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he di cronac

C’è solo un modo di dimenticare il tempo: impiegarlo. Charles Baudelaire

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 20 MARZO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Quirinale: grave l’assenza di un’intesa. Ma la Fiom sciopera

Napolitano: l’Italia vuole l’accordo Appello del Colle per il vertice di oggi: «Le parti sociali siano responsabili». Nessun documento comune dei sindacati Un rabbino e tre ragazzi uccisi nella scuola ebraica

di Marco Palombi

Orrore antisemita a Tolosa: strage di bambini ebrei In Francia è caccia all’uomo: nel mirino i gruppi neonazisti. L’arma che ha ucciso è la stessa usata per l’attentato del 15 contro i parà *****

Una striscia di sangue attraversa l’Europa

Come a Oslo: un criminale cocktail di odio e follia di Luisa Arezzo he succede a Tolosa? Quello contro la scuola ebraica è il terzo attacco a colpi d’arma da fuoco nella zona in pochi giorni. Gli obiettivi precedenti erano stati dei militari di origine magrebina a Tolosa e Montauban, a soli 46 Km. dalla cittadina. Gli inquirenti sono certi di essere in presenza di un serial killer neonazista. Dietro la stessa arma si celerebbe dunque la stessa mano. Quella di un lupo solitario cresciuto fra odio e follia. Come Breivik.

C

ROMA. Oggi è il giorno più importante. Imprese e sindacati saranno per l’ennesima volta a colloquio col governo, ma stavolta a palazzo Chigi, non al ministero del Welfare, sulla riforma del lavoro e ci arrivano più o meno tutti in ordine sparso. Per questo, in serata, Giorgio Napolitano manda a dire che «sarebbe grave la mancanza di un accordo: è il momento di far prevalere l’interesse generale su qualunque calcolo particolare». Come che sia, né le associazioni datoriali – Pmi e artigiani di Rete Imprese inferociti, Confindustria in ostile surplace – né quelle dei lavoratori sono riusciti a mettere insieme una posizione comune: l’unico dato certo è che a nessuno piace davvero la bozza proposta dal ministro Elsa Fornero. Ma al tempo stesso tutti sembrano consapevoli che, arrivati a questo punto delle trattative, un fallimento sarebbe disastroso. a pagina 2

Lettera aperta dell’ex segretario della Cisl

Fate di tutto, firmate il rilancio del Paese di Savino Pezzotta responsabili delle rappresentanze sindacali sanno meglio di chiunque altro qual è la situazione nella quale si sta svolgendo questa difficile trattativa. Conoscono la difficoltà di mantenere il posto di lavoro o, peggio ancora, di trovarne uno nuovo. Sanno che i cittadini che lavorano vedono le loro prospettive ingarbugliarsi. Insomma: qui non c’è alcuna lezione da dare i sindacati che, appunto, sanno bene per proprio conto come stanno le cose in Italia. a pagina 5

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Non ci sono passi avanti per la liberazione dei due italiani

Il complesso indiano

a pagina 10

L’ex ambasciatore: «Usciamo dalle incomprensioni»

La storia del conflitto razziale in Francia

Due secoli di persecuzioni da Napoleone alle banlieue

di Antonio Picasso Italia paga lo scotto di una prolungata disattenzione da parte dei nostri governi nei confronti dell’India». A dirlo è Antonio Armellini, ex ambasciatore e rappresentante del Bel Paese proprio a Delhi dal 2004 al 2008. Il suo libro, L’elefante ha messo le ali, descrive proprio quella maturità politica ed economica indiana di cui l’Italia non si è accorta. Lo intervistiamo prendendo spunto dalla criticità che, in questi ultimi giorni, sta tenendo quotidianamente aperti i canali di comunicazione tra i due Paesi. a pagina 6

«L’

di Maurizio Stefanini a Francia è stato il Paese del caso Ilan Halimi: il giovane ebreo che nel 2006 fu rapito e trucidato dopo tre mesi di torture da una gang di giovani maghrebini che si ostinavano a voler estorcere un ricco riscatto da una famiglia povera, che secondo loro doveva essere per forza facoltosa proprio in quanto ebrea. Un rapporto del 2002 mostrò che in un anno gli atti di antisemitismo si erano sestuplicati. a pagina 12

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

55 •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Vertice di due ore tra Camusso, Angeletti e Bonanni. Anche il ministro Fornero punta a una posizione «condivisa dai sindacati»

L’endorsement del Colle

Napolitano: «Sul lavoro, un accordo senza tutti sarebbe grave». Cgil, Cisl e Uil cercano una mediazione. La Fiom non ci sta: sciopero di Marco Palombi

ROMA. Oggi è il giorno più importante. Imprese e sindacati saranno per l’ennesima volta a colloquio col governo, ma stavolta a palazzo Chigi, non al ministero del Welfare, sulla riforma del lavoro e ci arrivano più o meno tutti in ordine sparso. Per questo, in serata, Giorgio Napolitano manda a dire che «sarebbe grave la mancanza di un accordo: è il momento di far prevalere l’interesse generale su qualunque calcolo particolare». Come che sia, né le associazioni datoriali – Pmi e artigiani di Rete Imprese inferociti, Confindustria in ostile surplace – né quelle dei lavoratori sono riusciti a mettere insieme una posizione comune: l’unico dato certo è che a nessuno piace davvero la bozza proposta da Elsa Fornero. Per stare al lessico del Novecento, i “padroni” non gradiscono né la razionalizzazione (leggi diminuzione) delle forme contrattuali flessibili né l’aumento dei costi per le imprese; alle “organizzazioni di classe” non va giù la possibilità di licenziamenti anche individuali per motivi economici (altrimenti detta, la parziale riforma del famoso articolo 18). Ad entrambi, infine, non fa piacere dover dire addio alla Cassa integrazione in favore di un’assicurazione individuale che copra chi rimane senza lavoro (qualunque fosse il suo contratto e la sua azienda, a differenza

Attilio Befera annuncia un nuovo regolamento per le liti fino a 20mila euro

Cambiano i contenziosi fiscali: mediazione e multe ridotte ROMA. Piccola-grande novità nei rapporti tra i cittadini e il fisco: le liti fiscali di piccola entità, quelle fino a 20 mila euro, potranno essere risolte con una mediazione che eviti il contenzioso e che garantisce una riduzione delle sanzioni al 40%. È l’iniziativa presentata ieri dal direttore dell’Agenzia delle entrate Attilio Befera. In sostanza, si tratta di oltre 110 mila liti, pari al 66% del contenzioso fiscale, che dal primo aprile potranno risolversi con una proposta di mediazione da presentare entro 60 giorni dalla notifica di avviso di accertamento e che si dovrà concludere nel giro di 3 mesi. In caso di chiusura positiva della mediazione verrà sottoscritto un accordo in base al quale le sanzioni vengono ridotte al 40%. «Non si tratta assolutamente di un condono. La mediazione è trovare una soluzione», ha spiegato il direttore dell’Agenzia delle entrate, aggiungendo: «Se la mediazione avrà successo, l’Agenzia delle Entrate chiederà un’elevazione della soglia». L’iniziativa, ha spiegato Befera, «è diretta ad alleggerire il lavoro delle Commissioni tributarie che potranno dedicare più attenzione alle cause di maggior valore». Befera, comunque, ,ha rilanciato l’emergenza evasione e, rispondendo ai rilievi del garante della Privacy (che aveva sottolineato come spesso in questi casi si sia rischiato di andare oltre i limiti), ha detto: «Abbiamo 120 miliardi di evasione e a fronte di questa emergenza bisogna prendere provvedimenti d’emergenza. E credo che lo stesso garante abbia sostenuto

la necessità, in un momento di difficoltà del Paese, di andare avanti con tutte le cautele e le precauzioni necessarie nel contrasto all’evasione fiscale». Quanto l redditometro, Befera ha confermato che l’Agenzia delle entrate ci sta lavorando: «Entro giugno sarà pronto. Sarà uno srumento efficace e di facile utilizzo. Vogliamo prenderci un po’ più di tempo, ma farlo bene». Intanto, forse anche in risposta ai rilievi dell’Authority sulla privacy, ieri in Senato sono stati presentati degli emendamenti, a firma rispettivamente Pdl, Pd e Lega, che cancellano la pubblicazione di liste selettive di commercianti, segnalati per la non emissione di scontrini, dalle quali l’amministrazione fiscale può attingere per fare i controlli. La misura originaria era contenuta nel decreto legge fiscale, all’esame delle Commissioni Bilancio e Finanze del Senato. Il comma 8 dell’articolo 8 del provvedimento prevede forme di controllo più stringenti nei confronti di soggetti più volte segnalati al fisco e autorizza l’Agenzia delle entrate ad elaborare liste selettive da usare per i controlli dei contribuenti che sono stati segnalati ripetutamente in forma non anonima. Gli emendamenti chiedono di cambiare questo passaggio, ammorbidendolo: per essere inseriti nella ”black list” non sarebbe più sufficiente la sola segnalazione, ma diventerebbe necessario che le violazioni da parte dei commercianti siano state ”constatate”.

di quanto accade oggi): Cig e mobilità infatti sono la base del potere comune di grandi imprese e grandi sindacati, la crepa nel muro da cui fanno politica (industriale o d’altro genere) coi soldi dello Stato. Ognuno, di fronte a questa novità, sta insomma come gli riesce: impauriti i capitalisti senza capitale, terrorizzati piccoli e artigiani, tentati dal sì Cisl e Uil, dilaniata la Cgil. Per restare ai sindacati, ieri c’è stato un incontro tra Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Risultato: nulla di fatto per ora, non c’è accordo sul tema dei licenziamenti o, come dicono i tecnici, la “flessibilità in uscita” (i contatti telefonici, pare, proseguono senza sosta anche in vista di un vertice riservato con Fornero). Camusso, comunque, ha un problema più grande: si chiama Fiom. Maurizio Landini e il Comitato centrale dei metalmeccanici di Corso d’Italia ieri hanno già votato sull’accordo: oggi scioperano per due ore contro la bozza dell’esecutivo e, soprattutto, per influenzare Camusso.

«Domani è la giornata più utile perché arrivi dalle fabbriche un messaggio chiaro: che noi vogliamo l’accordo, ma un accordo che estenda i diritti e limiti la precarietà. Ad oggi non vediamo le condizioni per un accordo positivo”, ha sostenuto il segretario: «Il governo ha avanzato una sua proposta che


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Un giorno nel segno di Marco Biagi A dieci anni dalla morte, il Presidente dice: «Gli dobbiamo tutta la nostra riconoscenza» di Marco Scotti ra il 19 marzo di dieci anni fa quando Marco Biagi iniziò a percorrere in bicicletta il breve tragitto che separava la Stazione di Bologna dalla sua abitazione. Sapeva di essere in pericolo, l’aveva già dichiarato a più riprese (venendo definito “un rompicoglioni” dall’allora Ministro Scajola). Ma forse quella sera pensava soltanto ad andare a casa, dalla moglie che aveva chiamato poco prima dicendole che era in arrivo. Un commando delle Brigate Rosse, appostato davanti al suo portone, lo freddò vigliaccamente con sei colpi di pistola.

E

Ieri l’Italia ha reso omaggio al professore bolognese: hanno voluto ricordarlo sia personalità politiche di spicco e che in alcuni casi avevano collaborato con lui (Gianfranco Fini, Maurizio Sacconi), sia gli economisti che si occupano di tematiche legate al lavoro (Giuliano Cazzola, Pietro Ichino, Tito Boeri), sia, soprattutto, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha inviato una lettera alla moglie del giuslavorista bolognese in cui ha rammentato il «debito di riconoscenza che le istituzioni repubblicane e la società civile conservano verso Marco Biagi, per il servizio da lui reso stoicamente al progresso culturale e sociale del paese». Allo stesso modo, la ministro Cancellieri ne ha ricordato il profilo di «uomo libero e capace». Dieci anni, però, sono anche un lasso di tempo sufficiente per un’analisi serena e scevra da

eccessivi coinvolgimenti emotivi sulla reale portata, nel mercato del lavoro nostrano, della Legge Biagi. Perché non va dimenticato che l’applicazione che molte aziende hanno deciso di dare della “flessibilità” – meccanismo sperimentato in tutta Europa che permette l’attuazione di un più ampio turn-over a fronte di una maggiore facilità di trovare lavoro – sia, di fatto, divenuta “precarietà”. Con le conseguenze nefaste che tutti conosciamo.

Prima di tutto, è fondamentale ricordare che la Legge Biagi/Maroni, entrata in vigore nel 2003, poneva le proprie fondamenta sulle spalle di un’altra legge, quella realizzata da Tiziano Treu nel 1997 che introduceva quella tipologia contrattuale – Co.Co.Co., Contratto di Colla-

Marco Biagi non fosse quella di rendere precari milioni di giovani. Anzi, la sua idea di flessibilità era alla base di una riforma volta a rendere più europeo il mercato del lavoro italiano. Oggi invece si può affermare, senza tema di smentita, che le condizioni in cui si trova ad operare una percentuale significativa – e in continuo aumento – di lavoratori italiani sia senza dubbio peggiore di quanto non fosse dieci anni fa. La proliferazione di diversi contratti interinali, a somministrazione o flessibili ha, di fatto, tolto certezze a tutti coloro che si affacciano al mondo del lavoro. Il vecchio contratto di apprendistato, ad esempio, che un tempo era lo strumento grazie al quale i giovani imparavano una professione, è stato ben presto soppiantato da stage non retribuiti, che diventano contratti a progetto senza alcun tipo di tutela (se non qualche giorno di preavviso), che non prevedono malattie, ferie, permessi e tutte le altre garanzie previste dai contratti a tempo indeterminato.

L’Italia ricorda il giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse: a Modena, il ministro Cancellieri tesse l’elogio di «un uomo libero e capace»

per me è una cancellazione dell’articolo 18, in quanto prevede il reintegro solo per licenziamenti discriminatori mentre per ragioni economiche o soggettive sono previsti solo i soldi e il reintegro sparisce. Su questo non abbiamo margini di mediazione - aggiunge polemico Landini - Quello che sto dicendo è scritto nel documento approvato nell’ultimo direttivo della Cgil: l’unica disponibilità è per ridurre anche drasticamente i tempi dei processi, il punto su cui non è accettabile alcuna discussione, è la modifica del reintegro». All’altro estremo del campo sindacale si potrebbe invece posizionare il segretario della Cisl: «Il governo vuol buttare in aria lo straccio dell’articolo 18 per farlo ve-

borazione Contributivo – che sarebbe poi stato sostituito dal Co.Co.Pro. Se con la prima tipologia si stabiliva la possibilità di realizzare contratti a termine in cui i lavoratori in oggetto erano tutelati analogamente a quelli con contratti a tempo indeterminato, l’introduzione del Co.Co.Pro. diede l’abbrivio alla creazione di un mercato del lavoro a due velocità: da una parte, gli iper tutelati lavoratori a tempo indeterminato, dall’altra quelli con contratto a progetto, senza garanzie di sorta. Siamo certi che l’idea primigenia di

dere all’Europa come se così si liberassero tutte le assunzioni e tutta l’economia italiana: una fregnaccia clamorosa. La solidità viene dalla buona economia e io penso che bisogna fare un accordo con il governo per chiedergli un patto sulla crescita», spiegava ieri mattina Bo-

Interessante è inoltre la disputa aperta nel centro-sinistra da questo nuovo mercato del lavoro la cui modifica, non per niente, è uno dei capisaldi di quel decreto “Salva Italia”che il governo Monti sta costruendo in corso d’opera da quando si è insediato. C’è una sinistra riformista, pronta a comprendere che eccessive tutele per pochi cozzino con un bacino sempre più ampio di lavoratori senza garanzie che non hanno rete di salvataggio e che rischiano di trovarsi da un giorno all’altro a casa. Questa sinistra è quella

dura perché su questi temi in Parlamento c’è una maggioranza più riformista». E che le nuove regole si faranno, è comunque una certezza, dice il sottosegretario all’Economia: «La riforma si farà anche senza accordo e amzi, penso che più si discute più l’intesa si allontana.

che, per assurdo – e per citare Francesco Giavazzi e Alberto Alesina – è “più di sinistra”, perché antepone gli interessi di molti (disoccupati, giovani precari, lavoratori in cassa integrazione) a quelli di pochi (i lavoratori a tempo indeterminato). Un’altra sinistra, più oltranzista, si dimostra invece elitaria preferendo mantenere al sicuro il proprio “zoccolo duro” piuttosto che sposare la causa di quei deboli che dovrebbero essere al primo posto nell’agenda di un centro-sinistra ancora orientato al sociale. Perché non è un mistero che nessuno dei tre membri della “foto di Vasto”abbia speso parole concrete – che andassero oltre la commiserazione di facciata – per coloro che vivono in un mercato del lavoro che li sfrutta invece che impiegarli come risorsa preziosa. Anche perché il precariato è un animale crudele, che succhia le certezze di chi – giovani in primis – ha il terrore di provare a costruire un futuro perché teme che da un momento all’altro quel piccolo orticello che si è coltivato con inusitata fatica venga strappato senza nemmeno la possibilità di difendersi.

È anche questa eredità della legge Biagi. Ma non si dica che fu lui a volerla così: il giuslavorista bolognese pensava a un mercato del lavoro che permettesse di crearsi un bagaglio esperienziale proteiforme. Siamo in Italia però, dove la “furbata” è sempre dietro l’angolo. Solo che questa volta, a farne le spese, rischia di essere un’intera generazione.

per evitare che durante la discussione il Parlamento finisca per stravolgere il testo e mettere a rischio l’intesa. La Lega già si lamenta: «Non sono d’accordo che la concertazione sostituisca il Parlamento e lo dico a voce alta», sostiene Roberto Maroni citando Marco Biagi a

Il segretario dei metalmeccanici rovescia il tavolo: «Dalle fabbriche arriverà un messaggio chiaro per un accordo che estenda i diritti e limiti la precarietà. Ad oggi non vediamo le condizioni per un’intesa in questo senso» nanni. Insomma, l’accordo è la via maestra.

Di diverso avviso il governo, a stare a Gianfranco Polillo: «Se non dovesse esserci l’intesa, la riforma sul lavoro potrebbe uscire dal Parlamento più

Ora bisogna tagliare la testa al toro e se ci saranno delle cose da correggere poi lo faremo». Resta da decidere quale sia il migliore strumento legislativo: se ci fosse l’unanimità tra le parti sociali, il governo potrebbe anche optare per un decreto

dieci anni dal suo assassinio. Anche il Partito democratico non sarebbe felice di un provvedimento urgente: «Io al governo darei un consiglio – diceva ieri il coordinatore delle commissioni economiche, Francesco Boccia - invece di

usare l’accetta e la clava del decreto legge, userei tanta pazienza perché poi le riforme vengono approvate dal Parlamento. Credo che una legge delega farebbe stare più tranquilli tutti», anche se è evidente che «tutti abbiamo fretta». Per dare un piccolo segnale di buona volontà a sinistra, comunque, il ministro Fornero ha annunciato che a breve arriverà un decreto per i cosiddetti “esodati”, quei lavoratori che hanno firmato accordi per lasciare il posto convinti di andare in pensione e che poi sono stati “fregati” dalla riforma previdenziale del governo Monti: per loro potrebbero valere le vecchie regole. Difficile però che basti ad ammorbidire Camusso e, soprattutto, Landini.


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l’approfondimento

La riforma del lavoro è indispensabile ma le nuove regole presuppongono una solidità che il nostro Paese sembra non avere

Due passi per Berlino

Va di moda il modello tedesco: indennità per chi viene licenziato e reddito garantito durante la disoccupazione. «Sarebbe perfetto, ma come si fa ad applicare queste regole se non ci sono risorse?» è la domanda di Gian Enrico Rusconi di Francesco Lo Dico

ROMA. «Stiamo lavorando», hanno fatto sapere Bonanni e Angeletti, al termine del vertice di ieri tra Cgil, Cisl e Uil in vista dell’incontro di oggi con il governo. Ma sulla riforma del mercato del lavoro non si conosce ancora molto, specie per quanto riguarda la sorte dell’articolo 18. L’auspicio del ministro del Lavoro, Elsa Fornero è che arrivi una soluzione raggiunta «con il consenso delle parti sociali», in quanto un esito favorevole darebbe all’accordo «un valore aggiunto che la stessa riforma non ha senza questo consenso». La quadra sulla “flessibilità in uscita”, secondo quanto trapelato, potrebbe essere trovata intorno al modello tedesco. Che prevede il reintegro garantito per i licenziamenti discriminatori, mentre assegnerebbe alle aziende la facoltà di liquidare il lavoratore con un indennizzo qualora si trovassero in difficoltà economiche. «Ma del modello tedesco, qui in Italia c’è soltanto l’aspetto nominalistico. Non se ne può prendere soltanto un pezzetto e spacciarlo per un sistema che in Germania funziona per ragioni

storiche ed economiche ben precise, e che in Italia sarebbe un’altra cosa», obietta a liberal Gian Enrico Rusconi, docente di Scienze politiche presso l’università di Torino, che è anche Gastprofessor presso la Freie Universität di Berlino. Professore, la nuova parola d’ordine è “modello tedesco”. È la soluzione adatta a riformare il nostro mercato del lavoro? Trovo sbagliato parlare di “modello tedesco” per la proposta della Fornero. O un sistema si assume per intero, oppure diventa lo stesso meccanismo comunicativo che aveva già scomodato il sistema elettorale vigente in Germania, che ovviamente è stato preso a riferimento soltanto per alcuni aspetti, e respinto per altri. Quali sono i presupposti perché il modello tedesco possa funzionare anche in Italia? In Germania il sistema funziona perché è sospinto da un’economia che tira, capace di garantire indennizzi e ammortizzatori sociali al lavoratore che

viene posto un uscita. Ma la questione dirimente è un’altra. Ci spieghi pure. Perché il modello tedesco funzioni è necessario che esista il reddito minimo garantito. altrimenti si può andare incontro a pesanti ripercussioni sociali. E un altro aspetto forse dirimente è la condizione sostanzialmente paritaria che in Germania pone sindacati e aziende in una posizione di collaborazione. Immaginabile anche in Italia? Il clima collaborativo è sorto in

Germania sulla base di precise vicende storiche come la riunificazione. L’era post-federale ha creato in quel Paese l’effettiva necessità di trovare forme di concertazione moderne. E in Italia, sembra di capire che non è proprio aria di felici conviti. Una cogestione della forza lavoro da parte di aziende e sindacati era considerata qui da noi una condotta inammissibile. E ancora oggi è difficile immaginare un clima di distesa collaborazione dei vari Camusso e Bonanni.

«È un progetto inadatto: senza reddito minimo e un’economia forte, siamo a rischio»

E viceversa trova che le aziende siano pronte ad accogliere in sindacati alla scrivania in condizioni di rispettosa parità decisionale in materia di licenziamenti e gestione del lavoro? È un circolo vizioso, l’indisponibilità degli uni genera l’arretramento degli altri. In questa fase della riforma, come nei mesi scorsi, prevale soprattutto la linea conflittuale, spesso usata dalle parti in maniera strumentale. Dubita cioè che il conflitto abbia un obiettivo preciso, e sia funzionale un calcolo. Quale? Mi sembra abbastanza evidente che si voglia far passare la logica dello scontro e dei conflitti non conciliabili con lo scopo di lasciare che la riforma vada a buon termine, ma disimpegnandosi dall’accordo. C’è la voglia di smarcarsi, di lasciare decidere al governo per coprire le rispettive debolezze. Un ragionamento che vale anche per i partiti che sostengono, con più di qual-


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Appello alle organizzazioni perché non vadano divise all’incontro finale con il governo

Fate di tutto, trovate l’accordo: è in gioco l’Italia di domani

Tutti devono fare la propria parte, anche compiendo un passo indietro. E se l’articolo 18 è fonte di spaccature, meglio accantonarlo di Savino Pezzotta responsabili delle rappresentanze sindacali sanno meglio di chiunque altro qual è la situazione nella quale si sta svolgendo questa difficile trattativa sulla riforma del mercato del lavoro. Conoscono la difficoltà diffusa di mantenere il posto di lavoro o, peggio ancora, di trovarne uno nuovo. Sanno che i cittadini che lavorano vedono le loro prospettive occupazionali ingarbugliarsi, assottigliarsi… Insomma: qui non c’è alcuna lezione da dare i sindacati che, appunto, sanno bene per proprio conto come stanno le cose in Italia. Ma, solo, voglio ricordare che è indispensabile che il sindacato arrivi al confronto finale con il governo sulla riforma con una proposta unitaria, condivisa: c’è bisogno di uno sforzo eccezionale non solo nel merito – lo vedremo tra un attimo – ma anche nel metodo. Perché è fondamentale in questo momento di crisi e di trasformazione sociale e politica che il sindacato mantenga intatti peso e forza nella società. E che continui ad fare quello che ha sempre fatto nella storia di questo Paese: aiutare la povera gente.

I

L’obiettivo dell’unità sindacale in funzione di un accordo con il governo è prioritario, anche per l’esecutivo. Quindi, nel merito, diciamo subito che ci si

dovesse rendere conto (e probabilmente è proprio così) che la riforma dell’articolo 18 potrebbe portare a una frattura sia tra i sindacati e tra loro e il governo, allora meglio puntare – unitariamente, lo ripeto – a un accantonamento di questo tema che ha finito per avere soprattutto un valore simbolico, dal momento che di fatto coinvolge un numero minimo di casi reali ogni anno. E, in questo caso, occorrerà puntare tutto sulla riforma degli ammortizzatori sociali e delle regole che tutelano la disoccupazione. Perché è del tutto evidente che il problema principale del mercato del lavoro è

riuscire a favorire il reinserimento dei disoccupati, la loro riassunzione. Sotto questo aspetto, non c’è davvero nessuno che possa esimersi dal fare sacrifici: la stessa elasticità che si chiede ai sindacati deve essere chiesta alle aziende che non possono sempre chiamarsi fuori. Le garanzie per le aziende per quel che ri-

Non basta parlare di lavoro, occorre anche ripensare le politiche industriali per rilanciare il Paese

li del Paese. È del tutto evidente che non si può parlare di riforma del lavoro e lasciare che l’industria proceda a proprio modo, in ordine sparso. È arrivato il momento che l’esecutivo ponga il problema nella sua complessità: non di sole norme sindacali bisogna discutere ma anche di come indirizzare gli investimenti delle aziende. Governare il lavoro significa anche governare le politiche industriali: non bisogna mai dimenticarselo. E questo apre anche un’altra questione che mi sembra rilevante dal punto di vista politico. In questi giorni tutta l’attenzione è stata rivolta ai sindacati, alla loro presunta rigidità e alle presunte (molto presunte) divisioni interne. Ebbene, non è solo affare dei sindacati, questo accordo: anche il governo e le altre rappresentanze sono chiamate a fare passi indietro e a trovare mediazioni ad ogni coso. Non è solo sui sindacati che può ricadere il peso dell’accordo o, peggio, del mancato accordo.

guarda l’uscita dei lavoratori dalla produttività immediata devono corrispondere a garanzie per i lavori per quanto riguarda il ritorno, più veloce possibile, nel mondo del lavoro e della produzione: l’equazione non può che essere questa. Solo in questo modo, del resto, la

È vero: il governo ha avuto il merito di favorire un dialogo costruttivo fra i partiti: lo stesso deve fare per ricostruire un clima costruttivo fra le organizzazioni sindacali. Ma appunto facendo a propria volta dei passi indietro: è vero che i sindcati devono fare la propria parte,

riforma del lavoro potrò conseguire il suo vero obiettivo: rimettere in moto l’economia italiana e favorire da un lato la crescita generale del Paese e dall’altro il ritorno di un clima di fiducia generale e generalizzato nei confronti del futuro. Non bisogna perdere di vista questo obiettivo che è quello vero, imprescindibile, dell’accordo da trovare tra governo, sindacati e associazionidi categoria.

ma anche l’esecutivo ha delle responsabilità precise. Nel senso che deve cedere qualcosa in vista di una coesione sociale indispensabile per governare il malessere diffuso e reso sempre più doloroso dal perdurare degli effetti della crisi economica sull’occupazione. Per essere chiari: il governo non ha alcuna convenienza a fare accordi separati e, a propria volta, deve spendersi (e mediare) per arrivare a un accordo condiviso: questo è quello che vuole l’Europa. E, dato ancora più rilevante, questo è quello che gli chiede il Paese per ritrovare un po’ di speranza.

In questo modo, mostrandosi uniti e per ciò stesso forti, le organizzazioni sindacali possono (e devono) porre con vigore il tema delle politiche industria-

che ambiguità, la riforma del mercato del lavoro? Certamente. I partiti attraversano una drammatica crisi di credibilità e non sono mai stati così deboli. E la loro assenza dalle scene, in una fase di vita democratica che li vede in un ruolo mai così marginale, può essere decisiva perché si arrivi a una riforma del lavoro insoddisfacente o particolarmente gravosa per i lavoratori. Che arriva peraltro in una congiuntura economica piuttosto drammatica. È plausibile fare la riforma alla tedesca in una fase economica così depressiva? In mancanza di un’assicurazione come il reddito minimo garantito, il modello tedesco rischia di ledere ulteriormente le vecchie tutele a favore di altre ancora poco chiare. Come dicevo prima, per il modello tedesco è necessaria un’economia che tira. E in questo momento non è il caso della nostra. Stabilito che il modello tedesco viene citato a sproposito, resta una domanda. Quale sarebbe la soluzione più adatta alla realtà italiana di questo preciso frangente storico? È difficile dare una risposta. Forse dovremmo legarci mani e piedi alla logica emergenziale. Lasciare cioè che il governo operi sul mercato del lavoro in funzione di eventi difficili come quelli che stiamo vivendo. Dovremmo cioò affidare tutto al governo tecnico? Dico che è necessario che le parti sociali assumano un atteggiamento prudenziale, che in determinate situazioni possa spingerle a fare un passo indietro. Un passo indietro in attesa del grande ritorno. Professore, c’è da preoccuparsi? Intendo che è difficile immaginare correttivi e varianti se non ritorna in campo la politica. Se i partiti non reagiscono e non riformano profondamente le loro strutture, è difficile immaginare la riforma del mercato del lavoro come un accordo politico. Proviamo a tradurre: i sindacati dovrebbero fare un passo indietro e lasciar fare al governo tecnico. E con le prossime elezioni, una nuova maggioranza politica proverà a ridefinire i termini dell’accordo sul mercato del lavoro. È detta in maniera brutale, ma la soluzione auspicabile può essere questa. Ma non bisogna farsi illusioni, perché il Parlamento deve ritrovare la centralità del suo ruolo sulla base di un profondo rinnovamento. La riforma del mercato del lavoro è la cartina di tornasole dei nostri partiti: hanno perso autorevolezza e capacità di trovare soluzioni efficaci che perciò demandano a chi non è politico di professione.


mondo

pagina 6 • 20 marzo 2012

I delicati rapporti fra Roma e Delhi secondo Antonio Armellini, ambasciatore italiano in India dal 2004 al 2008

L’India dimenticata

«Nessuna relazione fra il sequestro e l’arresto dei fucilieri. Ma paghiamo anni di disattenzione verso quel Paese. Sul piatto anche il dossier Onu» di Antonio Picasso Italia paga lo scotto di una prolungata disattenzione da parte dei nostri governi nei confronti dell’India». A dirlo è Antonio Armellini, ex ambasciatore e rappresentante del Bel Paese proprio a Delhi dal 2004 al 2008. Il suo libro, L’elefante ha messo le ali, descrive proprio quella maturità politica ed economica indiana di cui l’Italia non si è accorta. Lo intervistiamo prendendo spunto dalla criticità che, in questi ultimi giorni, sta tenendo quotidia-

«L’

namente aperti i canali di comunicazione tra i due Paesi. Ambasciatore, cosa sta succedendo? Sembra che Italia e India siano vittime di una congiuntura negativa di casi. È pura coincidenza, oppure tra l’arresto dei marò nel Kerala e il rapimento dei nostri connazionali in Orissa, possiamo intravedere qualche collegamento? Nessuna connessione, i due mondi sono strutturalmente differenti. Non fosse altro per la distanza geografica (i due Stati sono lontani tra loro 1.600 kilometri in linea d’aria, ndr). Il rischio è quindi di immaginare legami inadeguati tra un Kerala, che vive l’onda lunga della stagione elettorale, e l’Orissa, dove le istituzioni locali e federali sono le prime a volere che il caso dei due rapiti si risolva in tempi brevi e positivamente. Il sequestro di stranieri, italiani e no, è un problema prima per loro. Tuttavia, c’è una concentrazione di tensioni tra Roma e Delhi... Sì, ma è solo un caso. L’Italia ha dimostrato un’improvvida accentuazione di visibilità per

quanto riguarda il caso Lexie. È come se ci fossimo resi conto dell’esistenza dell’India. I più recenti fatti in Orissa ne sono estranei. Abbiamo sottovalutato la potenza del subcontinente? Non proprio. Penso che ce ne siamo lentamente disinteressati. E questo è stato molto svantaggioso per noi e la nostra economia. Insomma, un tempo non era così. Subito dopo l’indipendenza (1947), tra la fine degli anni Quaranta e il boom produttivo degli anni Cinquanta, l’Italia era un interlocutore ascoltato e credibile di fronte alle autorità indiane. Le nostre aziende hanno partecipato alla costruzione dell’odierno impianto industriale indiano. D’altra parte, è grazie all’India che il mondo ha conosciuto la nostra industria motociclistica. Le due ruote italiane viaggiavano sulle strade di tutta l’Asia. E poi? Poi questa amicizia si è affievolita. Per colpa nostra. Non c’è dubbio. Non abbiamo provato più l’interesse iniziale per quel Paese. Di conseguenza abbiamo perso tutta la nostra autore-

volezza. Eravamo prima partner privilegiati. Successivamente abbiamo cominciato a indietreggiare nella posizione di approccio. Altri Paesi ci hanno superato e sono riusciti a concludere affari per i quali l’Italia avrebbe comunque potuto

«Sonia Gandhi è una donna molto potente. Ma è un errore pensare che ci aiuterà» garantire un ottimo prodotto. Mi viene da pensare al recente accordo indo-francese in materia di sicurezza. L’India ha beffato non solo l’Italia, ma l’intero consorzio Eurofighter, fir-

mando con la Dassault, per la fornitura di 126 caccia Rafale, preferiti ai Typhoon. L’accordo ha mosso 10 miliardi di dollari. Non si arriva a simili risultati se non si fanno delle buone pubbliche relazioni. E la Francia le ha fatte? Eccome! Nei cinque anni del suo mandato, il presidente Sarkozy è stato in India tre volte. Mentre per noi, era il 2005 l’ultima volta che un nostro Capo di Stato è atterrato a Delhi. In quel caso c’era Ciampi. Prima di lui, è stata la volta di Scalfaro. Ancora più magri gli spostamenti dei Presidenti del Consiglio. Le ultime due volte che un nostro vertice esecutivo ha messo piede in India è stato con Romano Prodi. Sono gesti di disponibilità troppo rari per gli indiani, così severi nelle regole interpersonali. Molti italiani fanno anche autocritica, sostenendo che non siamo stati nemmeno in grado di sfruttare il canale preferenziale di Sonia Gandhi. Una nostra connazionale al vertice dell’establishment federale. Su questo io sono in disaccordo. È un grave errore pensare


mondo

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Crisi marò: aggiornata ad oggi l’udienza sulla giurisdizione

Tredici richieste per liberare gli italiani

Fra queste il rilascio dei leader politici e lo stop ai turisti nello Stato indiano. Terzi: «Prioritaria l’incolumità dei rapiti» di Giovanni Radini cchi puntati sull’India. E non più solo per i marò rinchiusi in un carcere del Kerala. Adesso è prioritaria la questione dei due nostri connazionali, Paolo Bosusco e Claudio Colangelo, rapiti in Orissa giovedì scorso. Ieri il Primo ministro del governo federato, Shri Navek Patnaik, ha rivolto un appello ai maoisti. Ha chiesto loro di «agire immediatamente per ragioni umanitarie e liberare i due italiani illesi». Dalle istituzioni dell’Orissa è anche arrivata la disponibilità a negoziare. Nel pomeriggio, quindi tarda serata per il fuso orario indiano, si è appreso che Bosusco e Colangelo stanno bene. È una notizia da interpretare come un gesto di buona volontà dei terroristi. Un sentiero sul quale poter procedere. Del resto il mancato rispetto dell’ultimatum, per fortuna, era già stato salutato positivamente. I maoisti comunque hanno replicato al ministro Patnaik con un documento di tredici punti.Tredici condizioni affinché Bosusco e Colangelo tornino in libertà. Chiusura dell’operazione Green hunt e divieto del cosiddetto turismo tribale. Queste le due richieste più immediate. «Le tribù non possono essere oggetto della curiosità degli stranieri». Le condizioni sono comunque le stesse avanzate nel febbraio del 2011, quando i maoisti chiesero la scarcerazione di tre loro leader: Gnanath Patra, Sabyasachi moglie di Subhasree Panda (il leader del gruppo) e Ashutosh Soren.

O

Sopra, un’attivista maoista ripresa sotto la bandiera del gruppo. A lato, Paolo Bosusco, sequestrato nello Stato dell’Orissa assieme a Claudio Colangelo (in basso nell’altra pagina). A sinistra, Antonio Armellini e a destra i due marò italiani che Sonia Gandhi ci avrebbe potuto aiutare. È vero, è la donna più potente del Paese. Tuttavia, gli osservatori sanno che il suo status di straniera è sempre rimasto un problema. Un ostacolo per quella società nazionale orgogliosa di essere indiana e sempre pronta a vedere un qualunque intervento straniero come una manifestazione di neocolonialismo. Mi viene addirittura da pensa che se non ci fosse Sonia Gandhi, la soluzione dei marò potrebbe essere più facile. Forse. E cosa pensa dei nostri tentativi di appoggio da parte di altri Paesi? È anche questa una strada sdrucciolevole. Primo perché in questo modo non facciamo altro che dimostrare la nostra debolezza. Sembra che non siamo più in grado di farci ascoltare. Peraltro abbiamo fatto appello a governi come quello britannico o russo, passando per l’Unione europea, senza renderci conto che l’India rifiuta a priori l’intervento di un terzo attore nelle problematiche bilaterali. Secondo fattore è che il Kerala è lontano da Delhi al punto che nella capitale l’eco dei marò in prigione è quasi irrilevante. Lo si vede dallo spazio che i giornali riservano al caso. Io stesso, mettendomi in

contatto con amici indiani, mi sono trovato di fronte gente che non sapeva nulla dell’accaduto. Lei cosa prevede? Una traccia indelebile di questa crisi? Sinceramente non penso. Proprio perché il Kerala è laggiù, alla punta della penisola. Ma soprattutto perché l’India vive ambizioni maggiori. Casi come questi possono essere superati da interessi più estesi e condivisi. Si riferisce all’idea di entrare nel Consiglio di sicurezza dell’Onu? Esattamente. È una questione che, per certi versi, ha visto l’Italia contraria. Quello delle Nazioni Unite è un dossier che resterà aperto per lungo tempo. Ed esula dal rilascio dei marò. Il mondo però deve domandarsi che Onu voglia. Se rappresentativa del palcoscenico post-guerra fredda, oppure un soggetto internazionale capace di fornire soluzioni costruttive alle crisi diplomatiche. Nel primo, la presenza dell’India è inevitabile. E anche giusta direi. Nel secondo, il fatto che questa grande potenza dimostri ancora così tanti punti deboli lascia supporre che sia ancora il tempo per una promozione così importante.

ribelli estremisti e le autorità. Sulla questione, il ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi, ha avuto una lunga conversazione telefonica con il suo omologo di Delhi, S.M. Krishna. Il responsabile della Farnesina ha sottolineato che qualsiasi iniziativa del governo indiano deve essere presa con l’obiettivo di liberare gli ostaggi, garantendo loro sicurezza e incolumità. Roma teme un blizt “alla nigeriana”, quindi un intervento che abbia come epilogo la morte dei rapiti.

Nel frattempo, si è fatta sentire anche la famiglia di uno dei due sequestrati. «Non siamo nella fase della disperazione, ma della speranza e anche noi vogliamo essere ottimisti», ha detto Valeria Colangelo, figlia del medico 61enne. «Sono quelle prove che la vita ti chiede di affrontare e non puoi essere preparato». E ancora: «Siamo in stretto contatto con la Farnesina che ringraziamo e non desideriamo rilasciare altre dichiarazioni». Il fatto che l’ultimatum domenica notte di uccidere Bosusco e Colangelo, qualora le condizioni non fossero state prese in considerazione, non sia stato rispettato permette di riprendere fiato un po’ a tutti. Ancora imbrogliata è invece la situazione dei due marò. Due settimane fa si è avuto il loro inaspettato trasferimento in carcere. Misura che ha irrigidito ulteriormente le posizioni italiane. Da qui la scelta di inviare una task force diplomatica di alto profilo e capeggiata dal sottosegretario de Mistura. La presenza del numero due della Farnesina ha permesso che il dossier marò non cadesse nel dimenticatoio della burocrazia del Kerala.Tuttavia, come lo stesso de Mistura ha sempre sottolineato, i tempi di reazione del subcontinente non corrispondono ai nostri. Ieri, l’avvocato difensore dei due militari ha chiesto al tribunale di Kollam di installare una televisione nella camera dei due, all’interno della prigione di Trivandrum. La richiesta è stata avanzata di fronte al giudice che ha esteso di altri 14 giorni i termini di carcerazione preventiva. Il magistrato capo, A.K.Gopakumar, si pronuncerà forse domani sulla petizione italiana. La magistratura organo su cui il governo federale ha una giurisdizione assai limitata, sta dibattendo su quale organo interno dovrebbe procedere. Oggi si esprimerà in merito. Mentre sono ancora in fase di elaborazione le indagini balistiche. Ovviamente anche questo è stato oggetto di discussione fra Terzi e Krishna. E se per la questione Orissa la disponibilità che Roma può auspicare da Delhi è piena, la detenzione dei marò resta fumoso.

Roma teme un blitz “alla nigeriana”, ovvero un intervento che potrebbe avere come epilogo la morte dei sequestrati

Ed è stato proprio Panda l’autore della rivendicazione giovedì scorso. «I due avevano scattato delle riprovevoli fotografie a donne che facevano il bagno in un fiume. Abbiamo arrestato due turisti italiani che, come centinaia di turisti stranieri, trattano la gente locale come scimmie e oggetti ridicoli». I guerriglieri desiderano sì la liberazione dei loro compagni, ma al tempo stesso auspicano un intervento normativo affinché l’atteggiamento straniero, nei confronti della popolazione locale, risulti più rispettoso. È una questione che si potrebbe esulare dalla lotta maoista. Spesso e non solo in India il turista occidentale si comporta ancora come un colonialista. Tuttavia, i due italiani rapiti – uno guida nelle escursioni, l’altro medico volontario – non dovrebbero essere inesperti nell’approccio con la popolazione locale. Quella di introdurre una legislazione che disciplini il rapporto turistaIndia è un’idea sposabile. Se non fosse che i maoisti sono un gruppo terroristico. «Il nostro maggiore pericolo interno», ha detto una volta il premier Singh. Non è infatti solo l’Orissa la macroarea che fa da terreno di scontro tra i


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striche, caviale, champagne, vino, formaggi, spigole, spigoloni, gamberi, gamberoni, scampi, ostriche imperiali, noci bianche, cozze pelose, seppioline, astici, calamari, polipi, frittura di paranza, baccalà, merluzzo, alici, aragoste, orate, vongole, peperoni, spaghetti, spaghettini, antipastini, prosciutto, salame, salmone, involtini, straccetti, braciole, bistecche, cotolette, maiale, agnello, agnellone e insalata di rinforzo, che non si sa mai, e insalata russa. Pasticceria napoletana e siciliana, frutta esotica e macedonia. Sembra la lista della spesa per un cenone di fine anno o una pagina di Domenico Rea, invece, è cronaca politica. «Il mio punto debole sono i frutti di mare», ha detto Michele Emiliano, sindaco di Bari, che compare, pur non essendo coinvolto e indagato, nelle carte dell’inchiesta giudiziaria sul Comune di Bari che ha al centro il costruttore ed ex consigliere regionale del Pd Gerardo Degennaro che nel 2007 donò un luculliano e pantagruelico pacco di Natale al primo cittadino barese. Oggi il sindaco, ex pubblico ministero, dice: «Avrei dovuto rimandare indietro quel pacco». Avrebbe. Ma la gola è un po’ come il cuore: è difficile darle ordini. E allora se l’è mangiato. Lo sa molto bene anche l’ex tesoriere della Margherita, il senatore Luigi Lusi,

O

L’ex tesoriere della Margherita si faceva pesare col bilancino il Beluga per condire i suoi spaghetti. Meglio una sana scarpetta dopo una succusa amatriciana... che ha il suo punto debole nel caviale. Lo sa molto bene anche Massimo Riccioli, 58 anni, che non è un ex tesoriere, né un senatore bensì uno degli chef italiani più famosi e da qualche tempo fa il pendolare con Londra, dividendosi tra un nuovo ristorante vicino a Trafalgar e lo storico La Rosetta a Roma, vicino al Pantheon, aperto nel 1966 da papà Carmelo. Il giornalista Ernesto Menicucci lo ha sentito per il Corriere della Sera per farsi raccontare bene la storia, che evidentemente sembrava una leggenda, degli spaghettini al caviale pagati solo 180 euro. Al ristorante del Pantheon il tesoriere della Margherita ha consumato una parte dei soldi del partito e, appunto, i famosi spaghettini al caviale da 180 euro al piatto e i due antipasti pagati 200 euro. Il cuoco, di cui Totò in Miseria e nobiltà raccomandava il matrimonio perché «un cuoco in famiglia fa sempre comodo», ha detto la sua: «Il Beluga sta a cinquemila euro al chilo... Ne mettiamo 20-25 grammi a porzione». Lusi se lo ricorda? «Come no. È venuto diverse volte». Caviale, ostriche, vini pregiati. Una buona forchetta. Gli antipasti da 100 euro l’uno? «Sono dieci

il paginone assaggini - dice il cuoco - con crudi, cotti, marinati». Sedie rosse, tovaglie bianche, una rosellina su ognuna: ci si sono seduti - ricostruisce Ernesto Menicucci - Bettino Craxi e Gianni Agnelli, Marcello Mastroianni e Eduardo De Filippo, Giorgio de Chirico e Amintore Fanfani, Renato Guttuso e Alberto Sordi, Mario Schifano e Ettore Scola. Una sera capitò Diego Armando Maradona e fu champagne a fiumi. E poi stelle di Hollywood (Johnny Depp, Woody Allen, Brian De Palma, Russell Crowe), attori nostrani (Massimo Ghini, Amanda Sandrelli), grandi del calcio (Fabio Capello, Adriano Galliani). E tantissimi politici, Gianfranco Fini, Renato Schifani, Ignazio La Russa, Roberto Maroni, Massimo D’ Alema. Si sono affacciati anche i sindaci, Walter Veltroni prima, Gianni Alemanno ora. Ma Lusi è un’altra cosa: «Il vero scandalo sono i soldi che i politici guadagnano, non che se li mangino. E noi non chiediamo certo il 740». Si limitano a portare loro il menù e il conto.

Ma qui lo scandalo interessa relativamente. Qui interessa il caviale: «Lo faceva pesare con la bilancina». Qui bisogna immaginare la scena: il cameriere che pesa, mette e toglie, ma non certo per motivi di prezzo. C’è tutto un rituale. Sarà stata una pura questione di gusto o di palato o di megalomania, di certo non sarà stata una questione di buongusto. I prezzi per il tesoriere non avevano importanza, se no che tesoriere era? Lusi non mangiava, più che altro degustava: «Abbiamo un menù degustazione a 130 euro, a pranzo uno da 50. E usiamo prodotti di assoluta qualità». Roba sceltissima, presa alle aste di Anzio, Fiumicino, Civitavecchia: 90 euro al chilo l’aragosta, 70 gli scampi, 45 le spigole e le orate. I ricarichi? 220 euro per aragoste e scampi, 110 il pesce: ma bisogna contare la cucina e il servizio.

La politica, i favori e il ritorno del caviale di Giancristiano Desiderio

Dalle cene di Lusi alla “Rosetta”, ai pacchi dono di Emiliano, al Satyricon di Petronio. Oltre che morale la questione diventa estetica perché anche di fronte al cibo ci vuole stile e sapienza


il paginone

Michele Emiliano, sindaco di Bari, e Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita. A destra, Totò in “Miseria e nobiltà”. Nel film, sorpreso in piedi sul tavolo da pranzo mentre arraffa con le mani gli spaghetti, dice: “Non abbiamo fame, facciamo solo quattro salti”

Ostriche, caviale e champagne. Non so a voi, ma a me sembra tutto molto pacchiano. Lo scandalo c’è, non c’è dubbio. Michele Emiliano non è indagato, va bene. La sua, secondo la sua versione, è solo una debolezza e «non mi dimetto per un po’ di pesce». D’accordo. Ma resta il fatto che il sindaco di Bari è un moralizzatore e aspira persino a essere

un leader nazionale per rappresentare il Mezzogiorno in Italia e in Europa. Le cozze, le spigole, le ostriche e lo champagne che cosa c’entrano? Ha detto: «Il prossimo cenone solo verdura». Ma no, che c’entra. Il prossimo cenone può essere ancora più succulento e pregiato, l’importante è che la tavola sia imbandita con i suoi soldi e non coi i regali degli imprenditori amici che vincono gare al Comune. Tutto qua. Ma al di là degli aspetti politici, morali e legali, ciò che qui conta di più sono gli aspetti culinari e gastronomici. Mangiare ostriche al cenone di Natale è da raffinati o da cafoni? La stessa domanda vale per quel tesoro di Luigi Lusi. A due passi da Palazzo Madama c’è il ristorante La Rosetta e lì Lusi faceva misurare il caviale con la bilancina e vi condiva gli spaghetti. È scontato dire che c’è una “questione morale”. I pubblici ministeri accusano Lusi di aver sottratto alle casse della Margherita ben 20 milioni di euro. La magistratura indaga su aerei, alberghi, ristoranti, vacanze. Il tutto, condito con il caviale, vi sembra una “questione morale”? Per esserlo avremmo bisogno del bene e del male, ma le raffinatezze gastronomiche di Lusi sono al di qua del bene e del male. La sua è una “questione estetica”. Il senatore Lusi sembra un personaggio del Satyricon di Petronio o, se volete, potrebbe essere il Gastone di Petrolini. Oddio, avendolo visto in televisione non sembra averne il fisico.Troppo tondo, troppo robusto mentre Gas è più magro e ha un altro stile e conosce l’autoironia e soprattutto è nobilmente squattrinato. L’estetica del senatore Lusi non conosce la vita bella ma la bella vita che diventa subito brutta perché è fatta con i soldi del partito che il partito ha ricevuto dallo Stato che li ha presi dalle nostre tasse.

La poetica del caviale, delle ostriche e dello champagne è triste. Ti dà l’idea di un mondo sentito solo con la pancia. Anche qui: la pancia è importante e le viscere vanno salvate dalla condanna filosofica che vuole il corpo come il carcere dell’anima. Ma sia Lusi sia Emiliano sembrano avere un po’troppo stomaco e il pelo non sembra essere solo sulle cozze del pacco natalizio. La prima vittima è proprio la pancia. La virtù gastronomica è offesa con pietanze e portate da anni Sessanta. Il caviale e le ostriche sembrano venir fuori da un film felliniano sulla vita dolce di via Veneto, ma il sindaco e il senatore sembrano più Totò e Peppino, con la sola eccezione del paltò con pelliccia al collo che non hanno bisogno di farsi prestare da amici danarosi e gaudenti. C’è qualcosa di provinciale in queste storie in cui il mondo finisce in un’ostrica. Roberto Formigoni, in altre faccende affaccendato, ma non dissimili da queste, ha chiesto un dibattito pubblico contro l’illegalità. Nientemeno. Ne verremo mai fuori? Sembra uno di quei dibattiti pubblici dopo la proiezione del film. Roba da cineforum. Inoltre, quanti anni sono che si fanno dibattiti pubblici sulla illegalità, il furto, la corruzione, la concussione e, insomma, la sparizione e spartizione di soldi pubblici? La Lega-

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lità sembra diventata una santa. La Santa Legalità.Tutti la invocano.Tutti la violano. Invece, non sarà il caso di fare un dibattito pubblico e privato sull’estetica intesa come stile di vita ritirata e morigerata al fine di evitare la cafonaggine e la pacchianeria? È vero che “signori si nasce” ma qualcosa lo si può anche imparare e acquisire strada facendo. Il buongusto, le buone maniere, l’eleganza, la gentilezza hanno un che di naturale ma anche l’arte vuole la sua parte e persino l’animo un po’ triviale dei politici può arricchirsi con “virtute e conoscenza” e grazia e decoro invece che con soldi. Gli spiriti gentili tengono a distanza il danaro come se fosse cosa volgare e anche quando si siedono a tavola inclinano più verso la “cucina povera”, che è sempre più saporita, che verso la nouvelle cousine e le prelibatezze ricercate che sono insapore.

Il vero dibattito pubblico da fare, dunque, non è quello sull’illegalità bensì questo sull’estetica del deputato e del politico in genere che non sa più stare al mondo e sembra uscito da un film di Boldi e De Sica (il figlio, naturalmente, che pure mi sta simpatico). Per campare il politico ha bisogno di soldi a palate ma anche con i milioni a sua disposizione non riesce a mettere su una vita inimitabile, piuttosto solo una vita seriale e vuota dove il bell’Arturo sarebbe un modello di avvedutezza e signorilità. Anche a mangiare ci vuole stile e sapienza. Anzi, il vero signore si vede proprio a tavola: la compostezza, la disinvoltura e il distacco dalle pietanze. Ostriche, caviale e champagne più che pietanze sono status symbol che mostrano uno stato sociale cafone. Il Totò ancora lui - di Miseria e nobiltà che, sorpreso dal padrone di casa in piedi sulla tavola mentre arraffa gli spaghetti con le pani dalla zuppiera ancora fumante,

Quanti malintesi sugli status symbol! C’è un che di proviciale in queste storie di politici con troppo stomaco... Fanno venire in mente i film di Massimo Boldi e De Sica jr. comincia a ballare e dice «niente, non abbiamo fame e facciamo quattro salti» ha stile e signorilità mentre gli spaghettini al caviale da 180 euro al piatto con i soldi di partito sono di una miseria e una tristezza inarrivabili. Dalle parti di via Giulia, a Roma, c’è una locanda dove servono degli ottimi bucatini all’amatriciana: un piatto abbondante e sugoso che quando avete finito potete ripulire per bene con il pane e la classica scarpetta. Non è vero che la scarpetta non si fa, che non sta bene. Si fa e sta bene, l’importante è farla bene e con il pane con la crosta bruciacchiata. E se vi sorprendono mentre vi leccate i baffi, beh, saltate sul tavolo e dite «niente, non abbiamo fame e facciamo quattro salti». Sempre meglio che pesare il caviale con la bilancina.


sangue a Tolosa

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Sarkozy: «Una tragedia nazionale». L’omicida ha usato la stessa arma per uccidere i parà la scorsa settimana. Aperta inchiesta per atti di terrorismo

Caccia al serial killer Strage antisemita alla scuola ebraica di Tolosa: muoiono il rabbino e tre bimbi. “Firma” neonazista di Laura Giannone entrato nella scuola ebraica di Tolosa e ha sparato all’impazzata, inseguendo e uccidendo le sue vittime. E adesso in Francia è caccia all’uomo, «corpulento e con un segno evidente, un tatuaggio o una cicatrice, sulla guancia sinistra», che ieri ha sconvolto il Paese freddando tre bambine di 3, 6 e 8 anni, il padre di due di loro e ferendo gravemente un terzo ragazzo. Erano le 8.30 quando l’attentatore ha fatto irruzione davanti al collegio privato Ozar Hatora, seminando morte e terrore: Jonathan Sandler aveva 30 anni, era nato a Gerusalemme, era docente di religione e papà delle due vittime più piccole, Gabriel e Arieh. L’altra era invece la figlia del direttore dell’istituto scolastico. Diversi anche i feriti, tra i quali un adolescente di 17 anni in condizioni gravissime. «Ha sparato addosso a tutto quello che si è trovato davanti, bambini e adulti, e alcuni bambini sono stati inseguiti fin dentro la scuola», ha dichiarato il procuratore Michel Valet. Dopo il fuoco, la fuga a bordo di uno scooter, proprio come aveva fatto l’autore dei due agguati avvenuti la settimana scorsa nella stessa Tolosa e nella vicina Montauban e che avevano causato la morte di tre parà. Anche una delle armi usate per uccidere sarebbe la stessa, una calibro 11,43. È fortissimo dunque il sospetto che l’autore della strage antisemita sia il killer dei soldati, per lo più francesi di origine maghrebina. E infatti sulla strage della scuola ebraica è stata aperta immediatamente un’inchiesta per terrorismo. Intanto, grazie alle registrazioni di telecamere di sorveglianza, gli investigatori sono riusciti a individuare la targa dello scooter dell’autore della strage. Una fonte vicina alle indagini ha reso noto che il veicolo è stato acquistato a maggio: un elemento che dovrebbe contribuire all’inchiesta.

È

to il possibile per assicurarci che gli atti di anti-semitismo o razzismo trovino la risposta comune di tutta la Repubblica». La strage di Tolosa è il più grave attacco alla comunità ebraica francese negli ultimi 30 anni. Era il luglio del 1982, quando un attacco terroristico contro un ristorante ebraico di Rue de Rosier, a Parigi, causò la morte di 6 persone e il ferimento di altre 22. A settembre dello stesso anno, un’autobomba davanti all’ambasciata di Israele provocò 51 feriti. Due anni prima, sempre a Parigi, l’esplosione di un’autobomba davanti a una sinagoga causò 4 morti e 46 feriti. Nel 2009, invece, Ilan Halimi, 23 anni, commesso in una boutique di telefonia mobile venne adescato da una ragazza ivoriana e al primo appuntamento rapito, segregato per tre settimane e infine torturato e ucciso.

Preoccupazione in tutto il mondo. Il governo di Israele si è detto «inorridito». Anche i musulmani francesi piangono

Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, che ieri mattina ha sospeso la sua campagna presidenziale raggiungendo il luogo della sparatoria e che in serata era alla sinagoga Nazareth di Parigi per una cerimonia in memoria delle vittime, ha definito l’accaduto «una tragedia nazionale» e proclamato per stamattina alle 11 un minuto di silenzio in tutte le scuole del paese. Francois Hollande, il candidato socialista alle presidenziali francesi, ha lanciato un appello all’unità del Paese: «Dobbiamo fare tut-

Dall’Europa a Israele la notizia della strage a Tolosa ha suscitato reazioni di preoccupazione, di orrore e di sdegno. Il Governo di Israele si è detto «inorridito» per l’attacco e «confida che le autorità francesi faranno piena luce su questa tragedia e ne porteranno i responsabili davanti alla giustizia», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Yigal Palmor. «In Francia è avvenuta oggi l’uccisione disgustosa di ebrei, fra cui bambini piccoli. È troppo presto per stabilire lo sfondo di questo attacco ma si può affermare che è stato attivato da un antisemitismo violento ed omicida», ha dichiarato il premier israeliano Benyamin Netanyahu. Di identico tenore la reazione del Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim, che, «sconvolto», ha deciso di partire immediatamente alla volta di Tolosa. Cordoglio e orrore sono stati espressi anche dalla comunità dei musulmani di Francia. Il presidente del Consiglio francese della Cultura Musulmana, Mohammed Moussaoui, ha inviato la sua solidarietà e quella dei musulmani di Francia all’insieme della comunità ebraica. «Mi attendo - ha aggiunto - che l’inchiesta permetta di trovare rapidamente l’autore di questa barbarie da condannare nella maniera più ferma». «Una cosa spaventosa», ha definito la sparatoria davanti alla scuola ebraica il commissario europeo per gli Affari interni Cecilia Malmstrom, mentre la Conferenza dei rabbini europei, con sede a Bruxelles, ha espresso il suo «shock» e la sua «tristezza» con un co-

Due immagini del luogo di Tolosa dove ieri ha avuto luogo il tragico attentato nel quale hanno perso la vita un rabbino e tre piccoli allievi

Una striscia di sangue avvelena l’Europa

Un cocktail di odio e follia di Luisa Arezzo he succede a Tolosa? Quello contro la scuola ebraica è il terzo attacco a colpi d’arma da fuoco nella zona in pochi giorni. Gli obiettivi precedenti erano stati dei militari di origine magrebina a Tolosa e Montauban, a soli 46 chilometri dalla cittadina. E gli inquirenti, dopo qualche ora di riserbo e allusioni, adesso sono certi di essere in presenza di un serial killer o di un gruppo sparuto di ex soldati neonazisti. Probabilmente radiati dal mondo militare. Dietro la stessa arma si celerebbe dunque la stessa mano. Quella dell’uomo con un

C

tatuaggio o un’evidente cicatrice che scappa in scooter. Quasi certamente rubato. Alto, ben piazzato. Addestrato a combattere, visto che ieri ha avuto il sangue freddo di estrarre la sua arma di riserva dopo che la prima si era inceppata. Un “inconveniente” che però ha permesso agli inquirenti di stabilire un legame diretto con gli attentati che hanno insanguinato la cittadina negli ultimi giorni. Nel mirino del solitario assassino sono infatti finiti quattro parà francesi, tre morti e uno ferito. E la polizia aveva messo in collegamento i due episodi già prima del massacro


sangue a Tolosa

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municato ufficiale, in cui chiede con urgenza maggiori misure di sicurezza a tutela degli ebrei in Europa. «Questo atto orribile è indicativo di una società dove all’intolleranza è consentito di spargere i suoi veleni. Noi chiamiamo le autorità francesi a fare tutti i passi necessari per garantire che l’autore di questo atto sia trovato e assicurato alla giustizia». «C’è oggi un urgente bisogno di fare in modo che appropriate misure di sicurezza siano messe in atto presso tutte le istituzioni ebraiche in Europa, al fine di garantire che la sicurezza degli ebrei in questo continente non sia messa in pericolo», ha dichiarato il rabbino capo Pinchas Goldschmidt, presidente della Cer.

alla scuola ebraica. È l’11 marzo, domenica, quando a meno di 50 chilometri a sud di Tolosa viene ucciso con uno sparo alla testa un sottufficiale di 30 anni del primo Reggimento paracadutisti di stanza a Francazal. La vittima, di origine nordafricana, era in borghese. Quattro giorni dopo, il 15 marzo, a Mountauban, 46 chilometri più a nord, altri due soldati di 24 e 26 anni vengono uccisi e un terzo, di 28, rimane ferito. I tre militari erano in uniforme e di pelle scura - due maghrebini di religione musulmana e uno originario delle Antille - e vengono attaccati mentre tentano di prelevare denaro al bancomat all’esterno del 17mo Reggimento del genio paracadutisti. Uomini di colore ed ebrei: impossibile pensare ad una coincidenza. Gli agguati omicidi fanno probabilmente parte di un piano “razzista” ideato dalla mente di un lupo che agisce in solitario - come Anders Behring Breivik, che lo scorso anno sterminò 77 persone tra Oslo e Utoya e che tra meno di un mese sarà sotto processo - ma che si nutre del pensiero fondamentalista che cresce nei movimenti armati dall’odio di una certa destra estrema, populista e xenofoba. Fortemente attiva anche sulla rete oltre che in molti paesi del Vecchio Continente. Da parecchi

anni, però, l’ascesa di questi movimenti è considerata sì una tendenza europea, ma comunque alimentata da tensioni interne, specifiche in ogni paese. Nessuno ha mai voluto spiegare questo fenomeno - almeno fino alla strage di Utoya - con una motivazione generale. Oggi invece, dopo la tragedia di Tolosa, questa minaccia a lungo tra-

Gli agguati omicidi fanno probabilmente parte di un piano “razzista” ideato dalla mente di un lupo che agisce in solitario. Come Anders Breivik in Norvegia scurata dall’intelligence deve essere contrastata seriamente, in tutto lo scenario europeo. E ciò potrebbe forse anche essere fatto in tempi rapidi, dato che i movimenti radicali e neonazisti sono molto noti. Attenzione, però, a non fare di tutt’erba un fascio, metodo che populisti ed estremisti giustamente privilegiano. La strage di Anders Breivik è stata comunque scatenata dalla follia dell’omicida, comune agli estremisti e ai terro-

risti di ogni cultura, religione e orientamento politico. Una matrice che probabilmente sarà alla base anche del corpulento serial killer francese che spara e scappa in sella ad uno scooter e che si alimenta di cocktail a base di pazzia, violenza, odio e ideologia. Se i vari Wilders, Marine Le Pen, Heinz-Christian Strache in Austria attirano così tanti elettori, è perché sanno toccare una corda sensibile di una parte dell’elettorato. E la risposta, su scala europea, non può che essere politica, e cioè rispondere al malessere di questi elettori con idee e interventi su immigrazione, convivenza tra culture, globalizzazione, crisi, disoccupazione, equilibrio tra potere politico ed economico. Perché dopo la Norvegia è adesso la volta della Francia. Ma prima era stata la volta dell’Olanda con l’omicidio di Theo van Gogh, ucciso ad Amsterdam con un colpo di pistola per aver girato un film, Submission, sulla violenza contro le donne nella società islamica.

Anche il mondo dell’ebraismo italiano si è stretto attorno alla comunità di Tolosa. Il presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, ha ricordato «il clima di odio che da anni è denunciato per quanto avviene in alcuni Paesi europei, dove girare con un copricapo ebraico in testa è pericoloso». Il presidente degli ebrei romani ha detto che «l’Italia sembra essere tuttavia un’isola felice» e per questo ha ringraziato «tutte le forze dell’ordine a presidio delle istituzioni» ebraiche. «Non di meno - ha aggiunto - non possiamo dimenticare che ultimamente un giovane marocchino, cresciuto in Italia, stava progettando un attentato alla sinagoga di Milano. C’era anche l’obiettivo della scuola ebraica!». «Per questo - ha concluso non possiamo abbassare la guardia». Il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna, ha affermato: «le Comunità ebraiche italiane sono fraternamente vicine e condividono il dolore delle famiglie e delle Comunità francesi, nella certezza che la stragrande maggioranza della società e dell’opinione pubblica dei nostri Paesi condivida questi sentimenti». Unanime condanna e cordoglio per la strage anche da parte di numerosi esponenti politici italiani e dal portavoce vaticano Federico Lombardi, che ha parlato di atto «orribile e ignominioso», esprimendo «profonda indignazione» e sottolineando in particolare «l’età e l’innocenza delle giovani vittime». La comunità ebraica francese è la più numerosa d’Europa e, dopo Israele e gli Stati Uniti, la terza nel mondo. Secondo le stime aggiornate al 2010 della Jewish Virtual Library, sono 483.500 i cittadini di religione ebraica che vivono in Francia, mentre altre stime portano il loro numero a 500mila. La maggiore presenza si registra nelle aree metropolitane di Parigi, Marsiglia, Strasburgo, Lione e Tolosa. Gli ebrei francesi sono oggi soprattutto sefarditi e mizrahi, originari del Nord Africa e della regione mediterranea, aderenti a varie correnti religiose, dagli ultraortodossi haredim ad ampi strati della comunità pienamente secolarizzati. La più grande organizzazione religiosa, il Concistoro di Parigi, ha circa 30mila membri, a fronte di una comunità di 300mila persone.


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sangue a Tolosa

La strage di Tolosa si inserisce in una lunga scia di conflitti che spesso affondano le radici nella storia più lontana

Napoleone sulle banlieue Dall’Imperatore a Vichy: il rapporto tra gli ebrei e la Francia ha un passato molto difficile. Ma anche il presente è pieno di contraddizioni: i quartieri della disperazione sono teatro di scontri fra le «minoranze» abbandonate di Maurizio Stefanini on si sa ancora chi sia stato a sparare e a uccidere nella scuola ebraica di Tolosa: quasi certamente l’attentatore è lo stesso che la settimana scorsa sempre tra Tolosa e Montauban aveva ucciso militari, e verrebbe dunque da pensare a una pista islamista, più che a un antisemitismo locale in senso proprio. D’altra parte, i tre paracadutisti uccisi erano tutti di origine maghrebina, e come ha ricordato il giornale Le Point nel 2008 tre paracadutisti dello stesso reggimento dei militari uccisi erano stati espulsi perché affiliati a associazioni neonaziste, e fotografati mentre facevano il saluto nazista davanti a una bandiera con una croce uncinata. Potrebbe trattarsi dunque di una vendetta contro i propri commilitoni, da parte però di qualcuno che era già razzista

N

per conto proprio. Come che sia, però, la Francia è un particolare crocevia dove si sono incontrati un po’ tutti gli antisemitismi: cattolico, laico, marxista, nazista, islamista, terzomondista, e che più ne ha più ne metta. È vero che secondo i sondaggi proprio l’essere vittima dello stesso tipo di razzismo ha fatto dei musulmani francesi la popolazione islamica al mondo che ha in assoluto la migliore opinione degli ebrei: il 71% li vede in modo positivo, che è comunque meno dell’82% di opinioni positive sugli ebrei che si riscontrano tra la popolazione francese nel suo complesso.

È però quel 71% quasi la stessa percentuale di atti antisemiti su tutti gli atti di razzismo che avvengono in Francia: il 72%, quando gli ebrei francesi non

sono più di 600.000, in un Paese con 63 milioni di abitanti, 6,7 milioni di immigrati stranieri, 14 milioni di persone con almeno un genitore o un nonno nato all’estero, un milione di zingari, 9 milioni di oriundi africani o nord-africani e tra i 5 e gli 8 milioni di musulmani. La Francia è stato il Paese del caso Ilan Ha-

Il rapimento e la morte di Ilan Halimi nel 2006 fecero scalpore nel mondo

limi: il giovane ebreo 24enne che nel 2006 fu rapito e trucidato dopo tre mesi di torture da una gang di giovani maghrebini che si ostinavano a voler estorcere un ricco riscatto da una famiglia povera, che secondo loro doveva essere per forza facoltosa proprio in quanto ebrea. Un rapporto del 2002

mostrò che in un anno gli atti di antisemitismo si erano sestuplicati. Ma già nel 1990 il Paese era stato scioccato dalla profanazione di tombe ebraiche a Carpentras. Dall’estrema sinistra all’estrema destra ci sono state le battute antisemite dell’umorista di origine camerunese Dieudonné, che poi sull’onda dello scandalo ha poi cercato di buttarsi in politica con posizioni alla Grillo, e l’antisemitismo “dettaglio della Storia” di JeanMarie Le Pen. Ma già Charles De Gaulle al tempo della Guerra dei Sei Giorni aveva descritto gli ebrei come un popolo “sicuro di sé e dominatore”, e senza arrivare agli estremi del negazionista Robert Faurisson il “tabù dell’Olocausto” è stato attaccato sia da un ex-comunista convertito all’islamismo come Roger Garaudy che da un cattolico di sinistra come l’Abbé


sangue a Tolosa Pierre. Negli ultimi anni questa recudescenza dell’antisemitismo ha portato a un doppio fenomeno migratorio: ebrei che abbandonano le banlieues o altri luoghi a eccessiva presenza di islamici, e ebrei che lasciano addirittura la Francia per Israele, a un ritmo che nel nuovo millennio è stato di almeno 10002000 unità all’anno. Va ricordato che prima ancora di quest’ultimo attentato, le lettere minatorie erano appena state inviate a due sinagoghe di Parigi: «siete il popolo di Satana, l’inferno vi aspetta».

Ma d’altronde, la complessità di questo rapporto tra ebrei e Francia non è nuovo. In teoria, l’espulsione di massa del 1394 avrebbe dovuto porre fine a oltre un millennio di presenza degli ebrei in Francia. Ma gli ebrei del Delfinato ne furono esentati per via di una clausola del trattato del 1494 con cui il feudatario locale aveva venduto il suo dominio ai Valois, gli ebrei di Avignone furono protetti dalla sovranità pontificia, gli ebrei alsaziani entrarono in Francia con annessioni successive, e agli ebrei sefarditi espulsi da Spagna e Portogallo fu permesso di stabilirsi con un provvedimento a hoc. Dopo di che la Rivoluzione Francese decise un po’ melodrammaticamente che “non avendo gli ebrei una patria, la Francia decideva di offrirgliene una”, e gli eserciti napoleonici divennero famosi come emancipatori degli ebrei dai ghetti d’Europa. Un quadro che peraltro espose anche gli ebrei a frequenti pogrom anti-giacobini, e che portò anche gli ambienti antirivoluzionari a creare la leggenda della Rivoluzione come complotto ebraico-massonico. I “Quattro Stati” di ebrei, massoni, protestanti e “meteci”, nel senso di oriundi stranieri, fu la definizione di quella Action Française che tra fine ‘800 e prima metà del ‘900 avrebbe fatto da ponte tra il pensiero legittimista e il fascismo. Va però ricordato che Napoleone se aveva emancipato gli ebrei aveva però anche cercato di irreggimentarne l’organizzazione religiosa, in modo analogo a quanto aveva d’altronde cercato di fare con il papato e con tutte le altre confessioni. Che i giacobini avevano vietato l’ebraismo al pari del cattolicesimo, oltre a mandare sulla ghigliottina i massoni allo stesso modo dei cattolici. Che furono gli ebrei Rothschild i principali sostenitori delle guerre anti-napoleoniche inglesi. E che un filone di anti-semitismo aveva attraversato anche l’illuminismo. È vero che le sparate antisemite di Voltaire vanno considerate essenzialmente un espediente per attaccare il cattolicesimo nelle sue basi bibliche aggirando la censura, e che lo stesso

L’analisi di Fiamma Nirenstein dopo l’attacco alla scuola ebraica

«L’Europa si vergogna, ma non interviene»

«Uccisi dei bambini innocenti, la cui unica colpa era quella di essere ebrei. Su questo non ci sono dubbi» di Franco Insardà

ROMA. «L’antisemitismo è nemico dell’uma- chiati a sangue e pugnalati perché avevano nità. Mi sembra del tutto evidente. È un fenomeno che va riconosciuto, l’Europa se ne vergogna, avendo fatto l’Olocausto, e non vorrebbe ammettere di essere recidiva». Fiamma Nirenstein, vice presidente della commissione Esteri e presidente del comitato d’indagine parlamentare sull’Antisemitismo, reagisce così alle tragiche notizie che arrivano dalla Francia. Parliamo di Tolosa. Chiunque sia l’assassino della scuola ebraica di Tolosa salta agli occhi un fatto: egli nella sua smania omicida ha prescelto dei bambini ebrei innocenti che stavano entrando nella loro scuola». Da quali ambienti potrebbe provenire? È ancora da verificare se è lo stesso che ha ucciso i soldati francesi di origine magrebina. Ci potrebbe, quindi, essere un’origine qaedista che avrebbe gli ebrei come complemento indispensabile di qualsiasi strage fascista e insieme a questi quelli che venivano considerati traditori. L’altra ipotesi, la più realistica, potrebbe essere quella che si tratti di un esaltato, obnubilato, deciso a distruggere tutto ciò che è straniero e globalizzato. La cosa più importante da sottolineare è però un’altra. Quale? Che questo individuo è andato in una scuola a sparare e uccidere dei bambini innocenti, la cui unica colpa era quella di essere ebrei. Su questo non ci sono dubbi. Da più parti si chiede una reazione a livello europeo. Sarebbe giusto perché tutte le indagini fatte a livello europeo evidenziano che la crescita dell’antisemitismo è stata verticale. Negli anni che vanno dal 2000, dal tempo della prima Intifada del 2001, gli episodi di violenza a carattere antisemita è stata enorme. A quali si riferisce? A Parigi nel 2006 fu rapito Ilan Halimi un ragazzo ebreo di 26 anni, tenuto prigioniero da un gruppo islamista, che gli leggeva il Corano e lo torturava. Dopo tre settimane fu poi gettato a morire in una discarica e la Polizia non trovò i suoi assassini, nonostante fosse un gruppo conosciuto, perché si rifiutò di seguire le tracce dell’antisemitismo. E ancora tanti altri. Ragazzine aggredite perché avevano la stella di David al collo, ragazzi pic-

la kippa. Dove accadono di più questi episodi? È successo dappertutto, soprattutto in Francia, dove non hanno mai smesso di bruciare sinagoghe e tirare bombe molotov e in Germania. La tabe dell’antisemitismo europeo in questi ultimi anni in netta ripresa e senz’altro il concime ideologico dell’odio più antico, quello contro gli ebrei, che non siamo in grado di combattere neppure dopo la Shoah. Qual è il sentimento verso Israele? La tedesca Fredrich Ebert Foundation ha svolto uno studio in 8 Paesi europei fra cui l’Italia ponendo la domanda ”considerata la politica dello Stato di Israele, posso capire perché la gente non ami gli ebrei”. Nel nostro Paese ha risposto sì il 25 per cento, Germania e Inghilterra 35 per cento, Olanda 41, Portogallo 48 e Polonia addirittura 55. Quindi in Italia la situazione è migliore? C’è meno violenza, ma da noi l’antisemitismo è più diffuso. Il 44 per cento degli italiani manifesta, in qualche modo, atteggiamenti e opinioni ostili agli ebrei. Nel 12 per cento dei casi tale ostilità si configura come antisemitismo vero e proprio.Tra il 2008 e il 2009 si è registrato infatti in Italia un costante incremento sulle piattaforme di Internet e nei social network, di siti di tipo razzista: da 836 siti rilevati nel 2008 ai 1.172 del 2009, con un aumento dunque del 40 per cento. È d’accordo con il ministro dell’Interno Cancellieri sul fatto che non esistano segnali che possa accadere qualcosa di simile anche da noi? In Italia ci sono già stati episodi molto tragici. Stefano Tachè fu ucciso a due anni nell’attentato alla Sinagoga di Roma il 9 ottobre del 1982, nel quale rimasero ferite 35 persone. La commissione per l’Antisemitismo, che presiedo, ha pubblicato una relazione, dopo un lavoro durato due anni, nella quale si evidenzia l’elevato tasso di antisemitismo anche in Italia. Dati che hanno lasciato stupefatto l’intero Parlamento anche perché è emerso che il fenomeno è in crescita sia in ambienti tradizionalmente xenofobi dell’estrema destra, sia in quelli dell’estrema sinistra. Contro Israele ci sono manifestazioni di destra e di sinistra che vanno al Ghetto di Roma.

«In Italia c’è meno violenza, ma il 44% ha solo atteggiamenti ostili»

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Voltaire avrebbe in seguito chiesto scusa agli ebrei che avevano protestato. Ma resta il fatto che durante la Seconda Guerra Mondiale il regime di Vichy non ebbe troppa difficoltà a costruire con gli scritti di Voltaire un opuscolo che venne poi largamente distribuito. Né è mancato in Francia un robusto filone antisemita alle origini del movimento anti-semita: in particolare con Proudhon. Anche se poi il socialismo francese sarebbe arrivato per la prima volta alla testa del governo con l’ebreo Léon Blum. Filoni di robusto antisemitismo si trovano poi non solo negli scrittori del collaborazionismo: da Brasillach a Drieu La Rochelle, fino a Céline delle famigerate Bagattelle per un massacro. È antisemita perfino l’innocuo Jules Verne, che peraltro militava come consigliere comunale in quel Partito Radicale che era accusato dall’estrema destra di essere la quintessenza del potere ebraico. Curiosamente, invece, non era specificamente antisemita il Joseph Arthur de Gobineau autore di quel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane che è un po’ considerato il grande incubatore del razzismo moderno. Per lui gli ebrei erano a loro volta una razza dominatrice come i bianchi, e consigliava piuttosto di stare attenti a neri e gialli. Dai gialli in particolare, che secondo lui attraverso un popolo preistorico di “finni” sarebbero stati gli antenati delle classi inferiori europee.

Pur se l’integrazione aveva favorito l’emigrazione in Francia di parecchi ebrei dall’Europa Orientale, tuttavia la sconfitta del 1870 aveva drasticamente ridimensionato la popolazione ebraica della Terza Repubblica, con la perdita della forte comunità alsaziana. E al tempo delgli ebrei in l’affare Dreyfus Francia ammontavano a non più di 86.000, su una popolazione totale di quasi quaranta milioni. Proprio Dreyfus era poi un optante alsaziano che in teoria avrebbe potuto essere considerato la quintessenza del patriottismo. Fu il modo in cui scatenò contro di sé le passioni popolare a convincere Theodor Herzl, giornalista austro-ungarico che seguiva il processo, che per quanto integrati gli ebrei sarebbero sempre stati possibili vittime dei rigurgiti antisemiti più inaspettati, fino a quando non avessero avuto una propria patria. E così creò il sionismo. La vittoria dei dreyfusardi, è vero, dimostrò l’esistenza anche di quell’altra Francia, e di una cultura anti-antisemita che conta anch’essa si nomi illustri: dall’Eugène Sue dell’Ebreo errante all’Émile Zola del J’accuse. Ma durante il regime di Vichy i tedeschi avrebbero uccisi ben 90.000 dei 350.000 ebrei francesi, con ampie complicità da parte della popolazione locale.


società

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Entro la metà di aprile i lefebvriani dovranno dire se accettano le condizioni della Chiesa di Roma per la “riconciliazione”

L’ultimatum del Papa Posizioni troppo distanti perché il negoziato non fallisca. Ma con quali conseguenze? di Luigi Accattoli el giro di un mese” i lefebvriani debbono dire se accettano o no il “preambolo dottrinale” per la “piena riconciliazione” che è stato loro consegnato il 14 settembre scorso: lo ha detto venerdì 16 marzo il portavoce vaticano Lombardi commentando un comunicato della Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicato lo stesso giorno. Dunque la“chiarificazione”deve arrivare entro la metà di aprile: siamo forse alla stretta finale e forse anche alla rottura della trattativa. Tra i commentatori c’è chi ha dato un’interpretazione drastica del comunicato e dell’indicazione temporale offerta dal portavoce: cioè come di un ultimatum “prendere o lasciare”. Ma non sono mancate voci più possibiliste che hanno ipotizzato che il Papa abbia in serbo altre mosse, o sia disposto a un prolungamento dei tempi della “chiarificazione”.

“N

Propendo per questa seconda lettura, ma non vedo possibile un rilancio per tempi lunghi: se non basterà un mese, il Papa aspetterà un trimestre, non credo di più. È del resto evidente che la pubblicazione del comunicato e il “mese” evocato da Lombardi hanno la finalità di mettere fretta all’interlocutore. Il comunicato di venerdì dà conto di un incontro avvenuto lo stesso giorno tra il cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e il vescovo Bernard Fellay, Superiore Generale della Fraternità sacerdotale San Pio X. Rievoca il “preambolo”di settembre precisando che in esso «si enunciavano alcuni principi dottrinali e criteri di interpretazione della dottrina cattolica, necessari per garantire la fedeltà al Magistero della Chiesa e il sentire cum Ecclesia». Il comunicato informa poi che la “risposta della Fraternità” al preambolo, arrivata in Vaticano in gennaio, «è stata sottoposta all’esame della Congregazione per la Dottrina della Fede e successivamente al giudizio del Santo Padre». Ne è venuta «in ottemperanza alla decisione di Papa Benedetto XVI» una lettera consegnata venerdì a Fellay

con la valutazione della sua risposta: «In essa si fa presente che la posizione, da lui espressa, non è sufficiente a superare i problemi dottrinali che sono alla base della frattura tra la Santa Sede e detta Fraternità». Questa è la conclusione del comunicato, nella quale non mancano toni ultimativi: «Al termine dell’odierno incontro, guidato dalla preoccupazione di evitare una rottura ecclesiale dalle conseguenze dolorose e incalcolabili, si è rivolto l’invito al Superiore Generale della Fraternità sacerdotale San Pio X di voler chiarificare la sua posizione al fine di poter giungere alla ricomposizione della frattura

esattamente i punti per i quali critichiamo il Concilio» (omelia del 2 febbraio).

Se i responsabili della Fraternità non potevano accettare quanto dice il Catechismo - che è stato elaborato sotto la direzione del cardinale Ratzinger e il cui Compendio è stato promulgato da Benedetto XVI poco dopo l’elezione - certo non potevano attendersi che venisse accettata, da Papa Benedetto, la loro controproposta, così formulata da Fellay nell’omelia della Candelora: «Se ci accettate così come siamo, senza cambiamenti, senza obbligarci ad accettare queste cose, allora siamo pronti.

La formalizzazione della rottura può portare a una nuova scomunica o a un “ordinariato” aperto a chi non condivide il rifiuto del preambolo da parte della leadership della Fraternità San Pio X esistente, come auspicato da Papa Benedetto XVI». Sapevamo già - da un’intervista del vescovo Fellay data il 27 novembre al bollettino online (www.laportelatine.org) del distretto francese della Fraternità e da una sua omelia del 2 febbraio - che il preambolo vaticano non aveva l’approvazione dei responsabili della Fraternità e conoscevamo in particolare la loro asserita “impossibilità” di accettare i due punti riguardanti la libertà religiosa e l’ecumenismo, segnalati dal preambolo come decisivi: «I nostri interlocutori danno un altro significato [rispetto a noi] alla parola “tradizione” ed è per questo che siamo stati costretti a dire di no. Non firmeremo quel documento (…). Il problema è che in questo testo danno due esempi di cosa e come dobbiamo capire questi principi. Questi due esempi che ci forniscono sono l’ecumenismo e la libertà religiosa, come sono descritti nel nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, che sono

Ma se volete farci accettare queste cose, non lo siamo». “Così come sono” Roma non li può accettare - ciò è stato affermato da Paolo VI, da Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI - e

dunque già si poteva cavare da quell’omelia un ulteriore argomento a favore di chi prevedeva - e prevede - che la riconciliazione non si avrà, almeno sotto questo Papa e con questa leadership della Fraternità. Accettarli“così come sono”comporterebbe il riconoscimento di quanto da loro operato e dunque la legittimazione a continuare su quella linea. Che abbiamo saputo di nuovo dal comunicato di venerdì? Che il Papa segue personalmente il negoziato e che prevede - in caso di un suo “fallimento” gravi “conseguenze”. Quali conseguenze? Di certo la formalizzazione della “rottura”, forse una nuova scomunica (ma la credo poco probabile), forse la proposta unilaterale da parte di Roma di una soluzione canonica sul tipo degli “ordinariati” per gli ex anglicani rivolta a quanti sono nella Fraternità e non condividono il rifiuto del preambolo (la considero verosimile). È certo che la piena cittadinanza cattolica ai tradizionalisti lefebvriani - a

Papa Benedetto XVI. A sinistra Monsignor Lefebvre, scomunicato da Giovanni Paolo II nel 1988 e scomparso nel 1991. In basso a destra un’immagine della Fraternità sacerdotale San Pio X, che conta 500 preti e circa 300 mila fedeli tutti insieme, come sarebbe auspicabile, o solo ai più moderati - renderebbe ancora più mossa la convivenza nella grande famiglia cattolica che è già piena di tensioni. Sarebbe necessario imparare una nuova tolleranza, in alto e in basso, se non si vuole che a uno scisma che rientra non ne seguano altri due o tre fino a oggi più o meno sommer-


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culturazioni” assai lontane dai canoni romani. Ma la convivenza con una comunità lefebvriana che resti sulle attuali posizioni è chiaramente insostenibile, anche per un uomo mite e duttile come Papa Benedetto. Faccio tre esempi: il Catechismo della Chiesa Cattolica, la beatificazione di Giovanni Paolo II, la giornata di Assisi dell’ottobre scorso. Il Catechismo è abitualmente guardato con sospetto nella compagine cattolica di orientamento“conciliare”, che vi vede un’interpretazione riduttiva del Vaticano II. Molto criticata per esempio è in queste settimane la decisione di Papa Benedetto di porre il ventennale del Catechismo a tema dell’Anno della Fede (che partirà il prossimo ottobre) insieme al cinquantesimo dell’avvio del Vaticano II. Ed ecco la Fraternità che qualifica come “inaccettabile”, perché troppo conciliare, ciò che il resto della Comunione cattolica valuta come troppo poco conciliare.

si - che potrebbero decollare: quello della non ricezione nel Nord del mondo della precettistica in materia familiare e sessuale e quello delle comunità d’Africa e d’Asia che vanno elaborando proprie teologie e “in-

I seguaci di Monsignor Lefebvre hanno considerato “catastrofiche” le decisioni di Benedetto XVI di beatificare Giovanni Paolo II e di convocare una nuova giornata di Assisi

Abbiamo ascoltato a più riprese lungo l’ultimo anno la Fraternità lefebvriana qualificare come “catastrofiche” le due decisioni benedettiane di beatificare Giovanni Paolo II e di convocare una nuova giornata di Assisi, in occasione della quale la Fraternità ha indetto, in contemporanea, una “giornata di riparazione”in segno di penitenza per lo “scandalo” venuto da quell’incontro del Papa con le religioni mondiali: è lampante che non può avere piena cittadinanza nella Chiesa Cattolica chi muove queste accuse frontali e globali. Ma la Fraternità conta circa 500 preti e i “fedeli”sono stimati sui duecento-trecento mila. È verosimile che una metà di loro e forse più possa accettare la mano tesa del Papa rifiutata dal loro vertice. www.luigiaccattoli.it

e di cronach

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