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he di cronac

Si può resistere alla forza

di un esercito; non si può resistere alla forza di un’idea Victor Hugo

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 29 MARZO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Affondo del Professore da Tokyo. E anche l’Europa va in pressing: «Subito il voto in Parlamento sul lavoro»

La sfida di Monti ai partiti «A loro manca il consenso». Napolitano lo appoggia. Bersani lo attacca Il premier: «Gli italiani mi sostengono». Il Quirinale d’accordo: «Il Paese è consapevole». Il leader del Pd, invece: «Se partono i cazzotti, partono per tutti». E i sindacati inventano il retrosciopero: sulle pensioni L’OCCASIONE

di Errico Novi

La politica non protesti, piuttosto cambi se stessa

ROMA. Monti, dal Giappone, sfida la politica: «Il governo ha il consenso, i partiti no». E insiste a sostenere la riforma del lavoro da approvare il prima possibile: «Gli italiani hanno capito». Dello stesso avviso il presidente Napolitano, mentre i sindacati rispondono con uno sciopero unitario contro la riforma delle pensioni. a pagina 2

di Osvaldo Baldacci onti fa il duro. Dall’Asia lancia messaggi forse anche un po’ muscolari. Dopo il «Se il Paese non è pronto andiamo via», ieri è arrivato un persino più esplicito «Noi meglio dei partiti». Per la precisione, in riferimento soprattutto alla riforma del lavoro, Monti ha detto: «Ho l’impressione che la maggioranza degli italiani percepiscano questa riforma del lavoro come un passo necessario nell’interesse dei lavoratori. Nonostante tutto, questo governo sta godendo un alto consenso nei sondaggi, i partiti no». In fondo, ha ragione. a pagina 5

M

Retroscena dal vertice sulla riforma

Nuova riunione del tavolo dei saggi

Un listone con la Lega? Continua il lavoro La tentazione comune di Alfano (e del Pdl) sul modello tedesco Chiesta una clausola che obblighi a non escludere dal governo il partito che arriverà primo: è solo un questione formale?

Accordo su metà eletti nei collegi e metà con il listone (e un premio di 36 seggi). Stavolta alla riunione c’era anche il bipolarista La Russa

Riccardo Paradisi • pagina 4

Francesco Lo Dico • pagina 3

Benedetto XVI incontra il Lìder Maximo

Il Papa lancia la seconda rivoluzione cubana di Vincenzo Faccioli Pintozzi l teologo e il rivoluzionario. Un’immagine suggestiva, che da un certo punto di vista potrebbe essere applicata a entrambe le parti di questa storia. E non è detto che sia sbagliato definire Benedetto XVI un “rivoluzionario” più di quanto si potrebbe parlare di Fidel Castro come di un “teologo”. Ovviamente la teologia e la rivoluzione che li accomunano sono molto diverse: Castro ha perseguito una battaglia contro la modernità economica e sociale, mentre papa Ratzinger ha rivoluzionato il pensiero della Chiesa, della Curia e dei fedeli sul relativismo imperante nella nostra epoca. Il pensiero di entrambi, durante lo storico incontro di ieri, deve essere volato a Giovanni Paolo II. a pagina 10

I

EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Da Sarkozy a Hollande

Le urne rendono la Francia anti-europea di Giancarlo Galli

PARIGI. Colpo di scena mediatico a poche settimane dal primo turno (ballottaggio il 6 maggio) delle presidenziali francesi: l’attuale inquilino dell’Eliseo Nicolas Sarkozy è tornato in testa ai sondaggi, scavalcando il già favoritissimo socialista François Hollande. 28,5% dei consensi contro il 27. Per capire ciò che sta accadendo nella Nazione cugina, occorre tuttavia staccarsi dai numeri dei supposti maghi demoscopici, analizzando quel che politicamente bolle nel gran calderone. Lì scoprendo, piaccia o meno, una decisa svolta ipernazionalista, a tratti demagogico-populista, dalla quale l’unico a tenersi distan- È Bayrou te, coerente l’unico alle idee di candidato sempre, è il estraneo centrista-cattolico Bay- agli eccessi rou. Pagando, nazionalisti sembra, un alto prezzo. Che madame Le Pen, figlia d’arte, volesse chiudere le frontiere all’immigrazione nonché rispedendo ai Paesi d’origine oltre un milione di clandestini, nonché abbandonare l’euro col ritorno al franco e rompere il cordone ombelicale con la Germania della cancelliera Merkel, lo si sapeva. Ma quanto credibili questi radicali propositi che pur trovano vasti, sebbene spesso inconfessabili consensi nell’opinione pubblica? a pagina 6 19.30


Napolitano con il premier: «Non vedo tensioni». Ma i sindacati rispondono con uno sciopero: in piazza uniti per le pensioni

Sfida alla giapponese

Monti da Tokyo: «Abbiamo il consenso, gli italiani hanno capito». E Bersani: «Attenti, se non li convinciamo, arriveranno i cazzotti» di Errico Novi

ROMA. Ci sono due Italie. E Mario Monti le rappresenta, con garbo e realismo, in una conferenza organizzata a Tokyo dal Nikkei, il colosso giapponese dei media economici. «Questo governo sta godendo di un alto consenso nei sondaggi di opinione, i partiti no», spiega il premier nel passaggio più delicato della sua visita nipponica. L’analisi non si riduce a una citazione degli istituti di ricerca, ma riassume una specie di rivoluzione in corso nel rapporto tra cittadini e politica: «I partiti stanno vedendo che gli italiani sono molto più maturi di quello che pensavano», e gli stessi partiti, aggiunge Monti, diventeranno sempre più consapevoli che «c’è da parte dei cittadini una domanda di governance la cui offerta in passato è mancata». Quindi la disillusione non solo monta progressivamente, ma ha radici lontane. «E ora gli italiani sembrano capire che la cosa importante è l’interesse di lungo periodo del Paese», dice il presidente del Consiglio.

Analisi svolta con tono sereno ma piena di implicazioni al limite del rivoluzionario. Perché di fatto il capo del governo osserva come l’offerta dei partiti sia, da anni, del tutto inadeguata. È vero che Monti introduce il suo ragionamento con parole

La Commissione invita a non «perdere lo slancio» dimostrato dall’esecutivo tecnico

Pressing Ue: «Subito l’accordo in Parlamento sul lavoro» BRUXELLES. Fate presto! Che sia la riforma Fornero o un altro progetto (il più possibile simile a quello) per ammodernare il mercato del lavoro in Italia, la Commissione europea chiede all’Italia soprattutto fretta. Correttamente, la Commissione europea applaude l’operato del governo ma sospende il giudizio specifico sul pacchetto avanzato dal ministro italiano del Lavoro, visto che «la proposta deve ancora essere approvata dal Parlamento italiano». Bruxelles, tuttavia, non ha dubbi che il settorelavoro vada riformato e incita il Paese a farlo presto, appunto. Lo ha spiegato ieri in una nota la portavoce del commissario Ue al’Occupazione, Laszlo Andor, secondo cui «la Commissione esaminerà con cura il testo che sarà adottato dal governo italiano». Nella stessa nota si legge che «riformare il mercato del lavoro in Italia è necessario per aumentare l’occupazione, accrescere la competitività e assicurare l’equità». Qualsiasi riforma si voglia adottare il Italia, essa «deve essere in linea con quanto delineato dalla Commissione nelle sue raccomandazioni specifiche per l’Italia e nell’Analisi annuale della crescita per il 2012». D’altra parte, la Ue fa anche un appello all’unità tra governo e parti sociali: «Speriamo che le autorità italiane e i partner sociali continueranno a lavorare insieme in modo costruttivo per raggiungere il migliore risultato possibile» si legge nella nota, come a sottolie-

nare che il margine per un accordo finale sui temi del lavoro a Bruxelles appare ancora molto ampio. Nel merito, poi, nel ricordare i limiti del sistema in vigore - diffuso precariato giovanile, solide garanzie solo per i lavoratori a tempo indeterminato, sistema degli ammortizzatori «frammentato» - la portavoce di Andor afferma che l’iniziativa del governo di Mario Monti «ha l’ambizione di affrontare le rigidità e le asimmetrie legislative in maniera comprensiva» alla ricerca di «un miglior equilibrio fra flessibilità in entrata e in uscita». La nota termina con un appello «a mantenere il ritmo delle riforme: la responsabilità di una rapida adozione di una riforma efficace è nella mani del Parlamento». In questo contesto, è importante sottolienare che la stessa porIavoce del commissario Andor ha detto che «il Fondo sociale europeo può essere coinvolto a sostegno della riforma del mercato del lavoro italiano». L’idea sarebbe quella di aiutare l’Italia nei suoi sforzi «per combinare misure attive e passive» nella fase di transizione dalle vecchie e alle nuove regole, ha indicato la portavoce che si e’ rifatta al piano di azione per la coesione sociale concordato nel luglio scorso con l’Italia che fornisce indicazioni per la riprogrammazione e la concentrazione di circa 3,7 milairdi di euro a favore di occupazione, educazione, agenda digitale e ferrovie.

anche di apprezzamento per alcuni passaggi recenti. Da quello di Berlusconi, innanzitutto, giacché «non è facile trovare un sistema in cui il primo ministro non chiaramente sconfitto in Parlamento decida di ritirarsi», allo sforzo compiuto da tutta l’attuale maggioranza, composta da formazioni che «prima erano belligeranti» e ora «hanno optato per un momento di unità nazionale». Poi però quando si sofferma sul consenso, Monti prima immagina che il suo esecutivo dovrebbe essere «una breve eccezione», ma poi fa coincidere questa circostanza con un salto di qualità proprio dei partiti «che saranno lievemente diversi» perché consapevoli appunto delle nuova domanda di governance diffusa tra gli elettori.

Insomma, da Tokyo Monti osserva che il suo governo viaggia a un’altra velocità rispetto alle forze che lo sostengono, «nonostante alcuni giorni di declino nei consensi, dopo le nostre misure sul lavoro». In proposito, il premier si dice «fiducioso» sul fatto che «la riforma passerà». La gente, dice, «sembra apprezzare un modo moderato e non gridato di affrontare i veri problemi». Immagina, Monti, che le cose dovranno cambiare, che le forze politiche dovranno indossare per forza di cose abiti nuovi, proporsi in


prima pagina

29 marzo 2012 • pagina 3

Di corsa verso il modello tedesco Nuovo vertice per la riforma elettorale: metà eletti nei collegi e metà con il proporzionale di Francesco Lo Dico

ROMA. Se la tabella di marcia fissata nel vertice di martedì – testi base per legge elettorale e riforma costituzionale pronti in quindici giorni – sembrava molto impegnativa, l’ulteriore passo avanti di ieri avvicina il traguardo. Si è riunito di nuovo il tavolo tra le forze di maggioranza – senza i tre leader – ed è arrivata un’indicazione abbastanza chiara sul sistema di voto: si procede verso un modello di tipo tedesco. Ne hanno discusso i rappresentanti di Pdl,Terzo polo e Pd, con i costituzionalisti chiamati dalle tre parti a preparare il nuovo testo. A loro si è aggiunto a sorpresa Ignazio La Russa. Aspetto rilevante per due motivi. Perché segna la particolare determinazione dei berlusconiani a procedere con rapidità. E perché la presenza del coordinatore pdl compensa qualche agitazione di troppo registrata nel suo partito. Anche tra li stessi ex An, a cominciare da Matteoli, che sulla nuova legge elettorale chiede la preventiva convocazione degli «organismi dirigenti» per scongiurare «conseguenze gravi». Nonostante il nostalgismo dei bipartitisti a oltranza, lo schema assume una forma non lontana dal sistema elettorale adottato da cinquant’anni in Germania: doppio canale di elezione, con 232 deputati scelti attraverso i collegi uninominali e altrettanti indicati in una lista unica nazionale con metodo proporzionale; una quota di seggi, dovrebbero essere 36, attribuita come premio al partito di maggioranza relativa; nessun

meccanismo che induca la formazione di coalizioni prima del voto.

Si va dunque verso l’addio al bipolarismo coatto degli ultimi tre lustri. Con alleanze fondate su scelte politiche e programmi, non sulla rincorsa al premio di maggioranza. Su questo schema si continuerà a lavorare a partire dal prossimo incontro, previsto per martedì. Con una tabella di marcia molto serrata, che dovrebbe consentire di restare nel limite delle due settimane fissato l’altro ieri. Uno sforzo che Monti segue da lontano, senza inviare sollecitazioni. Tanto che da Tokyo il premier fa sapere in mattinata di non aver letto i giornali e di ignorare dunque i contenuti dell’intesa raggiunta il giorno prima. Ma dopo aver incassato il gradimento del Quirinale, ieri rafforzato da Capua, il lavoro intrapreso da Alfano, Bersani e Casini pare non de-

ricevuto la benedizione di Avvenire. «Comincia finalmente a organizzarsi anche il cantiere di quelle riforme (istituzionali ed elettorali) del“fare politica”che non abbiamo mai smesso di auspicare e che gli italiani, sempre più delusi e tentati dalla contro-politica, si stanno ormai stancando di attendere», scrive il direttore del quotidiano cattolico, Marco Tarquinio.

Ma come detto, non tutti, ieri, hanno brindato. La nuova legge elettorale prevede infatti, con il consenso dei tre leader, che la coalizione possa diventare facoltativa, e comunque realizzabile dopo il voto. E che il premio di maggioranza, sensibilmente ridotto rispetto al porcellum, vada in dote al partito (e non più alla colazione) più votato. Tutte misure che liberano i tre pilastri della fase tecnica, dalle zavorre più tipiche della Seconda Repubblica: le sacre alleanze un tempo prescritte dalla polarizzazione NoCav e SìCav. «I partiti», ammette sul punto Ignazio La Russa, «non hanno convenienza a coalizzarsi, questo sistema tendenzialmente porta al bipartitismo perché il premio di maggioranza va alle forze politiche e non alle coalizioni. È una spinta verso un sistema più europeo, dove ci sono due o al massimo tre partiti». Ed è soprattutto una spinta a liberare i berluscones dall’abbraccio mortale della Lega. Che difatti, per bocca di Matteo Salvini, accusa Pd, Udc e Pdl di intenti riformisti non troppo nobili: «L’unico fine è fare

C’era anche La Russa alla riunione degli “esperti” dei partiti: la presenza del leader degli “ultrà” del bipolarismo rappresenta un ulteriore passo avanti stinato ad esaurirsi in una effimera fiammata. Sul tavolo, come appreso dal comunicato congiunto delle tre forze di maggioranza, c’era già l’altro ieri un nuovo sistema di voto dal carattere essenzialmente proporzionale, con forti mutuazioni, appunto, dal modello tedesco. L’impegno comune a superare l’impasse della Seconda Repubblica, restituendo ai cittadini il diritto di scegliere gli eletti, ha

modo assai più vicino allo stile dell’attuale esecutivo che a quello dei governi precedenti. È appunto la prefigurazione di una scena molto diversa dall’attuale. Colpisce che una simile, serena quanto impietosamente realistica analisi arrivi poche ore dopo i passi avanti compiuti da Pdl, Terzo polo e Pd sulle riforme. Quasi ad attestare che l’eventuale accordo su modifiche mirate della Costituzione e legge elettorale rappresenti un atto di responsabilità doveroso, ma ancora insufficiente.

Dall’altra c’è l’annuncio, da parte della leader cgil Susanna Camusso, di una «manifestazione unitaria» con Cisl e Uil contro «l’intervento disastroso sulle pensioni» e «il nodo degli esodati», cioè di chi si trova senza lavoro e senza ammortizzatori sociali sufficienti per arrivare alla pensione. Nonostante le rassicurazioni offerte a ri-

Che i partiti tendano a una certa evanescenza, in questa fase, pare in fondo confermato anche dal nuovo strappo dei sindacati. Da una parte la Uilm si mette nella scia della Fiom e proclama 4 ore di sciopero per contestare «la riforma del mercato del lavoro» che «proprio non va» e, sul punto dei «licenziamenti economici», invoca una «azione del Parlamento».

guardo anche dal Quirinale, la piazza delle tre sigle confederali resta al momento convocata per il venerdì dopo Pasqua, il 13. E anche se ha come oggetto una questione specifica, quella giornata rischia di trasformarsi nel luogo dell’opposizione sociale contro la riforma del lavoro proposta dal governo.Tanto è vero che della mobilitazione convocata su questo dalla Uilm,

la Camusso dice di non stupirsi. E i partiti? Ricevono una sollecitazione da Napolitano, il quale chiede che «il cantiere delle riforme vada rapidamente avanti». Ma di fronte al dualismo ormai sempre più netto tra la linea dell’esecutivo e quella dei sindacati, i partiti appaiono più spettatori che protagonisti. Al massimo entrano in seconda

fuori quelli scomodi, ovvero la Lega». Sull’altro fronte, è naturalmente la foto di Vasto che comincia a bruciare. Con il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, nei panni di pompiere: «Girano stravaganze sull’esito del vertice di ieri. È infondato dire che i partiti con la riforma avranno mani libere». «È una truffa. Si preparano a ingannare per l’ennesima volta i cittadini con una legge elettorale fatta apposta per permettergli di decidere e lasciare tutto il potere nelle mani della casta», sbotta sul suo blog il leader dell’Idv Antonio Di Pietro. Che presenta la possibilità di allearsi dopo il voto come la prerogativa propria del mestiere più antico del mondo: la «prostituzione politica». Ma anche nel cotè prodiano del Pd si affilano le armi. «È un imbroglio», attacca Arturo Parisi, che vede nella riforma un ritorno al passato. «I cittadini», spiega l’ex ministro, «non ricordano il punto da cui eravamo partiti, ovvero una partitocrazia dove i capi facevano e disfacevano i governi ogni dieci mesi regalandoci quell’instabilità diventata una caratteristica italiana e soprattutto quel debito pubblico che oggi stiamo cercando di sanare».

tempo reale chiesta da liberal a Nando Pagnoncelli. «C’è una divaricazione ormai netta tra cittadini e politica che supera di gran lunga per ampiezza quella avvertita negli anni scorsi tra centrodestra e centrosinistra». E già questo non solo avvalora l’analisi fatta da Monti a Tokyo ma la aggrava. «La frattura è intervenuta per la distanza tra

Pagnoncelli conferma l’analisi critica di Monti sui partiti: «Il 41 per cento ritiene che sarà un nuovo soggetto politico a raccogliere l’eredità dell’attuale esecutivo. Emerge una frattura mai vista prima tra cittadini e rappresentanza» battuta, come fa Bersani che sul lavoro risponde a Monti con una battuta forte: «Gli italiani ci prenderanno a cazzotti». Napolitano invece non vede «esasperazioni cieche» nell’opinione pubblica si dice fiducioso che i cittadini «capiscano» la necessità dei cambiamenti.

Lo spiazzamento dei partiti è confermato da un’analisi in

l’attuale offerta politica e i cambiamenti percepiti come necessari da settori molto estesi dell’opinione pubblica. I partiti attuali sono considerati non sufficientemente attrezzati per guidare i processi di cambiamento in corso». Tanto è vero, argomenta il presidente dell’Ipsos con rilevazioni raccolte dal suo istituto, che «se per un 46 per cento l’eredità di Monti può es-

sere raccolta dai partiti attuali, il 41 per cento ritiene che questo possa farlo solo un soggetto politico nuovo». E quindi di fatto esprime una sfiducia generalizzata nei confronti delle forze attuali. Difficile, per quasi metà degli italiani, che i partiti, «rinnovino in poco tempo leadership, alleanze, rapporto con gli elettori». E la distanza tra opinione pubblica e politica «è desumibile», aggiunge Pagnoncelli, «anche dal fatto che per la maggioranza assoluta degli intervistati, in una nostra ricerca di una settimana fa, è assolutamente superata l’opposizione destra-sinistra, categorie che appaiono ormai inadatte a offrire risposte». Governo da una parte, partiti dall’altra: la dicotomia casomai è questa, in concreto. E le parole forti con cui appunto Bersani risponde a Monti sul lavoro («o partiti e tecnici convincono gli italiani, o ci prenderanno a cazzotti») non fanno che confermarlo.


l’approfondimento

pagina 4 • 29 marzo 2012

Il disegno istituzionale tracciato dai vertici di questi giorni apre scenari nuovi, ma anche vecchie tentazioni tra i partiti

Tentazione listone

Il Pdl è attratto da un ticket Alfano-Maroni per le prossime elezioni? Molti indizi lo fanno pensare: dalle richieste fatte al tavolo per la riforma elettorale agli accordi con Bossi per le amministrative. Ma forse è solo un calcolo sbagliato di Riccardo Paradisi è un’intesa ufficiale di massima dunque sulla nuova legge elettorale tra i partiti che sostengono il governo di Mario Monti. Una volontà comune di superare il Porcellum, il bipolarismo armato e la coazione a costruire aggregazioni forzose. C’è anche un percorso, immaginato entro tempi serrati, che dovrebbe tradurre l’accordo trovato dai leader delle forze di maggioranza in una proposta concreta entro 15 giorni, così da poter votare la prossima primavera con un nuovo sistema elettorale.

C’

Una solerzia motivata anche dal fatto - come faceva notare lunedì Luciano Violante - che unitamente alla legge elettorale cammineranno anche le modifiche costituzionali che ridurranno i parlamentari del 20% ed andranno a modificare il bicameralismo perfetto. Una notizia del genere sarebbe stata derubricata a pura fantapolitica solo fino a due mesi fa, quando ancora si consumava

una guerra civile ideologica tra opposti schieramenti resi furiosi da quindici anni di bipolarismo chiodato e capaci di relazionarsi solo attraverso l’insulto e la reciproca delegittimazione. Sicché già solo un’intesa di questo tipo, seppure non definitiva, appare qualcosa di straordinario. Restano però retropensieri e prudenze che possono ancora frenare il processo d’avvio della riforma elettorale. Va in questa direzione per esempio la comunicazione fatta lunedì sera dal segretario del Pdl Angelino Alfano parlando con i senatori del gruppo: «Il partito che prenderà più voti – ha spiegato – sarà quello che indicherà il premier che così non potrà andare all’opposizione. Nemmeno nel caso ci fosse una sfiducia costruttiva». Dove sta il retro pensiero, dove il freno? potrebbe domandare chi rileva che in fondo Alfano ha reso una comunicazione pubblica e trasparente. Nel fatto che la clausola data da Alfano come tacita e acquisita - e che non è

contemplata in nessun sistema al mondo che abbia similitudini con quello della bozza in discussione - nell’accordo di massima siglato lunedì sera semplicemente non c’è. Il segretario del Pdl l’ha allegata a posteriori all’intesa mettendo dunque Pd e Udc di fronte a uno stato di fatto. Perché?

La risposta semiufficiale che viene da via dell’Umiltà è che la clausola-Alfano è mirata a ottenere un rafforzamento deciso

C’è chi nasconde la propria strategia dietro la difesa del bipolarismo

della figura del presidente del Consiglio, a vantaggio della governabilità. A ben vedere però queste esigenze – governabilità e stabilità - sono già ottemperate dalla bozza di riforma elettorale con il premio di maggioranza (seppure contenuto) e il potenziamento delle prerogative del premier. La clausola Alfano dunque si limiterebbe soltanto - come dicono nel Terzo Polo e tra il Pd - a introdurrebbe elementi volti a snaturare la filosofia proporzionalista della

riforma. Dunque qual è il vero motivo di quella richiesta? Perché il Pdl si preoccupa tanto che il partito più votata debba scegliere il premier e abbia garanzie formali di essere nel governo? La domanda non è peregrina anche considerando il dato che emerge chiaramente da tutti i sondaggi, anche quelli in possesso di Silvio Berlusconi e del suo quartier generale: ossia che il partito che uscirà dalle urne delle prossime consultazioni politiche sarà il Pd di Bersani. La vera risposta, confermata da qualche fonte interna al Pdl, potrebbe essere allora questa: nel Pdl esiste ancora un’apertura di credito alla Lega, non si esclude cioè la possibilità – malgrado le tensioni e gli scontri di questi mesi – di stringere di nuovo un’alleanza, magari, costretti dalla nuova legge elettorale, siglata non come coalizione ma addirittura come partito unitario. Fare con la Lega insomma ciò che a Berlusconi non è riuscito con Fini e Casini. Uno scenario avventuri-


29 marzo 2012 • pagina 5

L’occasione è unica: bisogna stare nei paletti segnati dall’intesa di martedì tra i leader

Ora la politica non protesti, piuttosto cambi se stessa

Le parole del premier che sferzano i partiti devono essere uno stimolo per andare avanti rapidamente con la doppia riforma istituzionale di Osvaldo Baldacci onti fa il duro. Dall’Asia lancia messaggi anche un po’ muscolari. Dopo il «Se il Paese non è pronto andiamo via», ieri è arrivato un persino più esplicito «Noi meglio dei partiti». Per la precisione, in riferimento soprattutto alla riforma del lavoro, Monti ha detto «Ho l’impressione che la maggioranza degli italiani percepiscano questa riforma del lavoro come un passo necessario nell’interesse dei lavoratori. Nonostante alcuni giorni di declino a causa delle nostre misure sul lavoro questo governo sta godendo un alto consenso nei sondaggi, i partiti no», anche se ha in qualche modo smorzato questa affermazione spiegando che questo deriva anche dal fatto che il governo tecnico è una “breve eccezione”.

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Breve eccezione, ma certo non qualcosa che abbia voglia di mostrarsi malleabile. D’altro canto la verità pura e semplice, anzi, nuda e cruda, è che Monti ha ragione. Diciamo pure che ha anche qualche torto. Un muso troppo duro, una certa spocchia possono essere controproducenti. E i riferimenti ai sondaggi sono sempre ingannevoli, e comunque ricordano tempi remoti ma vicini che tutto sommato non rimpiangiamo, e rispetto ai quali il governo Monti doveva voltare pagina. La fora di questo governo sta nello sforzo di fare bene, a prescindere dal consenso, per questo è tecnico e non politico. Monti non deve fare l’autogol di affidarsi oggi al consenso, col rischio che magari più in là qualche sondaggio possa registrare un calo di consenso. Non che si debba andare contro la volontà degli italiani, ma bisogna saperla indirizzare alla lungimiranza, e quindi serve un governo tecnico e non politico proprio perché non deve avere bisogno di misurarsi costantemente col consenso e neanche alle elezioni, ma può operare le riforme col sostegno di (quasi) tutti facendo anche un po’ da schermo alle necessità politiche dei partiti. Per questo Monti non deve diventare una parte in causa e in gara, ma deve restare super partes, e quindi non è opportuno che esageri nel contrapporsi ai partiti. A questo punto però bisogna anche chiarire che in queste ore lo sta facendo per una serie di buoni motivi. Il primo è la legittima difesa rispetto a un eccesso di fibrillazione che tutti gli osservatori hanno sottolineato negli ultimi giorni. Una fibrillazione grave, che non mette tanto in pericolo solo questo governo, ma tutta l’Italia e il progetto di salvataggio e rilancio dell’Italia che questo governo ha. Per questo il premier ha chiarito

che loro non stanno qui per scaldare la sedia né hanno bisogno del potere politico ad ogni costo: se possono realizzare il progetto di rinascimento italiano che hanno, e se questo è condiviso, continueranno a governare, altrimenti non sono certo loro che hanno il problema di tornare a fare quello che facevano prima. Secondo ottimo motivo, Monti si trova in un’importante missione all’estero, e ho il sospetto che alcuni toni duri li abbia dovuti usare anche per dare una giusta e forte impressione agli altri

Non si deve andare contro la volontà degli italiani, ma bisogna saperla indirizzare alla lungimiranza

Paesi, rendendosi conto di correre il rischio che troppo chiacchiericcio e troppi tentennamenti avrebbero indebolito l’immagine dell’Italia.

Detto questo, è innegabile che Monti abbia detto la verità, il governo è forte, i partiti no. La verità non deve mai indignare, deve far riflettere. E nel caso si sia dalla parte debole, deve spingere a correre ai ripari. E questo devono fare i partiti: invece di sminuire le parole di Monti o di polemizzare. È una sfida, va raccolta. I partiti si devono interrogare sul perché godono di così poco consenso, e darsi da fare per invertire la tendenza. A cominciare da subito. La riforma della politica, con la legge elettorale e le riforme istituzionali, è un passo importante. Ma anche il sostegno consapevole e senza ambiguità alla linea politica di rigore, serietà e rilancio incarnata dal governo Monti. I partiti devono mostrarsi determinati a salvare l’Italia, a mettere l’interesse nazionale davanti all’interesse di bottega, a evitare trucchetti e tatticismi, piccole rendite di posizione, populismo. Devono tornare a stare tra la gente, non con propaganda unidirezionale di tipo televisivo, ma in uno scambio fruttifero di opinioni e quindi di linfa vitale. Devono abbandonare gli slogan e saper spiegare ai cittadini la situazione, le scelte, le necessità, e al contempo portare nelle istituzioni le istanze dei cittadini. E devono essere dei canali aperti anche per il reclutamento e il rinnovamento della politica. Per la partecipazione e non solo per la mobilitazione, come è invece accaduto nella seconda repubblica. Forse occorre una legge sui partiti che ne garantisca non solo la trasparenza finanziaria, ma anche la democraticità interna. E poi si avverte sempre più la necessità di partiti che siano aperti alla società civile ma con una chiara impronta ideale e programmatica riconoscibile. Basta ammucchiate che comprendono tutto e il contrario di tutto, buone per tutte le stagioni. Potevano reggere nel trionfo della propaganda, ma se ci vuole un confronto costruttivo e un filo diretto funzionante tra elettori e rappresentanti, bisogna poter scegliere e aver ei criteri ideali, morali, programmatici e personali per farlo. Non basta che ci sia un candidato imposto per fedeltà al leader. In questo senso la riforma elettorale è un buon segnale politico. Al di là del prevedibile ma ipocrita fuoco di sbarramento dei nostalgici che sguazzavano nel vecchio sistema da cortigiani e cooptati in cui hanno costruito il loro potere, la riforma elettorale può essere la prima prova di maturità della nuova politica.

sta sicuramente, osteggiato anche dentro lo stesso Pdl e rispetto al quale lo stesso Berlusconi nutre forti perplessità ma che nei settori più antimontiani del partito è caldeggiato come strategico al rilancio, sotto mutate spoglie, del vecchio bipolarismo da un lato e dall’altro all’escavazione del terreno politico su cui possa costruirsi una nuova cultura di governo dell’alternanza tra poli moderati. Del resto, che nel Pdl – come nel Pd – ci siano ancora delle resistenze traspare anche dalla prudente riflessione di Fabrizio Cicchitto capogruppo del partito alla Camera: «La possibilità di una modifica della legge elettorale è una questione tutta da verificare. È facile trovare intese sulle linee generali, poi quando si va nel particolare è tutto più complesso». Sarebbe complesso per la verità però anche per il Pdl intraprendere questa strada. Perché nell’attuale formazione che fa ancora capo a Berlusconi s’aprirebbe un conflitto difficilmente sanabile tra la componente che ha sempre considerato il governo istituzionale di Monti come una parentesi che deve chiudersi senza conseguenze nel 2013 e la componente moderata che invece ritiene la svolta attuale come lo start-up d’una nuova stagione politica riformista entro la quale sarebbe possibile costruire poli politici di stampo europeo liberi dalle pressioni e dai condizionamenti dei radicalismi di sinistra e dei populismi di destra.

Una componente quest’ultima che nutre la stessa convinzione che il quotidiano Avvenire manifestava ieri in un editoriale del suo direttore Marco Tarquinio: «Un nuovo e sensato bipolarismo potrà germinare solo da un superamento sensato dei vizi strutturali del quadro precedente e degli strumenti che l’hanno tenuto in piedi che non hanno dato stabilità ed efficacia ai governi, hanno incentivato frazionismo e trasformismo e hanno allontanato classe politica e Paese reale». Non sarà un caso che a scagliarsi contro questa riforma sono proprio i populisti e i radicali di tutte le obbedienze. Per esempio, Arturo Parisi sembra ostinarsi a pensare la politica italiana guardando lo specchietto retrovisore. Parisi infatti parla di «un ritorno ai riti decadenti della peggiore prima repubblica, con una sorta di inganno programmato della volontà espressa dal corpo elettorale e la cancellazione del maggior contributo politico, recato da Silvio Berlusconi, alla chiarezza del rapporto tra elettori-eletti». Come se in questi tre lustri non vi siano stati riti decadenti, ribaltoni, rimpasti. Come se tra elettori ed eletti vi sia stato un rapporto di chiarezza. E non invece un restringimento dell’offerta politica a uno schema primitivo fatto di aut-aut e contrapposizioni ideologiche.


economia

pagina 6 • 29 marzo 2012

Il comune denominatore, la diffidenza verso gli attuali assetti del Continente

E la Francia si scoprì antieuropea A meno di un mese dal voto presidenziale, svolta ipernazionalista dei candidati in corsa di Giancarlo Galli

PARIGI. Colpo di scena mediatico a poche settimane dal primo turno (ballottaggio il 6 maggio) delle presidenziali francesi: l’attuale inquilino dell’Eliseo Nicolas Sarkozy è tornato in testa ai sondaggi, scavalcando il già favoritissimo socialista François Hollande. 28,5% dei consensi contro il 27; lasciando lontani l’estrema destra di Marine Le Pen e il centrista François Bayrou, rispettivamente accreditati del 16 e del 13, il cui posizionamento risulterebbe però decisivo nel rush finale.

Per capire ciò che sta accadendo nella Nazione cugina, occorre tuttavia staccarsi dai numeri dei supposti maghi demoscopici, analizzando quel che politicamente bolle nel gran calderone. Lì scoprendo,

Nel suo primo, vero meeting elettorale a Villepinte sobborgo parigino, s’è esaltato, facendo esplorare l’entusiasmo dei militanti che hanno preso ad urlare «On va gagner!». Traduzione: «Vinceremo!». Più che significativa la “convergenza” (dietro le quinte, ovviamente), fra Sarkò ed il Fronte Nazionale. In primis, sottobanco, il “gesto pacificatore”. Nei giorni scorsi, dalla sede dell’Ump, il partito presidenziale, è partito un messaggio a un centinaio di sindaci «indipendenti ma non troppo...»: firmate per Marine! Già, poiché una strana legge elettorale prevede che i candidati di formazioni non rappresentate in Parlamento, debbono depositare 500 firme per essere ammessi alla corsa all’Eliseo. E il Fronte nazionale, privo di deputati e con pochi consiglieri regionali, dipartimentali e sindaci, era in affanno. Escludere Marine Le Pen dalla partita sarebbe quindi stato magari democraticamente criticabile ma tatticamente profittevole. In teoria ma in pratica? Anche i socialisti facevano calcoli, e Sarkò li ha battuti sul tempo. Concedendo alla Giovanna d’Arco dell’estrema destra di scendere in campo al primo turno, irrigidendo il suo programma, è convinto di sgambettare Hollande al ballottaggio, mietendo a mani basse nell’elettorato frontista. Calcoli a tavolino? Sì e no, in quanto il regista dell’operazione è Patrick Buisson, 62 anni, specialista in studi sugli orientamenti dell’opinione pubblica. Qualifica in sé irrilevante, molti essendo gli “apprendisti stregoni” in circolazione. Se non fosse che Patrick è personaggio di altissimo prestigio e influenza. Giornalista, direttore del settimana-

Al di là delle schermaglie elettorali, le dinamiche d’Oltralpe possono ripercuotersi su moneta, immigrazione e questioni sociali piaccia o meno, una decisa svolta ipernazionalista, a tratti demagogico-populista, dalla quale l’unico a tenersi distante, coerente alle idee di sempre, è il centrista-cattolico Bayrou. Pagando, sembra, un alto prezzo. Che madame Le Pen, figlia d’arte, volesse chiudere le frontiere all’immigrazione nonché rispedendo ai Paesi d’origine oltre un milione di clandestini, nonché abbandonare l’euro col ritorno al franco e rompere il cordone ombelicale con la Germania della cancelliera Merkel, lo si sapeva. Ma quanto credibili questi radicali propositi che pur trovano vasti, sebbene spesso inconfessabili consensi nell’opinione pubblica? Ecco allora, sullo stesso terreno, fare irruzione il presidente Sarkozy.

le d’estrema destra Minute, fu a lungo la “mente” si Le Pen senior. Ebbe uno scazzo, e progressivamente s’avvicinò a Sarkò, orchestrando la trionfale campagna elettorale del 2007 sul tema dell’identità nazionale, stravinta 54 a 46 (per cento) sulla socialista Sègolene Royal, all’epoca compagna di vita di François Hollande. Ad un lustro di distanza, Buisson è più che mai sulla cresta dell’onda. Sguardo da sfinge, non ha remore nell’incontrare i giornalisti. Più impartendo lezione che dialogando: «I socialisti, dopo avere accantonato Martine Aubry per un Hollande privo di carisma, credevano di avere la vittoria in tasca, impostando la campagna su un duello perso-

In alto, uno scatto del presidente francese in carica Nicolas Sarkozy. A destra, il socialista che lo sfiderà alle elezioni per la corsa all’Eliseo, il prossimo 22 aprile, François Hollande. Nella pagina a fianco Angela Merkel

nalistico. Vi fu un momento in cui accarezzarono persino il sogno che Hollande avrebbe vinto al primo turno. Poi è spuntato Jean-Luc Mélenchon del Front de la Gauche...». Questo Mélenchon è un sessantenne, in politica da quando aveva i calzoni corti. Nato a Tangeri (ora Marocco), figlio di un impiegato postale in missione, appena rientrato in patria si distinse, mobilitando i giovani, e Mitterrand-presidente lo prese sotto la sua ala. Incantatore di folle, fece rapidamente carriera con Lionel Jospin. Senatore, eurodeputato, mini-

stro, sempre con un occhio di riguardo per comunisti e gruppuscoli extraparlamentari. Rotti i ponti con Hollande, ha deciso di mettersi in proprio, con felice intuizione. Ora guida una “sinistra della sinistra” che, partita da un misero 5%, è accreditata dell’11. Non si fa però illusioni il “compagno Jean-Luc”. In tv, dove si presenta in cravatta rossa, ha ripetutamente dichiarato che al secondo turno, a denti stretti, inviterà a votare Hollande che alcuni mesi fa accusò di brogli a un congresso del Ps. «Ponendo condizioni...». Quali non ha precisato, sebbene sia sintomatico che Hollande, di fronte a una probabile emorragia di consensi a sinistra, abbia manifestato il proposito di tassare al 70% i redditi superiori al milione di euro, proventi finanziari inclusi. Nonché di valutare la possibilità di rinazionalizzare grandi banche e industrie. Quasi copiando il programma con cui nell’81 il padrino Mitterrand sconfisse a sorpresa il liberale Giscard d’Estaing. Intrigante la partita a scacchi francese.

Per vincere, il socialista Hollande ha assoluto bisogno dei voti di Mélenchon, alla stessa maniera di Sarkozy per quelli di madame Le Pen. Ecco dunque spiegato perché l’uno stia cercando di suggestionare i militanti dell’estrema sinistra, l’altro dell’estrema destra. Con tut-


economia

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Si ampliano le distanze tra la Germania e i 27 verso il vertice di domani

Merkel fa retromarcia sul Fondo Salvastati

I tedeschi irritati per la richiesta dell’Ocse di portare l’Esm a mille miliardi: «Deplorevole alzare le cifre» di Francesco Pacifico

ROMA. Processo identico ma protagonisti ribaltati, ora è la Spagna a essere una minaccia per la stabilità italiana (oltre che per quella europea). Da Madrid l’onda della speculazione finisce anche per indebolire Roma, tanto che lo spread tra il nostro Btp decennale e il Bund tedesco ritorna a toccare quota 326 punti base. Nulla però a che vedere con quanto registrato nei mesi scorsi: infatti non ci sono soltanto Hu Jintao e Barack Obama a credere (e a investire) nel sistema Italia.

tavia, e non stupisca, un comune denominatore: la posizione critica verso gli attuali assetti europei. Certo Sarkozy, a differenza della Le Pen, non intende abbandonare l’euro, però vuole ridiscutere i Trattati. Proprio come Hollande, che denuncia gli eccessivi condizionamenti tedeschi. Il maggio elettorale transalpino si preannuncia dunque gravido di ricadute (auguriamo non acide) sul vecchio Continente. Oltretutto, non sarebbe la prima volta, da Charles De Gaulle in poi, che Parigi rimette in discussione i tanto faticosamente raggiunti equilibri. Avendo la Francia una gran paura di

ni; che Sarkozy intende supertassare i capitali e i patrimoni esteri di privati e aziende. Non siamo alla vigilia di un’elezione di routine.

A maggio, chiunque vincerà, l’Europa dovrà confrontarsi con il “Problema Parigi”. Brutta gatta da pelare, mentre l’esito è incertissimo: infatti i sondaggi pur da prendere con le molle, dicono che a poco meno di un mese dalle urne il 40% dei cittadini permane indeciso. E pur scontando che di norma l’affluenza mai è andata oltre (specie al secondo turno decisivo) l’80%, le incognite giganteggiano. Nemmeno da escludere (accadde nel 2002, con Le Pen senior a scavalcare Jospin e poi strapazzato da Chirac), che spunti un “terzo incomodo”: nei panni di Bayrou che pare godere per il suo saggio moderatismo, di un apprezzamento nell’opinione pubblica ben superiore a quanto rilevato dai sondaggisti. O di una Marine Le Pen che accarezza gli istinti revanscisti della Francia profonda. In ogni caso, non è politicamente esagerato sostenere che l’“Accadrà Domani” nell’Exsagon, avrà ripercussioni sul divenire di un’Europa che, crisi economica ancora da domare, permane alla ricerca di un’identità accomunante.

A maggio, chiunque vinca, l’Europa dovrà affrontare il “nodo Parigi”. L’esito resta incertissimo: il 40 per cento è ancora indeciso scadere in ruolo, a favore della Germania, specie dopo essere stata declassata dalle agenzie di rating che le hanno tolto la “tripla A”. Questo lo scenario che, al di là delle schermaglie fra i candidati, moltiplica gli interrogativi sui rischi di un probabile-possibile ribaltamento della politica estera francese che inevitabilmente si ripercuoterebbe sull’euro, l’immigrazione, le questioni sociali. Basti aggiungere, a rendere l’idea, che Hollande-Mélenchon vogliono il ritorno delle pensioni a 60 an-

Ieri il Tesoro ha incassato un importante risultato nell’asta dei Bot a sei mesi: i rendimenti hanno toccato i minimi dal 2010 (a quota 1,119 per cento), la richiesta ha superato di gran lunga l’offerta, il tutto in una giornata nella quale sui mercati ha prevalso il pessimismo dopo la diffusione dei dati sugli ordinativi di beni durevoli negli Stati Uniti, aumentati a febbraio soltanto del 2,2 per cento. Numeri che la dicono lunga sulla ripresa della prima economia al mondo, soprattutto se collegati all’abbassamento della fiducia dei consumatori e la richiesta Ben Bernanke al governo di iniettare liquidità sotto forma di sussidi contro la disoccupazione. Il ministero dell’Economia ha infatti collocato senza troppa fatica titoli semestrali per 8,5 miliardi di euro a un rendimento medio ponderato dell’1,119 per cento, in riduzione rispetto all’1,202 della precedente asta. La domanda è risultata pari a 12,852 miliardi. Non caso Mario Monti a Tokyo, incontrando la comunità finanziaria giapponese, non ha perso l’occasione di sottolineare quanto «l’Italia non sia più un fattore di crisi. Occorre continuare a fare le politiche che Europa e Italia stanno facendo ed occorre spiegarsi meglio per fare capire dove sono i progressi. I giapponesi, per esempio, hanno dei dubbi sul superamento della crisi nell’Eurozona, ma vedono già tutto il portato che le riforme strutturali italiane possono avere in termini di maggiore appeal per gli investimenti asiatici». E in un Vecchio Continente dove «c’è più disciplina da parte degli Stati membri, a Roma il consolidamento del bilancio è stato affrontato». In futuro, quindi, le cose potrebbero ancora migliorare, visto che sembra avvicinarsi il varo (con annesso allargamento della sua dotazione) del meccanismo Salva Stati Esm. In quest’ottica decisivo sarà il vertice di Co-

penhagen previsto per fine settimana. Al riguardo il presidente dell’Unione europea, Herman Van Rompuy, si è detto «fiducioso sull’esito positivo dell’Ecofin di domani, soprattutto dopo che la cancelliera Angela Merkel si era detta disposta ad accettare un compromesso sulla dotazione del fondo. Eppure ieri a Berlino erano in pochi a scommettere su un accordo su larga scala. Soprattutto dopo che il governo ha esternato tutta la sua rabbia per la richiesta dell’Ocse di portare il firewall a quota mille miliardi. Proprio nei confronti dll’organismo di Parigi, Steffen Seibert, portavoce della Merkel, ha replicato che «è del tutto deplorevole che in questa discussione, chiaramente, non ci sia mai una cifra ritenuta abbastanza elevata. Appena si arriva a una cifra, bisogna aggiungerci un rincaro». A dirla tutta, i tedeschi non hanno gradito neppure i continui moniti che arrivano dagli organismi internazionali per aprire il mercato interno o rendere meno oneroso il welfare. Di conseguenza non resta che sperare in un congelamento della dotazione dell’attuale fondo temporaneo Efsf, da usare soltanto in situazioni estremi e da tenere distanti dai 500 miliardi previsti per il futuro Esm.

Ancora tensioni dalla Spagna. Bene invece l’Italia, promossa dai mercati all’asta dei Bot semestrali da 8,5 miliardi. Monti: «Non siamo più un rischio»

Incrociandosi a Seoul, 48 ore fa Barack Obama e Mario Monti si erano trovati concordi nel portare le risorse ad almeno 940 miliardi, come chiesto da più parti. Ieri invece, in seno all’Euro Working Group (il consesso che riunisce gli sherpa dei Paesi dei Ventisette) non è stato possibile trovare un accordo in prospettiva del vertice di Copenhagen. Eppure alla due giorni europea bisognerà chiudere in un modo o in un altro. Anche perché questo passaggio è propedeutico per apire le trattative con India, Cina, Russia, Brasile e Fmi, nella speranza di far partecipare questi emergenti oppure l’organismo di Washington all’operazione “Rescue Eurozone” sul debito dell’area. L’obiettivo è quello di colmare il gap di fiducia che i mercati nutrono verso L’Europa. Da Seoul José Manuel Barroso prima ha ricordato che la Ue «ha percorso una lunga strada», poi ha posto l’accento sulle future misure «per la crescita. Non indeboliremo il nostro impegno per politiche di bilancio solide ma completando il mercato unico, superando gli ostacoli alla nostra competitività e investendo in infrastrutture economiche chiave».


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arack Obama starà forse facendo gli scongiuri. E Aung San Suu Kyi pure. Il presidente degli Stati Uniti e Premio Nobel per la Pace nel 2009, il 6 novembre cerca la seconda rielezione. La figlia del padre della patria birmano, leader dell’opposizione e Premio Nobel per la Pace nel 1991, il primo aprile corre per un’elezione suppletiva che potrebbe permetterle di entrare in Parlamento. Obama ha a favore la divisione dei Repubblicani, ma dovrà vedersela con il prezzo della benzina che galoppa sempre di più. Aung San Suu Kyi ha a favore il carisma, ma dovrà capire se effettivamente l’apertura del regime è genuina. Ma l’una e l’altro saranno anche, rispettivamente, il secondo e terzo Premio Nobel per la Pace a correre per una competizione elettorale nel corso del 2012: se non ne verranno fuori degli altri. E il primo ha già fatto uno scivolone dei più clamorosi.

B

Nominato ministro degli Esteri del governo di Timor Est appena proclamatosi indipendente dal Portogallo il 28 novembre del 1975, appena tre giorni prima dell’invasione indonesiana, l’allora 25enne José Ramos-Horta si recò negli Usa con soli 25 dollari in tasca, a perorare la causa del suo Paese. Ancora ministro degli Esteri del governo in esilio per i successivi 27 anni, nel 1996 ebbe il Nobel per la Pace assieme al vescovo Carlos Filipe Ximenes Belo; nel 2000 guidò la delegazione che negoziò l’indipendenza; il 20 maggio 2002 con il ripristino della stessa indipendenza divenne ministro degli Esteri di un governo effettivo; il 3 giugno del 2006 ci aggiunse anche l’interim della Difesa; il 26 giugno 2006 fu nominato primo ministro; e il 20 maggio del 2007 si insediò come presidente, dopo aver preso il 21,81% dei voti al primo turno e il 69,18% al secondo. Ma non sono stati anni facili. Già la campagna elettorale del 2007 era stata turbata da incidenti che avevano provocato 37 morti, e l’11 febbraio del 2008 Ramos-Horta fu addirittura ferito da soldati ribelli, in un confuso tentativo di golpe. Il Fmi definisce Timor Est «l’economia più dipendente dal petrolio al mondo» per quel 90% delle entrate statali garantito da risorse di petrolio e gas peraltro minime, e nel 2008 Oxfam denunciò che «per almeno cinque mesi all’anno i timoresi vanno a letto affamati». Neanche il prestigio del Nobel è

Machiavel La storia politica di alcuni dei Premi per la Pace è fatta di sconfitte elettorali. Nel 2012, due di loro andranno al voto. Ce la faranno Barack Obama e Aung San Suu Kyi ad aggirare la “malasorte”? di Maurizio Stefanini riuscito a fare miracoli, e al voto del 17 marzo il presidente uscente è arrivato solo terzo: appena il 18% dei voti, il 28% di Francisco Lú Olo Guterres e il 25% di Jose Maria de Vasconcelos, alias Taur Matan Ruak (“Due Occhi Acuti”). Anch’essi eroi dell’indipendenza, beninteso. Mentre Ramos-Horta era il responsabile della diplomazia in esilio Guterres, sconfitto al ballottaggio nel 2007, è il segretario del Fronte Rivoluzionario per Timor Est Indipendente (Frelitin): che allora raccoglieva tutti gli indipendentisti, e che poi si è tra-

ciato al tentativo di ottenere un secondo mandato: è più o meno la stessa sorte del leader di Solidarnosc Lech Walesa, eroe della transizione dal comunismo alla democrazia. Nobel per la Pace nel 1983, poco dopo essere uscito dal carcere ed essere tornato a lavorare come semplice elettricista ai cantieri di Danzica, ma impossibilitato a recarsi a riscuotere il premio, che andò a prendere la moglie Danuta. Ramos-Horta fu invece insignito che stava in esilio, mentre Aung San Suu Kyi si trovava agli arresti domiciliari. Scontento

Lech Walesa, leader di Solidarnosc ed eroe della transizione dal comunismo alla democrazia in Polonia, venne sì eletto presidente al primo mandato (però solo al secondo turno), ma fu subito dopo bocciato al tentativo di ottenere un secondo mandato sformato in un partito tra gli altri. Mentre Tair Matan Ruak è stato prima il comandante del braccio armato del Frelitin che conduceva la guerriglia contro gli indonesiani, poi capo di Stato maggiore dell’esercito del nuovo Stato indipendente. Consolandosi col fatto che se non altro anche grazie alla presenza di un contingente di 1200 Caschi Blu stavolta il voto si è svolto in modo tranquillo, RamosHorta l’ha presa in modo sportivo, augurando a entrambi i suoi avversari buona fortuna per il secondo turno del 21 aprile. Padre della Patria insignito del Nobel ed eletto Presidente al primo mandato ma solo al secondo turno, per essere poi boc-

della piega che aveva preso la gestione del primo governo di transizione a guida Solidarnosc, con lo slogan «non ne ho voglia ma non ho scelta» scese in campo contro il primo ministro e suo ex-sodale Tadeusz Mazowiecki. Ma questi si fermò al 18%,Walesa al 40, e tra i due si inserì il milionario libertarian e trapiantato in Canada Stanislaw Tyminski col suo improbabile Partito X, che si qualificò per il ballottaggio col 23.1%. Anche se poi al secondo turno Walesa rastrellò il 74,3%.Va detto che al tentativo di riconferma Walesa andò meglio di Ramos-Horta: col 33,1%, andò infatti al ballottaggio, pur se sorpassato dal post-comunista Aleksan-


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lli salvi i Nobel der Kwasniewski col 35,1%. Fu comunque lo stesso Kwasniewski a imporsi al secondo turno, sia pure di misura: il 51,7% contro il 48,3. E nel 2000 ancora Kwasniewski riuscì a imporsi al primo turno col 53,9%, mentre Walesa si fermava all’1,4%.

Da allora il vecchio eroe di Danzica è diventato un personaggio talmente marginale che quando nel febbraio del 2011 ha infine ammesso in un’intervista che nel 1970 per quieto vivere si era impegnato a dare informazioni alla polizia segreta comunista la cosa è passata praticamente inosservata: e non per il fatto di aver garantito che queste informazioni non le aveva in realtà mai date. Ma Walesa per lo meno presidente ci è diventato. La leader maya Rigoberta Menchú, Nobel per la Pace nel 1992, ha provato a candidarsi per la Presidenza del Guatemala due volte: nel 2007 ha preso il 3,09%; nel 2011 il 3,27%. Un apparente lieve miglioramento che però è in realtà un arretramento, visto che nel 2007 si era presentata da sola e nel 2011 era invece alleata con l’ex-guerriglia di sinistra, che quattro anni prima un altro 2,14% lo aveva rastrellato. Oltretutto, quando nel ’92 a Oslo avevano deciso di dare il Premio a un indigeno per celebrare a loro modo il quinto centenario del viaggio di Cristoforo Colombo avevano scelto lei soprattutto per il successo del suo libro autobiografico Mi chiamo Rigoberta Menchú, frutto di una lunga intervista con l’antropologa venezuelana Elizabeth Burgos. Ma nel 1999 un altro antropologo, l’americano David Stoll, scoprì che vi aveva cambiato sistematicamente un bel po’di particolari è lei stessa ha infine amA sinistra, la leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi (Premio Nobel per la Pace nel 1991). In alto, in senso orario: Lech Walesa (1983), Rigoberta Menchù (1992), Mohamed ElBaradei (2005), Liu Xiaobao (2010), Shirin Ebadi (2003), Mikhail Gorbaciov (1990) e Barack Obama (presidente Usa e Premio Nobel per la Pace nel 2009)

messo di aver un po’ infiorettato una storia familiare comunque drammatica. Un altro scivolone le era capitato con l’accettare la presidenza della farmaceutica messicana Salud para Todos: avrebbe dovuto dare medicine gratis agli indios, l’ha invece messa al centro di uno scandalo di malasanità micidiale. Anche più gravi sono stati gli scandali che hanno investito MohammedYunus: Nobel per la Pace nel 2006, e profeta del microcredito attraverso la sua Grameen Bank. Anche lui nel 2007 aveva deciso di fondare un proprio partito per concorrere alla presidenza del Bangladesh, anche se ci ha poi ripensato in capo a un paio di mesi. Ma

sidente dell’Aiea. Già nel 2009 l’opposizione aveva iniziato a pensare a lui come a un possibile sfidante di Mubarak, nel 2010 si mise alla testa di un fronte di oppositori, e nel clima della rivoluzione egiziana il 7 marzo 2011 ufficializzò la sua candidatura. Ma l’evoluzione successiva lo ha marginalizzato, e il 14 gennaio scorso ha infine annunciato il suo ritiro dalla competizione. È invece diventato infine nel 2007 presidente di Israele Shimon Peres, Nobel per la Pace del 1994 assieme a Yithzak Rabin e Yasser Arafat. Dopo aver perso le elezioni dirette per primo ministro nel 1996, aver rinunciato alla leadership laburista nel 1997, essere

Anche il “lato rosa” del prestigioso riconoscimento non è stato fortunato: la leader maya Rigoberta Menchú (premiata nel 1992) ha provato a candidarsi per la presidenza del Guatemala per due volte: nel 2007 prese soltanto il 3,09%; nel 2011 il 3,27% nel novembre del 2010 un documentario trasmesso dalla tv norvegese lo accusò di essersi impadronito di fondi in modo indebito, mentre sui media di tutto il mondo echeggiavano varie accuse sul fatto che il microcredito praticasse in realtà tassi da usura che specie in India spingevano molti debitori al suicidio. Tra gennaio e marzo del 2011 il governo del Bangladesh ha infine proceduto a un’altra inchiesta in base alla quale Yunus è stato estromesso dalla Grameen Bank. In realtà le accuse della tv norvegese sono state poi ufficialmente smentite e la procedura del governo di Dacca è ampiamente ritenuta una vendetta politica. Resta però un interrogativo generale sui limiti del microcredito: forse originato da alcune aspettative eccessivamente miracolistiche che il fenomeno Yunus aveva generato, e che però ha finito per lasciare senza alternative in un momento di crisi in cui i limiti dei sistemi di credito ortodossi sono emersi come non mai. Anche Mohamed ElBaradei, Nobel per la Pace del 2005 come pre-

stato sconfitto alle elezioni presidenziali nel 2000, essere uscito nel 2005 dal Partito Laburista di cui aveva riperso la leadership riconquistata nel 2003, e col suo predecessore Moshe Katsav che è finito addirittura in galera per una brutta storia di molestie sessuali.

D’altra parte, di quelli premiati con lui nel 1995 Rabin è stato addirittura assassinato, mentre Arafat è morto nel 2004 a Parigi dopo che il processo di pace per cui era stato insignito era deragliato, e in mezzo a sospetti sia di avvelenamento che di malversazione da parte sia di lui che di sua moglie Suha. E tra gli insigniti a Oslo per aver cercato di riportare la pace in Medioriente c’è anche il presidente egiziano Anwar al-Sadat: Nobel nel 1978, assassinato nel 1981. Jimmy Carter nel 2002 e Al Gore nel 2007 sono stati premiati dopo essere stati sconfitti nella corsa presidenziale Usa: Carter nel 1980, un mandato da presidente; Gore nel 2000, dopo due mandati da vicepresidente. In questo caso non sui può dire che il

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Nobel ha portato loro jella, ma certo quel particolare premio di consolazione un po’ha accresciuto la generale sensazione di sfiga che vi aleggia sopra. Quanto al premio al segretario di stato Henry Kissinger nel 1973, lui la sfangò, ma l’anno dopo il suo principale Richard Nixon fu travolto dal Watergate. Pure alle dimissioni fu costretto nel 1974 il cancelliere tedesco Willy Brandt, Nobel per la Pace nel 1971 per la sua Ostpolitik, quando saltò fuori che il suo strettissimo collaboratore Günter Guillaume era un agente della Stasi tedesco-orientale. Mikhail Gorbaciov, leader sovietico Nobel per la Pace nel 1990, in capo ad appena 10 mesi sarebbe stato travolto da un golpe che sarebbe sì fallito, ma provocando come contraccolpo non solo la fine del suo potere, ma addirittura la dissoluzione dell’intera Urss. D’altra parte che Gorbaciov faceva sul serio nella sua Perestrojka lo si era capito quando aveva consentito libere elezioni in cui era stato eletto deputato Andrei Sacharov: lo scienziato dissidente Nobel per la Pace nel 1975, e che pure Gorbaciov aveva liberato dal confino nel 1986. Nel marzo 1989 entrò al Congresso dei Deputati del Popolo; il 14 dicembre morì. Ma se non altro uscì.

Il cinese Liu Xiaobao, Nobel per la Pace del 2010, è ancora in carcere. E anche il Dalai Lama, Nobel per la Pace nel 1989, è ancora in esilio. L’iraniana Shirin Ebadi, insignita nel 2003, è stata la prima Nobel per la Pace cui il suo governo abbia consentito di ritirare la somma, per poi sequestrargliela. Nelson Mandela invece festeggiò con il Nobel del 1993 la liberazione del 1990, dopo 38 anni di carcere. Diventato presidente del Sudafrica nel 1990, ha avuto la saggezza di accontentarsi di un mandato solo, e adesso si sta godendo una bellissima vecchiaia da monumento vivente che lo sta compensando delle sofferenze della sua maturità. Nel suo caso un po’di sfiga si è abbattuta presumibilmente sul co-premiato e predecessore Frederik Willem de Klerk, che lo aveva fatto liberare. Il suo partito si è infatti sfasciato, ha litigato con la moglie che poi è stata assassinata in modo atroce, e in questo momento sta lottando con un cancro. Come è morta di cancro lo scorso settembre l’ecologista kenyana Wangari Muta Mary Jo Maathai, Nobel per la Pace nel 2003. Invece è stata rieletta alla grande Ellen Johnson Sirleaf, presidentessa della Liberia e Nobel per la Pace del 2011. Ma va detto che il Premio lo hanno annunciato all’immediato ridosso del voto, e senza che ovviamente facesse in tempo a ritirarlo.


mondo

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Enorme successo per Ratzinger, che chiude il suo pellegrinaggio con un messaggio di speranza

Tra Fede e Fidel L’ultimo giorno di Benedetto XVI a Cuba si chiude con l’incontro fra Castro e il pontefice. Che dice: «La libertà religiosa è il cardine della società» di Vincenzo Faccioli Pintozzi l teologo e il rivoluzionario. Un’immagine suggestiva, che da un certo punto di vista potrebbe essere applicata a entrambe le parti di questa storia. E non è detto che sia sbagliato definire Benedetto XVI un “rivoluzionario” più di quanto si potrebbe parlare di Fidel Castro come di un “teologo”. Ovviamente la teologia e la rivoluzione che li accomunano sono molto diverse: Castro ha perseguito una battaglia contro la modernità economica e sociale, mentre papa Ratzinger ha rivoluzionato il pensiero della Chiesa, della Curia e dei fedeli sul relativismo imperante nella nostra epoca.

I

Il pensiero di entrambi, durante lo storico incontro di ieri, deve essere volato a Giovanni Paolo II. D’altra parte lo stesso Benedetto XVI, sull’aereo che lo portava in Messico, aveva dichiarato: «Questa visita del Papa [Giovanni Paolo II del 1998] ha inaugurato una strada di collaborazione e di dialogo costruttivo; una strada che è lunga e che esige pazienza, ma va avanti. Oggi è evidente che l’ideologia marxista com’era concepita, non risponde più alla realtà: così non si può più rispondere e costruire un società; devono essere trovati nuovi modelli, con pazienza e in modo costruttivo. In questo processo, che esige pazienza ma anche decisione, vogliamo aiutare in spirito di dialogo, per evitare traumi e per aiutare il cammino verso una società fraterna e giusta come la desideriamo per tutto il mondo e vogliamo collaborare in questo senso. È ovvio che la Chiesa stia sempre dalla parte della libertà: libertà della coscienza, libertà della religione. In tale senso contribuiamo, contribuiscono proprio anche semplici fedeli in questo cammino in avanti». La questione non è finita lì. Papa Be-

nedetto XVI ha chiesto con forza cambiamenti e un ruolo maggiore per la Chiesa cattolica a Cuba, ma il suo appello è stato immediatamente respinto dal regime comunista, col vice presidente che ha escluso riforme politiche nel Paese caraibico. Mentre il Pontefice incontrava il presidente Raul Castro al Palazzo della Revolucion, il Vaticano rendeva noto anche di aver presentato una “richiesta umanitaria”. «Il Papa ha sollevato con Raul Castro anche il tema dei diritti umani in base alle richieste che sono pervenute in Vaticano – ha detto il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi – e di tali petizioni si è parlato sia nel colloquio privato tra Papa e presidente cubano sia nella riunione delle due delegazioni che si è tenuta contemporaneamente al palazzo della Revolucion». Al Papa erano arrivati nelle scorse settimane «molti messaggi con richieste di aiuto di carattere umanitario per persone in difficoltà», ha precisato padre Lombardi, che tuttavia non ha voluto dare indicazioni più precise sulla lista preparata in Vaticano, né dire se vi era incluso il nome di Alan Gros, l’ebreo americano arrestato nel dicembre 2009 per aver venduto sull’isola senza l’autorizzazione del governo cubano materiale informatico e per le

Giovanni Paolo II incontra Fidel Castro a Cuba nello storico viaggio del 1998. In quell’occasione, il Papa lottò per ottenere una maggiore apertura del regime nei confronti della Chiesa. In alto da sinistra, immagini della visita di Benedetto XVI sull’isola

Il diritto alla libertà religiosa, ha detto nel corso della sua omelia, «manifesta l’unità della persona umana che è, nel medesimo tempo, cittadino e credente» comunicazioni satellitari, condannato nel marzo 2011 a quindici anni di carcere per “atti contro l’indipendenza e l’integrità dello Stato”.

Ma è certo che i Castro abbiano trovato nel pontefice un osso duro, sulla questione, poco incline a lasciar perdere in nome della tranquillità degli animi.

Un teologo e un rivoluzionario, che su libertà religiosa e diritti umani hanno visioni contrapposte. Benedetto XVI ha sempre chiarito con forza come la libertà religiosa sia la pietra angolare della democrazia, mentre Cuba – soprattutto nei primi anni della rivoluzione – non dava alcuno spazio al culto. Un atteggiamento che, ha detto ieri il pontefice, è cambiato: «È da riconoscere con gioia che sono stati fatti passi in Cuba affinché la Chiesa compia la sua ineludibile missione di annunciare pubblicamente ed apertamente la sua fede. Tuttavia, è necessario proseguire, e desidero incoraggiare le autorità governati-


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e di cronach

Ufficio centrale Nicola Fano (direttore responsabile) Gloria Piccioni, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

zione da poco in fondo. Perché essere isola significa alla fine essere isolati e un po’ isolazionisti. Questo di certo non aiuta la democrazia. Negli anni Cinquanta Cuba era un paese ricco, e la ricchezza era in mano alla maggioranza della popolazione. Canna da zucchero e agricoltura come prima risorsa. Anche le mucche erano di una razza particolare che dava fino a 12 litri di latte al giorno, le mucche creole. Ora nessuno muore di fame, ma c’è ovunque una grande malnutrizione. Il paradosso della rivoluzione castrista.La democrazia sembra una parola lontana per la gente della grande isola dei Caraibi.Terra di sogno per i turisti occidentali di oggi, terra di grandi speranze al tempo del colonialismo spagnolo, terra senza democrazia praticamente da sempre. E a Cuba l’unica istituzione che ha una credibilità è la Chiesa cattolica. Perché è vicina alla gente. Per questo la visita del Papa è importante. L’intento del governo con questo viaggio del Papa è quello di accendere la luce su Cuba, e quello della Chiesa è simile anche se con fini di fatto opposti.

A Cuba se pure c’è una qualche aper-

ve della Nazione a rafforzare quanto già raggiunto ed a proseguire in questo cammino di genuino servizio al bene comune di tutta la società cubana». Il diritto alla libertà religiosa, sia nella sua dimensione individuale sia in quella comunitaria – ha detto ancora nel corso della sua omelia – «manifesta l’unità della persona umana che è, nel medesimo tempo, cittadino e credente. Legitti-

ta a Cuba. A cominciare dal cardinale Tarcisio Bertone, nell’ottobre 2005, quando era arcivescovo di Genova. Ospite del vescovo e della diocesi di Santa Clara realizzò un intenso viaggio pastorale in diverse località dell’isola. Il cardinale Joseph Ratzinger era stato appena eletto Papa e così Bertone portò al nuovo Pontefice il primo invito per una visita a Cuba, formulato con grande rispetto e affetto. Fu Fidel Castro che in una lunga conversazione con Bertone definì Benedetto XVI «una buona e grande persona» e «che ha un volto che sembra quello di un angelo». Bertone dichiarò che «a Cuba la Chiesa è considerata con molto rispetto da parte del Governo». Anche il presidente del pontificio consiglio della Giustizia e della pace, il cardinale Renato Raffaele Martino, a Cuba nel febbraio del 2006 per presentare il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, incontra Fidel Castro e torna in Vaticano con un altro invito per il Papa. Invito naturalmente confermato al cardinale Bertone che, questa volta come segretario di Stato di Benedetto XVI, ritornò nel Paese in occasione del decimo anniversario della visita di Giovanni Paolo II tra il 21 e il 26 febbraio del 2008. Cuba è un’isola. Non è una considera-

Fidel Castro, parlando con Bertone nel 2005, definì Benedetto XVI «una buona e grande persona che ha un volto che sembra simile a quello di un angelo» ma anche che i credenti offrano un contributo all’edificazione della società. Il suo rafforzamento consolida la convivenza, alimenta la speranza in un mondo migliore, crea condizioni propizie per la pace e per lo sviluppo armonioso e, contemporaneamente, stabilisce basi solide sulle quali assicurare i diritti delle generazioni future». Quando la Chiesa mette in risalto questo diritto, ha concluso, «non sta reclamando alcun privilegio». Con Giovanni Paolo II le cose sono cambiate, e la seconda rivoluzione di Cuba è proseguita poi sul solco tracciato dal Beato Wojtyla. Negli anni sono stati molti gli “emissari” vaticani in visi-

tura economica, manca il rispetto delle dignità della persona. Il regime castrista, la rivoluzione, è sempre presente. A partire dalle tasse sulle auto fino alla sessualità che è “gestita” da un’agenzia dello Stato, la Cenesex. Per far dimenticare la miseria e la corruzione che ne deriva, il regime cerca di “drogare”l’anima del popolo con una “educazione”sessuale di libertà assoluta e di precocità. Risultato: l’80 per cento delle donne ha abortito almeno una volta e i matrimoni durano in media 18 mesi. La tanto decantata sanità cubana si basa su medici che il governo “vende” ad altri paesi, come il Senegal o il Venezuela. Sono bravi i medici cubani, hanno un ottimo approccio con il paziente. Ma non hanno mezzi e neppure medicine. Allora ti mandano nelle parrocchie cattoliche. Lì arrivano le medicine, gli antibiotici. Eppure a Cuba ci sono mitologiche cliniche per ricchi. Così la scuola. Tutti studiano, molti sono anche preparati, ma alla fine la gente va nelle parrocchie per ripetizioni e lezioni. Di nascosto, perché alla Chiesa non è permesso educare, può solo avere ospizi per anziani e poveri. Prima della messa di ieri, il cardinale Ortega ha chiesto al Santo Padre di «benedire Cuba».

E il Papa con la sua presenza, la sua mitezza e il coraggio ha di certo benedetto l’isola caraibica. Ora la strada, aperta appunto dal solco di Giovanni Paolo II, ha qualche ostacolo in meno. Certo è che la palla passa alla Chiesa locale, ai fedeli e alla popolazione tutta. Perché il“pellegrino della carità”può veicolare il suo messaggio di speranza, ma sempre e soltanto nel segno della pace. L’Havana può aprire le sue porte alla fede e al bene comune, ma lo deve volere.

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Orio Caldiron, Anna Camaiti Hostert, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse Seregni Roma s.r.l. Viale Enrico Ortolani 33-37 00125 Roma Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69925374 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo

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mondo

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Erdogan vola in Iran per convincere gli ayatollah a scaricare il dittatore

Assad si salva in corner La road map di Annan permette a Damasco di riprendere il controllo. In cambio cesseranno le violenze indiscriminate. Una vittoria (di Pirro) per la diplomazia Onu di Antonio Picasso iornata intensa quella di ieri per la crisi siriana. La visita di Kofi Annan a Pechino potrebbe averne segnato una svolta. I sei punti emersi dal colloquio tra l’ex segretario generale dell’Onu, ora rappresentante della Lega Araba, e i vertici cinesi sembrano accettabili da tutte le parti. Per il regime di Assad e i suoi oppositori in Siria, ma anche per la comunità internazionale. Quest’ultima chiede l’apertura di un confronto politico che abbia al centro le richieste e le preoccupazioni di tutta la popolazione. Al tempo stesso, è necessario che cessi la violenza in tutte le sue forme e da ambo le parti. Questo vuol dire che il governo siriano dovrà rinunciare all’uso di armi pesanti nei centri abitati, da dove deve iniziare il ritiro delle truppe regolari. L’opposizione, a sua volta, viene pressata affinché abbandoni qualsiasi ambizione di assumere il controllo del Paese mediante la violenza. Entrambi i fronti inoltre devono garantire l’assistenza sanitaria per le vittime dei combattimenti. Gli ultimi tre punti, infine, sono rivolti direttamente al governo di Damasco, il quale dovrà velocizzare il rilascio dei prigionieri politici, assicurare la libertà di movimento ai giornalisti in tutto il Paese e rispettare la libertà di associazione e lo svolgimento

G

di manifestazioni pacifiche. Sulla carta è una road map logica. La Cina ha dato il suo ok. La Russia ha fatto lo stesso. Bisogna capire se gli accordi verranno rispettati. La cautela nasce dal fatto che in precedenza Damasco aveva rigettato proposte di pace alle quali si era detta all’inizio favorevole. I dubbi nutriti anche nei confronti dell’opposizione. Non basta la firma del Consiglio nazionale siriano (Cns) perché ci si possa fidare di tutte le sue anime. I sei punti di Annan per esempio hanno una vistosa lacuna. Non impongono un freno alle provo-

cazioni verbali. Ieri, per esempio, mentre il presidente Assad dava garanzia di volersi attenere alla proposta, un suo portavoce dichiarava di non accettare alcuna iniziativa di paternità della Lega Araba. Kofi Annan però è in visita alle cancellerie di tutto il mondo proprio come

La guerra civile in Siria ha bloccato l’economia libanese. La massa di profughi che premono sulla frontiera è ingestibile. E Beirut teme un peggioramento della situazione rappresentante di questa. E la sua bozza di tregua è stata partorita in sede Lega. Com’è possibile per il rais siriano fare questo distinguo? È di questi giorni, intanto, il meeting annuale proprio dell’organizzazione panaraba a Baghdad. I partecipanti avrebbero voluto trattare altri temi. Invece si sentono di doversi concentrare sulla Siria. Non che fino a oggi abbiano fatto molto. È stato

necessario appoggiarsi a Kofi Annan, cristiano metodista e ghanese, per dimostrare una qualche capacità diplomatica.

Sul fronte Cns restano da chiarire molti punti sulle modalità di conduzione del conflitto. È chiaro che le atrocità di cui Youtube fa da volano mediatico non possono essere monodirezionali. Assad è colpevole, sì. Ma non per tutto. Le stragi più recenti infatti restano adombrate dall’eventualità che siano opera dei ribelli. Vale a dire di quegli alfieri della democrazia che, nella visione manichea occidentale, sono i “buoni”. Tuttavia, i nemici del rais, si sa, sono ben armati e finanziati dai Paesi del Golfo. E forse anche da qualche agenzia di intelligence. Difficile che si siano comportati da boy scout in questi mesi di guerra civile. È rimasta poi appesa la denuncia di Radhika Coomaraswamy, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per i minorenni e i

conflitti armati, la quale l’altro giorno ha paventato l’idea che tra le fila degli oppositori siano stati reclutati anche bambini soldato. Una dichiarazione né smentita né approfondita. Il conflitto quindi, come per tutti gli affari siriani, procede con beneficio di inventario. Lo stesso bollettino di guerra appare di difficile lettura. È vera la morte del generale dell’aeronautica Khleif al-Abdullah, assassinato ad Aleppo? Sono confermati i 36 morti negli scontri della giornata che si è appena conclusa? La scorsa settimana fonti cristiane ci dicevano che l’opposizione è sempre più debole. Non è da escludere che si stia ritirando. Sempre ieri Assad si è addirittura presentato nel quartiere di Baba Amr di Homs, quello a maggioranza sunnita, assediato dai suoi fedelissimi. Il bilancio parziale dello scontro e dei negoziati vede il regime in attivo. Certo, i sei punti chiedono ad Assad di rinfoderare la pistola e richiamare i militari in caserma. Tuttavia,


mondo

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Il governo di Tripoli compie sforzi encomiabili, ma ci vuole ancora tempo

La Libia si spacca per le nostre pretese

L’Occidente chiede ad alcuni stabilità e ad altri anche democrazia. Creando confusione e, a volte, massacri di Mario Arpino tabilità o democrazia? Questo è il dilemma. L’Occidente, non senza lungo travaglio, alla fine ha optato per entrambi questi concetti, e lentamente ci sta arrivando. In modo imperfetto quanto si vuole, ma ormai per noi sarebbe impensabile qualcosa di diverso, essendo la coesistenza di queste due formule ormai radicata nella nostra cultura. Il problema viene quando ci arroghiamo il diritto di voler fare questa scelta anche per altri, che magari hanno una cultura diversa. L’applicazione di questo “diritto” avviene però con determinazione e tolleranza non uniformi, modulate come sono dal livello di intensità dei nostri interessi.

S

non gli si impone di andarsene. Mosca e Pechino non avrebbero mai firmato una bozza che parlasse di dimissioni. Del resto, nessuno le vuole. Nessuno salvo la gente di Homs. Il regime controlla un Paese pluralista e laico, dove il fondamentalismo difficilmente attecchirebbe. A meno che i principi sauditi non vi gettito sopra un carico di milioni di dollari per moschee, madrase e quant’altro. Ma questo è possibile senza gli Assad e mozzata la longa ma-

sarebbe poi il turno di Iran e Turchia. Sempre ieri, il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, è atterrato a Teheran. Nei due giorni di visita, sono previsti gli incontri con il presidente Mahmoud Ahmadinejad, il presidente del parlamento Ali Larijani e il ministro degli esteri Ali Akbar Salehi. Messa da parte l’agenda delle questioni bilaterali, è sempre la Siria a tener banco. La Turchia ha già chiesto ad Assad di fare un passo indietro. Cosa che gli Ayatollah non

Il regime controlla un Paese pluralista e laico, dove il fondamentalismo difficilmente attecchirebbe. A meno che i principi sauditi non vi gettino sopra un carico di milioni di dollari nus iraniana. Nessuno vuole la testa di Assad quindi. Però tutti stanno cominciando a fremere per la situazione.

Il presidente libanese, Michel Suleyman, ha messo in guardia il governo siriano affinché il conflitto non si estenda oltre confine. Come dargli torto? La guerra civile in Siria ha bloccato l’economia libanese. La massa di profughi che premono sulla frontiera è ingestibile. E se accadesse, come negli ultimi giorni, vale a dire che truppe regolari siriane inseguono gli oppositori in Libano – così dicono sia avvenuto – le già deboli istituzioni di Beirut sarebbero le prime a essere danneggiate. Con il progredire delle tensioni,

possono accettare. Il quotidiano Zaman di Istanbul ha scritto che l’idea di Erdogan è di convincere le sue controparti iraniane che per il rais ormai la causa è persa. Il timore di Amhadinejad è di vedersi sfuggire la sponda mediterranea. C’è poi una questione di orgoglio. È plausibile che gli Ayatollah siano infastiditi da quei sei punti proposti da Annan. Non facendo parte della Lega Araba, è possibile che si sentano tagliati fuori. Un carico ulteriore all’isolamento internazionale dovuto alle loro ambizioni nucleari. È anche vero però che lunedì prossimo proprio Kofi Annan sarà a Teheran. Il diplomatico ghanese sa che senza l’Iran non si fa l’accordo.

Quindi, due pesi e due misure. Ad esempio, mentre per Emirati, Arabia Saudita, Oman e Iran ci accontentiamo della stabilità, per altri, come Iraq, Afghanistan, Siria e Libia, pretendiamo anche la democrazia, sebbene ciascuno di noi sia ben cosciente che sarà assai difficile ottenerla. L’ultimo esempio è la Libia. Era stabile, l’abbiamo voluta anche democratica e un’altra volta dobbiamo constatare, con tutta evidenza, che avevamo chiesto troppo. In Libia, come alcuni avevano previsto persino nel dettaglio, la frammentazione è ormai in corso. Oltretutto, sta arrivando in anticipo sulle previsioni, tanto da far pensare che fosse questa – non l’incontenibile desiderio di democrazia – la vera molla per accelerare la caduta di Gheddafi. A parte la spontaneità dei ragazzi di Misurata e di Tripoli, molti bengasini, i qatarini, i francesi e gli inglesi avevano ed hanno interessi assai diversi, conseguibili assai meglio con la frammentazione che con un governo unitario. Solo così si spiega il senso di questa strana guerra, che è servita sopra tutto a sintonizzare interessi diversi – alcuni antichi e altri nuovi, alcuni confessabili e altri meno – ma in cogni caso assai lontani da quel fine “umanitario”che è il solo che ormai consente di fare le guerre, ma con l’avallo dell’Onu. La dichiarazione di autonomia di Bengasi è solo lo sviluppo inevitabile di una storia che viene da lontano, strumentalizzata da chi aveva tutto l’interesse a farlo.

mento costituente che dovrà varare la nuova Costituzione: ma rischiano di rimanere un’altra volta delusi. Infatti, secondo fonti algerine bene informate, sembra che dopo la Cirenaica anche il Fezzan si stia avviando sulla strada dell’autonomia, avendo già designato per l’annuncio ufficiale il proprio esponente nel Consiglio nazionale di transizione.

Nel frattempo – come denuncia Amnesty International – continua una lotta fratricida tra clan e fazioni di cui nessuno parla più. La spirale di vendette è ben lungi dall’esaurirsi, se nella sola Cirenaica una sessantina di “brigate” , agli ordini di altrettanti capi ribelli, hanno disobbedito all’ordine di deporre le armi e si oppongono al concetto di uno Stato unitario. Analoga situazione nelle altre province, dove le milizie tribali ancora spadroneggiano alimentando una resa dei conti quotidiana, tanto da costringere l’Onu a prorogare per un anno la missione Unsmil, che tenta di favorire almeno il rispetto dei diritti umani.

Mentre per Emirati, Arabia Saudita, Oman e Iran ci accontentiamo della calma, per altri come Iraq, Afghanistan, Siria e Libia, pretendiamo anche l’instaurazione di sistemi elettorali equi

L’Italia non è certo tra questi. Gli Stati Uniti, senza la cui “mazzata” dei primi due giorni le operazioni con buona probabilità sarebbero ancora in corso, ora si affannano a spronare l’incerto governo di transizione verso la road map per l’elezione di quel Parla-

Non ostante lo sforzo encomiabile di Mustafa Abdel Jalil e del primo ministro Abdel Rahim al-Kib, al momento, le milizie di Zintan controllano ancora l’aeroporto di Tripoli, le tribù berbere armate tengono saldamente le “loro” alture del Gharian e quelle di Misurata – la città “martire”- si scambiano spedizioni punitive con le squadre armate di Tripoli.

Ma, in un modo o nell’altro, finirà. In fondo, dalla fine delle operazioni sono passati solo cinque mesi. Nel mio nord-est, dopo il 25 aprile 1945 ci sono voluti un paio d’anni e ventimila morti.


cultura

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A cinquant’anni dalla morte, è da ristudiare l’iconografia in stile «Signorine Grandi Firme» inventata dalla pubblicità

Le ragazze di Dudovich Pittore, illustratore e cartellonista, il grande sperimentatore triestino diede una nuova immagine del Paese. Coniugando, per primo, arte e consumo di Orio Caldiron ole o accompagnate, con o senza cappello, sorridenti o imbronciate, spregiudicate o austere, sommerse dai bagagli delle vacanze o mentre camminano sulla spiaggia controvento, si guardino civettuole allo specchio o afferrino con grazia il bouquet, cosa rendono queste donne così riconoscibili? Sospese tra la leggerezza impalpabile del desiderio e la fermezza della decisione irrevocabile, sono tutte belle signore eleganti a cui non si può dire di no. Sanno quello che vogliono, perfette testimonial del consumo obbligatorio, ammalate di shoppingmania, guariscono solo acquistando: sono le donne di Marcello Dudovich, uno dei grandi protagonisti del manifesto italiano. Straordinaria figura di cartellonista e illustratore, la sua avventura artistica si snoda lungo oltre mezzo secolo, prende il via dagli atelier della sua città – nasce a Trieste il 21 marzo 1878 e muore a Milano il 31 marzo 1962, giusti cinquant’anni fa –

S

trova finalmente l’ambiente giusto per intravedere nel breve apprendistato gli incerti segnali della vocazione. Se a Trieste la cultura mitteleuropea è nell’aria, il breve soggiorno a Monaco lo mette in contatto con lo Jugendstil che rivive a modo suo la rivoluzione modernista dell’Art Nouveau, da cui gli artisti tedeschi finiscono con l’allontanarsi sempre di più in nome di un tratto più scarno e di un’impostazione più essenziale. Non ha ancora vent’anni quando nel 1897 entra nelle Officine Grafiche Ricordi di Milano come cromista, il tecnico incaricato di incidere su pietra i bozzetti degli altri, per passare presto a realizzare i propri. Solo un paio d’anni dopo è a Bologna nello stabilimento di Edmondo Chappuis, dove s’impegna nelle prime committenze importanti. Nel periodo bolognese sposa Elisa Bucchi che, a giudicare dalla foto che la ritrae accanto a lui, è il prototipo delle figure femminili che attraverseranno l’opera dell’arti-

All’inizio del secolo, frequenta i salotti milanesi, i ritrovi, le sfilate, il Caffè Biffi, il Salvini, l’Orologio dove si danno appuntamento le signore con veletta, le donne misteriose dei suoi manifesti fino a fare del ragazzo estroverso e vivace il cittadino del mondo che con le sue irresistibili figure femminili sigla un’epoca, un modo di vivere, uno stile, sottraendoli per sempre all’assalto del tempo.

Sognatore irriducibile e irrequieto, il figlio dell’ex-garibaldino fa le sue prime esperienze di vita come mozzo su una nave mercantile, nello stesso momento in cui l’immaginario salgariano comincia a muoversi tra giungle e oceani. Ma lui non è mai stato un grande lettore, né lo diventa a scuola dove, sempre intento a scarabocchiare disegni, rimedia una bocciatura dietro l’altra. Solo negli studi dei pittori

sta. La collaborazione a “Italia ride”gli apre le porte della grafica editoriale, un aspetto tutt’altro che marginale della sua attività. Nel 1906 ritorna a Milano e riallaccia i rapporti con Ricordi che si sta preparando all’Esposizione Internazionale, in coincidenza con il Traforo del Sempione.

Se la casa milanese si è mossa all’inizio sulle note dell’opera lirica, della romanza e della canzone, stampando soprattutto spartiti musicali con copertine molto gradite al pubblico degli appassionati, nel giro di pochi anni si è aperta a tutto campo all’universo in progress della stampa litografica fino a diventare l’osservatorio privile-

giato delle novità, il principale punto di riferimento del manifesto in piena espansione. Nello scorcio del secolo che comincia è il laboratorio vivacissimo e contraddittorio in cui si dispiega lo scontro tra arte e artigiano, avanguardia e cultura di massa, un nodo centrale nell’epoca della riproducibilità tecnica. Sulla scia dei grandi esempi stranieri, il cartellonismo italiano appena affrancato dalla tradizione ottocentesca si lascia alle spalle le svenevoli ascendenze preraffaellite e le frastornanti esuberanze floreali per trovare la propria strada nella vasta gamma di possibilità incarnate da autori di spicco come Adolfo Hohenstein, Leopoldo Metlicovitz, Franz Laskoff, Giovanni M. Mataloni, che sanno filtrare le esperienze europee del modernismo in formule nuove e originali. L’identikit del cartellonista pubblicitario suggerito da Luciano Ramo in L’arte della réclame non potrebbe essere più esplicito: «Non è più il migliaio di persone a lui dinanzi, ma la città tutta, ma il pubblico tutto, ma la folla, l’immensa folla che vive, si muove, che si agita, che corre, che si moltiplica intorno. Egli deve parlar a tutti, a tutti costoro; egli deve fermarli, percuoterli, farli sostare: bisogna

che egli suggestioni, scuota, faccia vibrare le sensazioni di tutta una massa enorme, di ogni cervello e di ogni età; bisogna che egli eserciti una pressione sulle facoltà intellettive e sentimentali di tutto il mondo».

Grande assimilatore, si impadronisce con disinvoltura degli apporti più diversi ma presto punta a elaborare un proprio lessico visivo sottraendosi alle tentazioni del decorativismo e alle lusinghe dell’effetto-quadro che esaltano l’abilità dell’artista ma compromettono l’immediatezza del messaggio. Nel giro di pochi anni raggiunge l’estrema semplicità di linguaggio che predilige campiture piatte, rigorosa bidimensionalità, linea decisa, colori luminosi, insomma lo stile Dudovich com’è riconosciuto e apprezzato in quella che resta la sua stagione irripetibile. Si va dai primi manifesti del 1906 per i Magazzini Mele di Napoli che rappresentano con freschezza e originalità i personaggi e le situazioni del privilegio altoborghese per conto del consumatore medio, al celebre Borsalino del 1911 in cui la figura cede il posto alla mitica bombetta accanto a guanti e bastone sulla poltroncina Luigi XV, simbolo del


cultura

calze. Il magico Dudo – che collabora a “Ars et Labor” per illustrare gli articoli della moglie che vi scrive di moda – frequenta i salotti milanesi, i ritrovi, le sfilate, il Caffè Biffi, il Salvini, l’Orologio dove si danno appuntamento le signore con veletta, le donne misteriose dei suoi manifesti.

mondo elegante a cui rimanda il prodotto ma insieme metafora dell’assenza che implica l’invito a entrare a far parte del cartellone, al Non Puoi Fare Senza del messaggio pubblicitario. Il centro del mondo d’inizio secolo è la donna vista quando la moda la trasforma, emancipandola dalle rigide preclusioni del passato, mentre il lusso si fa borghese senza perdere la sua aura di irraggiungibilità. Sotto lo sguardo sornione degli stilisti superstar, la nuova figura femminile non si affida solo al vestito ma agli accessori della seduzione, i guanti, i fiocchi, i colletti, le

Quando la sua notorietà è al massimo, gli viene chiesto di disegnare per “Simplicissus”, la famosa rivista satirica di Monaco, come inviato speciale che per quattro anni si sposta tra le varie capitali europee del bon ton, per creare i suoi reportage dedicati alla vita mondana dell’alta società, animando tra l’ironico e il divertito la suggestiva galleria d’immagini che unisce la sicurezza del tratto alla folgorazione del colpo d’occhio. Lo scoppio della prima guerra mondiale chiude bruscamente l’eccitante esperienza del reporter che rievoca con gli occhi della nostalgia l’ultimo sogno della Belle Époque: «Lasciatemi parlare con gioia di un tempo in cui gli inviati speciali non venivano spediti sui campi di battaglia, ma sui campi di corse e di golf a Parigi, Berlino, Ostenda, da Londra a Montecarlo, passando per Deauville, per ritrarvi le belle

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donne, la mondanità elegante e le raffinatezze della moda. Si viaggiava da una nazione all’altra senza passaporto e senza carta d’identità: una cosa meravigliosa. Esisteva una specie di internazionale dell’intelligenza che superava tutte le frontiere e anche gli eventuali dissensi politici. Era un’epoca in cui non si poteva non avere fiducia nell’avvenire, un tempo dove si era liberi di pensare, scrivere, agire e creare». Negli anni angosciosi del conflitto, si sposta a Torino, dove moltiplica la collaborazione alle riviste, alternando copertine a figurini di moda, illustrazioni di racconti a vignette satiriche. Si sperimenta anche nei manifesti cinematografici e nei ritratti delle attrici di cinema e di teatro, nei bozzetti per le bambole Lenci, care alla memoria delle ragazze d’antan.

data dallo sfarfallio dei figurini di moda che distribuisce con entusiasmo. Sta aprendo l’ombrello, ma con l’altra mano si difende dal vento, il vestito è una macchia di colore e di vitalità sullo sfondo dei nuvoloni. Nell’Autunno Inverno, è infreddolita ma il cappotto la sta raggiungendo. Si abbraccia al pupazzo di neve in cilindro e stola di pelliccia al collo. Seduta in groppa all’orso bianco, ci guarda lontana con il mantello d’ermellino dai neri bordi di volpe, mentre cadono i primi fiocchi di neve. Si stagliano sullo sfondo vuoto, tra casalinghitudine e mondanità, ci vengono incontro sorridendo, sono tante, tutte uguali e diverse, chissà se sanno di incarnare il come eravamo del costume e della pubblicità, un pezzo della nostra vita e della nostra storia.

Nel 1922 nasce la Star, la sua società editrice che si fonde di lì a poco con l’Igap, l’Impresa Generale Affissi e Pubblicità, nel momento in cui decollano le prime agenzie italiane. Nell’album del cartellonista si ritrovano le sigle delle più grandi industrie che si rivolgono alla maestria della sua mano per celebrare i prodotti dell’epoca, Amaro Montenegro, Bitter Campari, Strega, Florio, Menta Pezziol, Vermout Martini, Assicurazioni Generali, Crociere Estive Corte Verde, Agfa, Giviemme, Pirelli, Dunlop, Michelin, Fiat, Bugatti, Alfa Romeo. Prodotti ma anche modelli di comportamento, istantanee di vita, flash di un

Qualcosa cambia negli anni del regime, il linguaggio risente dell’estetica novecentista, tra chiaroscuri e forme volumetriche, mentre le scritte a caratteri cubitali dominano il cartellone dove non c’è più posto per le signore in tiro di ieri. Si appassiona alla decorazione murale affrescando pareti di edifici pubblici e di ville private, ma si dedica sempre di più alla pittura a olio partecipando con successo alle Biennali d’Arte di Venezia. Nel secondo dopoguerra il cartellonista non si riconosce più nel mondo della pubblicità. Quando è già cominciata per lui l’epoca delle mostre retrospettive e dei riconoscimenti

Qualcosa cambia negli anni del fascismo: il linguaggio risente dell’estetica novecentista, tra chiaroscuri e forme volumetriche, mentre le scritte a caratteri cubitali dominano il cartellone passato che in parte c’è ancora. La sua firma coincide per oltre trent’anni con il marchio della Rinascente, il grande magazzino che scandisce l’avvento della società di massa. Nell’ottantina di manifesti dedicati al paradiso delle signore compare spesso un’unica figura femminile, la protagonista di una sorta di fantasmagorica cosmogonia in bilico tra simbolo e merce. Nelle Novità di Stagione nasce la primavera e incalza l’estate. Il volto di lei è quasi interamente nascosto dal cappello. Sullo sfondo della vela, sorride compiaciuta in costume da bagno, radiosa fa lo sci d’acqua, sfoglia la rivista di moda. Si abbronza al centro di un grande fiore, con la mano si ripara gli occhi dal sole, anche se è in Vacanza non ha nessuna intenzione di perdersi la Vendita Speciale d’Estate. Ma nel Mare Monti Campagna è proprio una venere con i capelli al vento che esce dalla conchiglia tra vestiti e costumi. La donna-rinascente è la bionda fata benefica, circon-

ufficiali, nel 1951 ritorna in Libia, dove era stato più di una volta nel corso degli anni Trenta. Si chiama From Tripoli to Games, l’album in inglese pubblicato nel 1930 dall’Ufficio Turistico Alberghiero che ripercorre con le tavole del disegnatore il viaggio tra le dune e le oasi, i palmizi, le donne velate, i paesaggi incantati. Se in varie occasioni ha decorato chiese e palazzi della colonia, nelle sue affascinanti litografie la mistica del deserto con i cavalieri vestiti di bianco si alterna ai viaggiatori europei che a bordo delle automobili solcano le piste infuocate. Quando nel 1936 vi torna ancora una volta, appunta a matita e china le immagini della sua esperienza africana con i minareti, i nomadi, le donne, gli incantatori di serpenti, i suonatori di flauto, i mercati, le carovane. Il sogno orientale del grande reporter dell’immagine ha decisamente abbandonato il salotto mondano per una sorprendete stagione all’inferno tutta da scoprire.


ULTIMAPAGINA Apre a Genova, nella strada celebrata da De André un museo-laboratorio dedicato alla musica e ai cantautori

Via del Campo, c’è una di Marco Ferrari abrizio de André è tornato idealmente nei suoi vicoli di Genova, l’angiporto labirintico della città, un angolo di medioevo che ha resistito al tempo col suo fascino di abbandono e degrado. Certo, non è più l’epoca della mala, dalla prostituzione, dei re delle bionde, della clandestinità. In via del Campo, vicolo reso celebre da una delle canzoni più belle di Fabrizio De Andrè, è nato un emporio-museo dedicato alla scuola dei cantautori genovesi. Lo spazio, che sorge dove aveva sede lo storico negozio ”Musica Gianni Tassio”, un grande collezionista di dischi, ha come obiettivo la conservazione del patrimonio della “scuola genovese”. Nell’emporio si possono acquistare cd, dischi rari, spartiti e libri sulle opere di De André e di altri artisti genovesi del passato e del presente. A promuovere la nascita di questo spazio, ribattezzato ”Via del Campo 29 rosso”, è stato il Comune di Genova che, attraverso un bando, ne ha affidato la gestione a una cordata di privati che lo ha trasformato in un laboratorio culturale, punto di riferimento per gli appassionati della musica di De André.

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Si entra nell’emporio attraverso uno stretto corridoio. Qui su un lato si incontrano i ritratti dei grandi cantautori genovesi, Fabrizio De Andrè, Luigi Tenco, Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Ivano Fossati e sull’altro cimeli, spartiti, dischi, volumi appartenuti a Gianni Tassio, pieni di messaggi lasciati dai visitatori (in bella vista due dediche scritte da Dori Ghezzi e Nanda Pivano). Il negozio è un vicolo che continua per entrare nella parte centrale del locale, una sorta di piazza a più livelli, con saliscendi che ricordano quelli dei carruggi con gli antichi soffitti a volta in bella vista. A dominare la scena, dall’alto, c’è la celebre Esteve ’97 di Faber, la chitarra messa all’asta dalla famiglia De André in favore di Emergency e acquistata da un grup-

Negli spazi di uno storico negozio di dischi ci sono oggetti, memorie e strumenti che uniscono l’opera di autori che vanno da Tenco a Paoli, da Lauzi a Ivano Fossati po di genovesi nel 2001. Alle pareti è possibile ammirare vecchi vinili di De André, tutta la sua discografia tra 33 e 45 giri e di altri nomi di spicco della scena genovese, dai New Trolls a Francesco Baccini. Nel centro del locale, scaffali e ripiani con il materiale in vendita: libri di ogni sorta dedicati a Faber, Tenco, Fossati, spartiti, canzonieri, cd e dvd, oggetti di merchandising, dalle t-shirt alle tazze, dalle spille ai portachiavi. Infine una saletta laterale con un touch screen interattivo dove visualizzare contributi speciali, inviare cartoline virtuali, scrivere messaggi e dediche, giochi ne quiz su De André e la scuola genovese. «“Via del Campo 29 rosso”non è solo un negozio, ma anche un monumento della città, inteso come un luogo dove c’è una memoria condivisa» commenta l’assessore alla Cultura del Comune di Genova Andrea Ranieri. Non a caso, oltre all’esposizione e alla vendita di materiale musicale, il negozio-museo si propone co-

CHITARRA chiamava Liliana, era spezzina, è deceduta a 88 anni all’ospedale di Villa Scassi a Sampierdarena portandosi nella tomba l’ultimo dubbio legato a Fabrizio. L’ispiratrice di Bocca di Rosa sarebbe stata proprio lei, una donna dagli «occhi grandi color di foglia».

me punto per eventi culturali, attività didattiche, percorsi guidati alla scoperta della Genova dei cantautori. Il primo dei progetti in cantiere è un video realizzato dai ragazzi del liceo artistico Klee-Barabino che illustra con disegni animati la canzone Crêuza de mä. Entro il 2014, per celebrare i trent’anni dall’uscita dell’album omonimo, gli studenti di altri istituti realizzeranno, sotto la guida del regista Matteo Valenti, un dvd che includerà video animati dedicati a tutte e sette le tracce del disco.

In via del Campo, dove la storia della musica racconta che c’erano «una graziosa, una bambina e una puttana», Fabrizio De André, scomparso nel 1999, torna così ad essere una sorta di presenza ideale, il respiro musicale del centro storico, ancora sospeso tra zone di riqualificazione e di degrado. Qui i “bassi” genovesi con le vetuste Boccadirose e le corpose Princese resistono ad ogni ordinanza di sgombero anche se la loro “Regina”, quella che era abituata a «mettere l’amore sopra ogni cosa» non c’è più. Si

“Bocca di Rosa” resta un simbolo, l’icona amorosa degli anni Sessanta di un paese che si era lasciata alle spalle la Legge Merlin che nel 1958, che nel giro di una notte aveva portato alla chiusura di 560 postriboli. Molte di quelle prostitute trovarono rifugio nel ventre di Genova, il più vituperato e dimenticato esempio di medioevo marittimo, 40 chilometri di vicoli, duecento palazzi del sei e settecento, dove negli anni sessanta vivevano ammassate circa ventimila persone. In quella cittadella malavitosa e intrigante si formò la scuola genovese dei cantautori: Luigi Tenco e Bruno Lauzi fondarono la Jelly Roll Morton Boys Jazz Band, Gino Paoli “ragazzo di Pegli” strimpellava con Gianfranco Riverberi, Fabrizio De André e Paolo Villaggio scrivevano insieme Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Umberto Bindi addolciva di note i localini e scriveva commedie goliardiche, Marcello Minerbi intratteneva il pubblico alla “Cambusa” di Piazza de Ferrari, Ivano Fossati fondava “I Delirium”, i New Trolls erano «senza orario e senza bandiera», Natalino Otto e Joe Sentieri già calcavano da veterani la platea di Sanremo. Per sottrarsi alla rigidità famigliare e per dimenticare il clima di conformismo che regnava nel paese, De André si immerse nella vita quotidiana degli ultimi, dei diseredati, dei dimenticati scrivendo canzoni sul mondo proibito di Via del Campo.


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