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Dato che un politico non crede mai in ciò che dice, resta sorpreso quando ci credono gli altri Charles De Gaulle

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 23 MARZO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Ennesima giornata di trattative che hanno coinvolto anche il Quirinale. Oggi al Cdm la stesura finale

Diciassette e mezzo Mediazione finale di Monti: «Nuova formulazione per evitare abusi» Dopo le proteste di Bersani e della Cgil, anche Bonanni chiede di cambiare la norma. E alla fine il premier accetta di riscriverla insieme alla Fornero. Poi, la parola definitiva la dirà il Parlamento Da Ichino ai veltroniani

di Marco Palombi

L’amaro destino del riformismo di sinistra

Designato il nuovo presidente

ROMA. Dicono che Mario Monti stia cominciando a capire quale errore abbia fatto dando un taglio drastico mercoledì alle trattative sulla riforma del lavoro per precipitarsi in sala stampa a palazzo Chigi e dire che la Cgil s’era sfilata e il governo sarebbe andato avanti da solo. E così dopo il caos di ieri, ha promesso una “riformulazione” per evitare abusi.

di Riccardo Paradisi «Duello nel Pd», titolava l’Unità alcuni giorni fa di fronte alla divaricazione che si apriva nel partito democratico sulla riforma del lavoro. a pagina 5

Confindustria si spacca: Squinzi vince per 11 voti

a pagina 2

La strategia del Pdl

Il giudizio sulla riforma di Carlo Dell’Aringa

Alfano & co, la folle tentazione di approfittarsene

«Questo è un buon punto di partenza per arrivare al modello tedesco»

Bombassei sconfitto 82 a 93: era dai tempi di D’Amato che Viale dell’Astronomia non si divideva così

«La strada è quella giusta, ma servono subito le risorse adeguate per gli ammortizzatori sociali. Senza un’economia già abbastanza forte, dalla riforma del mondo del lavoro non arriveranno benefici»

di Osvaldo Baldacci Chi è forte non ha bisogno di infierire sui rivali nei momenti di debolezza, perché si fida di se stesso. Chi lo fa, maschera la propria debolezza.

Marco Scotti • pagina 8

Francesco Lo Dico • pagina 7

a pagina 4

Cristiani, musulmani ed ebrei insieme al convegno di “liberal” a Roma

Ucciso il killer di Tolosa, feriti tre soldati. Uno è grave

Le Religioni unite in nome della libertà

Il fallimento trionfale di Nicolas Sarkozy

Terzi e Casini: «Rompiamo il muro del silenzio»

Blitz disastroso, ma il presidente vola nei sondaggi

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. Il fanatismo religioso «c’è in ogni religione, ma è il suo peggior nemico. Perché ne nega i fondamenti e il naturale anelito alla pace». Pier Ferdinando Casini, leader dell’Unione di Centro, conclude nel miglior modo possibile l’incontro organizzato ieri a Roma dalla Fondazione liberal-popolare dal tema “La religione della libertà. Contro la persecuzione dei cristiani”. a pagina 6

di Enrico Singer

L’intervento del leader centrista

Dobbiamo dire basta all’indifferenza di Pier Ferdinando Casini uando si parla di persecuzioni anticristiane, di violazioni dei diritti dell’uomo, di scontri tra culture, il mio pensiero va a uno dei primi intellettuali che ha introdotto nel dibattito internazionale il concetto di “scontro tra civiltà”, Samuel Huntington. a pagina 7

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

Analisi di un’operazione andata storta

a Francia tira un sospiro di sollievo. Aveva mostrato tutta la sua fragilità di fronte al terrorismo quando l’assassino jihadista aveva cominciato la sua mattanza. Ma ha dimostrato, almeno di saper reagire e di poter riparare – per quanto è possibile di frontre alla morte – l’offesa subita. È un intreccio tra fallimento e trionfo. a pagina 10

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58 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Ma la colpa è dell’Fbi, non delle teste di cuoio di Andrea Margelletti li anni Settanta portarono in Europa l’esplosione del fenomeno del terrorismo urbano. Di fronte a queste nuove realtà, scoordinate e con capacità militari minime, le forze dell’ordine dimostrarono immediatamente la loro inadeguatezza. a pagina 10

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 23 marzo 2012

la sfida sul lavoro

Anche la Cei interviene polemicamente sulla riforma: «Bisogna chiedersi se il lavoratore sia una persona o una merce»

La mediazione finale

Ennesima giornata di trattative e colpi di scena sulla riforma del lavoro: dopo il no di Bersani e Camusso, anche Bonanni chiede di cambiare la norma. E alla fine Monti dice: «Eviteremo abusi sui licenziamenti economici. Poi in Aula» di Marco Palombi

ROMA. Dicono che Mario Monti stia cominciando a capire quale errore abbia fatto dando un taglio drastico mercoledì alle trattative sulla riforma del lavoro – contro il parere della stessa Elsa Fornero, pare – per precipitarsi in sala stampa a palazzo Chigi e dire che la Cgil s’era sfilata e il governo sarebbe andato avanti da solo. Le posizioni, infatti, si sono ormai cristallizzate attorno a un progetto (peraltro non ancora presentato) e a livello politico e di sindacato si è passati dalla discussione di merito alla costruzione dei fortilizi: ora l’enorme opposizione sociale che già s’annuncia rischia di travolgere l’unica vera assicurazione sulla vita dell’ex preside della Bocconi – il favore popolare – e di mandare in pezzi la sua complicata maggioranza parlamentare. Ci si riferisce, ovviamente, al travaglio appena cominciato dentro al Partito democratico, che porta con sé peraltro una drastica diminuzione di fiducia nella buonafede del presidente

del Consiglio da parte di parecchi democrats: «Non erano questi i patti: tra indennizzo e reintegro doveva continuare a decidere il giudice per tutti, come in Germania. Monti e Fornero ci hanno fregati», era il coro che si poteva udire nell’ala sinistra del Transatlantico tre giorni fa. A cui i più dietrologi aggiungevano riflessioni sulla volontà di Monti di agire da agente disgregatore dei partiti attuali in favore di una Terza Repubblica “tecnica”, ovvero giocata tutta attorno ad una grande coalizione in salsa centrista. Perché? Perché se il Pd implode, i “montiani” come Letta e Veltroni (più Fioroni per motivi tattici) andranno a confluire proprio nell’area attualmente presidiata dal Terzo Polo, mentre quella oggi rappresentata da Bersani - più la minoranza di sinistra - costruiranno probabilmente un partito socialdemocratico insieme a Vendola. A quel punto, è il ragionamento, analoga fine toccherà al Pdl che – depurato de-

gli ex An e dei berluscones da Bagaglino – sarà l’alleato ideale per il blocco centrista. Insomma - pensano e non solo a via del Nazareno - Monti sta oggettivamente aiutando la nascita di una sorta di tecno-Dc.

Abbandonando il futuro immaginato per il presente, però, la partita non è affatto chiusa e infatti ieri i vari attori hanno continuato a giocarla. La proposta del governo, al di là dei fuochi d’artificio verbali, non è affatto quella rivoluzione che ci si sarebbe potuti aspettare. Né flexsecurity alla danese, né chiusura del gap storico tra lavoratori garantiti e non-garantiti (compresa la non applicazione delle nuove regole agli statali imposti dalla Cisl), la cosiddetta “flessibilità buona

in entrata” riguarderà sostanzialmente soltanto gli apprendisti (250mila persone), mentre il costo maggiore dei contratti parasubordinati sarà garantito dall’aumento del solo cuneo fiscale, senza alcun minimo salariale e dunque con ogni probabilità si tramuterà in stipendi più bassi. Insomma, il core business della proposta MontiFornero al momento è la rimodulazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per consentire i licenziamenti individuali per motivi economici senza diritto al reintegro: un obiettivo, peraltro, che viene realizzato a costo di un complicarsi del contenzioso legale visto che il giudice dovrà decidere non solo se il licenziamento è legittimo, ma anche se è di natura disciplinare (per cui è previsto

un risarcimento più alto per il lavoratore) o solo economico. È tutto questo che ha spinto persino la Conferenza episcopale a schierarsi: «Bisogna chiedersi, davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, flessibilità in uscita, se il lavoratore è persona o merce», mette a verbale monsignor Giancarlo Bregantini, presidente della commissione Lavoro, giustizia e pace della Cei, in un’intervista a Famiglia cristiana.

Un’uscita pubblica e assai tempestiva che non è rimasta senza effetti visto che la Cisl, che non aveva espresso posizioni critiche nei giorni scorsi, ieri ha sostanzialmente riaperto la trattativa: “Siamo pienamente d’accordo con Fassina (responsabile economico del Pd, bersaniano e laburista, ndr) – dice Raffaele Bonanni prima del vertice finale a palazzo Chigi - Anche la Cisl vuole cambiare la norma sui licenziamenti economici e fare una riforma


Da Veltroni a Ichino passando per Clinton e Blair

La strategia di Alfano e del Pdl

L’amaro destino del riformismo di sinistra

Approfittarsene, solo una folle tentazione

di Riccardo Paradisi

di Osvaldo Baldacci

uello nel Pd», titolava l’Unità di Claudio Sardo alcuni giorni fa di fronte alla divaricazione che si apriva nel partito democratico sulla riforma del lavoro e segnatamente sulla modifica dell’articolo 18. Si trattava di un eufemismo. All’indomani della chiusura della trattativa tra governo e sindacati il duello all’interno del Pd s’è rivelato una guerra campale di idee e di posizioni. E poco importa che alla fine, forse un punto di sintesi verrà anche trovato, magari con il ricorso al compromesso del cosiddetto modello tedesco che consentirebbe la rimodulazione meno traumatica dell’articolo 18 e farebbe recedere la Cgil dal piede di guerra. Nondimeno con questo passaggio le diversità del Pd sono messe a nudo. Il conflitto interno al partito palese. ”Un travaglio” l’ha definito Pier Ferdinando Casini, «un travaglio verso il quale occorre rispetto», perché si tratta di un momento cruciale per una cultura e un partito politico che da almeno un quindicennio è impegnato in una discussione sul proprio orizzonte di riferimento, che si confronta sui suoi valori fondanti, che cerca di capire che cosa vuole essere, costretto intanto a trovare continui equilibri all’interno di una convivenza forzata tra un anima socialdemocratica e una liberal.

hi è forte non ha bisogno di infierire sui rivali nei momenti di debolezza, perché si fida di se stesso. Chi invece infierisce e si accanisce lo fa spesso per mascherare la propria debolezza e la paura di essere lui il prossimo in difficoltà. Si concentra sul momento di vantaggio provando a ricavarne il massimo risultato nel breve termine senza la lungimiranza di saper guardare a un quadro più ampio, a un interesse più generale che alla fine può giovare a tutti. È il rischio di comportarsi in questo modo quello che sta correndo il Popolo della Libertà nella vicenda della riforma del lavoro e con i suoi attacchi fuori misura al Partito Democratico. Certamente il Pd è in difficoltà sulla riforma, è diviso al suo interno, scavalcato a sinistra da una folta ala massimalista, e comunque pressato non solo da lavoratori e sindacato, ma in qualche modo dalla sua stessa storia e tradizione. Di questo travaglio bisogna tenere conto. Bisogna avere prima di tutto rispetto, perché comunque è rappresentativo di un travaglio forte presente nella società italiana. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità e certamente i partiti politici non sono e non devono essere tutti d’accordo su tutto, ma finché si cerca tutti di contribuire a un fine superiore bisogna mettere da parte le animosità e cercare il massimo comun denominatore possibile. Altrimenti si è già in campagna elettorale, e questo vuol dire due cose: primo, che va all’aria l’interesse nazionale; secondo, che chi la fa l’aspetti.

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La prima legata allo schema della sinistra democratica novecentesca, alla sua base sociale tradizionale, a una precisa idea del lavoro e dei rapporti di classe a una concezione europea socialdemocratica inserita nello specifico della tradizione comunista italiana. La seconda legata a un’area di pensiero laico-liberale orientata verso un riformismo post-laburista, verso un modello di partito democratico di ispirazione anglosassone aperto nei confronti delle innovazioni del mercato del lavoro. Una componente affluita nel Pd da esperienze diverse rispetto a quella del Pci ma che da quest’ultima ha portato alle estreme conseguenze le istanze miglioriste che si agitavano in quel partito come minoranza attiva e tormentata. È facile dire oggi, alla luce della polemica che spacca in due i democratici e che incendia la base della sinistra italiana, che la sintesi non è mai avvenuta, più difficile era realizzarla questa sintesi. Per questo è comprensibile la tensione di Pier Luigi Bersani che ha il compito ingrato di tenere assieme un partito che nel suo seno contiene due anime sempre più irriducibili. Un conflitto fino ad oggi inespresso, trattenuto, assorbito dalla contrapposizione esterna contro il comune avversario che riusciva a compattare la sinistra dai liberal ai neocomunisti di Rifondazione e del Pdci. È l’avversione antiberlusconiana che ha reso possibile L’Ulivo, l’Unione e per ultimo l’ipotesi dalla presto archiviata foto di Vasto. Col passo indietro di Berlusconi anche la carta di questa sinistra plurale che per sforzo convertito vi si appoggiava e reggeva è caduta. E con il governo tecnico è emerso l’equivoco di fondo, la contraddizione insanabile sempre rimandata e mai risolta. E anzi alimentata: prima con i tour dalemiani alla City di Londra, poi con le attenzioni all’Ulivo mondiale di Bill Clinton – ricordate? – e alla nouvelle vague laburista aperta da Tony Blair, quindi dalla fusione con le culture cattoliche liberali della Margherita e dei Popolari per proseguire con la vocazione maggioritaria di Veltroni, le candidature di Piero Ichino e l’apertura alle istanze più riformiste nel mondo del lavoro. Tutto questo nella pretesa e nella presunzione di governare tutte le contraddizioni in virtù d’una superiore capacità di sintesi. Una presunzione fatale di cui il Pd e la sua classe dirigente oggi devono finalmente prendere atto.

C

Il primo punto è facile da spiegare a da capire.Tutti riconoscono che siamo in una fase eccezionale, straordinaria ed emergenziale. Sia Pd che Pdl lo ripetono in continuazione per spiegare ai loro elettori l’eccezionalità di questo loro sostenere insieme il governo affannandosi a ripetere che però non formano una maggioranza. Ecco perché bisogna fare sforzi di convergenza e rispettare gli sforzi altrui, altrimenti vuol dire che si approfitta di ogni momento di vantaggio per fare il proprio interesse, anche a scapito dell’interesse generale. Nei momenti di difficoltà la maggiore responsabilità ricade su chi specula, non su chi cerca di risolvere il problema. La responsabilità di alzare i toni e rischiare di provocare una dannosa reazione a catena ricade di più su chi ha una posizione di forza che su chi in quel momento è in difficoltà. Naturalmente, e questo ci porta al secondo passaggio: tutto ciò vale in entrambe le direzioni. Oggi cioè è il Pdl a infierire sul Pd, ma è successo e può succedere il contrario, senza che a parti invertite diminuiscano le responsabilità degli uni e degli altri. Quindi il Pdl sarebbe più saggio a non alzare i toni col Pd quando questo è in difficoltà, per poter chiedere analogo rispetto quando è lui ad essere in difficoltà. D’altro canto questi ribaltamenti di fronte hanno portato al paradosso che adesso si parla del governo come di un esecutivo di centro-destra e quasi berlusconiano, ma già si dimentica che appena pochi giorni fa si profilava il rischio che gli atteggiamenti del Pdl regalassero Monti alla sinistra. Infine, le difficoltà del Pdl sono particolarmente evidenziate dall’atteggiamento anarchico del gruppo nelle aule parlamentari con molti, troppi voti in ordine sparso, divisi sempre tra favorevoli, contrari, astenuti e assenti. Per essere onesti il Pd, che mostra spaccature più forti, continua a votare in modo sofferto ma compatto, molto più del Pdl. E poi entrambi hanno il nodo dell’alleanza con le ali estreme: o mantengono fermezza e sangue freddo mostrando di essere seri e affidabili nella strada intrapresa, o sono destinati inevitabilmente a soccombere nel confronto del populismo. Quindi stia attento il Pdl a come si comporta oggi, perché sarà chiamato comunque a risponderne, e inoltre potrebbe trovarsi domani nella stessa scomoda posizione di cui oggi approfitta.

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del lavoro credibile. E’quello su cui ci stiamo impegnando in queste ore. Anche noi vogliamo il modello tedesco. Speriamo che con il sostegno del Pd, lo otterremo e chiariremo tutti insieme ai lavoratori la bontà delle soluzioni che abbiamo trovato”. È la certificazione di una possibile riunificazione del fronte sindacale, visto che fin da subito anche la Uil e Luigi Angeletti avevano condizionato il loro appoggio alla riforma a “modifiche” proprio sul tema dei licenziamenti economici. Uno scenario che ha cambiato di netto anche l’atteggiamento del governo: “Il governo si impegna a riformulare la norma sui licenziamenti economici per evitare il rischio di abusi su presunti motivi economici con una particolare attenzione anche alla stesura”, ha detto Mario Monti in apertura dell’incontro con le parti sociali a palazzo Chigi (al solito, la Cgil ne ha fatto una cronaca minuto per minuto su Twitter), ma escludendo modifiche di sostanza. Nessun particolare, comunque, nessuna illustrazione dell’articolato nel vertice di ieri: «L’intera riforma sarà al Consiglio dei ministri di domani» (oggi, ndr), ha spiegato il premier, dove verrà probabilmente decisa anche la forma con cui il provvedimento verrà presentato al Parlamento (decreto o legge delega). Il problema – e qui si torna all’errore tattico di Monti – è che una volta messo il sigillo di palazzo Chigi su una proposta, la politica ha cominciato ad utilizzarla per marcare le proprie posizioni. Del Partito democratico si sa: la gran parte dei gruppi parlamentari è decisamente contraria alla bozza come si è venuta costituendo (sono una cinquantina, dicono gli interessati, quelli che voterebbero comunque a favore, anche a rischio di spaccare il partito). Il Pdl, invece, s’è attestato sulla difesa a oltranza della proposta con l’intento di accentuare le difficoltà di Bersani: «Se lui vuole la riforma della Camusso e della Fiom deve vincere le elezioni, farla e poi presentarsi sui mercati rionali e internazionali a spiegarla. Se la Fiom condiziona la Cgil, la Cgil condiziona il Pd e il Pd condiziona il governo, il paese rischia di rimanere imprigionato dai veti e questo sarebbe inaccettabile». Comunque, sostiene il segretario del partito di Berlusconi, «se il compromesso del governo resta in piedi bene, se in Parlamento la si vuole far diventare una riformetta noi non ci stiamo». Sul fronte politico è stata la sola Udc a lavorare per evitare il muro contro muro: «Noi cattolici preghiamo sempre e i frutti si vedono – scherzava ieri pomeriggio il segretario Lorenzo Cesa - Ora ci sono tutte le condizioni per arrivare a una sintesi che soddisfi tutti». Si vedrà.


la sfida sul lavoro

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Risicati gli spazi di manovra per modificare il testo. Anche perché si rischierebbe di incorrere nelle ire dei mercati e della Ue

La sconcertazione

Si moltiplicano le voci su come andrà a finire in Parlamento. Per arrivare alla riforma dell’art. 18, Monti lavora per chiarirne l’applicazione. Il Pd minaccia un emendamento sui licenziamenti economici, il Pdl vorrebbe alleggerire la stretta contro il precariato di Francesco Pacifico

ROMA. Da un lato ci sono gli impegni con l’Europa, la lettera della Bce, i rilievi del Fondo monetario e dell’Ocse. Per non parlare della reazione dei mercati, già in fibrillazione per la debolezza della Germania. E tutti vanno nella direzione di un intervento incisivo sull’articolo 18. Dall’altro c’è la coesione sociale, perché oggi pax e consenso illimitato sono garantiti soprattutto dall’eccezionalità della crisi, ma nei prossimi mesi saranno messi a dura prova da un’allargamento della disoccupazione e dall’erosione degli stipendi dovuta all’inflazione e alle nuove trattenute. Ed è anche per questo che è necessario l’avallo del Pd, della prima forza di sinistra, unico argine a un massimalismo che in questo Paese è sfociato anche nel sangue.

Ieri mattina Mario Monti ha chiesto a Giorgio Napolitano di approvare la riforma del mondo del lavoro con un decreto legge proprio per i timori di ritrovarsi con lo spread

tra Btp e Bund decennale di nuovo sopra i 400 punti e di restare impantanato nelle secche parlamentari. E sempre ieri mattina il presidente della Repubblica avrebbe prefigurato al premier la via della delega, propedeutica ad allargare il consenso dei partiti e a introdurre quelle modifiche in grado di rasserenare gli animi dei sindacati. La mente corre al 2003, quando dopo l’approvazione della legge Biagi e del Patto dell’Italia senza aver chiuso un accordo con la Cgil, scoppiò il caos non appena il governo e Confindustria ammisero il loro bluff sull’articolo 18 e fecero un passo indietro su un’applicazione più rigida delle nuove norme sulla flessibilità. Ne pagarono il prezzo la Cisl di Savino Pezzotta e la Uil di Luigi Angeletti. Ne pagarono il prezzo, in termini di scioperi selvaggi, le imprese dei territori dove la Fiom era forte. La partita non si decide soltanto tra i palazzi della politica e le segreterie dei sindacati,

rischia di trasferirsi anche verso la piazza. Oggi è impensabile una riproposizione del milione di lavoratori portati in piazza nel 1994 da Cofferati al Circo massimo contro le pensioni e i tre milioni riversatisi in piazza San Giovanni proprio in difesa dell’articolo 18. Eppure sbaglierebbe il governo a dormire sonni tranquilli. Quarantott’ore fa a Genova un delegato Fiom dell’Ansaldo Energia avrebbe mandato all’ospedale uno della FimCisl. La dinamica non è chiara, ma per certi aspetti è più indicati-

va la replica del leader ligure delle tute blu della Cgil, Bruno Manganaro, alla richiesta dei colleghi della Cisl di espellere i violenti: «Non intendo rispondere a chi pensa di fare la vittima dopo aver accettato licenziamenti più facili nelle fabbriche». Ieri invece hanno incrociato le braccia soprattutto le maestranze delle aziende da tempo al centro dei tavoli del ministero dello Sviluppo come la Ansaldo Breda e la Fincantieri. Quelle, cioè, che nel caso migliore sembrano destinate a durissime ristrutturazioni per restare sul mercato.

Napolitano spinge per ampliare il ruolo dei due rami

Di fronte a tutto questo Mario Monti si guarda bene dal mostrare le sue carte. Ieri, incontrando per l’le parti sociali, ha giocato d’astuzia spiegando che «sui licenziamenti economici ci sarà una formulazione per evitare gli abusi», per evitare «il rischio che il binario dei licenziamenti economici possa essere abusato con aspetti di discriminazione».

Una frase che lascia adito a troppe interpretazioni. Alla quale potrebbero seguire paletti più stringenti per chiarire il calo dell’attività che giustifica la fine del rapporto oppure un rimando a quanto previsto dai contratti nazionali per ricalcare un elemento che è portante nel sistema tedesco.

Quel che è certo è che Mario Monti non ha cambiato idea. E se non bastasse, non detto ai sindacati di voler restituire al giudice del lavoro anche nei casi di licenziamento economico la facoltà di decidere se concedere il reintegro o l’indennizzo. «Per la riforma del lavoro si va verso un decreto legge o una legge delega? Ancora non si sa, ma il Consiglio dei ministri potrebbe prendere una decisione». Ieri il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, ha così annunciato ai cronisti di stanza a Palazzo Madama che soltanto questa mattina si deciderà il da farsi. Ieri Pier Luigi Bersani ha fatto sapere a Palazzo Chigi e al Col-


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L’economista evita facili suggestioni: «C’è ancora molto da lavorare, non siamo Berlino»

«Questo è un punto di partenza per arrivare al modello tedesco»

Parla Carlo Dell’Aringa: «La strada è quella giusta, ma senza risorse adeguate per gli ammortizzatori e un’economia forte, dalla riforma non arriveranno benefici» di Francesco Lo Dico

ROMA. La trattativa sull’articolo 18 ha lanciato sui giornali italiani il tormentone del modello tedesco, in un crescendo di cori plaudenti. Ma come spesso accade, dentro le formulette ready-made, si nascondono le stesse insidie del messaggio pubblicitario: puntare tutto sulla forma per celare la sostanza. Così che, al di là di quale sia il giudizio su questa riforma del mercato del lavoro, si possa dire con certezza soltanto una cosa: Berlino, con l’attuale riforma Fornero, c’entra poco. «Si tratta di un buon punto di partenza, ma molti aspetti del disegno di legge devono essere migliorati, a partire dall’indennizzo per motivi economici, che fra l’altro in Germania non è l’unica possibilità, ma convive con il reintegro. Ma più in generale, tra il modello tedesco e la nostra riforma esistono enormi differenze», spiega Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica all’università Cattolica di Milano. Professore, è possibile importare il modello tedesco in un sistema di relazioni industriali come il nostro, che dalla Germania dista anni luce? Il sistema tedesco funziona perché è figlio di conseguenti vicende storiche. Tutto poggia sul metodo della cogestione, che in Germania si innesta in un tessuto sociale poco conflittuale e improntato alla fiducia collettiva, che è frutto di una proficua collaborazione tra datori e lavoratori inaugurata nel dopoguerra. Difficile immaginare le nostre aziende a decidere le strategie di investimenti gomito a gomito con i sindacati. Il modello tedesco si poggia sul consiglio di gestione che guida l’azienda e un consiglio di sorveglianza che per metà è composto da rappresentanti dei lavoratori. Quest’organo ha voce in capitolo sulle strategie, controlla i dirigenti, dà l’ok ai bilanci e vigila perciò sulle retribuzioni, sulla reale necessità di fare licenziamenti e quant’altro. Viste le garanzie offerte ai lavoratori anche in via preventiva, è naturale che ci sia una maggiore flessibilità in uscita: gli abusi sono rari. Mentre in Italia sono moltissimi. Era necessario anche solo immaginare di moltiplicarli con i licenziamenti facili per motivi economici, specie dopo tutte le angherie subite dai giovani in questi ultimi vent’anni? È una domanda al limite della provocazione. Io ho sempre sostenuto che sui licenziamenti economici si debba cambiare rotta. Non si può ricorrere esclusivamente all’indennizzo. In Germania, anche se il reintegro per motivi economici è raro, è un’opzione alla quale il giudice può ricorrere. Anche i lavoratori italiani hanno diritto a una tutela di questo tipo. Spesso il rapporto si risolve con un indennizzo, è vero. Ma escludere il reintegro per legge è

sbagliato, e toglie tranquillità a chi lavora. Spacciare per licenziamento economico qualunque tipo di ritorsione è un rischio concreto. Molti imprenditori si staranno già fregando le mani. I motivi di licenziamento poco nobili sono già abbastan-

«In Germania c’è il reintegro anche per motivi economici: il governo deve impedire gli abusi»

za diffusi. In questo i sindacati hanno ragione: qualunque decisione del datore di lavoro potrebbe essere legittimata dalla monetizzazione. E oltretutto in Germania, il consiglio di sorveglianza non difende il lavoratore a priori. Se esistono motivi validi, i rappresentanti esprimono parere favorevole al licenziamento. Esattamente. Non si deve cedere all’equivoco che il licenziamento è sempre sbagliato. La cogestione funziona perché c’è il comune interesse, al buon funzionamento dell’impresa. È tedesca l’idea di un articolo 18 che viene neutralizzato subito, e l’ammortizzatore universale che parte dal 2017? Che cosa succede nella terra di mezzo? In materia di flessibilità gli interventi sono incisivi, ma sugli ammortizzatori sociali mancano i fondi e quindi si è rinviato tutto. Se l’idea era quella della flexsecurity, si può dire che al momento si è riusciti a migliorare solo la “flex”, senza mettere in piedi un’adeguata “security”. Lo spunto per un’altra sostanziale differenza. In Germania è previsto, oltre all’indennità di disoccupazione, un reddito minimo garantito se il lavoratore non riesce a trovare un nuovo impiego. E qui che succede, considerata una disoccupazione giovanile al 30 per cento, e un’occupazione iperflessibile? In Germania il sussidio di disoccupazione spetta a chi, esaurita l’indennità, è ancora disoccupato. Ma l’indennità può variare dai sei ai 32 mesi ed è al 67% circa dell’ultima retribuzione, mentre il sussidio è attorno ai 400 euro. La nostra riforma è ambiziosa, ma non può essere incisiva in mancanza di risorse e di politiche attive di reinserimento nel mercato del lavoro. Ancora uno spread decisivo che tiene il modello tedesco fuori portata: i tempi della giustizia in materia di lavoro. In Germania esiste un meccanismo snello, con cause che non vanno mai oltre i dodici mesi. Qui da noi, invece il nodo resta aperto. Perché la riforma del mercato del lavoro funzioni, e assolva al compito di dare certezze agli investitori, serve anche una riforma della giustizia. Se il modello tedesco funziona perché è funzionale a un’economia forte, quale sarl l’impatto di questa riforma non tedesca sull’Italia? I benefici arriveranno soltanto se e quando la nostra economia cambierà marcia.

le che non transige soltanto sull’ipotesi del decreto legge. Vuole la delega, ricordando che il Pd «è consapevole, e in questo senso si è impegnato nelle scorse settimane, della necessità di innovare il mercato del lavoro». Il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, ha anticipato al Sussidiario.net che gli emendamenti non riguarderanno soltanto l’articolo 18, ma serviranno anche «per migliorare la parte riguardante i lavoratori precari e le politiche attive per il lavoro». In tutta risposta dalla Cisl Raffaele Bonanni gli ha fatto sapere: «Siamo pienamente daccordo con Fassina. Anche la Cisl vuole cambiare la norma sui licenziamenti economici e fare una riforma del lavoro credibile». Gli spazi di manovra del Pd sono risicati. In Parlamento avrebbe l’appoggio soltanto dell’Idv, visto che nella Lega – partito di ex operai ancora iscritti alla Cgil ma soprattutto di partite Iva – Maroni spinge per un sì al provvedimento.

Al di là delle ire dei mercati, tutti sanno che se salta la riforma dei licenziamenti va a casa anche il governo. Per non parlare del fatto che, in questo caso, il Pdl e Confindustria imporrebbero a Monti sostanziali modifiche all’altra parte della riforma, quella che rende più onerose per l’azienda le tutele ai lavoratori. Nota al riguardo il senatore Maurizio Castro: «Abbiamo fatto un bel passo avanti, se pensiamo che siamo partiti dal contratto unico e dal reddito minimo». Nel centrodestra Giuliano Cazzola guiderebbe il fronte (minoritario) di chi chiede interventi più liberali e vuole frenare i costi dei nuovi ammortizzatori e la stretta sui precari. Di rimando nel Pd c’è chi studia di uscire dall’impasse riportando in auge la proposta della Cisl – e appoggiata pubblicamente anche dal “laburista” Fassina – di portare la disciplina dei licenziamenti economici sotto l’alveo della legge 223, quella sui licenziamenti collettivi, allargando le tutele previste oggi. «Il modello tedesco è apprezzabile», suggerisce Pierpaolo Baretta, «ma questa ipotesi è stata sempre apprezzata da Monti». A dirla tutta il progetto è stato bloccato dalla Cgil, che in questa fase sta alla finestra a guardare gli eventi. Al di là del prossimo sciopero generale, la Camusso ha di che rallegrarsi: il non aver firmato l’accordo le permette di contenere le spinte più critiche (Fiom, pensionati, parte degli Statali) più critiche verso la direzione, mentre i nuovi ammortizzatori sociali e le strette contro il precariato sono un importante bottino di guerra. Tutti pezzi che, a differenza dell’articolo 18, nessuno ha la voglia di far saltare.


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pagina 6 • 23 marzo 2012

Grande successo per l’iniziativa contro le persecuzioni

Le religioni unite in nome della libertà

Un confronto aperto tra le fedi e la politica sulla violenza anticristiana. Terzi: «Scenari cupi». Casini: «Cambiamo passo» di Vincenzo Faccioli Pintozzi l fanatismo religioso «c’è in ogni religione, ma è il suo peggior nemico. Perché ne nega i fondamenti e il naturale anelito alla pace. La peggiore malattia di oggi è l’indifferenza: grandi dichiarazioni davanti ad eventi tragici che però non portano a nulla e non cambiano nulla». Pier Ferdinando Casini, leader dell’Unione di Centro, conclude nel miglior modo possibile l’incontro organizzato ieri a Roma dalla Fondazione liberal-popolare dal tema “La religione della libertà. Contro le persecuzioni anticristiane. Contro tutte le violazioni dei diritti dell’uomo”. Il leader del Terzo Polo aggiunge subito dopo, in chiusura di convegno: «È necessario rompere questo muro, lanciare un sos per i cristiani perseguitati. Ma dobbiamo volare più in alto e lanciare lo stesso allarme per ogni religione che venga perseguitato, ovunque questo accada. Dobbiamo superare l’equivoco fra laicità e laicismo». Ad aprire i lavori era stato Ferdinando Adornato, presidente della Fondazione liberalpopolare e deputato dell’Unione di Centro: «Nel corso della storia i cristiani morti per la loro fede sono stati circa settanta milioni, di cui quarantacinque milioni solo nel XX secolo. Al 2011 i cristiani sono vittime del 75% delle violenze anti-religiose totali al mondo, ed in Medio Oriente rischiano l’estinzione. I martiri cristiani sono stati calcolati in 105.000 all’anno, uno

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ogni cinque minuti». Sono dati impressionanti, continua Adornato, «se inoltre consideriamo come sia praticamente soltanto il Parlamento europeo, rilevando come la maggior parte degli atti di violenza religiosa nel mondo siano perpetrati contro cristiani, a condannare tali attacchi e chiedere lo sviluppo di una strategia comune per tutelare la libertà religiosa».

Su questo tema si inserisce anche l’intervento del ministro degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata. Che era stato ampiamente citato dai religiosi

te le minoranze, per tutelare lo stato di diritto». Sullo stesso tema anche l’intervento di Antonio Tajani, vice presidente della Commissione europea, che propone una strada sicuramente da battere, quanto meno per il Medioriente: «Da molto tempo, in Europa, sosteniamo l’importanza di tessere legami economici e commerciali con i Paesi ad esempio dell’Africa settentrionale, dove la Primavera araba ha dato sicuramente molte speranze che temiamo però si possano spegnere». Prima della politica, la parola era stata data alle religioni: un rabbino, un

per questo voglio lanciare un sasso: io ritengo che la libertà religiosa, oggi, sia negata agli ebrei. Io vi chiedo se sia possibile crescere, essere educati e vivere in un mondo senza scorta. Certo, si impara a vivere sorvegliati: ma la nostra comunità scrive, lavora, studia, insegna e forse passa la propria esistenza sotto il controllo di uomini armati, che ne devono garantire la sopravvivenza». Ma questo, aggiunge subito il rabbino Bahbout, «non è l’aspetto peggiore del problema. È l’indifferenza, la cosa peggiore, come quella che ha portato il consiglio co-

Il ministro Terzi: «Le prospettive, soprattutto per il Medioriente, sono cupe. C’è bisogno di tutelare tutte le minoranze, per tutelare lo stato di diritto». Adornato: «Vogliamo essere una spina nel fianco di chi fa finta di nulla». Tajani: «Passiamo attraverso i rapporti economici per costruire società tolleranti» presenti, che lo hanno ringraziato per i diversi interventi a favore della libertà religiosa: «I valori della tolleranza e del rispetto vengono annullati da tragedie come Tolosa. E voglio esprimere il dolore mio personale, e quello del governo italiano, per questo atto di antisemitismo». Il ministro, tuttavia, conosce molto bene il mondo in cui vive: «Le prospettive, soprattutto per il Medio Oriente, sono cupe. Non basta la democrazia per far rispettare la libertà religiosa, e l’esempio dell’esodo dei cristiani dall’Iraq post-Saddam Hussein lo dimostra. C’è bisogno di tutelare tut-

islamico e un cardinale. Che detta così sembra una barzelletta, ma invece rappresenta uno dei momenti più fecondi dell’incontro. A confrontarsi sono il cardinale Giovanni Battista Re, il rabbino di Napoli Mino Bahbout e Adbdellah Redouane, che guida il Centro Culturale islamico. Si tratta di una fase molto lontana dalle frasi di circostanza che troppo spesso si sentono sull’argomento. Il rabbino inizia con una provocazione: «Domani [oggi per chi legge ndr] è l’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Mentre oggi ricordiamo le vittime del folle killer di Tolosa. Forse

munale di Trento a non osservare un minuto di silenzio per le vittime della strage di Tolosa». Un minuto di silenzio che invece l’aula di ieri osserva commossa. «Quando leggo della rinascita dell’antisemitismo, quando mi sento anche personalmente sotto una qualche forma di attacco, penso che il problema si possa risolvere con un cambiamento nell’educazione. Chiudere un sito anti-semita che incita all’odio è utile ma non basta. Dobbiamo aprire mille siti che inneggino all’amore e alla comprensione». Abdellah Redouane guida invece il Centro culturale islamico, di cui

è Segretario generale. Il suo intervento, pur non essendo sulla difensiva, risente ovviamente del momento storico in cui il convegno si svolge.«Quando sono stato invitato, ho capito che dovevo porre le mie domande al mio libro sacro. E il Corano non ha tradito la mia fiducia». Il Segretario cita due versetti che spiegano come vada letta realmente la religione di Maometto: «Non vi sia costrizione nella fede; chi vuole creda, chi non vuole sia libero di non credere. Si tratta di una strada facile da intraprendere, per andare oltre le false interpretazioni che gli estremisti danno della nostra fede».

Redouane, si vede, è profondamente impegnato nella sua battaglia e ricorda le conquiste ottenute con il suo gruppo: «Abbiamo siglato un accordo fra 250 moschee per rinnegare ogni forma di violenza in nome della religione, per adottare la Costituzione come cardine per tutti. La condanna di ogni forma di violenza interreligiosa è senza appello: dobbiamo impegnarci tutti per impedire che tali atti si ripetano». A concludere è il cardinale Re: «La libertà è una dimensione a cui il mondo è particolarmente sensibile. La libertà religiosa è la pietra angolare della libertà dell’uomo, una garanzia e una tutela per le religioni tutte. La globalizzazione moltiplica i contatti: vanno moltiplicati anche gli sforzi per salvare le religioni».


società

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L’intervento del leader dell’Unione di Centro, che propone «un sos non soltanto per i cristiani perseguitati, ma per tutte le fedi»

«Ora basta con l’indifferenza» «L’Italia deve avere un ruolo di prima fila in questa battaglia. Proponiamo una moratoria per bandire le leggi discriminatorie» di Pier Ferdinando Casini uando si parla di persecuzioni anticristiane, di violazioni dei diritti dell’uomo, di scontri tra culture e civiltà differenti, il mio pensiero va a uno dei primi intellettuali che ha introdotto nel dibattito socio-politico internazionale il concetto di “scontro tra civiltà”, il politologo statunitense Samuel Huntington. Huntington aprì il dibattito su questo tema quasi 20 anni fa con un articolo, diventato poi celebre in tutto il mondo, intitolato proprio “Clash of Civilizations?”(”Scontro tra civiltà?”) e successivamente, nel 1997, con il libro “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”. «Nel mondo che emerge, un mondo fatto di conflitti etnici e scontri di civiltà - sostiene lo studioso statunitense - la convinzione occidentale dell’universalità della propria cultura comporta tre problemi: è falsa, è immorale, è pericolosa». E ancora «nella prima metà del XX secolo le élite intellettuali hanno creduto che la modernizzazione economica e sociale dovesse portare alla scomparsa della religione quale elemento significativo dell’esistenza umana».

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Non sta a me commentare queste parole forti, né ho la pretesa d’inserirmi nel dibattito culturale che da anni si è acceso su queste tesi. La mia volontà è solo quella d’inquadrare la tematica delle persecuzioni anticristiane, e più in generale delle persecuzioni e delle violazioni dei diritti di ogni uomo, in un contesto più ampio e inclusivo. Nel nuovo millennio, infatti, nell’epoca della globalizzazione e dell’abbattimento delle barriere comunicative, la nuova sfida che dovremo affrontare sarà proprio quella del riconoscimento del diverso come valore aggiunto. Solo attraverso il riconoscimento dei diritti di chi è diverso da noi, di chi professa una fede differente, di chi ha usi e costumi differenti, potremo rafforzare e coltivare le nostre convinzioni culturali e professare il nostro credo in libertà. Il fatto che oggi ci troviamo a parlare di questi temi da un lato mi rende orgoglioso, e di questo ringrazio tutti gli illustri ospiti intervenuti prima di me, da un lato deve essere fonte di una profonda riflessione perché significa che c’è ancora tanto da fare per riuscire a garantire uno dei principi cardini del nostro agire politico: la pace e la convivenza tra i popoli. Le violazioni della libertà religiosa e le persecuzioni contro le religioni, purtroppo, sono un fenomeno con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno, un fenomeno su cui, spesso, i media chiudono i riflettori ma che continua a mie-

tere vittime. E questo non può più essere contemplato. E questo avviene nonostante i passi avanti che le nazioni hanno compiuto dopo gli errori del XX secolo. Penso all’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sulla libertà di pensiero, coscienza e religione. Ma penso anche alla nostra Costituzione, che ha tra i suoi principi fondamentali l’eguaglianza e la libertà religiosa. Principi cardine scritti in uno Stato appena nato ma consapevole dell’importanza dei diritti di tutti e dei diritti civili. Questo, purtroppo, non è quello che accade in molti altri Stati del mondo ma è quello per cui dobbiamo lottare.

La società odierna troppo spesso concentra l’attenzione mediatica su alcuni avvenimenti piuttosto che su altri. Penso al fatto che, spesso, le notizie della scomparsa, del rapimento o della persecuzione di cristiani o persone di fede cristiana nel mondo passano in secondo piano rispetto ad altro. E’ giusto che si parli delle rivolte in Egitto e in Tunisia ma non si può sorvolare sull’attuale condizione dei Cristiani in Nigeria e in Algeria. In questo contesto incontrarsi per ragionare sulle persecuzioni anticristiane può far sembrare che si ragioni di argomenti lontani da noi. La nostra convinzione, invece, è che l’agenda politica non possa essere dettata esclusivamente da agenti esterni o imposta dalle esigenze di ogni giorno ma vada scritta sulla base di una visione più ampia ed inclusiva, affrontando anche quei temi che sono posti ai margini del dibattito pubblico. Secondo il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana il 75% delle violenze antireligiose sono proprio contro i cristiani. In Medio Oriente, dove queste violenze sono particolarmente concentrate, il numero di cristiani è sempre più basso. Ma questo non basta: le persecuzioni fondate su motivi religiosi stanno aumentando ovunque. Basti pensare alla Cina con i buddisti in Tibet, al dilagare di

quella che è stata definita ”islamofobia”, atteggiamento di ritorsione verso persone inermi la cui unica colpa è quella di essere accomunate a un estremismo con cui nulla hanno a che fare. Non ultimo penso all’antisemitismo. Un odio ingiustificato nei confronti degli Ebrei che in passato sono stati vittime del più grande genocidio della storia e che ora, per motivi geopolitici a cui da troppi anni non si riesce a trovare una soluzione, troppo facilmente si torna a respirare.

Il 20 gennaio 2011 il Parlamento europeo, come ha già accennato il Vice Presidente Tajani, ha approvato una risoluzione sulla situazione dei cristiani nel contesto della libertà religiosa. Io mi appello al nostro Ministro degli Esteri, in cui ripongo la mia fiducia, affinché anche Egli chieda ai Governi con cui abbiamo rapporti, in particolare in Medio Oriente, maggiore tolleranza e maggior rispetto per le culture e le religioni diverse da quelle locali, così come noi facciamo in Italia. Chiedo che il Governo lanci una campagna di sensibilizzazione su questi temi e che si batta, in Europa e alle Nazioni Unite, perché sia fatta maggiore pressione economico-politica su quegli Stati che non rispettano i diritti dei loro cittadini. È giunto il momento che la Comunità Internazionale alzi la voce su questi temi e l’Italia deve avere un ruolo da protagonista valutando, magari, l’opportunità di presentare una moratoria di tutte quelle leggi, che in molti Stati esistono ancora, che limitano i diritti e le libertà dei cittadini. La paura del diverso, il pregiudizio e l’estremismo sono cause di questi avvenimenti e sono il problema a cui bisogna trovare una soluzione; a maggior ragione in un epoca caratterizzata da forti spostamenti migratori come quella in cui stiamo vivendo. Come ha scritto Johannes Muller, direttore dell’Istituto di sociologia nella Facoltà di filosofia dei gesuiti a Monaco di Baviera, «la molteplicità re-

«C’è ancora tanto da fare per riuscire a garantire uno dei principi cardine del nostro agire politico: la pace e la convivenza tra i popoli del mondo»

ligiosa racchiude sempre in sé una conflittualità potenziale e la globalizzazione l’ha accresciuta (...). Non si può far derivare direttamente un diritto alla libertà religiosa dalle fonti stesse della religione, come la Bibbia o il Corano. Vi si oppone anzitutto il fatto che ogni religione, poiché pretende di essere vera su un piano universale, considera con molto scetticismo la conversione alle altre religioni».

Questo, aggiungo io sommessamente, è il compito della politica, quella con la ”p” maiuscola, quella che deve garantire, in ogni modo, la laicità dello Stato. La laicità dello stato non è e non deve essere derubricata a una forma di estremismo laicista. Va considerata come la vera difesa della libertà religiosa e della tolleranza legata alla tradizione culturale occidentale. Per questo motivo la riflessione odierna si lega ad altre due grandi sfide che dovremo affrontare nell’immediato futuro. Quella dell’immigrazione, su cui proprio l’anno scorso l’amico Adornato aveva costruito un simile momento di riflessione, e quella riguardante i diritti civili dell’individuo nel nostro Paese. Su questi temi l’attuale Governo ha già cominciato a lavorare, e di questo ringrazio pubblicamente i Ministri Riccardi e Fornero, ma è su questi temi che la politica dovrà riprendere un’iniziativa autonoma perché su questi temi non basta l’esperienza dei tecnici ma serve anche la visione, più ampia, della politica. Penso alle strategie di lungo termine che dovremo adottare in campo immigratorio, un campo su cui, 20 anni fa, ci siamo trovati impreparati in quanto la nostra storia è sempre stata una storia di emigrazione, ma su cui, ora, dovremo pensare a linee generali che vadano oltre l’emergenza: politiche dell’accoglienza e politiche dell’integrazione che puntino a una maggiore integrazione. Penso, ad esempio, alla cittadinanza alle seconde generazioni perché chi è nato in Italia ha il diritto di sentirsi italiano. Sono temi che ci appassionano e sono profondamente convinto che i moderati, in Italia, siano sufficientemente maturi per poter segnare la strada da seguire in questi ambiti e perché sono convinto che solo se governeremo noi i processi del presente, se saremo capaci di dare risposte alle esigenze di tutti i cittadini, potremo evitare che gli estremismi presenti in Parlamento, e al di fuori di esso, possano creare false speranze tra la gente o, ancor peggio, che certe tematiche possano essere sfruttate a mero scopo elettorale, senza ragionamenti articolati e senza concentrarsi sul Bene comune.


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Con soli 11 voti di scarto, il patron della Mapei conquista viale dell’Astronomia battendo il rivale Alberto Bombassei. Un risultato, questo, che certifica ulteriormente la spaccatura interna a Confindustria

Il dopo-Emma? V

di Marco l giorno dopo l’annuncio di una riforma del mercato del lavoro che ha portato in dote, oltre alle polemiche, la spaccatura del Pd, anche in seno a Confindustria, l’organizzazione che tutela gli interessi di oltre 142.000 imprese, si è consumata una rottura mai vista. Giorgio Squinzi è stato designato dalla giunta come nuovo presidente dell’organismo di Viale dell’Astronomia, ma con soli 11 voti di vantaggio sul suo rivale, Alberto Bombassei. E l’evento cancella l’armonia e la quasi unanimità che avevano salutato le elezioni di Luca Cordero di Montezemolo nel 2004 e di Emma Marcegaglia nel 2008.

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La crisi economica, che proprio nell’anno dell’insediamento della presidente uscente si è abbattuta sul nostro Paese, ha minato le certezze degli imprenditori. Spaventati, da un lato, dalla continua erosione di quote di mercato - soprattutto per le Pmi che rappresentano oltre il 90% del tessuto imprenditoriale italiano - che ha fatto registrare una perdita di attività del 6,2% dall’aprile 2011 e un gap rispetto al picco precrisi della primavera 2008 del 22,1%; dall’altro, da un mercato del lavoro sempre più esplosivo, in cui le tensioni sociali accumulate in dieci anni di “precariato” hanno fatto vestire agli imprenditori i panni di “lupi cattivi”, gettando ombre sull’importanza delle aziende nel nostro Paese. Una tensione, quella all’interno di Confindustria, che è sfociata nel risultato della Giunta riunitasi ieri: 93 voti a favore di Giorgio Squinzi, patron dell’azienda Mapei, 82 per Alberto Bombassei, presidente di Brembo. Un esito così incerto non era

stato preventivato da sondaggisti e “futurologi”, che avevano predetto una larga vittoria per Squinzi, specie dopo l’endorsement fatto in suo favore dalla presidente uscente Emma Marcegaglia. Che cosa significa questa spaccatura? Intanto, che nemmeno coloro che dovrebbero far girare i soldi in Italia hanno un’idea chiara di quale debba essere la via da seguire per riguadagnare le posizioni perse sullo scacchiere internazionale. E questo è un dettaglio non da poco: la partita di Confindustria ha visto assegnare l’etichetta di falco a Bombassei e quella di colomba a Squinzi. Gli imprenditori hanno di fatto espresso una perplessità che raramente si è vista nell’Italia delle aziende, quel motore fondamentale che ha trainato per mezzo secolo l’economia nostrana. Prima di entrare in crisi a causa di scelte sbagliate soprattutto dal punto di vista dimensionale, visto che la quasi totalità delle imprese italiane è composta da un numero di dipendenti inferiore alle dieci unità. E c’è chi maligna che il sottodimensionamento sia dovuto, in parte, anche alla volontà degli imprenditori di sfuggire al temutissimo articolo 18 che, da mercoledì, sembra essere un po’ più spuntato. Ma agli osservatori più attenti

non è sfuggito che la profonda divisione della Confindustria non può non far suonare campanelli d’allarme. Non sapere che strada scegliere, in un momento di estrema difficoltà come quello attuale, significa che l’imprenditoria italiana ha perso la forza dirompente di un tempo. Ha paura di osare, di scegliere in maniera netta. Ha, in sostanza, il terrore di muoversi, e cerca di restare aggrappata all’oggi. D’altronde, la spaccatura è anche territoriale: un nord compatto con Bombassei - se si esclude l’Assolombarda, che, votando in favore di Squinzi, ha, di fatto, avvalorato quella tesi secondo cui chi vince a Milano, vince anche su scala nazionale - e un centro-sud a favore del patron di Mapei. A dimostrazione che, al di là dei proclami di entrambi di modificare profondamente la faccia di Confindustria, ha prevalso la linea dotata di maggiore continuità con il passato recente. Ma per capire meglio la figura del nuovo presidente di Confindustria, è bene iniziare raccontando la storia della sua azienda, Mapei, e della crescita esponenziale iniziata il 12 febbraio del 1937. La Materiali Ausiliari Per l’Edilizia e l’Industria (da cui l’acronimo Mapei) è una piccola azienda a conduzione familiare che può In senso orario: Giorgio Squinzi, nuovo presidente di Confindustria; la presidente uscente, Emma Marcegaglia; Alberto Bombassei, sfidante di Squinzi (per 11 voti non ha conquistato viale dell’Astronomia)


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no a mano che il coinvolgimento del marchigiano nei salotti buoni della finanza si fa sempre più significativo. Bombassei ha poi potuto contare sull’apprezzamento di colui che, non più tardi di un anno fa, era uscito da Confindustria sbattendo la porta: Sergio Marchionne, infatti, aveva dichiarato che in caso di vittoria del numero uno di Brembo, un ritorno di Fiat sarebbe stato senz’altro più semplice. Più vicine alle corde del manager italo-canadese le idee di Bombassei, soprattutto per quanto riguarda la regolamentazione del mercato del lavoro. Ma, a conti fatti, l’endorsement di Marchionne si è tramutato più in un “bacio della morte”che in una carezza di incoraggiamento.

Veni, vidi... Squinzi

o Scotti contare su tre dipendenti, oltre al fondatore Rodolfo Squinzi. Si occupa principalmente della produzione di intonaci e materiali per rivestimenti edili. Successivamente la società decide di orientarsi verso un mercato all’epoca ancora di nicchia, concentrandosi in particolare sulla produzione di adesivi per pavimenti e rivestimenti. Un’idea pioneristica perché inizialmente il mercato è piuttosto limitato. Ma negli anni ’60, in concomitanza con il boom economico che fa uscire in maniera definitiva l’Italia dalle secche della situazione post-bellica, i prodotti Mapei vengono conosciuti anche su scala internazionale, grazie anche al grande successo ottenuto dalla ceramica italiana. A partire dal 1978 la società inizia un processo di internazionalizzazione sia commerciale che produttiva, aprendo un primo stabilimento in Canada, che prosegue - anche negli anni successivi alla morte del fondatore, avvenuta nel1984 - sotto la guida del figlio Giorgio, sia con l’apertura di altri impianti produttivi sia con l’acquisizione di altre società. Di particolare rilievo sono l’acquisizione della Vinavil, uno dei principali fornitori di Mapei, avvenuta nel 1994, e quella della Sopro, uno dei principali player tedeschi nel campo dei prodotti chimici per l’edilizia, avvenuta nel 2002.

Gli ultimi dati in nostro possesso parlano di un gruppo fortemente internazionalizzato, che può contare su un fatturato 2011 di 2,1 miliardi e su 7.500 dipendenti. Mapei è ormai presente in tutti e cinque i continenti: delle 71 sedi e stabilimenti, 10 sono in Italia, 28 in Europa, 20 nelle Americhe (di cui 12 solo negli Usa), 9 in Asia, 2 in Africa e 2 in Oceania. Un gruppo solido che ha deciso di investire anche nello sport, a parti-

re dall’inizio degli anni ’90. La squadra ciclistica Mapei, fondata appunto nel 1993, fu un autentico “dream team” capace di dominare le classifiche per anni e di conquistare - con campioni del calibro di Franco Ballerini,Toni Rominger e Paolo Bettini - un giro d’Italia, una Vuelta spagnola, tre giri delle Fiandre, cinque Parigi-Roubaix, una Liegi-Bastogne-Liegi, due giri di Lombardia. Nel 2002, ultimo anno di attività della squadra ciclistica, essa aveva a disposizione il budget più alto dell’intero circuito: 10 milioni di euro. Dopo l’esperienza a due ruote, la Mapei ha deciso di sostenere la squadra di Serie B del Sassuolo, sulla cui maglia campeggia come sponsor principale, dando alla compagine modenese una disponibilità economica importante che potrebbe permetterle di salire in Serie A. Torniamo ora alla partita di Confindustria: grande importan-

sono stati proprio quei voti a delineare l’esito della consultazione che, altrimenti, avrebbe dato origine a una «situazione d’equilibrio che non sarebbe stata per nulla positiva». Fulvio Conti, ad di Enel, si è mostrato fiducioso, auspicando quanto prima il ricompattarsi dell’organizzazione confindustriale. Ad appoggiare Squinzi, tra gli altri, sono stati anche Mauro Moretti, ad di Ferrovie; Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset; Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica. E, soprattutto, Emma Marcegaglia, presidente uscente di Confindustria. E lo sconfitto? Alberto Bombassei, presidente di Brembo, è stato dipinto fin da subito come il “falco” tra i due, soprattutto in merito alla questione dell’articolo 18, su cui si è mostrato più intransigente e meno disposto a un suo mantenimento, seppur con qualche modifica. Ma come, si dirà, su un tema con-

Un esito così incerto e di misura non era stato preventivato né dai sondaggisti né dai “futurologi”, che avevano predetto una larga vittoria per Squinzi, specie dopo l’«endorsement» fatto in suo favore dalla presidente uscente Emma Marcegaglia za è stata data, giustamente, al ruolo delle grandi aziende a partecipazione statale (Eni ed Enel su tutte) che hanno fin da subito deciso di appoggiare Giorgio Squinzi, preferendo il suo modo più “morbido”di affrontare le tematiche caldissime dell’articolo 18 e del peso dell’imprenditoria nello scacchiere nazionale. Anche ieri, subito dopo l’annuncio della vittoria del patron di Mapei, l’ad del cane a sei zampe Paolo Scaroni - che non ha fatto in tempo a prendere parte alla votazione - ha voluto ribadire che i sei voti a disposizione di Eni sono andati a Squinzi. Ribadendo, oltretutto, che

tro cui gli industriali si scagliano da anni, ha prevalso la linea più morbida? Effettivamente, è questo il più significativo fraintendimento su cui si è consumata la caduta di Bombassei, capace comunque di recuperare terreno sul suo avversario. Un mese fa, infatti, voci fatte trapelare direttamente dal consiglio dei Saggi di Confindustria, davano Squinzi in vantaggio di quasi una cinquantina di voti. Bombassei però, abile tessitore di trame politiche, non si è perso d’animo. D’altronde, ha potuto contare su “gregari” di lusso come Diego Della Valle, il cui peso sta crescendo a ma-

La posizione di Fiat, su cui Giorgio Squinzi, subito dopo l’annuncio della vittoria è voluto tornare, sostenendo che cercherà di fare quanto in suo potere per riportare il Lingotto in Viale dell’Astronomia, è un nodo importante per il futuro dell’associazione. Intanto, perché c’è chi sostiene che Marchionne abbia volutamente appoggiato il cavallo perdente, in modo da poter affermare che non si sono create le condizioni per un ritorno della Fiat; poi, perché una società che è legata a doppio filo con l’imprenditoria italiana, tanto da essere stata assimilata per decenni al sistema-imprese del nostro Paese, si sta viepiù allontanando dal nostro paese, creando, di fatto, un pericoloso precedente. Perché se è vero che nessuno può costringere un’azienda, per di più privata, a concentrare i propri investimenti nel nostro paese, lo è altrettanto che la Fiat, avendo beneficiato di incentivi ad hoc quando navigava in acque a dir poco agitate, non dovrebbe poter agire da impresa “normale”, avendo con il nostro paese un debito estremamente significativo, non soltanto in termini economici. L’uscita da Confindustria, e quindi dal sistema imprenditoriale nostrano, significa anche la volontà di non essere legata, mani e piedi, all’economia italiana. Che, mai come ora, avrebbe invece bisogno di poter contare su quei “grandi” capaci di giocare un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale. È presto per dire che cosa cambierà davvero in Confindustria: il fatto che Squinzi sia stato indicato da Emma Marcegaglia come candidato più appetibile fa capire come, probabilmente, non saranno particolarmente vistosi i mutamenti in seno all’associazione. È certo però che l’imprenditoria nostrana necessita di una vigorosa “mano di bianco”: per ritrovare la competitività perduta, per puntare su quel sistema di eccellenze (non solo agroalimentare e moda) troppo spesso dimenticato, per riscoprire l’importanza della ricerca e dello sviluppo e, di conseguenza, per dare vita a un ricambio generazionale che porti le idee di giovani brillanti, magari con esperienze significative all’estero, al potere. Perché i dati diramati dall’Istat e dalla stessa Confindustria certificano il crollo di quel “piccolo è bello” che per mezzo secolo ha permesso all’Italia di diventare la sesta potenza economica mondiale. Oggi, con un mercato globale sempre più ampio e con nuovi Paesi ormai pronti a giocarsi la loro partita, è necessario ripensare dalle fondamenta il sistema imprenditoriale italiano. È avendo chiara questa agenda che rivolgiamo a Giorgio Squinzi i nostri migliori auguri di un buon lavoro.


mondo

pagina 10 • 23 marzo 2012

Il capo dell’Eliseo guarda avanti e punta a mantenere il timone del Paese: «Prenderemo nuove misure contro il terrorismo». Ma Hollande cosa farà?

Un fallimento trionfale Tolosa, ucciso il killer. Sarkozy vola nei sondaggi, ma le polemiche sull’allarme sottovalutato infuriano di Enrico Singer a Francia tira un sospiro di sollievo. Aveva mostrato tutta la sua fragilità di fronte al terrorismo quando l’assassino jihadista aveva cominciato la sua mattanza, uccidendo prima tre paracadutisti e poi tre bambini ebrei e un giovane rabbino, proprio a un mese dalle elezioni che decideranno chi avrà le chiavi dell’Eliseo per i prossimi cinque anni. Era piombata nella sindrome di Atocha – l’attentato nella stazione di Madrid che, nel 2004, cambiò il corso della politica spagnola – e adesso se n’è liberata con un blitz che, sicuramente, farà molto discutere e che non cancella le tante ombre di questa terribile storia perché Mohammed Merah era sotto sorveglianza da quando era stato addestrato nei campi di al Qaeda in Pakistan e aveva combattuto con i talebani in Afghanistan, eppure ha potuto commettere un massacro come se fosse un serial killer venuto dal nulla. Ma ha dimostrato, almeno di saper reagire e di poter riparare – per quanto è possibile di frontre alla morte di innocenti – l’offesa subita. È un intreccio tra fallimento e trionfo che Nicolas Sarkozy dichiara pubblicamente di non voler sfruttare, ma che peserà molto sul voto del 22 aprile e che potrebbe premiarlo con una vittoria – finora davvero inattesa – sul suo sfidante socialista, François Hollande. Quando il corpo di Mohammed Merah era ancora coperto da un lenzuolo sotto la sua casa di Tolosa, Nicolas Sarkozy ha detto che «la Francia è rimasta unita e determinata», che «non ci deve essere spazio per l’odio» e che «tutto è stato fatto per assicurare l’assassino alla giustizia, ma che non si potevano mettere a rischio altre vite».

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Ha anche annunciato che saranno prese «nuove misure per reprimere l’apologia del terrorismo e della violenza». È già un programma per il futuro, è un impegno pronunciato da chi, a questo punto, crede più di prima di poter mantenere il timone del Paese. Sarkozy ha anche fatto sapere che oggi sarà a Strasburgo per riprendere la campagna elettorale che era stata sospesa in segno di lutto per le vittime

Due giorni di blitz cercando di negoziare la resa. Poi l’uccisione. Cosa è andato storto?

Non è colpa delle teste di cuoio. Ma dell’Fbi di Andrea Margelletti* li anni Settanta portarono in Europa l’esplosione del fenomeno del terrorismo urbano. Di fronte a queste nuove realtà, inizialmente scoordinate e con capacità militari minime, le forze dell’ordine dimostrarono subito la loro inadeguatezza. L’episodio che mise in luce quanto fossero incapaci le forze dell’ordine di affrontare con successo realtà ben organizzate, fu la sparatoria presso l’aeroporto di Fustenbruck nella quale persero la vita gli ostaggi israeliani catturati da Settembre Nero durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.

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A seguito di questa terribile debacle, ciascuna nazione decise di dotarsi di uno strumento d’intervento per la liberazione degli ostaggi. Ognuno scelse un approccio “nazionale”. Alcuni decisero di affidare questa missione alle forze speciali delle Forze Armate, altre nazioni ritennero di dover formare, invece, exnovo dei reparti di polizia specializzati nella cattura di esponenti di organizzazione terroristiche di alto profilo e nella liberazione di ostaggi. Questa fu la scelta intrapresa dall’Italia con la nascita del Nocs della Polizia e del Gis dei Carabinieri. Anche la Francia scelse questo tipo di approccio fondando il Gign (Gruppo d’Intervento della Gendarmeria Nazionale) ed il Raid (Ricerca Assistenza Intervento e Dissuasione della Polizia nazionale), protagonista dell’operazione di Tolosa. Questo reparto, con il quale ho avuto modo di confrontarmi e con il quale per diversi anni ho interagito, di stanza in uno splendido castello a Bievres, alla periferia di Parigi, ha una lunga storia di successi nella cattura di latitanti, terroristi di Action Directe e dell’Eta, e di liberazione di ostaggi. Ma allora come è possibile che, di fonte al mondo, si sia consumato un “blitz”della durata di quasi due giorni? La risposta è semplice. I reparti speciali europei, militari e non, ma in particolare quelli per la liberazione di ostaggi, hanno sempre rappresentato lo standard occidentale e per lunghi anni gli stessi statunitensi sono venuti in Europa per imparare. Dalle metà degli anni Novanta in poi, i contatti si sono particolarmente intensificati con due realtà: istruttori provenienti dalla divisione paramilitare della Cia e l’unità per la liberazione ostaggi dell’Fbi, l’Hrt (Hostage Response Team). La “forza” delle unità speciali europee è sempre stata la loro grande operatività. Nel loro succes-

so, ovvero nell’arresto dei principali esponenti del terrorismo nazionale, sta, tuttavia, l’inizio del loro processo di decadenza. Con la diminuzione delle attività operative ed il contestuale aumento delle stesse attività da parte dei colleghi statunitensi, dallo strapotere tecnologico ed economico che le unità Usa portavano con loro, si è passati all’importazione delle loro Sop (Procedure Operative Standard). Per tutti gli anni Settanta, di fronte ad una situazione definita nel gergo “barricata”, le unità europee avrebbero fatto irruzione e proceduto all’arresto, utilizzando naturalmente, in quanto forze di polizia, le armi solo come estrema risorsa. Ai primi anni Novanta arriva dall’accademia di Quantico dell’Fbi la figura del negoziatore. Individuo in grado di condurre una trattativa al fine di procedere al rilascio degli ostaggi o alla resa dei criminali/terroristi senza l’impiego della forza. In Italia, è stata la Polizia la prima ad avviare un corso sperimentale per negoziatori, corso al quale prese parte, tra gli altri, Nicola Calipari. Le tematiche venivano spiegate da un team di negoziatori dell’Fbi, dall’allora comandante dei Nocs, Maurizio Genolini e dal sottoscritto.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma la figura dell’esperto in negoziazione è diventata cardine in ogni attività di liberazione ostaggi o di “barricata”. Già nel 2004, quando il Geo della polizia spagnola circondò la casa nella quale si erano nascosti i terroristi, responsabili degli attentati dell’11 marzo di Madrid, non si fece immediatamente irruzione, ma fu un negoziatore ad avviare la trattativa e di fronte al desiderio di martirio dei terroristi non vi fu nulla da fare ed a subirne le conseguenze fu anche personale del Geo. Anche nel teatro di Mosca Dubrovka, nel 2006, furono i negoziatori a guidare la prima parte dell’azione, liberando diversi ostaggi, prima dell’intervento del Gruppo “Alfa”dell’Fsb che utilizzò anche gas stordenti. Questo è quello che è avvenuto a Tolosa. L’applicazione di un modus operandi da Swat americana in una situazione di “barricata”. Negoziazione sino alla resa del terrorista, ma solo se il terrorista si vuole… arrendere! Il Raid che ho conosciuto io avrebbe operato diversamente in maniera certamente diversa e, forse, sottolineo forse, con esito anch’esso diverso. *presidente Ce.S.I.

del terrorista. È una campagna elettorale in cui, inevitabilmente, riemergeranno i temi caldi della crisi economica che pesa anche sui francesi. Ma che non sarà più la stessa programmata dagli strateghi dei candidati. Lo dimostra anche l’intenzione di Sarkozy di chiuderla, il 20 aprile, con un discorso a Nizza che è una delle roccheforti del Front National di Marine Le Pen: è una vera e propria sfida all’esponente dell’estrema destra e un messaggio ai suoi elettori.

La France forte si difende soltanto votando per mantenere all’Eliseo l’attuale presidente che, da ieri, reincarna il giovane sindaco di Neully che intervenne personalmente per liberare i bambini di una scuola materna presi in ostaggio da uno squilibrato, o il combattivo ministro degli Interni di Chiarc che ebbe il coraggio di affrontare i giovani casseurs che bruciavano la periferia di Parigi. Anche durante l’omaggio funebre ai paracadutisti uccisi, nel cortile della loro caserma di Montauban spazzato dal vento, Sarkozy ha voluto parlare da presidente di tutti i francesi di fronte agli altri candidati, pure presenti, ma costretti ad ascoltarlo in silenzio. Nella caserma del 17° Rpg di Montauban, Nicolas Sarkozy ha introdotto l’altro punto-chiave del suo giudizio sulla strage commessa da Mohammed Merah. Non bisogna fare confusioni: «I nostri compatrioti musulmani non hanno nulla a che vedere con un terrorista e le sue folli convinzioni». In Francia, oltre alla più grande comunità ebraica, vive la più numerosa comunità musulmana d’Europa e Sarkozy non vuole che salti un equilibrio deli-


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23 marzo 2012 • pagina 11

Nello scontro finale feriti anche tre poliziotti

Un colpo alla testa. E l’incubo finisce Il terrorista è stato centrato da un cecchino mentre tentava la fuga di Luisa Arezzo appuntamento con la morte, Mohammed Merah l’ha avuto a mezzogiorno. Ed è stato di fuoco, con tanto di colt 45 in mano. Perché nonostante le aperture e promesse di resa, il terminator franco-algerino legato ad al Qaeda voleva morire «con le armi in pugno», e così è stato. Non sappiamo se per paura dell’arresto e soprattutto del “dopo” (possibile) o se per vocazione al martirio (ovviamente i siti jiahdisti salutano così la sua resistenza fino alla fine). Quello che resta, dopo questo blitz durato 32 ore, è la certezza di un incubo finito, stracciato dal colpo ad altissima precisione di un cecchino delle Forze speciali che, vedendo Merah saltare dal balcone in un estremo tentativo di fuga dopo una furiosa sparatoria con gli agenti, ha puntato il mirino sulla sua testa. Centrandola. Un gesto di «legittima difesa» dirà poche ore dopo il ministro dell’Interno Gueant. L’assedio dunque è finito. Il responsabile dei sette omicidi di Montauban e Tolosa, il terrorista con la telecamera al collo pronto a mettere on line le immagini delle sue stragi come fossero trofei e che aveva già individuato le sue prossime vittime, non è più un pericolo per la Francia. Che già guarda oltre, benché consapevole che “l’uomo nero” di Tolosa continuerà a far parlare di sè in quest’ultimo rush di campagna elettorale. Sarkozy lo voleva vivo. Non c’è riuscito. Ma bisogna riconoscergli di aver comunque garantito la sicurezza del Paese.

L’

cato e già tante volte messo alla prova. In questo momento anche per preoccupazioni elettorali, certo. Ma soprattutto perché quello che vogliono i terroristi della jihad islamica è impedire che la Francia sia la Francia e che l’Europa sia l’Europa, nella loro diversità e nella loro tolleranza che sono i valori più disprezzati dal fondamentalismo islamista e più importanti da difendere. «Prima di prendere di mira dei bambini ebrei, l’assassino di Tolosa ha sparato su dei musulmani», ha detto Sarkozy ricordando che i tre paracadutisti uccisi erano tutti di origine maghrebina e che, per il terrorista, erano traditori perché indossavano l’uniforme francese. Mentre il presidente parlava, in prima fila c’erano François Hollande, Marine Le Pen, François Bayrou, Eva Joly, Nicolas Dupont-Aignan: quasi tutti i candidati al primo turno A lato, il presidente Sarkozy. In alto, le vittime della strage alla scuola ebraica. In apertura, l’assedio alla casa di Rue de Vigné. A destra, il killer ucciso Mohammed Merah

delle elezioni presidenziali. Ufficialmente, un raro momento di unità nazionale, in realtà la foto finale della pausa imposta dal massacro.

Con i comizi che riprenderanno da oggi e con i sondaggi che già forniscono le nuove quote. L’ultimo, per la prima volta, assegna a Nicolas Sarkozy il 30 per cento delle intenzioni di voto contro il 28 per cento di François Hollande. È un ribaltamento delle previsioni sul quale pesano gli ultimi eventi che hanno visto Hollande come spettatore e Sarkozy come il grande protagonista, che ha molto rischiato – se Mohammed Merah non fosse stato scoperto, per il presidente sarebbe stata una prova d’incapacità – e che è riuscito a vincere la sua sfida più importante. Nei sondaggi guadagna due punti anche il candidato dell’estrema sinistra (il Front de gauche), Jean-Luc Mélenchon, che raggiunge al 13 per cento il centrista François Bayrou. Entrambi sono ad appena mezzo punto da Marine Le Pen che perde il 2,5 per cento delle intenzioni di voto e si ferma al 13,5 per cento. Ma anche questo sondaggio assegna ancora la vittoria finale, al ballottaggio del 6 maggio, al socialista Hollande con il 54 per cento contro il 46 attribuito a Sarkozy. E questa sfida il presidente non l’ha ancora vinta.

Il blitz finale è stato deciso soltanto ieri mattina e l’assalto è scattato alle 10,30, quando ormai era chiaro che Merah non si sarebbe mai arreso. Tutto è iniziato con il lancio di alcune granate illuminanti, il cui boato era stato scambiato dagli osservatori come lo sparo con cui il killer poteva essersi tolto la vita. Quindi,

per entrare nel covo i tre agenti del Raid, le forze speciali del ministero, sono passati sia dalla porta, scardinata durante la notte con una carica esplosiva, sia dalle finestre, le cui imposte erano state rimosse. Merah si era nascosto in bagno e quando gli agenti sono entrati nell’appartamento «ha risposto con estrema violenza», secondo quanto ha rivelato il ministro Gueant. Dopo l’irruzione, si è sentita una lunga serie di raffi-

Le forze speciali hanno trovato la telecamera e il film della strage alla scuola ebraica che di armi automatiche durata oltre tre minuti. Le teste di cuoio hanno lanciato bombe accecanti e gas paralizzanti. Il killer di Tolosa - secondo la ricostruzione di Gueant verso le 11.30 si era messo a sparare all’impazzata con una mitraglietta, riuscendo a farsi largo dalla sala da bagno fino al balcone del salone, e a saltare giù, giubbotto antiproiettile ben in vista, sempre continuando a sparare «con una violenza inaudita». La casa del killer si trovava infatti a un piano rialzato. «Arrivato a terra, ha cominciato a correre, sempre facendo fuoco, ed è stato ucciso». Il suo rifugio è stato passato al setaccio dalle forze speciali francesi, che dopo aver fatto irruzione hanno trovato la telecamera con la quale l’uomo ha filmato gli omicidi. E lo hanno guardato. Ma su quelle immagini vige un silenzio totale. E doloroso.


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La visita si concluderà il 29 marzo, dopo tre giorni anche nell’Isola di Cuba

Messico (e nuvole) nel viaggio di Benedetto XVI

Oggi l’arrivo del Pontefice in uno dei Paesi in cui la repressione e la violazione dei diritti umani continuano a essere la piaga più grave di Maurizio Stefanini oveva essere un’occasione per consacrare il nuovo volto della Cuba delle riforme di Raúl Castro. Invece, prima ancora di iniziare la visita di Benedetto XVI a Cuba è stata occasione di una nuova sfuriata repressiva: con l’arresto preventivo ancorché temporaneo di una settantina di militanti del movimento delle Damas de Blanco, che assieme allo sgombero di una chiesa occupata da altri 13 dissidenti è stata anche occasione di un inedito scontro tra la dissidenza stessa e l’episcopato. Con il cardinale Jaime Ortega che è a sua volta un ex-detenuto per motivi di opinione, ma che vorrebbe evitare di farsi trascinare da una logica stile “teologia della liberazione”. Non è però solo Cuba, che peraltro è una storia a parte in America Latina: sia perché il regime dei fratelli Castro si ostina a mantenere un sistema monopartitico ormai anacronistico; sia per l’arretratezza che l’ha mantenuta ai margini del boom economico latino-americano.

4,3% nel 2011, il 3,7% nel 2012. E ci sono Paesi latino-americani che nel 2011 sono cresciuti a livelli cinesi e oltre: dal 10,5% di Panama al 9% dell’Argentina, all’8% dell’Ecuador, al 7% del Perù, al 6,3% del Cile. Mentre per il 2012 si aspetta un +8% per Haiti, un +6,5% per Panama, un +5% per l’Ecuador, un +4,8% per l’Argentina. Ciò, mentre il mondo sviluppato da cui in passato l’economia latino-americana dipendeva continua a boccheggiare. Traducendosi anche in un calo continuo ancorché contenuto della disoccupazione: dal 7,3% del 2010 al 6,8% del 2011 e al 6,6% del 2012. Con un’inflazione stabile. In un contesto in cui a parte Cuba, che peraltro è un’eccezione anche in termini di non crescita, tutti i Paesi godono di Costituzioni

Un boom, questo, che sta cambiando il volto della regione. I rapporti del Fmi e quelli della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi dell’Onu, i dati di vendita della Fiat e le classifiche Forbes e Bloomberg sui miliardari, la direzione di emigrazione di spagnoli e portoghesi disoccupati per la crisi e i flussi mondiali dell’import e export confermano: l’America Latina è un’area del mondo che da almeno tre anni continua a crescere a livelli superiori alla media mondiale, anche se i livelli tendono a rallentare: il +5,9% nel 2010, il

pluraliste. E con una diffusione del benessere che è assolutamente trasversale al colore ideologico dei governi, dal momento che nel gruppo di testa abbiamo visto Paesi con presidenti di destra come Panama e Cile assieme a Paesi con governi di sinistra moderata come Argentina o Perù o addirittura di sinistra radicale come l’Ecuador. Ma non tutto è oro quello che luccica, e spulciando qua e là la cronaca recente ci accorgiamo come in particolare la situazione nel campo dei diritti umani in America Latina sia ben lungi dall’essere altrettanto entusiasmante.

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A parte l’ultima retata cubana lo scorso 27 febbraio, ad esempio, il presidente ecuadoriano Rafael Correa ha sì concesso il perdono a tre dirigenti del quotidiano El Universo che erano stati condannati a tre anni di carcere e 40 milioni di dollari di multa per ingiurie contro la sua persona, oltre ad annunciare che rinuncerà alla querela contro gli autori di un libro che rivelava vari intrallazzi di suo fratello Fabricio. Dopo essere stato definito «dittatore» da vari media ecuadoriani e stranieri e aver ricevuto un appello di protesta da 150 scrittori e intellettuali iberoamericani, però, Correa ha parlato di «remissione delle condanne che avevano meritatamente ricevuto», dopo aver risposto in malo modo alle critiche della Commissione Intera-

L’allarme sociale in America Latina è sempre a livelli altissimi. Nonostante sia una delle aree del pianeta che da almeno tre anni continua a crescere a livelli superiori alla media mondiale mericana per i Diritti Umani (Cidh). Insomma, non ha riconosciuto affatto il diritto dei giornalisti condannati alla critica anche dura, ma si è limitato a mostrarsi magnanimo. Il 15 febbraio a Comayagua, un carcere a 75 km dalla capitale dell’Honduras Tegucigalpa, 337 persone erano morte nell’incendio di una struttura concepita per 250 posti e in cui invece si ammucchiavano in 850. Sempre il 15 febbraio a Holguín, città a vocazione turistica nell’Oriente di Cuba, il 41enne turista italiano Roberto Avelli è morto in modo misterioso: secondo alcune testimonian-

ze raccolte dai giornali, precipitando da un edificio che sarebbe l’omologo locale di una questura. Il 16 febbraio a Quito la Corte Nazionale di Giustizia dell’Ecuador aveva appunto ratificato la sentenza che poi Correa ha condonato. Il 13 febbraio alla frontiera con il Paraguay era stato pure assassinato Paulo Roberto Cardoso Rodriguez: giornalista brasiliano impegnato sul fronte della corruzione, vittima dell’agguato di due motociclisti che gli hanno sparato contro 12 colpi. Il 18 febbraio il Centro Wiesenthal di Los Angeles aveva chiesto al presidente venezuelano Hugo Chávez di intervenire personalmente per frenare gli attacchi antisemiti contro il vincitore delle primarie dell’opposizione Henrique Capriles Radonski: presentato in un articolo di opinione pubblicato da Radio Nacional de Venezuela come «discendente di una famiglia di ebrei sefarditi di Curaçao e di una famiglia ebrea russo-polacca», e quindi aderente al sionismo «ideologia del terrore, dei sentimenti più putrefatti che rappresentano l’umanità». Dopo un mese Chávez ha dato una risposta un po’ contorta ma che potrebbe essere considerata positiva, nel senso che ha informato di come i servizi venezuelani avessero sventato un complotto per uccidere Capriles. «Non proveniente dal governo, anzi», ha chiosato: senza peraltro spiegare chi altri stesse dietro la misteriosa cospirazione. Il 19 febbraio un altro carcere è andato a fuoco: a Monterrey in Messico, anche se lì la morte di 44 reclusi appartenenti al Cartello del Golfo è servita a coprire la fuga di 30 appartenenti al rivale car-

tello dei Los Zetas. E pure il 19 febbraio dati del Centro de Estudios e Investigación en Desarrollo y Asistencia Social (Ceidas) messicano hanno dimostrato che tra 2001 e 2010 nel Paese erano morte 85.343 persone per denutrizione e 49.804 per opera del crimine organizzato. Ovvero, senza avere la stessa rilevanza mediatica, la fame in Messico uccide più dei narcos. La tragedia di Comayagua, in particolare, è avvenuta nel Paese più violento del mondo in termini relativi: 82,1 omicidi ogni 100.000 abitanti, equivalente a 6329 omicidi. Per fare un paragone: il dato italiano, relativo al 2009, era di 590 omicidi, pari a un indice di 1 su 100.000 abitanti.

Ma il secondo posto è dell’El Salvador: 5960 omicidi, indice di 41,4. Il sesto del Belize: 130 omicidi, indice di 41,7. Il settimo è il Guatemala: 5960 omicidi, indice di 41,4. Insomma il triangolo Honduras-El Salvador-Guatemala (del quale ultimo il Belize è una sorta di prolungamento) è il posto più pericoloso della Terra. Il rapporto Onu che ha stilato questa classifica indica esplicitamente nel narcotraffico da cocaina la ragione che ha portato gli indici di omicidi della regione a raddoppiare in cinque anni. «In America Centrale, un uomo ogni 50 sarà assassinato prima di compiere i 31 anni», afferma il rapporto. Per questo il neo-presidente del Guatemala Otto Pérez Molina si è ora clamorosamente aggiunto alla lista di chi richiede di far calare la violenza con un approccio di tipo antiproibizionista. Tra loro è in prima linea il presidente boliviano Evo Morales, che da tempo chiede la lega-


mondo rante l’ammutinamento che ebbe luogo in un carcere di Caracas durante un tentativo di golpe nel novembre del 1992. I 180 reclusi che morirono in un tentativo di sommossa nel carcere di Maracaibo, Venezuela, nel gennaio del 1994. I 40 detenuti che morirono nell’incendio di un penitenziario a Carabobo, Venezuela, nel maggio del 1001. Le 69 vittime dell’incendio che divampò durante uno scontro tra bande rivali nella fattoria penale di Porvenir, Honduras, nell’aprile del 2003. Le 107 vittime che ci furono in un carcere a San Pedro Sula, Honduras, nel maggio 2004. I 135 morti durante un tentativo di ammutinamento nel carcere di Higüey, Repubblica Dominicana, nel marzo del 2005. Gli 81 morti in un incendio provocato da una rissa tra gang rivali nel carcere di Santiago, nel dicembre del 2010. «Le condizioni delle carceri sono deplorevoli dal Messico all’Argentina», ha commentato vicepresidente della Comisión Interamericana de Derechos Humanos Rodrigo Escobar. Sul caso Avelli, poi, nell’immediato non è mancato chi sulla stampa italiana ha fatto subito balenare l’eventualità di un

Sopra, un cartellone a Cuba dà il benvenuto a Benedetto XVI che arriverà a La Havana il 26 marzo. A lato, scontri tra la polizia e i parenti dei detenuti morti per asfissia in un incendio nella prigione di Comayagua in Honduras lizzazione della coca: ma si tratta di una richiesta settoriale, e comunque si tratta di un leader con immagine radicale. Anche diversi presidenti collocabili al centro, al centrodestra o addirittura a destra, come appunto Molina, stanno però ora sostenendo idee simili. Sul tema, con Pérez Molina il presidente salvadoregno Mauricio Funes, di sinistra moderata, ha firmato una dichiarazione congiunta. Dal Costa Rica la socialdemocratica Laura Chinchilla dice che non si oppone a un dibattito «serio e rigoroso». Ma già a novembre il colombiano Juan Manuel Santos aveva detto che si possono legalizzare marijuana e cocaina «se ciò permette di sradicare la violenza dei narcos», e adesso anche il messicano Calderón dice che bisogna mettere il problema sul tavolo.Al vertice delle Americhe in agenda il 14 e 15 aprile della questione potrebbe formalmente essere investito lo stesso Barack Obama, anche se l’ambasciata Usa in Guatemala ha subito messo i paletti. Non va però

Il triangolo Honduras-El Salvador-Guatemala è il posto più pericoloso della Terra. Secondo l’Onu, è il narcotraffico da cocaina la ragione che ha portato gli indici di omicidi a raddoppiare in soli cinque anni dimenticato che il Paese al mondo dove avvengono più omicidi in senso assoluto è il Brasile del boom. 43.909 omicidi sui 468.000 che sono avvenuti nel mondo nel corso del 2010: 22,7 per ogni 100.000 abitanti. Il quinto posto relativo del Venezuela con 49 omicidi ogni 100.000 abitanti e il terzo assoluto del Messico valgono a ricordarci come appunto l’impotenza verso la violenza in America Latina è largamente trasversale al colore dei governi e anche al successo o insuccesso economico.

Come largamente trasversale è il fenomeno delle carceri che bruciano. Una lista molto generale e incompleta ricorda gli 11 morti e 110 feriti durante la rivolta di un carcere a San Paolo nell’ottobre del 1992. I 60 morti du-

“caso Pinelli cubano”. 41enne falegname di Mozzanica (Bergamo), Avelli aveva deciso di lasciare Cuba tre giorni dopo il suo arrivo per una vacanza di tre settimane, e non si sa cosa avesse fatto dopo aver salutato i due amici partiti con lui, che si trovavano a 200 km di distanza al momento della morte. Si sa che aveva chiamato un amico in Italia alle 23 della domenica precedente, dicendo che aveva paura. «Se mi succede qualcosa sai perché è successo». «Non era chiaro cosa stesse succedendo, anche perché la linea era disturbata», ha detto l’amico. «Io gli ho detto di restare con i due amici in modo da essere più al sicuro, anche perché ero convinto che fossero ancora tutti e tre insieme. Ma a questo punto la linea è caduta e non sono più riuscito a parlargli». La

e di cronach

polizia cubana ha parlato di suicidio, ma Cuba non è uno Stato di Diritto: lo hanno ricordato da un lato la recente morte del detenuto politico Wilman Villar Mendoza, attribuita da Amnesty International al regime: dall’altro il nuovo rifiuto alla blogger Yoani Sánchez di un visto per potersi recare all’estero. Eppure, proprio Yoani Sánchez ha contribuito a scagionare la polizia cubana dai peggiori sospetti, riportando le testimonianze sul crollo di un muro in cui l’italiano sarebbe deceduto assieme a uno spagnolo. Insomma, né suicidio, né omicidio. Un semplice incidente in un edificio che soffriva di scarsa manutenzione, e di cui però il regime non dà informazioni precise proprio perché non è buona immagine far sapere che gli uffici pubblico possono venire giù da un momento all’altro.

Senza arrivare agli eccessi cubani, però, le notizie sulla condanna in Ecuador e sul delitto in Brasile ricordano come questi siano tempi difficili per la stampa un po’in tutta l’America Latina. Particolarmente tesa è la situazione in alcuni Paesi con governi di sinistra: a parte l’Ecuador, anche Argentina e Venezuela. Ma uno dei quattro condannati in Ecuador, il direttore dell’Universo Carlos Pérez Barriga, ha chiesto e ottenuto asilo in una Panama in cui il governo di Ricardo Martinelli è sì di opposto colore politico, ma a sua volta si è mostrato intollerante con la stampa critica. E non solo con quella: dalla repressione di una protesta di indigeni che ha provocato due morti, alla nomina di suoi accoliti a tutti i livelli giudiziari possibili, all’uso del tutto arbitrario dei fondi pubblici, all’espulsione di giornalisti stranieri. Ma il caso Cardoso ricorda che la libertà di stampa può essere colpita con strumenti più brutali dei tribunali. Pochi giorni prima di lui, d’altronde, anche il giornalista Mario Randolfo Marqués Lopes era stato ucciso nello Stato di Rio de Janeiro, dopo essere stato sequestrato in casa con la fidanzata. I giornalisti assassinati nei primi due mesi del 2012 si uniscono ai 5 già uccisi in Brasile nel 2011. Ma 5 giornalisti erano stati uccisi anche in Messico, tre in Perù, uno a Panama e uno in Colombia. Reporter Senza Frontiere ha segnalato anche le «persecuzioni sistematiche contro mezzi di comunicazione dell’opposizione e radio comunitarie in Honduras»; «il clima esecrabile» tra il governo di Ricardo Martinelli e il giornalismo panamense; «minacce, esilio e sospensioni dal lavoro forzate» contro i giornalisti in Colombia; la moltiplicazione dei processi per diffamazione e ingiuria in Perù; «violenza contro i giornalisti, attentati contro redazioni, aggressioni fisiche a attacchi via Internet» in Cile, soprattutto a opera dei carabeneros durante la rivolta studentesca.

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cultura

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Oltre 80 lavori mai giunti nel nostro Paese, tra cui 50 olii, oltre a terrecotte, bronzi, acquerelli e schizzi di pitture murali

Le linee (inedite) di Mirò Al Chiostro del Bramante di Roma, una mostra dedicata al grande pittore surrealista di Rita Pacifici ei primi anni Venti del Novecento, a Parigi, Ernest Hemingway si gioca a dadi con un amico il privilegio di acquistare un olio di Joan Mirò, raffigurante la casa di campagna a Montrig dell’artista catalano. La sorte lo favorisce e lo scrittore non si separerà mai più da quel quadro che lo seguirà in tutti i suoi numerosi spostamenti per il mondo. Quel che aveva colpito Hemingway di questa intensa e primitiva visione della Catalogna, era la capacità dell’autore di aver saputo esprimere sia la piena presenza di un luogo sia il sentimento della sua assenza, due elementi raramente uniti. E, con l’istinto del narratore, aveva forse fiutato il germe di un’idea importante, la genesi di un racconto lungo e vitale. Quando nel ’22 aveva terminato di dipingere a Parigi quell’opera iniziata nel paese di nascita,

N

nel ‘56 facendo costruire da Joseph Lluis Sert uno studio provvisto di grandi vetrate affacciate sul mare. Qui vivrà, alternando ancora viaggi in Francia e in America, fino al ‘83, anno della sua morte.

È a questa stagione fertile, caratterizzata da una ricerca ancora vivacissima, che guarda con particolare riferimento, pur offrendo testimonianze dell’intero percorso creativo, la monumentale mostra che si apre a Roma al Chiostro del Bramante: Joan Mirò, poesia e luce, curata da Maria Luisa Lax Cacho. Oltre ottanta lavori mai giunti nel nostro Paese, tra cui cinquanta olii di grande dimensione ma anche terrecotte, bronzi, acquerelli e gli schizzi delle pitture murali che gli furono commissionate in America, provenienti proprio dal rifugio mediterraneo dell’artista

Esposti anche gli strumenti originali che l’artista usava per realizzare le sue opere multiformi: i dipinti, le sculture, le ceramiche, le litografie, le acqueforti e i “quadri non quadri” Mirò non era ancora dadista né surrealista ma componeva paesaggi nello stile “particolarista”, un naif rivisitato attraverso le novità formali delle avanguardie e così aveva scritto: «Al momento, quello che mi interessa di più è la calligrafia di un albero o di un tetto, foglia per foglia, ramo per ramo, filo d’erba per filo d’erba, tegola per tegola. Ciò non significa che questi paesaggi non finiranno per essere robusti o insensatamente sintetici. Staremo a vedere». Quel che accadrà, nel breve giro di un anno, è un radicale mutamento che li renderà irriconoscibili, sempre più sottili e fantastici e poi così sintetici da raggiungere il vuoto, ma il richiamo di una natura arcaica, potente ed elementare al tempo stesso, attraversa tutta l’opera dell’artista, fonte di ispirazione continua e di una poesia inesauribile. Nato a Barcellona nel 1893, Mirò è profondamente legato all’isola di Maiorca, dove trascorre da bambino le sue estati e dove si sposa con Pilar Juncosa nel ‘29, ed è in questa isola che, dopo aver vagato tra la città natale, Montrig e Parigi, metterà radici

diventato l’importante Fondazione Pilar i Joan Mirò. Integra il corpus delle opere, un omaggio particolare a questo luogo ricco di fermenti creativi, evocato in mostra attraverso gli strumenti originali che l’artista usava per realizzare le sue opere multiformi: i dipinti, le sculture, le ceramiche, le litografie, le acqueforti e quei quadri non quadri, chiazzati dal colore e poi rielaborati con chiodi, fili, chiavi, ganci, nel tentativo di fecondare, di «far nascere un mondo» anche da ciò che appariva sterile e inerte.

André Breton lo considerava «il più surrealista di tutti» e, del gruppo, Mirò è certamente il più allegro, dotato di una fantasia piena di grazia, artefice di immagini che non appaiono turbate né dagli incubi, né dagli enigmi di tanta pittura dei suoi compagni di strada. Le inquietudini, le contraddizioni proprie dell’epoca, l’artista spagnolo le riverserà piuttosto in questo impulso a giocare con materiali diversi, lasciando affiorare in superficie qualcosa di festoso, un carattere leggero e fiabesco. Già nel ‘23 il

In queste pagine, alcune delle opere di Mirò esposte nella mostra “Joan Mirò, poesia e luce”, al Chiostro del Bramante di Roma fino al prossimo 10 giugno” pittore ha abbandonato i paesaggi realistici e ha trovato una personale iconografia con una serie di dipinti onirici, tra cui quel Carnevale di Arlecchino composto di oggetti sospesi, di forme curiose, di strani e minuscoli esseri che si stabiliranno definitivamente nella sua pittura e che apparve davvero espressione di quell’arte rivoluzionaria che Breton teorizzerà nel suo manifesto. Ma tra i surrealisti Mirò sarà anche il più libero, insofferente alle definizioni, pronto a difendere la propria autonomia espressiva. Del resto il suo stesso automatismo è impreciso, imperfetto, fondato più che su associazioni interiori e inconsce, come suggeriva la nuova

arte, su stimoli visivi esterni e reali: i dettagli minuti, le pieghe poco visibili di un mondo naturale e vegetale che non è più percepito in modo organico ed è ricomposto in modo irreale attraverso la metamorfosi.

Da sollecitazioni concrete Mirò parte, infatti, anche per i suoi Interni olandesi, eseguiti nel ’28, capolavori dei maestri fiamminghi reinterpretati e tradotti in questo alfabeto fantastico, ma poi, sempre più incamminato sulla strada della sperimentazione, l’artista inizia a comporre i suoi primi collage-oggetti, le cosiddette Ballerine spagnole, eco di un motivo già comparso e ora reso più astratto, e le prime opere tridimensionali, le sculture-oggetto. È il Mirò dadaista che cerca di «assassinare la pittura» e ogni rigurgito di figurazione realista, anche quando la vita preme e incombe con immani catastrofi. L’arte di Mirò non intercetterà in modo diretto, esplicito, la Storia, come accade a Picasso nel ‘37 con Guernica. Tuttavia talvolta l’artista sembra

flettersi alle sollecitazioni esterne e la pittura degli anni della guerra civile spagnola e del franchismo, anni vissuti in Francia, registra contraccolpi e sussulti, diventa impetuosa e aggressiva. È il caso dei “dipinti selvaggi” su cartone e rame, dalle figure mostruose e dai colori stridenti e di una serie di pitture su masonite del 36’, che l’artista realizza imbrattando le superfici con la pece, il bianco di caseina, la sabbia e la ghiaia. «Una Guernica della psiche umana» è stato detto, lavori “tellurici”e istintivi, che anticipano in modo sorprendente le svolte informali del dopoguerra. Talvolta invece, l’arte di Mirò è in una tensione dialettica con la


23 marzo 2012 • pagina 15

alludono alla sessualità e alla fertilità, all’eterno ciclo di vita e morte, elementi asciutti, essenziali, che il maestro assemblea in collage, trasferisce su carta, metallo e persino su tela da vela e su tele bruciate. Da qui e dalle memorie artistiche più antiche della Catalogna, i segni rupestri di Altamura o i grandi cicli di affreschi medievali che affascinano profondamente Mirò, provengono i suoi misteriosi e giganteschi personaggi anfibi, come quelli che compongono il Labirinto per la Fondazione Maeght di Saint Paul de Vence. Creature bizzarre ma in fondo solide e terrene che ben esprimono «quel misto di capriccio e regola, di oculatezza e generosità», come ha osservato Gillo Dorfles, che è l’essenza stessa della mentalità catalana.

Qualcosa di nuovo accade ancora negli anni Sessanta, quando Mirò torna alla pittura, trascurata per la ricerca tridimensionale. L’artista fa autocritica, distrugge dipinti e disegni, oppure li cancella applicandovi sopra ritagli di giornali, come fa con un paesaggio del 1908, sua prima opera documentata e ora di nuovo visibile. Poi l’ispirazione si rinnova e mentre le immagini e i titoli delle sue opere rimandano ai temi prediletti, il repertorio si fa più spoglio e astratto. Con la serie Blu del ‘61 le superfici si dilatano, solcate appena da apparizioni lineari, da sottilissimi fili e macchie nere irregolari che galleggiano nel colore. Una semplificazione della tavolozza maturata sulle suggestioni dell’arte orientale, che caratterizza anche tre paerealtà e suoi orrori e una forza opposta la spinge lontano, verso l’irraggiungibile quiete degli astri, verso il moto perpetuo e incontaminato dell’universo di cui riuscirà a farci percepire il silenzio e la musica. È quanto accade con la serie Costellazioni, i ventitré dipinti concepiti tra il 20 gennaio ’40 e il 12 settembre del ’41, durante la seconda guerra mondiale, in Normandia, quando l’artista contempla il cielo stellato, disegna arabeschi sulla sabbia, ascolta Bach e Mozart nel desiderio assoluto di pace. È ancora una volta la natura a provocare uno stato di choc produttivo, la scintilla di quelle composizioni serene, equilibrate, pieni di occhi

Tra i surrealisti, fu il più libero, insofferente alle definizioni, pronto a difendere la propria autonomia espressiva. Del resto, il suo stesso automatismo appare piuttosto impreciso e imperfetto

dalle lunghe ciglia, di stelle e lune, di cerchi, clessidre e tantissimi punti neri che somigliano a piccoli mondi, figure che sembrano generate l’una dall’altra da un ritmo interiore e necessario. Le costellazioni sono un approdo, il segno di un attraversamento compiuto in un dolore mai manifesto e rappresentano una delle massime realizzazioni di quest’arte dal potere consolatorio e quasi magico.

Queste iconografie celesti e terrestri appena accennate, stilizzate, che appaiono schizzi di mani puerili e inesperte, si riverseranno copiose in tutta la sua produzione e si ritrovano anche nella prima commissione pubblica americana, il murale per il Terrace Plaza Hotel di Cincinnati del ’47, seguito, nel decennio successivo, da quelli per l’Università di Harvard e per la sede dell’Onu di New York. Il contatto con le ricerche artistiche americane dominate da Pollock e dall’action painting, avrà un effetto dirompente sull’evoluzione del linguaggio di Mirò. Dal ‘44 il pitto-

re ha esteso i suoi interessi alla scultura e realizza opere in bronzo, in ceramica e in terracotta, ma dopo il viaggio in America, il modo di dipingere si fa ancora più spontaneo e povero di segni e la curiosità ad esplorare forme e materiali diversi si intensifica. Quando ritorna nell’isola di Maiorca, nel nuovo studio di Son Abrines, a cui si aggiungerà nel ‘59 la proprietà di Son Boter, autentici “orti” dai frutti rigogliosi, Mirò si circonda di oggetti legati alla terra e all’artigianato locale: sassi, conchiglie, rami, anfore, fiasche, aratri, ruote di mulini, maschere rituali. Da qui provengono i graffiti, le linee curve delle sue donne, i piccoli simboli che

saggi del ‘73 e alcuni oli del ’78, monocromatici, dominati dal nero, privi di qualsiasi spazialità volumetrica. Ma al grande lirismo del vuoto e del calligrafismo si affianca anche un astrattismo di segno contrario, più immediato ed energico. Esemplari, a questo proposito, sono le tele dipinte tra il ‘68 e il ‘72 subito dopo la contestazione parigina, affini a Maig ’68, dai fondi fluidi e policromi ottenuti con lo sgocciolamento delle tinte, su cui Mirò interviene tracciando con il nero un mosaico di blu rossi, gialli, verdi, e che rivelano un approccio del tutto gestuale alla pittura. Ormai il maestro ha abbandonato il cavalletto, dipinge poggiando i quadri in terra, distribuisce il colore con i pugni, cammina sulle tele e lascia le sue impronte, come in Poema del ‘66 e in Donna del ‘73. Dipingere è sporcarsi, immergersi senza schermi, senza neppure il filtro dei suoi esili personaggi, abbandonarsi allo spirito di un tempo anarchico e ribelle. Mirò muore, novantenne, il 25 dicembre del 1983. Negli ultimi anni della sua vita lavora per le scene e i costumi del balletto

L’Uccello Luce, attività che ha sempre praticato con passione sin dagli esordi, alle sculture monumentali destinate a Chicago e a Houston. Sono dell’81 una maschera dal volto severo e una testa imponente di ceramica, qui in mostra, dalle quali affiorano ancora una volta asperità e una certa ruvidezza. Nell’82 Donna e uccello è collocata nel parco a lui intitolato nella città di nascita, simbolo di un’arte che è stata per buona parte del novecento un inno gioioso alla vita e al potere dell’immaginazione.

Un indimenticabile ricordo del maestro spagnolo è affidato alle telecamere, che nel ‘69 lo riprendono a Barcellona, un anno esatto dopo il maggio francese, mentre, accompagnato dagli studenti, traccia con un enorme pennello le sue semplici ma inconfondibili linee sulle vetrate del Collegio degli Architetti. La storia ha fatto scendere l’artista in strada e, in quest’occasione, ci appare davvero come lo descrisse Jacques Prevert «un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni».


ULTIMAPAGINA Domani e domenica, 670 monumenti rari saranno aperti per la ventesima edizione della Primavera del Fai

Ecco la mappa dell’Italia da di Angela Rossi a vent’anni, ogni volta un’Italia mai vista!», con questo slogan scelto dalla Fai, l’arte nascosta spalanca le porte ai visitatori. Saranno 670, infatti, i siti aperti e messi a disposizione nei giorni 24 e 25 marzo dal Fondo Ambiente Italiano per festeggiare la XX edizione della Giornata della Primavera. Luoghi pieni di storia e simboli di cultura, normalmente inaccessibili al pubblico, dal Nord al Sud del Paese: 670 siti sparsi in 256 località italiane. Nella Capitale apre le porte il Complesso Borromiano dell’Oratorio dei Filippini, costruito nel Seicento su progetto di Borromini, dove si potrà visitare anche un tratto degli Acquedotti Claudio e Felice lungo via Tuscolana; a Milano, per la prima volta, sarà accessibile il Palazzo della Banca d’Italia dove si potranno ammirare, oltre agli arredi originali, i dioscuri di Giò Pomodoro e alcune opere di Balla, Guttuso e Hayez; si potrà entrare nei Laboratori Ansaldo, cuore della nascita degli spettacoli rappresentati al Teatro alla Scala sia per quanto riguarda le scenografie sia i costumi di scena. A Venezia aprirà la Chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti che conserva opere di Veronese e Tintoretto. Dalla Capitale, dopo la risalita al Nord, si potrà invertire la marcia e raggiungere la Campania. Qui, a Napoli si potrà visitare la Pontificia Reale Basilica di San Giacomo degli Spagnoli, all’interno di Palazzo S. Giacomo, sede del Municipio e dove è conservato il sepolcro di Don Pedro di Toledo, vicerè spagnolo.Vale la pena di percorrere qualche chilometro per ammirare mosaici della Villa Romana del Naniglio a Gioiosa Jonica, aperto per la prima volta nel 2007 ma che per l’edizione che comincia domani riserva un’altra sorpresa: nuovi mosaici ritrovati durante gli ultimi scavi. Va detto

«D

«Con questa iniziativa», ha detto il ministro Ornaghi, «siamo ancora una volta in prima linea in difesa del patrimonio storico-artistico che rende il nostro Paese unico» anche che l’ingresso sarà ad offerta libera. «Con questa iniziativa - ha sottolineato il ministro Ornaghi alla presentazione dell’evento - il Fai dimostra ancora una volta di essere in prima linea in difesa del patrimonio storico-artistico che rende il nostro Paese unico. Si tratta di una manifestazione giovane che intende coinvolgere i giovani». Novità anche sul fronte tecnologico. Per la prima volta, il Fai presenta un’applicazione per smartphone e tablet pc Apple e Android interamente dedicata alla Giornata di Primavera, scaricabile gratuitamente e utilissima per trovare facilmente tutte le informazioni sui 670 beni aperti in tutte le regioni. Sarà così possibile conoscere orari, informazioni storiche, aperture riservate agli Iscritti Fai e la geolocalizzazione su Google Maps dei beni aperti, ovunque e in qualsiasi momento. Diamo ancora uno sguardo a un’altra bellissima regione, la Puglia. Qui, a Trani, saranno aperti Palazzo Covelli e Palazzo Elifani. Palazzo Covelli fu costruito tra il XV e il XIV secolo dalla famiglia De Boctunis ma è col passaggio, nel 1753, alla famiglia For-

SCOPRIRE ges Davanzati che assunse il suo aspetto attuale. Passò poi ai Covelli nel 1832. Palazzo Elifani fu costruito nel corso del XIX secolo. A Bisceglie si potranno ammirare i casali di Giano, Pacciano, Zappino e il Castello. Saranno oltre 15mila i giovani studenti che illustreranno i monumenti. Per quanto riguarda la Provincia di Lecce, i luoghi da tenere in considerazione sono il sito archeologico delle Mura messapiche di Rudiae, in località Rugge, la Filiale leccese della Banca d’Italia e la Scuola Agraria Presta Columella, il cui edificio era un convento cinquecentesco dei Frati Cappuccini.

Moltissimi i monumenti da visitare in Campania a cominciare da Villa Rosebery a Posillipo, residenza napoletana del presidente della Repubblica ma anche Palazzo San Giacomo che riapre dopo 15 anni. In provincia poi ci sono il museo archeologico Diocesano di Castellammare di Stabia fino alla Baia di Ieranto a Massa Lubrense e al Castello Mediceo di Ottaviano. In totale sono 45 i monumenti aperti in Campania, 18 soltanto tra Napoli e Provincia. Qui accanto, Villa Madama a Roma; in alto, le Terme di Catullo a Sirmione. Sono due dei tanti luoghi che domani e dopodomani saranno accessibili, grazie alla consueta iniziativa del Fai

A Viterbo, tra catacombe, palazzi storici e privati si potrà scegliere come si desidera. Saranno aperte le catacombe di Sant’Eutizio, presso Palazzo Chigi Albani, la Chiesa di Santa Maria del Poggio ed il suo chiostro. A Capua, in provincia di Caserta, sono previste diverse attività di animazione tra cui il soft rafting sul fiume Volturno con il NavigaVolturno guidato dall’olimpionico di canottaggio Davide Tizzano; in piazza dei Giudici, mostra degli artisti del Museo d’Arte Contemporanea di Capua e degustazioni di prodotti d’eccellenza. Infine, ma solo per dare un’idea a conclusione di un viaggio ideale, chiudiamo con Brescia dove 3 sono i temi portanti e cioè: puntiamo i riflettori su Sirmione con visite guidate all’area archeologica delle Grotte di Catullo e al parco della Villa Cortine; le visite organizzate per i cittadini stranieri immigrati del progetto “Arte un ponte fra culture” che saranno in inglese, francese, arabo, spagnolo, russo, ucraino, urdu, bangla e portoghese; e infine i tesori di Antonio e Giovanni Tagliaferri protagonisti dell’architettura bresciana tra Otto e Novecento.


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