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he di cronac

Tutti i grandi sono stati

bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano Antoine De Saint-Exupéry

9 771827 881004 QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 29 FEBBRAIO 2012

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Hiv, disoccupazione e “disagi cognitivi”: la situazione generale è peggiorata ovunque. Anche in Occidente

Un bambino su tre non ha futuro Drammatico rapporto dell’Unicef: ma domani chi se lo ricorderà? La globalizzazione ha acuito la povertà: 1,4 miliardi di esseri umani rischiano la sopravvivenza. E così i più piccoli non hanno prospettive. Ma i governanti del pianeta pensano soltanto all’oggi OLTRE L’ASSISTENZIALISMO

Il ministro Passera e le proteste No-Tav

Un nuovo progetto globale. Prima che sia troppo tardi

Ancora scontri in Valsusa. «Ma i lavori continuano» La polizia sgombra un blocco in Piemonte. I manifestanti cercano di fermare anche le stazioni di Roma e Milano

di Osvaldo Baldacci

La mappa del disagio, da Palermo a Napoli

E da noi sono due milioni Malgrado l’impegno di scuola e associazioni, il modello dominante resta quello della criminalità Franco Insardà • pagina 4

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Parla la psicoterapeuta Maria Rita Parsi

«Vedere il domani con i loro occhi» Giancristiano Desiderio e Marco Palombi • pagine 10 e 11

«Serve una visione bambinocentrica, che neghi la guerra e metta al centro di tutto la famiglia» Gabriella Mecucci • pagina 5

l mondo non è a misura di bambini. Dovrebbe esserlo, se vuole avere un futuro. Ma non lo è. Vale ormai anche per il mondo occidentale sviluppato, vale anche per l’Italia, ma vale ancor di più per i Paesi ancora in via di sviluppo. Si contano a milioni i bambini che muoiono per problemi curabili in modo semplice e non costoso. Sono centinaia di milioni i bambini poveri ed emarginati. Il mondo sta cambiando, ma questo orrore non cambia. E non ci sono più giustificazioni. Ci vuole una rivoluzione radicale di mentalità. Cerchiamo di vedere questa problematica con occhi aperti, ma non velati da quella emotività che dura un attimo e non risolve niente. a pagina 3

I

Monti annuncia: «Recuperati 12 miliardi dall’evasione. Ma si deve fare di più»

Compromesso su taxi e farmacie Sulle liberalizzazioni il governo trova la mediazione finale di Gualtiero Lami

La proposta di Giorgio La Malfa

ROMA. Sulle liberalizzazioni arriva la me-

«E adesso serve una legge sulla concorrenza»

diazione finale del governo. Quanto alle farmacie: il limite è fissato a una ogni 3300 abitanti, il che vuol dire che ne nasceranno 5000 nuove. Quanto ai taxi, la gestione resterà ai Comuni ma l’Authority avrà una funzione di controllo e coordinamento. Con poteri concreti. Oggi il decreto dovrebbe arrivare in Aula con due novità: niente “grandi eventi” per la Pretezione civile e una nuova tassa per finanziare l’Antitrust. a pagina 6 EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

di Errico Novi

ROMA. «Scusate, ma la gran parte delle risorse messe a disposizione degli enti locali da dove viene?». Con l’interrogativo retorico Giorgio La Malfa chiede una legge sulla concorrrenza e azzera le chiacchiere sulla tesoreria unica. a pagina 7 • ANNO XVII •

NUMERO

41 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Polemiche sul Salvastati

Salta l’Eurogruppo di venerdì di Enrico Singer saltato un altro vertice di Eurolandia. Quello che avrebbe dovuto decidere quanti miliardi destinare al fondo salva-Stati permanente (il Meccanismo di stabilità europeo) dal quale dipende il destino della Grecia, e non solo. Motivo: nonostante le pressioni, la Germania non è disposta a potenziare l’Esm. a pagina 12

È

19.30


Un vero e proprio allarme globale, che riguarda i Paesi poveri come quelli ricchi, ma che come sempre finirà inascoltato

Piccoli uomini non crescono I dati dell’Unicef sull’infanzia negata nel mondo sono impressionanti. Ormai sono 1,4 miliardi gli esseri umani finiti ai margini della società di Martha Nunziata

ROMA. Un miliardo di dollari per ridurre le disuguaglianze sociali e per continuare l’impegno umanitario in oltre 25 paesi del mondo. L’obiettivo dell’Unicef per il 2012 è, forse, il più ambizioso degli ultimi anni ma è anche, come si evince dall’analisi del rapporto annuale, il meno differibile nel tempo. Perché il tempo comincia a stringere, le disparità sociali sempre più evidenti e le condizioni dei bambini sempre più difficili. Il rapporto annuale dell’Unicef, dal titolo «Condizione dell’infanzia nel mondo 2012: Figli delle città» presentato in contemporanea in tutto il mondo e in Italia a Roma, alla presenza del presidente del Senato, Renato Schifani, del presidente dell’Unicef Italia Giacomo Guerrera e del Goodwill Ambassador Alberto Angela - è infatti dedicato proprio ai bambini e ai ragazzi che vivono negli ambienti urbani di tutto il mondo.

Il rapporto lancia l’allarme “urbanizzazione” anche per l’Italia e fornisce dati scioccanti: ”In Italia un milione e 800mila bambini vivono sotto la soglia di povertà”, lo dice Giacomo Guerrera. Ecco perché, nel rapporto, l’Unicef chiede con forza ai governi di mettere i bambini al centro dei piani urbanistici e di ampliare e aumentare i servizi per tutti, cominciando con l’avere a disposizione dati più accurati e più specifici per

Ecco che cosa dice il rapporto BARACCOPOLI/1 • Nel mondo, un bambino su tre vive in una baraccopoli: per tutti loro, le prospettive di un futuro meno disagiato sono ridotte praticamente a zero. BARACCOPOLI/2 • Sono oltre un miliardo e quattrocentomilioni le persone che vivono ai margini delle grandi metropoli nel mondo: in pratica il rapporto è di uno a tre. Questo si alza in Africa, dove quasi sei persone su dieci vivono nei cosiddetti “slum”. POVERTÀ E EDUCAZIONE • Oltre 200 milioni di bambini sotto i cinque anni nei paesi in via di sviluppo non riescono a raggiungere il proprio potenziale in termini di sviluppo cognitivo per motivi legati al degrado. MORTALITÀ INFANTILE • Nel 2010, quasi 8 milioni di bambini sono

identificare e colmare le disparità tra i bambini nelle aree urbane. «Ogni anno la popolazione urbana aumenta di circa 60 milioni di persone. L’Asia, per esempio - ha dichiarato il Presidente di Unicef Italia, Giacomo Guerrera - ospita la metà della popolazione urbana mondiale, nonché 66 delle 100 zone urbane che crescono più rapidamente. Entro il 2020 quasi 1,4 miliardi di persone vivranno in insediamenti non ufficiali e negli slum. Già oggi, nel mondo, una persona su 3

morti prima di aver raggiunto i cinque anni di età, in gran parte a causa di polmonite, diarrea e complicazioni da parto. ALLARME HIV • Nel 2010, in tutto il mondo, convivevano con l’Hiv circa 2,2 milioni di adolescenti tra i 10 e i 19 anni, per la maggior parte inconsapevoli della loro sieropositivita. Ogni giorno, si contano 1000 nuovi contagfiati. POVERI & CRISI • Sono i poveri a patire maggiormente l’aumento dei prezzi di cibo e carburante: spendono tra il 50 e l’80% delle loro entrate per il cibo. Sono trenta milioni, nel mondo, i nuovi disoccupati tra il 2007 e il 2010 in conseguenza della crisi globale. IN ITALIA • Nel nostro Paese sono ancora un milione e ottocentomila i bambini che vivono sotto la soglia della povertà

che abita in città vive in una baraccopoli: e in Africa la percentuale sale a 6 su 10».

Esclusione e marginalità sociale sono l’espressione più evidente degli effetti di una condizione comune a molti contesti urbani: le disparità nell’accesso ai servizi igienico-sanitari, all’istruzione, al diritto alla proprietà, alla protezione e ad un ambiente sano rappresentano gli ostacoli maggiori al raggiungimento dell’equità sociale. «Ogni giorno nel mondo muoio-

no 22mila bambini per cause prevenibili - ha ricordato Alberto Angela - e un bambino povero ha un rischio doppio di morire o di avere problemi di crescita rispetto a uno ricco». Quella denunciata dall’Unicef è la povertà nell’epoca della globalizzazione, sottolineata ancora di più dalle disuguaglianze sociali e dalla discriminazione nei confronti dei più deboli, di cui sono soggetti miliardi di persone, soprattutto donne e minori. La maggior parte degli studiosi sono d’accordo nel ritenere che vi

sia un legame molto stretto tra la globalizzazione e la povertà, che potrebbe rappresentare un elemento di crescita delle differenze tra paesi ricchi e paesi poveri, che causerebbe le disuguaglianze economiche, sociali e politiche. Tale processo, che dovrebbe ridurre non solo le distanze geografiche ma anche quelle socio-economiche, si scontra però con le cifre reali, forniti dall’Università di Milano Bicocca: oggi, l’1% più ricco della popolazione mondiale possiede tanto reddito quanto il 57% più povero, e il reddito del 5% più ricco della popolazione è 114 volte superiore a quello del 5% più povero.

Nel 2000, in occasione del Millennium Summit, le Nazioni Unite avevano ospitato nella Sede di NewYork i leader di tutto il mondo, tra i quali le maggiori istituzioni per lo sviluppo, e avevano fissato una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2015. I risultati in questi ultimi undici anni, però, sono stati molto scarsi ed insufficienti, come evidenziato, pochi mesi fa, dal Direttore Generale della Fao, Jacques Diouf, secondo il quale: “I progressi per dimezzare il numero delle persone che soffrono la fame nei paesi in via di sviluppo entro il 2015 sono ancora molto lenti e la comunità internazionale è lontana dal raggiungere gli obiettivi e gli impegni stabiliti dal MDG e dal Vertice Mondiale”. Una bocciatura (quasi) senza appello,


prima pagina

29 febbraio 2012 • pagina 3

Subito un nuovo progetto mondiale Non ci sono più giustificazioni ormai. Ci vuole una rivoluzione radicale e globale di mentalità di Osvaldo Baldacci l mondo non è a misura di bambini. Dovrebbe esserlo, se vuole avere un futuro. Ma non lo è. Vale ormai anche per il mondo occidentale sviluppato, vale anche per l’Italia, ma vale ancor di più per i Paesi ancora in via di sviluppo. Si contano a milioni i bambini che muoiono per problemi curabili in modo semplice e non costoso. Sono centinaia di milioni i bambini poveri ed emarginati, e ce ne sono anche in Italia. Il mondo sta cambiando, ma questo orrore non cambia. E non ci sono più giustificazioni.

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Ci vuole una rivoluzione radicale di mentalità. Cerchiamo di vedere questa problematica con occhi nuovi, occhi aperti e collegati al cuore, ma allo stesso tempo non velati da quella stucchevole emotività che dura un attimo e non risolve alcun problema. C’è una questione economica mondiale, una questione sociale, una questione antropologica che riguardano l’assetto presente e futuro del mondo e che servono a illuminare con serietà il problema dei bambini. Partiamo da un punto di vista cinico, raramente espresso in modo esplicito ma in realtà assai presente nelle cultura occidentale: se dei bambini muoiono o comunque vivono male non è poi un problema così grave, alla fine è una questione di selezione, di evoluzione, una questione legata alla distribuzione delle risorse che non sono abbastanza e quindi è meglio che qualcuno venga eliminato dal gioco. A rafforzare questa visione si aggiungono due elementi competitivi: primo, siamo troppi sulla terra, e troppi specialmente nei paesi meno sviluppati,

quindi ogni catena generativa che si interrompe è un passo positivo; secondo, con la globalizzazione il mondo si è allargato, la competizione si è allargata, i poveri vogliono essere meno poveri e quindi noi ricchi diventiamo meno ricchi, quindi se ci sono meno poveri da accontentare è meglio per noi. Conseguenza: soddisfiamo l’emotività occidentale con qualche briciola di assistenzialismo a distanza, ma non affrontiamo i problemi alla radice. Ragionamento orribile a sentirsi, ma in realtà molto diffuso, e paradossalmente spesso alla base di un certo buonismo che fingendo di chiedere tutto non cambia niente. Ma questo ragionamento così cinico che sembra così razionale in realtà regge? Io credo di no. Primo pun-

re la vita senza fine e l’eterna giovinezza, e non pensa a chi verrà dopo di noi, perché in fondo non vuole che ci sia un dopo. E questo edonismo estremo ha estreme conseguenze. Ma non funziona così, è solo una perversa illusione. Un mondo che non sia incentrato sul futuro è un mondo che a un certo punto si inceppa. Non è buonismo (anche se certo non ci vergogniamo di accogliere una dimensione etica), è un meccanismo inevitabile. Bisogna pensare alle prossime generazioni, e non attraverso un meccanismo di selezione di questo tipo così spietato. Anche perché questa stessa selezione a quel punto si rivolterà contro di noi.

Se è vero che il welfare occidentale va cambiato perché non regge più, è altrettanto vero che anche agli altri va garantita una piattaforma di diritti. La speranza del futuro, garantita da diritti e sviluppo, è la migliore garanzia che si ragioni in termini pacifici e che i conflitti vengano mantenuti a un livello ragionevole. Altrimenti i conflitti esplodono, si spostano su piani violenti, e chi non ha niente da perdere per sé e per il futuro è molto pericoloso. Vogliamo che i bambini di oggi siano gli utili protagonisti del mondo che verrà oppure che siano delle belve affamate tra i quali solo i più duri sono sopravvissuti senza alcuna legge se non quella del più forte?

Continuiamo da anni a soddisfare certa emotività occidentale con qualche briciola di assistenzialismo a distanza, ma non affrontiamo i problemi alla radice

alla quale proverà, in qualche maniera, a porre rimedio proprio il progetto dell’Unicef per il 2012. Globalmente, infatti, si stima che l’Unicef dovrà prestare assistenza a 97 milioni di persone, sulla scia di quanto già accaduto l’anno scorso. Nel solo 2011, nelle aree di crisi, l’Unicef ha sostenuto campagne di vaccinazione, distribuito vermifughi e integratori di vitamina A ad oltre 36 milioni di bambini, ha curato più di 1,2 milioni di bambini affetti da malnutrizione acuta, portato aiuti alimentari ad oltre 19 milioni di donne e bambini e distribuito kit igienico-sanitari e acqua potabile ad altri 16 milioni di persone. Eppure, solo nel 2010 quasi 8 milioni di bambini sono morti prima di aver raggiunto i cinque anni di età, in gran parte a causa di polmonite, diarrea e complicazioni da parto. Secondo alcuni studi sono particolarmente a rischio i bambini che vivono in insediamenti non ufficiali.

to di partenza è che è ormai appurato che l’Occidente in primis, ma anche il pianeta intero soffrono di una crisi demografica, non di sovraffollamento. Ci sono gli strumenti per sfamare moltissime persone, e altri ce ne saranno in futuro, ma l’uomo resta ancora interessato più a fare danni che a risolverli. I bambini in questo senso rappresentano il futuro anche nell’ottica di essere coloro che reggeranno il mondo di domani, e che si troveranno a doversi prendere cura in tutti i sensi di noi.

Ma la nostra generazione è tutta concentrata su se stessa come forse non è mai accaduto nella storia, pensa al proprio benessere e al modo di raggiunge-

Ecco la ragione primaria della necessità di salvaguardare i minori che vivono in agglomerati non urbani.

Il rapporto cita poi l’ondata di disordini politici e di cambiamenti in Medio Oriente e Nord Africa che hanno fatto aumentare a dismisura i bisogni umanitari nella regione, specialmente in Paesi come lo Yemen, già affetto da una lunga crisi. In Bangladesh il tasso di mortalità dei bambini sotto i cinque anni

Le famiglie povere, infatti, non sono in grado di sostenere i costi per l’istruzione dei propri figli, scegliendo così di impiegarli nel lavoro. A Delhi, in India, per esempio, poco più del 54% dei bambini degli slum frequentava la scuola primaria nel 2004-2005, rispetto al 90% dei bambini della città. Una recente ricerca condotta a San Paolo, in Brasile, a Casablanca, in Marocco e a Lagos, in Nigeria, ha riscontrato che il 20% delle famiglie più povere spende più

africano. In Somalia e in tutto il Corno d’Africa, dal giugno 2011, siccità e carestia hanno colpito 13 milioni di persone, con decine di migliaia di decessi tra i bambini in Somalia e altri 750.000 esposti al rischio di morte per fame.

Per quanto riguarda i più piccoli, la polmonite e la diarrea sono tra le cause principali dei decessi. Le malattie, nei paesi sottosviluppati costituiscono, se non curate, un pericolo per tut-

Anche i disordini politici e i cambiamenti in Medio Oriente e nel Nord Africa hanno fatto aumentare a dismisura i bisogni umanitari nella regione, specialmente in Paesi come lo Yemen, già affetto da una lunga crisi negli slum è il 79% più alto di quelli delle altre aree urbane (dato 2009) e il 44% in più rispetto alle aree rurali. Anche l’istruzione nelle aree urbane periferiche e degradate rappresenta un enorme problema, secondo il rapporto dell’Unicef.

del 25% del reddito familiare per la scuola, testimonianza concreta del fatto che l’istruzione pubblica è praticamente inesistente. Anche le guerre, naturalmente, hanno contribuito ad aggravare alcune situazioni, specialmente nel continente

to il mondo, anche se c’è la buona notizia del calo dei contagi per l’HIV e per l’AIDS. A favorire la diffusione delle malattie e l’aumento della mortalità infantile è l’inaccessibilità dei servizi sanitari e la loro inadeguatezza. Nei distretti urbani più

poveri, un litro di acqua costa 50 volte di più che nei quartieri più ricchi. L’Unicef, nel suo rapporto, ha stimato che 1,2 milioni di bambini sotto i cinque anni muoiano solo per diarrea. In tutto il mondo, il 96 per cento della popolazione che vive nelle aree urbane ha accesso all’acqua potabile, contro il 78 per cento di coloro che vivono nelle aree rurali. Migliorando la copertura globale della vaccinazione (secondo i dati Unicef circa 2,5 milioni di decessi di bambini sotto i cinque anni vengono evitati ogni anno grazie ai vaccini) 130 paesi sono riusciti a somministrare le tre le dosi primarie del vaccino trivalente Dpt (contro difterite, pertosse e tetano) al 90 per cento dei bambini con meno di un anno. Ma nel 2010 più di 19 milioni di bambini non le hanno ricevute. È in questa direzione che guarda l’Unicef, è in questa direzione che l’Unicef chiede di guardare. Al mondo intero.


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l’approfondimento

Parlano don Andrea Giarratana, parroco in Sicilia, e Marco Rossi, responsabile della Comunità di Sant’Egidio di Napoli

Gioventù bruciata

Dai Quartieri Spagnoli di Napoli al Ballarò a Palermo: manca la cultura di base delle famiglie. E malgrado l’impegno della scuola, delle associazioni e delle parrocchie, il modello dominante resta quello della criminalità organizzata di Franco Insardà

ROMA. «Ballarò è diventato famoso per una trasmissione televisiva, ma è prima di tutto il cuore di Palermo. Dal terrazzo della mia parrocchia è sotto gli occhi di tutti il degrado nel quale si vive qui. Un degrado dei palazzi che corrisponde a quello delle famiglie. Purtroppo siamo abbandonati a noi stessi, pur avendo il palazzo della Regione a pochi metri». Chi parla così è don Andrea Giarratana, da tre anni parroco di San Nicolò di Bari, nel quartiere Alberghiera che comprende Ballarò.

sono 653 mila quelli che vivono in famiglie assolutamente povere. La realtà è più grave nel Mezzogiorno, dove la povertà relativa colpisce 1 milione e 266 mila minori, mentre la povertà assoluta tocca 359 mila minori. Questa situazione è peggiorata negli ultimi tre anni. Infatti tra le famiglie con tre o più figli minori si è passati da un’incidenza di povertà relativa del 25,8 per cento nel 1997 a una incidenza del 30,5 per cento nel 2010. L’Italia si dimostra così il Paese con il rischio di povertà minorile tra i più elevati d’Europa.

Lui è un salesiano, originario della provincia di Agrigento, che frequenta il quartiere sin dagli anni ’60, quando ha studiato proprio nell’istituto salesiano. Conosce, quindi, molto bene questo pezzo di Palermo, simile ad altri quartieri del centro storico, nei quali i più piccoli sono abbandonati a se stessi. Secondo l’Unicef, dato confermato dall’Istat, in Italia ancora un milione e 800mila bambini vive sotto la soglia di povertà e

Napoli come Palermo è tra le capitali italiane di questo triste primato, legato, secondo Marco Rossi, responsabile diocesano della Comunità di Sant’Egidio, a una mancanza grave «di cultura di base che registriamo quotidianamente nelle famiglie. I minori non vanno a scuola, perché i genitori, quando ci sono, ritengono che non sia importante anche perché, molti di loro sono analfabeti di ritorno. Dico questo al di là dei dati

asettici della dispersione e sottolineando il grande impegno di molti operatori scolastici. La scuola è la vera frontiera dello Stato nei quartieri difficili». Marco Rossi lancia anche un altro allarme: «In quest’ultimo periodo stiamo registrando anche il modificarsi della criminalità organizzata: non c’è più il camorrista boss paternalistico. Le bande sono più crudeli e su questi modelli si stanno sviluppando le gang minorili. La scuola, le associazioni, le parrocchie sono impegnate quoti-

Si tratta spesso di famiglie numerose che non hanno redditi certi

dianamente sul campo, ma si tratta di un lavoro durissimo. Tra l’altro verso i minori, rispetto a quando ho iniziato la mia esperienza negli anni ’70, c’è meno attenzione sociale, il lavoro nei quartieri era un dato caratterizzante della società civile. Molti dei bambini poveri sono nomadi e e con loro esistono delle esperienze molto belle di integrazione.

La Comunità di Sant’Egidio è presente in molti quartieri con le scuole della pace e questo proposito Rossi aggiunge: «Cerchiamo di aggregare ed educare i ragazzi, partendo dalle semplici regole di convivenza. Non esiste più lo scugnizzo che dorme per la strada, ma molti bambini non stanno mai a casa e, in alcuni casi, abbiamo faticato molte settimane a individuare la loro abitazione e la loro famiglia. Magari si presenta da noi una signora che prende in custodia più bambini del quartiere e li riporta la sera a casa, perché magari i genitori o sono in carcere o impegnati in

attività illecite. Per l’integrazione, a Napoli centro, ci aiuta la struttura della città con quartieri “a rischio” che confinano con altri abitati dalla borghesia. Penso ai Quartieri Spagnoli, a Monte di Dio, al Pallonetto di Santa Lucia. Cosa diversa è invece il lavoro da fare nelle periferie vere: Scampia, Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio. Iniziative sono state realizzate e la presenza di istituti scolastici molto attivi, di associazioni e di parrocchie rappresenta un baluardo per tentare di salvare molti minori».

Il presidente di Unicef Italia, Giacomo Guerrera, parlando al termine della presentazione, ieri a Roma, del Rapporto “La condizione dell’infanzia nel mondo 2012: Figli delle città”ha detto chiaramente: «Bisogna inserire questo problema, a tutti i costi e da subito, nell’agenda delle amministrazioni locali e del governo». Secondo Guerrera, quindi «non tutte le città italiane sono a misura di bambino e non tutte le amministrazioni


La celebre psicoterapeuta propone una vera e propria «rivoluzione culturale»

«Dobbiamo imparare a guardare il mondo con i loro occhi» «È una questione che io chiamo di ecologia mentale: la vera priorità è cominciare a capire quali sono i loro bisogni», dice Maria Rita Parsi di Gabriella Mecucci

ROMA. Maria Rita Parsi ha fatto della battaglia in favore dei bambini la cifra particolare del proprio impegno intellettuale e professionale. Ha messo insieme una serie di iniziative molto importanti nel recente passato. E tra poco ne arriveranno delle altre. La Fondazione da lei voluta, “Movimento bambino” consegnerà fra breve un premio e chi più e meglio si occupa dell’infanzia, e darà vita a bambinipedia, una sorta di wikipedia per i più piccoli. Dottoressa Parsi, l’Unicef sostiene che sono un miliardo e quattrocentomila i bambini che vivono in situazioni difficilissime negli slum, o nelle bidonville, o nelle banlieu fatiscienti, perchè il mondo esclude i bambini? Guardi, l’unica vera rivoluzione possibile oggi per il pianeta è quella di riuscire a far trionfare una visione bambinocentrica. Il che significa ribaltare l’attuale situazione. Senza di questa rischiamo di andare verso la catastrofe. Perché deve essere chiaro, se uno passa i primi anni della propria vita nelle più terribili periferie del mondo, il risultato è che da grande sarà o un essere passivo o un essere violento. Difendere i bambini, significa dunque anche difendere la qualità della vita dell’intero pianeta. Che dobbiamo fare allora? Prima di tutto occorre applicare un criterio generale che è quello di guardare il mondo con gli occhi dei bambini, tenendo conto dei loro bisogni. Già questo atteggiamento mutato, costituirebbe una forma importante di ecologia mentale. Una visione bambinocentrica, infatti, esclude ogni confusione, promiscuità e sfruttamento dei più piccoli, delle loro potenzialità, dei loro desideri, trasformandoli in consumo di beni materiali, a fini di lucro. Una visione bambinocentrica nega la guerra, la persecuzione, l’alienazione. E mette al centro la famiglia. A questa vanno dunque indirizzate in modo prioritario tutti gli sforzi e gli investimenti e consegnati tutti quegli strumenti atti a fare di questo nucleo primario della società una comunità caratterizzata da salute mentale, benessere psicofisico, autonomia economica. Per questo vanno messi in campo dalle istituzioni pubbliche ma anche dai privati progetti educativi che coinvolgano la scuola, la sanità, l’assistenza e le attività

culturali. Vorrei sottolineare che per far crescere bene un bambino, occorre naturalmente una certa garanzia di natura sociale ed economica, ma è almeno altrettanto indispensabile che abbia a che fare con insegnanti e operatorti della comunicazione all’altezza del compito. La corretta formazione di questi è uno dei grandi impegni dai quali la società non può sfuggire. E poi ci vuole l’utilizzo diverso del tempo, soprattutto quello lavorativo, dei genitori e degli educatori; ci vuole la

«Una visione bambinocentrica nega la guerra e l’alienazione. E mette al centro la famiglia» ridefinizione di spazi, di relazioni umane a partire da quelle famigliari; di forme di comunicazione della tecnologia avanzata... Già, c’è internet, come comportarsi? Su queste questioni noi come Fondazione abbiamo elaborato un apposito documento, la carta di Alba. La rete può avere un ruolo positivo, ma solo se correttamente utilizzata. È indispensabile rafforzare la

vigilanza, su base internazionale, che assicuri un monitoraggio delle comunicazioni digitali; così come non è più eludibile la necessità che le istituzioni si dotino di siti protetti e agevolmente fruibili dai bambini. Spesso quando si parla di bidonville o di slum, noi tendiamo a considerarli qualcosa di lontano da noi. Luoghi che caratterizzano altre società più povere della nostra. Là immaginiamo la disperazione dei bambini, mentre non scorgiamo quella vicina a noi... E facciamo molto male. Lo sa che in Italia ci sono un migliaio di terrificanti e miserabili periferie? Basta aprire bene gli occhi per vedere che anche da noi esiste povertà e marginalità che in vestono la vita e la formazione dell’infanzia. Il Bronx non è così lontano da noi: è dietro l’angolo. E lo ripeto: questo significa che poi, una volta diventati uomini e donne maturi, una parte molto numerosa di quei piccoli sarà caratterizzato o da un istinto di passività (non fare, non volere, non desiderare..) o da un istinto violento. C’è qualcuno che si sta muovendo oggi a favore dei bambini? Per fortuna sono tanti quelli che fanno qualcosa. Ci sono le grandi organizzazioni internazionali come l’Onu e l’Unicef. C’è la Chiesa cattolica: spesso sacerdoti e volontariato raggiungono luoghi e persone a noi sconosciuti e comunque per noi irraggiungibili. E poi, nel nostro piccolo, c’è la nostra Fondazione... La nostra società non solo fa vivere una grande quantità di bambini in condizioni mortificanti, ma spesso non li fa nascere. Li rifiuta all’origine... La nascita di pochi bambini, è un bruttissimo segno sempre e ovunque. Vuol dire che gli adulti hanno perso la speranza, la fiducia nel futuro. Che non vedono addirittura un futuro. È il sintomo di un malessere profondo della società.

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sono così attente all’infanzia». Il presidente ha ricordato il programma Unicef “Città amiche” «nel quale sono coinvolti nostri volontari, presenti in tutte le province e i comuni italiani. Non diamo aiuti concreti, ma facciamo un’importante azione di sensibilizzazione nei confronti delle amministrazioni comunali denunciando le situazioni più gravi e ottenendo molto spesso risultati». Per Vincenzo Spadafora, Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza ed ex presidente di Unicef Italia, la situazione dei bambini nelle città italiane non è «affatto felicemente scontata, ma persistono difficoltà e problemi che riguardano l’organizzazione delle città e delle metropoli; basti pensare che oggi la seconda causa di morte per i bambini sono gli incidenti stradali. Ciò significa che c’è ancora tanto da fare per arrivare a “città” a misura di bambino”. In Italia dunque le emergenze che riguardano i più piccoli sono davvero tante e come Garante dell’Infanzia mi sto occupando proprio di monitorare i principali temi che riguardano i minori: non solo quelli relativi al disagio e alla povertà o al diverso accesso ai servizi di base, quali salute e istruzione, ma anche temi di cui si parla poco come la presenza dei minori in carcere».

Proprio legate alle vicende carcerarie sono le storie che giungono dalle città a rischio del nostro Mezzogiorno. Don Andrea Giarratana è restio a raccontare le disgrazie dei suoi piccoli parrocchiani: «Le storie sono più o meno tutte simili. Famiglie numerose, senza redditi certi, poca attenzione ai piccoli che, nella maggioranza dei casi, non va a scuola. Cerchiamo di assicurare i beni di prima necessità e di intervenire in alcune situazioni davvero difficili. L’illegalità qui regna e il carcere è una di quelle esperienze che segnano la vita delle famiglie e dei minori. L’oratorio salesiano Santa Chiara è attivo dal 1974 per accogliere ed educare i ragazzi del quartiere. Io mi occupo di immigrati e anche per loro siamo diventati un punto di riferimento». Dalle parole di don Andrea traspare anche un po’di ottimismo: «Tra tante storie tristi, qualche settimana fa è venuta in parrocchia una ragazza del quartiere che doveva sposarsi e con grande piacere mi ha comunicato che si era laureata da poco in Giurisprudenza con 110 e lode. Un bella soddisfazione. Così come sono contento della comunità cattolica ghanese che è la più numerosa in parrocchia. Il problema vero è c’è una cultura diffusa in questi quartieri legata all’illegalità e alla miseria. Prenda lo Zen, una realtà che mette paura soltanto a guardarlo: tante case degradate, senza umanità nelle quali il valore della vita, soprattutto di quella dei bambini non vale nulla».


politica

pagina 6 • 29 febbraio 2012

Il decreto è in dirittura d’arrivo. Intanto Monti fa il punto sull’evasione: «Recuperati 12 miliardi, dobbiamo fare di più»

Un buon compromesso Cinquemila nuove farmacie, Authority dei Trasporti con funzioni di controllo: sulle liberalizzazioni il governo trova una giusta mediazione. Nuova tassa alle imprese per sostenere l’Antitrust di Gualtiero Lami

ROMA. A freddo si riconoscerà che il governo tecnico è il più politico di tutti. Con l’aggettivo “politico” declinato secondo la sua accezione migliore. Difficilmente all’epoca degli esecutivi di parte le rimodulazioni dei decreti avvenivano con esiti migliori e, soprattutto, senza favorire l’idea generale del guazzabuglio. Su farmacie, taxi, autonomia dell’Antitrust e in extremis sulla tesoreria degli enti locali, l’esecutivo trova il miglior compromesso possibile. A un passo dal suo sbarco nell’aula di Palazzo Madama e dopo un’altra giornata intensamente vissuta in commissione In-

dustria, il Cresci-Itaia assume dunque una forma prossima a quella definitiva: potranno essere aperte 5000 nuove farmacie, una ogni 3300 abitanti, onorevole via di mezzo fra quota 3000 fissata in prima battuta da Monti e i 3800 pretesi dal Pd; tariffe e numero di licenze per i taxi saranno di fatto nelle mani della nuova Authority per i Trasporti, che interverrà quando necessario anche a correggere le decisioni dei sindaci; tutte le aziende con più di 50 milioni di fatturato verseranno un contributo all’Antitrust dai 4000 euro in su, in modo che l’organismo non debba dipendere dalla ge-

Quanto alle farmacie, ce ne saranno una ogni 3300 abitanti. In pratica, ne nasceranno circa 5000 nuove: una cifra intermedia tra quella proposta all’inizio e le richieste della categoria

nerosità della maggioranza politica di turno. Fila liscio più o meno tutto. Tranne che su una questione: il conto sul quale depositare le risorse degli enti locali.

È la disputa sulla della cosiddetta tesoreria unica, cioè sul conto speciale dove andranno custoditi i soldi di Regioni, Province e Comuni. Al momento di andare in stampa ancora non è definita l’ulteriore riformulazione della norma da parte dell’esecutivo. Il relatore di maggioranza, la pidiellina Simona Vicari, a metà pomeriggio attenua l’ansia di Errani, Zaia, Cota e di altri leader locali: «Ci sarà un nuovo testo». Dal governo fanno sapere: «Solo piccole modifiche». Dovrebbe cioè restare in piedi il principio per cui i soldi restano materialmente a Roma e il singolo ente locale può prelevare di volta in volta le spese necessarie. Stratagemma utile a raffreddare l’emissione d titoli pubblici. Governatori e sindaci protestano ciascuno secondo il proprio stile: il veneto Zaia ricorda che lui è la formica e a Roma sono tutte cicale, la umbra Marini sostiene che con la tesoreria unica si torna trent’anni indietro, Cota fa ricorso come il compagno di partito, Ascoli si accoda, Venezia pure. Zaia è naturalmente

l’avanguardia del movimento: si vedrà oggi se il tesoriere istituzionale della Regione Veneto, Unicredit, obbedirà all’ordine di non spedire a Roma il 50 per cento della liquidità effettivamente disponibile. Plausibile che in extremis si sposti un po’ in avanti il termine ultimo per l’operazione. Sta di fatto che il presidente della Stato-Regioni Errani parla sì di «norma da rivedere» ma non preannuncia

rivolte generali simili a certe del passato. «Siamo da sempre contrari a questa norma». è la versione ufficiale del governatore emiliano, «e credo che le singole amministrazioni andranno avanti con i ricorsi. Farne uno solo con tutti gli enti sotto un’unica bandiera? Non è tecnicamente necessario».Tra i più misurati, come sempre, Calderoli: «Fermiamo il ratto di Monti».

Nel testo c’è anche una ristrutturazione della Protezione civile: da ora in poi non si occuperà più di organizzare i “grandi eventi” ma solo delle vere emergenze su tutto il territorio nazionale Si tira a lungo anche per le farmacie, in realtà, ma qui la materia del contendere è decisamente minore: resta in bilico fino all’ultimo il fondo di garanzia per gli esercizi di montagna, aspetto tra quelli che provocano un esasperante slittamento del calcio d’inizio in commissione Industria. Quando i lavori riprendono, si riparte dal punto fermo della soglia dei 3300 abitanti e dalla cancellazione delle quote riservate a collaboratori e parafarmacie nel concorso per i 5000 nuovi esercizi. In com-


politica

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«Puntare tutto sulla mediazione è stato la chiave di volta della vicenda»

«Adesso serve una legge sulla concorrenza»

«Ogni anno il Parlamento dovrebbe aggiornare le regole che controllano il mercato», dice Giorgio La Malfa di Errico Novi

ROMA. «Scusate, ma la gran parte delle risorse messe a disposizione degli enti locali da dove viene?». Con l’interrogativo evidentemente retorico Giorgio La Malfa azzera le chiacchiere sulla tesoreria unica, cioè sul passaggio del decreto liberalizzazioni che impone di tenere almeno la metà del cash non nelle singole amministrazioni ma in un conto centrale gestito dallo Stato. A parte casi estremi come quello di Zaia, tutte le istituzioni periferiche sono a un significativo grado di agitazione. Ma appunto, come ricorda l’ex ministro agli Affari regionali, «è pur sempre dall’amministrazione centrale che proviene gran parte dei trasferimenti. Se davvero il signor Zaia continua a fare lo schifiltoso, credo che lo Stato potrebbe replicare così: a questo punto la smettiamo di trasferirvi risorse in varie tranches, ve le diamo solo una volta l’anno.Vi va bene?». Di sicuro su questa materia il governo pare intenzionato a negoziare assai meno che su altre. «Nessuno dice alle Regioni e ai Comuni che non possono spendere. Semplicemente, quando hanno da spendere prelevano le risorse, altrimenti depositate in un conto centrale. Credo che presidenti e sindaci dovrebbero riflettere sulla domanda di partenza: quei soldi che vorrebbero mantenere a tutti i costi sui loro conti bancari, da dove provengono, se non dallo Stato, almeno per la maggior parte?». In generale l’esecutivo ha mostrato apertura a rimodulare le misure del decreto. Il provvedimento implicava interventi su diversi settori. Nella valutazione mi pare sia prevalsa l’idea di introdurre elementi di apertura in tutti piuttosto che forzare la mano su alcuni. Il governo ha mostrato secondo me notevole saggezza politica. Eppure da più parti si leveranno ancora obiezioni del tipo: dovevate avere più coraggio. Prima di tutto, credo che si dovrebbe introdurre un metodo diverso. Questa mi pare sia un’apertura utile, ma andrebbe fatta una legge sulla concorrenza sulla base della relazione dell’Antitrust. Si dovrebbe regolare cioè la materia con la stessa cadenza con cui si interviene

penso i parafarmacisti ottengono quello che loro stessi definiscono «un riconoscimento della nostra professionalità», ovvero la possibiltà di vendere medicamenti veterinari e “preparati galenici”. Niente liberalizzazione totale dei farmaci di fascia C: «Su quello il punto è stato messo nel Salva-Italia», è il muro alzato dalla Vicari. Quando sulla questione è archiviato anche l’ultimo margine, Gasparri mette il sigillo: «Siamo vicini al traguardo».

È grazie al Terzo polo però che si fa strada la novità forse più interessante: arriva fino in fondo, infatti, l’emendamento Rutelli-Baio-Valditara sui farmaci monodose. «Servirebbe il sistema inglese, in realtà, cioè la prescrizione dose per dose», spiegano. Ma è già un passo avanti quello previsto nel decreto, con la prescrizione di produrre confezioni di taglio diversificato e anche con una sola pillola. È un cavallo di battaglia anche per un altro finiano, Baldassarri. Sui tassisti viene invece concesso un elemento di flessibilità per il ruolo dell’Authority, il cui parere non sarà obbligatorio.Vuol dire che si presupporrà se possibile l’oculatezza delle singole giunte

comunali, salvo intervenire in seguito. Da settembre 2013 Rete Snam sarà sganciata da Eni, ma sarà il decreto del presidente del Consiglio a stabilire successivamente la quota di partecipazione che la la casa madre potrà conservare. I tribunali per le imprese saranno in tutto 20, due dei quali in Lombardia. E tutte le aziende avranno un rating di legalità, questione sulla quale il Pdl, con l’ex sottosegretario Casellati, parla di importante passo avanti. Ai berlusconiani è da ascrivere anche il divieto di incroci nei vertici degli istituti di credito. Ma tra le novità maggiori c’è quella della Protezione civile: definitiva la precisazione che ne esclude l’impiego per i “grandi eventi”, allerta solo per le vere emergenze. Mente a Monti va riferito il primato di popolarità guadagnato proprio con le liberalizzazioni. Due punti di fiducia in più, dal 57 al 59, nonostante il governo nel suo insieme sia in calo, secondo Ipr Marketing per Repubblica. Monti si mostra esigente sulla lotta all’evasione: dopo aver riunito la task force e preso atto che nel 2011 sono saltati fuori altri 12 miliardi, avverte: «Si può fare di più». E si riparte con un piano triennale.

sui conti pubblici. Credo che con un approccio graduale un governo possa fare molto di più. Intanto va bene così. Anche perché ci sono altri due capitoli aperti, dopo il rigore e le liberalizzazioni: quello del mercato del lavoro, sul quale seppure con altrettanta gradualità mi pare che si facciano passi avanti, e quello della crescita che è il più importante. Le liberalizzazioni vanno nella direzione giusta ma producono effetti sul medio termine. Serve qualche intervento che favorisca la crescita in modo immediato: altrimenti si realizza la previsione fatta anche dal governo, ovvero quella per cui il prossimo biennio sarà un bagno di sangue. In che modo ci si mette in salvo? Premesso che una stima di una diminuzione di un punto e mezzo del Pil è tecnicamente un bagno di sangue, credo che si debba intervenire con l’unica leva disponibile in questo caso: quella fiscale. Non c’è altra via. La crescita si ottiene solo con il sostegno alla domanda, a sua volta praticabile in tempi brevi solo con il ricorso alla leva fiscale. Tutte le autorità europee riconoscono all’Italia di aver fattio progressi notevolissimi rispetto alla tenuta dei conti, di averli messi strutturalmente in ordine. Siamo nella situazione opposta a quella verificatasi spesso negli anni addietro, quando si tentava estemporaneamente di rimediare a situazioni particolarmente critiche. L’Europa dovrebbe autorizzarci a utilizzare la leva fiscale in modo più ampio, considerato l’equilibrio strutturale dei conti pubblici. Torniamo al decreto: c’è uno spiraglio sui servizi pubblici locali, con l’obbligo di gara sopra i 200mila euro: basta per adesso? Il disboscamento del potere pubblico locale deve essere fatto in modo radicale. Esistono centinaia di società partecipate da Regioni e Comuni. Non pretendo che il governo lo faccia immediatamente perché è impensabile per qualsiasi governo affrontare tutti i nodi insieme. Ma quando ci si arriverà, si dovrà disboscare davvero.

Al ribelle Zaia vorrei dire: ma le risorse che vuoi tenere sui tuoi conti non vengono quasi tutte da Roma?


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neutrini non sono riusciti a superare la luce ma c’è qualcosa che ha dimostrato di essere più veloce della luce di Einstein e dei neutrini di Ereditato: le notizie. A settembre quella dei neutrini più veloci della luce fece in un batter d’occhio il giro del mondo, lo fece così velocemente che è tornata indietro. La notizia dell’andata e del ritorno del record dei neutrini non finisce di produrre tutta una serie di notizie secondarie o a latere: commenti, approfondimenti, interviste. Anche noi ci esercitiamo sull’esperimento dei laboratori del Cern - dove sembra che ci fossero un cavo staccato e un Gps mal funzionante - ma per provare a fare un elogio della lentezza. «La lentezza si riconosce dalla volontà di non accelerare i tempi - dice Pierre Sansot nel suo Sul buon uso della lentezza (Pratiche Editrice) - di non lasciarsi mettere fretta, ma anche di aumentare la nostra capacità di accogliere il mondo e di non dimenticarci di noi stessi strada facendo». Infatti, questo “pezzo” arriva regolarmente in ritardo, ce la siamo presa comoda, tanto nessuno ci corre dietro.

I

La lentezza, come sapeva la Tartaruga che diede filo da torcere perfino ad Achille piè veloce, in certi casi può essere una risorsa. La velocità dei neutrini è uno di questi casi. Antonio Ereditato in un’intervista fatta da Angelo Lomonaco per il Corriere del Mezzogiorno - Ereditato è napoletano - ha già annunciato un nuovo esperimento per il mese di maggio. Si ha fretta di concludere, si vuole essere rapidi, si vuole essere come Superman che, lui sì, era più veloce della luce. Invece, anche per un esperimento in cui è in ballo la velocità della luce di Einstein un po’ di calma e giudizio non guasterebbero. Intanto, una riflessione sul modo di procedere della scienza o, meglio, degli scienziati va fatta. Ad esempio, Paolo Strolin, che di Ereditato è il maestro, ha fatto notare che né lui né altri scienziati firmarono l’articolo in cui si annunciava il sorpasso dei neutrini ai danni della luce. Perché? Forse, è una questione di cautela, di giudizio, appunto, di meditata lentezza: «Con me non lo firmarono altri dice Strolin al Corriere del Mezzogiorno che sul tema ha organizzato una tavola rotonda a cui hanno preso parte il matematico Guido Trombetti e il fisico teorico Roberto Pettorino - tra cui il professor Niwa, anche lui da considerare un padre fondatore di Opera, che non è nato per questo. Il gruppo di Napoli si è sempre dedicato allo scopo principale dell’esperimento, non alla parte che ha suscitato tanto clamore. Anche la nuova generazione, e nel progetto sono coinvolti tanti giovani, è molto cauta. Come me. Al contrario di parte della generazione intermedia. Ecco, forse è una questione generazionale: a me alle elementari hanno insegnato il criterio della prova del 9. Avrei voluto che fosse adottato anche all’interno dell’esperimento. Comunque non vorrei che da questa vicenda esca un’immagine negativa della scienza. Anzi, voglio dare un messaggio positivo: la scienza riprende sempre il suo posto, in ogni caso». E qual è questo posto? La storia umana o la storia della scienza che è fatta dagli scienziati che hanno interessi, aspettative, conoscenze qualificate ma limitate come tutti gli uomini di questo mondo. Insomma, la scienza non è al di fuori o al

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Dai neutrini alle notizie, elogio della lentezza Prima il pasticcio al Cern sulla velocità delle particelle, dopo quello dei commenti (e delle smentite) sulla stampa internazionale. Ecco perché, oggi soprattutto, ci serve la calma. Come dicevano gli antichi di Giancristiano Desiderio

voglia di conoscere, ambizione e vanità. Cioè gli stessi elementi che possono portare a sbagliare nei tempi della comunicazione. Ma non è il dottor Jekyll che diventa mister Hyde. C’è di mezzo anche Balzac, la Comedie humaine. Francamente io non so se mi sarei comportato diversamente da Ereditato».

di sopra della storia ma è essa stessa storica e la comunità scientifica funziona proprio come funzionano le cose umane, troppo umane. Paolo Strolin lo dice con chiarezza quando dice «forse è una questione generazionale». Dunque, la prima lezione da ricavare dal caso dei neutrini di Ereditato è la natura storica della scienza. Può sembrare strano, ma la natura storica della scienza sfugge al grande circo e circolo dei mass-media che si appropriano delle notizie scientifiche e le divulgano come se fossero il volto di Dio o la verità dell’universo fatta persona. C’è poi

un altro aspetto: l’esperimento. Le cose dette dal matematico Trombetti - ora le riporterò, un attimo, non abbiate fretta, sappiate che, come diceva Totò, gatta frettolosibus fecit gattini querces - vanno prese in considerazione sul versante della falsificazione. Un attimo, però. Perché Trombetti dice ancora un’altra cosa che è utile per capire che la scienza è la vita degli scienziati. Dice: «Umanizziamo il caso Ereditato. Che peraltro stimo molto. Tre sono gli elementi che spingono uno scienziato a trascorrere la vita in luoghi come i laboratori del Cern o del Gran Sasso:

Addirittura la vanità. Grande Trombetti, gli va dato atto: la vanità è parte del processo di conoscenza e lo è ancor di più per quel tipo di conoscenza che è la scienza. E ora possiamo passare all’esperimento. Perché non c’è scienza senza esperimento. La scienza è sperimentale o non è. L’impianto galileiano è tutt’ora alla base della scienza. Anche quando diventa pura teoria, la scienza conserva qualcosa dell’impurità dell’esperimento di Galileo che aveva alla base la bottega rinascimentale ossia un luogo in cui l’arte e la scienza si “facevano”. L’esperimento è techné. È techné liberata dalla metafisica, dalla vol-


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neutrini di Ereditato? Sembra eccessivo. Gli esperimenti che mischiano tecnica, elettronica, scienza, «connessioni, cavi, cavetti, persone...» sembrano, però, appartenere a quella “scienza straordinaria”del geniale Kuhn e la sua “sgangherataggine” può dare un nuovo volto al lavoro scientifico o può contribuire a cambiare la “fede” in questa o quella “teoria scientifica”. I neutrini, queste particelle così elusive, non sono riuscite a fare le scarpe ad Einstein. Il record non è stato battuto. All’annuncio dell’errore e delle “anomalie” si è parlato di una “rivincita di Einstein”. Può darsi. Era il grande Albert che diceva: «Nel campo di coloro che cercano la ve-

Alla fine, sembra proprio che ci sia stata la “rivincita di Einstein”. Questo, come altre cose, è stato forse il risultato dell’aver avuto troppa fretta

ta celeste, e dal moto circolare dei cieli. Il cielo metafisico di Aristotele è perfezione. Ma l’esperimento è imperfezione. Ecco perché gli esperimenti vanno ripetuti: perché danno conferme e smentite. E vanno ripetuti anche quando non funzionano cioè non danno i risultati ipotizzati e sperati. Non si può buttare tutto a mare perché l’esperimento non è riuscito. Il lavoro usato è buono e va riusato. Inoltre, con Popper il fine dell’esperimento è non più la conferma ma la smentita. Cioè la falsificazione che, a conti fatti, è una verifica più approfondita o consapevole che più della verità occorra ricercare l’errore. Tuttavia, l’esperimento non è più quello di una volta. Sentiamo ancora Trombetti: «Il concetto di falsificazione di Popper è messo in discussione dalla complessità di simili esperimenti. Che significa esperimento riproducibile o ripetibile quando entrano in gioco migliaia di elaboratori, connessioni, cavi, cavetti, persone... Come lo ripeti? Con quali soldi? Mica è la vasca dei pescio-

lini rossi di Fermi. Insomma, c’è da lavorare per i filosofi della scienza». I filosofi della scienza di lavoro ne hanno fatto in abbondanza. Il caso dei neutrini veloci, velocissimi ma non così da superare Einstein potrebbe rientrare in quelle “anomalie”di cui parlava proprio Kuhn? Chissà. La crisi di un paradigma si verifica quando le anomalie mettono in forse le teorie dalle quali si era partiti e se gli scienziati cominciano a dubitare delle loro teorie significa che è arrivato il momento di metterle da parte. Può accadere una cosa del genere con le anomalie che si sono verificate con i

rità non esiste alcuna autorità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dei». A pensarci bene, l’errore di Ereditato è stato proprio la velocità. Si è fatto prendere dalla fretta, dalla voglia di dire: «Guardate, guardate che cosa abbiamo scoperto: nientemeno che una cosa più veloce della luce di Einstein». Il suo desiderio di essere il primo della classe è stato ancora più veloce degli stessi neutrini e proprio quando pensava di avercela fatta, oplà, ecco saltare fuori l’errore o l’anomalia, insomma, qualcosa di non calcolato, non previsto, non atteso.

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Così è subentrato il ritardo. L’esperimento ha subito una battuta d’arresto e il progresso scientifico, che procede per accumulo, ha rallentato. Volevano anticipare i tempi e invece ora tocca posticipare. Ecco perché non è fuori di luogo un elogio della lentezza o, come dice Sansot, del buon uso della lentezza anche per uno scienziato che ci vuole comunicare la scoperta della particella elementare più veloce. Che cosa strana: anche la velocità è figlia della lentezza. Non voglio esagerare. Se volessi esagerare citerei quella frase di Pascal che dice: «Tutti i mali degli uomini derivano da una sola ragione: non sono capaci di starsene in una camera a riposare». Non si tratta di essere lenti ma di far buon uso della lentezza. I lenti al momento giusto sanno essere veloci. Ma perché essere veloci anche quando non ce n’è bisogno? I lenti sanno agire con rapidità al momento opportuno. Ma perché essere rapidi anche quando è inopportuno?

La scelta del tempo giusto - anche quando annunciare al mondo intero una nuova e grande scoperta scientifica - certe volte è quasi tutto. Anzi, senza “certe volte” e senza “quasi”: è tutto. I Greci avevano una parola per dirlo: kairos. Protagora, che per sentito dire si definisce sofista ma se andiamo a verificare fu un gran filosofo, parlava di «potenza del momento opportuno». Questa qualità di saper scegliere i tempi giusti e agire - il più delle volte è colpire - al momento opportuno è universale: nel senso che riguarda ogni arte e ogni scienza e tutti gli uomini e tutte le donne. Riguarda la politica e lo sport, il teatro e la musica, l’amore e l’odio. La scelta del tempo è semplicemente “vitale”. È persino motivo di vita o di morte. È la vita stessa dei mortali che vivendo e abitando il tempo devono imparare a saper misurarlo e a sapersi misurare. Era un altro filosofo, Hobbes, che paragonava nei suoi Elementi di legge naturale e politica la vita umana ad una corsa e diceva che allo sforzarsi corrisponde l’appetito, al mancar d’energie corrisponde la sensualità, al guardare quelli che stanno dietro corrisponde la gloria, al guardare quelli che stanno davanti corrisponde l’umiltà e via così: «All’essere superato continuamente corrisponde l’infelicità, al superare continuamente quelli davanti corrisponde la felicità». A ognuno di noi tocca essere infelici e felici per destino e infelici e felici per aver imparato il giusto passo della corsa.


società

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La polizia interviene in Piemonte per rimuovere il blocco dell’A32

Dopo il dramma, nuova battaglia dei No Tav È ancora in coma il militante folgorato. Scoppia la rabbia dei manifestanti che bloccano Torino, Milano e Roma. Passera: «I lavori devono andare avanti» di Marco Palombi

ROMA. È stato una sorta di gioco a guardie e ladri durato per tutta la notte di lunedì e la giornata di ieri: i circa 500 manifestanti no-Tav occupavano strade e autostrade, la polizia cercava di liberarle. Il caso plastico, per dire, è avvenuto sulla Torino-Bardonecchia all’altezza di Bussoleno: quando le forze dell’ordine sono riuscite – stringendo d’assedio gli occupanti da valle e da monte – a liberarla erano 24 ore che la A32 era chiusa al traffico. Non è stata una danza gentile: i poliziotti in tenuta anti-sommossa hanno usato gli idranti per spazzare la strada dagli esseri umani e spegnere il falò acce-

avvertiva gli automobilisti di tenersi lontani dalla Val di Susa (già lo fanno da soli, peraltro, essendo quell’autostrada una delle più sotto-utilizzate dell’intera penisola, ma i Tir stanno invece intasando le statali, largamente bloccate anche loro). Se la A 32 soffre, però, il cantiere da cui si inizierà a bucare la montagna per quel che resta del progetto dell’Alta velocità ferroviaria viaggia a piena velocità: gli espropri per l’ampliamento sono continuati nella giornata di ieri e le protezioni ai sette ettari necessari per proseguire i lavori sono stati già protetti da reti e cemento. I legali del

I legali del movimento, in ogni caso, hanno già annunciato che presenteranno ricorso per “occupazione abusiva” delle terre da parte della società Ltf che deve realizzare il tunnel so dai valsusini spinti a quel punto sulla rampa d’accesso (e filmati uno per uno per le future denunce) da dove qualcuno non rinunciava a tirare sassi e bastoni contro coloro che venivano chiamati “celerini” (mancandoli regolarmente, peraltro).

Nella notte era stata riaperta pure l’autostrada a Oulx, dove il blocco dei No Tav era stato piazzato all’altezza di Salbertrand. La tregua stradale è durata nemmeno tre ore: nel pomeriggio la gente era già in mezzo alla strada a Bussoleno e Alberto Perino, uno dei leader della protesta,

movimento, in ogni caso, hanno già annunciato che presenteranno ricorso per “occupazione abusiva” delle terre da parte della società Ltf che deve realizzare il tunnel. La questione Tav, peraltro, non si fa sentire solo in Val di Susa: manifestazioni e presìdi sono continuati in molte città italiane, soprattutto come reazione all’incidente che lunedì è quasi costato la vita a Luca Abbà. Le condizioni del contadino-militante – rimasto folgorato mentre si trovava su un traliccio per protestare contro gli espropri delle terre – sono gravi, ma stazionarie, il che è conside-

rata una sorta di buona notizia dai medici, secondo cui servirà però qualche giorno per valutare i danni effettivi causati ad Abbà dalla scarica elettrica (per il momento è tenuto in coma farmacologico).

Quanto successo sul traliccio vicino al cantiere continua comunque ad agitare i sonni delle parti in causa. Dopo che lunedì i servizi segreti hanno lanciato una specie di allarme terrorismo sui movimenti come quello no-Tav (e frasi tipo «se l’è cercata» o «cretinetti» scritte sui quotidiani del centrodestra pecoreccio), ieri è stato il giorno dei commenti a piovere. Nell’area dell’ex maggioranza quello più allarmistico è stato appannaggio dell’ex sottosegretario Alfredo Mantovano: «La tattica è sintetizzata nel mordi e fuggi: in questa tattica la ricerca del mostro, che viene teorizzata nei siti dell’eversione, del mostro sia come il nemico da far fuori che come il martire da esibire e adoperare nelle manifestazioni a venire, è assolutamente funzionale». Insomma gli antagonisti vogliono il morto per radicalizzare lo scontro. Si continua a sottovalutare il fatto che il no all’alta velocità è patrimonio diffuso per gli abitanti della Val di Susa (Abbà, non a caso, abita e lavora lì), per i loro sindaci e persino per chi in quella zona fa impresa (il che non nega la presenza sporadica per i “grandi eventi” anche di centri sociali e quella zona indefinibile che l’intelligence

alta tensione percorre l’Italia. Il movimento No Tav vuole elettrizzare tutto il Paese e magari appenderlo ai fili della corrente elettrica. Luca Abbà è diventata un simbolo della loro lotta, com’era inevitabile che accadesse. Ma né noi né il resto del Paese possiamo restare incantati dalle parole d’ordine dei “protestanti” e dalla creazione dei loro miti pretestuosi. Il primo è proprio il sacrificio del contadino Abbà. Gli abbiamo reso omaggio, come è giusto che sia quando un uomo difende le proprie idee fino a fare fiamma di se stesso. Però, è proprio il sacrificio di Abbà a smontare le proteste dei suoi “fedeli” e seguaci: nessuno lo ha attaccato, nessuno gli ha usato violenza, nessuno gli ha fatto del male. Luca Abbà ha scelto liberamente di appendersi ai fili dell’alta tensione per testimoniare il suo pensiero. I fatti sono questi. Chi protesta e li cambia per protestare è in malafede. L’Italia non può essere lasciata appesa ai fili dell’alta tensione.

L’

L ’a u t o s t ra d a bl o c ca ta , i treni in ritardo, gli scontri cercati con la polizia, i presidi in altre città come Milano, Firenze, Roma, Palermo ad opera di comitati studenteschi e centri sociali nel tentativo di bloccare i lavori del cantiere per il corridoio ferroviario per l’alta velocità è semplicemente un atto di inciviltà e antidemocrazia. La scritta ap-

parsa sull’autostrada contro Caselli recita: «Caselli ti ruberemo la salma». Parole e scritte che si commentano da sole e qualificano il movimento No Tav e le intemperanze che lo attraversano. Ieri, subito dopo la caduta volontaria di Luca Abbà dal traliccio, si è detto che la polizia altro non cercava che il morto. In realtà, il comportamento della polizia e di tutti gli agenti è da encomio. Sono sottoposti a provocazioni continue. Le cronache riportano racconti come questo: «Alcuni manifestanti si sono avvicinati ai carabinieri schierati dietro ad un guard rail e hanno iniziato a provocarli chiamandoli “pecorelle nel recinto”, dicendo loro di prepararsi “perché starete qui vent’anni”e arrivando a veri e propri insulti (“Noi ci divertiamo un sacco a guardare voi stronzi”). Ma i militari sono rimasti immobili e la situazione è rimasta sotto controllo». La lotta che sta andando in scena nei dintorni di Torino è giocata sui nervi: si punta a logorare le forze di polizia, si vuole che qualche poliziotto perda la pazienza, insomma si vuole che qualcuno reagisca e si inneschi uno scontro in cui i provocatori, che già sono violenti, siano presentati al mondo intero come pacifisti e vittime della violenza di Stato. Sono questi i fili dell’alta tensione a cui si cerca di appendere come un lenzuolo fradicio l’Italia al cospetto dell’Europa. Allora, si sappia.


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chiama “anarco-insurrezionalismo”). Fortunatamente pare che al Viminale non ci sia un ministro intenzionato a soffiare sulla protesta per strappare un mezzo punto di fiducia nei sondaggi d’opinione: «L’incidente capitato a Luca Abbà è un fatto molto triste e grave, perché tocca una persona giovane», ha detto ieri Annamaria Cancellieri, titolare dell’Interno, ma «spero che questo non esasperi ancor di più gli animi: credo davvero che ci voglia una forte riflessione e molto dialogo. Bisogna tenere conto anche

invocati dall’ex prefetto sono però esattamente tutto quello che manca nella storia della Tav (e dei no-Tav).

Il titolare delle Infrastrutture, ad esempio, ieri ha pensato di potersi tenere lontano dalla realtà laddove è urticante e buttare lì un’asettica frase da “tecnico” che asettica comunque non è: «Il lavoro è in corso e deve continuare nel modo migliore come previsto», ha scandito Corrado Passera. In realtà proprio qui c’è il vero problema del progetto Tav: risalente agli anni 80, lanciato nel 1992, cambiato

«L’incidente di lunedì è un fatto molto triste e grave perché tocca una persona giovane», ha detto il ministro dell’Interno Cancellieri. «Ora servono una forte riflessione e molto dialogo» delle scelte fatte in assoluta coscienza e attenzione. Occorre riflettere sulla dinamica dell’accaduto e anche su quelli che sono gli interessi della nazione, occorre da parte di tutti grande sensibilità ed equilibrio». Il dialogo, la «serenità ed equilibrio» e addirittura «un’attenta riflessione sulla dinamica dei fatti e sugli interessi della nazione»

Il gesto estremo di Luca Abbà va rispettato da tutti: anche da chi dice di stare dalla sua parte

L’Italia non vada in coma Il sacrificio di un militante non può fermare il Paese di Giancristiano Desiderio Lo Stato di fronte ai soprusi non può arretrare. Anzi, sia detto con maggior chiarezza: il governo non può fare marcia indietro davanti ai soprusi e a maggior ragione non può fare dietrofront davanti ai soprusi organizzati. Il governo ha il dovere di portare avanti gli accordi internazionali ed europei la cui realizzazione è già in largo ritardo.

zione che ritiene strategiche per la sua economia e la crescita del benessere nazionale. Il movimento No Tav può opporsi e criticare. Dopodiché, se vuole cambiare la strategia delle vie di comunicazione in Italia non può fare altro che organizzarsi democraticamente e conseguire il consenso per governare o influenzare il governo. Altra strada non c’è.

Il governo ha l’elementare dovere di far rispettare la legge. I manifestanti della No Tav, che chiamano“sbirri”i poliziotti, possono criticare la legge ma non possono violarla. Non possono neanche tirare in ballo alcuna disobbedienza civile perché il governo italiano, d’intesa con l’Unione europea, altro non sta realizzando che un tunnel ferroviario. In gioco non ci sono corpi, vite, espressioni, idee, libertà. In gioco ci sono soltanto binari ferroviari, treni, carrozze, vie di comunicazione. Il governo italiano, nel rispetto di accordi con l’Europa, ha tutto il diritto di realizzare delle vie di comunica-

Ecco perché quanto sta accadendo è inaccettabile: si sta usando la violenza - perché bloccare strade, autostrade, cantieri, treni è già violenza contro le regole democratiche. Uno degli slogan sbagliati dei manifestanti è “le leggi ingiuste non si rispettano”. Uno slogan sbagliato perché le leggi ingiuste si cambiano. Ribadiamo: si sta parlando di treni, non di vita. La vita democratica è tale perché una minoranza organizzata ha la possibilità concreta di diventare maggioranza e cambiare, nel rispetto dei diritti, le leggi. Le minoranze organizzate hanno anche la possibilità di influire

sulle stesse forze politiche con rappresentanza parlamentare. Ciò che le minoranze più o meno organizzate - come, del resto, anche le maggioranze non possono fare è forzare la democrazia con atti di violenza e prove di forza. Queste sono le regole base della vita democratica ma i giovani del movimento No Tav o non le apprezzano o non le conoscono. Nei loro discorsi si mischia di tutto: economia, morale, filosofia, visioni del mondo, pauperismo, insomma, di tutto un po’. Si fa un gran guazzabuglio e lo si vuole far passare per un distillato di saggezza e sapienza, oltre che per una grande lezione di libertà e umanità. Le loro idee sono poche - girano peraltro un po’ tutte contro il capitalismo, il libero mercato, la tecnica, la scienza e contro la patria occidentale che li ha portati all’ingrasso - e come vuole la regola anche confuse di tutto punto. Da qualche parte abbiamo sbagliato. A scuola, all’università, nelle redazioni, nei partiti. Ma ora la ferrovia.

più volte nel corso dei due decenni successivi e mai spiegato chiaramente al Paese. L’Alta velocità ferroviaria è oramai un altro di quei relitti ideologici su cui pensano di continuare ad esistere la destra e la sinistra: tanto per dire la ferrovia che nascerà in Val di Susa non sarà ad alta velocità, ma ad alta capacità, e riguarderà solo il trasporto merci che però, nel frattempo, proprio grazie al collo di bottiglia rappresentato dalla valle, si è già spostato verso la Svizzera, che i tunnel di base con l’Italia li ha già scavati ed aperti. Il megabuco nella montagna, peraltro, non sarà nemmeno com’era stato previsto da ultimo: il progetto su cui ci si orienta oggi è una sorta di “low cost”, nel senso che tra cofinanziamento francese ed europeo ci costerà “solo” 3,5 miliardi, ma la sua utilità in termini di benefici economici è dubbia (questo senza contare i danni ambientali che sono sempre ingenti in un’opera così complessa). In sostanza si apriranno solo i tunnel di base e, se procedere con gli altri, lo si deciderà sulla base dell’effettivo utilizzo della linea. Le opinioni, al contrario, sono sempre radicali: «L’opera è stata decisa dopo vent’anni di dibattito. Non è possibile che ogni volta che si raggiunge un’intesa poi si butti tutto all’aria – scandisce ad esempio Mario Valducci del Pdl - Cosa sarebbe successo se, 60 anni fa, ci si fosse opposti alla realizzazione dell’Autostrada del Sole? Ci sono opere che contribuiscono ad ammodernare il Paese e ad accorciare le distanze». Se sia davvero così, non si sa. Legambiente, per dire, è altrettanto tranchante nel sostenere il contrario: «Non serve un treno ad alta velocità per il trasporto merci. L’opera è stata progettata 20 anni fa, da allora i flussi commerciali sono mutati, quindi la Torino-Lione è del tutto inutile e la sua realizzazione non influisce sullo sviluppo del Paese». Come che sia, una cosa è certa: alla fine si farà.


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Attesa intanto per il Consiglio europeo, dove sarà approvato il “fiscal compact” chiesto dai tedeschi

La Merkel (non) tocca il Fondo Berlino non vuole spendere più: salta il vertice sul Salvastati di Enrico Singer saltato un altro vertice di Eurolandia. Quello che avrebbe dovuto decidere quanti miliardi destinare al fondo salva-Stati permanente (il Meccanismo di stabilità europeo) dal quale dipende il destino della Grecia, e non solo. Motivo: nonostante le pressioni del Fmi, degli Stati Uniti e degli altri Paesi della zona euro, la Germania ha fatto sapere che, per adesso, non è disposta a potenziare la dotazione dell’Esm. In altre parole, che non vuole spendere più di quanto è stato già destinato al vecchio fondo straordinario creato nel 2010: per evitare il fallimento, insomma, Atene non potrà contare su nuovi esborsi dei contribuenti tedeschi. Così la riunione, che era attesa per venerdì sera, in coda al Consiglio europeo dell’1 e 2 marzo, è stata annullata.

È

Angela Merkel ha indossato ancora una volta i panni di Frau nein ed era inutile perdere tempo esponendo i capi di Stato e di governo dei 17 Paesi della moneta comune a un fallimento annunciato. È una battuta d’arresto che si spiega con le profonde divisioni che l’operazione-salvataggio della Grecia, decisa appena una settimana fa, ha provocato nei partiti della maggioranza di governo tedesca, ma che rischia di appannare anche i risultati positivi che sono attesi giovedì e venerdì a Bruxelles:

Sul piatto a Bruxelles anche la nomina di Herman van Rompuy a presidente dell’Eurosummit, nuovo format istituzionale di Eurolandia prima di tutto la firma del fiscal compact, poi l’impegno a varare finalmente misure per la crescita e la nomina di Herman van Rompuy a presidente dell’Eurosummit, il nuovo format istituzionale che riunirà i leader di Eurolandia almeno due volte l’anno. Van Rompuy sarà anche confermato presidente stabile della Ue per un secondo e ultimo mandato di due anni e mezzo. Ma al vertice che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto inaugurare la fase del rilancio europeo, l’ostinazione di Berlino ha amputato un capitolo importante perché il mancato rafforzamento del fondo di stabilità rivela tutta la fragilità degli accordi che sono stati presi finora, che sono stati presentati con grande enfasi e che, puntualmente, sono rimessi in discussione. La Germania, naturalmente, non esclude di attenuare la sua posizione di chiusura, ma chiede tempo

(un altro vertice straordinario potrebbe essere convocato entro la fine di marzo) e, soprattutto, chiede nuove garanzie. Vuole vedere come andranno le cose in Grecia, dove il governo di Lucas Papademos sta preparando decine di circolari che regoleranno, fra l’altro, la chiusura dei primi enti statali inutili, la riduzione della spesa pubblica, la piena liberalizzazione delle professioni e la privatizzazione di alcune imprese a partecipazione statale. Il messaggio di Berlino è chiaro: soltanto se Atene dimostrerà di fare sul serio, il Bundestag potrà digerire qualche sacrificio. Quello che è successo prima, durante e dopo l’approvazione del piano che la Merkel aveva presentato in aula come «l’unica strada possibile, ancorché rischiosa», è esemplare. Martedì, il giorno del voto, Bild

era uscito con un titolo a tutta pagina che diceva «Stop!»: basta, con tanto di punto esclamativo, di dare i soldi dei tedeschi ai pleite-griechen, i greci bancarottieri. E Bild è il giornale popolare più letto in Germania, di proprietà della casa editrice Springer che, pure, è favorevole al governo Merkel. Un segnale premonitore: in Parlamento il piano è passato soltanto perché i deputati dell’opposizione socialdemocratica e verde hanno votato compatti a favore. Se il risultato fosse dipeso soltanto dalla Kanzlerinmerheit - la maggioranza della Cancelliera - sarebbe stata la catastrofe perché 13 parlamentari della Cdu-Csu e 4 liberali, alleati nella coalizione, hanno votato contro, un altro liberale si è astenuto e 6 deputati della maggioranza erano assenti. A conti fatti, senza il “sì”di socialdemocratici e verdi, il piano sarebbe stato bocciato per sette voti. Non solo. Addirittura un ministro - Hans-Peter Friedrich, titolare dell’Interno - aveva pubblicamente invitato Atene a uscire dall’euro, incassando un pesante rimprovero da Angela Merkel che si era, però, resa conto di quanto ampia fosse la fronda tra i suoi compagni di partito che pensano alle elezioni del prossimo anno più che al rispetto degli impegni presi a livello europeo e che cavalcano l’ostilità dei tedeschi a pagare per gli altri che è rivelata da tutti i sondaggi d’opinione.

Il fondo salva-Stati, per il momento, ha una dotazione di 400 miliardi di euro. Il progetto minimo è di portarlo a 500 miliardi, ma la speranza di molti leader europei, compreso Mario Monti, e del direttore del Fmi, Christine Lagar-

de, è di rafforzarlo sensibilmente. A 750 miliardi, magari a mille, perché «il modo migliore di non spendere i soldi è far vedere agli speculatori che in campo ci sono le risorse necessarie per fronteggiare qualsiasi emergenza», come ha detto proprio Lagarde. Ma molti tedeschi temono che, una volta stanziati, tutti quei miliardi di euro potrebbero anche essere spesi e, poiché le quote dei finanziamenti europei sono proporzionali al Pil del Paesi, sarebbe proprio la Germania a sborsare più di tutti gli altri. Da questo timore di fondo nascono le resistenze di Berlino, sostenute anche dalle ultime decisioni delle agenzie di rating che, nonostante il piano di salvataggio europeo, continuano a declassare la Grecia. Standard and Poor’s ha portato la sua valutazione a “SD”, vale a dire di deafult selettivo, ultimo livello prima del fallimento vero e proprio. La decisione dell’agenzia americana è arrivata a tre giorni dal lancio dell’operazione di swap (lo scambio dei titoli) accettata dai creditori privati dopo l’accordo di Bruxelles. Si tratta di un downgrade che porta per la prima volta un Paese dell’eurozona a un livello “SD” e che segue quello analogo già operato nei giorni scorsi da Fitch. Le decisioni delle due agenzie di rating hanno spinto la Banca centrale europea a sospendere i bond di Atene come collaterali per ottenere prestiti dalla Bce da parte delle banche europee. Scelte tecniche che, unite alle incertezze politiche, rendono instabili i mercati. Sull’altro piatto della bilancia ci sono i primi passi concreti per realizzare l’accordo della scorsa settimana sul prestito di 130 miliardi ad Atene. La Germania aveva preteso con-


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e di cronach

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trolli severi e la Commissione europea ha deciso di affidare, non certo per caso, a 160 ispettori della temuta Steuerfahndund - la polizia tributaria tedesca - il compito di aiutare i colleghi greci nella caccia agli evasori fiscali che, ogni anno, froderebbero circa 15 miliardi di euro di tasse. La lotta all’evasione è una delle misure promesse da Papademos che, ieri, ha cominciato ad affrontare in Parlamento anche il dibattito sulla riforma delle pensioni. Per il governo di Atene è cominciata una cruciale maratona di quattro giorni durante i quali si dovranno prendere importanti decisioni per rispettare le condizioni poste dal piano di aiuti europei. Papademos ha chiesto ai suoi ministri di onorare gli impegni (due si erano dimessi quindici giorni fa al momento di approvare le misure di austerità) e anche i principali partiti che sostengono il premier - i socialisti del Pasok e i conservatori di Nea Dimocratia - sono alle prese con le loro opposizioni interne. Antonis Samaras, il leader di Nea Dimocratia, ha annunciato che la riammissione nel partito dei 40 deputati espulsi perché avevano votato contro l’accordo dipenderà dal loro atteggiamento durante le prossime votazioni delle leggi per l’attuazione del nuovo programma economico. Tra i socialisti, invece, è già in pieno fermento la

«È il momento di essere concreti - ha detto ieri Manuel Barroso - di prendere le decisioni giuste per la nostra crescita e per la competitività dell’Europa» In alto: Herman van Rompuy e Angela Merkel. A fianco, Nicolas Sarkozy. Nell’altra pagina, Manuel Barroso

campagna per scegliere il possibile successore di George Papandreou in vista delle elezioni politiche anticipate di metà aprile. E il ministro della Protezione del cittadino, Christos Papaoutsis, ha lasciato l’incarico nel governo per partecipare alle primarie per la guida del Pasok che ci saranno il 18 marzo.

Le notizie da Atene peseranno sui lavori del Consiglio europeo di domani e venerdì a Bruxelles che si ritroverà sul tavolo anche la lettera che, su iniziativa di Monti, Cameron e dell’olandese Mark Rutte che ne sono i primi firmatari, propone un “piano per la crescita” in otto punti e che è stata firmata anche da Svezia, Spagna, Polonia, Repubblica ceca, Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia e Irlanda. È l’invito a realizzare anche in Europa una fasedue che, dopo le misure di rigore di bilancio, punti sulla ripresa perché per uscire dalla crisi il fiscal compact di scuola tedesca, da solo, non basterà. E una prima risposta è arrivata ieri da Manuel Barroso. «È il momento di essere concreti e di prendere le decisioni giuste per la nostra crescita e per la competitività dell’Europa», ha scritto il presidente della Commissione europea nella lettera che viene tradizionalmente indirizzata a tutti i leader della Ue prima di ogni vertice, ma che questa volta ha un significato particolare. E che ha anche un destinatario particolare: Angela Merkel. Con la speranza che possa dominare le spinte nazionaliste che partono da Berlino.

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Sulla vicenda è intervenuto anche il nostro capo di stato maggiore della Difesa, Biagio Abrate

Mission Impossible Il ministro Terzi in India per cercare di risolvere la crisi dei marò arrestati. Ma il nodo resta sempre quello della giurisdizione di Pierre Chiartano n India si tratta alla luce del sole, ma anche all’ombra delle feluche. E c’è una specie di parola d’ordine: i due marò del San Marco «a casa presto». Primo, perché non sono stati loro a sparare ai due pescatori indiani, poi perché non dovrebbero trovarsi in stato di fermo, in barba a tutte le leggi internazionali. Abbiamo sentito esprimere diverse volte questi sacrosanti concetti a proposito della vicenda che coinvolge il nostro paese in un affaire diplomatico con New Dehli. Specie da parte del ministro degli Esteri italiano, Giulio Terzi, che ha giustamente fretta di concludere questa brutta storia. Si tratta dei due militari italiani in missione antipirateria a bordo di una petroliera italiana in navigazione nell’Oceano in-

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ni. L’altra questione è legata alla decisione della nave italiana di attraccare nel porto di Kochi e quindi di consegnare i due marò alle autorità indiane. Presa per ignavia dell’armatore, per leggerezza di qualche istituzione o per evitare un’azione di forza della polizia indiana? Da parte loro gli organi ufficiali di Nuova Dehli ribadiscono la «trasparente» collaborazione con gli italiani, ma sottolineano «l’indipendenza dell’azione penale».

Sottolineature dal vago sapore “politico”. Sarebbe interessante capire qual è il clima generale in India nei confronti degli italiani. Pare che le manovre politiche di Sonia Ghandi siano alla base di un sentimento antiitaliano diffuso. La Ghandi, nel

Il titolare degli Esteri: sul caso, tra Roma e New Dehli rimane «una differenza d’opinioni non risolta» e che sembra essere causata anche da un interesse a esercitare pressioni sul governo italiano diano. Accusati di aver sparato a due pescatori locali uccidendoli, e ora agli arresti a Kochi. In attesa dei riscontri delle perizie balistiche e delle evidenze soprattutto geografiche.

Il punto fondamentale è capire se il peschereccio colpito sia mai passato vicino alla «Enrica Lexie» oppure a un’altra unità. La famosa nave greca che, fin dall’inizio, era stata indicata come possibile protagonista della vicenda. Gli organi investigativi indiani, che hanno rilasciato interviste anche alla stampa italiana, insistono nell’affermare di aver testimonianze e riscontri oggettivi, dando l’impressione di mettere le mani avanti su di un possibile esito negativo (per l’accusa) della perizia balistica. Infatti si parla già di un rinvio per la pubblicazone dei risultati. Ma sono solo supposizio-

settembre del 2011, era rientrata nel paese dopo un periodo di ricovero negli Stati Uniti durato cinque settimane a causa di un intervento chirurgico. Ricordiamo che la Gandhi, presidente del Partito del Congresso indiano, attualmente al governo, è stata assente dall’India durante un mese particolarmente difficile per il Paese, segnato da un attentato di Nuova Delhi e dall’improvvisa nascita di un movimento nazionale di protesta anti-corruzione. Non è quindi escluso che l’intera vicenda sia influenzata da interessi non palesi. Tra questi anche quelli legati a una fornitura di apparecchiature militari destinate a una unità navale ricondizionata da una vecchia portaerei russa. Ma si tratta di voci, per il momento. Ma non è escluso che sotto la superficie di una diplomazia trasparente, si muovano trattative sotterra-

Per risolvere la questione dei nostri due marò in India, sta tentando una “mission impossible” il nostro ministro degli Esteri Giulio Terzi (nella fotografia qui sopra) nee e interessi, e dove il nostro Paese sconterebbe una debolezza intrinseca. Intanto il ministro degli Esteri, giunto lunedì mattina nel Subcontinente per seguire da vicino la vicenda dei due militari, si è recato ieri pomeriggio a Kochi per far visita ai due marò. Un segnale importante della vicinanza dello Stato ai due militari “colpevoli” probabilmente di aver solo fatto il proprio dovere. Assieme al sottosegretario Staffan de Mistura stanno tentando di disincagliare lo stallo diplomatico-giudiziario che, se protratto nel tempo, potrebbe mettere a rischio i buoni rapporti tra i due paesi.

Prima Terzi ha incontrato le autorità indiane a New Delhi per discutere della questione. «La giurisdizione della vicenda è italiana», ha ribadito, forte dei rilevamenti satellitari che collocavano la petroliera in acque internazionali al momento del presunto incidente. Sul caso dei marò in stato di fermo, tra Italia e India rimane «una differenza d’opinioni che non è stata risolta»: ha però sottoli-

neato il ministro, durante un incontro con la stampa italiana e indiana, tenutosi a New Delhi al termine del faccia a faccia tra il titolare della Farnesina e il suo pari grado indiano, Mallaiah Krishna.

«Ho spiegato molto francamente al ministro Krishna», ha riferito ancora Terzi, «la posizione del mio governo, che è basata sul diritto internazionale», a proposito dell’attribuzione giurisdizionale della vicenda. Entrambi i ministri degli Esteri hanno comunque tenuto a sottolineare che il colloquio, avvenuto in un clima molto cordiale, è servito a rilanciare la cooperazione bilaterale. Anche la parte più delicata della vicenda è stata gestita con attenzione dal rappresentante della Farnesina. Terzi ha infatti consegnato nelle mani delle più alte cariche indiane le condoglianze del governo e del popolo italiano per la morte dei due pescatori al largo delle coste del Kerala; ma ha voluto sottolineare che tanto i due indiani che i marò sono vittime di una «minaccia comune», la

pirateria. Il ministro lo ha detto direttamente al suo omologo indiano, Mallaiah Krishna, esprimendo l’auspicio che Italia e India si impegnino insieme nei consessi internazionali per contrastare il fenomeno. Insomma, formule di rito. «Dobbiamo stare insieme per combattere questa minaccia che si sta espandendo in ogni

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parte del mondo e anche nell’Oceano Indiano», ha detto Terzi nella conferenza stampa finale al termine dell’incontro. Il viaggio in India era programmato da tempo, ma è stato monopolizzato dalla crisi della «Enrica Lexie». Dopo, Terzi si recherà in Vietnam, Singapore e Istanbul, dove arriverà sabato 3 marzo. Sulla vicenda è intervenuto anche il più diretto interessato nelle istituzioni italiane, il capo di stato maggiore della Difesa. «Il Governo è molto presente, in questo momento, è in India con la figura del ministro degli Esteri. Il che la dice lunga». Lo ha affermato ieri mattina il generale Biagio Abrate, in merito alla vicenda. «Ci sono tutti i nostri uomini della Difesa compresi i tecnici - ha continuato Abrate - al lavoro per le perizie tecniche necessarie per comprendere esattamente ciò che è successo nel concreto e non soltanto per ciò che sono le varie ipotesi che sono emerse in questi giorni».

Oltre le frasi di circostanza, si percepisce come i militari siano in ansia per il destino dei due fucilieri del Battaglione San Marco. Ricordiamo che proprio in funzione antipirateria i marò sono imbarcati su molte unità commerciali in navigazione attraverso acque pericolose, dal Corno d’Africa all’Oceano Indiano. Anche sulla nave da crociera Costa Allegra, in avaria a largo delle Seychelles, si trovano ben nove fucilieri con funzioni di scorta.

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ULTIMAPAGINA Il campione si racconta in un libro e promette un altro oro alle prossime Olimpiadi di Londra

Bolt, un record non è un di Nicola Fano l libro Questo sono io di Usain Bolt appena pubblicato in Italia da Baldini&Castoldi (186 pagine, 15,00 euro) contiene due notizie e un’indicazione di principio. La prima notizia è banale: Usain Bolt, fenomeno della velocità, recordman sui 100 e 200 metri, è un ragazzo semplice, un giamaicano molto legato alla propria gente e sinceramente patriottico. È nato a Trelawny, ha due genitori fantastici e una simpatica zia Lilly. Come ogni ragazzo semplice, la popolarità planetaria (legata soprattutto al doppio, straordinario successo alle Olimpiadi di Pechino) non lo ha cambiato ed è rimasto legato alle sue abitudini di sempre. L’unico rammarico è legato al fatto che la sua vita pubblica gli rende difficile trovare una fidanzata stabile. Cosa che per un venticinquenne, voi capirete, è abbastanza seccante. Ma d’altro canto ci pensa la Puma (intesa come casa produttrice di scarpe da ginnastica) ad appianare qualunque reale problema.

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La seconda notizia, onestamente, è più interessante: Usain Bolt vincerà la medaglia d’oro ai 100 metri delle Olimpiadi di Londra, quest’estate, con il tempo di 9”40, nuovo record del mondo. Potere darlo già per fatto. O, meglio, così fa Usain, scrivendolo nero su bianco. E aggiungendo che farà poca fatica a toccare quel tempo stratosferico, salvo che al di sotto di quella soglia non si potrà mai più scendere, poiché l’uomo - dice lui - non è fatto per andare più veloce. Il che è anche possibile, ma scritto (e letto) con tanta semplicità fa un po’ impressione. Più modesto, Usain sostiene di sognare di abbassare il record nei 200 sotto la soglia del 19 secondi. Nel senso che gli piacerebbe farlo, ma non è sicuro che gli riesca. La quale ammissione forse avvalora la promessa sui 100. Comunque sia, i tempi sono scritti nel libro: dopo le Olimpiadi se ne riparlerà. Quel che è certo è che Bolt - comunque vada - non solo sarà la massima star di Londra 2012, ma probabilmente divertirà il pianeta in diretta tv con la sua giovialità, la sua semplicità e soprattutto la sua naturalezza. Che è forse la sua dote maggiore, specie quando corre senza dare l’impressione di faticare né di spingere troppo per ottenere tempi prima impossibili (i suoi record dicono 9”58 nei cento metri corsi ai mondiali di Berlino nel 2009 e 19”19 nei duecento metri corsi sempre agli stessi mondiali in Germania). L’indicazione di principio è che non bastano i record per fare una buona storia. Non che fosse difficile capirlo ma c’è da dire che l’utilità di questo libro è tutta qui: tutta nella conferma di questa antica regola editoriale. Le librerie sono piene di volumi sullo sport e sui campioni ma raramente si tratta di buoni libri sia pure per

ROMANZO Fenomeno della velocità, è a tutti gli effetti un ragazzo semplice. Così come semplice è la sua storia, fin troppo per diventare letteratura. Diversa la vicenda di Emil Zatopek... gli appassionati del genere per la semplice ragione che il “campione” di norma per essere tale a lungo deve avere una vita (una storia) regolare. Le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Per dire, in atletica mi viene in mente un caso clamoroso in grado di contraddire (di fatto confermandola) questa regola: è Emil Zatopek. I record di Zatopek non si contano: dopo aver vinto l’oro nei 10000 a Londra nel 1942, quattro anni dopo a Helsinki vinse niente meno che nei 5000, nei 1000 e nella maratona. Nel 1951 era stato il primo a scendere sotto l’ora nei 20 chilometri di corsa e nel 1954 fu il primo a scendere sotto i 29 minuti sui 10000.

Ma i record sarebbero stati poca cosa se la sua vita non fosse piena di conflitti e contraddizioni. Zatopek era cecoslovacco (c’era ancora, all’epoca) e fu usato dal regime come un perfetto esempio di“sovietismo”. Salvo che Zatopek era un uomo intimamente libero che concepiva il correre proprio come atto di resistenza alle pressioni esterne. La corsa come una fuga, in un certo senso: nel 1968 si schierò dalla parte della Primavera di Praga ed ebbe i suoi bei guai per questo. Fu spedito in una miniera di uranio e le conseguenze di questa punizione lo fecero morire, nel 2000, dopo una malattia lunga e terribile.

Direte: che c’entra Zatopek con Bolt? Niente. Uno correva nelle difficoltà, l’altro nella tranquillità; uno era un fondista l’altro è un velocista; uno fu “sponsorizzato” solo da un regime, l’altro è tra gli atleti più pagati al mondo. Il problema è tutto qui: servono contraddizioni, per fare una storia. O, più esattamente, serve la Storia (quella con la maiuscola) per fare un libro. Cosa che questa gaia autobiografia di Bolt, malgrado gli sforzi di chi l’ha curata e di chi l’ha stampata, non è. D’altra parte, ci sono casi in cui nemmeno la Storia basta per fare un libro su un campione di sport. Il caso di Zatopek ci è utile anche per questo: un grande scrittore francese, Jean Echenoz ha scritto una biografia del campione cecoslovacco (si intitola Correre, in Italia l’ha pubblicata un paio di anni fa Adelphi). Il libro, che pure è ben fatto e firmato, come s’è detto, da un autore di primissimo rilievo, arriva solo a tratteggiare la complessità dell’uomo e dell’atleta. Perché lo sport ha questo limite: basta a se stesso e mal sopporta la letteratura perché in un certo senso è esso stesso letteratura. Almeno nei casi migliori, come quello di Zatopek. O nei casi più clamorosi, come quello di Bolt.


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