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ISSN 1827-8817

20310

mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

he di cronac

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 10 MARZO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’omicidio dell’ingegnere italiano in Nigeria mette in urto Downing Street con il Colle e Palazzo Chigi

Napolitano non fa l’inglese Duro commento al blitz: «L’atteggiamento di Londra è inspiegabile» Il Quirinale chiede immediati chiarimenti. Risposta imbarazzata: «Avvertiti all’ultimo, ma Roma non aveva obiezioni all’intervento». Dopo quello indiano, per l’Italia si apre un altro delicato fronte Parla il generale Vincenzo Camporini Un saggio del filosofo americano

«Incalziamo Cameron, e sui marò in India deve intervenire l’Onu» «Troppa diplomazia non paga nei rapporti internazionali». Secondo l’ex capo di Stato Maggiore della Difesa, «Londra s’è comportata in modo sgradevole e discutibile mentre sull’India parlino le Nazioni Unite» Riccardo Paradisi • pagina 4

Il fattore Xandu (ovvero l’etica nel mondo globale) di Michael Novak

Ecco la prova: il governo D non è a sovranità limitata di Enrico Singer ella terribile vicenda dell’ingegnere Franco Lamolinara, ucciso assieme al suo collega britannico Chris McManus in Nigeria, s’intrecciano diversi livelli di orrore e di errori. Prima di tutto c’è la pena per la morte di due uomini che erano andati in Africa non per spirito d’avventura o per partecipare a missioni militari, ma per lavorare. Come fanno in tanti in questo mondo sempre più globalizzato, ma anche sempre più assediato dalla minaccia del terrorismo. C’è, poi, l’aspetto inaccettabile della gestione delle ultime, tragiche fasi di questo rapimento cominciato il 12 maggio del 2011 e concluso con il blitz ordinato da Londra. a pagina 5

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iversi anni fa, la business school della Wheeling Jesuit University (West Virginia, Usa) ha realizzato delle magliette per la riunione annuale, sulle quali ha fatto stampare la scritta: «La missione delle aziende consiste nel sostenere la realtà e la rispettabilità del capitalismo, della democrazia e dell’intento morale ovunque e non minarli in alcun modo». Consentitemi di prendere questa citazione come punto di partenza. a pagina 17

Alfano dichiara chiuso “l’incidente” con il ministro: ma le turbolenze nel Pdl sono il segno di nodi irrisolti

Attenti, l’invettiva di Riccardi è condivisa

È partito lo scontro sulla “nuova politica”

di Enrico Cisnetto

di Francesco D’Onofrio

l cosiddetto “caso Riccardi”, fortunatamente archiviato in 48 ore, è illuminante dello stato di salute, agonico, della politica italiana. Mentre si blatera sulla necessità del “ritorno” della politica, che sarebbe stata cancellata dai “tecnici”, cosa s’inventa il “mondo Pdl” per tornare al centro della scena “usurpata”da Monti e i suoi ministri? Prima Alfano decide di disertare il vertice con il premier, Bersani e Casini; poi si offende perché vieni fuori un commento sferzante del ministro Riccardi, “rubato” nel corso di un suo colloquio privato; quindi una cinquantina di parlamentari del Pdl fanno partire una mozione di sfiducia nei confronti del ministro.

e vicende degli ultimi giorni sono state valutate da molti punti di vista, perché si è trattato di avvenimenti di rilevante significato politico generale. È emersa in modo virulento l’antica questione del rapporto tra tecnica e politica. Questa potrà essere esaminata compiutamente tra qualche tempo, anche se si tratta di una questione antica. Il rapporto tra politica e pre-politica (che continua ad essere un punto di fondamentale significato per l’esperienza sociale dei cattolici italiani) sarà a sua volta oggetto di una specifica valutazione tra qualche tempo, una volta terminata l’emotività del momento. Ma ora è più urgente soffermarsi su una questione di più stringente attualità.

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

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NUMERO

49 •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 10 marzo 2012

italia-inghilterra

Il Quirinale chiede un «immediato chiarimento» a Downing Street. Cameron tentenna: «Siamo in contatto con l’Italia»

Fumo (nero) di Londra

Napolitano: «L’atteggiamento britannico è inspiegabile». Il responsabile della Difesa risponde imbarazzato: «Abbiamo avvertito Roma». Ma non chiarisce di che cosa né quando di Antonio Picasso nspiegabile. Così il presidente Napolitano ha definito il fallito blitz dell’Sbs in Nigeria che ha portato alla morte di Lamolinara e di McManus. Il fatto che il Quirinale si esponga con una presa di posizione tanto inequivocabile fa pensare che i piani alti delle nostre istituzioni davvero non sapessero nulla di quel che avrebbero fatto gli inglesi. Se fossero state avvisate in qualche modo, come ha invece scritto l’Independent ieri, non si sarebbero esposte. Queste braccia aperte, da parte del capo dello Stato e del governo, indicano come siamo stati presi in contropiede. A meno che, nel mare magnum dell’intelligence, l’avvertimento fosse giunto e che nessuno l’abbia preso in considerazione. È plausibile. Ma è soltanto una congettura. Non si ha alcuna prova o indiscrezione che Roma sapesse. Appare inutile quindi litigare tra noi, chiedendo la testa di questo o quell’altro ministro. E se Terzi si dimettesse (come ieri ha chiesto Maroni), cosa ne guadagnaremmo?

chiamo di mediare. Non è il caso di giudicare quale sia tra i due il modo di fare migliore. Entrambi annoverano successi e, purtroppo, fine tragiche come quella dei due morti in Nigeria. Di fronte alla fluidità dei dati, si può soltanto filosofeggiare.

I

Inevitabile quindi sostenere la linea presidenziale. Il comportamento del Regno Unito è inspiegabile. La replica di Londra suona amara per noi. «L’atteggiamento è spiegabilissimo», ha detto il ministro della Difesa britannico, Philip Hammond, aggiungendo che il governo italiano fosse a conoscenza del blitz, pur non avendolo approvato. Cosa vuol dire? Che Palazzo Chigi sapeva e che adesso non vuole ammetterlo di fronte a Napolitano? Un po’ difficile. E perché comunque Londra si è attivata senza l’ok italiano? Se c’è un’intesa vincolante tra le parti, per cui l’operazione si fa sono con l’approvazione di entrambi, il Regno Unito si sarebbe dovuto adeguare. A meno che Hammond non stia facendo riferimento a quell’accordo che, ancora una volta, pare essere stato preso dal governo Berlusconi, per cui, «se si fosse aperta una finestra di opportunità, gli uomini del Sbs sarebbero intervenuti senza tanti preamboli». L’op-

zione spiegherebbe l’atteggiamento politico di Londra, ma non l’inefficienza dimostrata dai suoi ragazzi in campo. Il risultato dimostra che la finestra di opportunità non era così aperta. Sembra che gli inglesi vogliano scaricare tutte le responsabilità su di noi. Ammesso e non concesso che l’Italia accetti, possiamo rammaricarci di non essere stati chiari nel non dare il via. La colpa del fia-

sco operativo, comunque, è solo della Difesa britannica. E comunque atteggiamento e contenuti nella dichiarazione di Hammond non soddisfano quel desiderio di chiarimenti che è stato espresso dal nostro Paese.

I precedenti potrebbero farci tendere verso commenti più severi nei confronti degli inglesi. Nel 2007, loro si sono assunti la responsabilità di liberare due

agenti del Sismi nelle mani dei talebani in Afghanistan. L’intervento riesce a metà. I sequestrati tornano in mani amiche, ma uno dei due subisce gravi ferite durante lo scontro a fuoco, al punto che morirà una volta rimpatriato a Roma. È la vecchia storia delle modalità di ingaggio. Il Regno Unito non tratta con i cattivi, quindi entra nei loro covi buttandone giù la porta a spallate. Noi, al contrario, cer-

La polizia di Kerkala chiede un’altra settimana per la perizia balistica

Marò: decisione rinviata al 15 marzo ROMA. Resta aperto anche il fronte “indiano” della doppia sfida diplomatica italiana di questi giorni. Infatti è slittata al 15 marzo prossimo la decisione del tribunale indiano sul destino dei due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di aver ucciso due pescatori quando erano a bordo del mercantile italiano “Enrica Lexie”; in acque internazionali secondo l’Italia, in territorio assoggettato alla giurisdizione indiana, secondo Nuova Dehli. Il rinvio al 15 marzo della decisione deriva dal fatto che la polizia del Kerala ha fatto sapere che occorrerà ancora un’altra settimana per terminare la perizia sulle armi sequestrate a bordo della “Enrica Lexie”. Lo scriveva ieri Times of India, ricordando che il test di sparo sui sette fucili sequestrati sono

già stati fatti; tuttavia, ha aggiunto un ufficiale, l’intero processo, a cui partecipano come «osservatori silenziosi» anche due esperti del Ros, richiederà almeno un’altra settimana come minimo. Sempre ieri, il “chief minister”del Kerala, Oommen Chandy, ha ribadito che «la legge indiana farà il suo corso, ma ha assicurato che non ci saranno conseguenze nelle relazioni diplomatiche tra i due Paesi», giacché i rapporti «fra Italia e India sono e resteranno ottimi». Intanto, la comunità internazionale si muove al fianco dell’Italia: «L’Unione europea è pronta a fare tutto il necessario per risolvere la vicenda dei due marò italiani detenuti in India» ha assicurato l’Alto rappresentante della Politica estera dell’Ue, Catherine Ashton.

È possibile che la Difesa britannica navighi a vista. E quindi in cattive acque. Cameron a ottobre ha stabilito il più pesante taglio di investimenti nel comparto dalla guerra fredda a oggi. Il che può voler dire inefficienza improvvisa, pur con la buona volontà di mantenere aperti i settori in cui Londra eccelleva fino all’altro ieri. Mi6 e Forze speciali, nella fattispecie l’Sbs, hanno sempre fatto invidia ai governi alleati, quanto agli avversari. Erano il fiore all’occhiello dell’ex Impero britannico. Possibile che oggi questo stesso fiore, pur essendo appassito, Downing street pretenda di sfoggiarlo. Con i risultati che si hanno dinnanzi agli occhi. Londra è in ansia da prestazione. Vuole a stare al passo con gli Usa in Afghanistan, ma non ce la fa. proprio ieri sono tornate a casa le salme di sei militari britannici uccisi dai talebani. Per quanto anche il Pentagono abbia ridotto le spese, Hammond e i suoi non potranno mai eguagliare l’alleato d’oltre Atlantico. C’è poi la Francia. A Cameron l’iniziativa in Libia voluta da Sarkozy lo scorso anno, autonoma e comunque non di successo, gli ha scatenato un forte prurito alle mani. È per questo che vuole muovere sulla Siria. Non potendo farlo, organizza blitz estemporanei nel cuore dell’Africa. Può altrettanto essere che dalla Nigeria siano arrivate a Londra informazioni non corrette. Del resto, chi si fida di Goodluck Johnathan e dei suoi? Il governo nigeriano è stato informato della nuova insorgenza del Boko Haram due settimane fa. Ma il gruppo è sul sentiero di guerra da mesi. A fine febbraio il leader nigeriano ha ricevuto l’invito a partecipare alla forza congiunta degli Stati del Sahel e del Maghreb


Le vittime erano nelle mani dei nigeriani di al Qaeda dal maggio scorso

Dal sequestro al blitz, dieci mesi di errori

Secondo voci non confermate, l’operazione è scattata perché Lamolinara e McManus stavano per essere uccisi di Francesco Pacifico

ROMA. Troppi interrogativi avvolgono ancora la fallita liberazione di Franco Lamolinara e Chris McManus in Nigeria. E – al momento – non sembra che gli autori del blitz nel quale sono morti l’ingegnere italiano e quello inglese abbiano tanto voglia di scioglierli.

(75mila uomini) per contrastare l’insorgenza di al-Qaeda per il Maghreb islamico (Aqmi) e appunto il Boko Haram, più attivo nella zona dell’Africa sub sahariana. L’arcipelago jihadi, in quei Paesi, è in continua evoluzione. I ribelli libici, scampati alla guerra civile, e le tribù tuareg stanno alimentando con uomini, idee e progetti di guerriglia una matassa aggrovigliata di combattenti. Il Corano, di per

Di questa inaffidabilità hanno pagato a caro prezzo non solo Lamolinara e McManus l’altro ieri, ma anche tutti quei tecnici stranieri che, in passato, sono finiti nelle mani degli indipendentisti del Mend, dei pirati nel Golfo di Guinea e della interminabile schiera di fondamentalisti attivi nel Paese. Fonti locali sostengono che agli uomini dell’Sbs sia giunta voce che i sequestratori fossero in movi-

I servizi britannici avrebbero pensato di approfittare di un trasferimento dei due ostaggi. In ogni caso, il fallimento totale dell’intervento non può che essere addossato alla loro imperizia sé travisato da Aqmi, è solo una facciata ideologica, che permette agli uomini in armi di restare più o meno uniti.Tuttavia è lecito chiedersi come sia possibile considerare questo elemento di instabilità come un blocco unico. All’interno del Boko Haram, il movimento qaedista di riferimento del Paese, sembra che si sia appena scisso con una cellula sostanzialmente impazzita che nessuno riesce a gestire. Inoltre, l’invito ai nigeriani ad affiancarsi alle sue controparti pare che sia ancora sulla scrivania del presidente Johnathan.

mento per spostare i due tecnici. Prassi normale, quando si ha un rapito tra le mani si cerca di muoverlo quotidianamente per depistare chi lo cerca. Quindi è altrettanto possibile che l’operazione sia stata orchestrata in tutta fretta per approfittare della situazione. È più facile liberare gli ostaggi quando sono in movimento, invece che sotto controllo in una location specifica. Tuttavia, e questo lo sanno anche i non addetti ai lavori, una forza speciale che si rispetti non si mette a sparare in pieno giorno.

Così, per provare a fare una ricostruzione di quanto accaduto nella mattinata di giovedì, bisogna mettere assieme pezzi di indiscrezioni pubblicate dai media e mezze verità ufficiali che si sono accavallate nella giornata di ieri. Ben sapendo che tutto potrebbero essere smentito nelle prossime ore, se il governo inglese – quello che ha dato l’ordine di agire alle teste di cuoio dello Special boat service – si decidesse finalmente a rendere nota una ricostruzione più organica dei fatti. Quel che è certo è lo scorso 12 agosto sono stati rapiti Lamolinara e McManus e che in questi mesi sono stati tenuti sotto sequestro dal gruppo salafista Boko Haram, i talebani dalla Nigeria. La svolta, però, sarebbe avvenuta martedì scorso, quando l’intelligence avrebbe individuato la casa nel comphound di Sokoto dove erano segregati gli ingegneri. Stando a quanto ha riferito ieri Skynews, gli agenti avrebbero localizzato il luogo dopo aver arrestato lunedì scorso uno dei leader locali della formazione terroristica, Abu Muhammad. Il quale, fermato insieme con altri suoi quattro compagni, avrebbe riferito ventiquattr’ore dopo che gli ostaggi «correvano il rischio di essere uccisi». Una tempistica che pare confermata anche dal fatto che il governo Roma sarebbe stato informato soltanto dell’eventualità del blitz, senza specificare la data ma chiarendo che un’azione avrebbe potuto rendersi necessaria con preavviso ravvicinato. Preavviso che, secondo la nostra diplomazia, non è mai arrivato. Così si arriva alla mattina di giovedì, quando il premier David Cameron convoca il Cobra, il comitato britannico di emergenza. E in questa sede il premier decide di far partire l’attacco, dopo che i suoi funzionari gli spiegano che l’operazione poteva essere compromessa da una fuga di notizie e che la vita degli ingegneri era già a rischio. Ventiquattr’ore dopo, il ministro degli Esteri inglese, William Hague, giustificherà il mancato avvertimento al governo italiano con il fatto che «per questa operazione abbiamo dovuto prendere una decisione molto rapidamente». A quanto pare tale premura era dovuta al fatto che i media locali nigeriani qualche ora prima avevano riferito che una casa nel sobborgo di Mabera era stata circondata perché si sospettava ospitasse militanti armati ed

era sotto sorveglianza già da due giorni. E tanto è bastato ai sequestratori per avere tutto il tempo per far saltare l’effetto sorpresa. E qui si apre il primo giallo. Da subito si è diffusa la voce che le forze d’intelligence inglesi avrebbero ascoltato telefonate dei rapitori, nelle quali si annunciava la morte dei due ostaggi. Al riguardo sempre Skynews ha fatto sapere che «le nostro fonti ci dicono che le informazioni d’intelligence sul terreno sono state più utili delle intercettazioni». Ma i britannici inseriscono anche questa tra la motivazione dell’imminente avvio del blitz. Quel che è certo è che già alle prime ore di giovedì sono allertati i militari dell’esercito nigeriano e, soprattutto, quelli britanniche. Secondo il Guardian venti teste di cuoio dell’Sbs, lo Special Boat Service della Marina Militare britannica, entrano in gioco soltanto verso le 11 del mattino, quando si deve compiere il blitz. Per il Times l’operazione va avanti per circa due ore, anche se dopo si sarebbero registrati altri scontri a fuoco, nei quali sarebbero stati coinvolti soltanto militari nigeriani e gruppi armati.

Fonti dell’intelligence riportate dalla Bbc raccontano che «mentre gli uomini del Sbs facevano irruzione nel compound, uno dei rapitori è stato ucciso ma gli ostaggi sono poi stati trovati morti. Perché secondo tutte le prime indicazioni gli ostaggi sono stati uccisi dai loro rapitori». A quanto si è poi appreso nel blitz per liberare i due ostaggi sarebbero stati uccisi otto rapitori. Mentre dal sito del governo nigeriano il presidente Goodluck Jonathan ha fatto sapere che «gli autori dell’omicidio sono stati tutti arrestati e affronteranno l’ira della legge». Quindi da Londra si conferma che, soltanto una volta conquistato l’obiettivo, le teste di cuoio avrebbero scoperto la morte di Lamolinara e McManus. Ma testimoni tra la popolazioni locale hanno detto che i due ingegneri sarebbero stati vittime del fuoco dei soldati inglesi, i quali sparavano all’impazzata. Gli abitanti di Sokoto avrebbero raccontato all’agenzia di stampa France Press che «c’erano un centinaio di uomini intorno al perimetro che circonda il compound di Sokoto. Nel corso dell’operazione le truppe inglesi avrebbero bloccato l’ingresso del covo con l’ausilio di tre camion mentre un elicottero militare supervisionava l’area». I rapitori, prima di impegnarsi nella sparatoria contro le Sbs, avrebbero tentato la fuga cercando di scalare un muro in costruzione. E tanto basta per capire che l’operazione, da blitz, si è trasformato in un’azione di guerra. Che potrebbe essere stata letale per Lamolinara e McManus.

I due lavoravano per conto di un’impresa internazionale che si occupa della costruzione di un edificio che doveva ospitare la sede di una banca


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italia-inghilterra Qui accanto, l’edificio di Sokoto, nel nord-ovest della Nigeria, dove sono stati trovati uccisi Franco Lamolinara e l’altro ostaggio, l’inglese Cristopher McManus. I due cooperanti, che si occupavano della costruzione di un palazzo, sede di una banca, erano stati rapiti poco lontano il 12 maggio 2011. Secondo voci non confermate, Londra avrebbe deciso il blitz informata del fatto che i sue ostaggi stavano per essere «venduti» a un’altra organizzazione criminale

L’ex capo di Stato maggiore alla Difesa analizza le tensioni con Nuova Delhi e Gran Bretagna: «Meno appeasement e più fermezza»

Svegliati, Italia!

«Troppa diplomazia non paga», dice il generale Camporini. «Londra s’è comportata in modo sgradevole e discutibile mentre sull’India devono intervenire le Nazioni Unite: è un chiaro problema di diritto internazionale» di Riccardo Paradisi Italia deve uscire dal suo tradizionale appeasement diplomatico, mostrare più decisione nelle crisi internazionali che la coinvolgono; in particolare nella questione dei marò, ostaggi in India, deve aprire un caso internazionale chiedendo il coinvolgimento delle Nazioni Unite. L’ex capo di stato maggiore della Difesa Vincenzo Camporini, oggi vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali, non vede altra condotta che la fermezza per affrontare questi giorni d’alta tensione dove all’arresto di due marò italiani in India, s’è aggiunta l’uccisione in Nigeria dell’ingegner Lamolinara in un blitz ordinato da Londra a nostra insaputa.

L’

Il generale Camporini nella sua conversazione con liberal, parte dal caso dei marò prigionieri in India. «Quanto sta avvenendo tra India e Italia dovrebbe chiamare in causa l’Europa e la comunità internazionale. È importante che il nostro

presidente del Consiglio sia intervenuto direttamente sul governo indiano ma servirebbe anche un’esplicita presa di posizione dell’Europa che non può lavarsene le mani e che anzi dovrebbe esercitare una pari pressione sull’India».

Ma non basta ancora: secondo Camporini a questo punto deve essere l’intera comunità internazionale ad intervenire. «Qui non si tratta di una tensione esclusiva tra India e Italia o tra India ed Europa di cui l’Italia è uno stato membro, si tratta piuttosto di un problema tra India e resto del mondo. Siamo infatti di fronte a un atto, gravissimo, che costituisce un pericoloso precedente per tutti i paesi membri della comunità internazionale». Per questo il governo italiano dovrebbe ricorrere ufficialmente alle Nazioni Unite: «Siamo di fronte alla violazione delle normativa internazionale da parte di uno dei membri delle Nazioni unite, sicché non si capisce perché

queste non debbano intervenire con tempestività e severità, sanzionando e intimando la rapida soluzione della vicenda. In caso contrario si stabilirebbe con tacito assenso degli organismi chiamati a intervenire, il principio che la comunità internazionale può transigere con uno stato che viola una regola del quadro normativo che disciplina i rapporti tra stati». In virtù di questo ragionamento «Non è solo l’Italia ad essere lesa, è stato violato il diritto

«È importante che i nostri marò non siano in cella. Ma ora tornino a casa»

internazionale. Il vulnus non è soltanto per il nostro Paese. Per questo – ripete il generale - si deve chiedere di far valere le norme che sono in vigore nel diritto internazionale. Si tratta di sensibilizzare le altre capitali per far capire che non si tratta di un incidente che riguarda solo noi».

Insomma se non si impone oggi all’India il rispetto delle convenzioni internazionali rischia di saltare tutto il quadro

normativo che regola i rapporti tra paesi sovrani. «È stato importante comunque, sottolinea Camporini, che il governo italiano con il sottosegretario Staffan De Mistura abbia tenuto fermo e abbia fatto pesare la sua presenza in India evitando l’ingresso in cella dei due marò». De Mistura peraltro rassicura sull’esito della vicenda: «Li porteremo sicuramente a casa. Il diritto internazionale non può essere tradito, sarebbe una tragedia per tutti anche per gli indiani». Un velato ottimismo quello del sottosegretario alla vigilia dell’incontro con l’Alta Corte sulla giurisdizione: «Abbiamo una linea chiara di strategia e di difesa che è legata alla prova del nove che è quella balistica: se è a nostro favore non si solleva il putiferio, si esce, non si ringrazia, si saluta e portiamo i marò fuori. Se invece la prova è contraria ai marò, in quel caso lì si alza il tiro o il tono con la comunità internazionale giocando soprattutto sull’unica vera


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C’è bisogno di un esecutivo forte che spenda tutta la propria autorevolezza nel mondo

Ecco la prova: il governo non può essere a sovranità limitata

La doppia crisi diplomatica dimostra come sia sbagliata la pretesa del Pdl di costringere Monti entro i confini della sola politica economica di Enrico Singer ella terribile vicenda dell’ingegnere Franco Lamolinara, ucciso assieme al suo collega britannico Chris McManus in Nigeria, s’intrecciano diversi livelli di orrore e di errori. Prima di tutto c’è la pena per la morte di due uomini che erano andati in Africa non per spirito d’avventura o per partecipare a missioni militari, ma per lavorare. Come fanno in tanti in questo mondo sempre più globalizzato, ma anche sempre più assediato dalla minaccia del terrorismo. C’è, poi, l’aspetto inaccettabile della gestione delle ultime, tragiche fasi di questo rapimento cominciato il 12 maggio del 2011 e concluso con il blitz ordinato da Londra senza preavvertire e coinvolgere Roma nelle decisioni. Un vero schiaffo che ha fatto scendere il gelo nei rapporti tra il nostro Paese e la Gran Bretagna con le imbarazzate scuse di David Cameron e il sacrosanto risentimento di Mario Monti. Un comportamento, quello britannico, che il presidente Napolitano ha definito “inspiegabile” e che ha scatenato una tempesta di polemiche con tutte le forze politiche che protestano in nome della difesa dell’orgoglio nazionale. Ma proprio in questo fronte, in apparenza unito nel reclamare rispetto per l’Italia, c’è un elemento paradossale sul quale riflettere. Le parole più forti, i giudizi più risentiti sono arrivati da chi, allo stesso tempo, vorrebbe assegnare al governo tecnico del professor Monti soltanto il compito di riportare in pareggio i conti pubblici, teorizzando che la sua unica missione deve essere quella di rimettere in moto l’economia. Quasi che un esecutivo possa essere a “governabilità limitata” con un territorio d’intervento ammesso e uno vietato. Da applaudire quando riesce a riportare lo spread tra titoli italiani e bund tedeschi a livelli accettabili e da fischiare, se non addirittura da sabotare, disertandone gli incontri, quando osa affrontare temi come la riforma della giustizia o il nodo della Rai. E la politica estera in quale territorio dovrebbe essere collocata?

N

Già nel caso dei due marò imprigionati in India, questo equivoco interno alla maggioranza che sostiene Monti – e che fuori dai nostri confini è avvertito forse meglio che nei palazzi romani della politica – ha creato malintesi, incertezze e ritardi nell’azione. Adesso la storia si ripete e si amplifica. Si dirà che la Gran Bretagna non è nuova a comportamenti simili, che il suo passato di grande potenza coloniale non l’ha mai abbandonata quando deve gestire le sfide sul terreno: che si tratti della guerra delle Falkland o dell’impiego spregiudicato delle sue teste

di cuoio in azioni di commando. Ma se David Cameron ha trovato normale decidere il rischioso intervento a Sokoto – che si è poi trasformato in disastro – senza nemmeno consultare, se non a “operazione avviata”, un alleato come l’Italia con il quale opera fianco a fianco nella Nato, significa che qualche cosa si è inceppato tra Londra e Roma. Ma Cameron è lo stesso che ha ricevuto un mese fa Monti a Downing Street per stabile una strategia co-

Nell’insultare l’Italia e la Farnesina Maroni e Gasparri si sono trovati (stranamente?) sulla stessa linea

mune nei confronti di Angela Merkel ed è lo stesso che, con Monti, ha firmato la lettera che ha chiesto alla Ue di affiancare misure per la crescita al rigore di bilancio. E questo dimostra che il premier britannico è ben consapevole di quanto l’Italia – grazie al suo governo tecnico – abbia recuperato in termini di credibilità e di peso sulla scena europea in materia economica. Ma perché il recupero dell’autorevolezza sia a 360 gradi è necessario che l’appoggio all’esecutivo di “impegno nazionale” da parte dei partiti che ne compongono la maggioranza sia sincero e senza quelle riserve che finiscono per danneggiarne l’immagine in nome di piccoli – anche se a volte possono sembrare grandi – interessi di bottega.

Se dalla Lega c’era da attendersi una reazione come quella dell’ex ministro degli Interni, Roberto Maroni (”Dopo la figuraccia sui marò il governo, per nulla autorevole, dei professori si fa prendere per il culo dagli inglesi nella tragica vicenda dell’italiano ucciso in Nigeria”), il twitt del presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri (”India e Nigeria, è questa la credibilità internazionale del governo Monti e dintorni? Umiliati come mai prima”), per citare soltanto una delle dichiarazioni di questo genere, è la prova che proprio dai paladini della “governabilità limitata”arrivano i colpi che danneggiano l’immagine esterna del nostro Paese. Governo tecnico non vuol dire occuparsi soltanto di questioni tecniche – se così possono essere definite la politica fiscale o la riforma del mercato del lavoro – ma affrontare tutti i problemi che via via si presentano lungo il cammino con un approccio senza pregiudizi di parte. Ma anche senza alcun limite di competenza. Senza territori off limits. Che si tratti della Rai, della giustizia o della gestione delle crisi internazionali. Altrimenti non si fa altro che alimentare una visone distorta – ma, ancora purtroppo, molto diffusa nelle altre capitali – del nostro Paese che è identificato, per rimanere ai fatti di cronaca recenti, con la figura del comandante Schettino finito sugli scogli con la sua nave, piuttosto che con l’impegno per ricollocare l’Italia nel posto che le spetta. Sapendo che non è facile ribaltare il giudizio che, soprattutto nel mondo anglosassone, da Londra a Berlino, ci dipinge come un Paese poco affidabile. Ma che l’occasione non va sprecata.

carta vincente che è quella del precedente: militari italiani degni, che fanno il loro mestiere, il loro lavoro su base di una legge in un’intesa internazionale non possono essere arrestati da un paese straniero». Toni fermi. Che per Camporini sono fondamentali per risolvere lo stallo.

Sul caso diplomatico esploso tra Italia e Gran Bretagna Camporini ha un’opinione più mediata. «Da quanto si può desumere dalle notizie stampa, da parte inglese c’è stato nei nostri confronti un atteggiamento che si può definire ”border line”. È molto sgradevole non essere stati avvisati e consultati preventivamente sui tempi e i modi dell’operazione che è costata la vita a un nostro concittadino. È pur vero però che certe operazioni devono avere il carattere della rapidità, della discrezione e del decisionismo. Inoltre nella tradizione inglese quando c’è la possibilità di agire a salvaguardia dei propri interessi nazionali lo si fa senza tanti complimenti. Detto questo gli inglesi avrebbero dovuto avere maggior rispetto sostanziale nei confronti delle prerogative italiane». Ma recentemente sono stati anche altri i gravi affronti internazionali che l’Italia ha subito in silenzio, nel solco di quell’appeasement di cui si diceva che a tratti sembra sfiorare l’ignavia. «Ad essere gravi sono state le modalità con cui sono cominciati gli attacchi alla Libia. In quel caso la Francia ha avuto un comportamento criticabile dando il via all’attacco aereo ad un paese con cui avevamo un trattato di amicizia e attraversando lo spazio aereo di responsabilità italiana prima ancora che l’azione venisse concordemente approvata dalla coalizione che si stava formando. In quel caso l’Italia avrebbe potuto considerare l’eventualità di intimare agli aerei francesi in volo di atterrare per consentire una discussione politica che non fosse una mera presa d’atto». Una tradizione di passività spezzata con il caso di Sigonella «quando il felice combinato disposto tra la determinazione di un presidente del Consiglio come Craxi e quella del comandante di Sigonella mise dei paletti e segnò una controtendenza rispetto al costume italiano di risolvere sempre in modo soft le situazioni». Insomma, ora è anche il presidente della Repubblica Napolitano a battere i pugni sul tavolo e chiedere spiegazioni a Londra: «Dopo il blitz inglese in Nigeria durante il quale è morto un ostaggio italiano è necessario un chiarimento sul piano politico-diplomatico. Il comportamento inglese è inspiegabile».


politica

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Molti nella maggioranza fingono di dimenticare che questo governo è in carica perché il precedente ha fallito in Europa

L’invettiva condivisa Quello che non capiscono nel Pdl è che Riccardi non ha “insultato” la politica, ma un certo modo di farla. E nel Paese molti la pensano come lui di Enrico Cisnetto l cosiddetto “caso Riccardi”, fortunatamente archiviato in 48 ore, è illuminante dello stato di salute, agonico, della politica italiana. Mentre si blatera sulla necessità del “ritorno” della politica, che sarebbe stata cancellata dai “tecnici”, cosa s’inventa il “mondo Pdl” per tornare al centro della scena “usurpata” da Monti e i suoi ministri? Prima Alfano decide di disertare il vertice con il presidente del Consiglio, Bersani e Casini; poi si offende perché vieni fuori un commento sferzante del mini-

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del Pdl fanno partire una mozione di sfiducia nei confronti del ministro, che però rientra dopo le sue scuse e il beau geste del segretario del Pdl di accettarle. Il tutto perché Riccardi ha detto che gli fa schifo quel modo di fare politica.

Ora, l’unico torto che il ministro ha è di aver chiesto scusa, perché non avendo detto la solita frase “la politica fa schifo” – d’altra parte, chi conosce il fondatore della Comunità di S. Egidio sa bene che non è incline a quel genere di

Il Pd, che a Palermo ha ripetuto il suicidio di Genova, vive la paradossale situazione di essere nello stesso tempo il potenziale vincitore delle prossime politiche e il perdente delle sue primarie stro Riccardi,“rubato”nel corso di un suo colloquio privato (se ne lamentano gli stessi che hanno sempre apostrofato come “sciacalli” i giornalisti che captano ed estrapolano frasi da colloqui privati); quindi una cinquantina di parlamentari

qualunquismo – ma avendo fatto la più che legittima e fondata affermazione che “quel modo di fare politica fa schifo”, non ha nulla di cui deve pentirsi e tantomeno vergognarsi. E per sostenerlo non c’è bisogno di ricorrere alla

vasta platea del “popolo del web”, che al grido “io sto con Riccardi” si è subito schierata contro la “casta” – anche perché lì spesso alligna il qualunquismo – né valutare il livello di discredito che la “vecchia politica” ha raggiunto nel Paese. No, basta giudicare la drammatica empasse in cui vivono da mesi i due maggiori partiti.

Il Pd, che ha ripetuto a Palermo il suicidio di Genova (e ancor prima di Milano e Napoli), vive la paradossale situazione di essere nello stesso tempo il potenziale vincitore delle prossime elezioni politiche e il perdente delle sue primarie. Il che significa che nel 2013 anche se i numeri dovessero dargli ragione, si ritroverebbe sconfitto politicamente come lo fu Prodi nel 2006. Il Pdl, dal canto suo, mostra fermenti interni non inferiori a quelli dei Democratici, con Berlusconi che è costretto a fare patetiche dichiarazioni pubbliche di apprezzamento per Alfano perché tutti sanno

Alfano, sotto attacco nel partito, mette la parola fine alla polemica

«Il caso è chiuso, niente sfiducia» ientra la polemica contro il ministro della cooperazione Andrea Riccardi da parte del Pdl di cui 45 senatori avevano firmato una lettera dove si chiedeva al ministro di scusarsi per le dichiarazioni ”offensive”rilasciate in merito alla decisione di Alfano di non partecipare al vertice don il premier Monti e i segretari del Pd e dell’Udc Bersani e Casini. La polemica si chiude con il chiarimento dello stesso segretario del Popolo della libertà Alfano che rinnova la fiducia al governo e allo stesso ministro. «Niente sfiducia a Riccardi. Ho parlato con Nitto Palma, Gasparri e Quagliariello. Già informato il presidente Monti. Istituzionalmente comunicato anche al Presidente Schifani. Per me no problem! Con lui caso chiuso...Ovviamente spero non ci regalino un bis...». Si dice ”molto amareggiato” da parte sua il commissario regionale del Pdl Campania Nitto Palma per le esternazioni del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi

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secondo cui ”la politica fa schifo”. Nitto Palma chiarisce anche la lettera dei 46 senatori da lui promossa «non è un atto di sfiducia del governo Monti, che noi abbiamo sostenuto con grande lealtà e continueremo a farlo, ma è indirizzata specificatamente a un comportamento» spiega Palma. Garanti del sostegno al governo, aggiunge, «sono il presidente Berlusconi e il segretario Alfano. Lo stesso Monti ha detto di avere rispetto per il Parlamento, chiesa della politica. Mi auguro che episodi del genere non si ripetano più - conclude - noi lavoriamo seriamente e non riconosciamo a nessuno, tantomeno a Riccardi, quella superiorità etica e anche un po’moralistica che gli ha consentito di dire che la politica fa schifo». Ma oltre ad essere un avvertimento per Riccardi la lettera dei 46 aveva come obiettivo anche Alfano. Ricordargli che non tutti nel partito sono allineati al governo.

che ne fa private di segno nettamente opposto. Così di fronte all’encefalogramma piatto di una linea politica che non esiste, il partito non trova di meglio che ergersi a paladino della politica “buona” contro la presunta anti-politica, “cattiva”, dei ministri che “sono il senza consenso”. Dichiarazioni prive di senso del ridicolo, visto è che proprio grazie al combinato disposto di essere figli dell’anti-politica di 20 anni fa contro la casta e la parti-

tocrazia della Prima Repubblica (e dunque privi di solide radici di cultura politica) e della perdita del consenso che gli era stato consegnato in abbondanza dagli italiani che Berlusconi e suoi epigoni sono stati costretti a uscire a testa bassa da palazzo Chigi. Il fatto è che oggi l’Italia è governata da un esecutivo che i partner europei e i maggiori interlocutori internazionali hanno imposto per evitare che un governo screditato e un sistema


politica

10 marzo 2012 • pagina 7

Ritorna ancora una volta il vecchio conflitto tra tecnici e partiti

È partito lo scontro sulla «nuova politica» La rabbia e l’imbarazzo del Pdl verso le parole del ministro tradiscono il timore di essere scavalcati di Francesco D’Onofrio e vicende degli ultimi giorni sono state valutate da molti punti di vista, perché si è trattato di avvenimenti di rilevante significato politico generale. È emersa in modo virulento l’antica questione del rapporto tra tecnica e politica. Questa potrà essere esaminata compiutamente tra qualche tempo, anche se si tratta di una questione antica. Il rapporto tra politica e prepolitica (che continua ad essere un punto di fondamentale significato per l’esperienza sociale dei cattolici italiani) sarà a sua volta oggetto di una specifica valutazione tra qualche tempo, una volta terminata l’emotività del momento.

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politico fallito facessero andare in default l’ottava potenza economica mondiale, con effetti disastrosi per tutti. E gli italiani, del tutto consapevoli di questo – dopo essere stati per troppo tempo colpevolmente acquiescenti – sono ben

za parlamentare che oscilla tra la fiducia al governo data per ragioni di forza maggiore e la voglia di riprendersi il potere perduto attraverso il ricatto del far mancare il consenso a Camera e Senato. E tanto più fanno così, e tanto più si

È l’Italia intera che condanna la vecchia politica, lo sgangherato sistema bipolare con tutto il suo strascico di peones da combattimento, onnivori ma privi di idee e capacità programmatiche contenti che sia accaduto e a larghissima maggioranza vorrebbero che questa esperienza, o quantomeno il clima che essa ha generato, si protraesse nel tempo.

D’altra parte, una recente ricerca dell’attendibile Swg fa vedere che il giudizio positivo su Monti ha valori doppi rispetto a quelli di tutti gli altri leader politici. Mentre non è mai stata così alta la quantità di cittadini (48%) che dichiarano di non aver alcuna intenzione di andare a votare o di non avere idea a favore di chi farlo. Insomma, non è Riccardi, ma l’Italia intera che condanna la vecchia politica, lo sgangherato sistema bipolare con tutto il suo strascico di politici (sic) da combattimento e di partiti tanto onnivori quanto privi di idee e capacità programmatiche. Cui è rimasto come unico ruolo una presen-

accentua il discredito di cui sono circondati. La qual cosa non sarebbe un problema, se non fosse che all’orizzonte ancora non si vede chi e come potrà loro sostituirsi, a parte l’esercito dei veri denigratori della politica in quanto tale, tra saltimbanchi televisivi e guitti di quart’ordine.

Ed è di questo, caro Riccardi, che Lei e gli altri membri del governo dovete preoccuparvi: come dare continuità, fra 13 mesi, alla “discontinuità” positiva che – a volte anche vostro malgrado, perché non tutte le scelte dell’esecutivo sono state da 10 e lode e molte sono quelle che ancora mancano all’appello – siete riusciti ad assicurare. Tutto il resto sono rigurgiti tardivi di chi sarà presto spazzato via dalla scena. (www.enricocisnetto.it)

Appare di conseguenza necessario soffermarsi oggi su una questione più strettamente legata alla specifica contingenza politicocostituzionale rappresentata da un lato dal Governo Monti e, dall’altro, dalla maggioranza parlamentare proprio da Monti definita “strana”. Si tratta in effetti della questione stessa del significato che è stato attribuito all’avvento di Monti e del suo governo nel contesto politico-istituzionale italiano della fine dello scorso anno. Vi è stato infatti chi – soprattutto nel Pd – ha deciso di sostenere Monti anche perché il suo governo consentiva di accantonare Berlusconi e il suo governo, ritenuto causa della straordinaria crisi finanziaria italiana. Vi è stato d’altra parte chi – soprattutto nel Pdl – non accettava ufficialmente di sentirsi causa della crisi finanziaria, pur finendo con l’ammettere che il contesto europeo rendeva in qualche modo necessario l’avvento stesso di Monti.Vi è stato infine chi – soprattutto noi del Terzo Polo – ha visto nell’avvento del governo Monti contestualmente la necessità di reagire alla straordinaria emergenza economica e l’avvio di una nuova fase politica generale. Queste tre distinte visioni poste a sostegno parlamentare di Monti hanno consentito (e probabilmente continueranno a consentire) la vita del suo governo, sostanzialmente per obiettivi politici non coincidenti, soprattutto per quel che concerne il dopo Monti. In qualche modo fin dall’inizio dell’esperimento Monti si poteva distinguere una sorta di consenso al governo proprio perché presieduto da Monti, e non in quanto governo tecnico, e men che meno quale iniziatore di una fase politica nella quale Pd e Pdl non avrebbero potuto in alcun modo riproporre il sistema di alleanze con il quale essi si erano presentati alle elezioni politiche del 2008. Tra emergenza economica e nuovi equilibri politici vi è stato di conseguenza una sorta di schermo, che si è potuto

tenere in vita fin tanto che si dà vita alla adozione di provvedimenti ritenuti essenziali per il risanamento economico-finanziario, perché questo costituiva (e costituisce) una sorta di minimo comun denominatore politico del sostegno parlamentare al Governo Monti medesimo.

Si tratta in sostanza della questione stessa della identificazione dell’obiettivo complessivo del governo: solo e soltanto provvedimenti comunemente ritenuti di risanamento economico-finanziario (come sembra essere il caso del mancato incontro di Monti con i leaders di Pdl, Terzo Polo e Pd) o anche provvedimenti politici non strettamente rientranti in una visione economico-monetaria della politica italiana (come si può affermare a proposito del sistema dell’informazione e del complessivo sistema della giustizia)? Non si può certamente ritenere che vi siano oggetti di iniziativa politica, anche se prevalentemente parlamentare, rispetto ai quali il governo debba per così dire rimanere silenzioso. Non si può infatti (almeno da un punto di vista strettamente costituzionale) ritenere che vi siano oggetti per loro natura estranei all’indirizzo politico del governo: non esistono infatti governi per così dire “ad acta”, ma solo commissari “ad acta”. È questo non è il caso del Governo Monti. Si può però distinguere molto rigidamente tra emergenza economico-finanziaria da un lato, e nuovi equilibri politici dall’altro. È questo infatti il punto sul quale tendono a divergere le posizioni politiche di Pdl, Terzo Polo e Pd. In questo tormentato passaggio non sorprende pertanto che vi siano sia tentazioni di considerare il governo Monti una sorta di parentesi, conclusa la quale si possa tranquillamente (anche se illusoriamente) tornare a quel che accadeva prima; sia ipotesi di equilibri nuovi pur sempre imperniati su un partito, che, per il solo fatto di essere anche se solo numericamente più grande di altri partiti, ritiene di essere fondamentale per il governo dell’Italia del dopo Monti; sia il non facile lavoro di costruzione di un soggetto politico nuovo, che prenda atto del fallimento formale e sostanziale del vecchio bipolarismo della cosiddetta Seconda Repubblica. Siamo dunque ad una sorta di spartiacque tra emergenza economico-finanziaria e nuovi equilibri politici. I “tifosi”del vecchio bipolarismo presenti o meno che siano in Parlamento lavorano per la tesi della parentesi. Coloro che invece ritengono che dopo Monti nulla sarà come prima, sono chiamati ad un complesso esercizio di iniziativa e pazienza.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Rigore e trasparenza per estinguere il debito primario di Roma Capitale IL POLO DELLA BUONA POLITICA (II PARTE) Compito della buona politica è quello di comprendere i fenomeni sociali e progettare il futuro. Compito dei politici è quello di realizzare il progetto. L’Italia non può perdere questa occasione irripetibile. Gli italiani dimostrano di averlo capito. È necessario a questo punto moltiplicare a tutti i livelli e, quindi, anche a livello locale, il tentativo avviato sul piano nazionale di unire le forze moderate che condividono questa nuova dimensione d’impegno, che supera gli stereotipi del recente passato alimentati da ingiustificate diffidenze e differenze. Non c’è da meravigliarsi, pertanto, che l’attuale esperienza di Governo possa porre le basi per l’alleanza del prossimo futuro. Un’alleanza politica fatti di progetti e di riforme da realizzare e non da sbandierare. Un’alleanza che oggi può sembrare atipica e forse irrealizzabile ma solo a chi pretende di leggere gli scenari futuri guardandosi alle spalle; o di affrontare le tempeste semplicemente invertendo la rotta; invece che con coraggio, affrontando gli eventi. Oggi è il tempo di non guardare più al passato ma di coltivare il futuro. C’è bisogno di affrontare un rinnovamento costituzionale condiviso (la legge elettorale - necessaria - da sola non basta); la modernizzazione liberale del Paese; la promozione sociale e la ricostruzione morale. Sono gli obiettivi minimi prioritari su cui lavorare e le forze parlamentari di governo sembra lo stiano facendo. Così come la sua parte sta facendo, con gioco di squadra, il Governo Monti e, quindi, non il solo Presidente Monti. Nell’era della globalizzazione il problema delle organizzazioni moderne, degli Stati come dei partiti, delle aziende come delle banche, non è l’esaltazione di un solista, ma la forza della rete, il gioco di squadra, la sintonia di una classe dirigente, nella quale le competenze di ciascuno si sommano nel progetto di tutti. È l’alba di un giorno nuovo quella che stiamo vivendo. Tocca ora alle periferie fare in modo che l’offerta politica si arricchisca di nuovi scenari che non potranno essere collegati ed ancorati alle logiche del passato (per intenderci destra o sinistra). Come sarà la giornata non lo possiamo prevedere ma le premesse appaiono incoraggianti. Ignazio Lagrotta C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L PU G L I A

Il buco nel bilancio di Roma Capitale ammonta ormai a 12,5 miliardi di euro. Il debito è stato ereditato dall’amministrazione di Alemanno nel momento del suo insediamento nel 2008 e da quel momento è ulteriormente cresciuto. La situazione oggi è decisamente preoccupante. Si è tenuto nei giorni scorsi l’incontro tra il sindaco Alemanno e il presidente del Consiglio Mario Monti, e sulla stampa sono usciti nuovi particolari sulla manovra di bilancio, che prevede tagli e aumenti nelle imposte. I tagli dei trasferimenti dello Stato ammontano a 400 milioni di euro, che si aggiungeranno alle altre decurtazioni delle manovre del governo degli ultimi anni. È ancora da definire il documento contabile di previsione del Campidoglio per il 2012, ma si parla già di proposte e iniziative per recuperare i soldi mancanti. Innanzitutto ci saranno tagli ai dipartimenti: agli assessori sono state recapitate delle bozze da riempire con i possibili risparmi. La nuova Imu, inoltre, potrebbe essere più cospicua del previsto. Ci sono poi le tariffe comunali, come la Tia, più alta del 3,3% e i biglietti dell’Atac, che aumenteranno di 50 centesimi. L’ultima proposta potrebbe essere la vendita di alcuni beni immobili da parte dell’amministrazione capitolina, oppure mettere sul mercato pacchetti azionari di aziende municipalizzate come ad esempio l’Ama. Queste le iniziative per risanare un debito così imponente come quello di Roma Capitale. Rigore e trasparenza nella manovra di bilancio così come i tagli agli eccessi e agli spechi sono i primi e importanti passi verso il risanamento del debito capitolino.

Ivano Giacomelli

LE INCERTEZZE DEI PARTITI SULLA RIFORMA ELETTORALE Non mi sembra ci siano dubbi sulla necessità di una riforma elettorale che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti. Nei giorni scorsi i principali partiti avevano cominciato a discuterne e parevano aver finalmente trovato alcuni punti in comune. Poi però tutto si è bloccato. La riforma elettorale è una materia che non rientra nel programma del governo tecnico ma compete ai politici. Purtroppo la sensazione è che le forze politiche siano incerte sui propri destini, tanto da non avere la forza di fare sintesi tra le diverse ipotesi di riforma elettorale che sono sul tavolo. Poche, quindi, le speranze di vedere sparire a breve il Porcellum e ottenere una nuova ed equa proposta dall’attuale governo, prima che scada il mandato e si torni alle urne.

Umberto Marino

RIPORTIAMO A CASA I NOSTRI MARÒ Il ministro degli Esteri Terzi ha fatto bene a convocare l’ambasciatore indiano a Roma perché i nostri marò devono rientrare in Italia e quello che sta accadendo è paradossale e contro i diritti sanciti dall’ordinamento internazionale. Premesso che in questa vicenda ci sono ancora molti lati oscuri e da chiarire, come ad esempio il perché questi

due militari in acque internazionali siano stati arrestati in territorio indiano, le misure prese nei loro confronti sono fuori da qualsiasi regime di diritto internazionale e il fatto che si cerchi di indorare la pillola mediante l’attenuazione del regime della detenzione dei due italiani rappresenta piuttosto un’ulteriore grave offesa nei nostri confronti. L’Italia alzi la voce se necessario, e riporti a casa nostri ragazzi.

Marco Tropea

LE VERITÀ NASCOSTE

E tu che cavolo suoni? Quando anche la musica diventa ecologica, la verdura canta. O, meglio, suona, come nel caso dei due fratelli cinesi Nan Weiping e Nan Weidong che si sono conquistati fama e successo in tutto il continente asiatico suonando strumenti musicali realizzati interamente con ortaggi. Sembra l’ennesima stravaganza che arriva dalla Cina, ma in realtà i due fratelli non hanno scoperto nulla di nuovo. Dal 1998 a Vienna esiste infatti un’orchestra unica al mondo composta da 12 elementi: si chiama “The Vegetable Orchestra” e suona esclusivamente ortaggi freschi di giornata. Melanzane, peperoni, carote, porri, cipolle, zucche e cetrioli acquistati al mattino sul mercato si trasformano dopo ore di incredibile lavoro in nacchere, trombe, flauti, violini e percussioni in grado di dare vita a ritmi dall’atmosfera afro. Un intero universo sonoro unico e inimitabile che fonde insieme vari generi musicali, reinterpretando i grandi classici della musica europea. E come degna conclusione dei loro concerti in tutto il mondo, gli strumenti diventano ingredienti di fumanti e prelibate zuppe distribuite al pubblico.

DIMEZZAMENTO DEI PARLAMENTARI: UN’ALTRA BUGIA Come di consueto ci stanno imbrogliando anche questa volta. I vertici dei partiti che sostengono il governo si sono accordati per ridurre il numero dei parlamentari da 945 a 762 (508 deputati e 254 senatori). Fino a ieri, facevano a gara nell’affermare che la metà bastava e addirittura avanzava, ottenendo l’approvazione incondizionata di tutti gli italiani. Al momento di passare dalle parole ai fatti cade la maschera e mostrano il loro vero volto. Come di consueto.

di opporre una valida resistenza, cioè donne o anziani. Chi reagisce rischia di morire come quel bancario umbro che i banditi, dopo aver consumato la rapina, hanno ucciso per sventare il suo coraggioso tentativo in difesa della fidanzata. Le forze dell’ordine compiono il loro dovere arrestando i banditi, ma non sempre la giustizia infligge pene esemplari. Gli arresti domiciliari, ad esempio, consentono ai rei di non interrompere la loro attività criminale.

PENE SEVERE ED ESEMPLARI

I VANTAGGI DELL’ALTA VELOCITÀ

Ogni giorno dobbiamo leggere di cittadini vittime di aggressioni. I delinquenti vigliaccamente colpiscono chi non è in condizione

Non c’è opera pubblica nella storia dell’umanità che non abbia avuto buone ragioni contrarie, ma nel caso della Tav io penso che si debba fare. Chi non può auspicare che si possa andare in lungo e in largo per l’Europa in tre-quattro ore? La maggioranza degli italiani vuole il collegamento con Lione. L’asse ferroviario attraverserà l’Europa: ciò significa essere al centro dei tratti commerciali, generare reddito, dare occupazione sul territorio. Consentirà inoltre il trasferimento del traffico merci dalla gomma alla ferrovia: un bel vantaggio per l’ambiente.

Saverio Rispoli

L’IMMAGINE

Camillo Piccoli

Alessandro Belli

TAV E ICI: POVERA ITALIA

APPUNTAMENTI MARZO Giovedì 22 - ore 16 - Università Gregoriana Piazza della Pilotta 4 - Roma MEETING “Contro le persecuzioni dei cristiani nel mondo”. Introduce: Ferdinando Adornato. Intervengono: Pier Ferdinando Casini, il custode di Terra Santa Pierbattista Pizzaballa, il Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata, Card. Renato Raffaele Martino VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Un incubo tira l’altro Ad alcuni ricorderà la scena di qualche film dell’orrore, ma la foto che vedete è l’angosciante realtà in cui sono precipitati i cittadini di Wagga Wagga, nello stato australiano New South Wales. Dopo aver sopportato una delle peggiori alluvioni degli ultimi 150 anni, dovuta alle intense piogge e allo straripamento di diversi corsi d’acqua, gli abitanti già provati si sono ritrovati invasi da un esercito di ragni

Tav. - Per fortuna hanno fatto le autostrade e le ferrovie nel secolo scorso. Oggi con la contrapposizione dei frontalieri non se ne costruirebbe nemmeno un chilometro. La Tav, doverosa per collegamenti rapidi e meno inquinanti, subisce il ricatto di pochi facinorosi armati di mazze e bastoni o altro ancora (fuoco ecc). Povera Italia! Ici alla Chiesa. - Per fortuna che non risorge il mio san Francesco, promotore della povertà.Vedendo la sua chiesa ricca tra i più ricchi (l’otto per mille del reddito nazionale offre miliardi) contestare l’Ici, pagata da tutti i cittadini onesti e dignitosi, si ribellerebbe. E si trasferirebbe subito nelle altre nazioni dove non esistono privilegi per nessuno. Povera Italia!

Libero Hansil


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

AH-TAO E IL DIO DELLE PICCOLE COSE

di Anselma Dell’Olio

Da non perdere “A Simple Life”, il film che racconta la storia vera di una fedele domestica di Hong Kong (Deannie Ip, premiata a Venezia con la Coppa Volpi). Un “character study” delicato ma che tiene incollati allo schermo come un thriller resente alla Mostra del cinema di Venezia nella scorsa edizione, A Simple Life si è aggiudicato il favore di pubblico e critici. Il titolo non è ironico. Chung Chun To, detta Ah-Tao (Deannie Ip, premiata giustamente con la Coppa Volpi come miglior attrice), arrivata come domestica all’età di tredici anni in casa Leung, una facoltosa famiglia di Hong Kong, ci è rimasta tutta la vita. Discreta, operosa, disciplinata, caparbia e sicura di sé, a settant’anni le è rimasto da accudire solo Roger, cinquantenne produttore cinematografico e l’unico della famiglia rimasto a Hong Kong. È una storia fatta delle piccole cose di una vita senza scossoni, eppure incolla allo schermo come se fosse un thriller. Si tratta di una storia vera, raccontata nella forma classica del character study, genere cinematografico dedicato all’esplorazione di un personaggio, in tutti i suoi più intimi e illuminanti aspetti. Ah-Tao è arrivata da adolescente come tuttofare e amah (tata) che accudisce nonni, genitori, figli, nipoti e pronipoti della famiglia, ora trasferitasi quasi interamente a San Francisco.

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ah-tao e il dio delle piccole

pagina 10 • 10 marzo 2012

Il film esamina la devozione fiera e mai servile di una persona che ha rinunciato ad avere una famiglia propria, senza rimpianti. Assorbita come per osmosi dentro il dna affettivo dei Leung, appartiene a loro e (meno scontato) loro appartengono a lei. Manca sentimentalismo, ma troviamo al suo posto un Dio nascosto che di soppiatto riempie di luce lo spettatore. Incontriamo Ah-Tao mentre sbriga le faccende di casa e fa la spesa. Meticolosa ed esigente, sceglie i prodotti dalle bancarelle come un chirurgo sceglie i suoi strumenti. I pescivendoli puntano il timer quando lei s’infila giacca e sciarpa per entrare a lungo - nella cella frigorifera per selezionare il pesce. È pignola ma mai petulante e si capisce che è un’ottima cuoca molto prima di sentirlo dai tifosi delle sue leccornie, rimaste mitiche anche per gli amici d’infanzia che ancora giocano a poker con Roger, che lei ha cresciuto dalla nascita e per cui prepara il granchio e le verdure al vapore. Quando Roger lascia cadere che gli piace tanto la lingua di bue stufato, lei gli ricorda che dopo l’infarto deve evitare sapori pericolosi (ma senza integralismi). Il produttore viaggia spesso tra Hong Kong e la Cina continentale per lavoro. Una sera rientrando, vede l’appartamento al buio. Suona il campanello chiamando il nome dell’amah; ha dimenticato le chiavi. Ah-Tao è a terra per un ictus.Trasportata in ospedale è accudita da Roger, lui la rassicura: con il tempo e la fisioterapia, i medici dicono che potrà recuperare quasi tutta la funzionalità fisica. Non si sa perché Roger (Andy Lau) non si sia mai sposato, sappiamo solo che AhTao gli è devota e che lo ha curato come una mamma quando lui ha avuto un infarto. Roger vuole assumere una cameriera cinese per occuparsi di Ah-Tao, che non parla inglese. Lei boccia la proposta e insiste per andare in una casa di riposo. «Quanto può costare?», chiede a Roger. Lui le dice di non preoccuparsi, pagherà lui. «Ma io ho dei soldi!», esclama orgogliosa la tata. «Allora me ne cerchi una?». Quando lui protesta che starebbe meglio a casa, assistita e riverita, lei è irremovibile: «L’infarto (ictus o infarto per lei è lo stesso) non arriva mai solo», sentenzia. Più tardi commenta: «Ti ricordi il nonno? Prima un infarto, poi un secondo e poi un terzo. È così che va».

Il figlio putativo trova una struttura confacente a Kowloon, e il dialogo con la segretaria dell’ospizio illumina il funzionamento del «business» degli anziani che le famiglie non possono o non vogliono accudire: prezzi esorbitanti per pannoloni, medicine, accompagnatori, eccetera. Si allude ai vistosi guadagni di chi investe nel settore. Roger scopre che il padrone della cateanno V - numero 9 - pagina II

na di case per anziani è un suo vecchio amico che vive delle rendite e molto bene. Infatti a Roger offre subito uno sconto sostanziale sulla retta. Roger aiuta AhTao a trasferirsi con le sue poche cose nella nuova sistemazione. È riuscito a fissarle una delle poche stanze singole dell’ospizio. Sono camerette con pareti-paravento senza copertura propria: il soffitto è unico e uguale per tutti, perciò arrivano rumori notturni non indifferenti: tossi, lamenti, gridolini. È un posto civile, ma l’inserimento in una comunità nuova, con bagni, pranzi, spazi comuni e tempo (sempre) libero vissuti insieme, non è mai facile. Nell’ingresso, come in tutto il mondo, bivaccano gli inquilini in vari stati di compos mentis. La più anziana è ultra novantenne. La direttrice gentile ed efficiente, Miss Choi (Qin Hailu), racconta che nei decenni i proprietari cambiano, ma questa signora senza più congiunti è sempre lì. «Chi paga per lei?» chiede AhTao, preoccupata. «Lo Stato», risponde Choi. Solo allora ci rendiamo conto che i suoi ex «padroni» pagano per lei di tasca loro, ma avrebbero potuto affidarla al welfare e alla sua pensione. Se si cerca un film di denuncia sul maltrattamento degli anziani, si resterà delusi. Anche se il film ha gli occhi ben aperti sui problemi di una popolazione che invecchia, e che ha bisogno di assistenza extra famigliare. Non sorprende che un film penetrante, articolato e sottile su un individuo che ha dedicato la vita alla cura degli altri sia di una donna. La regista Ann Hui nasce ad Anshan, Liaoning nel 1947, da padre cinese e madre giapponese. Si trasferisce da piccola prima a Macao e poi a Hong Kong. Dopo gli studi a St. Paul’s

cose

Roger e poi la madre. Ah-Tao era di famiglia poverissima. I genitori l’hanno praticamente regalata alla famiglia Leung, sollevati di non doversi dissanguare per una dote o di doverla sfamare a vita. E lei ci resta in armonia per sessant’anni. Ha avuto corteggiatori: un merciaio, un pescivendolo, un macellaio. Roger chiede perché non abbia mai accettato di sposare uno di loro: «Perché sapevano di pesce». «Anche il merciaio?». «Sì, tutti». Convent School e all’università di Hong Kong, frequenta la London International Film School. Torna a casa nel 1975 per intraprendere un’illustre carriera di regista e produttrice, e più di rado di sceneggiatrice e attrice. È uno dei più stimati registi del cinema New Wave di Hong Kong. Gli anni che passano, la mezz’età e l’invecchiamento sono temi che Hui ha esplorato spesso nei suoi trentatre anni di carriera.

A Simple Life è uno dei suoi pochi film distribuiti da noi. Summer Snow (Neve d’estate, 1995) e Ordinary Heroes (Eroi normali, 1998) sono stati premiati alla Berlinale, e le opere di Hui sono premiatissime in Asia. Summer snow parla di una donna non più giovane, alle prese con le complicazioni della vita, tra cui un suocero con l’Alzheimer. In July Rapsody (2002) un insegnante si confronta con una crisi di mezz’età. The Way We Are (2008) e Night and Fog (2009) mettono a fuoco il disagio interiore delle classi medie e operaie, e forse di tutta Hong Kong. Hui dice: «Tutti possono mangia-

re da McDonald’s e fare shopping nei centri commerciali: è uno stile di vita. Ma spiritualmente c’è irrequietezza, in particolare tra le famiglie che vivono a carico dello Stato. Non hanno problemi materiali, ma covano un’inesprimibile depressione». Marco Mueller, il più filo-orientale dei produttori e direttori di festival italiani, ha appena lasciato la Mostra di Venezia per il Festival di Roma. Ha messo lui in concorso al Lido l’ultimo film di Hui. Sarebbe benvenuta una retrospettiva di questa raffinata cineasta, quasi sconosciuta da noi, che sa fare felice il pubblico. Ha fatto film di generi molto diversi, come il cinese wuxia, dedicato alle arti marziali, e drammi storici, famigliari e politici, tra cui una Trilogia vienamita che incuriosisce. Una parziale spiegazione per la magia di un film sulla vita poco avventurosa di una domestica è il cast. Il grande Andy Lau (Roger) e Deannie Ip (Ah-Tao) sono amici e colleghi di antica data (lei è la sua madrina, e i due sono anche note star del Cantopop, genere musicale cinese) e hanno lavorato spesso insieme. Questa intimità pregressa dà forza e spessore, ed emozioni mai leziose, alla loro complicità. La profondità di sentimenti va oltre il fatto che lei gli comprava di nascosto la Coca Cola, quando i genitori l’avevano proibito, o che si era trasferita direttamente in ospedale per seguire da vicino e senza sosta prima

Quella di Ah-Tao e dei Leung è la vera storia del produttore Roger Lee, che ha voluto rendere omaggio a una vita di dedizione e al legame non banale tra la tata e la sua famiglia. Durante i lazzi sul matrimonio, Roger provoca Ah-Tao «accusandola» di essere stata sempre innamorata di suo padre, morto da tempo. Dallo scherzoso imbarazzo di lei, si capisce che l’idea non è così strampalata. Arrivata a 13 anni dalle più umili circostanze, si è formata quasi interamente in un focolare di borghesi non solo benestanti ma colti, credenti e profondamente per bene. Non essendosi mai innamorata, perché mai Ah-Tao avrebbe dovuto «sistemarsi» con un uomo per il quale avrebbe faticato tutta la vita alla stessa maniera se non peggio, e magari con meno riconoscenza, reciprocità e garbo che con i Leung? I bambini li ha cresciuti lei con lo slancio e l’abnegazione di una vera mamma, e loro la ricambiano con amore, attaccamento e gratitudine asciutti e ombelicali insieme. Ci sono numerosi cammei nel film di celebrità del cinema cinese, in piccoli ruoli o come se stessi: in primis il regista Tsui Hark (Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma) e Sammo Hung (stuntman e regista, Ip Man). Compaiono nell’esilarante scena in cui Roger recita la parte del produttore arrabbiato per gli sprechi del regista, in una congiura ordita per sfilare più denaro a un investitore. Ma tutti capiranno Ah-Tao, quando un anziano altero commenta che lei ha un patronimico «da serva», e lei glielo ributta in faccia: «Perché, si sente offeso?», ribatte sardonica. Non è una santa e non ha complessi. Come cuoca, sa di avere molte marce in più perfino della mamma di Roger. All’antica padrona, arrivata da San Francisco carica di regali, tra i quali una zuppa senza un ingrediente fondamentale, non esita a dire: «Manca lo zenzero: perciò sa di pesce». Da non perdere.


MobyDICK

architettura

10 marzo 2012 • pagina 11

Giù le mani

Alcune immagini del progetto e dell’edificio del mercato Metronio a via Magna Grecia a Roma. Progettato da Riccardo Morandi, rischia la demolizione insieme al mercato Pinciano e a quello di via Chiana

da quelle opere di Marzia Marandola e contraddizioni politiche del nostro paese si moltiplicano quando si tratta di opere d’arte e, soprattutto, di opere di architettura. Mentre da un lato si lamenta l’insufficiente valorizzazione del patrimonio artistico e architettonico italiano, la cui dimensione e qualità sono tali da attrarre, se opportunamente governati, un numero assai maggiore di turisti e di investitori, dall’altro, proprio nella capitale, si persevera nella trascuratezza, che può sfociare addirittura nella demolizione, di autentici capolavori dell’architettura del Novecento, riconosciuti a livello mondiale. Ai casi più eclatanti, e più volte denunciati, per l’incuria e il degrado colpevoli, come la Casa delle Armi, straordinario capolavoro del precoce genio architettonico di Luigi Moretti, o i mosaici pavimentali di viale dell’Impero al Foro Italico - un magnifico tappeto litico realizzato da artisti tra i più talentosi del Novecento - si aggiungono quotidianamente manomissioni o minacciate demolizioni di alcuni edifici, che hanno fatto grande la storia della architettura e della costruzione italiana contemporanea. Contribuisce a questo impulso distruttivo anche un recente decreto legge sullo Sviluppo (D.L. 13 maggio 2011) che modifica il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e innalza da 50 a 70 anni l’età per la dichiarazione di interesse culturale, da apporre a un’opera di interesse architettonico, per sottrarla alla demolizione.

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È degli ultimi mesi la notizia che nella capitale sono a rischio demolizione ben tre celebri edifici polifunzionali, esemplari per bellezza formale e funzionalità civica; si tratta dei mercati con parcheggi annessi: il Metronio di via Magna Grecia, il Pinciano di via Antonelli e il Trieste di via Chiana. La ventilata demolizione di queste architetture è connessa al Programma Urbano Parcheggi (Pup) del Comune di Roma, che inizialmente ne prevedeva l’ampliamento tramite l’aggiunta di un piano interrato; in un secondo momento il progetto ha subito una svolta radicale, ipotizzando la demolizione dell’e-

sistente e la successiva ricostruzione, incrementata da un premio di cubatura residenziale. L’anomalia del programma e dell’iter procedurale è resa ancora più opaca dalla nebulosità dell’assegnazione dell’incarico. Contro questi aspetti sfuggenti, che di fatto privano i quartieri novecenteschi di architetture utili e qualificanti lo spazio urbano, si sono appellati i cittadini del «Comitato No Pup» della capitale che hanno argomentato le ragioni del loro dissenso nel dossier web www.comitatinopup.it.

Ma preservare gli spazi di uso collettivo e conservare il patrimonio di architettura del Novecento sono obiettivi condivisi anche dall’ordine degli Architetti di Roma e dall’associazione Docomomo Italia Onlus, deputata alla conservazione delle architetture di pregio contemporanee che si sono impegnati a richiamare l’attenzione del ministro Ornaghi e degli organi preposti dal Ministero dei Beni Artistici e Culturali sui tre importanti edifici di Roma moderna. Il mercato Metronio, un edificio celebrato nelle storie dell’architettura, è ripetutamente segnalato e documentato nelle guide di Roma moderna, (la più completa: Piero Ostilio Rossi, Guida all’architettura moderna 1909-2000, Laterza, 2000) per la qualità dello spazio ricavato nel 1956-‘57 all’interno di un lotto triangolare, stretto tra via Magna Grecia e via Veio, nel quartiere San Giovanni. Il progetto è di Riccardo Morandi (19021989), una gloria dell’ingegneria italiana del Novecento, che a Roma ha costruito, oltre numerosi edifici residenziali, moltissimi cinema tra cui l’Augustus (1935) e il Maestoso (1957). A Morandi si devono anche le insu-

perate Aviorimesse Alitalia a Fiumicino e il sorprendente viadotto della Magliana. La necessità di costruire in uno spazio ridotto due funzioni, mercato e parcheggio, vincolano Morandi a occupare l’intero lotto triangolare con un blocco compatto, che ingloba spazi funzionali diversi mantenuti rigorosamente indipendenti.

Dopo essere stati abbandonati a un colpevole degrado, nella Capitale rischiano la demolizione, per far posto a parcheggi, tre importanti edifici polifunzionali del ’900. Persino la Carta del Piano regolatore di Roma ne segnala uno per l’alta qualità artistica

Il mercato si distingue fin dalla costruzione per l’originalità e l’ardita eleganza della soluzione costruttiva, perfettamente saldata con quella compositiva e con l’esattezza funzionale: all’interno di un edificio formalmente e unitariamente compiuto sono allogati tre piani di parcheggi, uno interrato e due in quota, intervallati dalla piattaforma del mercato posta al piano terra. Il parcheggio ha l’ingresso posto su un vertice del triangolo dell’edificio rivolto su via Magna Grecia: segnalato da una pensilina aggettante ed enfatizzato dalla spettacolare doppia rampa elicoidale che collega i piani del parcheggio. Al vertice opposto, sempre sulla stessa strada, si apre l’ingresso del mercato, leggermente arretrato rispetto al perimetro esterno dell’edificio e sottolineato da una pensilina assai più semplice e ridotta. Le pareti esterne sono caratterizzate da un profilo zigzagante e cuspidato, risultato dalla disposizione obliqua dei posti auto, che affiancati e sfalsati, disegnano le linee perimetrali «a denti di sega». La qualità artistica del Metronio è riconosciuta anche dalla Carta della Qualità del Piano Regolatore di Roma, che lo segnala come opera di rilevante interesse architettonico, sulla quale si può intervenire solo per riqualificare la struttura esistente a fini conservativi. Meno documentato e spettacolare, ma di notevole interesse storico, è il garage di via Chiana, una delle poche quanto preziose opere dell’architetto tedesco Konrad Wachsmann (1901-1980), attivo a Roma tra il 1934 e il ‘38.Tutti e tre gli edifici che hanno costantemente assolto, dalla costruzione a oggi, la duplice funzione di mercati e di parcheggi pubblici, sono stati progressivamente e colpevolmente privati di manutenzione: è difficile non sospettare la tacita volontà di ridurli a un degrado irreversibile, tale da giustificarne la demolizione.


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l culmine del successo come pittore storicista, premiato con la croce d’oro al merito per le decorazioni del Burgteather dallo stesso imperatore Francesco Giuseppe, Klimt ricevette l’incarico di eseguire una serie di allegorie per il soffitto dell’aula Magna dell’Università di Vienna. Dopo un’elaborazione durata quasi un decennio, l’artista presentava il primo dei tre pannelli, La Filosofia, dove, al posto della consueta sfilata di pensatori famosi, alcuni corpi nudi fluttuavano in un magma dalle fredde tonalità di verde e blu a rappresentare l’eterna lotta tra le tenebre e la luce della ragione. Ben ottantasette esimi professori protestarono, turbati da ciò che non si presentava certo come una sobria rappresentazione del progresso della cultura.

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Era il 1900, il secolo si apriva nella capitale austriaca con l’irruzione dell’inconscio teorizzato da Sigmund Freud e con il programma di un’arte al servizio di una modernità tutta da costruire. «Al Tempo la sua Arte, all’Arte la sua Libertà», era, infatti, il motto posto sotto la cupola di tremila foglie in metallo dorato del Palazzo della Secessione, capolavoro dello stile liberty viennese, il tempio appena terminato da Joseph Olbrich delle nuovissime tendenze estetiche, organizzate in movimento autonomo nel 1897. La pittura sciolta e disinibita di Klimt, come appariva nella Filosofia, sembrava davvero

il paginone

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Credeva che l’arte fosse in grado di cambiare il mondo, e con il suo “stile d’oro”, libero e flessuoso, solcò il primo decennio del Novecento totalmente votato a una modernità tutta da costruire. A 150 anni dalla nascita, Vienna lo celebra in dieci musei e con ottocento opere essersi liberata dei lacci del passato e, derisa in patria, era intanto premiata con la medaglia d’oro all’esposizione di Parigi. Nello stesso anno e con la medesima, ardita, concezione figurativa, il pittore presentava La Medicina. Seguì un’interpellanza parlamentare e nel 1903, alla consegna dell’ultima allegoria, La Giurisprudenza, un fronte compatto si schierò contro Klimt che fu costretto a riacquistare le opere. Soltanto foto in bianco e nero rimangono di ciò che era il primo apparire dell’Art Nouveau nella roccaforte della tradizione, perché i pannelli bruciarono nell’incendio del ‘45 del castello di Immendorf. Persi proprio tra le fiamme metaforicamente evocate dallo stesso Klimt in margine all’allucinata figura che sorregge lo specchio, la Nuda Veritas destinata alla rivista Ver sacrum, organo della Secessione: «La verità è fuoco e dire la verità significa

Coltivò una visione interiore sorvolando la storia e l’imminente conflitto mondiale. Solo con “Il Bacio” riuscì a trionfare anche in patria illuminare e ardere». Furono forse le dolorose perdite del padre e del fratello Ernst, suo principale collaboratore, a spingere il linguaggio dell’artista verso una dimensione più misteriosa e occulta, e fu forse la vivace vita sentimen-

tale attraversata da donne celebri, come Alma Mahler, arricchita dai quattordici figli, a determinare il cristallizzarsi dell’ispirazione nelle figure femminili che dominano incontrastate e superbe nella sua produzione. Certamente, è a cavallo tra vecchio e nuovo secolo che l’artista elabora in modo personale le atmosfere torbide e sensuali del simbolismo, intercettando soluzioni che assegnavano alle arti applicate e alla decorazione un ruolo chiave nel rinnovamento della società. Fu poi la memoria dei mosaici dorati visti a Ravenna, quel colore eccessivo e innaturale che Klimt iniziò a esplorare con sfumature inedite e riversò copiosamente nei dipinti, a creare un tratto assolutamente inconfondibile. È con questo «stile d’oro», dall’andamento flessuoso e via via sempre più fitto di piccoli segni geometrici e simboli appresi dalle culture orientali, che Klimt solca il primo decennio del Novecento continuando a fare scalpore per le sue creature per metà donne e per metà pericolose dee.

Così è La Pallade Atena che scatenò un putiferio alla seconda mostra secessionista, così è il capolavoro del 1901, Giuditta, versione conturbante e alla moda dell’eroina biblica. È la femme fatale, diffusa nell’immaginario dell’epoca, che Klimt saprà fissare in ritratti memorabili e raffinati, come quelli di Emile Floge, compagna del pittore, e di Fritza Riedler e talvolta reinventare attraverso

L’inno alla di Gustave di Rita Pacifici un’ornamentazione invadente, prepotente. Come avviene per Adele Bloch-Bauer, studiata in circa centocinquanta disegni e poi, nell’olio del 1907, interamente rivestita da una patina aurea che lascia definiti soltanto il volto e le mani; uno tra gli esempi più sorprendenti di questa pittura, che conquistò le ricche famiglie ebraiche e attirò le critiche di quanti vi percepivano l’esibizione di un «ricamo» privo di lirismo. Una pittura emblematica, come poche altre, del vitalismo ar-

Alcune opere di Klimt: a destra, “La Speranza”; a sinistra, “L’Albero della vita” e “Le tre età della donna”. In alto, “Il Bacio” e, sopra il titolo, il ritratto di Adele Bloch-Bauer anno V - numero 9 - pagina IV


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a gioia Klimt tistico della Mitteleuropa, fervida d’ingegni e creatività ma sul punto di scomparire per sempre. A centocinquanta anni dalla nascita, Klimt era nato a Vienna nel 1862, molte città europee si preparano a ricordare il maggior esponente dello Jugendstil con iniziative speciali. La città d’origine lo celebra con un ricchissimo programma che coinvolge dieci musei e circa ottocento opere, per una rilettura approfondita di quest’artista che, oltre alle decorazioni d’interni e ai dipinti, per la maggior parte concentrati al Castello di Belvedere, dove è già in corso l’esposizione dedicata alle collaborazioni di Klimt con l’architetto Joseph Hoffman, ha lasciato anche una vastissima produzione di disegni. Proprio le opere su carta saranno il fulcro delle due mostre, all’Albertina in marzo, centosettanta lavori di proprietà del museo integrati da prestiti internazionali e a maggio al Wien Museum, che per la prima volta svelerà i quattrocento disegni della collezione tutti insieme. Al Klimt viaggiato-

re, che attraversa la Boemia, la Francia, la Spagna e l’Italia, è dedicata poi l’originale mostra al Leopold Museum, che esporrà dal 24 febbraio documenti e dipinti di paesaggi, anch’essi trasfigurati dalla stessa vena fantastica. Ovviamente la città stessa custodisce importanti testimonianze del percorso di Klimt, che appena diciottenne, insieme al fratello e amico Franz Matsch interviene in Palazzo Sturany e, dopo le commissioni a Karlsbad, Fiume, Bucarest e Reichenberg, nel 1886 inizia le scene monumentali per il Burgerteather, per poi dedicarsi alla decorazione del cortile del Kunthistorisches Museum. Proprio in quest’edificio, che dal 14 febbraio propone i disegni preparatori, si manifestano i primi segnali di una visione più originale che emergerà pienamente matura nel Fregio di Beethoven, realizzato nel 1902 al Palazzo della Secessione. Un racconto di ventiquattro metri ispirato all’interpretazione della Nona sinfonia offerta da Richard Wagner, dove Klimt condensava, in forme ormai del tutto stilizzate ed elaborate con materiali eterogenei, un universo di forze mitiche pervaso di sacralità ed erotismo. La stanza di Beethoven, con la statua del genio realizzata da Max Klinger avvolta dai fregi e dalle note dell’Inno alla Gioia diretto da Gustav Mahler, costituiva il primo passo verso l’opera d’arte totale che gli artisti realizzarono a Bruxelles.

Palazzo Stoclet, uno degli edifici più compiuti e omogenei della Secessione viennese, ideato da Hoffmann, offre il compendio dell’inventiva traboccante di Klimt, che tra il 1905 e il 1909 disegna per la sala da pranzo L’abbraccio, L’attesa, L’albero della vita, realizzati in un mosaico di pietre dure, coralli e vetri dagli artigiani del Wiener Werkstatte. Nei pannelli per Palazzo Stoclet, Klimt portava i temi prediletti dell’amore, dell’erotismo, della fertilità, del ciclo di vita e morte, al grado più alto di astrazione, con le volute dorate dell’albero propagate sull’intera parete, le figure perse in un ricamo fitto di triangoli, riccioli e occhi stilizzati. Siamo a una favola preziosa, lontanissima dalla vita e lontana anche dai toni ambigui che Klimt esprimeva, ad esempio, in Le tre età della donna, forte sintesi visiva della parabola esistenziale e in Speranza, il nudo di una donna incinta che il proprietario tenne nascosto. È il Klimt precursore dell’espressionismo che non piaceva ai conservatori e che finalmente riuscì a trionfare in patria con Il Bacio, l’abbraccio estatico di una coppia su una terra in

fiore, felice metafora della fusione di ogni dualismo e simbolo di un Modernismo conciliante e armonioso. Giudicata l’opera migliore alla Kunstchau del 1908, Il Bacio, dopo il gran rifiuto delle allegorie per l’Università, metteva d’accordo tutti, progressisti e puritani, e fu acquistata dallo Stato austriaco per le collezioni della Galleria moderna.

La Primavera sacra sfiorì in fretta. La rivista cessò le pubblicazioni già dal 1903, il movimento si scisse in stilisti e naturalisti e verso il 1908 il fiume d’oro che aveva inondato le tele di Klimt si ritrae. Le tematiche universali che l’artista aveva declinato fastosamente continuano a essere motivo d’ispirazione ma la decorazione è più asciutta e lineare, come nella Danae e nelle seconde versioni di Giuditta e Speranza. Segue un rallentamento dell’attività, quasi il silenzio. Quando Klimt dal 1912 tornerà a comporre i suoi squillanti tributi alle signore viennesi, la sua pittura si è aperta alle suggestioni delle stampe giapponesi, alle ampie pennellate di Matisse. È lo «stile fiorito» dal tratto morbido e dagli arabeschi a forma di minuscole rose, del secondo ritratto di Adele Bloch Bauer, di Eugenia Primavesi e di tanti altri incantevoli dipinti, con cui Klimt continuerà a filtrare le figure e i paesaggi sorvolando la storia e l’imminente conflitto mondiale. È la «scrittura magica» capace di trasmettere con i colori una «visione interiore del mondo», un mondo «arcano e meraviglioso», che Hugo von Hofmannsthal, nella Vienna degli stessi anni, suggeriva dovesse essere ogni autentica pittura. Ma nelle ultime, incompiute, opere dell’artista, qualcosa di diverso giunge a incrinare l’irrealtà e la poesia. Accenti malinconici e freddi, talvolta sarcastici, una minore idealizzazione dei volti ora accesi da sguardi penetranti ed enigmatici, segnali di un’evoluzione interrotta dalla morte improvvisa nel 1918, a soli cinquantasei anni. Saranno Oskar Kokoscha ed Egon Schiele a inoltrarsi sulla strada dell’espressionismo mai percorsa fino in fondo dal maestro. E sarà proprio quest’ultimo a fissare l’immagine di Klimt sul letto di morte, un passaggio di consegne al nevrotico amico che si farà carico del lato più malato dell’esistenza, quell’oltre che Klimt non aveva voluto o saputo mostrare completamente nudo e aveva annegato nel virtuosismo ornamentale, nel culto della bellezza e dell’eleganza, credendo che l’arte dovesse donare gioia e fosse in grado di trasformare il mondo.

altre letture di Riccardo Paradisi

La politica tra scienza e passione a politica non è una scienza esatta ma non è nemmeno un’attività impossibile da definire attraverso delle costanti. Non è attività di idealisti ma non è nemmeno riducibile a mera rappresentanza di interessi. Per capire cosa è la politica è difficile indicare qualcosa di meglio delle lezioni tenute da Gianfranco Miglio nel corso del suo magistero all’Università cattolica di Milano. Nelle Lezioni di politica, raccolte in due volumi da Il Mulino (Storia delle dottrine politiche, 709 pagine, 33,00 euro, e Scienza della politica, 346 pagine, 27,00 euro), Miglio ricostruisce il pensiero e i sistemi politici usando come criterio realista la capacità di esprimere le regolarità della politica fino a suggerire la possibile esistenza di leggi dell’agire politico.

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Come uscire dall’orrore economico on si può dire che Giulio Tremonti non l’avesse vista venire la crisi economica e finanziaria in corso. Nei suoi precedenti saggi l’ex ministro dell’Economia aveva messo nero su bianco il pericolo insito nello scatenamento della finanza internazionale. Con Uscita di sicurezza (Rizzoli, 259 pagine, 12,00 euro) adesso Tremonti analizza lo svuotamento della democrazia da parte della finanza, critica l’inanità dell’Europa, ma soprattutto indica una exit strategy. Eccola: dividere l’economia produttiva da quella speculativa, fare gli eurobond, tornare alla civiltà europea contro il fondamentalismo mercatista. Mettere regole alla finanza e le briglie agli spiriti animali del capitalismo.

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Ecco perché conviene coltivare le virtù n un tempo ossessionato dall’apparire, in cui sono i sofisti, gli imbroglioni e i disonesti a farla da padroni, in un tempo reso ancora più feroce dalla crisi economica, il libro di Bruno Maggioni Le virtù del cristiano (San Paolo, 154, 12,00 euro) appare quasi

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una provocazione. Non sono forse un lusso le virtù cardinali indicate dalla tradizione cattolica? Un impaccio al dispiegarsi della nostra animale volontà di potenza o della nostra semplice sopravvivenza? No, dice Maggioni. Perché la logica del mondo resta un’illusione. E la provvidenza aiuta i giusti mentre sul medio periodo rovescia gli iniqui dai loro troni. O dai loro sgabelli.

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Quell’ombra sul Gobbo del Quarticciolo n eroe della resistenza partigiana o un delinquente comune? Giuseppe Albano, meglio conosciuto come il Gobbo del Quarticciolo, popolare borgata romana, divenne da giovanissimo un capo della malavita distinguendosi in azioni di guerriglia antitedesca. Ora un libro del giornalista calabrese Bruno Gemelli, Il gobbo del Quarticciolo, (edizioni Città del sole, 190 pagine, 12,00 euro), ricostruisce la sua vicenda. Il partito comunista clandestino e le formazioni partigiane della capitale lo sospettavano anche di doppiogiochismo, un sospetto che accompagnerà la sua attività anche nel dopoguerra. Fino a quando Albano resta ucciso. Gemelli non esclude che il Gobbo possa essere stato vittima di un gioco più grande di lui.

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La rivelazione è meglio della rivoluzione opo il Novecento, il secolo delle religioni atee della politica che hanno disseminato nel mondo lager, gulag e sfruttamento economico, è legittimo domandarsi cosa resta di valido delle idee che hanno messo in moto la storia contemporanea: marxismo, fascismo, utilitarismo liberale. A questa domanda Jean Madiran risponde in La destra e la sinistra (Fede & Cultura, 92 pagine, 10, 50 euro). Fuori dal mondo salvato dall’Uomo, dall’utopia, dal messianismo politico comunista o nazionalsocialista, dalla statolatria, dallo scientismo, dall’ecologismo non resta che l’uomo creato da Dio e salvato da Cristo. Oltre la giustizia e l’eguaglianza imposte dallo Stato che prende il posto di Dio, non vi è che la rivoluzione interiore personale.

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MobyDICK

Jazz

spettacoli

Occupy music: Neil Young CONTRO IL DIGITALE di Bruno Giurato

di Adriano Mazzoletti ono trascorsi solo cinque mesi da quando la casa discografica tedesca Ecm ha pubblicato Orvieto, il disco che Stefano Bollani e Chick Corea avevano realizzato l’anno precedente durante Umbria Jazz Winter, che un’altra etichetta discografica, questa volta la giapponese Venus, ha pubblicato finalmente in Italia Volare, un cd che Bollani, con il suo trio dell’epoca - il contrabbassista Ares Tavolazzi e il batterista Walter Paoli - aveva realizzato a Roma nel 2002. Disponibile fino a ora solo sul mercato giapponese, era stato il primo progetto discografico per la casa discografica asiatica. In seguito Bollani, sempre per Venus, realizzò altri lavori importanti, fra cui Black and Tan Fantasy e Renaisance con Enrico Rava. Volare era il quattordicesimo disco che Bollani aveva pubblicato a suo nome. In dieci anni, dal 1992 al 2002, aveva però partecipato a ben cinquantasei sedute per almeno una trentina di etichette. Numero davvero impressionante per un musicista che, al suo debutto, aveva solamente vent’anni. Volare che nel 2002 aveva conquistato il pubblico giapponese, comprende dieci brani di autore italiano, fra i più conosciuti, amati e apprezzati dal pubblico di tutto il mondo. Il disco si apre con la canzone Perduto amore, più conosciuta come In cerca di te, che ebbe al suo apparire, nel 1945, grande successo nell’esecuzione della cantante Nella Colombo e ripresa molte volte da altri interpreti, fra cui Gabriella Ferri, Nicola Arigliano, Jula De Palma e più recentemente da Simona Molinari e Peter Cincotti. Scritta dal direttore d’orchestra Eros Sciorilli con testo di Giancarlo Testoni, è la tipica canzone del dopoguerra velata

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Classica

zapping

teve Jobs è stato un pioniere della musica digitale, e l’eredità che ci ha lasciato è impressionante. Quando però tornava a casa dal lavoro e voleva ascoltarsi un disco, metteva sul piatto dello stereo un vinile». Sono parole di Neil Young. Cantautore, rocker e precursore del grunge, ha deciso di portare avanti una battaglia contro il degrado della musica digitale. Il paradosso perfetto per un’epoca che pensa le nuove tecnologie come un passo in avanti: il digitale peggiora la qualità del suono. «Non è che il digitale sia peggiore dell’analogico, è il modo nel quale lo si impiega che - secondo me - non rende giustizia all’arte: gli mp3 hanno solo il 5% dei dati inclusi nel file di registrazione originale. Avete capito? Siamo nel 2012 quello che ascoltiamo è il 5% di quello che abbiamo registrato nel 1978. Le dinamiche dell’era digitale hanno costretto le persone a scegliere tra qualità e convenienza: una scelta, questa, seguita da una decisione che nessuno avrebbe mai dovuto prendere. Altro che Occupy Wall Street... Occupy music!», ha dichiarato Young alla convention D: Dive into media. L’argomento viene fuori di tanto in tanto, ma fa impressione il fatto che questa volta a sollevarlo sia stato un mostro sacro del rock, e per di più mettendo in mezzo l’inventore della musica digitale, proprio il guru di Apple Steve Jobs. Young ha anche aggiunto riguardo Jobs: «E, vi prego di credermi, se avesse avuto la fortuna di vivere abbastanza a lungo avrebbe cercato di fare la stessa cosa che sto cercando di fare io». Su questo abbiamo qualche dubbio, ma la questione esiste. E non vorremmo trovarci sommersi, nonostante le nuove tecnologie, da spazzatura sonora.

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Bollani mette le ali

alla canzone italiana di malinconia e speranza. Bollani ne offre una versione latineggiante, in contrasto con la composizione creata in un periodo in cui jazz e swing erano alla base di ogni esecuzione musicale. Differente invece, rispetto allo spirito della canzone di Domenico Modugno, la sua versione di Volare. Dopo l’esposizione del motivo da parte del contrabbassista, Bollani si lancia in una serie di ritornelli improvvisati secondo la grande tradizione dei pianisti swing. Nelle due canzoni di Luigi Tenco, Averti fra le braccia e Angela, emerge lo «stile di Bollani», eclettico e ricco di citazioni, dove però lo swing non fa mai difetto. Le altre canzoni, comprese in questo disco, che giunge finalmente in Italia dopo dieci anni, sono Anema e Core, composta nel 1950 da Salve D’Esposito con parole di Tito Manlio, forse

la più celebre canzone napoletana degli ultimi sessant’anni, e Arrivederci di Umberto Bindi e Giorgio Calabrese. Il disco comprende inoltre una straordinaria interpretazione di un’altra celebre canzone napoletana, Te vojo bene assaje, composta nel 1838 dal poeta Raffaele Sacco e dal musicista Filippo Campanella anche se una certa tradizione indica in Gaetano Donizetti il vero compositore. Enrico Caruso la fece conoscere nel mondo intero e il primo verso del ritornello venne ripreso da Lucio Dalla nel suo indimenticabile Caruso. Bollani ha infine inserito in questo disco l’aria E lucean le stelle da Tosca. Oggi che molti musicisti di jazz italiani sono soliti interpretare celebri arie operistiche, bisogna dar atto a Stefano Bollani di essere stato il primo, preceduto nel 1993 solo da Enrico Rava con il suo famoso L’Opera va. Stefano Bollani Volare, Venus, Distr. Egea

Enti lirici, Mibac, Fus e la riforma che s’ha da fare on è semplice capire, di primo acchito, chi abbia ragione e chi torto. Da una parte, orchestrali e coristi delle quattordici fondazioni lirico-sinfoniche italiane sono in subbuglio. Accanto a loro, molte istituzioni e associazioni medio-piccole, che spesso li ospitano nei loro cartelloni. Dall’altra parte, il Mibac (Ministero per i Beni e le Attività Culturali), con una recente circolare della Direzione generale per lo spettacolo dal vivo, e per esso il sottosegretario in carica, che riaffermano i loro argomenti. Materia del contendere, la legge n° 100 del 2010. Questa, all’articolo 3, dispone la cessazione di permessi artistici e professionali per l’esercizio di attività autonoma ai dipendenti delle fondazioni, dal 1° gennaio del corrente anno e fino alla stipula del nuovo contratto nazionale, scaduto da sei anni. Permessi che, secondo il ministero, comportano l’esigenza di riorganizzare orchestra o coro per sopperire alle assenze, nonché i costi dell’assunzione tem-

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di Francesco Arturo Saponaro poranea di eventuali elementi aggiunti. Il fronte opposto è sul piede di guerra, e per cominciare contesta l’aggravio economico, a suo dire salvaguardato dalla norma sulla concessione dei permessi. Si denuncia piuttosto una manovra ricattatoria del ministero, per imporre un contratto nazionale inaccettabile e perdente, in una strategia di attacco alle masse artistiche che addirittura intenderebbe smobilitare le orchestre italiane, lasciando spazio ai musicisti stranieri. È inoltre riaffermato il valore di arricchimento artistico dell’attività professionale autonoma, della quale poi le orchestre delle fondazioni in prospettiva beneficiano. I sindacati ricordano inoltre che, nella precedente legislatura, erano stati accantonati 18 milioni per il rinnovo del contratto. Ma, in questa legislatura, sono stati usati per altri scopi (non saranno per caso andati, ragionevolmente, a rimpinguare i precedenti, deprecati tagli al

Fus?). Rimane comunque inspiegabile il ritardo della risposta sindacale, ben un anno e mezzo dopo l’approvazione della legge 100/2010. Il sottosegretario Roberto Cecchi, il 1° marzo in Parlamento, ha replicato alle infiammate interrogazioni. Da decenni, ha spiegato, i teatri lirici soffrono di un’endemica crisi economico-finanziaria, ormai insostenibile alla luce delle odierne difficoltà. Nei bilanci appaiono spesso patrimoni il cui valore dichiarato è inferiore al valore d’uso degli stessi immobili. In molti casi, i debiti raggiungono somme preoccupanti. E in più situazioni i conti economici espongono, in ogni esercizio, perdite ingenti. Per la verità, ma questo Cecchi non l’ha detto, una parte dei problemi si deve al forte ritardo e alle incertezze di cifre con cui finora è stato erogato il Fus (Fondo unico per lo spettacolo), dai governi di ogni colore. Il che costringe regolarmente i tea-

tri alle forche caudine di onerose anticipazioni bancarie. Soprattutto, secondo il Mibac e il governo, il costo del personale costituisce il nocciolo del problema. Esso raggiunge ormai il livello di 314 milioni di euro l’anno, contro una quota di circa 300 milioni erogata dal Fus per tutto il settore. Perciò, ha sottolineato Cecchi, è imprescindibile una riforma del sistema e un contratto nazionale radicalmente nuovo, perché i contratti integrativi aziendali in vigore rendono la situazione insostenibile e ingovernabile: i vantaggi economici che ne derivano sono addirittura superiori anche al 50 per cento del valore del contratto nazionale. Il sottosegretario ha tuttavia concluso dichiarando la disponibilità del ministero a stralciare dalla contrattazione nazionale la materia dei permessi artistici, per concordare una rapida soluzione. Nell’insieme, una materia decisamente opaca e ingarbugliata. Arriverà finalmente una riforma che introduca più efficienza e trasparenza?


Narrativa on ci sono proclami e nemmeno grida istericaideologiche. mente Semmai un ragionare lento e scavato, con l’accortezza di equilibrare accuse e auto-accuse. Sempre nel tentativo di capirci qualcosa, il che non è mai operazione facile e conclusiva. È l’animo femminile, nei suoi nodi e noduli psichici e sociali, che in questo periodo si fa sempre più oggetto di narrativa. Anche l’otto marzo, festa delle donne, travalica (almeno culturalmente) l’insulsa e formalissima ritualità degli omaggi floreali, dei rancori, delle battute salaci, della gioia isolata e sgangherata. Eric-Emmanuel Schmitt è, ovviamente, un uomo. È romanziere e studioso francese. Ma la sua impronta di genere non ostacola la sua bravura nell’esaminare tre donne, con un nome somigliante, di diverse epoche, intrecciando così un faticoso divenire, uno sbocciare della consapevolezza, più o meno marcati a seconda del contesto storico. Nel suo ultimo romanzo pubblicato in Italia dalle edizioni e/o (La donna allo specchio, 395 pagine, 19,50 euro) si stagliano tre donne. Diversamente infelici. C’è Anne, che si muove nelle Fiandre del XVI secolo, promessa sposa ma poi fuggitiva perché «la natura la attirava più del fidanzato», intuendo che «la felicità si nascondeva fuori, dietro un albero, come un coniglio… unirsi a Philippe le appariva ridicolo in confronto allo splendore di aprile che fortifica campi e foreste». Anne diventa mistica e fa scandalo sociale, allontanandosi dalle convenzioni e dalle istituzioni. Non conosce San Francesco, eppure parla con un lupo che semina terrore nella zona. Nei boschi, assieme alle parole che annota per sé, entra in una condizione estatica. E ciò la conduce ad affrontare l’imputazione di eresia.

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libri

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Hollywood, drogata di celebrità e sostanze stupefacenti. Amy è donna che, grazie anche ai tempi in cui vive, può dirsi gratificata in quanto soggetto sociale. Ma il percorso che dovrebbe condurla a una pienezza affettiva è un altro, non certo quello che passa per l’abbruttimento in omaggio al dio-denaro. Lo strumento della recitazione servirà ad Amy per cercare e trovare un tipo diverso di soddisfazione. Ponendo a confronto le tre donne descritte in questo romanzo finissimo, risulta facile pensare che se un tempo l’esistenza delle convenzioni affettive non portava verso un baricentro (a parte le eccezioni), oggi la gradualità si è ribaltata. Rimane l’incontestabile fatto che la vita di una donna è quanto di più difficile che ci sia sotto il cielo.

N

C’è poi Hanna, austriaca ricca, che agli inizi del Novecento comincia la corrispondenza con l’amica Gretchen. Alla quale confida di aver avuto «una luna di miele impeccabile», salvo poi chiedersi: «Ma io sono fatta per la luna di miele?». S’accorgerà che la cosiddetta pienezza di una donna non sta affatto, o esclusivamente, «nelle braccia di un uomo». Si è stancata, lei bambolina silenziosa dell’alta società e per reazione «smorfiosa snob», di subire biasimi sia pure camuffati in elogi di convenienza. La catena di quesiti che si pone va a finire nel concetto del ruolo. Il marito è affettuosamente esu-

Donne coraggio (senza proclami)

Anne, Hanna e Amy diversamente impegnate nell’esplorazione del loro Sé, nelle pagine del bel romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt. E l’impegno delle scrittrici, da Sibilla Aleramo a Matilde Serao, da Anna Banti a Natalia Ginzburg, nel descrivere le ombre di una condizione a volte spaventosa di Pier Mario Fasanotti berante. Però lei annota: «Il suo desiderio mi affascina senza disturbarmi. E mi lusinga… Mi do a Franz per gentilezza, altruismo, compiacenza, visto che ho deciso di appagarlo per quanto posso. Ottempero al mio dovere come una brava massaia». Hanna guarda dentro se stessa e all’amica confida: «Non sono motivata dal gusto né tormentata dal desiderio, e ne ricavo poco piacere, giusto la gratificazione di aver fatto l’elemosina o l’emozione di vedere quel giovanottone addormen-

tarsi soddisfatto contro la mia spalla». Sono parole, queste, che se un marito o compagno le conoscesse sarebbero più acute di un pugnale o di un tradimento. Hanna vive in una sorta di acquario. Fino alla gravidanza.

Il bambino non nascerà vivo, il perbenismo sociale lo seppellirà dentro una bugia dai contorni dell’isteria o della casualità. Ma ecco che la bella dama viennese viene a sapere che nella vita di una donna esiste anche «il piacere eccelso». Così come viene a sapere di un certo dottor Freud, «il mago ebreo», che osa palpare le anime e non i corpi. Superando gli enormi pregiudizi raz-

ziali si stenderà sul lettino di uno psicoanalista dal nome non ebraico. E così scoprirà i traumi infantili, i grovigli che si è portata dietro senza farli vedere agli altri e nemmeno a se stessa. Hanna conoscerà poi «il piacere eccelso» solo in occasionali incontri extraconiugali. Tasta la felicità, a condizione però di portare una maschera. Infine Eric-Emmanuel Schmitt ci parla di Amy, giovane donna dei nostri tempi, protagonista vivace e nevrotica del mondo dello spettacolo. Diventerà una star di

Così come appare difficile nell’antologia di racconti appena usciti da Einaudi (Quello che le donne, 254 pagine, 16,00 euro). Si va da Sibilla Aleramo alla Contessa Lara, da Matilde Serao a Grazia Deledda, da Fausta Cialente a Natalia Ginzburg. Struggente nella sua meticolosa ricostruzione psicologica è il racconto di Anna Banti, Il coraggio delle donne. Siamo nell’Ottocento. Amina in compagnia delle amiche si avvia verso la «trista villa» dove abita con il marito, i figli e la servitù. Ha paura, s’aggrappa agli esseri del suo stesso sesso per fronteggiare la brutalità emotiva del marito, il signorotto che trascorre il suo tempo libero nell’odore del vino e del tabacco. Come fare a giustificare un lieve ritardo? Annota l’autrice: «La rapidità della tattica con cui si sciolgono le situazioni impossibili, i litigi vergognosi fra gente civile, è sempre un mistero». Amina, prima di raggiungere la sala da pranzo, getta un’occhiata alla camera da letto. E qui sta il suo dramma di imprigionata: «I letti, parati dalle zanzariere, parevano, nell’ora nericcia, trappole di fantasmi, soffocatoi silenziosi». Un mondo di «indifferenza smorta», dove non pulsa la vita, semmai solo un’attesa così vaga che mai sfiora il piacere o la tranquillità. Che ci vuole ad aver coraggio? Questa la domanda. E sarà a tavola, con un gesto dissacrante rispetto ai canoni, che Amina impone spettacolarmente la sua presenza. Ma poi deve pagarla, quando i coniugi si coricano. Sul comodino di lui c’è una pistola. Echeggia la frase «bisogna sopprimerla», quasi si trattasse di una giovenca malata, fastidiosa e inutile. Anna Banti descrive magistralmente poche ore passate su quel letto, prima del sonno notturno. In quelle ore c’è tutta la spaventosa condizione femminile. Ma anche un riscatto.


Babeliopolis

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estate scorsa Sergio Altieri ha lasciato la guida delle collane da edicola della Mondadori (Gialli, Segretissimo, Urania, Harmony e relativi supplementi) per dedicarsi alla sua attività di scrittore di robusti romanzi e racconti «di genere» (con il noto e trasparente pseudonimo di Alan D. Altieri), di traduttore e sceneggiatore, cedendo così il posto a Franco Forte, un altro scrittore e critico di qualità da anni in campo. Intanto continuano a uscire testi che Altieri aveva selezionato e che dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che gli autori italiani hanno enormi qualità stilistiche e inventive, che nulla hanno di meno degli americani, e anche che purtroppo, nonostante i nostri scrittori appaiano su Urania ormai da vent’anni (il premio omonimo ha visto la luce nel 1990) i suoi lettori, o le nuove generazioni dei suoi lettori, sono ancora condizionati dall’esterofilia. Detto questo non si può non segnalare l’ultimo supplemento del mensile, il Millemondi Inverno 2012 (460 pagine, 7,50 euro) che, sotto il titolo generale di Due mondi oltre la soglia, ci offre due vere e proprie chicche di quella che potremmo definire science fantasy: Anharra, il cerchio del destino di J.P. Rylan e La guerra delle Maschere di Errico Passaro. Una mescolanza di fantastico, orrore, fantascienza, mitologia, mondi alternativi che non ha nulla di artificioso o artificiale e al contrario dimostra come le migliori idee, personaggi, scenari nascano, in chi ne è capace e ha le qualità narrative, dalla ibridazione di vari generi. In più i nostri autori, almeno i migliori e più preparati di essi, non si limitano a scrivere opere appassionanti e godibili, ma hanno, per così dire, una marcia in più e offrono vari livelli di lettura, come si vedrà.

L’

E intanto diciamo che l’improbabile nome di J.P. Rylan è un improbabile pseudonimo: quello di Giulio Leoni, prolifico autore mondadoriano di polizieschi, romanzi di avventura, esoterici, fantastici, il cui ultimo è La porta di Atlantide. Con Il cerchio del destino porta a compimento il lungo ciclo di Anharra iniziato con Il trono della follia (2006) e proseguito con Il santuario delle tenebre (2007). La trilogia di Leoni si muove su un duplice piano, graficamente evidenziato dal testo in tondo e in corsivo. Il primo evidenzia la storia antica, in un passato magico-mitico, dove esiste la civiltà di Anharra: qui un gruppo di avventurieri va alla ricerca di una città perduta con le sue immense ricchezze ma che cela un segreto terribile: una stirpe demoniaca incatenata da un ancestrale esorcismo che viene spezzato: i

MobyDICK

ai confini della realtà

Italici talenti

oltre la soglia di Gianfranco de Turris dèmoni si liberano e provocano un devastante conflitto che distrugge l’Impero di Anharra. Il grumo di ferocia e follia instillato dalle entità si perpetua con un gruppo di superstiti. La parte in corsivo narra la vicenda contemporanea: alcuni ricercatori s’imbattono nelle rovine di Anharra e cercano di spiegare quei lontani fatti alla luce della razionalità moderna, ma senza riuscirvi. Nell’Eredità di sangue il ciclo si chiude: nella parte antica viene descritta la migrazione dei superstiti di quell’antico popolo verso l’Europa, mentre in quella moderna ricercatori petroliferi ne scoprono i terribili fantasmi e rivivono l’antico conflitto in chiave moderna. Anche La guerra delle Maschere ha un antecedente, ma di oltre dieci anni fa, Le Maschere del potere (Nord, 1999), di cui è la continuazio-

ne: il Mondo dell’Arcobaleno immaginato dall’autore è diviso in tre Regni, quello di Rodaire, retto da Fladnag, la Maschera degli dei, quello di Rodrom, retto da Namuras, la Maschera dei guerrieri, e quello di Nahor, retto da Thorden, la Maschera degli artefici. Essi sono in perfetto equilibrio, finché Namuras cerca di prevalere sugli altri ma viene sconfitto. Il primo romanzo finisce così, in questo secondo Namuras cerca la rivincita e inizialmente ha la meglio su Fladnag. Dopo una serie di complotti interni in entrambi i regni in conflitto, alla fine la Maschera degli dei ha la meglio sulla Maschera dei guerrieri che, come ultima risorsa ricorre alla magia nera, ma i dèmoni evocati si rivoltano contro di lui. Assediato e senza scampo, Namuras si suicida e Fladnag conquista anche il re-

Il ciclo di Anharra e il Mondo dell’Arcobaleno, scenari nei quali Giulio Leoni (alias J.P. Rylan) e Errico Passaro ambientano le loro epopee fantastiche, farcite di storia e di sapere, dimostrano ancora una volta che sarebbe ora di farla finita con l’esterofilia di genere gno di Rodrom. Padrone di due terzi del Mondo dell’Arcobaleno come si comporterà con tutto questo potere la Maschera degli dei? Il seguito a un auspicabile terzo romanzo. Riassunte brevemente le due trame potrebbero apparire assai banali, ma così proprio non è. Al di là dei complessi intrighi, delle battaglie, dell’uso della magia, delle descrizioni crude, tutte e due gli autori ci dicono ben altro. Leoni nella sua trilogia offre a un primo livello una spiegazione fantastica della duplice natura dell’uomo, capace di cose meravigliose e di cose terribili allo stesso tempo; poi descrive in modo mitologico la migrazione degli indoeuropei dall’Asia all’Europa a causa di una modifica del clima provocato dallo spo-

stamento dell’asse terrestre dovuto, secondo le teorie dell’eretico Immanuel Velikovsky, all’impatto di una cometa o di una luna sul globo terrestre; quindi descrive l’annientamento dell’Uomo di Neanderthal da parte dell’Homo sapiens sapiens; e infine si rifà alla teoria nietzschiana dell’Eterno ritorno riproponendo oggi i conflitti di illo tempore. Innumerevoli i riferimenti agli antichi poemi dell’umanità, dall’Iliade al Mahbharata. E se questo vi par poco…

Lo stesso vale per Errico Passaro che ha ideato un mondo e una società che si rifanno alla teoria trifunzionale di Georges Dumézil: e infatti i tre sovrani del Mondo dell’Arcobaleno rappresentano le tre funzioni della società ancestrale indoeuropea e che si riscontrano in tutte le società antiche del Vecchio Continente, dai greci, ai romani, ai celti: la sacerdotale, la guerriera e la mercantile. Nel rispetto reciproco delle tre funzioni la società funziona senza problemi, ma quando una di esse cerca di prendere arbitrariamente il sopravvento l’equilibrio si spezza, si precipita nel caos civile e militare, ed è necessario trovarne uno nuovo. Anche qui, come si vede, c’è parecchio di più che una semplice storia d’avventura: Passaro conosce bene la materia, sia fantastica che mitologica e antropologica (basta scorrere i testi di riferimento in appendice), e ha la capacità di amalgamarla in una vicenda piena di azione e di colpi di scena, ma anche di riferimenti profondi, ad esempio al rapporto umano/divino o, caso raro in questo genere di narrativa, alla magia sessuale normale e inversa (omosessuale) descritte in modo sapiente e non disturbante per il lettore medio. Insomma, i due romanzi proposti da Urania Millemondi dimostrano le capacità dei nostri scrittori e sarebbe una vera disgrazia che l’attuale situazione editoriale, e/o la puzza sotto il naso di un certo tipo di lettori, ne frenino le apparizioni sulla collana italiana di fantascienza più longeva, che nel 2012 compirà sessant’anni.


il saggio

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Il testo della «lectio magistralis» tenuta ieri a Roma dal filosofo americano Michael Novak

Il fattore Xandu Economia e morale nella globalizzazione

Un’azienda immaginaria in un Paese di fantasia per spiegare come le imprese, avanguardia delle democrazie, rappresentino la prima pietra dello sviluppo delle comunità. A patto che...

di Michael Novak iversi anni fa, la business school della Wheeling Jesuit University (West Virginia, Usa) ha realizzato delle magliette per la riunione annuale, sulle quali ha fatto stampare la scritta: «La missione delle aziende consiste nel sostenere la realtà e la rispettabilità del capitalismo, della democrazia e dell’intento morale ovunque e non minarli in alcun modo». Consentitemi di prendere questa citazione come punto di partenza del mio intervento.

D

PRESUPPOSTI La citazione suddetta si basa su sei presupposti, di cui ho provato la fondatezza nel mio libro Business as a Calling. Potremmo proprio iniziare con il renderli cristallini ed evidenti quanto la vetta del Monte Bianco che si staglia sullo sfondo di un cielo azzurro e terso: (1) Dedicare la vita alle attività economiche costituisce una nobile vocazione. (2) La forza propulsiva della struttura morale dell’azienda è costituita da importanti concetti morali (creatività, comunità e senso pratico) ed alimenta numerose virtù (quali il lavoro di squadra, l’onestà, la disponibilità a servire gli altri, la disciplina nel lavoro, il sacrificio, la capacità di avere una visione e la forza di affrontare decisioni difficili). (3) Né la democrazia né il capitalismo possono durare a lungo in assenza di precise virtù etiche e senza il rispetto della legge morale. (4) Una donna o un uomo d’affari lavorano in una forma di comunità umana che, nella sua migliore espressione, esemplifica la relazione tra persona ed associazione che l’insegnamento Cristiano ha sempre cercato di ispirare.

(5) Le aziende commerciali operano in un sistema utilmente definito “capitalismo” (da caput, testa) perché governato da leggi, imperniato sull’intelletto (la testa) e propulso dalla creatività, che per questo non viene definito semplicemente sistema di “libera impresa” o “di mercato”. Un capitalismo inventivo e creativo è condizione necessaria, ma non sufficiente, all’emergere ed al solido svilupparsi della democrazia. (6) L’attività economica costituisce altresì il sostegno primario (dal punto di vista materiale) delle associazioni e le organizzazioni della società civile. I sei presupposti summenzionati sono stati ampiamente ignorati per molti anni a causa dell’incantesimo dell’irrealtà, di cui sono caduti vittime diversi esponenti del pensiero sociale, compiuto dal sogno del socialismo. Sono in pochi oggi a credere che l’economia socialista rappresenti il futuro, ma molti Paesi hanno ancora significative difficoltà ad affondare le proprie radici nel capitalismo, nella democrazia e nell’intento morale. La maggior parte di essi ha scarsa esperienza dello Stato di diritto. La maggior parte delle repubbliche ex sovietiche, dei Paesi asiatici (e non da ultima la Cina), molte nazioni mediorientali e la maggior parte degli Stati africani sono privi delle consuetudini culturali e politiche necessarie ad un sistema capitalistico funzionante. Qual è, allora, la giusta condotta da assumere da parte delle aziende delle democrazie occidentali nei confronti di tali paesi? Poniamo l’esistenza di una nazione di fantasia chiamata Xandu ed andiamo ad inventare un caso di studio.


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UN CASO ESEMPLIFICATIVO: XANDU Supponiamo che Kavon (una giovane azienda di elettronica di fantasia, il cui nome è ottenuto leggendo “Novak” al contrario) stia esaminando la possibilità di varare un’operazione a Xandu. La logica politica sottesa a tale progetto è costituita dal principio che “l’impegno costruttivo” sia l’unico modo per introdurre Xandu nella schiera dei Paesi democratici, capitalistici e rispettosi del diritto. Si tratta di una logica che ha indubbiamente dei punti di forza, ma i presupposti alla stessa potranno essere realizzati? E cosa fare per garantirne la sussistenza? Il sistema politico di Xandu è ancora chiuso, miope, un sistema che alimenta il sospetto e le cui élite restano al potere soltanto mantenendo il controllo politico e psicologico sulla popolazione. Si tratta di élite intelligenti, che hanno capito come il capitalismo sia sinonimo di abbondanza mentre i metodi socialisti portano scarsità. Tuttavia, studiando la storia contemporanea, i governanti di Xandu hanno compreso che molte società hanno in una prima fase mirato alla crescita economica che, in seconda battuta, ha risvegliato istanze di democrazia politica. È stata questa la sequenza registrata in Paesi quali Grecia, Portogallo, Spagna, Corea del Sud, Filippine, Kenya, Cile e Argentina. I governanti di Xandu capiscono che un sistema di libertà economiche genera il desiderio di libertà politiche. Il meccanismo sociale sembra essere il seguente: l’impresa fa nascere gli imprenditori. Dei bravi imprenditori capiscono, con l’esperienza, di essere più intelligenti e vicini di alcuni politici a determinate realtà. Provano fastidio per il fatto di essere mal governati. Iniziano a chiedere istituzioni di governo rappre-

L’Occidente deve investire nelle società chiuse per dare il suo contributo alla costruzione delle democrazie sentativo. Quindi, secondo l’analisi compiuta su Xandu, l’azienda rappresenta la prima tessera del domino del totalitarismo. I dirigenti di Xandu sanno di avere bisogno delle aziende occidentali per almeno vent’anni, ma percepiscono la natura essenzialmente morale delle attività economiche ed il loro effetto sovversivo, poiché l’azienda incarna i principi del governo limitato, della supremazia del diritto ed alti ideali interni alla persona ed alla comunità. Attraverso le pratiche delle aziende tali principi si diffondono come una “malattia”, che Xandu desidera tenere in quarantena. Gli abitanti di Xandu hanno bisogno della cultura tecnica e morale dell’azienda – tecnologia, competenze, metodologie e formazione. Non vogliono, però, la cultura politica che essa fa nascere. Sperano che, moltiplicando le

il saggio energie dedicate al controllo, possano tenere in quarantena la libertà all’interno della sfera economica. Vogliono ad ogni costo impedire che il principio della libertà possa gradualmente infiltrare la vita politica di Xandu. I governanti di Xandu cercano di porre dei limiti alle attività di Kavon e di tutte le altre aziende straniere che adesso trasferiscono a Xandu le loro fabbriche, il loro knowhow e nuove tecnologie servendosi essenzialmente di sette dispositivi. I SETTE DISPOSITIVI In primo luogo, insistono perché tutti gli addetti delle nuove aziende straniere vengano selezionati e “preparati”da una società di Xandu che si occupa di risorse umane. Tale società sarà gestita dal Partito Nazionale di Xandu, il quale esigerà di avere un ufficio presso la società straniera al fine di condurre attività di mediazione in caso di problemi con i lavoratori. Dall’ufficio suddetto il Partito eserciterà altresì uno stretto controllo politico sulla forza lavoro. In secondo luogo, se i sindacati dei lavoratori saranno rappresentati all’interno dell’azienda straniera, si tratterà dei soli sindacati nazionali ufficiali di Xandu, che verranno utilizzati anche come strumento di controllo politico. Terzo, ad alcune aziende straniere verrà chiesto di fornire informazioni sul comportamento dei loro dipendenti. Ad esempio, i controllori dei lavoratori vorranno essere informati ove i dipendenti diano adito a ritenere di seguire pratiche religiose, mettano al mondo un numero di figli più alto del consentito o leggano materiale di natura politica. Quarto, gli imprenditori stranieri proprietari di piccole aziende saranno obbligati a siglare delle “partnership” con aziende di Xandu di proprietà del governo o di suoi singoli funzionari. Accade, a volte, che vengano arrestati imprenditori stranieri, rinchiusi in carcere, vengano loro confiscati i beni di proprietà e sia impedita loro ogni forma di comunicazione con il mondo esterno. Un imprenditore è stato detenuto in tal modo per sei anni. Alle grandi aziende verrà richiesto di chiudere un occhio. In materia di governo, non v’è stato di diritto. Persino una o due grandi aziende sono state truffate per somme ingenti – $50 milioni in un affare e $100 milioni in un’altra transazione – in situazioni in cui i loro soci di Xandu (funzionari governativi o loro procuratori) sono rimasti indenni da perdite causate dal loro stesso comportamento. Quinto, le società straniere devono a volte accettare fornitori che vengono loro assegnati. Le fabbriche di Xandu, sfortunatamente, impiegano spesso lavoratori schiavi tenuti in condizioni raccapriccianti e costretti a sgobbare per anni a solo beneficio dell’élite del Partito di governo. Dire che i livelli di nutrizione, le condizioni sanitarie e di alloggio siano primitivi è un eufemismo.Tali condizioni sono volte ad umiliare ed intimidire. Ve ne sono descrizioni dettagliate in documenti che sono stati fatti filtrare fuori dal Paese da alcuni sopravvissuti. Sesto, alla Kavon e ad altre aziende operanti nel settore dell’high-tech verrà richiesto, anche con metodi persuasivi ed intimato di condividere con i loro omologhi delle aziende governative importanti segreti industriali in materia di tecnologie satellitari, missilistiche, metallurgiche o informatiche occidentali. Gli ingegneri, gli scienziati ed i tecnici di Xandu

Verso una cultura del rispetto Tutto deve poggiarsi sull’etica di persone responsabili hanno imparato moltissimo dai loro colleghi occidentali, soprattutto quando, a seguito dell’esplosione dei loro razzi noleggiati per mettere in orbita i satelliti occidentali, al fine di evitare ingenti esborsi per episodi simili, i tecnici occidentali hanno formato quelli di Xandu alle più avanzate tecnologie missilistiche. I più recenti razzi di fabbricazione Xandunense vengono oggi venduti ad almeno tre nemici giurati dell’Occidente. Settimo, il governo di Xandu considera le religioni monoteistiche (Giudaismo, Cristianesimo ed Islam) delle minacce al proprio potere totalitaristico. Poiché i governanti sono consapevoli del fatto che il rispetto per l’individuo derivi dal credere in un Creatore che trascende i poteri dei governi, i politici di Xandu ritengono i gesti personali di devozione religiosa dei pericoli per il regime. Sorvegliano con discrezione gli impiegati di Xandu che lavorano nelle aziende internazionali, al fine di individuarne segnali di deviazione religiosa. Perseguitano soprattutto i cristiani. NECESSITÀ DI PRECAUZIONI PREVENTIVE In tali condizioni, la semplice presenza di aziende occidentali a Xandu non comporterà necessariamente cambiamenti sociali in positivo.“L’impegno co-

struttivo”complice delle prassi di cui sopra può rivelarsi un’illusione. Se le aziende occidentali collaborano ciecamente, in maniera poco intelligente ed acritica con i governanti che le coinvolgono in attività barbare, distruggono la reputazione del capitalismo e della democrazia. Mineranno anche il loro stesso intento morale dichiarato. Se, d’altro canto, ben armate di contromisure e di una ferma volontà di rispettare le regole internazionali, le aziende occidentali potranno anche utilizzare il loro potere negoziale (perché Xandu ha bisogno del loro know-how) con finalità etiche fondamentali per il raggiungimento dei loro obiettivi politici ed economici. L’istituto della democrazia e del capitalismo non è soltanto democratico nel suo sistema di governo e capitalista sotto l’aspetto economico. Esso dipende anche da una cultura del rispetto della supremazia del diritto e da un’etica basata sulla libertà e la dignità delle persone responsabili. Alcune aziende occidentali, ad esempio, sono gestite da cristiani evangelici fortemente impegnati a seguire l’insegnamento di Gesù portando la loro attività in tutto il mondo, indipendentemente da quanto negativa sia la reputazione di questo o quel regime.Tali aziende devo-


il saggio

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Il caso del know-how cristiano Missione (e difficoltà) degli evangelici nelle aziende

no adottare delle procedure per proteggersi dalle complicità e dagli scandali, in modo da evitare che altri possano strumentalizzarle. E faranno lo stesso anche altre aziende dagli interessi eminentemente economici. Possono esservi aziende gestite da dirigenti talmente cinici da non sollevare mai questioni politiche o morali in ordine alle attività economiche svolte, ma anche questi dovranno assumere precauzioni per difendersi dagli abusi di cui sopra, in modo da evitare ingenti perdite economiche in imprese disoneste. Esistono funzionari di governo corrotti in tutto il mondo. Alcune aziende sanno meglio di altre come tracciare confini ben definiti nei loro affari ed istruire i loro agenti in maniera chiara, perché si conformino ai principi morali occidentali. Ciò è vero soprattutto per alcune aziende americane. Queste non fanno certo affari credendo di andare al catechismo, ma sono pronte ad individuare preventivamente le pratiche illecite ed evitarle. Sono indubbiamente pochi i governi in cui sono invalsi tutte le prassi e tutti i comportamenti attribuiti al Paese di fantasia Xandu, eppure anche in Paesi in cui si registra una situazione tutto sommato buona, esistono operazioni pericolose che meritano dei controlli. Quindi, nel pianificare le attività dell’azienda a Xandu, i dirigenti della Kavon faranno bene a scorrere l’elenco di tutte le pratiche illecite che contravvengono all’etica degli affari segnalate nei diversi Paesi. Dovranno senz’altro

È fondamentale mantenere la dignità etica. Altrimenti non sarà possibile battere i totalitarismi mettere a punto tattiche di difesa. Dovranno essere dotati di una capacità di raccolta continua di informazioni sulle persone con cui intrattengono relazioni d’affari. Dovranno altresì stare in guardia rispetto a clausole contrattuali che non desiderano svelare all’opinione pubblica mondiale. Dovranno formulare una serie di proposte positive da suggerire in luogo di quelle che ritengano deplorabili. Il motivo principale per cui le aziende occidentali devono essere incoraggiate ad investire in società straniere quali quella di Xandu è il loro contributo alla costruzione di una società civile. Se e quando le aziende si fanno coinvolgere in attività che minano o distruggono la società civile, compiono un danno a quattro livelli: (1) fanno cose intrinsecamente dannose e malvagie; (2) causano

distorsioni e danni alla struttura morale aziendale; (3) portano nocumento alla reputazione etica dell’azienda e (4) corrompono il modello della società civile cui giurano fedeltà ed in nome della quale giustificano il loro impegno. Con tali comportamenti, alcune società hanno danneggiato la reputazione etica del capitalismo nel mondo. Hanno agito come se l’unico loro interesse consistesse nel tornaconto economico. Hanno fatto sì che chi le osservava potesse desumere che fossero indifferenti nei confronti delle difficoltà degli esseri umani e delle strutture immorali ed oppressive dei Paesi privi di leggi in cui operano. Poiché le aziende sono organizzazioni economiche e non politiche o etiche, ad esse è consentito operare in Paesi totalitaristici mentre ciò viene impedito alle istituzioni di natura etica o politica. Eppure, le aziende non sono soltanto operatori economici, perché riescono a svilupparsi e crescere normalmente soltanto se in presenza di determinati tipi di regimi e di specifiche forme di ecologia culturale. In tal senso, le aziende possono essere paragonate a delle piante fragili, che crescono soltanto su alcuni tipi di terreno. Quindi, non possono mutare i principi che propugnano – quale il rispetto del diritto e della legge – così come i serpenti cambiano pelle. Perché l’impegno al rispetto del diritto, della libertà e delle leggi etiche sono parte integrante del loro essere. È quindi importantissimo per le aziende americane ed occidentali in genere mantenere la propria dignità morale ed il rispetto di sé. Devono prendere piena coscienza della loro identità morale e politica ed essere determinate a non svendersi ad un prezzo inferiore al loro valore. Le aziende sono la vera avanguardia delle società libere. Rappresentano la prima pietra dello sviluppo di una società civile libera e sana, dello stato di diritto e della rinascita della società civile – attraverso attività, associazioni ed organizzazioni indipendenti dallo Stato. Il primo passo pratico di Kavon ed altre aziende consiste, quindi, nel riconoscere che uno sparuto numero di Paesi, in un certo periodo e sotto un determinato regime, possono essere talmente negativi da rendere qualsiasi collaborazione da parte di aziende con una propria dignità un errore grossolano. Il secondo passo consiste nel definire le nuove regole d’ingaggio di questa epoca internazionale. Regole di condotta interne, quali ad esempio condizioni che implichino il licenziamento immediato per determinati illeciti, che assumerebbero il ruolo di linee guida delle iniziative e delle prassi aziendali interne. Ad esempio, un’azienda americana potrebbe chiedere a tutti i funzionari all’estero di firmare un contratto in cui si stabilisce che, ove questi accettino una tangente da un governo, un’azienda o un individuo stranieri verranno licenziati. E, ove rifiutino la bustarella – anche se ciò comporta una perdita di affari per l’azienda – godranno del sostegno della loro azienda a tutti i livelli, compreso il Consiglio di Amministrazione. Più sono cristallini i principi etici interni aziendali, più facile sarà prende-

re decisioni per il management che agisce sul campo. I dirigenti sapranno già quali comportamenti godranno del sostegno morale della casa madre e quali, invece, comporteranno censura e licenziamento. Se si considera ciò che le aziende dovrebbero non fare, esse devono evitare qualsiasi attività che danneggi o distrugga la struttura morale della società civile. Ciò che dovrebbero fare, invece, è individuare in maniera attiva modi – non plateali – di alimentare e nutrire il terreno politico e morale necessario alla crescita universale del commercio. Se vengono meno a tali responsabilità, saranno disprezzate dagli stessi tiranni che daranno loro il benvenuto come fossero prostitute comprate e pagate. E non meriteranno il rispetto dei loro compatrioti. Per converso, quando un’azienda assolve alle proprie responsabilità derivanti dalla sua stessa piena identità, rafforza il commercio. Ed il commercio è il fondamento della nostra società libera. Il commercio è la metà “commerciale” della “repubblica commerciale” immaginata, ad esempio, dai padri fondatori americani. Le attività commerciali moltiplicano le opportunità per gli uomini e producono crescita economica, aprendo quindi ai poveri i sentieri della risalita. Il commercio promuove invenzioni e scoperte. Dinanzi all’ascesa di nuovi talenti e alla scomparsa delle tecnologie obsolete, il commercio rimescola costantemente la circolazione delle élite. Il commercio contribuisce ad istituire un sistema complesso di controlli a garanzia della legittimità delle attività condotte. Inoltre, produce risorse utilizzabili per progetti al di fuori dell’orbita delle attività statali e rafforza la vita sociale, sottraendola al potere dello Stato centrale. Il commercio incentiva l’imprenditorialità e la fibra, oltre a trasmettere un’ampia gamma di virtù morali (sebbene non tutte) e segnatamente quelle necessarie a porre in essere una vita assennata ed uno stato di diritto. UNA PROFESSIONE AD ALTA VALENZA ETICA Riassumendo, la riuscita di numerose nuove aziende nel loro percorso di ascesa è essenziale per la crescita economica, soprattutto di Asia ed Africa. La riuscita di tali aziende è fondamentale per l’affermarsi della democrazia, soprattutto laddove la stragrande maggioranza dei cittadini vive in povertà. Questi vantaggi non appartengono ai soli occidentali, bensì a tutti i popoli del pianeta. Contribuire a creare i presupposti per il raggiungimento di tali vantaggi sociali – e quindi spezzare le catene della povertà mondiale – costituisce la missione internazionale delle aziende occidentali. Oggi, quindi, essere un player economico importante significa svolgere una professione dall’elevata valenza etica. La cattiva notizia è che si può non essere all’altezza delle proprie responsabilità. La buona notizia, invece, è che si può anche esserlo. La posta in gioco per il futuro della libertà – libertà politica ed economica – è estremamente elevata.


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grandangolo La faglia subacquea è la causa degli smottamenti nell’arcipelago nipponico

Un anno dopo A Fukushima si lavora settemila metri sotto il mare L’11 marzo del 2011, il sisma e l’inondazione che misero in ginocchio il Giappone. Oggi, un’equipe di esperti sta scandagliando il fondale dell’area colpita per cercare di analizzare tutti i danni subiti: se dovesse risultare molto deteriorato, potrebbe aumentare in maniera esponenziale anche il rischio di nuovi, violentissimi terremoti di Vincenzo Faccioli Pintozzi un anno dal devastante terremoto che ha colpito il Giappone orientale, una missione scientifica coordinata da Tokyo e Berlino cerca di capire i danni prodotti non soltanto in superficie, ma anche nella fascia costiera da cui è derivato il disastro. Un anno fa, l’11 marzo, il terremoto sottomarino sulle coste nipponiche scatenò uno tsunami che ha colpito – oltre alle abitazioni civili e alle industrie locali – anche la centrale energetica atomica di Fukushima. I danni di questo attacco sono ancora da quantificare, anche se per diversi anni a venire il rischio radiazioni rimarrà molto alto.

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La missione scientifica è composta da un team di uomini e macchine ad alta tecnologia, che stanno scandagliando il fondo del mare – a circa 7mila metri di profondità – per capire quanto del fondale sia stato deturpato. Non si tratta soltanto di una preoccupazione “ambientalista”: se il fondale dovesse risultare molto danneggiato, aumenterebbe in maniera esponenziale anche il rischio di nuovi sismi. La faglia subacquea, infatti, è la causa dei maggiori smottamenti nell’arcipelago nipponico: se fosse compromessa, sarebbero guai seri. Gerold Wefer è il coordinatore e il capo della missione. Al Japan Today spiega: «Vogliamo capire, usando i migliori strumenti tecnologici a disposizione, cosa è successo. Vogliamo mappare il più possibile l’area coinvolta e

Le rocce nei pressi dell’isola di Honshu sono andate distrutte, e capire come questo sia avvenuto sarà d’aiuto per il futuro

confrontare i risultati con le mappe preterremoto». Secondo le previsioni del tecnico, che guida il Centro tedesco per i cambiamenti marini dell’Università di Brema, ci vorrà circa un mese per ottenere i dati necessari: «In ogni caso, siamo sicuri di trovarci davanti a enormi cambiamenti. Le rocce nei pressi dell’isola di Honshu sono andate distrutte, e capire in che modo questo sia avvenuto sarà d’aiuto per gli studi futuri sui terremoti e sugli tsunami». Shuichi Kodaira, dell’Istituto per la ricerca sull’evoluzione terrestre di Tokyo, è d’accordo: «Se pensiamo a quanto sia importante riuscire a prevedere un terremoto, possiamo dire che con i dati in nostro possesso è molto difficile, se non impossibile. Ma usando la ‘storia’dei grandi terremoti, capendo cosa hanno provocato e in che modo, potremo entrare in un nuovo stadio di ricerca». La missione è stata lanciata in occasione del primo anniversario del disastro, che ha ucciso decine di migliaia di persone. «Questa è la crisi più grave e più difficile del Giappone dalla fine della II Guerra mon-

diale»: così l’allora primo ministro Naoto Kan ha definito il terremoto di magnitudo 9 che alle 14.46 ha colpito la costa nordorientale del Paese. Il sisma è stato il più potente sofferto dalla nazione e uno dei 5 più disastrosi nel mondo dal 1900, ossia da quando si è cominciato a registrarne la potenza distruttiva. Accompagnato da tsunami, con ondate di oltre 40 metri di altezza, ha avuto effetti catastrofici: 15.850 morti; 6.011 feriti; 3287 dispersi; 125mila edifici distrutti; incendi in molte zone; strade e ferrovie gravemente danneggiate; crollo di dighe. Quattro milioni di famiglie del nord-est sono rimaste senza elettricità e un milione senza acqua per circa due mesi. Secondo la valutazione della Banca mondiale, il costo del disastro si aggira sui 235 miliardi di dollari Usa. L’energia sviluppata dal sisma è stata di 9.320 gigatoni di tritolo, circa 600 milioni di volte l’energia rilasciata dalla bomba atomica che ha distrutto Hiroshima nell’agosto del 1945.Tokyo, pur essendo lontana 250 chilometri da Fukushima, la città epicentro del terremoto, ha avuto 30 edifici distrutti e1.046 danneggiati.

Dall’11 marzo fino all’8 giugno sono state registrate 1000 scosse di assestamento, di cui 60 di magnitudo 6 e almeno 3 di magnitudo superiore a 7. Lo tsunami che si è abbatttuto sull’aeroporto di Sendai ha spazzato via aerei in parcheggio, mentre elicotteri filmavano centinaia di veicoli in corsa travolti da


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micidiali onde. Il potente sisma ha lasciato sulla zona colpita decine di milioni di tonnellate di detriti: a un anno di distanza dal disastro, solo il 5 per cento è stato rimosso perchè l’86 per cento delle municipalità della nazione si rifiutano di accoglierli: le popolazioni locali sospettano che siano radioattivi a causa delle radiazioni emanate dalla danneggiata centrale nucleare di Fukushima. Di conseguenza i cittadini colpiti dal disastro vivono accanto alle macerie. «È crudele lasciare il compito dell’eliminazione dei detriti ai sopravissuti che hanno già perso le case, le famiglie e il lavoro», ha detto Goshi Hosono, il ministro dell’Ambiente, esortando tutti a collaborare al massimo.“Kizuna”– cioè legame, solidarietà – è la parola d’ordine diffusa specialmente per i cittadini di Tokyo. Ma ancora a febbraio, a un anno circa dal disastro, solo il 5 per cento dei 23 milioni di tonnellate di detriti sono stati sepolti o inceneriti, nonostante l’offerta di denaro da parte del governo centrale alle prefetture e ai privati. Il governo ha programmato di pulire e decontaminare tutta la zona entro il marzo del 2014.

Nella tragica circostanza, il contrasto politico tra il partito al governo (Pdj, partito democratico del Giappone) e il principale partito dell’opposizione (Pld, partito liberal democratico) ha ceduto il passo a un’alleanza di emergenza: il primo ministro Yoshihiko Noda, presidente del Pdj, e Sadakazu Tanigaki, presidente del Pld, hanno raggiunto un accordo per superare le lentezze nella ricostruzione. Il lavoro di rimozione dei detriti e di ricostruzione richiede molto denaro. Il primo ministro Noda ha detto che il governo si impegna a trovarlo attraverso una riforma fiscale: il che significa aumento di tasse al consumatore. Tanigaki ha accettato perchè non c’è altro mezzo per risolvere l’emergenza dei danni del terremoto. In tutte e due i

Ci vorrà circa un mese per rilevare i primi dati. In ogni caso, i tecnici si aspettano enormi cambiamenti leader il senso di responsabilità ha prevalso su eventuali interessi politici. L’accordo non si è realizzato a porte chiuse, ma di fronte ai cittadini in un dialogo aperto in Parlamento. Il 5 marzo scorso il Pdj, in un dibattito interno al partito ha proposto una riduzione del 7,8 per cento del salario agli impiegati governativi. Noda, in un dibattito parlamentare, ha alzato la cifra di riduzione al 10 per cento; poi nel dibattito all’interno dei due maggiori partiti si è deciso di alzarlo ulteriormente fino al 14 per cento. La proposta di riduzione salariale si è estesa anche agli impiegati governativi. Se la proposta sarà accettata dalla Dieta (il Parlamento nipponico), le spese annuali del governo si ridurranno di 580 miliardi di yen. Il denaro risparmiato sarà tutto devoluto alla ricostruzione del nord-est ancora devastato.

Il testo della lettera del presidente della Conferenza episcopale giapponese

Ma da quella tragedia è nata una forte comunione tra anime e popoli di monsignor Leone Jun Ikenaga omenica 11 marzo segna un anno dal Grande terremoto nel Giappone orientale. Questo terremoto è stato il disastro naturale più devastante dai tempi del grande HanshinAwaji, che ha colpito il Paese il 17 gennaio 1995, ed ha coinvolto l’intera area orientale della nazione. Per commemorare le vittime e per una ricostruzione il più veloce possibile nelle aree disastrate, chiedo a tutte le chiese cattoliche giapponesi di celebrare delle messe e riunirsi in preghiera nel giorno dell’anniversario. Quello che è successo l’11 marzo del 2011 non sarà mai dimenticato. Il terremoto, enorme per intensità e lunghissimo per durata, ci ha lasciati senza parole. Subito dopo la prima scossa sono arrivate le notizie di quanto era successo nel Paese; anche chi non è stato colpito in maniera diretta dal terremoto ha subito un fortissimo shock.

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In modo particolare siamo rimasti sconvolto dall’orribile tsunami, che ha ucciso quasi 20mila persone e ha causato danni incommensurabili. Come se non bastasse, a questo si è aggiunto l’incidente nella centrale nucleare di Fukushima che ha sconvolto la vita quotidiana di tante persone e li ha fatti vivere con la paura costante delle radiazioni. Tuttavia, dopo questo terremoto abbiamo potuto riscoprire quanto sia meraviglioso il sostegno del popolo e della comunità umana. In televisione, subito dopo la notizia del terremoto, abbiamo visto giovani nella vicina Corea che sfilavano con dei cartelli scritti in inglese che recitavano “Amiamo il Giappone. Il Giappone supererà questo dolore”. Le donazioni sono iniziate ad arrivare da tutto il mondo. Inoltre, esperti da tutto il mondo hanno offerto un generoso sostegno per mantenere al minimo i danni provocati dal disastro nucleare. Dal punto di vista nazionale, persone da tutto il Giappone si sono spostate nelle aree colpite e si sono impegnate in attività di volontariato: preparare pasti caldi, rimuovere macerie ma anche parlare con le persone colpite dal disastro. Davanti a realtà tanto crudeli e incomprensibili, siamo rimasti molto colpiti e incoraggiati da così tante persone, giapponesi e non, che hanno fatto ogni sforzo per aiutare le vittime. Indimenticabile il discorso del re del Bhutan alla Dieta, così come l’incoraggiamento caloroso e il sostegno inviato da tutto il Paese alle zone colpite. Tra l’altro, nel giorno stesso del Grande terremoto abbiamo visto tante storie toccanti di coloro che hanno salvato la vita degli altri a costo della pro-

pria, storie che potrebbero aver ispirato tutto il sostegno ricevuto in seguito. Voglio ricordare come esempio il proprietario di un’azienda che ha cercato di salvare tutti i suoi giovani impiegati cinesi – che stavano ricevendo il loro apprendistato – facendoli spostare su una collina vicina. Lui non è scappato per salvarli, è stato colpito dallo tsunami ed è morto. Nel frattempo, l’operatrice di una stazione televisiva municipale è rimasta nel suo ufficio continuando con un microfono a trasmettere l’allarme evacuazione. Ha lavorato in maniera disperata per salvare tante più vite possibile e, per questo impegno, è rimasta anche lei uccisa dallo tsunami. E’ passato un anno dal terremoto, dallo tsunami e dall’incidente alla centrale nucleare: una sequenza che ci ha portato in una situazione di dolore enorme. Come cattolici, preghiamo affinché le vittime possano godere dell’eterno riposo nelle mani di Dio e perché le aree colpite dal disastro possano essere ricostruite il prima possibile, in modo che le persone che le abitano possano ricostruire anche le loro vite. Per ricordare il primo anniversario del Grande terremoto nel Giappone orientale, noi vescovi giapponesi celebreremo messa in tutte le diocesi, per commemorare le vittime e pregare per la ricostruzione. Inoltre, è previsto un incontro di preghiera con i membri delle altre denominazioni cristiane. Spero che a queste messe e a questi incontri venga quanta più gente possibile, in modo da unire la nazione nella preghiera. Ovviamente è importante celebrare queste preghiere “ufficiali”, ma voglio incoraggiare i fedeli a continuare a pregare anche nel privato. La Chiesa cattolica giapponese ha ricevuto delle offerte per aiutare le vittime, sia dai fedeli nipponici che dalle chiese di varie nazioni. Con questi fondi, le attività di volontariato organizzate dalla diocesi di Sendai e dalla Caritas giapponese vanno avanti, grazie anche all’impegno di chi non è cattolico. Vanno avanti anche gli sforzi degli istituti religiosi, maschili e femminili, e delle tre province ecclesiastiche della zona.

Le attività dei singoli volontari, che vengono da tutte le diocesi del Paese, vengono pian piano coordinate con le altre. Questo impegno andrà avanti per molti anni ancora. Quindi, abbiamo di continuo bisogno di volontari e di impegno. Io chiedo a tutti voi di continuare a sostenere la ricostruzione come potete, con la preghiera e con l’azione, oggi e in futuro.

e di cronach

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parola chiave CIVILTÀ

Il ritorno a un’Europa delle piccole patrie, superando i malintesi del progresso, può aiutare l’Occidente a guarire la sua malattia? Una riflessione “fuori dal coro” dello storico tedesco di Ernst Nolte a distinzione tra “natura” e “civiltà” (o “cultura”) è uno dei mezzi più antichi attraverso i quali gli uomini hanno cercato di caratterizzare la propria esistenza: tutti gli uomini, così almeno sembra, conducono una vita civilis in cui il loro vivere è definito da norme, abitudini, costumi e conoscenze. Essa non si identifica con la loro vita naturalis, che contraddistingue invece un ambito in cui gli uomini non devono le proprie azioni a se stessi e si presenta come un enorme insieme di circostanze date e preesistenti: la necessità di nutrirsi, di proteggersi, l’adempire all’imperativo della riproduzione ecc. In questo “stato di natura”gli uomini sono ampiamente in accordo con gli altri esseri viventi, e certo non viene a crearsi una rigida divisione solo perché alcuni primati mostrano degli accenni di “civiltà”, come l’uso di attrezzi rudimentali o l’abitudine a intervenire su ciò che è naturale per modificarlo, ad esempio lavando i frutti prima di consumarli.

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Le differenze sono tuttavia molto più rilevanti dell’eventuale accordo, e si approfondiscono ancora di più man mano che, già nel corso della preistoria, la civiltà, o cultura, assume delle forme più stabili. L’uomo può allora distinguere il suo stato“civilizzato”o“civile”dallo stato di natura, e ciò costituisce l’opportunità di una comprensione differente e opposta: lo stato di natura può essere interpretato come una “lotta per l’esserci”priva di qualsiasi pietà che caratterizza l’intera natura, compresi gli uomini, oppure può essere intesa come la semplicità e la limpidezza di una tribù arcaica, che vive secondo comandamenti non stabiliti dagli uomini per se stessi, ma “dalla natura”, “dagli dei” o da Dio, come quello di non applicare all’interno della tribù o della stirpe la legge primordiale, del “mangiare o essere mangiati”.

Al di sopra del naturale “diritto del più forte”può elevarsi un “diritto naturale” più alto, stabilito da Dio o dalla natura divina, che ponga degli stabili confini all’ar-

bitrio. Già presso i sofisti greci dell’antichità era emerso un relativismo in merito ai differenti modi di apparire, o ai differenti gradi di civiltà o di cultura e nell’illuminismo occidentale del XVIII secolo si sviluppò l’accusa rivolta alla cultura di essere un “peso”, accusa che conduceva le persone ad ammirare i semplici e incorrotti “uomini naturali”. Diventava perciò possibile porre la natura più in alto della civiltà, esattamente come il diritto naturale, inteso come dato e non come regolamentato o inventato, veniva posto al di sotto del diritto civile consuetudinario, nonostante le difficoltà nell’amministrazione di quest’ultimo derivanti dalla sua molteplicità. La religione si poneva prima e al di sopra dell’ambito civile, non diversamente dal teorizzabile ambito della pura moralità che si vorrebbe definire il Regno di Dio. A quanto pare i teologi e i filosofi desideravano essere i paladini della lotta tra vita naturalis e vita civilis, ma questi concetti potevano giungere ad acquisire un significato politico

centrale, nel momento in cui avessero costituito dei mondi distinti l’uno dall’altro, proprio in ragione della loro diversa civiltà che li rendeva potenzialmente nemici.

La civiltà europea fu di certo la più importante, e non solo perché alla fine del XIX secolo ricopriva senza dubbio un ruolo dominante nel mondo, ma perché già ai suoi albori aveva sviluppato una caratteristica di cui nelle altre civiltà si trovano solo dei pallidi corrispettivi: l’autocritica. L’occupazione di entrambi i continenti americani, a opera degli spagnoli e dei portoghesi da un lato e degli inglesi dall’altro, era stata accompagnata da fiduciose autoesaltazioni che vedevano nella cacciata e nella sottomissione delle popolazioni autoctone un risultato della volontà divina. Tuttavia aspre critiche giunsero dall’interno quasi più che dall’esterno. I portavoce della cultura indigena sollevarono una dura opposizione nei confronti dell’Occidente che aveva

assunto rispetto alla natura un atteggiamento di oppressione e di violenza, volto a esaltare con orgoglio la propria superiorità. Nella sua ostinata superbia l’Occidente non era però in grado di riconoscere il cuore della “vera vita”, ovvero l’armonia cosmica rappresentata dall’accordo tra lo spirito dell’uomo e quello del mondo, o della natura, che si rivelava invece nel pensiero degli indigeni. Una civiltà, o una cultura, in cui gli individui si lasciano dominare dai loro desideri, come l’egoismo o la brama di possedere, conduce infine a una vita inautentica, e proprio questo era per Tagore il principale segno distintivo dell’Occidente. Intorno allo stesso periodo, prima della Grande guerra, quando l’orgoglio culturale occidentale era al suo apice, un rappresentante di rilievo di quella cultura si espresse quasi negli stessi termini con inaudita asprezza. Si trattava del filosofo Ludwig Klages, che faceva parte della cerchia di Stefan George. A suo parere,“l’uomo del progresso”occidentale, con la sua erronea dot-


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trina della “lotta per l’esserci”, fin dall’inizio del suo dominio aveva «seminato intorno a sé l’assassinio e l’orrore della morte». La varietà del mondo animale, che una volta era stata ricca, era prossima all’annientamento, le venefiche acque di scolo delle fabbriche contaminavano l’umidità pura della terra. L’umanità aveva dato il via a un’orgia di devastazione senza pari, la civiltà aveva le sembianze di una sfrenata brama di assassinio e le sue esalazioni mefitiche disseccavano la terra, una volta florida. Klages poneva la sciagura della modernità distruttrice della natura in stretta relazione con un fenomeno più che noto: il progresso era stato introdotto nel mondo dalle genti cristiane e dal loro monoteismo come una potenza nemica della vita, che aveva prodotto il distacco dell’uomo dal mondo e di conseguenza anche il “mammonismo” ovunque imperante. Alfred Schuler, amico di Klages, compì un ulteriore passo verso una dimensione più concreta identificando questo spirito nemico della vita con il giudaismo e componendo il verso: «Giuda la faina si intrufola nel cuore della vita». La conseguenza di ciò fu l’inevitabile presentarsi della più grande potenza antiebraica, il nazionalsocialismo tedesco di Adolf Hitler, in qualità di rappresentante dello “spirito del progresso” occidentale, sebbene il nazismo non si fosse proclamato soltanto “nemico del bolscevismo”, ma anche “nemico dell’Occidente”. Ma nell’esaltazione nazionalsocialista della razza nordica, compresa quella anglosassone, così come nella conquista del mondo di stampo coloniale, non vi era forse molto dell’intimo spirito dell’Occidente?

La fiera considerazione di sé dell’Europa non poteva che emergere indebolita dalla seconda guerra mondiale. Fu sufficiente il solo processo di decolonizzazione, ben presto avviatosi, per mostrare chiaramente che il razzismo inglese non era stato in fondo molto dissimile da quello nazionalsocialista, e che il “grande rimorso dell’Occidente”avrebbe ben presto preso il posto di quella sicurezza di sé che da tempo caratterizzava l’Europa. Di fatto, a partire dal 1960 circa, uno spirito di universalismo, di autocritica e quasi di un vero e proprio rifiuto di se stesso, penetrò vittorioso in Occidente, sebbene con intensità differente. All’indomani dell’evidente trionfo riportato sul bolscevismo della Russia sovietica, gli individui di indole più riflessiva potevano domandarsi se nel 1918 Walter Rathenau non avesse avuto ragione quando aveva predetto che cent’anni più tardi la nuova forza politica dell’Est, il bolscevismo, sarebbe stata ancora integra e dominante, anche se mutata nella sua forma esteriore, come già era

La cultura europea ha avuto il pregio di sviluppare una caratteristica peculiare: l’autocritica. Ma ha anche ecceduto nell’esercitarla, arrivando a sostituire il primato con il rimorso

accaduto nel caso delle rivoluzioni russa e francese. Vi furono tuttavia alcune civiltà che non seguirono l’esortazione di Tagore a valorizzare «il proprio particolare carattere» e a protestare contro l’aggressione dell’Occidente. La pretesa di dominare il mondo, propria di una singola civiltà, trovò all’interno dell’Islam dei fanatici paladini nei seguaci dell’islamismo, che intendevano condurre al trionfo definitivo la guerra santa proclamata da Maometto, confermando così quella somiglianza con i comunisti che aveva spinto Jules Monnerot a definire il comunismo «l’Islam del XX secolo». L’eventualità che il comunismo cinese, che dopo la morte di Mao Tse-tung ha allacciato un singolare rapporto con il libero mercato dell’Occidente, possa ritornare al suo messianismo originario è quindi una problematica che merita di essere studiata, ma che attualmente si sottrae a qualsiasi previsione. La pretesa eurocentrica dell’Occidente, da parte sua, è sopravvissuta in maniera altrettanto singolare: la civiltà occidentale è oggi quella che più di ogni altra ha accentuato l’esercizio dell’autocritica. I pochi sostenitori dell’indebolito Occidente ammettono la vittoria dell’egualitarismo, ma sempre limitandolo con la considerazione critica secondo cui un mondo privo di conflitti significherebbe l’arrestarsi dello sviluppo storico. Solo il tempo presente ha visto l’affermarsi nella senescente società occidentale, del fenomeno di massa delle donne senza figli, e senza il desiderio di farne, nonostante l’assenza di figli equivalga al suicidio sociale. L’emergere sempre più frequente di pretese apertamente contrarie alla natura, come la scomparsa del sesso naturale in favore del gender culturale, insieme all’immigrazione di massa, promossa dalle autorità, di gente proveniente da culture straniere, sono sintomi di una malattia culturale mortale. Dopo la mascolinità e l’eroismo, è andata perduta anche la femminilità. La battaglia del multiculturalismo, in qualità di gradino antistante l’egualitarismo e contrario alla differenza tra un “noi”e un “loro”, spiana la strada all’oblio del proprio sé. Quello che una volta era il “popolo guerriero” tedesco è diventato da tempo una massa di vigliacchi o, nel migliore dei casi, di edonisti. Un salvataggio dell’ultimo minuto si potrebbe realizzare solo attraverso provvedimenti particolarmente radicali e profondi, come lo scioglimento dell’Unione Europea e l’esautorazione della sua élite traditrice, uniti al recupero dei valori della semplicità e della vita, che realizzerebbe finalmente le annose richieste di una ri-personalizzazione contrapposta alla spersonalizzazione e alla meccanizzazione della vita. E sarebbe infine ne-

cessario ricordarsi che la propria terra è la patria di una nazione che condivide una stessa eredità.

Senza dubbio, di fronte a tali proposte e al loro carattere “reazionario”, i sostenitori dell’“unico mondo” si indignerebbero in nome della “fusione di tutti i popoli”. Ma se da una parte la loro idea possiede la forza di attrazione di un processo facilmente realizzabile, e cioè il livellamento delle differenze individuali e collettive con il conseguente ingrandirsi - statale o sovrastatale - del centro dell’uniformità, dall’altra la tendenza opposta non è meno evidente, sebbene forse non così chiara, ed è testimoniata dalla costante differenziazione, rispetto alla quale la sempre più complessa divisione del lavoro e delle mansioni non rappresenta che un momento, e dall’approfondimento delle differenze invece del superamento. Il mondo attuale, contraddistinto da un’uguaglianza solo apparente, è in realtà un mondo dalle svariate disuguaglianze, che vengono solo temporaneamente nascoste dall’impeto generato da impulsi di massa quali le mode o i campionati mondiali. Lo sviluppo storico non poteva condurre a un mondo uniforme e grigio, ma piuttosto a diversi grandi nuclei di forza, desiderosi di distinguersi l’uno dall’altro, che le grandi tendenze comuni, come l’immigrazione di massa, hanno saputo sfruttare al meglio. Alla fine l’internazionalismo, di certo radicato nella trascendenza umana, non è stato in grado da solo di connotare un quadro del Tutto, esattamente come gli antichi e i nuovi confini, le nazionalità e le civiltà, senza le quali l’uomo, in quanto essere reale e concreto, potrebbe esistere solo come condizione finale di una trascendenza che abbia consumato la propria finitezza. Dovrebbe scomparire per sempre anche un’idea considerata positiva e carica di conseguenze in tutto il corso della storia umana, e cioè che la costante espansione della sfera umana possa restituire all’uomo ciò che gli ha sottratto: il ritorno a un’umanità “integra”, non più sottomessa alle divisioni e alle limitazioni storiche e perciò “liberata” dalle costrizioni della storia, che vada in direzione di una vita determinata solo dal diritto naturale e non più dalla cultura. Chi vuole instaurare il Regno di Dio in terra, non realizzerà altro che l’“inferno della disintegrazione e della frammentazione”, già presente nei suoi mutevoli aspetti.

(Traduzione di Angela Ricci. Fonti per le citazioni e i brani parafrasati: Michael Klonovsky, Der Held. Ein Nachruf [L’eroe. Un necrologio], München 2011; Fjordman, Europa verteidigen. Zehn Texte [Difendere l’Europa. Dieci testi], Schnellroda 2011)


ULTIMAPAGINA La fabbrica di giocattoli cinesi Enterbay sta lanciando il suo nuovo pupazzetto dedicato a Che Guevara

Hasta il bambolotto di Maurizio Stefanini australiano Michael Casey, giornalista della Dow Jones e collaboratore del Wall Street Journal, è l’autore di un libro sulla storia della famosa foto di Ernesto Che Guevara che è diventata un’immagine simbolo del XX secolo, sconfinando nel XXI (in italiano: La seconda vita del Che Storia di un’icona contemporanea, Feltrinelli, pp.334, Euro 18). Trasferitosi a Buenos Aires dopo un master in Studi Asiatici alla Cornell University di New York e soggiorni tra Londra, Miami e Bangkok, dice che l’idea gli era venuta dal confronto tra il massiccio uso dell’icona del Che in Argentina, e il ricordo di un taxi thailandese con l’una accanto all’altra le immagini teoricamente antitetiche del Che e di Rambo. È una storia, quella dell’utilizzazione capitalista dell’eroe comunista, che il capitalismo comunista cinese in qualche modo riassume, adesso che la fabbrica di giocattoli cinesi Enterbay sta appunto lanciando il suo nuovo bambolotto dedicato al Che. Una specie di Ken o Big Jim o G.I. Joe rivoluzionario, che costa però il prezzo non esattamente proletario di 170 dollari. Più l’invio: il che fa peraltro intendere come non sia stato concepito per un mercato interno cinese che è sì in rapida crescita, ma in cui quella somma è quasi due mesi di stipendio per un operaio. Alto 30 centimetri, il modellino è stato disegnato a partire dalle foto e sculture esibite nei musei. Inoltre vi sono acclusi una tuta mimetica, una giacca di cuoio, una carabina M2, una pistola M1911 e tre paia diverse di mani: il che suona di un humor bastante macabro, se si pensa che proprio le mani furono tagliate al Che dopo la sua uccisione, apposta per dare la prova sua identificazione. Un paio di mani, comunque, è per impugnare le armi; un paio per un sostenere un sigaro; un paio per una macchina fotografica che può pure portare appesa al collo. Per permettergli di assumere differenti posizioni il bambolotto presenta anche 40 punti di articolazione.Va detto che questo peculiare settore merceologico è molto più affollato di quanto non si possa pensare. Nell’ottobre del 2005, ad esempio, in Venezuela fu lanciato il bambolotto parlante di Hugo Chávez, con l’evidente intenzione di farne il business delle feste di fine anno.“Chiedilo a Gesù Bambino, perché siccome Babbo Natale è yankee non lo distribuisce”, era la pubblicità. Disponibile con due vestiti di ricambio, verde da colonnello e rosso da leader politico, anche se il basco da parà era sempre uguale. Inoltre ha una batteria che si attiva quando lo si tocca sulla spalla, e che gli fa agitare le braccia con pose da oratore, nel mentre che dalla bocca esce un discorso registrato. Gli intenditori citano a riprova dell’accuratezza della realizzazione il particolare che sulla fronte è riportata una sua famosa verruca. Il prezzo, quando apparve la prima volta, era meno di un decimo di quello attuale del Che: 16,25 dollari. Ma non ebbe molto successo: l’autore di queste note ricorda di averne visto un mucchio in offerta a un supermercato venezuelano nel feb-

L’

SIEMPRE! braio del 2006, in offerta con ribasso del 40%. Ma nessuno sembrava interessato a prenderlo. Comunque, anch’esso dalle confezioni risultava Made in China.

Made in Usa è invece la linea Herobuilders, che al tempo dell’esecuzione di Saddam Hussein fece rumore per aver messo in vendita via Internet un bambolotto del dittatore iracheno con una corda al collo e la scritta “Dope on a rope”: qualcosa come “imbecille appeso”. Altezza 30 cm, che evidentemente è una dimensione standard; prezzo 24,95 dollari. Spese di

È equipaggiato di giacca di cuoio, tuta mimetica, carabina M2, pistola M1911 e tre paia di mani: per impugnare le armi, per fumare il sigaro e per scattare fotografie

spedizione comprese in tutto il mondo, e con il 10% di sconti per chi si prendeva l’intero stock di 38 pupazzi della ditta. Il bambolotto di Saddam impiccato fu messo in commercio addirittura il giorno prima dell’esecuzione, e che in catalogo c’erano anche un Saddam in borghese durante il processo, un Saddam “catturato” con la maglia dell’asso di picche, un Saddam in divisa con l’etichetta “macellaio di Bagdad”, il figlio Uday vivo e il figlio Uday volto insanguinato dopo la morte. È perché rappresenta ormai l’icona del XX secolo, che questo simil-Che costa così più caro? Per decifrare il mistero della famosa foto scattata da Alberto Korda nel 1960 l’australiano Michael Casey ricorse perfino a un software dell’Università di Amsterdam che analizza le espressioni di foti e ritratti, ricavandone un 52% di tristezza un 41% di neutralità, un 5% di sorpresa, un 1% di rabbia e un 1% di spavento... E sì che si era tratta di una foto scattata quasi per caso, in una di quelle rare giornate fredde in cui a Cuba è necessario portare un giubbotto di pelle. C’era quel tipo di luce quasi caravaggiana. C’era quella macchina fotografica con un graffio particolare sull’obiettivo. E il Che si trovava nel momento in cui non era più così sporco come subito dopo la fine della guerriglia; ma in compenso aveva ancora la romantica zazzera, che di lì a poco si sarebbe tagliata. Korda, però, tagliò una palma sulla destra e il pochissimo romantico profilo del giornalista argentino Jorge Masetti. Scoperta da Feltrinelli proprio in concomitanza con la morte del Che, sarebbe stato il ’68 a farne l’icona mondiale che è poi diventata. Poltica, ma soprattutto commerciale: lo stesso governo cubano ha finito di fatto per sostituire al Che bandiera ideologica il Che richiamo turistico, caso particolare di quel più generale paradosso per cui un logo anticapitalista fa fare soldi a palate. Quadri, t-shirt, preservativi, vini, liquori (e sì che era astemio), film, turismo... E adesso anche bambolotti.


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