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he di cronac

Il coraggio è la prima

di tutte le qualità umane perché garantisce le altre Winston Churchill

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 3 APRILE 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il commento del grande analista

LA VITTORIA DI AUNG SAN SUU KYI

Ora anche in Asia può partire la primavera

Signora libertà

di Robert D. Kaplan a lenta ma continua apertura del Myanmar e la normalizzazione delle relazioni internazionali hanno la possibilità di cambiare profondamente la geopolitica dell’Asia, ed evidentemente in meglio. Grazie anche alla centralità geografica.

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Ventidue anni dopo, trionfando alle elezioni, il Nobel per la pace si riprende il seggio che la Giunta militare le aveva rubato nel 1990. E il mondo spera in una rapida stagione di riforme in Birmania

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A febbraio, disoccupazione record: ora è a 9,3. Ma il dato più preoccupante è quello dei giovani: quasi il 32% è senza impiego

Il disgelo di Alfano e Bersani Il segretario Pd apre: «La riforma del lavoro va fatta entro maggio, non siamo a rimorchio della Cgil». Il segretario Pdl raccoglie il segnale e risponde subito: «Pronti all’accordo» SVOLTE

di Francesco Pacifico

Finalmente tutti usano i toni giusti

ROMA. Qualcosa è cambiato. Il tono di Bersani sulla riforma del lavoro, per esempio: «Vogliamo approvarla, non sono a rimorchio della Cgil». Il nodo è sempre lo stesso - l’articolo 18 ma il modo di scioglierlo è nuovo. Tanto è vero che Alfano ha raccolto subito il ramoscello d’olivo: «Noi siamo pronti». Perché fuori, la disoccupazione preme: ormai è al 9,3%.

di Riccardo Paradisi al lungo travaglio del Pd sembra essere nata una disponibilità nuova nei confronti della riforma del lavoro. Nuova anzitutto nei toni: non più aut-aut, accuse di arroganza e insensibilità sociale al governo tecnico ma un appello da parte del segretario Pd Bersani al lavoro comune, a fare insieme la riforma. «Diamo al giudice - prosegue - la possibilità di scegliere soltanto per quei casi tra due opzioni: il reintegro o l’indennizzo. Ho la sensazione che anche nel Pdl ci stanno riflettendo. Perché il problema esiste e non tocca solo le tute blu». Bersani ha intenzione di trovare un compromesso anche senza la Cgil. a pagina 6

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Due esempi di intellettuali non aggressivi

Ghirelli e Calabrese, due gentleman della cultura italiana

a pagina 6

Un passo avanti verso la nuova legge elettorale

Cicchitto manda in pensione il bipolarismo: «Così com’è, ha fallito. A destra e a sinistra»

di Giancristiano Desiderio

Nel corso di un dibattito organizzato a Roma dalla Fondazione Riformismo&Libertà, Adornato e D’Alema, Alemanno e Bertinotti discutono di partiti e di nuove regole

EURO 1,00 (10,00

ntonio Ghirelli, classe 1922, e Omar Calabrese, classe 1949, sono stati accomunati dalla morte che se li è portati via come due gemelli, a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Forse, l’illusione di un motivo c’è: lo stile discreto e operoso che li contraddistingueva. a pagina 8

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Errico Novi • pagina 7 CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

65 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 3 aprile 2012

La vittoria del partito della Nobel per la pace alle elezioni in Myanmar è un segno inequivocabile per l’Asia intera

Il giorno della libertà

Dopo ventidue anni, Aung San Suu Kyi si riprende il seggio parlamentare che la giunta militare le aveva tolto. Tutto il mondo festeggia. La prima a congratularsi è stata Hillary Clinton: «Adesso tutti lavorino a nuove riforme» di Luisa Arezzo l’inizio di una nuova era». Ecco le prime parole di Aung San Suu Kyi all’indomani dalle elezioni suppletive in Myanmar che l’hanno portata in Parlamento e fatto conquistare al suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, 40 dei 44 seggi in palio (l’Lnd li rivendica tutti, bisognerà aspettare ancora domani per capire l’esito del voto in quattro distretti). Una piccola quota, considerando i 1160 parlamentari totali, ma dal valore immenso. Certo, non è ancora il momento di cantar vittoria, la strada del cambiamento e delle riforme sarà irta di ostacoli, fra questi c’è anche chi ventila un nuovo possibile colpo di Stato, ma è incontestabile il fatto che la Nobel per la pace, la “lady delle ghirlande” come a molti piace chiamarla, abbia vinto la sua battaglia personale contro la Giunta militare del suo Paese. L’altro vincitore, meno noto e meno evidente, è Thein Sein, l’ex generale eletto presidente nel febbraio 2011. Ha vinto

«È

contro i falchi del regime, di cui aveva fatto parte. «Se falliamo, finiremo in prigione» aveva dichiarato un anonimo parlamentare schierato con lui alla vigilia delle elezioni. Parole che chiariscono il clima di resa dei conti che aleggia sul governo birmano e che può ancora essere in grado di bloccare la strada riformista di Yangon.

Una bomba ad orologeria che può essere disattivata probabilmente solo dall’unione dei due vincitori. In questo senso non ci sarebbe da stupirsi se il presidente Thein Sein fosse premiato con il Nobel per la Pace, equiparandolo alla Signora, che l’ha vinto nel 1991. Come accadde a Frederik Willem de Klerk, ultimo presidente del Sudafrica dell’apartheid. Anche lui, dopo una carriera da conservatore, avviò la politica che avrebbe trasformato il paese. Nel 1993 gli fu assegnato il Nobel, condiviso con Nelson Mandela. Aung San Suu Kyi lo ha vinto prima (ma non l’ha mai potuto ritirare...), se lui re-

stasse al suo fianco, potrebbe condividerlo. La Signora lo sa. Bisogna vedere quanto sia disponibile a trattare con lui. Le prime indiscrezioni la vogliono già a capo di un dicastero o comunque destinata a un ruolo di prestigio, lei glissa sull’argomento, dicendo di essere interessata solo al seggio del suo distretto. Ma qualora dovesse accettare qualcosa di diverso, sarebbe evidente che la via di un compromesso dagli esiti imprevedibili sarebbe stata presa. E l’unico suo vero alleato, in questa delicatissima fase, sarebbe il generale Sein. La Mandela birmana, è lampante la similitudine fra i due, al netto del fatto che Aung San Suu Kyi non ha mai abbracciato la lotta armata, facendo della non violenza di stampo gandhiano la sua cifra distintiva, è adesso libera e potrebbe correre - il condizionale è d’obbligo - anche alle elezioni presidenziali nel 2015. Un risultato che fino a poco tempo fa sembrava impensabile. La cautela di Suu Kyi, però, è anche detta-

ta dalla necessità di non spaventare l’ala più irriducibile dell’ex giunta. Perché anche se la struttura di potere per ora non cambia, il dirompente risultato dell’Nld ha ormai reso chiaro che, in caso di voto libero, alle elezioni generali del 2015 la volontà popolare pre-

Il partito della ”Signora” ottiene almeno 40 dei 44 scranni. L’Ue pronta a dare un segnale positivo sulle pesanti sanzioni mierebbe l’opposizione. La sfida, insomma, è aperta. Ed è enorme. Come enormi sono i principali obiettivi della leader birmana: un accordo di pace con le varie milizie etniche, l’opposizione dei militari a modifiche costituzionali, la messa in moto di uno sviluppo che migliori le condizioni di vita della popolazione. Oltre che la fine

delle sanzioni verso il Myanmar. Ieri l’Alto Commissario per la politica estera della Ue, Katherin Ashton, si è detta possibilista. Ma cautela al riguardo è stata espressa anche dal vice dell’Lnd.

Il motivo è presto detto: bisogna capire se la svolta è un pesce d’aprile o ormai dietro l’angolo. Dal partito di governo Usdp finora non è giunta nessuna reazione. Sebbene la sua maggioranza rimanga più che solida, in forza dell’80 per cento dei seggi conquistato nel voto del 2010 (boicottato dall’Nld e macchiato da enormi brogli), è chiaro che il trionfo di Suu Kyi rappresenta uno smacco. Almeno tre seggi su quattro di quelli in palio nella nuova capitale Naypyidaw, dove alloggiano tutti i funzionari pubblici, sono andati all’Nld: un evidente segnale di disaffezione nel cuore del regime. Alla leader birmana ieri sono giunte le congratulazioni di gran parte del mondo: Usa, Gran Bretagna, Francia, Italia,


L’azzardo di aprire alla Giunta per il bene del Paese

Il successo delle pressioni internazionali

La sua scommessa si è dimostrata una scelta saggia

Per una volta le sanzioni hanno funzionato

di Osvaldo Baldacci

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

rrilevanza che può cambiare la storia. Ha ottenuto molto più dell’80 per cento dei voti, almeno 44 seggi sui 45 in palio, e ora controlla… il 3,8 per cento del Parlamento birmano. Il trionfo di Aung San Suu Kyi e della sua Lega Nazionale per la Democrazia, se si sta ai numeri, può non sembrare una gran cosa. Scarso potere di incidere e magari un fastidio provocato alla Giunta militare del Myanmar che potrebbe persino reagire con una involuzione. Ma il punto questa volta non sta nei numeri. Il Nobel per la pace ha scelto la via della tenacia e della rivoluzione pacifica per cambiare il suo Paese, retto da una delle più chiuse Giunte dittatoriali rimaste al mondo. Ma ora un po’ meno chiusa. Un modello di azione, quello scelto dalla leader democratica, che si inserisce in un filone che ha già dato molti successi nell’Europa dell’est e che può a sua volta essere di ispirazione per altre svolte in Asia. Anche se non è facile.

a storica vittoria alle elezioni suppletive da parte della Lega nazionale per la democrazia guidata da Aung San Suu Kyi porta anche – seppur piccolo – un marchio europeo. Le sanzioni comminate dall’Unione Europea a Naypyidaw, ennesima capitale di un Paese che cambia i nomi con la velocità degli umori dei suoi generali, hanno di fatto costretto la giunta ad aprire un sistema politico incancrenito su se stesso. Per quanto sia prematuro gridare alla vittoria, è comunque un buon segnale e un buon risultato per la comunità internazionale. Pensare però che la battaglia per la democrazia in Myanmar si sia conclusa sarebbe un grave errore.

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Quelle del Myanmar sono state le terze elezioni in mezzo secolo dopo quelle del 1990 e del 2010, e l’apertura democratica del regime si limita ad elezioni controllate per un parlamento dove comunque la giunta militare di Rangoon, che da anni governa il Paese, ha il diritto al 25% dei seggi. Alle elezioni generali del 2010 alla Lega Nazionale per la Democrazia fu vietato di partecipare e San Suu Kyi fino al novembre di quell’anno era ancora agli arresti, dopo essere stata per una ventina d’anni tra carcere e domiciliari. Ma lei ha creduto nel cambiamento e nei piccoli segnali lanciati dal regime, ha voluto dar loro fiducia. Lo ha fatto giocando una carta che richiama un altro grande movimento democratico di successo: Solidarnosc e dintorni. Dopo il Trattato di Helsinki del 1975, nell’Europa dell’Est oppressa dal comunismo i dissidenti decisero di creare una serie di movimenti che sapendo a cosa andavano incontro si comportavano come se le regole democratiche e i principi di rispetto dei diritti enunciati dai regimi fossero veramente in vigore. Charta 77 di Havel in Cecoslovacchia e poi a livello sindacale Solidarnosc in Polonia sono i due esempi più clamorosi ma non gli unici. Questa strada rigorosamente non violenta che in punta di diritto metteva i regimi di fronte alle loro menzogne e alle loro contraddizioni è costata molta fatica e molta sofferenza, e ha richiesto molto tempo, ma ha dato i migliori risultati. Certo, è servito il sostegno dei Paesi liberi avanzati, ma alla fine le rivoluzioni pacifiche nell’Europa dell’est sono un fatto unico, un esempio impensabile, inimmaginabile, che credendo nell’uomo e nella verità piuttosto che nelle armi hanno portato a successi solidi e duraturi, molto più di quanto sia successo laddove a un potere se ne sia sostituito un altro con la violenza, persino se giustificata. Ecco, la Birmania si è messa su quel cammino, lungo, difficile, che richiede un alto costo a chi intende seguirlo, ma che può portare nella giusta direzione e ottenere il vero risultato: che non è solo rovesciare un regime, a prescindere da cosa verrà dopo, ma è piuttosto la costruzione di un domani migliore per il Paese. Non esiste un risultato garantito, e non esiste uno scadenzario, ma quello di questi giornipuò essere già l’inizio della raccolta dei risultati: di prezzi ne sono già stati pagati molti, la speranza è che sia arrivato il momento di riscuotere, senza vendette e vessazioni, ma con la fiducia che una crepa nella diga possa aprire la strada all’acqua fresca della democrazia.

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Innanzitutto perché la Storia non passa mai inosservata, e alla clamorosa vittoria elettorale conseguito dalla “Signora della Birmania” nel 1990 seguì una terrificante repressione sociale e politica, culminata con l’annullamento dell’esito delle urne e con una condanna agli arresti domiciliari per il futuro Premio Nobel per la pace che si è protratta fino ad oggi. In secondo luogo per la natura stessa delle sanzioni. Limitate alle esportazioni agricole e ad alcuni conti correnti di militari di secondo piano, il gruppo delle “multe”al regime non ha colpito il vero giro di affari birmano: esso infatti si basa sul commercio di pietre preziose, legname di pregio e droga. Anche se quest’ultimo articolo è per evidenti motivi al di fuori della portata delle sanzioni del consesso internazionale, è dal “triangolo d’oro” del Sud-Est asiatico che viene la maggior parte dell’eroina e dell’oppio mondiale. E che il traffico sia controllato dai militari di stanza a quelle latitudini non è un mistero per nessuno. In ogni caso, proprio ieri l’Unione Europea ha voluto lanciare un segnale preciso al regime e ha ventilato – attraverso la portavoce di Catherine Ashton, Alto Commissario per gli Affari esteri e la sicurezza dell’Unione – la possibilità di un alleggerimento delle sanzioni. E ha fatto bene, perché quando si tratta con nemico in attesa (ma pericoloso) bisogna anche saper gratificare gli sforzi nella direzione voluta. Per quanto siano sforzi strappati e non concessi per alte convinzioni morali. È impossibile e estremamente lontano dalla realtà pensare che regimi come quello birmano, cinese, nordcoreano – e tanti altri esempi ci sarebbero, in Asia e nel resto del mondo – possano cambiare perché le idee illuministiche, liberali, democratiche abbiano finalmente fatto breccia nel cuore e nelle menti di chi li governa con pugno di ferro. Bisogna prendere atto – come ogni feluca degna di questo nome sa bene – che la diplomazia anche nel campo dei diritti umani si basa su scambi para-commerciali. In Cina da anni opera una Fondazione statunitense che procura contratti alle aziende statali in cambio della liberazione di qualche dissidente; lo fa in silenzio, senza troppa pubblicità, ma raggiunge il proprio scopo. Allo stesso modo, la Chiesa coreana aiuta gli esuli dal Nord in cambio di aiuti umanitari e alimentari al regime. Anche qui, la discrezione è d’obbligo. Perché l’importanza primaria per i dittatori è che non si conoscano le loro debolezze o le loro aperture al mondo civilizzato. Se è finito (perché è finito) il tempo delle guerre in nome di un ideale, allora si deve aprire la porta a un altro fronte di trattative con chi non ha intenzione di cedere alla moral suasion. E la pressione economica, in questo mondo dominato dal vil denaro, pare ottenga qualche frutto.

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Stati del Golfo: tutti le hanno inviato messaggi di gioia e speranza. La figlia del generale Aung San (capo della fazione nazionalista del Partito Comunista della Birmania, di cui fu segretario dal ’39 al ’41, ucciso nel 1947) e di Khin Kyi (una delle figure politiche di maggior rilievo in Birmania, tanto da diventare ambasciatrice in India nel 1960) ha incontestabilmente coronato ieri oltre un ventennio di sacrifici personali.

Ma come ha ricordato più volte lei stessa, il successo non significa che il suo obiettivo sia stato raggiunto: il Paese si trova solo all’inizio della strada che porta verso la democrazia. Una prospettiva impensabile ancora nel novembre 2010, al momento del suo rilascio dopo sette anni agli arresti domiciliari (e 15 degli ultimi 22 passati in detenzione), e diventata realtà grazie a un’improvvisa accelerazione delle riforme da quando Suu Kyi (66 anni) ha incontrato il presidente Thein Sein, lo scorso agosto. Da allora la leader dell’opposizione ha spesso ribadito la sua fiducia nell’ex generale, che l’ha sempre più coinvolta nelle dinamiche politiche. Una volta che la candidatura di Suu Kyi ha ricevuto il nulla osta delle autorità, la sua elezione era scontata; l’amore della sua gente era evidente negli affollati comizi che ha tenuto per tutta la campagna elettorale. L’atteggiamento della Nobel per la Pace, in passato conosciuta come una “irriducibile” poco disposta al compromesso con l’ex giunta militare, è nel frattempo cambiato. Già prima del rilascio aveva adottato un approccio più pragmatico, segnalando il bisogno di giungere a una riconciliazione. Una volta libera, l’iniziale cautela nel testare i suoi spazi di manovra ha lasciato gradualmente spazio a una maggiore decisione. Preferendo la retorica (una dei suoi slogan è «per una Birmania libera della paura») a specifiche promesse politiche, ha espresso anche l’esigenza di cambiare la Costituzione, che garantisce il 25% dei seggi in Parlamento ai militari: tema che potrebbe portare a future tensioni. L’elezione della “Signora” - com’è rispettosamente chiamata dai birmani - contribuirà sicuramente a conferire una nuova legittimazione internazionale al ”nuovo corso” lanciato da Thein Sein, con un probabile allentamento delle sanzioni applicate da Stati Uniti e Unione Europea. L’opinione della futura deputata Suu Kyi che ha attenuato la sua opposizione a quelle misure restrittive, ma è restia a privarsi del loro potere come arma negoziale - sarà come al solito ascoltata attentamente da un Occidente desideroso di recuperare influenza in un Paese abbandonato a favore della Cina.


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l’approfondimento

La riflessione dello scrittore americano, ex giornalista del Washington Post e del New York Times

Un sogno da Myanmar «Vi spiego perché la vittoria di Aung San Suu Kyi può essere un evento storico che va ben oltre un singolo Paese». Per il prestigioso analista Usa, un vero processo riformista in Birmania sarebbe il primo atto di una Primavera in Asia di Robert D. Kaplan a lenta ma continua apertura del Myanmar e la normalizzazione delle relazioni internazionali hanno la possibilità di cambiare profondamente la geopolitica dell’Asia, ed evidentemente in meglio. Geograficamente parlando, il Myanmar domina il Golfo del Bengala. Trovandosi esattamente dove le sfere di influenza di Cina ed India si sovrappongono. Non solo: il paese è anche ricco di petrolio, gas, zinco, carbone, rame, pietre preziose, legname, energia idroelttrica e, come se non bastasse, anche uranio. Fiore all’occhiello di tutta la regione indo-pacifica, il Myanmar è stato drammaticamente chiuso dai suoi dittatori per decenni e solo la Cina è riuscita a ritagliarsi un piccolo spazio per avere accesso alle sue risorse naturali. Pensate al Myanmar come ad un altro Afghanistan per immaginare cosa significhi in termini di potenziale cambiamento regionale: è la chiave, il pezzo mancante di un puzzle geo-

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strategico tenuto nascosto dalla guerra e dalla sua classe dirigente, che però può aprirsi a 360 gradi se davvero deciderà di normalizzarsi. Sin da quando la dinastia cinese degli Yuan (di etnia mongola) invase il Paese nel tredicesimo secolo, il Myanmar è rimasto all’ombra della Grande Cina, senza però nessuna insormontabile barriera naturale o ostacolo architettonico (vedi il Muro in Germania), nonostante la zona montuosa dell’Hengduan Shan, al confine fra i due Paesi.

Al contempo, il Myanmar è storicamente e da sempre la casa di una comunità indiana di commercianti, una minoranza in termini sociologici, che facilitò gli inglesi ad includere il Paese in seno all’India britannica. Se il Myanmar continuerà nel suo cammino di riforme, seguitando ad aprire i suoi canali con gli Stati Uniti e i paesi vicini, scegliendo di non restare ancorato soltanto alla Cina,

non c’è dubbio che scoprirà un canale privilegiato e pronto ad essere riattivato con il subcontinente indiano, la Cina e il sud est asiatico. Un canale fecondo e ricco di promesse. Che oltretutto farà imemdiatemente calare il peso di Pechino sul governo diYangon. Un danno collaterale soltanto apparente anche per la stessa Cina, che invece di questa apertura potrebbe beneficiarne enormemente.Tanto per fare un esempio, Kunming, nella provincia

Chittagong, Kolkata e Yangon: ecco le nuove city dell’area

dello Yunnan a sud della Cina, diventerebbe velocemente la capitale economica del sud est asiatico, dove fiumi e linee ferroviare di Myanmar, Laos e Vietnam convergono.

Molte di queste infrastrutture sono già in fase di realizzazione. Nell’isola di Ramree a nord delle coste del Myanmar, i cinesi stanno costruendo oleodotti

e gasdotti per portare greggio e gas naturale dall’Africa, il Golfo Persico e quello del Bengala attraverso il cuore del Myanmar fino a Kunming. L’obiettivo è quello di sollevare la Cina dalla dipendenza dallo Stretto di Malacca, dove transitano i quattro quinti delle sue riserve petrolifere. È in fase di realizzazione anche una linea ferroviaria ad alta velocità che sarà inaugurata nel 2015. Anche l’India sta costruendo un polo energetico a Sittwe, a nord di Ramree, sulla costa del Myanmar, che potenzialmente potrebbe garantire delle riserve di gas al Nord attraverso il Bangladesh, ma di cui potrebbero beneficiare tutti gli stati indiani del Bengala occidentale. Il gasdotto indiano dovrebbe dividersi in due direzioni, proprio per coprire più regioni possibile. Nuove vie commerciali e altri business verrebbero inaugurati a ruota. Kolkata, Chittagong e Yangon, più che essere tre città di tre differenti nazioni, farebbero finalmente


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parte di un unico Oceano Indiano. Il fattore saliente di tutta questa possibile “primavera asiatica” che potrebbe decollare con l’apertura del Myanmar, è che anche il nord dell’India, altrettanto chiuso e arroccato e che confina con il Bangladesh, si aprirebbe all’esterno. Le regioni a nord est dell’India, che hanno sempre sofferto di una cattiva posizione geografica e di un certo sottosviluppo, negli ultimi anni hanno sofferto almeno di una dozzina di insurrezioni.

La regione nord orientale dell’India, collinosa e rigogliosa, è separata dall’India stessa dal poverissimo stato del Bangladesh a ovest e dal Myanmar – fino ad ora ermetico e sottosviluppato – a est. Tuttavia l’apertura politica del Myanmar e lo sviluppo economico stanno cambiando questa situazione geopolitica, perché sia il nord est dell’India che il Bangladesh beneficeranno dal rinnovamento politico ed economico del Myanmar. Con la diminuzione del tasso di povertà in quasi tutte queste aree, diminuirà anche la pressione dei rifugiati su Calcutta e il Bengala Occidentale. Il ché rafforzerà enormemente l’India, i cui confini territoriali con gli stati semi-falliti all’interno del subcontinente (Pakistan, Nepal e Bangladesh) hanno messo a rischio la sua capacità di spingere il potere politico e militare all’esterno fino all’Asia e il Medioriente. In generale, un Myanmar liberalizzato avvicina l’India ancor più all’Asia, permettendo quindi all’India di mettersi a confronto con la Cina. Tuttavia, mentre il futuro si affaccia con nuove opportunità, il presente non è ancora sicuro. La transizione politica in Myanmar è appena cominciata e molto può ancora andare male. Il problema, come è stato per Jugoslavia e Iraq, sono le divisioni etniche e regionali. Il Myanmar è un vasto regno organizzato attorno alla valle del fiume Irrawaddy. Il termine birmano per questa valle è Myanmar, da qui il nome ufficiale del paese. Ma un terzo della popolazione non è di etnia birmana, mentre le minoranze con base regionale sui confini friabili rappresentano sette dei 14 stati del Myanmar. Le zone collinari attorno alla Valle Irrawaddy sono popolate dai popoli Chin, Kachin, Shan, Karen e Karenni che dispongono di propri eserciti e milizie irregolari che hanno combattuto contro l’esercito guidato dai birmani sin dall’inizio della Guerra Fredda. Quel che è peggio è che queste regioni collinari popolate da minoranze sono etnicamente divise dall’interno. Ad esempio la regione di Shan è la patria dei popoli Was, Lahus, Paos, Kayan e di altre tribù. Tutti

questi gruppi sono il frutto di migrazioni storiche da Tibet, Cina, India, Bangladesh, Thailandia e Cambogia a tal punto che i Chin del Myanmar occidentale non hanno niente in comune con i Karen del Myanmar orientale.

Tutte le stagioni di un simbolo Aung San Suu Kyi nasce a Rangoon il19 giugno 1945. Figlia del generale Aung San (capo della fazione nazionalista del Partito Comunista), e di Khin Kyi, la giovane si laurea a Oxford nel 1967, continua gli studi a NewYork e dal 1972 comincia a lavorare per l’Onu. Negli States sposa Michael Aris, dal quale ha due figli. Nel 1988 San Suu Kyi torna in Birmania proprio quando il generale Saw Maung instaura il regime tutt’oggi vigente. Ed è allora che la donna fonda la Lega Nazionale per la Democrazia, gesto che le costa gli arresti domiciliari per il rifiuto di abbandonare il Paese. Le elezioni indette nel 1990 assegnano al suo partito una vittoria schiacciante, ma i miliari rigettano il voto. La leader democratica riceve il Nobel per la pace l’anno successivo. Ostinata a restare in Birmania, il 30 maggio 2003 si salva miracolosamente da un attentato. Il 3 maggio 2009 un mormone statunitense, J.W.Yethaw, raggiunge a nuoto la casa di Aung San Suu Kyi, che viene processata per violazione degli arresti domiciliari.Viene liberata il 13 novembre 2010. È di ieri la notizia che San Suu Kyi ha ottenuto un seggio al parlamento birmano.

Così come non esiste alcun legame linguistico e culturale tra i Shan e l’etnia birmana, eccezion fatta per la religione buddista. Per quanto riguarda gli arakanesi, eredi di una cosmopolita civiltà costiera influenzata dagli Indù bengalesi, questi si sentono particolarmente disgiunti dal resto del Myanmar e paragonano la loro situazione a quella delle minoranze private di diritti civili in Medioriente e Africa. In altre parole, non basta indire delle elezioni se tutto quello che fanno le elezioni è portare al potere i birmani che non scendono a compromessi con le minoranze. I militari sono arrivati al potere in Myanmar nel 1962 per controllare i confini popolati dalle minoran-

Il problema, come per la ex Jugoslavia e l’ Iraq, sono le divisioni etniche ze attorno alla Valle Irrawaddy. I militari hanno governato per mezzo secolo. Il Myanmar ha poche istituzioni funzionanti che non sono controllate dai militari. Ora bisogna costruire da zero un sistema che riconosca il potere alle minoranze; un’integrazione pacifica delle restie minoranze richiede forti istituzioni federali.

È vero che il Myanmar sta diventando meno repressivo e più aperto verso il mondo esterno. Ma tutto questo non lo rende uno stato istituzionalizzato. In sintesi, affinché il Myanmar abbia successo, anche con civili al controllo, i militari devono svolgere un ruolo fondamentale per i prossimi anni, perché sono in particolar modo gli ufficiali a sapere come funzionano le cose. Tuttavia, considerando le sue immense risorse naturali e la sua popolazione di 48 milioni di cittadini, se il Myanmar riuscirà a costruire istituzioni pan-etniche nei prossimi decenni, potrà avvicinarsi a diventare un potere di medio livello, qualcosa che non danneggerà necessariamente gli interessi indiani e cinesi, e – quindi – avvierà il commercio in tutto il mondo asiatico e dell’oceano indiano.


La riforma più vicina dopo le aperture di ieri

Dopo i dubbi, il Pd fa un passo avanti

politica

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di Riccardo Paradisi al lungo travaglio del Pd di queste settimane sembra essere nata una disponibilità nuova nei confronti della riforma del lavoro. Nuova anzitutto nei toni: non più aut-aut, accuse di arroganza e insensibilità sociale al governo tecnico ma un appello da parte del segretario Pd Bersani al lavoro comune, a fare insieme la riforma. «Diamo al giudice - prosegue - la possibilità di scegliere soltanto per quei casi tra due opzioni: il reintegro o l’indennizzo. Ho la sensazione che anche nel Pdl ci stanno riflettendo. Perché il problema esiste e non tocca solo le tute blu». Bersani ha intenzione di trovare un compromesso anche se ci fosse il ”niet” della Cgil: «Noi abbiamo le nostre idee e non accetto da nessuno che si dica che siamo agli ordini del sindacato. Noi quel testo lo voteremo».

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Un’apertura che oltre ai toni attiene anche al merito della riforma: più elasticità nelle parti attinenti la flessibilità e sullo stesso articolo 18 seppure il Pd riaffermi, legittimamente con il suo segretario, che il punto di caduta della riforma dovrebbe appunto essere sul modello tedesco e la possibilità di reintegro per i licenziamenti economici sospettati d’essere discriminatori. Un compromesso onorevole e nobile come viene definito. Che trova in effetti sponde d’ascolto anche nel Pdl. «Meglio fare la riforma insieme che separati – dice il segretario Angelino Alfano – Ci preoccupa solo che l’agenda la detti il sindacato e non il governo». Ancora più esplicito l’esponente del Pdl Giuliano Cazzola: «Bersani ha fatto delle aperture interessanti. Il Pd si rende conto che non basta correggere quanto previsto nel caso dei licenziamenti per motivi economici, ma che vi sono, nelle linee guida del governo, aspetti riguardanti la cosiddetta flessibilità in entrata che, senza essere modificati, creeranno problemi alle imprese e all’occupazione». Toni anche questi diversi rispetto alla settimana scorsa quando il Pdl usava le contraddizioni a sinistra e la tensione interna a Pd e sindacato per esercitare pressione sul governo invitandolo a una ferrea intransigenza sul punto più controverso della riforma. Qualcosa dunque si muove e lo stesso Casini, il grande mediatore di questa delicata partita che può trascinare con sé il futuro dell’esecutivo e la possibilità di un prossimo governo di coalizione, tenta di imprimere un nuovo impulso all’evoluzione del confronto. Tornando ad appellarsi al buon senso e alla responsabilità per non alimentare lo scontro tra lavoratori e imprenditori. La partita è aperta ma non possiamo tenerla in sospeso per due mesi, sino alle amministrative». Il leader del Terzo Polo invita a trovare dunque un compromesso a vantaggio dello sviluppo e della crescita nel Paese. Un lavoro di mediazione che si riscontra su un altro piano anche nei ripetuti interventi della Cei, vòlti a salvaguardare una maggiore fluidità del mondo del lavoro senza però rinunciare ai diritti dei lavoratori, perché «il lavoro non è merce». Qualcosa si muove dunque, anche se è presto per dire che si sia a una soluzione dell’impasse. Che si sbloccherà quando tutti, nessuno escluso, faranno un passo per convergere sulla sintesi delle tesi in campo. E se dovrà essere Monti alla fine a tirare le conclusioni e a decidere quale sarà ”il punto di caduta”, come lo chiama Bersani, è anche vero che lo stesso governo ha tutto l’interesse a smussare quegli angoli che se limati non intaccano l’essenza della riforma ma la rendono più condivisa e più forte. E d’altra parte i dati sulla disoccupazione forniti ieri dall’Istat, dimostrano che l’urgenza è la creazione dei posti di lavoro non la facilitazione dei licenziamenti. La solidarietà sociale non ulteriori tensioni. Quelle che ci sono bastano.

A febbraio la disoccupazione torna a livelli record: 9,3 per cento. Un giovane su tre a casa

Alfano e Bersani tornano al lavoro È tregua tra i due leader sulla riforma. E Napolitano diventa ottimista: «Pochi giorni per la presentazione del disegno di legge». Oggi, il Consiglio dei ministri decisivo di Francesco Pacifico

ROMA. Susanna Camusso farà fatica a metabolizzare il colpo: «Credo che se il Pd accetterà la riforma del lavoro sull’articolo senza modifiche, dovrei fare una lunga riflessione sul fatto di rivotare o meno questo partito». E, intanto, conferma lo sciopero generale in difesa dell’articolo 18. Ma ancora più scosso sembra Angelino Alfano. Il quale – sapute le intenzioni di Bersani – ha provato comunque a tenere il punto: «Se il tentativo di qualcuno è non scontentare la Cgil, il nostro obiettivo, ribadiamo, è non scontentare ciò che rappresenta il bene comune per gli italiani».

Ieri mattina e dalle colonne di Repubblica, il segretario del Partito democratico è uscito dall’angolo in cui si era cacciato e ha riscritto l’agenda delle prossime settimane: «Quella del lavoro è una buona riforma. Se si corregge qualche aspetto, basta un po’ di senso di equilibrio per approvarla». Se non bastasse, ecco Bersani, mettere sul piatto tempi brevi: «Si può chiudere la sostanza del problema prima del 6 maggio almeno in una delle Camere». Prima cioè delle amministrative e della fine della moratoria concessa da Monti. E, soprattutto, eccolo scaricare la Cgil: «Noi abbiamo le nostre idee e non accettiamo da nessuno che si dica che siamo agli ordini del sindacato». E il “problema”, per usare il lessico bersaniano, è diventato più cogente dopo gli ultimi dati diffusi ieri dall’Istat sulla disoccupazione: a marzo il 9,3 per cento non ha un lavoro, mentre il 31 per cento dei giovani è

a casa. Numeri attraverso i quali si scopre anche quanto l’ultimo anno e quello appena iniziato potrebbero essere i peggiori da quando è iniziata la crisi: infatti a livello mensile il tasso di disoccupazione è in aumento di 0,2 punti, mentre sul piano annuale segna un +1,2 per cento. Con il risultato che a febbraio i disoccupati hanno raggiunto quota 2.354.000, 45mila in più rispetto a trenta giorni prima/rispetto in piu’ rispetto a gennaio. Soltanto nei prossimi giorni si scoprira se quella del leader del Pd è un’apertura o l’ennesimo diktat. Infatti, dopo Bersani, nulla ha impedito a un riformista come l’ex ministro Cesare Damiano di intimare al governo, «che presta la giusta attenzione all’andamento dei mercati finanziari, di volgere lo sguardo anche verso le condizioni dell’economia reale, a partire dalle enormi difficoltà delle imprese, dei lavoratori e delle famiglie». Mentre esponenti di punta come Anna Finocchiaro e Stefano Fassina hanno tracciato con un pizzico di leggerezza un legame tra gli ultimi, terribili dati della disoccupazione e i rischi portati da una diversa flessibilità in uscita. Fatto sta che dal Nazareno sottolineano che il segretario non aveva altra scelta, aggiungono che la parte degli ammortizzatori sociali e la stretta al precariato sembra scritta dai loro esperti e rivendicano che già nelle scorse settimane il partito aveva fatto sua la proposta della Cisl. Cioè quella di superare l’articolo 18 portando la materia sotto l’alveo della 226, la legge che disciplina i licenziamenti collettivi e prevede soltanto un risarcimento e non un reintegro.


E Cicchitto pensiona il bipolarismo Crisi e nuove regole: a Roma un convegno con Adornato, Alemanno, Bertinotti e D’Alema di Errico Novi

ROMA. Fabrizio Cicchitto è un’avanguardia ideologica, nel Pdl. Se altri hanno il potere delle tessere, se Angelino Alfano è l’uomo di sintesi in un magma eruttivo, il capogruppo alla Camera è quello che si preoccupa di guardare un po’ più in là del caos contingente. Così, dopo aver pubblicato una specie di analisi programmatica sull’ultimo numero della sua rivista L’ircocervo, Cicchitto ha convocato alcuni esponenti delle diverse aree politiche in un convegno svolto ieri nella Capitale che recava lo stesso titolo dell’articolo: La guerra finanziaria nel mondo, la crisi del sistema politico italiano. Già nel lungo scritto anticipatore c’erano molte giuste intuizioni, seppur inasprite da qualche lettura di parte, e alcune proposte. Davanti ai suoi interlocutori di ieri (con il moderatore Enrico Cisnetto, Ferdinando Adornato, Gianni Alemanno, Massimo D’Alema, Raffaele Fitto e Dario Franceschini), il dirigente pidiellino ha rilanciato: innanzitutto sul «partito dei moderati» che il Pdl deve impegnarsi a far nascere, e sulla conseguente necessità di «rinnovamento con una grande operazione di apertura al centro». È il vento con la spinta più netta tra i molti che agitano la nave berlusconiana, oggi attesa da un ufficio di presidenza tra i più difficili, dopo quello che sancì l’espulsione di Fini. Ma anche sulle polemiche che più di tutte si proiettano all’esterno dalla bocca di quel vulcano che è via dell’Umiltà, cioè le tensioni tra ex forzisti ed ex An, Cicchitto taglia corto: «Io non mi riconosco nella nostalgia per An o Forza Italia, bisogna guardare

avanti: il Pdl può superare se stesso dopo le Amministrative, vedendo se è possibile formare un grande partito moderato e riformista in alternativa al Pd». Da Bondi allo stesso Alfano, fino all’eterno eretico Galan, il capogruppo del Pdl a Montecitorio è evidentemente in affollata compagnia, Ma è vero pure che nessuno dei suoi ha parlato con la stessa chiarezza di necessità di «andare oltre il Pdl». Già nell’articolo su L’ircocervo la posizione era stata chiarita con una limpidezza che va ben al di là dei re-

Riscrivere la legge elettorale è il modo migliore, per i partiti, per cercare di uscire da questa situazione troscena sul Berlusconi in cerca del nuovo inizio: «La nostra risposta fondamentale deve essere quella da un lato di migliorare il Pdl, dall’altro di lavorare esplicitamente per una grande formazione politica che vada al di là di ciò che è lo stesso Pdl, con l’obiettivo di offrire un nuovo soggetto politico in grado di coprire tutto lo spazio moderato e riformista».

Stesse parole risuonano nella chiesa di Santa Marta, a piazza del Collegio romano, dove la fondazione di Cicchitto, Riformismo & libertà, ha organizzato il convegno. Il presidente dei deputati pdl peraltro evoca la necessità che Monti favorisca, con il suo governo, una nuova fase rivolta alla

Non a caso Pier Ferdinando Casini sposa, con estremo realismo, soprattutto un punto nel discorso di Bersani: «Non possiamo tenere aperta sul tavolo la pratica dell’articolo 18 per i prossimi mesi della campagna elettorale. Per questo almeno un ramo del Parlamento deve arrivare in porto con questa riforma. Altrimenti si lacerano i rapporti sociali, si mette tensione nel mondo del lavoro e si costruiscono contrapposizioni spesso artificiali tra i partiti». Un auspicio fatto proprio dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che promette tempi rapidi, perché «il disegno di legge sarà presentato da qui a qualche giorno». Ora la parola passa al governo. Questa mattina Mario Monti rientra in Italia e subito incontra Elsa Fornero e Corrado Passare proprio per limare il testo della riforma del lavoro. Da giorni girano indiscrezioni, secondo le quali tra Palazzo Chigi e via Molise girerebbero già bozze che chiarirebbero meglio l’alveo nel quale può intervenire il magistrato. Mentre dal Pd si fa affidamento soprattutto alle garanzie date del premier contro il proliferare di licenziamenti impropri. Pier Paolo Baretta, oggi parlamentare del Pd ma nel recente passato numero due della Cisl, spiega che «fondamentale è che la fattispecie del licenziamento economico non diventi fonte di abusi. Quando il giudice accerta che il licenziamento è in realtà discriminatorio serve una norme per chiarire che ci sia la possibilità di reintegrare il lavoratore. Non abbiamo visto il testo, ma per quanto ne sappiamo manca nella legge

crescita, a costo di entrare in rotta di collisione con quanto prescrive l’iper-rigorismo di Berlino: «Il presidente del Consiglio non è il commissario europeo in Italia, ma con ciò che rappresenta deve contestare in parte la linea franco-tedesca sulla crisi». Poi la necessità che il Pdl superi se stesso, anche perché «se non facciamo i conti con i cambiamenti in corso rischiamo di essere tutti travolti». E quella frase finale che spinge persino lo stesso Cicchitto oltre se stesso: si possono fare le riforme istituzionali, compresa la legge elettorale «necessaria per superare un bipolarismo che ha fatto fallimento sia a destra che a sinistra, è un percorso fisiologico». Passo avanti anche rispetto all’articolo ispiratore del convegno, in cui si chiedeva ancora che il sistema di voto preservasse le coalizioni.

Sullo sfondo c’è un’altra cosa che Cicchitto teorizza da tempo: l’ineluttabilità della rottura con la Lega, sostanzialmente accusata di coltivare un «ribellismo senza prospettive». E qui c’è un’ulteriore spinta al partito affinché navighi lontano dalle rotte del passato. In scia si inserisce Alemanno, che mette all’indice come non più proponibile proprio il patto con Bossi: «Io non vorrei più andare al governo con la Lega Nord», e anzi «la legge elettorale va cambiata proprio per evitare d’ora in poi che si formino alleanze innaturali». Si vede che il dibattito tra i berlusconiani macina distanze anche più ampie rispetto a quanto affiora all’esterno. Se è nota l’idiosincrasia del sindaco di Roma per l’incrocio con il partito nordista, per Cicchitto la rottura ha già

questo passaggio che un tempo era automatico». Al momento non sarebbero arrivati segnali da Mario Monti, il quale deve fare soprattutto i conti con gli input in arrivo da Bruxelles e i timori dei mercati. Non caso ieri, dal forum di Boao (la Davos d’oriente) ha sottolineato che «la riforma del mercato del lavoro «è mirata a modernizzare la rete di sicurezza sociale per i lavoratori e aumenta sensibilmente la flessiblità per le aziende nella gestione della forza lavoro». E proprio per dimostrare il nuovo corso del Belpaese, eccolo annunciare che «questa riforma attende ancora di esse-

una cornice teorica molto definita. Nell’intervento che ha aperto il convegno ce n’è meno traccia, ma nell’articolo che lo ha preceduto sulla rivista della fondazione, il capogruppo del Pdl aveva detto chiaro e tondo che il suo partito mai e poi mai potrebbe provocare la caduta di Monti in assonanza con gli estremismi padani: non è immaginabile togliere la fiducia a Monti «per una richiesta provocatoria della Lega Nord» perché «la situazione generale dell’economia europea è troppo seria per rendere paganti manovre di questo tipo». E sulla stessa lunghezza d’onda, al convegno, si è sintonizzato Massimo D’Alema, secondo il quale «o portiamo la politica al livello dell’Europa o ci sarà spazio solo per le oligarchie e per i tecnici: è questo il tema con cui ci misuriamo e con cui la sinistra europea non è stata in grado di fare i conti». Con un auspicio che come evocazione della Terza Repubblica pesa quanto quello di Cicchitto: «Mi auguro che questo governo ci lasci in eredità non il ritorno al consociativismo, che può essere l’emergenza e non la regola, ma un bipolarismo più civile». Le buone intenzioni ci sono.

strutturali. Siamo preoccupati per gli ultimi dati, sottolineano ancora una volta la doppia sfida dinanzi alla quale si trova l’Europa: consolidare i conti pubblici e fare le riforme strutturali per liberare il potenziale di crescita e creare nuovi posti di lavoro». Dà manforte al governo, anche Giorgio Napolitano. Secondo il quale «con l’articolo 18 vigente, non toccato ancora e in attesa di riforma, se l’Alcoa avesse chiuso ci sarebbe stata una grossa fetta di licenziamenti immediatamente esecutivi. Altro che licenziamenti da articolo 18 per renderli piu’ facili». L’inquilino del Colle, dopo aver ricordato che l’accordo della settimana scorsa nasce «in un quadro di sollecitazione a cui non sono stato estraneo», ha spiegato che non ci sono alternative alla riforma del lavoro: «A chi dice: “non occupatevi del mercato del lavoro, occupatevi della crescita perché c’è la disoccupazione”, il governo risponde: “Io mi occupo della crescita e voglio aprire nuove prospettive per l’occupazione, ritenendo che l’ostacolo sia rappresentato da una situazione non soddisfacente, molto farraginosa, che si e’ venuta a creare nel mercato del lavoro”». Netta la conclusione: «Si può avere l’opinione che si vuole, ma quando si ritiene di dover intervenire sulla struttura delle relazioni industriali e su quella della contrattazione che richiedono di essere riformate, lo si fa nella convinzione di agevolare la crescita degli investimenti in Italia». Parole che sembrano dirette a chi, a sinistra, non seguono l’approccio di Bersani.

La Camusso presa in contropiede: «Non so se voterò di nuovo per il Pd». Ma l’Europa spinge il governo a insistere: «Con questa crisi ancora più importante fare modifiche strutturali». Oggi vertice tra Monti e la Fornero sull’articolo 18 re approvata dal parlamento e spero che ciò avvenga rapidamente».

A dare sostanza ai timori del premier ci ha pensato Amadeu Altafaj, il portavoce del commissario europeo agli Affari economici e monetari Olli Rehn. Il quale, dopo la recrudescenza sul versante della disoccupazione: infatti a febbraio la disoccupazione sale nell’Eurozona al 10,8 per cento, raggiungendo il massimo da quasi 15 anni. Altafaj ha ricordato alle economie più deboli dell’Eurozona che è più importante che mai fare le riforme


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Antonio Ghirelli e Omar Calabrese, ovvero lo stile discreto e signorile di interpretare al meglio la storia del nostro Paese ntonio Ghirelli, classe 1922, e Omar Calabrese, classe 1949, sono stati accomunati dalla morte che se li è portati via come due gemelli, a poche ore di distanza l’uno dall’altro. Forse, l’illusione di un motivo c’è: lo stile discreto e operoso che li contraddistingueva. Il primo era un giornalista, quello che si dice un signor giornalista, e il secondo era un professore, quello che si dice un buon professore. Entrambi hanno avuto a che fare con la politica a sinistra e, più in generale e con maggior verità, con la storia del nostro Paese ma sempre con una certa discrezione che era lo stile della loro signorilità.

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Gli articoli che ieri gli sono stati dedicati hanno ricordato Omar Calabrese come uno dei «padri dell’Ulivo». Tutto qua, si potrebbe dire. Perché il semiologo non ha mai sgomitato per un posto in prima fila o per mischiare indebitamente ricerca e politica. Lo avrebbe potuto fare a ragion veduta perché se la sinistra politica ha prima sottovalutato e poi sopravvalutato l’influenza di quello strano elettrodomestico che è il televisore che trasmette la televisione, lui, l’allievo di Umberto Eco, ne ha sempre dato un’analisi rigorosa, in anticipo sui tempi, e proprio per questa adatta anche alla lotta politica. Ma non era questo lo stile di Calabrese che evidentemente riteneva che il valore dei suoi studi e dei suoi lavori avrebbe conservato una validità politica solo se i due piani del pensiero e dell’azione non si fossero reciprocamente asserviti. Già nel 1974, quindi all’età di venticinque anni, aveva pubblicato un saggio sulla pubblicità o la reclame intitolato Carosello o dell’educazione serale e aveva sostenuto che con quell’appuntamento serale dedicato ai «consigli per gli acquisti» le famiglie italiane del tempo avevano percorso una loro strada di emancipazione. Una «tesi ardita» diceva ieri Aldo Grasso sul Corriere della Sera ma che oggi è senso comune e che ieri e l’altro ieri era in netta controtendenza se si pensa che la sinistra italiana per lungo tempo fu contraria alla televisioni a colori o comunque non ne avvertì la funzione sociale. La discrezione di Omar Calabrese colpisce se si considera che non è sbagliata per lui - come infatti è stata usata da amici e commenttaori - la definizione di «intellettuale militante»: un protagonista di molte battaglie della cultura progressista, iniziate al tempo della sua direzione della rivista Alfabeta, il mensile che raccoglieva le firme, tra gli altri, di Nanni Balestrini,

Due gentleman della cultura italiana di Giancristiano Desiderio Maria Corti, Antonio Porta, Umberto Eco, Pier Aldo Rovatti e Paolo Volponi. Calabrese ha diretto Rivista illustrata della comunicazione e Metafore e ha fondato Carte semiotiche, collaborando ad altri periodici come Casabella, Viceversa. Come giornalista ha collaborato con il Corriere della Sera, Panorama, El Pais, la Repubblica, L’Unità. Tuttavia, la militanza è stata portata con una certa

le mi piace far notare una certa somiglianza con un maestro di eleganza come Carlo Dapporto - è stato uno dei primi a mettere a fuoco il lato televisivo e spettacolare della politica e anche il bellicismo della stagione del bipolarismo: il suo Come nella boxe. Lo spettacolo della politica in tv è del 1999. Per Antonio Ghirelli si potrebbe usare la stessa definizione ma con questa varian-

Giornalista di razza, il primo fu guidato dalla passione di democratico e socialista, che lo aveva condotto anche a svolgere ruoli importanti con Pertini e nel Psi. Ma fu anche un popolarissimo cronista sportivo e un interprete autentico dell’anima di Napoli leggerezza di fondo, una compostezza che era il frutto degli studi ma anche della sua sensibilità personale. Forse, una discrezione che traspare anche dai titoli dei suoi libri: Caos e bellezza, Il linguaggio dell’arte, L’età neobarocca. Non deve essere un caso se Calabrese - del qua-

te: «giornalista militante». Solo che, anche in questo caso, la militanza non è stata giocata a discapito della discrezione, della signorilità e del tratto civile e gustoso che erano parte del carattere del grande giornalista. Una definizione, quest’ultima, che per il giornalista napo-

letano è giusta e antiretorica appena se ne scorre la carriera: ha lavorato per L’Unità, Milano Sera, Paese Sera, il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, quindi ha diretto Tuttosport e il Corriere dello Sport, il Globo, il Mondo, l’Avanti, il Tg2 ed è stato prima portavoce di Sandro Pertini al Quirinale e poi di Bettino Craxi a Palazzo Chigi. Ma il nome di Antonio Ghirelli si associa - e lo sarà ancor di più nel futuro - alla storia del calcio giocato e al fenomeno sociale del calcio.

«Per tanto tempo - ha ricordato giustamente Vanni Lòriga che è stato un suo compagno di lavoro - Antonio fece squadra con Palumbo e Barendson, dando vita assieme a loro a quella scuola napoletana che ingaggiò infinite battaglie contro la filosofia catenacciara di Gianni Brera». Ricorrere al nome di Gioann Brera - il gran lombardo - per illustrare il nome di Antonio Ghirelli gran signor napoletano di umili origini è tutt’altro che sbagliato. Perché Ghirelli al calcio ha prestato la sua penna e la sua passione giornalistica. Uno dei suoi


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In queste pagine, un’immagine del grande giornalista Antonio Ghirelli (in alto a sinistra) e uno scatto del semiologo Omar Calabrese (qui sopra), recentemente scomparsi. Entrambi hanno saputo, grazie al loro stile e alla loro indubbia discrezione, interpretare al meglio la storia e la cultura dell’Italia. Nell’illustrazione al centro, un disegno di Michelangelo Pace

tanti libri s’intitola Gianni mezz’ala e racconta la storia di uno “scugnizzo”che diventa un gran giocatore per sfuggire alla povertà. Un racconto di Ghirelli che risale ai primi anni Settanta e che fu introdotto anche nelle scuole come lettura per i ragazzi. Gianni Martone - la mezz’ala - è un famoso campione, amato e ben pagato. Ma dietro il successo c’è una storia di passione e di fatica: la fanciullezza napoletana ricca di fantasia e di miseria, il sorriso schivo di Concettina e l’amicizia della gente del quartiere, il calcio come possibile via d’uscita dalla vita “arrangiata”, dai sogni destinati a restare sogni. E poi l’ingaggio in una famosa squadra del Nord, gli allenamenti, i ritiri, la paura di non farcela e anche lei, Marcella, inafferrabile e splendida. Fino alla grande partita, al goal decisivo, al trionfo. Una storia esemplare di un mondo e di un costume tipicamente italiani, un racconto che ancora oggi si può rivolgere a tutti i ragazzi e alle ragazze se avessero meno telefonini in tasca e più sogni in testa. Il calcio raccontata da Ghirelli era quello giocato e quello che c’era prima della partita, non il calcio

commentato - come si usa dire - ma il calcio nella sua dimensione sociale o l’ambiente che gli gira intorno. Oltre al calcio, l’altra grande passione di Ghirelli è stata la sua città: Napoli. Il suo ultimo libro risale al 2010 ed è dedicato pro-

da una Napoli dalle Sette Vite, lui, e tutt’e sette se le portava dentro: a volte aleggiavano intorno a quel sorriso, ma più spesso esplodevano in classe in modi imprevedibili. Era Ghirelli quello che azzardava le sortite più audaci nell’ora

Il semiologo non ha mai sgomitato per un posto in prima fila o per mischiare ricerca e partiti. Riteneva che il valore dei suoi lavori avrebbe conservato una validità politica solo se i piani del pensiero e dell’azione non si fossero reciprocamente asserviti prio a Napoli: Una certa idea di Napoli. Storia e carattere di una città (e dei suoi abitanti), Mondadori. E il primo? Napoli Sbagliata (non so se è il primo ma senz’altro uno dei primi).

Ne conservo un’edizione del 1975 uscita proprio a Napoli per le Edizioni Del Delfino, racconta la «storia della città tra le due guerre» e reca una introduzione di Raffaele La Capria che di Ghirelli fu compagno di classe al Liceo Umberto I. Qui è bene leggere un passo della nota introduttiva di La Capria: «Veniva

dei professori più feroci, era lui quello che sapeva arrangiarsi meglio per rispondere ad un’interrogazione anche quando non era preparato, era lui che in ogni momento inventava con intuito e prontezza le occasioni, i colpi di scena e le situazioni che movimentavano la nostra mattinata in classe. Io ero lento, chiuso, introverso, troppo sensibile e nervoso, e come quoziente d’intelligenza non mi pareva certo di brillare. Ero insomma il contrario di Girelli, e fin da quel tempo fui portato a pensare a lui come a un mio ideale antagonista». Il

giornalista Ghirelli ha anche una sua storia politica che inizia con la partecipazione alla Resistenza e all’iscrizione al Pci nel 1942. Ma ne uscirà nel 1956 con i “fatti di Ungheria” per passare al partito socialista.Tra gli amici napoletani con cui divide speranze e attese ci sono, oltre a La Capria, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone e anche Giorgio Napolitano. «Eravamo un gruppo di amici affiatati rivelò lui stesso -, eravamo un covo di antifascisti», tanto che il giovane Napolitano «una volta da attore interpretò una parte in un mio atto unico».

E oggi il presidente della Repubblica ha ricordato così il suo amico: «Perdo uno degli amici più cari dei lontani anni della mia prima formazione. Fummo egualmente legati a Napoli ed egualmente animati da valori di libertà e di progresso mentre il fascismo si avviava alla fine. E non ci siamo mai persi di vista per il resto della vita, fino a tempi recentissimi. È stato un giornalista di razza guidato dalla sua passione di democratico e di socialista che lo aveva condotto anche a svolgere ruoli importanti accanto al Presidente Pertini e nel Psi; un popolarissimo giornalista sportivo e un interprete autentico dell’anima di Napoli». Se è vero che gli anni più importanti sono quelli della formazione, questo vale anche per Ghirelli e la chiave di volta per capire il suo giornalismo e forse la sua stessa bella prosa sono proprio gli anni della sua gioventù a Napoli: «Da ragazzo, conquistai la mia città e la mia adolescenza per le strade vecchie e nuove di Napoli - ha scritto proprio nel suo ultimo libro -. Anni dopo, anche se fisicamente abitavo altrove e avevo un’altra occupazione, dove realizzare il mio presente e il mio futuro, mentalmente tornavo a Napoli, aggirandomi tra i libri e i monumenti, i documenti e le rovine, le voci e le mura, come un visitatore straniero che, per sublime prodigio, si riconosca nei luoghi che credeva di indagare fuggevolmente. E poiché Napoli non è soltanto una città, ma un’idea, un’immagine, uno spirito che corre per il mondo, quel mio viaggio continuava dovunque andassi per necessità o per piacere, qualunque incontro facessi, a qualunque spettacolo assistessi, nei poveri quartieri degli emigranti o nei grandi alberghi, a teatro o in treno, in una redazione di giornale o in uno stadio, tra le pagine di un romanzo o le note di una canzone». Chissà se quel viaggio continua ancora.


mondo

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Si allungano ancora i tempi per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, destinati a restare in prigione almeno fino al 16 aprile

Tre uomini contro i marò Il primo ministro del Kerala rinvia la sentenza sui nostri fucilieri, il giudice del tribunale di Kollam li lascia in carcere e il ministro degli Esteri plaude. Ecco il triumvirato anti-italiano di Antonio Picasso ltre due settimane di detenzione preventiva. L’Alta corte del Kerala ha rinviato nuovamente il processo ai due marò. A questo punto, quando (e se) si prevede che verrà celebrato il processo, Girone e Latorre avranno scontato già quasi due mesi di galera oltre le sbarre del carcere di Trivandrum. La sentenza della magistratura indiana poteva essere prevista. Tuttavia ha provocato l’ennesima ondata di indignazione nel nostro Paese. Alle dichiarazioni scomposte del mondo politico italiano, ha fatto da contraltare la riflessione del vice presidente del senato Emma Bonino. «Non ho mai capito perché la nave sia entrata in acque nazionali indiane». Nel frattempo, destano sconcerto le manovre politiche in atto nel subcontinente. A margine della scelta del giudice e nell’arco della stessa giornata, il ministro degli esteri indiano, Somanahalli Mallaiah Krishna, ha assunto una posizione di difesa delle istituzioni locali. Mentre il

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La speranza di poter trovare un valido appiglio per le nostre ragioni a Nuova Delhi sta progressivamente scemando chief minister del Kerala, Oomen Chandy, ha affermato il diritto della magistratura di giudicare Girone e Latorre. Krishna, Chany e Gopakumar. Sono tre i personaggi cardini della vicenda. Tre personalità politiche e amministrative, sulla cui trasparenza l’Italia aveva affidato il destino dei nostri militari. Roma infatti ha lasciato intendere a Delhi di fidarsi e di credere nella bona fides espressa da tutte le personalità coinvolte nella gestione del caso. Il

numero uno della diplomazia indiana era ieri in visita a Kochi, capitale del Kerala. Qui, dopo un colloquio di mezz’ora con i vertici delle autorità federate, ha espressamente benedetto la scelta della magistratura di mettere ai ferri i due militari stranieri. Si tratta di una posizione difensiva a favore della polizia e del tribunale del Kerala, ma che soprattutto limita a nostro svantaggio il dialogo per la soluzione del problema. Appena una settimana fa, quanto il premier italiano Monti si è incontrato a Seul con il suo omologo indiano Singh, le previsioni dicevano l’esatto contrario. E così pure pareva fosse emerso dal colloquio tra il nostro ministro della difesa Di Paola e Antony, responsabile della sicurezza per l’esecutivo di Delhi. La speranza di poter trovare un valido appiglio per le nostre ragioni in seno alla capitale del subcontinente sta scadendo progressivamente.

Non è usuale che un ministro degli Esteri si metta in marcia nell’Unione e stringa la mano alle autorità locali. È come se Hillary Clinton si incontrasse, in maniera ufficiale, con il governatore della California. In una situazione di non crisi, si tratterebbe di un caso di abusata competenza tra la sfera federale e quella federata. In India però, sebbene i due binari siano bene separati e paralleli, la complessità della burocrazia permette alle stesse di confondere l’avversario. E così Krishna e Chandy si fanno fotografare insieme, volendo far credere all’Italia che sia tutto normale.Viene da chiedersi, del resto, in quale nazione un potere centrale non prederebbe le difese delle amministrazioni locali. Krishna ha voluto proteggere i suoi cuccioli. La speranza è che, in separata sede, esprima il disappunto di tutto l’esecutivo per come Chandy e Gopakumar stanno portando avanti la cosa.

La nota ancora più dolente viene infatti suonata proprio dal primo ministro locale del Kerala. «Il nostro governo ha deciso giustamente di arrestare i due marò», ha detto questo. È una presa di posizione anch’essa, ma soprattutto è un endorsment politico alle scelte del potere giudiziario. Da notare che Chandy ha parlato del «governo che ha arrestato i militari italiani» e non della polizia per ordine del giudice. È da chiarire, di conseguenza, il motivo per cui finora sia stato sottolineato il distinguo tra governatorato e magistratura. Una separazione tra i poteri che è stata ribadita perfino da Antony a Di Paola giovedì scorso. Oggi, improvvisamente, Chandy fa da scudo ai giudici, contraddicendo quanto dichiarato a Delhi e a Seul ai nostri governanti. L’Italia però non è stupida e così nemmeno la Farnesina. Il sottosegretario agli Esteri, Staffan de Mistura, è atterrato nuovamente in India domenica. Proprio da lì ha commentato amaramente la dichiarazione di Chandy, definendola «inopportuna e improvvida». Il governatore ha sostenuto l’esclusiva di processare in marò in India. Parole, queste, che dimostrano come l’interferenza politica ci sia. E di questa, de Mistura se n’è accorto. «Se la dichiarazione del primo ministro del Kerala fosse confermata, lascerebbe intendere che la giurisdizione viene decisa anche su indicazione delle autorità politiche. Voglio proprio sperare che sia stata mal riportata». Una chiosa diplomatica, quella del sottosegretario, che non nasconde però il disappunto. A suo tempo si era fatta l’ipotesi che le motivazioni politiche interne al Kerala stessero strumentalizzando la questione. Pare che avessimo ragione. Il giudice A.K. Gopakumar è l’ultima ruota del carro. Ma in realtà è la più pericolosa. Perché è lui a firmare carte e docu-

menti. Suo il tira e molla nel rimandare la data dell’udienza. Altrettanto è la decisione di arrestare Girone e Latorre, senza permettere che la difesa italiana possa consultare i risultati della balistica e, infine, autorizzando la polizia ad interrogare i due militari davanti alle autorità competenti.

Chandy il potente Oommen Chandy, nato nel 1943 nel grembo di una famiglia cristiana (rito siro-ortodosso). È chief minister del Kerala da 2011. Si tratta però del suo secondo mandato. Il primo risale al 2006, quando è succeduto ad A.K. Antony, attuale ministro della Difesa indiano. Nello Stato di cui è guida è riconosciuto per aver contribuito in maniera significativa allo sviluppo ferroviario e al sistema della pubblica istruzione. Suo è il progetto “Visio 2030”, un piano di crescita che dovrebbe terminare in 18 anni e proiettare il Kerala alla guida dell’intero subcontinente. Vanta legami importanti con i vertici del Congresso a Delhi, con Sonia Gandhi in particolar modo.

Nessuna delle promesse o rassicurazioni pervenute da fonte indiana sono state finora rispettare. I tre livelli di potere prima si comportavano in maniera melliflua. Poliziotto buono e poliziotto cattivo: a Delhi sorridevano, mentre a Kochi mostravano i muscoli. E forse anche altro. Ora l’India si sta celermente chiudendo a testuggine. Quei segnali di apertura della scorsa settimana si sono dimostrati, nelle poche ore di inizio mattinata ieri, del tutto inconsistenti. Ma perché puntare il dito soprattutto contro Gopakumar? Prima di tutto perché è evidente che stia tirando acqua al suo mulino. La vicenda torna a vantaggio della propria immagine. In un sistema corrotto e impostato su prebende personali, il favore della piazza che un magistrato può riscuotere vale quanto una promozione formale. Gopakumar poi gioca sul disinteresse che il resto dell’India ha dimostrato in merito al caso. Da settimane ormai, Hindustan times, Times of India e le altre grandi testate na-


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I dubbi dell’ex capo di Stato maggiore della Difesa

La Farnesina faccia chiarezza «Delhi ci sta prendendo in giro, ma è anche colpa nostra» di Mario Arpino i rinvio in rinvio, sembra quasi che qualcuno ci stia prendendo in giro. Grande fervore diplomatico, governativo e ministeriale, ma dopo un mese e mezzo i nostri due militari del San Marco sono sempre in carcere. Una detenzione con qualche riguardo, ma sempre di prigione si tratta. E anche il nostro mercantile, per il quale sarebbe stata pagata una forte cauzione, rimane alla fonda, con l’equipaggio ed altri nostri quattro militari. Ultima beffa: è di ieri a mezzogiorno la notizia che l’Alta Corte di Kochi ha nuovamente disposto un rinvio nel processo sulla giurisdizione da applicare. Dopo molti rinvii, l’udienza era già stata fissata per lunedì, e non si conoscono al momento i particolari della decisione del giudice, che nell’occasione avrebbe dovuto acquisire agli atti una memoria in cui sarebbero state riassunte le motivazioni per cui – contrariamente a quanto conferma l’Italia – i due fanti di Marina dovrebbero essere giudicati in India. La confusione era stata alimentata nei giorni scorsi dalle dichiarazioni del Primo Ministro del Kerala, che sembravano dare già per scontata la sentenza della Corte, e le fughe di notizie sull’esito dell’interminabile perizia balistica, che darebbe come compatibili con le armi in dotazione agli italiani i calibri dei proiettili rinvenuti nei corpi degli sventurati pescatori, nel corso dell’autopsia alla quale ci era stato vietato di assistere.

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Gopakumar il pericoloso Shri Gopakumar A.K., è un giudice fresco di nomina. Il sito dell’alta corte del Kerala non lo cita ancora tra i suoi 34 magistrati a pieno titolo, che si occupano di cause riguardanti l’intero stato e non solo quelle locali. La sua elezioni ufficiale sembra che risalga al 23 febbraio di quest’anno, data del trasferimento di Gopakumar dal tribunale distrettuale di Kottarakkara alla sede centrale di Kollam. Stando a quanto riportato, si tratta di una promozione che proietta il giudice tra i Chief Judicial Magistrate, quindi con un potere esecutivo maggiore e una giurisdizione territoriale più estesa.

zionali riservano all’argomento solo spazi limitati e per di più in seconda pagina. Purtroppo non è escluso che accada lo stesso da noi. Delhi in termini generali non ha tempo e soprattutto voglia di seguire giorno per giorno quel che accade in Kerala. Soprattutto se lo stesso Kerala non dà peso a quel che gli accade in casa. Il sito ufficiale del tribunale locale non fa menzione del caso dei due marò. Il portale del governatorato, nello spazio riservato

È sempre più reale il rischio che la vicenda venga affrontata non nelle aule dei tribunali, ma a livello politico alle breaking news, è fermo invece alla fine di febbraio. A Kochi fa comodo mostrarsi integerrima, ma al tempo stesso poco efficiente. E Delhi sa che la questione, proprio perché assegnata a mani inesperte, può andare avanti sine die. L’ultima beffa ce l’ha data ieri proprio Krishna, il quale ha detto i rapporti di amicizia Italia-India sono svincolate dal caso Lexie. «La vicenda non deve avere alcun impatto sulle cordiali relazioni esistenti». Se lo dice lui!

Krishna il mediatore Somanahalli Mallaiah Krishna, 80 anni tra un mese. Il ministro degli Esteri indiano è l’esempio tipico dell’uomo di potere del subcontinente. Sorriso gioviale e abiti tradizionali, studi in legge in India, con specializzazione negli Stati Uniti. Il suo ingresso in politica risale agli anni Sessanta. Prima all’assemblea legislativa del Karnataka, poi come ministro, sia del governo locale sia a Delhi. Indira e Rajiv Gandhi sono stati entrambi suoi premier. Il 21 gennaio scorso, l’Alta corte del Karnataka lo ha incriminato per aver concesso, tra il 1999 e il 2004, un’operazione di deforestazione in favore di una società mineraria.

Ma del fatto che l’India profonda, immensa e lontana sia ricca di misteri non ci si deve meravigliare, anche se ora, come gli altri “grandi”del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) fa parte del G20 ed è la regina dell’elettronica applicata a basso prezzo. Ciò che ci meraviglia, in tutta questa faccenda, è che un certo fumo di mistero sembra aleggiare anche qui da noi, tanto che finora nessuno ci ha mai spiegato bene “perché” l’Italia si è venuta a

trovare in una situazione che purtroppo, se perdura, rischia di coprirla di ridicolo assieme a tutte le sue Istituzioni. Meno una, la più elevata.

Al pubblico, per esempio, piacerebbe sapere perché i nostri soldati si trovino a bordo di un cargo civile. Si dirà che ci sono in base ad una recentissima legge che lo prevede. Legge che alla luce del “dopo” andrebbe bene analizzata nei suoi contenuti, i quali, agli occhi di esperti di cose militari, potrebbero anche rivelarsi inadeguati ad evitare che ciò che è già successo possa di nuovo accadere. Gli armatori avevano chiesto a gran voce di poter imbarcare contractors civili armati, come altre nazioni, non militari

Non avendo la capacità di penetrare nei misteri indiani, potremmo almeno cercare di chiarire quelli nostrani con le stellette, oltre tutto a pagamento. La possibilità di imbarcarli è comunque prevista in questa legge, ma non è ancora stata regolamentata. Perché? Altra cosa che al pubblico piacerebbe sapere è per quale motivo il comandante del mercantile, che navigava in acque internazionali, ha ottemperato alla richiesta di entrare in quelle indiane, mettendosi così alla mercè. Ha agito di iniziativa – è difficile – o lo ha chiesto alla Compagnia? E questa, conoscendo le implicazioni di avere dei militari armati a bordo, ha chiesto – come avrebbe dovuto – il parere delle Autorità nazionali o, a sua volta, ha agito di iniziativa? Auspichiamo che tutto si risolva quanto prima – ma ormai è difficile – e per il meglio. Ma nel frattempo, non avendo la capacità di penetrare nei misteri indiani, potremmo almeno cercare di chiarire quelli nostrani.


mondo

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Anticipiamo un estratto del saggio del grande demografo americano appena pubblicato sull’ultimo numero di Risk

La scomparsa dei russi Al Cremlino è scattato l’allarme: tassi di mortalità troppo alti e poche nascite stanno ipotecando il futuro della Nazione di Nicholas Eberstadt egli ultimi vent’anni la Russia è caduta nella morsa di una crisi assai anomala in tempi di pace. La popolazione del paese è diminuita e i suoi livelli di mortalità hanno raggiunto livelli a dir poco catastrofici. I problemi causati alla Russia dal trend negativo della popolazione in materia di salute, istruzione, nuove famiglie e altre tendenze, rappresentano un fenomeno senza precedenti per una società urbanizzata e alfabetizzata. Problemi demografici che sono di gran lunga al di fuori della norma e di cui non sono ancora state interamente comprese le cause. Non ci sono molte prove sul fatto che la leadership politica russa sia stata in grado di attuare delle politiche adeguate e che nel lungo periodo diano speranze di modificare la tendenza in atto. Questa crisi in tempo di pace, minaccia le prospettive economiche russe, le sue ambizioni per modernizzarsi e svilupparsi, e molto probabilmente la sua sicurezza. In altre parole, i problemi demografici russi hanno conseguenze terribili e fuori misura, sia per coloro che vivono

N

fliggere la Russia fino al crollo del sistema comunista. Ancora alla fine degli anni Ottanta, il periodo della perestroika di Mikhail Gorbachev, le nascite annue superavano i decessi di circa 800mila unità. Ma il collasso del sistema comunista nell’Europa dell’est e poi nell’Unione sovietica provocarono una serie di shock demografici che si propagarono in tutto il blocco orientale: in pratica ogni paese membro del Patto di Varsavia registrò un netto calo delle nascite e un picco nei decessi, come se si fosse trovato a dover combattere un’improvvisa carestia, un’epidemia o una guerra.

La maggior parte di questi fenomeni furono temporanei, ma non in Russia, dove risultarono essere più incisivi e di lungo periodo che in ogni altro paese excomunista. La Russia post-sovietica è diventata una società a demografia negativa, registrando costantemente più decessi che nascite. Dal 1992, secondo la Rosstat, agenzia federale di statistica russa (meglio conosciuta come Goskomstat dai tempi dell’Urss), il saldo negati-

“La Russia di Putin III” è la storia di copertina di Risk, in questi giorni in edicola. Un’analisi approfondita sul destino del Paese e dell’uomo forte del Cremlino. Fra gli autori: Jean, Malgieri, Singer e Arpino

mania, il Giappone e l’Italia sono ai vertici di questa tendenza pur in un periodo di forte e continuo miglioramento delle condizioni sanitarie generali.

Dal 1992 la popolazione ha subito un decremento annuale implacabile e costante. Tra il 1993 e il 2010 il Paese è passato da 148,6 milioni a 141,9. Un calo vicino al cinque per cento dentro che per quelli che vivono fuori dai confini del paese. Il pedaggio pagato a livello umano è già stato notevole e il costo economico rischia di essere enorme; non meno importante, il declino demografico della Russia si preannuncia inquietante alla luce del comportamento estero del Cremlino, che dovrà confrontarsi con un equilibrio tra potenze molto meno favorevole che in passato.Anche durante gli anni sovietici la società russa era tutt’altro che un modello di paragone in quanto a benessere. La sindrome da stagnazione di lungo periodo e poi il declino nella sanità pubblica, mai visti prima in una società industrializzata, emersero durante l’era Brezhnev e continuarono ad af-

vo tra morti e nuovi nati e di 12,5 milioni di unità. Che potremmo sinteticamente riassumere con un trend dell’ultimo ventennio di tre funerali ogni due nascite. A livello globale nel secondo dopoguerra c’è stato solo un altro periodo terribile, dove i decessi sopravanzavano le nascite: in Cina tra il 1959 e il 1961 a causa del catastrofico «Grande balzo in avanti» di Mao Zedong. Come conseguenza di questo squilibrio demografico la Russia è avviata verso un processo di spopolamento del territorio. L’immigrazione, proveniente prevalentemente dai paesi dell’ex Urss, ha in qualche maniera attutito il fenomeno, ma non lo ha scongiurato. Dal 1992, secondo i dati ufficiali, la

popolazione ha subito un decremento quasi ogni anno (fanno eccezione solo il 1993 e il 2010, in quest’ultimo anno si è registrata una crescita di 10mila unità). Seguendo questi dati vediamo che tra il 1993 e il 2010 il numero di russi è passato da 148,6 a 141,9 milioni, un calo vicino al cinque per cento. L’analisi sul censimento del 2011 finirà per innalzare la cifra totale di circa un milione di unità, più che altro per l’errata valutazione del numero d’immigrati, ma è un fatto che non cambia il quadro generale. Ma la Russia non è sola in questo trend negativo, anche molti paesi a democrazia avanzata sono coinvolti dal fenomeno del declino demografico.Tre paesi del G-7, la Ger-

La Russia sta soffrendo di una crisi di mortalità straordinaria e apparentemente senza fine, in cui le condizioni di salute si stanno deteriorando e stanno ulteriormente alimentando alti tassi di mortalità. L’entità complessiva della spirale discendente nelle condizioni di salute dei russi è catastrofica. Secondo le stime della Human mortality database, un consorzio di ricerca, la speranza di vita alla nascita in Russia era leggermente inferiore nel 2009 (l’ultimo anno per il quale siano disponibili i dati) rispetto al 1961, quasi mezzo secolo prima. La situazione è ancora peggiore per la popolazione adulta: nel 2009, l’aspettativa di vita dall’età di 15 anni, per tutti gli adulti russi, era più di due anni sotto il livello del 1959; l’aspettativa di vita per i giovani è sceso di quasi quattro anni rispetto a quelle due generazioni. In altre parole, la Russia post-sovietica sta soffrendo di un «eccesso di mortalità» con un saldo negativo di sette milioni di morti. Il che significa che se il paese avesse potuto semplicemente mantenere i tassi di so-


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no di una salute così cagionevole. È possibile che il dato sia correlato ad atteggiamenti, mentalità e conseguenti modelli di comportamento che ricadono sotto la voce «salute mentale». Senza voler andare troppo a fondo sull’analisi culturale e psicologica, è chiaro che lo stile di vita dei russi sia estremamente a rischio rispetto ai modelli standard dei paesi sviluppati. E sorprende che in un paese con un livello di reddito relativamente alto ci sia un tasso di mortalità di tale portata. Non solo: di solito a un buon livello d’istruzione si accompagna un altrettanto positivo stato di salute dei cittadini. La Russia è invece in controtendenza. Nonostante abbia un tasso di adulti “laureati” superiore del 30 per cento rispetto alla media Oecd. Se vediamo i dati delle scuole primarie e secondarie, la qualità scolastica è scesa ai livelli della Turchia che è già a fondo classifica (...). Il livello delle nascite tra il 1987 e 1993 era sceso a livelli bassissimi passando da 2,5 a 1,4 milioni. Nel 1999 era ulteriormente sceso a 1,2 milioni di neonati. Solo nel 2010 si è tornati a 1,78 milioni di nascite, sempre molto al di sotto dei valori del 1987. Anche la stabilità familiare è fragile. In Russia ci sono 56 divorzi ogni 100 matrimoni, un rateo peggiore dei tempi dell’Urss, già famosa per l’alta incidenza dei divorzi. Inoltre i genitori single devono crescere i propri figli con un reddito più basso e un wellfare meno efficiente dei paesi dell’Europa oc-

pravvivenza degli ultimi due decenni dell’era Gorbaciov, si sarebbe potuto evitare il decesso di sette milioni di russi. Più o meno la quantità di morti causati dalla prima guerra mondiale alla Russia zarista.

Come si spiega un deterioramento tanto eccessivo per la Russia? Le cause principali del fatidico salto all’indietro nelle condizioni generali di salute della popolazione e nelle aspettative di vita sono state provocate dall’esplosione delle malattie cardiovascolari e da quelli che gli esperti chiamano «fattori esterni» come l’avvelenamento, le lesioni, i suicidi, gli omicidi, le cosiddette fatalità e altri eventi di natura violenta. La parte del leone nelle cause di decesso la fanno le malattie cardiovascolari – tre volte più alte che nell’Europa occidentale – e le lesioni. I decessi per atti violenti sono poi ad un livello stratosferico e comparabili con quelli di paesi come la Liberia e il Sierra Leone. Capire invece perché in una società avanzata e a forte urbanizzazione ci siano fenomeni di questo genere è un altro paio di maniche. La mortifera storia d’amore tra russi e la bottiglia di vodka ha sicuramente a che fare col fenomeno; fumo, una cattiva dieta e l’assenza di medici-

Il Census Bureau prevede che i cittadini di età pari o superiore a 65 anni, che attualmente costituiscono il 13 per cento della popolazione, nel 2025 rappresenteranno quasi il 19 per cento na preventiva certamente fanno pagare un dazio anche loro. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dal 2004 i fumatori costituiscono la componente maggiore della popolazione adulta in Russia – sono il 36 per cento – rispetto ai dati europei. Ma anche se prendessimo tutti questi fattori insieme non riusciremmo a capire pienamente la situazione secondo i modelli occidentali sulla sanità pubblica. La verità è che nessuno sa perché i russi goda-

cidentale e degli Usa. Anche il fenomeno dell’abbandono scolastico e del calo drastico delle iscrizioni alla scuole primarie è un altro elemento del quadro negativo.

Secondo alcune statistiche sociali, a partire dal 2004 più di 400mila giovani al di sotto dei 18 anni d’età vivono in case famiglia, il che implica che quasi un giovane su 70 risiede in una comunità per minori, in un orfanotrofio o in collegi gestiti dallo

stato. Inoltre, la Russia comprende al suo interno una grande e crescente percentuale di giovani senza fissa dimora, quota che, secondo alcune organizzazioni non governative e di beneficenza, potrebbe facilmente superare quella dei giovani ospitati negli istituti assistenziali. Il Cremlino comprende come i trend demografici negativi siano così anormali e pericolosi da richiedere politiche energiche per sovvertirli. Negli ultimi anni, Mosca ha introdotto nuovi ed ambiziosi programmi finalizzati ad invertire la spirale. Nel 2006, l’allora presidente Vladimir Putin rese noto un programma che elargiva fino a 10mila dollari tra crediti e sussidi alle madri con due o tre figli a carico. Egli promulgò anche un decreto che delineava un «concetto di politica demografica della Federazione russa fino al 2025», allo scopo di stabilizzare la popolazione russa a quota 145 milioni entro il 2025, con una generale aspettativa di vita alla nascita di 75 anni (contro i 67 di quel periodo) e livelli totali di fertilità pari a 1,95 per cento, un 50 per cento in più rispetto agli anni antecedenti l’introduzione del piano.

Stando al progetto, dopo il 2015 le nascite supereranno i decessi. Il Cremlino appare dunque ottimista. Ed in effetti, a partire dalla loro introduzione, le nascite hanno subito un incremento. Tuttavia, tale prognosi apparentemente positiva cozza con alcune ovvie ed irreversibili realtà demografiche. Innanzi tutto, il crollo delle nascite in Russia nel corso degli ultimi due decenni ha lasciato il paese con molte meno potenziali madri per gli anni a venire rispetto ad oggi. Le donne di età compresa tra i 20 ed i 29 anni concepiscono quasi i due terzi dei nuovi nati in Russia. Nel 2025, si stima che saranno solo 6,4 milioni le cittadine russe comprese in tale fascia d’età, con una diminuzione del 45 per cento rispetto alle percentuali odierne – e tali proiezioni non lasciano spazio a congetture, dato che tutte le donne comprese tra i 20 ed i 29 anni nel 2025 sono già nate. In tali circostanze, il semplice mantenimento degli attuali indici nazionali di nascite richiederebbe eroici incrementi nel numero di gravidanze. Contemporaneamente, la popolazione russa invecchierà rapidamente. Il Census Bureau prevede che i cittadini di età pari o superiore a 65 anni, che attualmente costituiscono il 13 per cento della popolazione, nel 2025 rappresenteranno quasi il 19 per cento dei russi. Come risultato del semplice invecchiamento, i livelli di mortalità aumenterebbero di più del 20 per cento qualora null’altro cambiasse. E dato il peggioramento che oggi si registra nella salute della popolazione, il conseguire risultati di lungo termine, per quanto concerne l’aspettativa di vita, rischia di essere un’impresa immane.

e di cronach

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La posa della prima pietra è prevista per il 2014. Gli eredi “sono entusiasti”

Napoleone Bonapark Il santuario degli Invalidi non basta proprio più, e la Francia decide di onorare l’imperatore. Con un parco giochi di Vincenzo Faccioli Pintozzi ultima battaglia, il piccolo caporale la combatterà contro Topolino e Paperino. Nonostante riposi in uno dei sacrari più imponenti del mondo – in un’urna di quarzite rosse proveniente dalla Finlandia – Napoleone Bonaparte sembra pronto a tornare sulla scena. Quanto meno, su quella francese. Il problema, non da poco, è che il suo ritorno potrebbe essere avvolto dal kitsch: il governo francese, insieme agli eredi del grande conquistatore, sono infatti pronti a posare la prima pietra de “Il Bivacco di Napoleone”. Un parco a tema, o se preferite un parco giochi, a poca distanza da Disneyland Parigi. Un affronto, forse, oppure come detto l’ultima battaglia dell’imperatore.

L’

I resti di Napoleone riposano in un monumento posto in una cripta a cielo aperto ricavata nel pavimento della chiesa di Saint-Louis des Invalides a Parigi, esattamente sotto la cupola dorata. Il monumento, concepito dall’architetto Louis Visconti, venne terminato nel 1861 e consiste in un grande sarcofago di quarzite rossa della Finlandia, che contiene le 6 bare entro cui è stato chiuso il corpo di Napoleone: dalla più interna alla più esterna abbiamo una bara in lamiera e poi una in mogano, due bare in piombo, una di ebano e l’ultima in legno di quercia. Intorno al sarcofago c’è un loggiato circolare decorato con enormi statue raffiguranti dodici Vittorie. Il trasferimento dalla cappella di Saint-Jérôme dove era stata deposta la salma nel 1840, alla cripta sala centrale della cattedrale di Saint-Louis des Invalides venne effettuato con cerimonia non pubblica il 2 aprile 1861, alla presenza dell’imperatore Napoleone III. La maschera funeraria è conservata invece presso l’Accademia de-

gli Euteleti a San Miniato in provincia di Pisa, città dove gli antenati dell’imperatore avevano risieduto. All’interno della cripta è presente anche la tomba del figlio di Napoleone, Napoleone Francesco, il cui corpo fu qui trasferito dalla Cripta dei Cappuccini di Vienna, dov’era sepolto come tutti i membri della casa d’Austria, da Adolf Hitler nel 1940, come dono al popolo di Francia dopo l’occupazione all’inizio della seconda guerra mondiale. Oggi quella tomba sembra voler lasciare il posto al parco. Tutti noi abbiamo sentito parlare di Napoleone l’imperatore, il generale, il riformatore, l’amante di bellissime donne. Co-

Montereau si trova a 90 chilometri a sud-est da Parigi: qui l’imperatore disse ai suoi soldati: «State tranquilli, amici miei, non abbiate paura. Il proiettile che mi ucciderà non è stato ancora fuso» sì come abbiamo udito le gesta di quell’umile caporale proveniente dalla Corsica che ha cambiato il corso della storia. Le cui armate hanno marciato attraverso tutta l’Europa, portando con loro dominazione – certo – ma anche emancipazione. Sociale, politica e religiosa. Venne fermato alle porte di Mosca, combattè con foga a Waterloo, morì in esilio in un’isoletta dell’Atlantico.

Le sue opere sono senza alcun dubbio i semi da cui è sbocciato l’albero della grandeur d’Oltralpe, quel tratto non propriamente adorabile che accomuna tutti i nostri cugini francesi. Ma sono anche i semi da cui sono nati il Code civil, l’uguaglianza degli uomini, la liberazione da tiranni mai graditi. Il parco a tema – lontano dal voler mettere in berlina tutto questo – è un progetto che spera di poter riportare in auge tutto questo. Con il sostegno

del governo francese, dei dirigenti del turismo e della famiglia Bonaparte. Al momento è in corso la ricerca dei finanziatori, ma nessuno dubita veramente che questi si potranno trovare molto presto. E proprio a causa di questa radicata convinzione è già stata fissata la data per la posa della prima pietra del parco: il 18 febbraio del 2014, 200esimo anniversario della battaglia di Montereau. Certo, non si tratta dello scontro più noto agli amanti della storia moderna; tanto meno è una delle imprese militari più brillanti del piccolo caporale. Si tratta di un conflitto combattuto in quella che divenne poi nota come la “Campagna di Francia” del 1814, in cui l’imperatore tentò (invano) di fermare l’avanzata degli eserciti della coalizione in marcia per il suo trono. Montereau si trova a 90 chilometri a sud-est da Parigi: qui Napoleone ottenne una piccola ma bril-

lante vittoria contro gli austriaci. E secondo la leggenda è qui che l’imperatore, ai soldati che esprimevano preoccupazione per la sua sicurezza personale, disse: «State tranquilli, amici miei, non abbiate paura. Il proiettile destinato a uccidermi non è stato ancora fuso». Nonostante il buon risultato dello scontro, il destino dell’intera campagna era già stato segnato: poche settimane dopo, Napoleone venne costretto ad abdicare. Il luogo della cessione di potere, Fontainebleau, è di certo più famoso di Montereau: ma l’occasione per cui viene ricordato non è (giusta-

mente) troppo gradito ai suoi eredi. Quindi è nel luogo dell’ultima battaglia che sorgerà il parco a tema. Anche perché la cittadina, oggi, ne conserva intatta la memoria: una grande statua dell’imperatore a cavallo domina il ponte principale e ogni anno un numerosissimo gruppo di residenti del luogo mette in scena un rifacimento della battaglia. D’altra parte, si tratta di una delle pochissime vittorie militari conseguite dal caporale sul suolo francese, e non volendo cedere il parco a tema ad un’altra nazione è il posto perfetto per ricordarlo. Yves Jego, sindaco di Monte-


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reau, è entusiasta del progetto. Intervistato dalla Bbc racconta: «Un team di esperti sta iniziando a pensare a quali tipi di attrazione si potranno montare sul luogo. Non dovranno in alcun modo essere volgari, ma anzi tutti destinati a glorificare l’enorme statura dell’uomo». Rimane però difficile per moltissimi immaginare un parco a tema che possa rispondere a queste aspettative, ovvero dare la “giusta statura”a una delle figure più importanti e controverse della storia dell’umanità moderna. Gli esperti chiamati a collaborare hanno la risposta pronta: lungi dal voler competere con Disneyland, appunto, chiamano a testimonianza Le Puy de Fou.

pronte a ricostruire uno dei momenti più importanti del Paese. Il Bivacco cercherà (o potrebbe cercare) di ripetere un’impostazione simile a questa. Alcuni dei progetti preparatori mostrano l’intera area del parco divisa in regioni – Francia, Russia, l’Oriente e via ricordando – con delle elaborate ricostruzioni dei siti dove Napoleone passò alcuni dei più suggestivi anni della sua vita come le Piramidi e i cancelli di Mosca. Frederic Lefebvre, il

Lo scopo è replicare il successo di Le Puy de Fou, parco a tema storico che ogni anno attira circa 1,5 milioni di visitatori: uno dei momenti più importanti del Paese viene rifatto ogni giorno

sterminati con poca gentilezza. Ma per molti italiani fu la sua calata la chiave per la liberazione dell’odiato giogo austriaco. Infine i britannici, che ebbero una relazione molto particolare con l’uomo che per molti anni fu il loro nemico più feroce. Una scuola della storiografia inglese è particolarmente feroce con il piccolo caporale, arrivando persino a definirlo il “prototipo di persona da cui sarebbe poi derivato Adolf Hitler”. Una definizione che fa infuriare l’erede diretto: «Qualcuno giudica forse Winston Churchill per le 30mila persone morte in una notte durante i bombardamenti della Germania settentrionale a opera dell’aviazione di Sua Maestà? Non mi pare proprio».

Per i non francesi, il richiamo dice poco o nulla. Ma Le Puy de Fou è un parco a tema storico che ogni anno attira circa 1,5 milioni di visitatori paganti. Si tratta di una rappresentazione storica della popolazione di Vendee, ubicata nella Francia occidentale, che ogni giorno viene ricordata con elaborati spettacoli esterni, scene di battaglie ricostruite, fuochi di artificio e centinaia di comparse

ministro del Turismo di Parigi, è entusiasta: «Un parco a tema – dice sempre alla Bbc – è un modo fantastico per insegnare ai giovani la storia. E un parco che racconti la vita di Napoleone, che con onestà tratteggi i lati positivi e quelli negativi, potrà raccogliere l’attenzione del mondo intero. Ne sono convinto». Oltre al ministro, uno dei sostenitori più entusiasti del progetto porta il nome del

I curatori (e soprattutto i finanziatori) del futuro Bivacco non si curano molto di queste particolarità. Anche perché, dimostrando un buon fiuto, non guardano poi tanto al turismo europeo – che potrebbe appunto presentare reazioni diverse alla figura dell’imperatore – ma al turismo che viene da quelle nazioni che ora visitano la Francia in migliaia, ma che presto diverranno milioni. In-

protagonista del parco. Charles Napoleon Bonaparte – discendente diretto di Jerome, fratello minore dell’imperatore – ha persino una elaborata teoria a sostegno della costruzione: «In passato le persone imparavano la storia attraverso la lettura dei testi. Poi siamo passati ai musei, per poi arrivare ai film. Nel Ventunesimo secolo abbiamo bisogno di un nuovo mezzo di trasmissione, e sono convinto che il parco a tema sia questo mezzo».

Tutti gli interessati al progetto hanno a cuore l’accuratezza storica del parco. E la commissione di esperti è investita di un ruolo non secondario.Perché il nome “Napoleone” significa cose diverse per gruppi di persone diverse. Per i polacchi vuol dire salvatore, tanto che lo citano persino nel proprio inno nazionale. Per i russi fu un invasore brutale. Gli spagnoli si ribellarono al suo dominio e vennero

diani, russi, brasiliani: e soprattutto i cinesi.

Christian Mantei, capo del settore sviluppo della Atout France, spiega: «La Cina è il nostro mercato potenziale più importante, e Napoleone rappresenta in Oriente un asset strategico vitale. I cinesi adorano il suo genio militare, lo stimano e lo considerano un eroe epico e un uomo che si è fatto da solo. Charles Napoleon è d’accordo, e aggiunge un particolare che Mantei non ha citato ma al quale ha sicuramente pensato: «I francesi hanno un rapporto difficile con la loro storia, che si è mossa con troppa rapidità e ha portato invariabilmente delle divisioni riguardo ai successi ottenuti dall’imperatore. Ma se andiamo in Cina o in India, ecco che Napoleone è il francese più conosciuto. Per questo dobbiamo costruire questo parco. Anche perché, se non lo faremo noi, ci penseranno i cinesi». Una guerra, quella commerciale, che neanche il genio militare del piccolo caporale sarebbe in grado di vincere.


ULTIMAPAGINA Dopo l’incontro con Fidel Castro, ristabilita la festività della Passione. Ma solo «in via del tutto eccezionale»

Effetto Benedetto sul Venerdì di Luigi Accattoli he può venire di buono da Cuba nel caso che ci vada un Papa? Qualche segno riguardo al futuro della fede sul pianeta, ma tutto da interpretare come se arrivasse a noi riflesso attraverso uno specchio e intessuto di enigmi. È stata ristabilita la “festa”del Venerdì Santo mentre noi la stiamo perdendo, si sta costruendo un seminario che si riempirà mentre i nostri si vanno vuotando. E infine quell’incontro tutto da guardare tra il Lìder maximo e il Pontifex Maximus: non conosciamo le parole ma le immagini hanno detto da sole. È di sabato la notizia che il prossimo Venerdì Santo, 6 aprile, «in via del tutto eccezionale» sarà giorno di festa in omaggio al Papa e alla sua visita. «È un segno molto positivo» ha detto il portavoce vaticano. Benedetto aveva fatto quella richiesta il 27 marzo, durante la visita al presidente Raul Castro e la notizia diventa parlante se ricordiamo il precedente di Papa Wojtyla che chiese a Fidel di rendere festivo il 25 dicembre in vista della sua visita del gennaio ’98 e anche allora la risposta fu pronta con l’avvertimento che si trattava di una concessione «eccezionale». Ma poi il Natale restò e così sarà - si può scommettere - del Venerdì Santo. Nella fase eroica della Revoluciòn di Fidel, quando furono soppresse le feste religiose, il calendario governativo aveva previsto che il Natale si festeggiasse in giugno invece che a dicembre, perché una tale festività in quella stagione «intralciava» la raccolta della canna da zucchero. Il Natale - tuttavia - “quando arriva arriva”e i cristiani di Cuba continuarono a festeggiarlo alla data canonica. Ma nel giorno seguente alla Notte Santa dovevano lavorare nelle piantagioni ed era una festa nell’angustia. Anche il Venerdì Santo libero dal lavoro è importante per una religiosità come quella cubana incentrata sulla Passione di Cristo. Applicata all’Italia la faccenda suona così: se domani ci togliessero la vacanza da scuo-

C

Un altro segnale positivo è la costruzione, quasi ultimata, di un seminario in grado di ospitare un centinaio di alunni. L’Avana lo aspettava da circa mezzo secolo la nel triduo pasquale - Giovedì,Venerdì e Sabato Santo - in cambio del riconoscimento formale della “settimana bianca”(quello reale c’è già), qualcuno protesterebbe? Il Papa potrebbe dire qualcosa? E non sarebbe un’ingerenza? Anche la vicenda del seminario ha un significato pungente. La visita di Benedetto ha riproposto quella diplomazia dei piccoli passi che avevamo già visto con la visita di Wojtyla, in vista di un qualche ampliamento degli spazi di azione della Chiesa, che sono venuti crescendo in questi 14 anni ma che non sono ancora sufficienti. «Il numero di sacerdoti e religiose è aumentato. È stato costruito un nuovo seminario nazionale all’Avana, la Chiesa ha un accesso maggiore, sebbene ancora non sistematico, ai mezzi di comunicazione, le espressioni pubbliche di fede sono ormai abituali. In vista della visita del Papa e per celebrare l’Anno giubilare (per il quarto centenario del santuario mariano del Cobre),

SANTO Raul Castro ha concesso un indulto a quasi tremila prigionieri comuni per ragioni umanitarie e su invito della Chiesa Cattolica e di altre confessioni cristiane. La Chiesa valuta positivamente il fatto che il governo cubano le abbia chiesto di partecipare a questo processo».Così ha parlato all’Avvenire del 19 marzo il cardinale Jaime Ortega y Alamino, lo stesso che nel ’98 aveva accolto Giovanni Paolo. Il seminario, si diceva. Benedetto al termine della grandiosa celebrazione in Plaza de la Revoluciòn, il 28 marzo, ha ringraziato il cardinale O’Malley arcivescovo di Boston per aver finanziato la costruzione del nuovo seminario a 15 km dalla capitale, che è quasi ultimato e che ospiterà un centinaio di alunni. Era mezzo secolo che aspettavano di poterlo costruire. Insieme al maggiore benefattore hanno contribuito la nostra Cei e un gruppo di cattolici francesi.

Da Boston a noi, chi quasi non sa più che farsene dei seminari ha dato una mano perché a Cuba potessero averne uno che è previsto si

riempia in un paio di stagioni. Gli insegnamenti sovrabbondano in questa parabola che stante lo scandalo della pedofilia che crocifisse a suo tempo l’arcidiocesi di Boston - potrebbe essere detta del riciclaggio delle risorse. Ed eccoci all’incontro di Fidel con il Papa. «Sono anziano ma posso ancora fare il mio dovere» ha detto Benedetto al Comandante che gli chiedeva «che cosa fa un Papa» e gli faceva domande sui cambiamenti della liturgia - «la messa non è più quella che ho cosciuto da giovane» - e sui temi della sua predicazione in Cuba, informandolo di aver seguito «tutto» per televisione. Nell’incontro vi sono stati momenti di confidenza e quasi di commozione, con il lìder maximo che voleva consigli sui libri da leggere e il Papa - che è pur sempre un professore tedesco - che gli rispondeva: «Devo pensare a quali titoli inviarle». Parlando con il Segretario di Stato cardinale Bertone, Fidel ha pure ringraziato per la beatificazione di Giovanni Paolo II e di Madre Teresa, che ha definito «grande benefattrice di Cuba» avendo aperto nell’isola già negli anni Ottanta «case di accoglienza» per i poveri attive anche oggi. È una fortuna che non sappiamo altro sulla conversazione dei due coetanei: Fidel ha otto mesi più di Joseph. Così possiamo farci dire qualcosa di più dalle facce. Quella tremante del rivoluzionario cubano e quella trepida del Papa di Roma. Ambedue imploranti per la propria famiglia. In questo strano mondo c’è anche la strana Cuba e da essa ci vengono segnali che forse possiamo intendere, aiutati dalla loro lontananza rispetto al nostro alfabeto quotidiano. www.luigiaccattoli.it


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