «salivano da terra sul soffitto, erano torri, cavalli, fanti di una scacchiera messa in verticale». Ma ci sono anche i vicoli, gli amici distanti, l’ansia per una confidenza materna, il timore

che il padre non torni a Napoli. I libri non sono un contorno casuale: «attraverso quelli imparavo a conoscere gli adulti dall’interno». Frase meravigliosa che qualche intellettuale avveduto potrebbe brandire come un ammonimento dolce e intenso, oggi che è tempo in cui la carta pare solo fatica, o superfluo, o snobberia o addirittura superbia, comunque marginalità: e il degrado emotivo-culturale in cui sguazziamo ne è la prova principe.

A dieci anni s’avverte che qualcosa «cambia nella testa». Dieci anni per De Luca sono stati «un groviglio d’infanzia ammutolita». Stagione che smette d’essere quella, ufficialmente, «quando si aggiunge il primo zero agli anni». La mente non più infantile ma non ancora adulta è racchiusa dentro una specie di bozzolo, che si tenta di forzare, allargare, spezzare. De Luca racconta il timore di sé bambino di perdere il padre, di non vederlo più, inghiottito dall’America così lontana: «Crescere senza di lui? Sarei venuto storto, avrei cercato di appoggiarmi a un muro come un rampicante che altrimenti striscia. Non lo persi allora perché lui rinunciò all’America. Rientrò e non gli ho sentito più dire una parola. Si era tolto il futuro dai pensieri. La vita a Napoli è stata per lui un esilio senza viaggio». Ma ci sarà inevitabilmente la perdita, seguita dall’incontro col genitore in un sonno senza lacrime. Lacrime che non si prosciugano mai.


MobyDICK

arti

pitzenbilder, Canivets, Papiers roulés. Se esiste un «lessico familiare», e da Proust in poi lo sappiamo che esiste, eccome, ebbene, speriamo che non faccia troppo chic e non costeggi il ridicolo, ma personalmente (e quindi necessariamente devo passare al «perfido io», già stigmatizzato dal cogitante Cartesio, o forse era Pascal) devo ammettere che al qui scrivente queste parole sommuovono qualcosa che viene da un’infanzia, chissà se disturbata o stravagante. Certo che il bozzolo della follia collezionistica, se non compulsiva, effettivamente ammucchiante, proveniva già dalla stessa famiglia ed ecco così svelato il mistero di queste parole inconsuete. Tra le tante dedizioni a oggetti trascurati e incongrui, magari ex-funzionali, come agorai o tabacchierine a forma di scarpa, le prime bambole a bouche fermées o gli albori del gusto déco, questi, dei papiers roulés o dei canivets, avevano per un bambino un’aura ancor più misteriosa e un poco temibile, polverosa e superstiziante, con un vago sentore d’incenso e di cera rappresa.

S

Trattengo la suspence etimologica, certo, per dare più spezie al racconto, ma la sostanza avventurosa, in realtà, pur vista da lungi, e un poco forse fantozzianesca, era questa, in verità - con grande stizza degli irrequieti infanti. Si partiva appositamente (o trasversalmente) in carovane familiari di bagagli libri cassette di violini cibarie cani e vari am-

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Al banchetto della memoria di Marco Vallora mennicoli, magari per raggiungere le consuete mete turistiche, oppure per specifiche spedizioni d’avidità collezionistica, ma guai, mai un’autostrada sospirantemente normale o fisologicamente rapida, o una via naturale e diretta, macché, sempre tortuosi circuiti alternativi e perennemente erronei, e cartelli non visti e conseguenti battibecchi famigli e azzardati controsensi, tra ribattute giravolte estenuanti, e labirintici avvitamenti, perpetuamente alla spasmodica ricerca del Mitico Raccoglitore di Paesino, che era una figura che allora ancora esisteva, un miserando spesso dalla parlata eloquente e fiorita, e la casupola affumicata e ancora tutta filemoni & bauci, che andava per stalle e fienili, a raccattare appunto, meticolosamente e indifferentemente, l’altrui gettato via, che spesso diventata calamita e ludibrio dei rapaci antiquari d’antan. E allora grandi soste interminabili e abissali noie infantili, nell’abitacolo languente, le casupole essendo troppo rischiose e tabù, proibite, e dun-

succosi manicaretti sacri e dei piatti prelibati, da offrire allo sguardo stupefatto e pietoso del devoto, abbacinato da tanto rutilante esorbitare barocco. Spitzenbilder (anche se l’odierno dizionario macchinico traduce gelidamente e insulsamente: «immagini nitide») o quilling, per dirla all’anglosassone, o meglio ancora canivets, per quell’allusione ai canifs, coltellini minuziosi e abilissimi nel ritagliare stoffe o volants di colorati materiali cartacei, son appunto quell’immaginette traforate con gli spilli, e apribili a forma di cuore e di lagrima a pizzo, che lasciavano trapelare la luce gloriosa della fede (e che appunto mia madre ha lasciato in dono in un paesino della Liguria, sempre in diatriba con le politicanze locali, poco sedotte da queste scomode elargizioni... il fine, insomma, di tanto viaggiare).

Spitzenbilder, Canivets, Papiers roulés. Reliquiari e altre devozioni creative dai monasteri di clausura al collezionismo privato, in mostra a Torino alla Pinacoteca Agnelli que conseguenti attese pantagrueliche e claustrofobiche liti fraterne, condite poi dall’arrivo trionfale e benedetto d’un esile cornicetta masticata dalle intemperie o un paiolo deglutito dal tempo, che non trovava più spazio nel baule, rigonfio d’altre insperate trouvailles. Mi rendo conto che, quasi inconsciamente, ritornando con la memoria a questi labirintici arabeschi di ricordi, e tentando di rievocarli, nella scrittura, replicandoli con l’eco delle parole, sto involontariamente mimando il metodo affollato e certosino, devoto e posticcio, sinuoso, cartaceo e fiorito, con cui le monache timorate di Dio e invase come da un horror vacui della materia fria-

bile e transustanziante, componevano appunto i loro sptizenbilder, se alsaziane o altoatesine, o i papiers roulés, se di lionese devozione, e dai loro nomi poeticissimi e parlanti: «visitandine», «annunziantine», «sacramentine». Eccoci al dunque, dell’«arcano svelato», come diceva l’arcaica domestica. Siamo nel pieno di quella che, una volta, si considerava arte minore, e nemmeno quello, talvolta solo superstizione votiva e bigotta, preghiera di carta di virtuosissime dita devote. Papiers roulés, son appunto quei gremiti reliquiari di carta accartocciata dalle volute dorate d’eleganza istintiva, che le monache di clausura «impastavano», quasi fossero dei

Certo fa un po’ effetto, per chi fa questo mestiere di recensore, ritrovare alcuni esemplari della collezione materna (regalati dalla Genitrice a una Compagna di collegio orfana, e leopardiana marchesa marchigiana, che poi diventa golosa collezionista a sua volta) e, nelle traversie della vita, quei piccoli altarini di friabili paraffi dorati, passare poi dall’amica a un prete di rione, che si distrae, nel fare il suo museo, e il nipote se li riprende e rimette sul mercato, e dalla dispersione delle aste, ecco che giungono sino alla casa newyorkese della fotografa di moda Nan Goldin o di un collezionista locale, e di qui alla bella mostra, curata da Elena Geuna, alla torinese Pinacoteca Agnelli, che il qui vostro deve testé recensire. E allora che fa? Fa il frigido filologo silente, e mette a cuccia il proprio «perfido io»? Oppure no, per una volta. Divertendosi anche, a questo curioso mercimonio, perché una nuova parola, cara per altri versi, quella cioè proustiana di paperolles, come qui si nominano i papiers roulés, viene a condire ulteriormente questo curioso banchetto della memoria. Meraviglie di carta Torino, Pinacoteca Agnelli fino al 2 settembre


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roppo spesso le ricorrenze centenarie legate a nascita o morte di scrittori e poeti sono utili tutt’al più per riempire qualche pagina di giornale. Rare, veramente rare, almeno in Italia, sono le occasioni nelle quali le celebrazioni coincidono con importanti eventi editoriali legati all’autore. Una di queste è accaduta l’anno scorso, nella ricorrenza dei duecento anni dalla morte di Heinrich von Kleist, che finì la propria esistenza suicida a Berlino, insieme all’amica Henriette Vogel, il 21 novembre 1811. Merito di Mondadori, che ha pubblicato un Meridiano contenente l’intera sua opera, che comprende scritti teatrali, racconti, saggi, articoli per il Berliner Abendblätter e altri testi vari (Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Anna Maria Carpi, XCII + 1354 pagine, 60,00 euro). A mancare, per il lettore italiano, a questo punto rimarrebbe solo il suo ricco e importante epistolario. E tuttavia va ringraziata la Carpi (oltre che per tutto il resto) per aver citato spesso le lettere di Kleist nei suoi vari e preziosi contributi: il saggio introduttivo, la cronologia, le notizie sui testi e le note di commento (queste ultime insieme a Stefania Sbarra).

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Nato nel 1777 a Francoforte sull’Oder in una famiglia aristocratica di lunga e rigida tradizione militare, Heinrich

il paginone

MobyDICK

Goethe, Hegel e Thomas Mann hanno avuto paura del suo genio e della sua potenza distruttiva. Ma l’opera di Heinrich von Kleist è tutt’altro che sepolta nel passato e riesce ancora oggi a scuotere. Come dimostra la lettura del Meridiano mondadoriano a lui dedicato traprese un lungo viaggio con la sorella Ulrike. Giunto nella postrivoluzionaria Parigi Kleist ne rimase talmente deluso che decise di ritirarsi in Svizzera per seguire l’insegnamento di Jean Jacques Rousseau. Ben presto si trasferì tuttavia a Weimar, dove venne accolto senza particolari entusiasmi da Goethe, poi a Lipsia e a Dresda. Dopo vari spostamenti e impieghi precari, fra il 1810 e il 1811 collaborò con il Berliner Abendblätter, primo quotidiano edito a Berlino, cui si dedicò con grande fervore, tanto da subire un forte contraccolpo quando nel marzo del 1811 il governo prussiano ne limitò a tal punto la libertà d’espressione da proibirne, in pratica, la pubblicazione. Malato e in miseria, oltre che psichicamente sconvolto, ma anche irritato per le alleanze che Prussia e Sassonia stavano

Sapeva che nella sconfitta la bellezza dev’essere tutelata. E quando decise di suicidarsi, lo fece su una collina, sorseggiando rum e caffè rimase a 16 anni orfano di entrambi i genitori. Divenuto ufficiale prussiano, lasciò l’esercito nel 1799 per dedicarsi agli studi, in particolare di matematica, filosofia e scienze camerali. Sempre mosso da insopprimibile inquietudine e non trovando la strada per un sano e pieno inserimento in società, nel 1801 in-

anno V - numero 14 - pagina IV

trattando con Napoleone, il 21 novembre di quello stesso anno fu il giorno del tanto a lungo meditato suicidio.

Si è scritto fino alla noia circa la sua disposizione quasi patologica all’orrido, all’ossessivo e al demoniaco. In particolare gli otto lavori teatrali e gli otto racconti che ci

ha lasciato risultano di un realismo portato fino alla crudezza. È lecito dunque chiedersi da dove muova la tanta violenza presente nei testi di Heinrich von Kleist. Nessuno di essi di fatto è privo di eccessi: nella Pentesilea Achille viene dilaniato da cani ed elefanti, Michael Kohlhaus nel suo furore mette a fuoco mezza Sassonia e la Marchesa di O. viene stuprata da un ufficiale russo. Resti di cervelli ammassati alle pareti o dozzine di corpi crivellati. Nelle sue opere Kleist ha anticipato più volte la propria morte, insieme alla donna amata. E sempre senza compromessi, ponendo accanto bellezza e chiarezza, incantesimo mortale e verità: sempre accostate, in quelle situazioni, sono le ali sul dorso e i resti di cranio sulle pareti dopo un colpo di pistola alla bocca.

Le opere teatrali del poeta e drammaturgo risultano altrettanto limpide e contemporanee quanto quelle di Georg Büchner. Quelle di Goethe e Schiller appaiono oggi infinitamente lontane, sepolte in un passato ricoperto di polvere: la lettura (o la visione e l’ascolto a teatro) di Kleist riesce ancor oggi a scuotere. Egli dai cui testi, per non essere presi nel loro vortice, volevano stare il più distante possibile personaggi come Goethe, Hegel e Thomas Mann - risulta vivo come pochi altri. Hegel, per esempio, è l’autore di un principio espressamente anti-kleistiano: «Dal contesto dell’arte vanno messe al bando le forze oscure», così scrisse il filosofo. Hanno avuto

Forze osc in parad di Vito Punzi paura del suo genio e della forza distruttiva delle sue frasi, paura di un mondo come quello di Santiago del Cile, di quel terremoto che accosta ancora una volta, per un secondo paradisiaco, i due amanti Donna Josephe e Jeronimo Rugera: «E al culmine di quei momenti atroci, nei quali ogni bene terreno stava andando in rovina e l’intera natura minacciava di essere ribaltata, lo spirito stesso dell’uomo sembrò sbocciare pari ad un bel fiore». Quello tra il poeta-drammaturgo e la realtà è stato uno A destra e a sinistra, particolari del Memorial dedicato a Kleist a Francoforte; accanto, Achille e Pentesilea raffigurati in un bassorilievo e un ritratto di Kleist. Sopra, Bruno Ganz e Edith Clever in una scena del film “La Marchesa von O.” di Rohmer. In alto, la statua del poeta nella sua città natale


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cure diso scontro continuo, come affrontare un muro dopo l’altro e ogni volta Kleist ne usciva sanguinante. È stato un maestro delle frasi secondarie, delle più incredibili combinazioni di virgole, fino a poco prima del tracollo. E alcune frasi si leggono come se chi le ha scritte avesse paura del punto conclusivo. Incagliarsi, fluire, deviare, sostare, proseguire. La lingua di Kleist è aperta, rada, tra le parole c’è grande spazio. Egli descrive tutto, drasticamente e impietosamente, perché così è il mondo. E quando il narratore

Kleist stringe palesi compromessi lo sguardo del lettore raggela: nella lettura del racconto Il terremoto nel Cile, dopo essere stati sbattuti per pagine e pagine di qua e di là, dalla disperazione al paradiso (come sempre in Kleist), sopraggiunge per gli amanti il terribile finale: Josephe e Jeronimo sono stati uccisi dalla piazza, ma ci sono al mondo ancora un bambino e un uomo, suo padre, che guarda: «Don Fernando, quando si vide disteso il suo piccolo Juan, con il cervello che gli colava dal cranio, levò, ripieno d’un dolore indicibile, gli occhi al cielo». La storia avrebbe potuto concludersi qui, tuttavia Kleist scrisse un’altra mezza pagina, sul prosieguo della vita di don Fernando, che insieme a donna Elvira accoglie un piccolo estraneo, Filippo, come figlio adottivo. In conclusione, «quando don Fernando confrontava Filippo con Juan, e come li aveva acquistati, gli sembrava quasi di doversene rallegrare». Come definire questa fine del racconto: un brutale aggiustamento della storia, o forse perfino una specie di felice compimento? Non è così, perché in quel «quasi» e in «dovesse» si cela tutta la freddezza della situazione. Non esiste più alcuna gioia possibile.

Lingua ed esperienza, lingua e dolore, lingua e bellezza, tutto questo per Kleist sono stati una cosa sola. Ed è proprio nella sconfitta che la bellezza dev’essere tutelata. Nell’estate 1804, in una situazione senza prospettiva, si rivolse a Federico Guglielmo III: voleva tornare a servire lo Stato, dopo che anni prima aveva lasciato il servizio militare e nell’autunno 1803 aveva chiesto perfino il permesso di partecipare all’invasione francese dell’Inghilterra. Il re lo giudicò un folle e lo fece parlare con il general maggiore von Köckeritz, ma il risultato fu che questi lo dileggiò. Parlando di Kleist è inevitabile affrontare il tema della morte e ricordare forse il più bel dramma in lingua tedesca, cioè il suo Il principe di Homburg, da lui dedicato appunto alla propria morte e resurrezione. E di questo vanno ricordati in particolare i versi sulla bellezza dell’altro mondo e sull’inutilità di quella stessa bellezza: «È vero, anche un sole, si dice che appaia lì/ E su campi ancor più colorati di qui;/ Ci credo; peccato che marcisca l’occhio/ chiamato a scorgere questo splendore». Alla fine lui stesso non ha più creduto a questi versi. La nostalgia per l’«altro mondo» era più grande. E poi, in quell’ultimo pomeriggio, Henriette Vogel e Kleist portarono tavolo e sedie sulla collina, insieme a

caffè e rum, beati, fiduciosi, felici di morire. Quando lui espresse il desiderio di farsi portare ancora un bottiglia di rum lei notò severa (così almeno raccontarono i servitori): «Piccolo mio, vuoi dell’altro rum, ma ne hai già bevuto abbastanza». Così lui ci rinunciò. Allontanatisi, i servitori sentirono infine due colpi di pistola.

Prima di questo Meridiano, a testimonianza di quanto Kleist possa risultare tutt’oggi attraente per lettori molto distanti tra loro per formazione e cultura, una delle sue opere pubblicate in Italia era stata Pentesilea (traduzione di Paola Capriolo, Marsilio 2008). La tragedia, scritta da Kleist nel 1808, non piacque al contemporaneo Goethe, che profeticamente la pensò adatta piuttosto per i secoli a venire. Del resto, come avrebbe potuto trovare consenso quel recupero della classicità tutto furore, battaglie sanguinarie e scontro tra forze incontrollabili nella Weimar goethiana? La vicenda di Pentesilea, la regina delle amazzoni che si innamora di Achille, «la preda scelta dal suo occhio feroce», si svolge nel contesto di quel truce «vortice selvaggio» che è la guerra ed è narrata senza alcuna traccia di quell’ironia tanto cara ai romantici. «Voglio gettarmi nel tumulto della battaglia - sono le parole della regina - dove egli mi aspetta con un sorriso di scherno, e sconfiggerlo, o cessare di vivere». Si è parlato di «erotismo sacro», di «male passionale»: lei «donna atroce», lui «giovane folle». Destino di morte, in ogni caso: Pentesilea uccide se stessa dopo aver «baciato e sbranato» l’amato, perché non padrona del suo «labbro impetuoso». A lungo snobbata, la Pentesilea kleistiana ha trovato ammiratori pronti a valorizzarla solo nel Novecento. Lo hanno fatto «da sinistra» Peter Stein (a teatro) e Christa Wolf (in narrativa). E lo ha fatto nel 2008 Rossana Rossanda con l’introduzione scritta per quell’edizione: l’indomita femminista non riuscì a resistere alla tentazione di presentare la tragedia come esempio di «guerra tra i sessi» e di definire Achille come «uomo semplice» e l’amazzone come «donna complicata». Curioso che anche il nazismo abbia esaltato la «forza della natura» della Pentesilea kleistiana. Oltre alla memorabile interpretazione a teatro dell’attrice Liselotte Schreiner va ricordato l’interesse che la tragedia suscitò nella regista Leni Riefenstahl, la quale se ne innamorò, fino a volerne fare un film, che tuttavia altro non fu che un progetto irrealizzato.

altre letture di Riccardo Paradisi

Quando il denaro strozza la vita umana l denaro non è sempre stato preponderante l’elemento nella vita degli uomini. Un cavaliere, nel Medioevo, poteva essere più povero di un cambiavalute ma era considerato di rango superiore. Soprattutto il denaro non è mai stato - come oggi - un elemento elargitore di senso e della stessa sopravvivenza. Denaro di Charles Péguy (Piano B editore, 90 pagine, 10,00 euro) è una riflessione sull’assurgere a Dio del denaro nella tarda modernità occidentale. «Ai miei tempi i salari erano bassissimi eppure non c’era questo strangolamento economico di oggi nel quale colui che viene strozzato sembra avere palesemente torto». Scritto nei primi anni del Novecento sembra un ritratto della vita ai tempi della crisi di oggi.

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Lavoro in Italia: una storia tormentata toria del lavoro in Italia (Marsilio, 313 pagine, 25,00 euro) di Stefano Musso è un’efficace sintesi della storia del lavoro nel divenire della società industriale nel nostro Paese. Saggio utilissimo in tempi di crisi del lavoro e sul lavoro. Anche per acquisire coscienza storica della dinamica che ci ha condotto sin qui. Dalla condizione sociale dei variegati gruppi in cui si articolano le classi lavoratrici ai rapporti tra mondo contadino e mondo operaio; dalla nascita dell’associazionismo, delle organizzazioni sindacali e più in generale delle organizzazioni di interessi al movimento degli scioperi, Musso ricostruisce il tortuoso cammino in direzione della regolazione e istituzionalizzazione delle relazioni sindacali.

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I maestri della fede visti dal Papa a forza del cristianesimo è la forza della resurrezione: vana sarebbe la nostra fede diceva San Paolo - se Gesù Cristo non fosse risorto. Benedetto XVI ha sempre insistito su questo aspetto luminoso del cristianesimo, lo stesso che ha ca-

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ratterizzato le vite di santi e autori cristiani nella storia bimillenaria della Chiesa, personaggi che Benedetto XVI racconta in Testimoni del messaggio cristiano (Mondadori, 16,00 euro, 156 pagine). La forza che ha mosso Ambrogio, Cipriano, Girolamo, Ireneo e Tertulliano è proprio quella pasquale della resurrezione, è questo, dice Benedetto XVI, che ha consentito loro «di andare al cuore delle scritture e attingere allo spirito di una tradizione vivente».

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I gatti? Per Lovecraft erano dèi on tutti sanno che Lovecraft, maestro dell’orrore e del fantasy, era pazzamente innamorato dei gatti. Sui felini il genio di Providence ha scritto opere di saggistica, narrativa, poesia, lettere. Il libro dei gatti (Il Cerchio, 165 pagine, 16,00 euro) a cura di Gianfranco de Turris e Claudio De Nardi, raccoglie tutto il materiale di Lovecraft sui gatti. Nell’eterna diatriba tra cani e gatti per esempio il Sognatore di Providence si schiera con tutta la sua cultura a difesa dei «signori dei tetti», del «cugino della sfinge», dello «ierofante dei misteri». «Nessuno ha scritto una apologia dei felini culturalmente, filosoficamente e metafisicamente più profonda» scrivono gli autori. Diceva Lovecraft che «Il cane dà ma il gatto è».

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Come si diventa milionari. Su Internet i dice che i ragazzi perdano tempo su internet e social network. Be’, Gary Vaynerchuck è uno di quei ragazzi che di internet e dei vari social network ha imparato a farne un uso euristico.Tradotto: a farci un mucchio di soldi diventando, grazie al suo entusiasmo e alla sua capacità di autopromozione, un businnessman di successo. Buttati! Trasforma la tua passione in soldi (Sperling & Kupfer, 146 pagine, 15,00 euro) è un libro rivelatore di come si possa fare personal branding ed è una miniera per chi intende sfruttare tutti gli strumenti a disposizione della Rete. Lo stile a tratti è indigesto - Gary parla spesso come un predicatore ma Buttati non è un esercizio di stile. È un libro pratico per gente pratica.

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spettacoli Rock La nuova Depressione cantata dal Boss MobyDICK

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di Stefano Bianchi

he Boss non abbassa la guardia. Centuplica le forze. Era già successo trentaquattro anni fa nei versi di Badlands, dall’album Darkness On The Edge Of Town. Rileggiamoli: «Il povero vuole diventare ricco, il ricco vuole diventare re e il re non è soddisfatto finché non ha il potere su ogni cosa». Premonitore, Bruce Springsteen. Quelle parole che mettevano a nudo l’avidità e la speculazione, risuonano attuali in questo mondo soggiogato dallo strapotere finanziario. «Ho lavorato un anno e mezzo a un disco che poi ho buttato via», ha dichiarato il rocker del New Jersey, «perché era scoppiata la crisi e avevo amici costretti ad abbandonare casa, mentre nessun colpevole finiva in galera. L’aumento della disoccupazione, tragedia gigantesca e trascurata, mi ha fatto capire che non potevo occuparmi d’altro, in un momento come quello». Il risultato è Wrecking Ball: disco duro, che racconta la depressione economica, sociale, morale. La sfera d’acciaio demolitrice del titolo, è quella che ha raso al suolo lo stadio dei New York Giants dove Springsteen ha suonato più volte con la E Street Band. Ed è, metaforicamente, la violenza che si è accanita non solo sulle classi sociali più deboli facendo naufragare le speranze del New Deal di Barack Obama. Dopo le grandi aspettative di Working On A Dream del 2009 (il Boss sostenne Obama, il quale lo ringraziò dicendo che aveva scelto di fare il presidente «solo perché non potevo essere Bruce Springsteen»), ecco la disillusione di Wrecking Ball agganciata a storie di gente comune. Ci sono schegge di E Street Band, in questo disco prodotto con Ron Aiello e Jon Landau. C’è la Seeger Sessions Band, più tre ottimi musicisti: i batteristi Matt Chamberlain e Steve Jordan e il chitarrista Tom Morello, ex Rage Against The Machine e Audioslave. Per dare ancor più efficacia a

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suoni e parole del diciassettesimo album in carriera, Springsteen è risalito alle radici della musica popolare americana: alle sonorità celtiche, da cui sono germogliati il folk e il country; al gospel e al soul. È una miscela di country e folk, Easy Money, mentre Death To My Hometown è un maestoso respiro celtico e il country & western di We Are Alive, giostrato nello stile del Johnny Cash di Ring Of Fire, apre il cuore alla speranza ricordando le battaglie combattute dai nostri padri per garantirci un futuro migliore. Sul versante black, invece, spicca il gospel di Shackled And Drawn e sorprende Rocky Ground: atipica, nell’ipnotico loop elettronico che lascia spazio al rap scandito da Michelle Moore e poi al gospel. Jack Of All Trades, ballata sublime immalinconita dal suono di una tromba e raggrumata nel finale in crescendo da un assolo di Fender Telecaster, si accoppia bene con This Depression: ritmo possente, passo sincopato, voce straordinaria, assolo cosmico di Tom Morello. E se l’incipit acustico di You’ve Got It cede il passo all’elettricità per delineare i contorni di un’esplosiva ballata, We Take Care Of Our Own, Wrecking Ball e Land Of Hope And Dreams sono puro E Street Band style: possente e muscolare la prima; trascinante e festosa la seconda nel suo andirivieni di violini, tastiere e fiati; sferragliante la terza, con l’inconfondibile sax di Clarence Clemons a regalarci le sue ultime note. Anche questi pezzi, c’è da scommetterci, scandiranno l’emotività dei tre concerti da stadio del Boss: il 7 giugno al Meazza San Siro di Milano, il 10 all’Artemio Franchi di Firenze, l’11 al Nereo Rocco di Trieste.

Classica

Bruce Springsteen, Wrecking Ball, Columbia/Sony Music, 15,99 euro

Lo Sturm und Drang di Jakob Lenz in 80 minuti n’opportunità di grande richiamo. In Italia questo titolo è di esecuzione rarissima, mentre nel mondo anglosassone è considerato un caposaldo del teatro musicale contemporaneo. E l’autore, Wolfgang Rihm, oggi sessantenne, è tra i maggiori compositori tedeschi del nostro tempo. Inoltre Jakob Lenz, l’opera da camera ora messa in scena dal Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con il Teatro Rossini di Lugo, quando apparve nel 1979 alla Staatsoper di Amburgo, fu accolta come evento-rivelazione del talento di un musicista allora giovanissimo. Per chi è incuriosito o si trova nei paraggi, ultima replica domani, domenica 15 aprile, alle ore 15,30. Dallo Jakob Lenz, e poi in tutto il suo vasto catalogo di lavori successivi, Wolfgang Rihm ha offerto un decisivo contributo all’affermazione di una musica attenta all’espressività, e lontana dalle sterili e ideologiche esercitazioni delle avanguardie del secondo Novecento. Liberamente tratto da una novella di Georg Büchner (1813-1837), il libretto dell’opera - firmato da Michael Fröhling e organizzato in atto unico con dodici

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di Francesco Arturo Saponaro quadri e un epilogo, per una durata di circa ottanta minuti - vede protagonista un esponente del romanticismo tedesco, Jakob Lenz, realmente esistito fra il 1751 e il 1792. Scrittore, poeta e traduttore, Lenz divenne ben presto una delle figure più celebri della corrente Sturm und Drang. Errabondo di natura, vagabondò per mezza Europa, alternando periodi di creatività e lucidità a momenti di annebbiamento mentale, entrando in urto anche con gli amici migliori, come Goethe. In un vortice che dura poco più di un’ora, il lavoro di Wolfgang Rihm tratta di isolamento e alienazione. Il tracciato che da Lenz conduce a Rihm, attraverso Büchner, è sintetico e lineare, perché la prossimità ispirativa e drammaturgica del compositore prevale sulla distanza

secolare. Progressivamente, nei dodici quadri dell’opera, il personaggio Lenz prende atto del suo isolamento e del suo smarrimento, cerca di argomentare e di combattere; ma alla fine, divorato dalle sue ossessioni, scivola nella schizofrenia. Un’anima tormentata, il cui dramma Rihm rappresenta sgranando via via le tappe della rovina del protagonista in una sorta di collage scenico, che in un certo qual modo realizza la teoria dell’arte di Lenz stesso. Visioni oniriche e realtà, semplici pensieri e dialoghi autentici, immaginazione e verità si sovrappongono e si incrociano gli uni agli altri. Saltano i confini di spazio e tempo o, meglio, sono presenti solo diffusamente. Allo stesso modo si inseriscono i diversi idiomi e le diverse soluzioni mu-

sicali. Jakob Lenz è soprattutto musica da camera. Rihm ha scelto un ensemble strumentale in cui pochi fiati, un clavicembalo e tre violoncelli sono raggruppati intorno a un’ampia sezione di percussioni. Sin dalle prime misure della partitura si coglie, con la voce dei violoncelli, l’accordo di si, fa, sol bemolle che costituisce una specie di Leitmotiv, e dal quale derivano e sovente ritornano altri due fonemi: l’intervallo di quinta, vuoto e freddo, e un conturbante tritono. E nell’insieme si impone un procedimento simile al rondò, con il ricorrere di disegni tipici, che avvolgono e assecondano la vocazione ossessiva che è alla base della drammaturgia. Dall’anteprima già avutasi a Lugo, quest’edizione viene annunciata di alta qualità. Lenz è impersonato dal baritono Thomas Möwes, la figura di Oberlin ha la voce di Markus Hollp, anch’egli baritono, mentre il tenore Daniel Kirch interpreta lo scrittore Kaufmann. Marco Angius è sul podio dell’orchestra della Fondazione lirica, mentre regia, scene, e luci sono firmate da Henning Brockhaus, sui costumi di Giancarlo Colis.


Memoriette

MobyDICK

letteratura

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Il responsabile della cultura del Partito comunista, Emilio Sereni, si congratulava con Bilenchi e gli suggeriva di affrontare in un romanzo, anziché vicende familiari, questioni politiche e sociali. Bilenchi rispose: «Eh, no, caro Nini, per me nonni e nonne fiché campo!».

istoia fu violentemente bombardata nel ’43. Crollarono edifici, furono colpiti anche luoghi d’arte e molti furono i danni e le vittime. Una nostra amica, che chiameremo Lucia, viveva in un villino dalle parti della stazione con una vecchia zia che aveva la camera da letto al pianterreno. Durante tutto quel fracasso la zia chiamò ripetutamente Lucia e, appena uscita dal sonno le disse: «Chiudi la porta, per favore, perché c’è aria: spiffera».

P

Vittorio Emanuele III era piccolo di statura e assai gracile. A Firenze, quando lo videro in alta uniforme e con la sciabola, notarono che nel camminare il Re pendeva proprio dalla parte della sciabola. Fu chiamato Spiombi. Una mia zia molto anziana che abitava a Firenze venne a Roma con il marito per farsi visitare da un grande medico amico, il professor Cassano. Alla prima domanda del medico: «Quanti anni ha?», rispose: «Meno di cento!». Quando i due vecchi coniugi passeggiavano per Firenze, mio zio ogni tanto le diceva: «Non ci resta che di andare a Monte Domini», una casa di riposo per anziani. E lei immancabilmente gli rispondeva: «Avviati!».

Un dirigente televisivo pare che la sera, quando rimaneva a casa con la moglie, le proponesse: «Per passare un po’di tempo scriviamo delle lettere anonime?». A Milano una sera a una cena di amici si aggiunse una signora tedesca molto simpatica e molto meravigliata per l’importanza che le donne italiane davano a Martin Lutero. «Come mai?», ci chiedeva. «Vedo su tutti i muri che le donne italiane scrivono “L’utero è mio e me lo gestisco io”». A scuola, sia al liceo che all’università, certi professori tentavano di riassumere in una sola parola tutto il significato dell’opera di un autore, o un emblema come nel caso della poesia provenzale. Al liceo il professore di italiano ci aveva insegnato che Machiavelli «era una miniera» e Leopardi «un’anima straziata dal dolore». Dovevamo ripetere non senza sarcasmo queste formulette. Qualche sera al teatro La Pergola di Firenze con un gruppo di compagni di scuola andavamo nel loggione e quando vedevamo che in platea entrava con passo sicuro il professore di italiano uno di noi gridava: «Che cos’è Machiavelli?». Gli altri, tutti in coro rispondevano: «Una miniera». Il profes-

Il femminismo secondo Lutero Scritte sui muri negli anni Settanta. Bombardamenti a Pistoia. Cori a “La Pergola”. Le soddisfazioni di un castrato. Saragat al Quirinale. I nonni di Bilenchi. Coppie di anziani. Sordi e lo scimmione. Gli sbarchi di Emilio Cecchi. Pollock e Bigongiari di Leone Piccioni sore guardava verso il loggione ma noi ci nascondevamo. All’università, invece, un grande studioso di filologia romanza, Casella, racchiudeva in una parola l’emblema di un concetto. Tra risate più o meno sommesse quando chiedeva che cos’era nella poesia provenzale l’uccello, aspettava come risposta: «pienezza di vita».

Giuseppe Saragat fu un ottimo presidente della Repubblica. Durante il fascismo emigrò in Francia e tra gli altri mestieri che dovette fare per sopravvivere (la moglie faceva la sarta) fece l’assag-

Un celebre cantante castrato napoletano fece mettere una lapide davanti alla sua villa in cui si diceva: «Come Orfeo con il suo canto si trascinava dietro uomini e animali, così io, con il mio canto, mi sono potuto erigere questa villa». L’indomani sul muro apparve una scritta: «Ille cum, tu sine».

Alberto Sordi, Jackson Pollock all’opera e il tipico gesto delle manifestazioni femministe degli anni Settanta

Mio padre passava per pigro e non lo era. Un giornalista gli chiese, comunque, come mai un tipo calmo come lui avesse fatto la guerra come pilota in aviazione. «Era l’unico modo - rispose - per far la guerra stando seduti».

giatore di vini. Da allora si diceva di lui, scherzando, che tutte le mattine al Quirinale si faceva «l’alzabarbera» e che i colori della nostra bandiera erano il bianco, il rosso e il verdicchio.

Una storia d’altri tempi. Due coniugi molto avanti negli anni, oltre gli ottant’anni, si presentarono a un avvocato per iniziare le pratiche del divorzio. L’avvocato si stupì moltissimo e chiese loro come mai avessero aspettato tanto a decidersi. «Abbiamo dovuto aspettare - risposero - che morissero i figli». Mario Missiroli, divenuto direttore del Corriere della Sera, così definiva un suo, pur bravo, redattore: «Un mare d’ignoranza con qualche lacuna». Raccontava Alberto Sordi: «Una maestra portò i suoi scolari allo zoo, e si fermò, tra l’altro, davanti a una grossa gabbia dove stava uno scimmione. La maestra fece qualche descrizione su questo animale e si sentì chiedere da un allievo: «Questo scimmione potrebbe avere rapporti sessuali con una donna?». La maestra non sapeva cosa rispondere e rivolse l’interrogativo a un guardiano dello zoo che era nei paraggi. «Se lo scimmione può avere rapporti con una donna?… Ma se non c’ha ‘na lira!». Un ricco signore milanese invecchiando ebbe disturbi della memoria e della mente («la mente principiò a vagellare» come Gadda diceva di Papa Celestino V terrorrizzato da Bonifacio VIII). Il vecchio signore pensava sempre di essere in crociera con il suo yacht, e mentre stava nel salotto di casa con alcuni amici - tra questi Emilio Cecchi che era all’oscuro di tutto - all’improvviso annunciava che la barca era entrata in porto e che tutti dovevano prendere i bagagli e scendere. Piero Bigongiari, carissimo amico fiorentino, poeta, critico letterario, insegnante all’università, esperto in letteratura francese si occupava anche (non era il solo) dell’arte contemporanea. Un giorno Cecchi sfogliando una rivista lesse un articolo di Bigongiari su Pollock certamente grande pittore contemporaneo ma che Cecchi rifiutava. «Al Bigongiari - disse Cecchi - non gli resta che di mangiare il topo».


MobyDICK

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a storia della scuola Diaz ha il potenziale di una bomba intelligente, ma per il film si è scelta la strada banale di una grossolana operazione demagogica e arruffapopolo. Potrebbe sembrare un giudizio di parte, ma è l’autorevole opinione di Variety e The Hollywood Reporter, storiche testate del cinema, nelle critiche sul film di Daniele Vicari alla Berlinale. Non occorre avere il cuore a sinistra per condannare l’azione delle forze dell’ordine la notte del 21 luglio 2001. La Diaz era il centro operativo del Genoa Social Forum durante la manifestazione contro il G8, quella sera usata come dormitorio per gli attivisti. I carabinieri circondano l’edificio, mentre circa 346 poliziotti irrompono nella scuola. Alle 22 inizia un selvaggio pestaggio o «macelleria messicana», nelle parole di Michelangelo Fournier (agente condannato in primo grado e poi assolto), da parte dei servitori dello Stato su gente che si coricava per la notte. Alla fine gli attivisti arrestati sono 93, con 61 ricoverati in ospedale, tre in prognosi riservata e uno in coma. Per giustificare a posteriori l’accanimento su persone pacifiche, i poliziotti mettono alcune bottiglie molotov tra le vere armi (coltelli, spranghe, bastoni, pietre) trovate negli zaini. Chi non è a conoscenza dei fatti, vede un generico thriller-mattatoio, dove sbirri impazziti si avventano su ragazzi inermi senza motivo. Ci sono gli elementi di un film dell’orrore: giovani in trasferta per una scorribanda estiva subiscono l’aggressione insensata di forze oscure. Dell’azione di circa mille anarco-insurrezionalisti, i famigerati Black Block, c’è un accenno così breve e anodino che i critici Usa navigati e progressisti non se ne sono accorti.

L

La storia segue cinque attivisti o simpatizzanti del Social Forum presenti quella sera. Luca (Elio Germano) è giornalista della Gazzetta di Bologna (testata «di destra» si insiste spesso) che decide di recarsi sul luogo dei disordini per controllare di persona gli eventi. Alma (Jennifer Ulrich) è un’anarchica tedesca passata a cercare persone disperse insieme a Marco (Davide Jacopini) e Franci (Camilla Semino), un giovane avvocato del Genoa Legal Forum. Nick (Fabrizio Rongione), un manager arrivato per una conferenza dell’economista Susan George, respinto dagli alberghi finisce alla Diaz. Anselmo (Renato Scapa) è un vecchio militante Cgil solidale con il Gsf. Etienne (Ralph Amoussou) e Cécile (Emilie De Preissac) sono anarchici francesi, dei Black Block, indimenticabili per chi ha vissuto o visto in tv i loro scempi. Luca, Alma, Nick, Franci e Anselmo sono tra i feriti dopo l’incursione terrificante della polizia inferocita: pare una spedizione punitiva illegale e sospensiva dei diritti civili, inspiegabile. Non serve a nulla il piccolo assaggio iniziale, in cui alcuni Black Block sfasciano un bancomat, ribaltano e incendiano auto parcheggiate, e poi incrociano trionfanti le spranghe di ferro. È un tè per signorine rispetto allo scenario di guerra lasciato dagli autonomi in quei giorni. Appiccano il fuoco a un condominio mettendo a rischio gli inquilini, sfasciano le vetrine di una serie di istituti finanziari e incendiano mobili, tende, fascicoli, tappezzerie. Le Tute Nere sono fredde, ben organizzate, con idee chiare e ultra violente; negli zaini hanno abiti di ricambio per non farsi rico-

cinema

Diaz un’occasione persa di Anselma Dell’Olio

Non occorre avere il cuore a sinistra per condannare l’azione delle forze dell’ordine a Genova la notte del 21 luglio 2001. Ma il film di Daniele Vicari è demagogico e non fornisce risposte. Per i critici Usa, niente di più di una fiction tv superficiale e noiosa. Poi c’è “Poker Generation”…

noscere dopo le scorribande. Contro la polizia tirano bulloni, pietre, bottiglie e altri oggetti portati ad hoc. Vogliono la guerriglia e la ottengono. Si accenna appena, durante una riunione degli organizzatori, a vari misteri. Perché non è stato previsto un robusto servizio d’ordine da parte del Gsf? Perché i Black Block furono accolti come partecipanti legittimi, invece di essere fermati alla frontiera, o espulsi e rinnegati fin dall’inizio dal Gsf, che aveva solo da perdere dalla loro nefasta e ampiamente preannunciata ade-

sione? Perché sono stati accolti a una manifestazione che per il resto era abbastanza pacifica? Nessuno nel film prova a dare risposte, o a prendersi qualche responsabilità. Non vi è il minimo accenno al perché un comandante di polizia dica: «I miei non li tengo più». Dare un contesto veritiero e completo non significa «giustificare». Per i critici d’oltreoceano, Diaz è una fiction tv violenta e superficiale, niente di più. La bottiglia volante che scandisce più volte l’azione, scrive Variety, è perfetta per le interruzioni pubblicitarie, anche

se l’effetto speciale è cheap Cgi (Computer Generated Imagery, ndr). Gli attori parlano sempre nelle loro lingue, quindi con molti sottotitoli. Si è persa un’occasione per elaborare un ragionamento penetrante sulle proteste anti-capitalistiche (l’ultima è Occupy Wall Street) con relativi silenzi e risposte delle istituzioni, senza fare sconti ad alcuno. I cineasti fanno un cattivo servizio alle ingiustizie che vogliono denunciare: predicano a convertiti e creduloni. Le due ore di mattanza, sempre secondo i critici Usa, sono una sfida alla pazienza.

Poker Generation è dell’esordiente Gianluca Lingotto, fotografo e regista di videoclip. È insolito un film sul gioco d’azzardo in Italia, e questo lo rende interessante. È noto che raramente sfondano al bottegino. Il film prova a spiegare le regole di Texas Hold’em, il gioco promosso e in crescita da noi, ma non è semplice districarsi. Meglio seguire la storia di due fratelli siciliani. Toni Candisi (Andrea Montovoli) è estroverso, godereccio, patito dei film di gangster americani. Filo (Piero Cardano) è chiuso, guardingo, un genio che ama le definizioni delle parole, asociale e semi autistico. Il padre (Francesco Pannofino) è disoccupato; sbarca il lunario giocando a poker, e passa la passione ai figli, con grande scorno della moglie (Lina Sastri). Servono cure costose per la sorellina malata (Naomi Assenza) che altrimenti muore. I fratelli decidono di diventare professionisti sperando nelle vincite. Uno spottone per i tornei di poker. Al culmine della trama c’è la sfida finale del Malta Poker Dream, noto torneo internazionale da un milione di euro. Il film si segue bene con qualche perplessità (il gioco è duro per gli inesperti); non mancano alcuni virtuosismi da videoclip e la regia è a tratti acerba. La musica invadente è ingenuamente istruttiva (paura, commozione, eccetera).


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Eucarestia negata: quando il giudizio umano supera quello di Gesù QUALE FUTURO PER I PARTITI IN ITALIA Le recenti vicissitudini di alcuni partiti italiani in merito al “disinvolto” utilizzo dei rimborsi elettorali previsti dallo Stato ha ulteriormente alimentato il dibattito sul ruolo e sull’utilità dei partiti in Italia. Quanto accaduto alla Lega Nord, poi, sa tanto di nemesi storica, avendo questo partito accresciuto il proprio consenso alimentando l’antipolitica nata dopo Tangentopoli. Ma sbaglia chi crede che la crisi della Lega sfavorisca i canali dell’antipolitica, ho l’impressione che succeda il contrario. Nel sentire comune il discredito verso la politica sta aumentando a livelli tali che si corre il pericolo che improvvisati demagoghi la sfruttino per usurpare, quello sì veramente, il potere ai cittadini, favorendo il diffondersi di movimenti di protesta a vocazione autoritaria. In questo periodo si tende a concentrarsi soprattutto sulle malefatte dei singoli, generalizzando, cavalcando il populismo portato più a distruggere che a costruire. Trovando, magari, anche un capro espiatorio del difficile momento che sta vivendo l’Italia: la colpa è solo ed esclusivamente dei partiti che “mangiano” illegittimamente denaro pubblico, pensano ai propri interessi e non fanno il bene collettivo. Mai come in questo momento però c’è bisogno di partiti che svolgano per bene il proprio ruolo, che principalmente si può sintetizzare nella capacità di elaborare “politica” e selezionare la nuova classe dirigente. I partiti devono dare soluzioni ai problemi, devono formare uomini capaci ad amministrare la “cosa pubblica”. E per fare questo bisogna, innanzitutto, recuperare la credibilità che è stata persa. Il disegno di legge sulla trasparenza avanzata in Parlamento sulla gestione dei bilanci dei partiti è un primo passo ma non sufficiente se non è accompagnato anche da una proposta di riduzione dei rimborsi elettorali. Solo così si aiuterebbe il cittadino a ridare un minimo di fiducia ad una classe dirigente che si è dimostrata in molti casi incapace, arruffona e maldestramente predona. Bisogna aiutare gli italiani e recuperare quel senso per la Politica che Paolo VI definì come «una delle più alte forme di carità». Marco Bovo C OORDINATORE REGIONALE C I R C O L I LI B E R A L VE N E T O

A leggere la storia della comunione negata al bimbo disabile di Ferrara, viene subito in mente una domanda: Come si sarebbe comportato Gesù davanti a quel bambino affetto da un grave ritardo mentale? Lo avrebbe evitato dicendo che la sua malattia non lo rende capace di «intuire» – è il verbo usato dal sacerdote – il suo incontro con Lui (cioè l’Eucarestia) o lo avrebbe abbracciato chiedendogli «E tu come ti chiami?», cercando di capire e di alleviare il suo dolore? La risposta a me sembra chiara.Tuttavia nel comportamento di quel sacerdote si può rintracciare tutto il lungo percorso che dalla fede ha portato alla religione intesa solamente come un insieme di regole sterili e svuotate di umanità. Una sorta di legalismo farisaico. Il grande messaggio di Gesù era amatevi come io vi ho amato (un amore che lo ha portato fino a morire per noi). Tutto senza mai un giudizio e senza mai aspettare qualcosa in cambio. Un amore immenso e gratuito. Un’altra cosa che colpisce di questa vicenda è il metro di giudizio usato nel valutare le persone: senza limiti e senza condizionamenti quello di Gesù, pieno di limiti, di condizionamenti e di valutazioni quello degli uomini e nel caso specifico quello di questo uomo religioso investito del sacramento del sacerdozio.

Romina Fabi

LARGO AI GIOVANI Troppi pensionati, e nello specifico quelli che nella loro vita hanno avuto un buon lavoro e ora godono di una altrettanta buona pensione, continuano a lavorare con incarichi co.co.pro o con partita Iva o con altri contratti, togliendo anche questi posti di lavoro ai giovani. Se poi aggiungiamo i molti casi di doppio lavoro e quelli di lavoro regolare abbinato al lavoro nero, esce un quadro veramente preoccupante per le generazioni future. Come è possibile tutto ciò? Spero che i nostri governanti, come i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori e del settore pubblico, si rendano conto che anche questa è un’ingiustizia da correggere. Una regolamentazione in materia, secondo me, libererebbe moltissimi posti di lavoro e finalmente si lascerebbe spazio ai nostri giovani.

Marcello Iervolino

LA SERENITÀ DI ROSY MAURO Non si era mai vista in tv prima. Ha scelto il salotto di Bruno Vespa e voci di corridoio dicono che abbia barattato la sua presenza in cambio della sordina messa su quanto stava accadendo nel partito a via Bellerio la sera stessa della registrazione. Ma la cosa che mi ha lasciata più letteralmente di sasso è la sua dichiarata e ripetuta “serenità”. Credo, e per certi versi temo, che non mi troverò mai nella sua situazione, prima di tutto perché

non diventerò vice presidente del Senato. Ma, dovesse accadere, non riuscirei mai a dire sono serena, perché se non avessi fatto niente, di fronte a simili accuse e sospetti sarei indignata e inferocita. Se invece avessi qualche cosa da nascondere forse proverei a scusarmi anch’io come ha fatto lo stesso Bossi di fronte ai suoi elettori.

Alessandra Cimoli

LA CARICA DEI NOVEMILA ALL’ERGIFE Novemila ragazzi da tutta Italia si sono presentati per il test di accesso alla Cattolica. E la prova scritta di Medicina e chirurgia e Odontoiatria per l’Università Cattolica di Roma, per la prima volta ad aprile e per la prima volta all’Ergife Palace Hotel sulla via Aurelia, è stato un vero e proprio calvario. Lo stesso Ateneo ha deciso di spostare la sede dell’esame dalle aule del Gemelli al mega albergo, luogo tradizionale di concorsi e di esami di Stato. Ma la struttura – sede e città - non ha retto. Ventidue chilometri di coda. Un muro di macchine. E studenti che hanno cercato di raggiungere l’Ergife per l’esame a piedi, correndo sul marciapiede – dopo aver lasciato la macchina – per diversi chilometri, facendo l’autostop ai motociclisti di passaggio. Un caos. E anche i quiz. Centoventi domande a cui rispondere in due ore per conquistare uno dei 300 posti di Medicina o uno dei 25 di Odontoiatria. L’ap-

L’IMMAGINE

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Uno studio compiuto da un’agenzia di scommesse inglese su 9.500 corse di cavalli ha fornito una serie di risultati curiosi. Ci si potrebbe aspettare, specie su un numero così ampio di corse, che vittorie e altri “eventi” siano equamente distribuiti tra tutti i numeri. E invece no: pare che il numero sia strettamente correlato al risultato. In particolare, i cavalli che partono con il numero 1 vincono più spesso, così come quelli indicati con i numeri 2 e 3 hanno totalizzato il 40 per cento delle vittorie delle corse analizzate. Un dato inaspettato, visto che nella maggior parte delle corse, i cavalli sono ordinati in ordine alfabetico e quindi quelli con il numero 1 hanno un nome che inizia con la “A”. Ma non sono solo le vittorie a concentrarsi su numeri specifici: altre “combinazioni” sono emerse dallo studio. I cavalli con il numero 7 vengono squalificati più di frequente; quelli con il numero 2 cadono più spesso; quelli con il numero 3 disarcionano soventemente il fantino, arrivando però comunque al traguardo.

pello previsto per le nove è slittato a mezzogiorno; la fine dell’esame si è quindi protratto, causando la perdita di treni e di aerei previsti dagli studenti per il ritorno. Una pazzia. Scene degne della più tragica commedia italiana. Con la folla di studenti e di genitori in delirio che alla fine della prova cercavano la macchina abbandonata in mattinata pur di raggiungere in tempo l’Ergife.

Giampiero Tramontano

DOPO BOSUSCO, LIBERATE I NOSTRI MARÒ Paolo Bosusco è stato rilasciato dai suoi rapitori. Era stato sequestrato il 14 marzo nella foresta di Soroda mentre accompagnava in un trekking, insieme a due aiutanti indiani, il turista Claudio Colangelo, rilasciato poi il 25 marzo senza contropartite. «Sono finalmente libero, sto bene»: queste le sue prime parole ai microfoni del Tg1 dopo la sua liberazione. Un’immensa gioia mi ha pervasa mentre ascoltavo questa notizia. Spero e prego di poter gioire nuovamente e presto per la liberazione dei nostri due marò detenuti in India dallo scorso 5 marzo.

UNA ZTL ANCHE DOPO L’AMERICA’S CUP

Venerdì 20 aprile ore 17 - Bettona (PG) - Museo della Città Premio Renzo Foa 2012 “Il coraggio della verità”

VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

I numeri uno non arriveranno (quasi) mai ultimi

Claudia Ferro

APPUNTAMENTI

Venerdì 18 maggio ore 11- Piazza Pilotta 4 Centro Convegni Matteo Ricci - Roma CONSIGLIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

LE VERITÀ NASCOSTE

Una scarpa e una ciabatta Ora dal panettiere non basterà più chiedere “due ciabatte”, bisognerà specificare anche la misura. Idea dei fratelli gemelli R&E Praspaliauskas, questa strana collezione di moda è composta da scarpe e ciabatte fatte di vero pane. Ogni paio è unico e sono disponibili vari modelli confezionati in una elegante scatola di cartone. Resta solo da capire se vengono venduti al paio o al chilo

Devo confessare che ero personalmente tra i più scettici sull’iniziativa del sindaco di Napoli, De Magistris e della sua Giunta di chiudere il Lungomare, soprattutto il tratto di via Partenope, alle auto in occasione dell’America’s Cup. La protesta dei ristoratori della zona mi stava convincendo sui danni che avrebbe provocato la Ztl. Poi nel vedere direttamente quello spettacolo di bimbi, giovani e anziani passeggiare liberamente accanto al mare, sono stato “costretto” a fare un passo indietro e ho dovuto ammettere che il Lungomare della mia amata città non era stato mai così bello. Ma ora, una volta che le barche dell’America’s Cup, saranno andate via, occorrerà programmare e organizzare bene. Per esempio vedrei la chiusura di via Partenope soltanto il sabato, la domenica e nei giorni festivi, in modo da dare la possibilità ai commercianti di lavorare regolarmente negli altri giorni feriali.

Pasquale Vergara


mondo

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Basta con slogan e luoghi comuni, è tempo che l’Occidente affronti con determinazione i nodi Assad-Ahmadinejad-Putin

Tre guai per Mr. Obama I negoziati di pace in Siria, quelli sul nucleare in Iran e i rapporti con la Russia. Tutto da rifare di Michael Ledeen un tributo al declino dell’informazione moderna che così tante persone, da esperti a professori e da star del cinema a politici, continuino a ripetere stereotipi e slogan che sono palesemente falsi e, in tutta probabilità, pericolosi per la salute nazionale.Tuttavia, i sostenitori di questi pericolosi falsi miti sono ampiamente acclamati come i migliori e i più intelligenti di tutti (B&B, “the best and the brightest” ndt). Occorre ricordare il libro di David Halberstam dal titolo appunto The best and the brightest che indicava questa“élite”come gli stupidi architetti della debacle del Vietnam.Vorrei parlare di tre miti moderni, che occupano un’incredibile quantità di trasmissioni televisive, radiofoniche e di inchiostro. Ce ne sono molti altri, ma la discussione diventerebbe molto impegnativa.

È

1. I NEGOZIATI DI PACE IN SIRIA I B&B generano nuovi piani di “pace” di giorno in giorno ma le speranze che il massacro siriano si concluda in pace sono esigue. Il regime di Assad ha commesso troppi omicidi e torture, troppe persone sono state uccise e mutilate perché possiamo aspettarci

In queste pagine: il presidente americano Barack Obama. I tre leader di Iran, Siria e Russia: Ahmadinejad, Assad e Putin. Un’immagine delle recenti proteste anti-Assad a Damasco che si possa ragionare con i siriani. Il momento è passato. Gli storici sapevano che la “pace”di solito arriva dopo che una parte ha sconfitto l’altra parte in guerra, e i vincitori impongono delle condizioni ai perdenti. È di questo che trattano le “conferenze di pace”, e la “pace” è definita dalle condizioni imposte ai perdenti. Quindi se vogliamo che in Siria ci sia la pace, bisogna scegliere

una delle parti e aiutarla a vincere la guerra. Si potrebbe obiettare - come fa spesso l’amministrazione Obama - che disponiamo di informazioni incomplete e non siamo in grado di valutare la fase finale dei negoziati. Solitamente si tratta di questo, specialmente quando si ha a che vedere con una comunità di servizi segreti boriosa e fallita, come nel nostro caso. Ma una volta che scendia-

Tergiversare ancora non serve: se vogliamo davvero che a Damasco ci sia la pace, bisogna scegliere una delle parti e aiutarla a vincere la guerra

mo in campo, la situazione cambia (quando si muove l’America, tutto il mondo cambia) e i servizi segreti diventano più efficienti. Non serve tergiversare, né servono gli appelli per i“dialoghi di pace”prima che una delle parti abbia vinto. Dimentichiamoci nell’Onu e delle Ong. Soprattutto mettiamo da parte l’idea di “guidare stando dietro”. Ricordate Yoda: “Non tentare. Fai”

Trenta uomini inviati dal Palazzo di vetro andranno a “vigilare” sul regime e a verificare l’effettiva attuazione del piano di Kofi Annan

Gli osservatori Onu sulla via di Damasco di Pierre Chiartano l G8 si appella all’Onu per la Siria. Mentre la Turchia scivola lentamente sul piano inclinato del coinvolgimento diretto nella vicenda col vicino Assad. La mossa dell’Onu è una buona notizia, ma non basta. È come se, dopo l’urto del Titanic contro l’iceberg – che ne avrebbe causato l’affondamento di lì a poche ore – il sindaco di NewYork avesse fatto un appello all’Autorità marittima internazionale, non per inviare navi per il salvataggio, ma osservatori per contare i sopravvissuti. Saranno 30 e disarmati gli uomini delle Nazioni unite che dovrebbero andare a vigilare sulle malefatte del regime di Damasco.

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A favore della Siria si sono appellati i ministri degli Esteri del G8, riuniti alla Blair House, chiedendo ed ottenendo

dal Palazzo di vetro un’azione rapida per verificare e garantire l’effettiva attuazione del piano di Kofi Annan, perché quella raggiunta – per ora – in Siria è «una tregua fragile». Cominciata appena giovedì scorso. E non potrebbe essere altrimenti, visto che già ieri mattina arrivavano cattive

vatory for human rights, un organismo con sede in Inghilterra. Gli scontri sarebbero avvenuti nel villaggio di Khirbel el-Joz nel nordovest della Siria. Altre fonti riportavano scontri a fuoco fra tank di Assad e membri del Free syrian army (Fsa). Sorprende ancora l’indecisione di Ankara dopo l’incidente di

La tregua è stata considerata «fragile». E non potrebbe essere altrimenti, visto che già ieri mattina arrivavano notizie dal confine turco-siriano di scontri tra militari di Assad e oppositori nuove dal confine turco-siriano su scontri tra militari di Damasco e oppositori al regime. Ne dava subito notizia il sito online di Today’s Zaman, testata vicino al premier Erdogan, riportando le affermazione degli attivisti del Syrian obser-

qualche giorno che aveva visto le truppe siriane sparare sui profughi in territorio turco. Si erano contati i morti. Anche se l’incidente di Kilis è il casus belli che ha spinto la Turchia ad accennare per la prima volta all’articolo 5 del Trattato

dell’Alleanza atlantica, quello che fa scattare la solidarietà dei Paesi della più forte organizzazione militare del mondo quando un suo componente viene attaccato. Sarebbe una soluzione per Ankara che si trova a gestire una situazione complessa. Seguendo il dibattito interno turco si capisce il perché di tanta “riflessione”anche solo nel pensare di usare l’esercito sul confine siriano. La storia insegna quanto il rapporto tra arabi e turchi sia complicato.

Ankara non vuole assolutamente che scorra sangue arabo per propria mano, anche se si tratterebbe di quello di soldati asserviti a un regime sanguinario come quello di Damasco. È altrettanto vero che sta crescendo il partito di chi si sarebbe stancato di stare alla finestra a guardare


mondo

La retorica bellicosa di Washington non scalfisce più Teheran. Piuttosto colpiscono i tagli al bilancio militare e la ritirata dell’America da Iraq e Afghanistan

2. IL NUCLEARE IRANIANO Noi tutti abbiamo visto gli iraniani accorrere in massa per le strade delle loro città, guidati da uomini in turbante che inneggiavano “Morte all’America!”. Cosa pensate che volessero dire? La guerra che hanno intrapreso contro di noi dal 1979 dimostra che volevano dire proprio quello! Quindi perché dovrebbero rinunciare alla loro ul-

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tima arma? Credono che potrà renderli invulnerabili alla potenza militare americana (e israeliana). Credono che né il governo americano né quello israeliano possano effettivamente fare qualcosa per impedire a Teheran di costruirsi un arsenale nucleare. La retorica bellicosa di Washington e Gerusalemme non li scalfisce, piuttosto li ha colpiti la ritirata dell’America da Iraq e Afghanistan e i tagli al bilancio militare. Quindi non perdete tempo ad analizzare le dichiarazioni degli Ayatollah. Sono in guerra con noi e vogliono la nostra distruzione. I negoziati sono mosse tattiche per dividere i loro nemici, guadagnare più tempo per costruire il loro arsenale e respingere ulteriori sanzioni. Come sostengono gli editorialisti del Washington Post, per risolvere il problema del nucleare è necessario un cambio di regime a Tehran. Ma praticamente a nessuno dei B&B interessa discutere su come far crollare il regime iraniano, così come non stanno facendo niente per far crollare la tirannia di Assad a Damasco. Non pensate al nucleare, questa è guerra, idioti.

la carneficiana quotidiana che avviene in Siria. La Turchia, anche nel caso d’inevitabile intervento militare, preferirebbe non partecipare in prima persona. Teme le reazioni del mondo arabo sul lungo periodo e, anche se non lo ammette, la reazione dei turchi che tendenzialmente non amano gli arabi del Mashreq: i traditori dell’Impero Ottomano.

Un insieme di motivi che rendono ancora insicuro il comportamento di Erdogan quando il gioco si fa serio. Specie ora che Washington ha fatto un passo indietro e non è più il comodo capro espiatorio per ogni situazione. Adesso non ci sono più scuse per chi si candida a modello del nuovo grande Medioriente. Un riflesso condizionato di Ankara che spiega bene come al ruolo di Stato guida di quella regione, i turchi non rispondano ancora con un’adeguata sicurezza nei propri mezzi. Usiamo il termine turchi, ma sarebbe più corretto riferirsi ai leader dell’Akp, primo partito d’ispirazione islamica al governo. Insicurezza che aumenta dovendo usare lo strumento militare di cui il governo turco non si fida ancora “pienamente”, tanto per usa-

3. I RAPPORTI CON LA RUSSIA Con i paesi esteri, i “buoni rapporti”non sono compiuti da uomini e donne di buona volontà seduti attorno a un tavolo per ragionare insieme. L’idea quindi che possiamo instaurare felici relazioni con Russia dimostrando la nostra buona volontà è pura fantasia. Le buone relazioni sono il prodotto di altre cose. I valori culturali condivisi sono molto importanti e non ne abbiamo molti con il compagno Putin. In mancanza di una cultura comune, il successivo ingrediente importante nelle buone relazioni è il rispetto. L’“altro” deve considerarci molto seriamente, e rispettare il nostro potere e la nostra volontà. I russi certamente rispettano il nostro potere, ma, come gli iraniani, senza dubbio se la ridono alla nostra mancanza di determinazione e tenacia. Si tratta di un grande cambiamento perché erano rimasti molto colpiti dalla personalità di Reagan e delle sue persone-chiave. Contrariamente alla retorica dell’attuale segretario di stato, l’importante “azzeramento” è quello che già si è verificato: il cambiamento di come i russi (e gli altri) valutano la nostra volontà di combattere per la nostra posizione nel mondo. Il gruppo attuale dei leader russi non ci rispetta e quasi sicuramente non teme le conseguenze di una sfida nei nostri confronti. Questi comportamenti sono ampiamente condivisi, dal Medioriente all’America Latina. La mancanza di rispetto porta anche figure minori come il presidente Chávez in Venezuela a sognare un impero regionale, e un assalto mortale agli Stati Uniti. Dimenticatevi di risolvere le questioni attorno a un tavolo. La guerra contro di noi è in corso e non vedremo niente che si avvicini alla pace finché questa guerra non sarà vinta. Da noi o dai nostri nemici.

prio alla riunione degli Otto grandi a Washington, che ha spinto l’iter per trasformare l’appello in realtà con una bozza di risoluzione pronta già nel pomeriggio a New York (in tarda serata in Italia) in cui «il Consiglio di Sicurezza autorizza l’invio di 30 osservatori disarmati Onu in Siria». Perché se da una parte gli Otto grandi accolgono «con favore le notizie riportate dall’inviato speciale Kofi Annan sul placarsi delle violenze in Siria, almeno per il momento», ha affermato il segretario di Stato Hillary Clinton a conclusione del forum tra gli otto ministri degli Esteri, a pochi metri dalla Casa Bianca, questo «non basta».

re un eufemismo. In più c’è la consapevolezza che il regime di Damasco non sia esclusivamente un business della famiglia Assad, ma che abbia favorito circa due milioni di siriani, che oggi vedono in pericolo non solo i loro ingiusti privilegi, ma la loro stessa vita. Una consi-

derazione che la dice lunga su quanto potrebbe essere sanguinosa la battaglia per abbattere gli oligarchi di Damasco.

Poi c’è il capitolo Cina e Russia, sponsor del regime di Damasco. Anche se c’è stata un’inedita apertura di Mosca pro-

Non basta per lavorare ad una soluzione definitiva della crisi siriana, concordano i ministri, per l’Italia era presente Giulio Terzi. Ora la palla passa al premier turco Erdogan, l’unico che potrebbe rapidamente aprire la porta di un intervento diretto in Siria, appellandosi ufficialmente al famoso articolo 5 della Nato –utilizzato l’ultima volta per l’intervento in Afghanistan – mentre si stima che circa 19mila cittadini turchi stiano rientrando dalla Siria dei massacri.


mondo

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Aerei, carri armati e artiglieria pesante: i due Paesi continuano a combattersi con ferocia (e a contendersi il petrolio)

Il vero mal d’Africa I nuovi violenti scontri tra il Nord e il Sud Sudan tornano a infiammare la zona subsahariana di Maurizio Stefanini li Stati Uniti sono enormemente allarmati da quello che sta succedendo, sollecitiamo entrambe le parti a cessare immediatamente il fuoco ai confini perché l’escalation potrebbe uscire fuori dal controllo», avverte allarmata la portavoce del Dipartimento di Stato Usa Victoria Nuland. «Il movimento delle forze armate del Sudan del Sud per occupare Heglig è completamente inaccettabile, come lo è il continuato bombardamento del Sudan del Sud da parte delle forze del Sudan», dice in modo anche più ultimativo l’Alta Rappresentante gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza dell’Unione Europea Catherine Ashton.

«G

Era in agenda per fine mese, l’incontro tra il presidente sudanese Omar al-Bashir e il suo collega sud-sudanese Salva Kiir. Ma a un mese dal vertice, il 26 e 27 marzo gli eserciti dei due Paesi si sono affrontati con ferocia nella regione di Heglig, ricca di petrolio e rivendicata da entrambi gli Stati, anche se secondo la comunità internazionale apparterebbe in effetti al Nord. Aerei, carri armati e artiglieria pesante sono stati buttati nella battaglia, di cui entrambe le parti si sono rinfacciate a vicenda la responsabilità di aver iniziato. Poi martedì scorso l’aviazione di Khartoum ha iniziato a martellare il Sud. Mercoledì, mentre Ban Ki-moon

chiedeva di ristabilire l’appuntamento tra i due presidenti, l’esercito sud-sudanese ha lanciato una vasta offensiva, riuscendo a far arretrare gli avversari. Khartoum ha ammesso che i sudisti si erano impadroniti dei pozzi che rappresentano almeno la metà della residua produzione di petrolio sudanese, già ridotta a un quarto con l’indipendenza del Sud. Ma allora gli attacchi aerei si sono concentrati sulle linee di rifornimento degli attaccanti, e giovedì mattina aerei sudanesi hanno lanciato cinque bombe sulla località di Bentiu, a 60 km dalla frontiera, appunto per far saltare un ponte. «Avevano già attaccato il nostro territorio, con alcune aree e infrastrutture dei campi petroliferi, ma Bentiu è la prima località colpita», ha detto il viceministro dell’Informazione del Sud, Atem Yaak Atem. «Penso che vogliano interrompere la nostra capacità di comunicazione e di trasporto. Cercano pretesti per ricominciare una guerra». Ma Kiir a sua volta ha risposto in Parlamento a Onu e Unione Africana che non ritirerà le truppe da Heglig. Per il momento non sfida apertamente il confine internazionalmente riconosciuto, ma dice che Heglig gli serve per impedire che i nordisti lo utilizzino come base per lanciare attacchi contro il

Qui sopra, il leader del Sudan Omar al-Bashir. In basso, il suo omologo del Sud Sudan, Salva Kiir. A destra, soldati sudanesi e bambini africani Sud. A sua volta, però, il Nord chiama alla mobilitazione generale. A parte l’esatta delimitazione delle frontiere, un altro punto di frizione è che il Sud dopo l’indipendenza ha sì ereditato i tre quarti delle riserve petrolifere; ma è tuttora costretto a usare gli oleodotti rivolti verso i porti del Nord per esportare il greggio, e accusa i nordisti di estorcere un pedaggio esorbitante. Indipendente dal 9 luglio del 2011, il Sudan del Sud è l’ultimo Stato che l’Onu ha ammesso tra i suoi membri, il 14 luglio successivo. Non l’ultimo Stato a essere proclamato: pur non riconosciuto ancora da nessuno, dallo scor-

popoli arabizzanti che rappresenta una delle linee di faglia principali del Continente: anche se in Mali i secessionisti sono i nordisti arabizzanti e in Sudan invece i sudisti sub-sahariani. Proprio nel momento in cui l’Africa nel suo complesso ha iniziato a imboccare un percorso sia pure incerto di sviluppo, questo inizio di balcanizzazione promette di essere per il Continente uno dei fenomeni più destabilizzanti degli anni a venire. Eppure, nella sostanziale disattenzione dei media mondiali fu proclamata l’indipendenza del Sudan del Sud; nella sostanziale disattenzione dei media mondia-

L’allarme degli Stati Uniti: «Profondamente preoccupati, sollecitiamo entrambe le parti a cessare immediatamente il fuoco ai confini perché l’escalation potrebbe uscire fuori dal controllo» so 6 aprile in seguito alla rivolta dei Tuareg del Nord del Mali esiste anche l’Azawad. Due eventi per molti versi distinti tra di loro, ma per molti versi collegati. Entrambi, in particolare, ci dicono dello sgretolamento di quei confini coloniali che, sebbene manifestamente arbitrari, dopo il 1960 i nuovi Stati africani avevano convenuto di non toccare: proprio per evitare un contenzioso senza fine. E il conflitto tra Nord e Sud del Mali e Nord e Sud del Mali appartiene per giunta proprio a quella dialettica tra popoli subsahariani e

li è avvenuta la secessione dell’Azawad; nella sostanziale disattenzione dei media mondiali sta riaccendendosi il confitto tra Sudan del Nord e del Sud appunto per la delimitazione di confini che insistono su zone particolarmente ricche di petrolio. L’indipendenza del 9 luglio 2011, per la verità, era stata messa in agenda dalle redazioni Esteri, ma poi si scatenò la Primavera Araba, e gli inviati furono dirottati in Libia. E adesso sono la Siria e l’Iran, ma più ancora la crisi del mondo sviluppato, ad attrarre su di sé i riflettori. Invece, proprio la Primavera Araba ha abbastanza a che fare con gli ultimi sviluppi. Innanzitutto,

sono stati miliziani tuareg già combattenti con Gheddafi che attingendo agli arsenali della exGiamahiria hanno provocato l’escalation nel Nord del Mali. Poi, malgrado in teoria il Sudan di alBashir e la Libia di Gheddafi fossero classificati entrambi nell’Asse del Male e malgrado gli oppositori sudanesi in principio fossero scesi in piazza anche loro sull’effetto del contagio tunisino, in pratica il regime della Giamahiria si era messo ad appoggiare i ribelli del Darfur. Dunque, quando in Libia è scoppiata la guerra civile anche guerriglieri del Darfur hanno combattuto nella variopinta legione straniera gheddafista, mentre il regime di Khartoum mandava aiuti ai ribelli. La vittoria degli antigheddafisti ha rappresentato dunque per al-Bashir non solo un rafforzamento, ma anche un’ammissione in quel nuovo club dirigente arabo che si estende dalle monarchie del Golfo agli islamisti vincitori delle elezioni in Egitto, Tunisia e Marocco, fino appunto al governo provvisorio libico.

Ma a questo punto non bisogna dimenticare che non appena indipendente il Sudan del Sud ha subito cercato relazioni speciali con Israele, dopo che fin dagli anni ’80 lo Stato ebraico aveva appoggiato la rivolta sudista. Lo scorso dicembre Salva Kiir è venuto in visita a Gerusalemme accompagnato dai suoi ministri della Difesa e degli Esteri, chiedendo assistenza in materia di tecnologia, industria e sviluppo idrico, e ottenendo l’invio a Juba di una missione di coope-


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clausola dell’accordo di pace del 1972 prevede l’inquadramento di gran parte dei guerriglieri nell’esercito regolare, con il riconoscimento del loro grado. Ma alcune bande rifiutano il compromesso, e si rifugiano in Etiopia dandosi di nuovo alla macchia: è il movimento Anya Nya II. E dopo che un Nimeiry in crisi di popolarità pensa di cavalcare la tigre montante dell’integralismo islamico sciogliendo l’assemblea regionale del Sud, nominando procuratore generale il leader del gruppo integralista dei Fratelli Musulmani, e iniziando a spostare le unità sudiste per sostituirle con militari arruolati nelle zone islamiche, nel febbraio 1983 le guarnigioni di Bor, Pibor Post e Pochala si ammutinano.

razione israeliana. E a marzo il Sudan del Sud ha manifestato addirittura l’intenzione di tenere la propria ambasciata a Gerusalemme invece che a Tel Aviv: come fa invece la quasi totalità degli Stati del mondo, pur di non dover affrontare lo spinoso nodo della sovranità sulla Città Santa. Ma prima di Salva Kiir in Israele era venuto il primo ministro kenyota Raila Odinga, a cui Netanyahu aveva assicurato un impegno militare per contrastare l’insurrezione jihadista somala. Si è delineato così un asse Sudan del Sud-Kenya-Israele in cui lo Stato ebraico mette il know how e i capitali, il Sudan del Sud il petrolio e il Kenya quel porto di Lamu che darebbe al Sudan del Sud uno sbocco al mare, permettendogli di esportare direttamente il suo petrolio senza passare per Khartoum e i suoi esosi oleodotti. Un asse che inoltre serve a Israele per sostituire la sempre più vacillante alleanza israeliana, e assieme ai buoni rapporti che ha anche con Etiopia, Eritrea e Uganda anche di aggirare da sud il nuovo blocco arabo. Anche se i cattivi rapporti tra Etiopia e Eritrea sono a loro volta fonte di complicazione. Il fatto stesso che il Sudan del Sud non sia riuscito a trovare un nome diverso farebbe intendere un’indipendenza in qualche modo artificiale, ma sebbene la sua identità sia in qualche modo incerta, comunque è ben distinta da quella del Nord. “Paese dei Neri” è il significato in arabo di Bilad al-Sudan. Antica terra dei regni di Kush e Meroe, col nome di Nubia l’attuale nord rimase

cristiano per tutto il Medio Evo, ma tra XIV e XVI secolo fu infine conquistato da popoli islamici, che imposero anche l’uso dell’arabo. La colonizzazione prima egiziana e poi inglese portò però nel XIX secolo all’integrazione a ovest del Darfur, pure islamizzato, ma non arabizzato; e a sud di quella che allora fu chiamata Equatoria e adesso è diventato il Sudan del Sud.

Popolato da africani non arabofoni e animisti, in seguito sempre più convertiti al cristianesimo, e a lungo vittime delle scorrerie degli schiavisti del Nord. Nell’agosto del 1955 unità di soldati e di poliziotti del Sud non aspettano neanche l’indipendenza per iniziare ad ammutinarsi. La rivolta sarà domata, ma alcuni ribelli riescono a fuggire nelle aree rurali, iniziando la guerriglia. Ben presto si uniscono a loro gruppi di studenti, creando il movimento Anya Nya:“veleno di

serpente”. E dopo l’indipendenza, nel 1956 la lotta continuerà, anche se solo nel 1971 l’ex tenente dell’esercito Joseph Lagu riuscirà a unire tutte le bande ribelli sotto il comando comune del Movimento di liberazione del Sudan meridionale (Sslm). Più che un fine militare, l’iniziativa ha quello politico di agevolare l’offerta di trattative del presidente generale Nimeiry, che è salito al potere nel 1969 con un golpe di ispirazione nasseriana. Nel marzo 1972 si arriva ad Addis Abeba a un accordo di pace, sulla base della concessione al Sud di un’ampia autonomia regionale, sotto un’amministrazione locale unificata. Bilancio finale di questa prima guerra civile: mezzo milione di morti. Paradossalmente, per effetto dell’accordo di pace, nel 1973 nel Sud viene eletta un’assemblea regionale con un voto pluralista, proprio mentre nel resto del Paese continua il regime a partito unico. Un’altra

Contro di loro è inviato ad agosto John Garang: un colonnello di etnia dinka e di fede anglicana che ha studiato Economia all’Università dello Iowa e ha pure fatto uno stage come comandante di compagnia presso l’esercito Usa, ma che invece di convincere i ribelli a ripensarci, si mette alla loro testa, e persuade ad ammutinarsi altre guarnigioni. Quando a settembre Nimeiry proclama la legge coranica in tutto il Paese, il colonnello ribelle contatta gli Anya Nya II e con loro costituisce in Etiopia il Movimento popolare di liberazione del Sudan, il cui braccio armato è l’Esercito popolare di liberazione del Sudan. È l’inizio della seconda guerra, che durerà fino al 2005. Nel 1985 Nimeiry è deposto da un golpe del generale Sewar el-Dahab, che revoca la legge coranica, ristabilisce il pluralismo e offre allo Spla un tavolo di trattative. Ma il dialogo abortisce, e il 30 maggio 1989 un nuovo golpe porta al potere appunto il feldmaresciallo al-Bashir, alleato dei Fratelli Musulmani, e alleato anche di Saddam Hussein e Osama Bin Laden. Solo dopo una decina di anni le pressioni Usa portano a una rottura tra al-Bashir e i Fratelli Musulmani, che rilancia il dialogo. Il 2002 è l’anno in cui il numero delle vittime civili a partire dal 1983 raggiunge i 2 milioni, ma un accordo di pace è firmato a Nairobi il 9 gennaio 2005. Pace tra Nord e Sud, visto che tra Nord e Ovest si è intanto aperto l’altro conflitto del Darfur. Garang diventa comunque vicepresidente della Repubblica, per essere sostituito da Salva Kiir dopo la sua morte. E tra il 9 e il 15 gennaio del 2011 si tiene il referendum in base al quale il 98,3% dei votanti del Sud opta per l’indipendenza. Un risultato che porta appunto alla proclamazione del novo Stato del Sudan del Sud. Ma che non ha impedito il precipitare di questa terza guerra.

e di cronach

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REALTÀ

Il pensiero serve a identificarla. E ad aiutarci a decifrare la verità che ne consegue. Anche se i filosofi disputano sull’obiettività dei fatti o sulla loro interpretazione di Giancristiano Desiderio filosofi non sono persone tranquille e pacifiche. Proprio no. Sono inquieti e, soprattutto, se le danno di santa ragione. Non da oggi, da sempre. Platone, tanto per fare un nome, non sopportava Democrito e la sua teoria degli atomi, a tal punto che nei suo “mitici” dialoghi l’unico nome assente della filosofica famiglia greca è proprio Democrito. Cancellato, censurato, come se non fosse mai esistito. Arthur Schopenhauer non sopportava la filosofia di Hegel ma anche il piccolo particolare che le lezioni del filosofo della Fenomenologia dello spirito erano affollate all’inverosimile e quelle di Schopenhauer, nonostante tanta rappresentazione e tanta volontà, le seguivano quattro gatti. Così Schopenhauer ricorse all’insulto, che teorizzò come rimedio dell’extrema ratio: «Hegel è uno sciupatore di carta, di tempo e di cervelli». Ottimo insulto. Ancora un assaggio: «Hegel, insediato dall’alto, dalle forze al potere, fu un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato che raggiunse il colmo dell’audacia scarabocchiando e scodellando i più pazzi e mistificanti non-sensi». Il catalogo degli insulti di Schopenhauer - anche sui giornalisti:

I

«Sono solo allarmisti» - è foltissimo e rimando al volumetto L’arte di insultare. Un’arte che non è mancata a Waismann (anche senza leggere Schopenhauer) il quale non ce la faceva più a sentirsi ripetere la frase di Wittgenstein - «Qual è lo scopo della filosofia? Far uscire la mosca dalla bottiglia» - e sbottò: «Per rispetto taccio ciò che stavo per dire».

La storia delle polemiche filosofiche continua in eterno. La cosa non deve stupire perché le idee filosofiche sono per loro natura polemiche, cioè per affermare se stesse devono necessariamente negare altre idee. I due maggiori filosofi italiani del Novecento, Croce e Gentile, furono amici e poi divennero nemici. Si divisero prima sul piano filosofico e poi su quello politico: il primo opponendosi al fascismo, il secondo teorizzandolo (anche se la sua filosofia come “atto puro”è l’esatto opposto di un immobile regime, come giustamente ha sempre sottolineato Emanuele Severino). Oggi in Italia ci sono due filosofi che si scornano dopo essere stati amici: Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris. Il primo è il filosofo del “pensiero debole” e il secondo è l’autore di un libro intitolato Manifesto del nuovo rea-

lismo che ha al suo centro il recupero della nozione di “realtà”e la critica del postmoderno sfociato nel populismo e nel realitysmo. Nel suo ultimo libro intitolato Della realtà, Vattimo adotta la strategia di Platone nei confronti di Democrito - lo so, sto esagerando con il paragone, ma tanto è solo filosofia - cioè critica Ferraris senza mai nominarlo e dice che i nuovi realisti sono degli irrealisti e alla fine dei conti ciò che a loro fa difetto è proprio la “realtà”. A questo punto come Socrate - mi trovo a esagerare chiedo: «Che cos’è la realtà?». I filosofi moderni coltivano una particolare ossessione: «In che modo l’uomo incontra il mondo?». Cioè: come facciamo a essere certi che il mondo “là fuori” c’è effettivamente e non sia solo un’illusione o «una mia rappresentazione»? Il problema, secondo Ferraris, ha la sua origine con Kant che con i suoi giudizi sintetici a priori risolverà l’ontologia nell’epistemologia o il mondo nel sapere e così si aprirà la strada al postmoderno e alla dissoluzione del mondo reale. Per noi comuni mortali il problema del mondo“là fuori”non è un problema perché ci atteniamo un po’ al senso comune e un po’ decliniamo la sintesi kantiana non (solo) con l’epi-


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per saperne di più

hanno detto Sigmund Freud

Arthur Schopenhauer L’arte di insultare Adelphi

Possiamo senz’altro definire l’educazione un’esortazione a superare il principio del piacere e a sostituirlo con quello della realtà.

Giovanni Reale - Dario Antiseri Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi La scuola, volume terzo

John Keats La fantasia è senz’altro inferiore alla realtà concreta, ma è meglio del ricordo.

Maurizio Ferraris Manifesto del nuovo realismo Laterza

Guy de Maupassant Il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà come per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno.

Gianni Vattimo Della realtà Garzanti a cura di Santiago Zabala Una filosofia debole Garzanti

George Orwell È il destino inevitabile del sentimentale. Tutte le sue opinioni mutano e si trasformano in quelle opposte al primo tocco della realtà.

Friedrich Nietzsche Crepuscolo degli idoli Adelphi

Giovanni Papini Il progetto non è forse il tè, il caffè, l’oppio, l’haschisch della vita? Non è forse il sostituto, il surrogato, la caparra della realtà?

Hannah Arendt Che cos’è la filosofia dell’esistenza? Jaca Book Roberto Esposito Pensiero vivente Einaudi

stemologia ma anche con l’estetica e la storia e così la filosofia non si configura come la dissoluzione della realtà bensì come ciò che la identifica perché la distingue nelle sue diverse dimensioni: della natura, della storia, degli uomini, del divino o di ciò che rientra nel dominio della nostra volontà e ciò che (per fortuna) le sfugge. Ma di questa tradizione critica della filosofia italiana ai nostri filosofi amici e poi nemici interessa poco.

Per dare corpo al suo pensiero Ferraris fa ricorso a quello che chiama “esperimento della ciabatta”. Dice: «Prendiamo un uomo che guarda un tappeto con sopra una ciabatta; chiede a un altro di passargli la ciabatta, e l’altro, di solito, lo fa senza incontrare particolari difficoltà». L’esperimento dimostra che la realtà “là fuori”- la ciabatta - non è un’opinione, è uguale per i due uomini che al di là delle loro diverse culture o modi di vedere le cose e le azioni possono intendersi sulla realtà - la ciabatta che è un fatto esistente indipendente dal sapere. L’esperimento continua con un cane: «Portami la ciabatta» e il cane addestrato, pur non avendo il cervello umano, incontra la ciabatta. Quindi è la volta del verme al quale non si potrà neanche dire «portami la ciabatta», però «strisciando sul tappeto» anche il verme «incontra la ciabatta» e «può scegliere tra due strategie: o le gira intorno, o le sale sopra. In ambo i casi, ha incontrato la ciabatta, anche se non proprio come la incontro io». Dopo il verme è la volta dell’edera che pur non sapendo nulla di

Luigi Pirandello Ogni realtà è un inganno.

Occorre conservare una certa idea dell’essere come qualcosa di dato, ma senza cadere nel destino. Allo stesso modo va tutelata la libertà umana senza cadere nel soggettivismo

nulla della ciabatta, come del resto il verme, «o aggirerà la ciabatta, oppure ci salirà sopra». Per finire - dice il filosofo del “realismo moderato” - prendiamo una ciabatta che non sa niente di niente, meno del verme e meno dell’edera, meno di zero, e la tiriamo contro la ciabatta sul tappeto. Cosa accade? La ciabatta “incontra” la ciabatta. E anche senza prendere un’altra ciabatta si può ricorrere alla prima ciabatta che è lì sul tappeto anche se nessuno la ve-

La celebre pipa di Magritte. Sopra, scene da un famoso reality show. Nella pagina a fianco, in alto, un’immagine emblematica del film “Truman Show” con Jim Carrey de, nessuno dice a nessuno di prenderla, nessun cane la prende in bocca, nessun verme le monta sopra o le gira intorno, nessuna edera la avvolge: insomma, la ciabatta esiste indipendentemente da me e dai

miei organi di senso. L’esperimento della ciabatta è perfettamente riuscito e ora sappiamo - ma il verbo sapere è ininfluente - che “là fuori” c’è realmente la ciabatta e siccome non sono Waismann, ma sento montare in me la filosofia insultante di Schopenhauer, la posso anche prendere e tirare dietro a Ferraris che avrà così effettivamente ragione nel considerare la inemendabilità della realtàciabatta. I due amici-nemici filosofi si dividono sulla realtà.Vat-

timo ripete Nietzsche e dice «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», mentre Ferraris risponde dicendo che esistono i fatti altrimenti il rischio è che il mondo diventi una favola e non si sa come distinguere le cose vere dalla propaganda, i giusti dai barbari. Come al solito tutto ruota intorno al rapporto tra l’essere e il pensiero. La nozione di verità si porta dietro quella di verità: non a caso Vattimo sostiene che dobbiamo dire Addio alla verità mentre Ferraris la ritiene tutt’altro che inutile, necessaria. La disputa condotta dal filosofo debole e dal pensatore del neo-realismo non ci conduce da nessuna parte. Ciò che non si considera, soprattutto per ragioni di scuola e di partito preso, è che possiamo sia prendere la realtà senza cadere nel realismo ingenuo, sia dissolvere realtà e verità senza cadere nel postmodernismo.

Lo storicismo italiano o la tradizione critica del pensiero italiano non serve per dissolvere la realtà ma per individuarla e lo fa proprio perché il mondo reale (o vero) non lo pensa più come il mondo “là fuori” o come essere, ma come fatto o storia. Con la filosofia italiana la vecchia idea della verità come adeguazione dell’intelletto alla cosa è superata nella verità come giudizio storico. In questo senso il pensiero è, come diceva Hannah Arendt, «preparazione alla realtà»: va conservata una certa idea dell’essere come qualcosa di dato, ma senza cadere nel destino, e allo stesso modo va tutelata la libertà umana senza cadere nel soggettivismo.


ULTIMAPAGINA

Dopo tanto clamore (e altrettante polemiche), esplode in volo e si schianta in mare il missile lanciato da Pyongyang

La Corea del Nord fa un buco di Mario Arpino l nuovo fallimento di un vettore spaziale non cambierà nulla nell’atteggiamento della Corea del Nord. La politica degli annunci esterni continuerà come prima, mentre all’interno tutto si risolverà con l’usuale fucilazione di qualche capo-programma e qualche tecnico. A volte sembra di intravedere deboli segnali di apertura, ma dura poco e ben presto è necessario ricredersi. Tuttavia, ogni tanto in questo strano Paese avviene qualcosa di nuovo. Nel novembre 2010 aveva fatto scalpore la visita dello scienziato Siegfied Heker della Stanford University al reattore sperimentale ad “acqua leggera” da 30 megawatt, che avrebbe già dovuto entrare in funzione. Ieri, dopo tanto clamore, abbiamo avuto notizia del fallimento del missile «lanciatore di satelliti meteorologici e da osservazione della terra», esploso in volo. Questa volta, dopo il triplice insuccesso delle prove precedenti, almeno il missile è partito, ed è già un bel progresso. Cosa sarebbe effettivamente riuscito a trasmettere il piccolo satellite se fosse arrivato in orbita lo vedremo al prossimo lancio. Forse. Ma ciò

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Ma il fallimento del test non cambierà nulla. La politica degli annunci esterni continuerà come prima, e all’interno tutto si risolverà con la fucilazione di qualche tecnico non ha alcuna rilevanza, visto che per le autorità nordcoreane è stato comunque importante aver posto in atto il solito ricatto. Che, ancora una vota, li porterà ad incassare - dopo le immancabili sceneggiate e minacce di sanzioni a Palazzo di Vetro - nuovi aiuti per sfamare la popolazione. È ormai un gioco delle parti ben conosciuto, cui tuttavia nessuno degli attori sembra volersi sottrarre. Di fatto, quindi, pur nell’ insuccesso tecnico si tratta un nuovo smacco agli Usa - questa volta impersonati dall’esitante Barack Obama - dopo quello a suo tempo subito da George Bush, quando aveva creduto che chiudendo per punizione il progetto di collaborazione nel reattore ad acqua leggera de-

NELL’ACQUA stinato alla produzione di energia elettrica ne avrebbe precluso per sempre ai nordcoreani la realizzazione. Ed ecco che, a distanza di due anni, si costruisce un altro scoop con ramoscello d’ulivo da parte di Pyongyang.

La settimana scorsa la novità, senza precedenti, dell’invito di giornalisti stranieri alla base spaziale di Tongchang-ri, nel nordovest del Paese, perché potessero constatare che quello “pronto” sulla rampa (si fa per dire...) non era un missile balistico mascherato, come invece sostengono Usa, Corea e Giappone, ma un normale vettore per posizionare in orbita un piccolo satellite. A livello politico il fallimento del lancio vero e proprio, a questo punto, si configura come un non-evento. Si rifaranno presto, con altri annunci e altri scoop. Sono passati sessant’anni dalla fine della guerra eppure, tra le molte oscillazioni, minacce e ripensamenti, dopo tutta questa aggressività declaratoria non succede mai nulla di serio che assomigli ad un’azione o ad una vera reazione della comunità internazionale.

Al massimo qualche restituzione di cannonate verso un paio di isolette, tanto contestate quanto disabitate. Perché? Alla Corea del Nord, infatti, è d’uso perdonare sempre tutto, dallo sterminio per fame della propria popolazione alla minaccia nucleare, dal cannoneggiamento delle isole al misterioso siluramento della corvetta, mentre in altri casi anche recenti l’intransigenza dell’Occidente e dei suoi amici - sempre con l’avallo dell’Onu, si intende - si è spinta perfino all’azione armata. Anche pesante, come sulla Libia. Il fatto è che le due Coree stanno bene a tutti così come sono, ben divise da quel 38° parallelo di tragica memoria. Gli americani non cercano altri guai e così, presi come sono da tanti problemi, hanno deciso di ignorare la Corea del Nord sul piano strategico. Evidentemente, anche a Russia e Cina le cose stanno bene così, seppure l’una finga di indignarsi e l’altra si affanni a raccomandare la calma. Per loro, questa situazione è sicuramente preferibile ad una Corea unificata, ma nell’orbita di un’alleanza con Giappone e Stati Uniti d’America.


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