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ISSN 1827-8817

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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

he di cronac

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 25 FEBBRAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Consiglio dei ministri presenta la riforma del fisco: torna l’Ici sulle proprietà commerciali della Chiesa

L’Ocse sprona Monti «Strada giusta, ma privatizzi tv ed energia. E liberi il lavoro» Nel rapporto sulla crescita l’organizzazione internazionale incita il premier. Il professore celebra i primi 100 giorni: «Saremo un modello per l’Ue». ll leader Udc: «Non farti bloccare dalle lobby» LA CERTEZZA

L’INCERTEZZA

IL PROGETTO

Tre mesi e l’Italia Per i partiti è già un’altra. invece è piena Guai a fermarsi Quaresima di Osvaldo Baldacci

di Enrico Cisnetto

di Francesco D’Onofrio

n cento giorni è cambiato tutto. Ma forse non abbastanza. E così al governo Monti arrivano due spinte importanti. L’Ocse, l’Organizzaione per la cooperazione e lo sviluppo economico, invita il governo ad andare avanti con le privatizzazioni: tv, energia e trasporti. Il leader centristra Pier Ferdinando Casini, il più fermo sostenitore del governo, lo spinge a non farsi condizionare dalle lobby e ad andare avanti sulla strada delle liberalizzazioni. Insomma, bisogna guardare più ai problemi da risolvere che i successi ottenuti.

ancano tredici mesi alla fine della legislatura e finalmente si comincia a ragionare su cosa succederà “dopo”. Per la verità, la discussione è ancora acerba e poco trasparente, specie sulla riforma elettorale (tanto che sono in molti ad essere scettici sull’effettiva possibilità che si faccia). Ed è condizionata dall’assoluta confusione che regna tanto nel centro-destra quanto nel centro-sinistra, che proprio mentre ha dalla sua i sondaggi, è costretto a constatare che la sua affermazione è a scapito del Pd (Genova insegna).

Non è la prima volta che si svolge un dibattito su una nuova disciplina legislativa dei partiti politici. Si tratta infatti di una esigenza che la nostra Costituzione repubblicana ha previsto nell’articolo 49, senza peraltro che durante la cosiddetta Prima Repubblica si giungesse ad una qualche idea di partito politico comune alle tre grandi filosofie che hanno dato vita alla costituzione medesima. Occorre infatti aver presente che la sconfitta militare italiana nella seconda guerra mondiale aveva finito con il coagulare tre anime dell’antifascismo.

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I

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Resti di un Paese svanito

Un’autoriforma per battere l’antipolitica

Gli stipendi dei manager: la grandeur dei poveri di Francesco Pacifico è il retroterra dell’Italia umbertina dietro i 621.253,75 euro di Antonio Manganelli, i 562.331,86 euro di Mario Canzio o i 543,954,42 di Franco Ionta. L’idea che la stabilità del Paese possa essere preservata soltanto da alti burocrati staccati dalle dinamiche del Paese. Con il risultato che la qualità e gli effetti del loro lavoro diventano secondari.

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Dalla città gestita dagli italiani a Kabul, ormai tutto l’Afghanistan brucia

Herat in fiamme, Karzai sotto tiro Morti e feriti per il Corano offeso. Malgrado le “scuse” di Obama

Grande mostra a Roma

Com’è bello specchiarsi nel teatro di Tintoretto

di Antonio Picasso

Pietre contro gli ebrei al Muro del Pianto

e non fosse che dall’alleanza con gli Usa non ci si può dissociare, giustamente, varrebbe la pena prendere le distanze dalle ultime boutade commesse dai marines in Afghanistan. Perché quelli che Obama giudica come «futili errori» rischiano di far pagare un prezzo a tutti gli eserciti di Isaf e Nato. Ad appena tre giorni dalla diffusione su internet del video che mostra come si brucia un Corano, girato nella base militare Usa di Bagram, in tutta l’Asia islamica cresce la protesta. Ieri, tra Herat e Kabul si sono contati almeno dodici morti. La cittadina a est dell’Afghanistan, verso l’Iran, è la sede del comando del italiano.

Nuovi scontri anche a Gerusalemme utto il Medioriente ormai è in fiamme. Come in un’eco sinistra di ciò che sta accadendo tra Kabul e Herat, ieri ci sono stati nuovi, gravi disordini anche a Gerusalemme nella Spianata delle Moschee, al termine delle preghiere islamiche del venerdì. Un lancio di pietre contro i turisti e gli ebrei al Muro del Pianto è stato fermato dalla polizia.

l’Italia riscopre Tintoretto: un artista che ebbe una capacità lavorativa sbalorditiva, visto che la sua attività si protrasse per circa sessanta anni e che le sue tele sono monumentali. Un autentico titano dell’arte, insomma, che torna in pubblico con un’importante esposizione alle Scuderie del Quirinale di Roma, per l’affettuosa cura di Vittorio Sgarbi.

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EURO 1,00 (10,00

di Gualtiero Lami

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CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

39 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

di Rita Picifici

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19.30


Puntare alla crescita, non agli interessi di parte

L’Italia è già un’altra. Ma guai a fermarsi

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di Osvaldo Baldacci n cento giorni è cambiato tutto. Ma forse non abbastanza. E così al governo Monti arrivano due spinte molto importanti: da un lato l’Ocse, l’Organizzaione per la cooperazione e lo sviluppo economico, invita il governo ad andare avanti con le privatizzazioni: tv, energia e trasporti. Il leader centristra Pier Ferdinando Casini, il più fermo sostenitore del governo, lo spinge a non farsi condizionare dalle lobby e ad andare avanti sulla strada delle liberalizzazioni. Insomma, bisogna guardare più ai problemi da risolvere che i successi ottenuti. Anche perché forse questo è il momento più difficile e delicato dell’esperienza del governo. Lo è sotto tanti punti di vista. Intanto concretamente il governo si trova ad affrontare le tematiche più spinose e meno condivise. La riforma del lavoro, le liberalizzazioni: in entrambi i casi il governo è fortemente minacciato politicamente e socialmente se fa troppo, ma perde la sua missione e di conseguenza perde di utilità e credibilità se fa troppo poco. Niente spocchia da parte del Governo che deve ragionare bene per trovare le giuste soluzioni, ed è per questo che è nato un governo dei competenti. Ma niente diktat dalle parti sociali, niente assedio da parte delle lobby, niente difesa di fazioni da parte dei partiti politici i quali, se continuano a coltivare solo gli interessi di parte, vuol dire che non capiscono che almeno in questo momento devono guardare all’interesse generale.

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L’altra insidia che colpisce il governo Monti è proprio quella politica. Il governo Monti non deve pensare di aver finito il suo compito e iniziare a cedere alle lusinghe interessate di chi vuole sfruttarlo a proprio vantaggio. Tanto più se viene tirato a destra o sinistra, con uno squilibrio rispetto all’interesse reale dell’Italia. E qui c’è una tentazione ancora più subdola: quella cioè che qualche singolo esponente possa iniziare a pensare in chiave personale al futuro: del tutto lecito, probabilmente utile, forse auspicabile, ma tutti devono aver ben chiaro che anche loro eventuali futuri personali dipendono dal risultato del grande sforzo collettivo di risanamento in corso. Se si pensa all’oggi in funzione del domani si possono creare attriti e piccole tattiche che incrinano e poi mandano a fondo il tutto. Al contrario il futuro verrà segnato in base a come ci si è comportati oggi. In quest’ottica il maggior successo del governo Monti è il cambio di stile della politica: che le tentazioni non facciano tornare nessuno indietro. Terzo e più grave elemento da tener ben presente è la crisi, il motivo per cui il governo esiste. La giusta soddisfazione per quanto fatto non faccia dimenticare la grave situazione cui siamo davanti. Davanti, non alle spalle. Aver imboccato la giusta direzione è un grande merito, ma nessuno si illuda che siamo salvi. Il cammino da fare è molto molto lungo. C’è una ristrutturazione dell’Italia da portare a termine, bisogna valutare i risultati delle misure prese e questi arriveranno solo col tempo, e arriveranno nel bene (speriamo) ma anche nel male, quando si pagherà concretamente quanto è stato deciso. Le riforme da fare sono ancora davanti a noi. Ecco, non basterà la legislatura, c’è già chi invoca prudentemente che quest’opera di impegno straordinario continui comunque nella prossima: nessuno pensi che in cento giorni tutto è stato fatto. Sarebbe una grande illusione che rischia di persino precipitarci più a fondo di 101 giorni fa. Precipitare è facile, risalire è sempre molto più difficile. Con questi“alert”, concludiamo con una nota di positivo ottimismo: il pagellino del primo trimestre è davvero molto buono.

Monti celebra i cento giorni con la riforma del fisco: torna l’Ici per la Chiesa

Governo, avanti tutta!

«L’Italia privatizzi energia, trasporti e tv per favorire lo sviluppo», dice l’Ocse al premier. E Casini insiste: «L’esecutivo non ceda alle pressioni di lobby indecenti» di Errico Novi

ROMA. Come difendersi? Con il buon esempio. Mario Monti ha appena finito di allargare i polmoni per giovarsi della provvidenziale boccata d’ossigeno offertagli dal Colle sul tema dei decreti, che sul sito del governo compare un dossier sui primi cento giorni. È il bilancio che la presidenza del Consiglio fa su questa prima fase della propria esperienza e che riassume naturalmente i provvedimenti, li rianalizza, li ricollega ai tre principi orientativi, equità, rigore e crescita. Ma su ogni altra cosa, fa premio appunto la rivendicazione degli interventi, dei sacrifici che Palazzo Chigi ha compiuto direttamente: ecco il buon esempio. Un elenco di tagli e risparmi che rappresenta la risposta alle fin troppo numerose divagazioni prodotte negli ultimi giorni dalla maggioranza. Si ricordano i 43 milioni di euro stralciati dalla nota spese della presidenza. Cifra davvero ragguardevole, e se ne ha chiara evidenza quando il dossier si sofferma sul dettaglio delle misure. Si va dai 4 milioni risparmiati sui dipendenti delle «strutture generali stabili», ottenuti con le classiche forme della ristrutturazione d’impresa (dal blocco del turnover ai pensionamenti fino al congelamento dei contratti) agli oltre 12 milioni ricavati dalla contrazione degli «uffici di diretta collaborazione relativi al presidente».

È Monti in persona, dunque, il protagonista di questa autoriduzione. Si interviene su tutto, anche sulle strutture destinate ai ministri senza portafoglio e ai sottosegretari alla presidenza. C’è un’elencazione anche impressionante del numero di dipendenti a cui si è rinunciato: 241 persone in meno nell’apparato generale, 51 in meno nelle strutture di missione, e ben 99 consulenti, per un ri-

sparmio di 750mila euro, a cui si è detto grazie, arrivederci. Non è poco. È una bandiera di rigore e coerenza che giustamente il premier sventola con particolare soddisfazione. E che diventa utile perché tutti gli altri protagonisti di questa delicatissima fase accolgano davvero la logica dei sacrifici da condividere in modo uniforme, senza comode eccezioni.

Si tratta di questo, dunque, prima ancora che di un richiamo alla riduzione dei costi della politica. Il puntello arriva nel bel mezzo di scossoni che potrebbero indebolire l’efficacia dell’esecutivo, e vi si aggiunge l’intervento dell’Ocse che, nel capitolo sull’Italia del rapporto per la crescita, pare concentrarsi perfettamente proprio sui punti caldi della dialettica tra governo e maggioranza: «Si privatizzino l’energia, i trasporti e i media», suggerisce l’organismo internazionale, che cita anche «le tutele dei contratti standard, da ammorbidire». Un sostegno incassato mentre si compie un altro passo qualificante dell’azione di Monti, il decreto di semplificazione fiscale. Inizia subito dopo un colloquio del premier al Quirinale, e poco prima delle cinque, la riunione del Consiglio dei ministri da cui viene fuori la prima traccia di riordino delle tasse, compresa la riduzione delle agevolazioni. Con un’ulteriore mossa a sorpresa, proprio il presidente del Consiglio decide però di stralciare la revisione forse più delicata di tutte, quella che cancella l’esenzione Ici per molti immobili di proprietà della Chiesa. Anziché lasciarla insieme con le altre novità del decreto fiscale, infatti, Monti decide di riservarle una corsia preferenziale, e la traduce in emendamento da inserire nell’altro decre-


«Pdl e Pd: non bloccate l’innovazione» Linda Lanzillotta chiede maggiore responsabilità: «Se tirano troppo, la corda si spezza» di Francesco Pacifico

ROMA. Cento giorni non saranno sufficienti per capire se Mario Monti riuscirà nella sua missione di salvare l’Italia. Ma per Linda Lanzillotta l’ex rettore della Bocconi si è già ritagliato un piccolo spazio nella storia soltanto grazie al piano della Crescita firmato con altri Paesi della Ue, che non soltanto mette in discussione il rigorismo sterile della Germania. «Con quella lettera che credo sia sostanzialmente farina del suo sacco», nota l’ex ministro degli Affari regionali e oggi senatrice del Terzo Polo, «il premier ha tracciato la strada per la liberaldemocrazia e per chi s’inscrive in questa tradizione per i prossimi 10 anni. Anche per questo, penso, avremo bisogno ancora di lui». E senza andare così avanti? Sono stati cento giorni impressionanti, perché dobbiamo anche ricordare da dove siamo partiti e il recupero della credibilità e dell’autorevolezza che si è fatto. Non a caso Monti è il punto di riferimento degli Stati Uniti in Europa. Promosso per la fase uno. Non solo, il premier ci ha fornito anche una visione del futuro con la lettera dei 12, funzionale pur per far tirare fuori l’Italia dalla crisi, quando uscita dall’euro e default dei conti pubblici erano più di un’ipotesi. Questi rischi non sono del tutto alle nostre spalle, ma abbiamo visto un crollo sostanzioso dello spread tra Btp e Bund. Per questo mettere i bastoni delle ruote al governo, come si è provato fare con la liberalizzazione dei servizi e del lavoro, vuol dire dare un colpo mortale alla capacità del governo e alle potenzialità del Paese.

Da qui il vostro aut aut. Non si può pensare che la politica e il sistema della corporazioni che ha resistito finora adesso, senza colpo ferire, lasci mano libera al governo Monti sulle liberalizzazioni dopo anni di scandaloso inattivismo. Quindi noi del Terzo Polo, proprio per rafforzare l’esecutivo e il pacchetto, siamo pronti a non votarlo se ci saranno modifiche inopportune. E questo non vuol dire che non ci batteremo per alcune modifiche. Quali? Una maggiore celerità per arrivare alla separazione tra Eni e Snamretegas, tempi e modi certi per lo spin off di Rfi, migliore razionalizzazione delle rete dei carburanti in una fase dove la benzina pesa in maniera troppo preoccupante sull’inflazione. Si poteva fare di più? Devo riconoscere che il maxiemendamento sulle liberalizzazioni del governo migliora il testo originario in molte parti, soprattutto su quella assicurativa. Come associazione Glocus, insieme con l’Istituto Bruno Leoni, abbiamo presentato proposte più radicali sulle professioni, per esempio sostituendo gli ordini con associazioni professionali. Sulle farmacie, poi, l’aumento del numero non corrisponde a una vera liberalizzazione, non interviene

Era nei patti modificare mercato del lavoro e liberalizzazioni. Fortuna che è intervenuto il governo

to, quello già in fase di conversione parlamentare sulle liberalizzazioni. Ci sono precisazioni espresse in una nota in cui si osserva che «vengono riconosciute e salvaguardate le attività non commerciali, tanto più meritevoli di considerazione nell’attuale congiuntura economica». Anche qui si tratta di dare il buon esempio: se con il provvedimento di riordino fiscale si chiederanno nuovi sacrifici, alle imprese e ai cittadini, con poche eccezioni destinate a proteggere almeno un po’ le famiglie, pare evidentemente giusto al capo del governo rivolgere una più immediata richiesta di sacrifici proprio alle strutture ecclesiastiche.

Sul decreto fiscale peraltro si misurerà di nuovo la capacità dell’esecutivo di resistere alle incursioni dei singoli partiti. Gioco di azioni e resistenze in cui da giovedì si è inserito stabilmente il Terzo polo, con un ruolo però di garante della linea governativa, messa in pericolo sia sulle liberalizzazioni che sul lavoro. E in particolare Casini interviene per censurare una possibile e catastrofica deriva incontro a cui rischia di andare la coalizione nata attorno a Monti, quella delle maggioranze variabili. «La maggioranza politica c’è», fa notare innanzitutto il leader dell’Udc, «ed è formata da Terzo polo, Pd e Pdl». Obiezioni sul tema non hanno fondamento. «È chiaro che non si può prescindere da nessuno dei contraenti, se si pensasse di fare una riforma con il Pd ma senza il Pdl o a maggioranze variabili che sarebbero poco serie, queste minerebbero le fondamenta su cui si basa questo governo». L’esecutivo non

sulla curva della domanda. Ma con un pacchetto così numeroso quanto ottenuto è già un successo. Il governo prende tempo? Non è mica l’esecutivo Berlusconi che promette riforme e poi non affronta neppure temi fondamentali come le liberalizzazioni. Monti ha fatto quello che non si è realizzato in dieci anni. Il problema sta nei troppi controinteressi presenti in Parlamento. Perché le pressioni di tassisti e professionisti sono soltanto quelle più visibili. Quindi? Quindi diciamo agli altri partiti di non tirare troppo la corda, se questa si spezza. La tenuta di Monti non può essere soltanto quella della sopravvivenza: non è il traghettatore per andare alle elezioni e per dare ai politici il tempo di mettere apposta la situazione in casa propria. Dal Pd arrivano diktat. Con la differenza che noi chiediamo di rafforzare il pacchetto liberalizzazioni, mentre dal Nazareno chiedono a Monti di fermarsi sulla riforma del lavoro perché non sono in grado di sostenere il consenso della propria base.

è a rischio, ma perché c’è stato «un armistizio» tra le forze che lo sostengono. Il che non può equivalere a comportarsi come una maggioranza anomala, visto che il passo indietro è stato fatto in nome di un obiettivo prioritario, cioè «per cercare di salvare il Paese».

Il richiamo di Casini fa il paio con la puntuale rivendicazione sui primi cento giorni fatta dall’esecutivo. Il leader centrista entra nello specifico, ricorda per esempio che sul lavoro «la riforma va fatta senza diktat né da una parte né dall’altra, ma con serietà, consapevolezza e capacità di discutere» tra governo e parti sociali. Arriva una chiosa compiaciuta sul richiamo di Napolitano al rispetto della materia dei decreti e una relativa esortazione a Pdl e Pd perché resistano all’assalto di lobby e corpora-

La fase 3? Ora in agenda c’è la riforma fiscale, che vuol dire sostanzialmente ridurre le tasse. Ma per farlo prima bisogna combattere l’evasione e ridurre la spesa improduttiva se non si vuole mettere a rischio la stabilità dei conti. Non a caso la sequenza seguita finora o il progetto per far confluire le risorse recuperate con la lotta al sommerso per finanziare il futuro taglio delle tasse. Dimentica la crescita Intanto credo che le liberalizzazioni vadano in questa direzione, perché è finita l’epoca dello sviluppo a colpi di debito. Ora bisogna lavorare per incrementare gli investimenti o agevolare i privati a partecipare alla realizzazione delle infrastrutture. E non dimenticherei l’agenda digitale. D’ora in avanti non sarà più possibile pensare che la crescita vada di pari passo con la spesa pubblica. Chi pensa il contrario, si illude.

necessità di lavorare su una prospettiva non angusta è l’altra preoccupazione rappresentata da Casini: «L’armistizio non può risolvere i problemi italiani in un anno, c’è bisogno di un lavoro lungo: prima di archiviare questa formula», avverte dunque il leader centrista, «bisogna pensarci non una ma cento volte» Nel frattempo comunque l’esecutivo merita «un voto buono», per Casini, Non si dimentichi una cosa: con lo spread che avevamo, oggi l’Italia sarebbe fallita, si troverebbe nelle condizioni della Grecia». Il recupero della credibilità, sul piano internazionale ma anche in termini di fiducia sul versante interno, è in effetti uno dei meriti rivendicati esplicitamente anche dal ministro ai Rapporti col Parlamento Pietro Giarda, intervenuto a fare il bilancio sui primi cento giorni con un’intervista a Left-Avvenimenti: «Ma non si abbassi la guardia», aggiunge. Non basta che altri nella maggioranza condividano la valutazione positiva espressa dal governo sulla propria azione: Enrico Letta per esempio dice che il voto da assegnare a Monti è un «otto e mezzo» e che «si è svoltato su molte cose» a cominciare appunto dal «recupero della credibilità». L’esecutivo stesso però destina parte del dossier non a resoconti celebrativi ma alle prossime sfide da affrontare. Compresa l’opera di «spending review», che dovrebbe completarsi nel giro di due mesi: «Sarà presentata una valutazione al Consiglio dei ministri sulle criticità dei programmi di spesa di ciascun dicastero». E si procederà per eliminarle. Gli 8 decreti legge, i 2 ddl più gli altri 8 di ratifica, i 7 decreti legislativi finora varati sono, evidentemente, solo l’inizio.

Prima il premier ostenta ottimismo («Diventeremo un modello per l’Europa») poi presenta il nuovo fisco. Ritorna la tassa per le proprietà commerciali del Vaticano. Dal recupero dell’evasione, subito riduzioni per le famiglie zioni «che è quasi indecente». In proposito il Terzo polo nel suo insieme si impegna anche su aspetti particolari, compresa la norma che fisserebbe solo a marzo 2013 lo scorporo della Rete Snam. «Non va bene», dice Rutelli, «tempi troppo lunghi, occorre che l’operazione sia conclusa entro il mandato del governo Monti: per questo il Terzo polo presenta un emendamento che fissa la conclusione dell’operazione al 31 dicembre di quest’anno». La

Suggerimenti? Eppure il meccanismo è semplice: il governo deve rispettare le richieste presenti nella lettera della Bce per ritrovare le condizioni basilari per far ripartire la nostra economia. Quel memorandum è stato travasato nelle dichiarazioni programmatiche dell’esecutivo pronunciate alle Camere. Lì dentro ci sono anche le liberalizzazioni dei servizi e quelle del mercato del lavoro. Nessuno, quindi, può dire che si stanno cambiando le carte in tavola. Il Pdl non sta messo meglio. Su tutta la questione dei taxi e delle professioni si è mossa in maniera davvero imbarazzante. Fortuna che è intervenuto il governo e dando all’authority, visto che i sindaci non hanno mai fatto nulla, il potere di ampliare le licenze. Ma più in generale bisogna andare avanti nella determinazione di fare le riforme, che sono nell’interesse dell’Italia prima ancora che dei partiti.


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l’approfondimento

Pdl e Pd sono divisi e in difficoltà: occorre aprire una stagione nuova. Magari senza esorcizzare una “grande coalizione”

La Quaresima dei partiti Sappiamo che cosa ha fatto il governo in cento giorni, ma non come si muoveranno i leader politici nei prossimi mesi. Cambiare la legge elettorale è la priorità assoluta: il “bipolarismo armato” appena sopito è sempre in agguato

ancano tredici mesi alla fine della legislatura e finalmente si comincia a ragionare su cosa succederà “dopo”. Per la verità, la discussione è ancora acerba e poco trasparente, specie sulla riforma elettorale (tanto che sono in molti ad essere scettici sull’effettiva possibilità che si faccia).

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Ed è condizionata dall’assoluta confusione che regna tanto nel centro-destra – dove la separazione tra Pdl e Lega rischia di diventare un definitivo divorzio anche per via dello scontro Bossi-Maroni, mentre nel partito di maggioranza (ex?) si registra il minimo storico nei rapporti tra Berlusconi e Alfano e si fa strada l’idea di non presentarsi alle prossime alle prossime amministrative, se non sotto le mentite spoglie di liste civiche, per evitare di intestarsi una sconfitta che potrebbe rivelarsi clamorosa – quanto nel centro-sinistra, che proprio mentre ha dalla sua i sondaggi, è costretto a constatare che la sua affermazione è a

di Enrico Cisnetto scapito del Pd (Genova ha fatto traboccare il vaso), cosa che induce inevitabilmente Bersani a rispolverare la foto di Vasto pur sapendo di correre il rischio di una diaspora nel partito. Tuttavia, una cosa pare acquisita: la consapevolezza da parte di tutti o quasi che alle prossime elezioni politiche occorrerà riformulare l’offerta politica. Poi c’è chi, come Berlusconi, ne fa derivare come conseguenza l’idea che sia sufficiente un semplice restyling (cambiare il nome al-

la lista e qualche faccia nuova, pur selezionata con il vecchio metodo cooptativo). E chi, invece, si contenta di dire “andiamo avanti con Monti”, come se questo governo potesse riprendere il suo posto dopo quella che assumerebbe i contorni di una fastidiosa e inutile consultazione elettorale, così, senza colpo ferire.

È evidente, invece, che occorre ridefinire offerta e legge elettorale sulla base del siste-

Dopo le primarie di Genova, Bersani è sempre più vittima della sinistra

ma politico che s’intende realizzare. E qui casca l’asino. Un po’ perché il dibattito fin lì non arriva, fermandosi ben prima. Un po’ perché torna la vecchia, stucchevole discussione su “bipolarismo sì, bipolarismo no”, del tutto astratta rispetto al giudizio sulla concreta esperienza della Seconda Repubblica, che certo non aiuta a definire i passaggi di quella che se non fosse una fase di transito verso una nuova Repubblica vorrebbe dire che si dovrebbe

assistere dopo la parentesi Monti al disastroso ritorno verso il recente passato.Tra l’altro, sta assumendo i connotati della falsità la querelle sull’incompatibilità tra metodo proporzionale di calcolo dei voti e bipolarismo. Non è affatto vero che una legge elettorale di questo tipo impedirebbe la preventiva indicazione agli elettori delle coalizioni di governo che s’intendono costruire, e tanto meno può fare una simile affermazione chi continua a difendere un sistema bipolare in cui le coalizioni sono così eterogenee e talmente condizionate dalle ali che contengono entrambe al proprio interno sia la maggioranza che l’opposizione (i cosiddetti partiti di lotta e di governo).

Ma tant’è, il vecchio vizio del confronto tutto ideologico prevale. A costoro, comunque, si consiglia la lettura dell’intervista che Luciano Violante ha rilasciato all’Unità del 15 febbraio, emblematicamente titolata “Basta caravanserragli incapaci di governare. La legge


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Bisogna riflettere di più sul passaggio dalla Seconda repubblica alla stagione futura

Ora nuovi soggetti che mettano d’accordo individuo e comunità Il dibattito sulla rappresentanza non può limitarsi a chi è pro o contro le «strutture leggere»: serve un progetto di società e interessi comuni di Francesco D’Onofrio on è la prima volta che si svolge un dibattito su una nuova disciplina legislativa dei partiti politici. Si tratta infatti di una esigenza che la nostra Costituzione repubblicana ha previsto nell’articolo 49, senza peraltro che durante la cosiddetta Prima Repubblica si giungesse ad una qualche idea di partito politico comune alle tre grandi filosofie che hanno dato vita alla costituzione medesima.

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Occorre infatti aver presente che la sconfitta militare italiana nella seconda guerra mondiale aveva finito con il coagulare l’antifascismo, al quale avevano pur dato vita tre diverse idee di fondo proprio nel corso del “Ventennio”mussoliniano e all’indomani della fine della stessa seconda guerra mondiale. Queste tre idee di fondo le ritroviamo per l’appunto proprio nella tessitura fondamentale della Costituzione italiana, sia per quel che concerne i diritti e i doveri fondamentali dell’individuo, sia per quel che concerne la stessa disciplina della iniziativa economica privata di cui all’articolo 41 della costituzione medesima. Le tre filosofie che ispirano il pensiero politico all’Assemblea Costituente sono infatti quella che vede nell’individuo il centro dei diritti e dei doveri; quella che vede nella persona umana il centro della solidarietà; quella che vede nella classe il soggetto costitutivo dell’intero tessuto costituzionale. Allorché pertanto si passi a considerare le ragioni che non hanno consentito di dar vita a nessuna legge concernente i partiti politici, dobbiamo proprio aver presente che le tre filosofie costituenti intendevano il partito politico in quanto tale: quale partito di individui; quale partito di comunità; quale partito di avanguardia della classe operaia. Queste tre filosofie di fondo si imbattono nel processo di costruzione dell’unità europea che è certamente compatibile sia con la visione individualistica sia con la visione comunitaria proprie della Costituzione italiana, ma che sono certamente alternative alla idea del ruolo anche politico della classe operaia, tipica espressione del modello sovietico di Stato. Per tutta la

Prima Repubblica pertanto si è finito con il chiamare partiti politici dei soggetti anche molto diversi fra di loro, ad esclusione della progressiva accettazione da parte di tutti del cosiddetto manuale Cencelli. Si è assistito pertanto alla trasformazione progressiva dei partiti politici complessivamente considerati, da strutture di raccordo tra la cosiddetta società civile e lo Stato in soggetti tendenzialmente portati ad occupare posizioni di governo nello

È inutile dire «tutto è cambiato» e poi restare ancora a schemi organizzativi già superati Stato centrale e nelle articolazioni periferiche dello Stato medesimo o anche nelle nuove forme di governo degli enti locali.

La conclusione dell’esperienza storica dell’Unione Sovietica nel 1991; il processo di costruzione dell’Unità europea che giunge proprio nel ’91 al Trattato di Maastricht; la quasi repentina scomparsa di tutte le denominazioni politiche della cosiddetta Prima Repubblica nel corso del biennio ‘92-’94 caratterizzato dall’avvento di “Mani Pulite” (fenomeno ancora non compiutamente compreso), hanno finito dunque con il dar vita ad una situazione nuova che non ha ancora trovato una sua compiuta declinazione proprio in riferimento al

partito politico. Nel corso di tutto il periodo che siamo soliti chiamare della Seconda Repubblica abbiamo di conseguenza assistito ad un dibattito non ancora concluso tra i sostenitori del cosiddetto“partito leggero” e i sostenitori del cosiddetto “partito pesante”. I primi sono apparsi in sintonia con la radicale mutazione della partitocrazia che aveva caratterizzato una lunga parte della cosiddetta Prima Repubblica; i secondi sono apparsi ed appaiono in qualche modo nostalgici proprio dei partiti della Prima Repubblica, anche a prescindere dai contenuti propri di quei partiti. La stagione che stiamo vivendo da qualche tempo in Italia appare a sua volta caratterizzata da una sorta di rigetto dei partiti sempre più forte da parte dei cittadini. Si tratta di un fenomeno molto complesso ed articolato nel quale sono certamente visibili tratti di qualunquismo moralistico; tratti di autonomia della società dalle istituzioni; tratti di un rifiuto proprio dello strumento di raccordo fra società ed istituzioni. Qualora si guardi a quel che accade dovunque in Europa, possiamo pertanto rilevare che la questione del o dei partiti politici è una questione certamente presente anche al di fuori dei confini nazionali, pur se in nessuna parte è dato di rilevare un discredito altrettanto forte dei partiti politici da parte delle opinioni pubbliche locali. Siamo dunque in presenza di un fenomeno che non consente di limitarsi in qualche modo a discettare di “partiti leggeri” o di “partiti pesanti”.

Occorre per così dire una qualche idea nuova di partito politico, che sappia contemperare l’individualismo - sempre più finanziario - con il comunitarismo - sempre più umanitario. Si tratta di un compito di grande rilievo istituzionale sol che si consideri che la materia delle riforme istituzionali non può essere considerata materia esclusivamente tecnica – giuridica o sociologica che sia – perché si tratta di materia fortemente intrisa di società e di stato, mai come oggi fortemente condizionata dal processo di globalizzazione in atto. Alla costruzione di questo nuovo partito occorre dunque por mano prima ancora di definire la legge elettorale che pur costituisce parte essenziale della vita stessa dei partiti politici anche nuovi.

elettorale non deve produrre coalizioni forzose, ragioniamo su un proporzionale corretto”. Tradotto: il sistema tedesco. Che se fosse stato adottato fin dal 1994 ci avrebbe evitato una sciagura del bipolarismo armato basato sulla contrapposizione pro-contro Berlusconi, cioè ci avrebbe evitato tanto il Cavaliere quanto la gioiosa macchina da guerra di Occhetto.

Dunque, quale offerta e legge elettorale occorrono per quale sistema politico? Marco Follini ha giustamente notato sul Riformista che l’approccio nobile al problema sarebbe quello del «soffio magico dello spirito costituente», anche se ha subito aggiunto che sarebbe poco realista perseguirlo. Può darsi, i fatti fin qui accaduti gli danno ragione. Ma proprio perché Monti rappresenta una discontinuità assoluta e proprio perché occorre individuare metodi e mezzi per darle continuità ed evitare che la parentesi si chiuda, l’idea di una fase (ri)Costituente sarebbe la migliore, e non solo perché “alta” ma anche e soprattutto perché maledettamente necessaria. Ma se proprio dobbiamo “volare bassi”, almeno facciamolo mettendo mano ad una complesso di provvedimenti (proporzionale con sbarramento al 5%, sfiducia costruttiva, fine del bicameralismo e revisione profonda dei regolamenti parlamentari, poteri di nomina e revoca dei ministri al premier), che comincino a delineare il profilo istituzionale della Terza Repubblica. Già, ma con quali forze politiche si realizza tutto questo? Oggi, a bocce ferme, sarebbe controproducente riproporre partiti e coalizioni che hanno caratterizzato una stagione politica ormai chiusa, e che sarebbero a cittadini con il loro voto (o meglio, non voto) a chiudere se osasse ripresentarsi alle elezioni, anche dopo un eventuale maquillage. E sarebbe inutile definire un qualche coinvolgimento di chi sta al governo (Monti, Passera), anche perché gli interessati non sarebbero disposti a farsi trascinare prima della fine della legislatura. Invece, è facendo il lavoro di definizione delle riforme prima indicate che si possono e debbono riformattare partiti e alleanze e definire gli scenari del futuro. Per esempio, se s’intende andare – come è largamente auspicabile – nella direzione di una “grande coalizione”, è bene che lo si dica fin d’ora e se ne delinei agli occhi degli elettori i contorni e gli obiettivi, con trasparenza. Si cominci questo lavoro, dentro e fuori il parlamento, tra forze politiche esistenti e soggetti della società civile e dell’associazionismo intenzionati a giocarsi la partita della Terza Repubblica. Tredici mesi passano in un baleno. (www.enricocisnetto.it)


politica

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Il Cavaliere non ce la fa a trattenersi e diffonde una nota contro “il presunto accanimento della magistratura” nei suoi confronti

I mulini a vento Questo significa in italiano Mills. Il più ”insidioso” dei processi a Berlusconi si conclude oggi anche se molti puntano sulla prescrizione. A cominciare dall’imputato. Ripercorriamo la storia iniziata nella notte del 24 novembre 1995 di Franco Insardà

ROMA. Doveva essere la pietra tombale del berlusconismo. Con il Cavaliere, in uno scenario degno del Caimano, a sbraitare contro le toghe rosse e il Paese ingrato, mentre fuori dal palazzo di giustizia le forze dell’ordine dividono a fatica fan e detrattori del signore delle Tv. Almeno questo fino a qualche mese fa, cioè quando la Seconda Repubblica scricchiolava soltanto, prevedevano tutti gli analisti politici. Con la Terza Repubblica ormai alle porte, oggi è attesa la sentenza contro Silvio Berlusconi per il processo Mills. Una sentenza – che indipendentemente dal suo esito – dal punto di vista politico non cambierà la storia politica. Al massimo farà evaporare le ultime velleità dell’ex premier di ambire a Palazzo Chigi o al Quirinale. Oppure ridurrà il suo potere del veto e le sue (già scarse) possibilità di eterodirigere il governo Monti.

Infatti ha fatto quasi tenerezza la difesa d’ufficio affidata a una nota che per una volta prova ad andare nel merito delle accuse e non si sofferma sulla questione politica. Non ha resistito e, dopo aver ceduto alla pressione delle “colombe” annullando la conferenza stampa di giovedì pomeriggio, ieri ha diffuso una nota nella quale chiarisce la sua posizione sul processo Mills. Secondo Berlusconi già «tre anni fa il processo sarebbe caduto in

L’avvocato inglese David MIlls è stato condannato il 17 febbraio 2009 in primo grado a 4 anni e 6 mesi, sentenza confermata, il 25 febbraio 2010, dalla corte d’Appello, ma il 25 febbraio 2010, la Cassazione, pur confermando la colpevolezza dell’imputato, dichiara prescritto il reato

prescrizione, se nel febbraio 2008 la Procura di Milano non si fosse inventata la stupefacente tesi che il reato di presunta corruzione non si perfeziona nel momento in cui il corrotto riceve i soldi dal corruttore, ma nel momento in cui comincia a spenderli! Cioè due anni dopo, proprio in tempo per far scattare in avanti i termini della prescri-

Per gli avvocati dell’ex premier la data della prescrizione era l’8 gennaio, o il 3 febbraio. Per il tribunale il 14 febbraio, mentre per il pm il termine sarebbe compreso tra il 3 maggio e il 17 luglio

zione». Il tribunale di Milano, infatti, il 18 gennaio 2008 accolse la richiesta del pm Fabio De Pasquale di correggere l’accusa: la corruzione non si sarebbe consumata il 2 febbraio 1998, ma il 29 febbraio 2000. E sulla prescrizione si consumerà l’ennesimo scontro tra legali, tribunale e procura. Per gli avvocati di Berlusconi la data era quella dell’8 gennaio, o, al massimo, del 3 febbraio. Per il tribunale di Milano il 14 febbraio, mentre per il pm De Pasquale il termine sarebbe compreso tra il 3 maggio e il 17 luglio. Un finale quindi ancora misterioso per una vicenda giudiziaria cominciata 7 anni fa, quando il Cavaliere, fu rinviato a giudizio, il 30 ottobre 2006, per corruzione in atti giudiziari insieme all’avvocato David Mills. Da allora sono trascorsi più di cinque anni durante i quali l’ex maggioranza le ha tentate tutte, sia in Parlamento che in tribunale, per evitare di arrivare alla sentenza di oggi.

Tutto iniziò a novembre del 1997 quando l’avvocato Mills, già consulente del gruppo Fininvest, viene convocato a testimoniare a Milano, e di nuovo nel gennaio 1998, in due processi a carico di Silvio Berlusconi. Il primo per le tangenti pagate dal suo gruppo alla Guardia di Finanza, il secondo per i fondi neri e le tangenti pagate tramite la All Iberian, società estera della Fininvest. Mills non avrebbe fatto riferimento al colloquio telefonico intercorso il 24 novembre 1995 con Silvio Berlusconi in ordine alla società All Iberian e al finanziamento da 10 miliardi di lire erogato tramite All Iberian al Psi. Quelle testimonianze, false secondo la procura per tenere fuori dalle vicende il Cavaliere, avrebbero fruttato all’avvocato Mills 600mila dollari. La cifra fu scoperta nel 2004 dal commercialista inglese di Mills che ne diede comunicazione al fisco di Sua Maestà. I documenti arrivarono a Milano e il legale inglese, interrogato, disse di aver ricevuto quei soldi nel 1999 da Carlo Bernasconi, manager di Fi-


politica

ninvest morto nel 2001. Da qui l’accusa di corruzione in atti giudiziari per Mills accusato di aver preso i soldi per aver mentito ai processi, e Berlusconi di aver corrotto un teste. Nel 2006 ci fu il primo tentativo di fermare il processo con la richiesta di ricusazione del giudice milanese Fabio Paparella, che aveva deciso il rinvio a giudizio, viene respinto dalla Cassazione il 30 gennaio 2007. Il processo comincerà il 13 marzo 2007, per poi essere sospeso in occasione della campagna elettorale per le elezioni del 9-10 aprile che portò all’elezione del Cavaliere a presidente del Consiglio: l’8 maggio 2008. Dopo più di un mese, il 17 giugno 2008, la difesa di Berlusconi ricusa la presidente del collegio giudicante, Nicoletta Gandus, perché avrebbe manifestato ”grave inimicizia” verso l’imputato. Istanza che verrà respinta il 17 luglio 2008. Parallelamente il Consiglio dei ministri approva il “lodo Alfano”che sospende i processi alle alte cariche dello Stato, che diventa legge il 22 luglio 2008.

Così il 4 ottobre 2008 il processo a Berlusconi è sospeso, ma prosegue per Mills che, il 17 febbraio 2009, viene condannato a 4 anni e 6 mesi. Il 7 ottobre 2009 la Corte costituzionale giudica illegittima il “lodo Alfano”e il processo a Berlusconi riprende. Qualche settimana dopo, il 27 ottobre 2009, viene respinto l’appello di Mills, e confermata la condanna. Intanto per l’avvocato Mills arriva, il 25 febbraio 2010, la decisione della Cassazione: il reato è prescritto, pur confermando la colpevolezza dell’imputato. Sul versante Berlusconi gli avvocati chiedono e ottengono di aspettare le motivazioni della sentenza Mills, mentre il 7 aprile 2010 il centrodestra approva il ”legittimo impedimento”. Ma il 13 gennaio 2011 la Corte costituzionale definisce incostitituzionali alcune parti della norma sul legittimo impedimento, in particolare proprio quella che sottrae al giudice il potere di decidere. Fino all’abrogazione referenda-

ria del 12 e 13 giugno 2011. Messo in soffitta anche il tentativo della“prescrizione breve”il processo MIlls da settembre dello scorso anno è ripreso con ritmi serrati per arrivare alla sentenza di oggi. Il tutto non senza polemiche da parte del collegio difensivo del Cavaliere che ha lamentato anche il taglio di una decina di testimoni a difesa dell’ex premier. Con tanto di testimonianza di Mills che in videoconferenza da Londra ha dichiarato: «Tutto quello che riguarda Berlusconi e Bernasconi è una fiction, una invenzione pericolosa». Dopo l’ennesimo tentativo di ricusazione della corte oggi si deciderà sulla richiesta di condanna a cinque anni di carcere per Silvio Berlusconi formulata dal pm di Milano Fabio De Pasquale, alla quale si aggiunge quella di 250 mila euro di risarcimento da versare, in solido con l’avvocato Mills, alla Presidenza del Consiglio.

Sull’avvocato inglese l’ex premier ha aggiunto, nella nota diffusa ieri: «Non ricordo di averlo mai conosciuto. A processo avviato ho appreso dagli atti processuali che Mills era l’avvocato di un armatore italiano residente in un Paese africano, del quale gestiva anche il patrimonio e seguiva gli affari. Dai conti di tale armatore, oltre a trattenersi il denaro corrispondente a parcelle emesse, si era trattenuto anche 600.000 dollari quale ulteriore compenso professionale. Per non pagare l’imposta del 50% al fisco inglese e per non dover dividere la restante somma con i suoi soci di studio Mills si inventò la storia che quei seicentomila dollari non erano frutto di una attività professionale, ma di una donazione esente da tasse. Gli venne in mente il nome di un dirigente Fininvest con il quale aveva avuto rapporti in passato, Carlo Bernasconi. E si inventò che quei soldi erano una donazione di Bernasconi. Perché proprio di Bernasconi? Perché nel frattempo era morto. E perché Bernasconi gli avrebbe dato quei soldi? Per riconoscenza, perché

Mills, due anni prima della pretesa donazione, sarebbe stato attento, rendendo due testimonianze processuali in Italia, a non penalizzare il gruppo Fininvest e Silvio Berlusconi». Una tesi, per Berlusconi, «risibile. Mills era un testimone dell’accusa e in quelle occasioni le difese si opposero addirittura alla sua audizione. Se fosse stato un teste “amico”ovviamente non vi sarebbe stata opposizione alcuna. Invece era certamente un teste ostile tanto che le sue dichiarazioni furono utilizzate quale punto principale per motivare, in primo grado, due sentenze di condanna». Sempre nella nota Berlusconi rileva che Mills «avendo in corso una verifica fiscale e non volendo né pagare le tasse né dividere quei 600.000 dollari con i soci del suo studio, come aveva dovuto fare con i 10 miliardi che aveva trattenuto quale compenso professionale, tentò tramite il suo commercialista di costruire una storia verosimile per il fisco inglese. Ma gli andò male perché il fisco scoprì il trucco. I pubblici ministeri italiani, avvertiti gli piombarono addosso e in un drammatico interrogatorio durato dieci ore a Milano, Mills, ormai sfinito e temendo di venire arrestato, come ebbe a spiegare egli stesso, diede una versione di comodo per poter ritornare immediatamente in Inghilterra. Tornando in Inghilterra - ricorda ancora Berlusconi - si rese conto di essersi comportato in modo del tutto incongruo e che la sua tesi era insostenibile e decise finalmente di dire tutta la verità». Il Cavaliere ha ricordato che nel 2006, promosse « una conferenza stampa a Palazzo Chigi perché i miei avvocati erano riusciti a reperire la documentazione che provava in modo indiscutibile il passaggio dei seicentomila dollari dall’armatore Attanasio a Mills. Sono stati ricostruiti tutti i movimenti contabili dei conti correnti di Mills e del suo cliente documentando “per tabulas” provenienza e destinazione del denaro».

Un iter processuale convulso e frammentato che si sarebbe dovuto concludere, secondo quanto ha scritto nella sua nota di ieri Berlusconi con «una sentenza di prima e totale assoluzione». Di fronte agli «argomenti inoppugnabili» proposti, continua, «qualunque giudice scrupoloso ed equanime avrebbe dovuto chiudere il processo». Il Cavaliere ha sottolineato che il processo Mills sia «soltanto uno dei tanti processi che si sono inventati a mio riguardo. In totale più di cento procedimenti, più di novecento magistrati che si sono occupati di me e del mio gruppo, 588 visite della polizia giudiziaria e della guardia di finanza, 2600 udienze in quattordici anni, più di 400 milioni di euro per le parcelle di avvocati e consulenti. Dei record davvero impressionanti di assoluto livello non mondiale ma universale, dei record di tutto il sistema solare». Ma nel libro del Guiness dei primati c’è ancora spazio per nuovi aggiornamenti.

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società

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Il capo della polizia Antonio Manganelli è il “manager” pubblico più pagato dallo Stato: oltre 621mila euro all’anno. Sotto, da sinistra, Mario Canzio, ragioniere generale dello Stato, che guadagna oltre 562mila euro; Franco Ionta, capo del dipartimento dei penitenziari, che guadagna oltre 543mila euro; Raffaele Ferrara, direttore dei Monopoli di Stato, che guadagna oltre 481mila euro

Manganelli & Co. si difendono. Intanto si attendono i dati anche su cumuli e benefit non ancora dichiarati al ministro Patroni Griffi

La grandeur dei poveri

Gli stipendi dei manager pubblici ricordano un’Italia che non c’è più: quella che puntava all’espansione e viveva oltre le proprie possibilità di Francesco Pacifico

ROMA. C’è il retroterra dell’Italia umbertina dietro i 621.253,75 euro di Antonio Manganelli, i 562.331,86 euro di Mario Canzio o i 543,954,42 di Franco Ionta. L’idea che la stabilità del Paese possa essere preservata soltanto da alti burocrati staccati dalle dinamiche del Paese e – perché no – dal controllo popolare. Con il risultato che la qualità e gli effetti del loro lavoro diventano secondari in una classifica che vede al primo posto soltanto l’appartenenza. Nessuno mette in discussione le capacità dell’investigatore Manganelli. È difficile non riconoscere a Canzio gli sforzi per ammodernare un Moloch come la Ragioneria dello Stato. Per non parlare del lavoro di Ionta di fare dell’amministrazione penitenziaria anche uno strumento di reinserimento. Eppure i loro stipendi rappresentano il canto del cigno di un’Italia che non c’è più. Non c’è più perché il Paese ha chiesto ai suoi cittadini quasi 90 miliardi di euro dodici mesi fa per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. Non c’è più perché in anni nei quali la concorrenza si farà soprattutto nel campo dei servizi, servirà dotarsi di una burocrazia efficiente e non autoreferenziale. Nelle prossime settimane il governo proverà a introdurre un tetto agli stipendi dei manager pubblici (294mila euro lordi), mentre tra gli interessati c’è già chi vagheggia ricorsi o fa inten-

Continuano le polemiche sui grandi emolumenti, mentre il governo e i partiti spingono per forzare le lobbies e introdurre tetti chiari e tagliare la spesa. Gli esperti consigliano a Monti di legare i salari ai risultati ottenuti dere fughe di massa verso il privato. Ci si indigna perché soltanto 53 alti burocrati hanno inviato il loro 730 al ministro Patroni Griffi, dimenticandosi però di indicare gli altri incarichi e indennità che spesso fanno raddoppiare i già alti stipendi. Intanto questi organismi messi sotto accusa si affrettano – ieri l’hanno fatto Antitrust e Agcom – ad annunciare di aver già ridotto loro sponte i salari dei propri componenti. Più in generale va notata la voglia della politica di ristabilire la verità e – con un pizzico di revanchismo, denunciare prima il fenomeno poi l’incapacità di chiedere conto alla vera casta del palazzo. Senza dimenticare che un onorevole è spesso un meccanismo di ingranaggi più grandi e che deve comunque af-

frontare il voto popolare. In quest’ottica l’ipergarantista Fabrizio Cicchitto la pensa e usa gli stessi termini del giustizialista e moralista Antonio Di Pietro Di Pietro. «La pubblicazione dei dati riguardanti la retribuzione degli alti burocrati dello Stato mette in evidenza che essi devono essere sottoposti ad un tetto per evitare che si creino situazioni di incredibile iniquità già evidenti a occhio nudo», sostiene il capogruppo del Pdl alla Camera. «Serve il tetto agli emolumenti dei dipendenti pubblici», gli fa eco il leader dell’IdV, il quale però sottolinea che «In Italia non deve creare scandalo chi guadagna molto e paga le tasse, ma chi non versa nulla all’erario». Nel dibattito in corso fa fatica a entrare a un concetto molto semplice, già applicato in

Francia, in Spagna o in Paesi non meno centralisti del nostro: se l’obiettivo è rendere la pubblica amministrazione produttiva come il privato, perché non importare il suo brocardo, cioè legare gli stipendi ai risultati? Qualche anno fa il giurista (e parlamentare pd) Pietro Ichino propose l’istituzione di un’authority indipendente per valutare il lavoro delle principali istituzioni. L’ex ministro Renato Brunetta provò a estendere questo processo a tutti i lavoratori statali, salvo poi vedere congelata la sua vis riformatrice per l’assenza di risorse da porre sulla premialità e di strumenti per scardinare il sistema della pianta organica e quindi l’inamovibilità dei travet. Problemi che si ripropongono anche per i titolari dei cedolini che stanno facendo scalpore. Vi-

sto che in questo Paese vige una regola non scritta, secondo la quale il presidente dell’Inps, il direttore dell’Agenzia delle entrata o il capo della Protezione sono sindacabili soltanto dalla politica, perché è quella che li nomina o li copta. Nicola Gavazzi, capoazienda in Italia della multinazionale del head hunter, ha consigliato tramite il Corriere della Sera una diversa strutturazione salariale. «Innanzitutto la quota fissa potrebbe scendere anche a 200mila, mentre la parte variabile sarebbe una valutazione del lavoro svolto dal manager pubblico, consistente solo se ci sono i risultati».

Ma dalla lezione di buonagestione del cacciatore di testa si scopre anche un altro problema: «Sarebbe bello che tra i manager pubblici, così come succede nel privato ci fosse più movimento più turnover: con persone che si spostano da una funzione a un’altra, crescendo professionalmente e facendo anche crescere chi sta sotto. Ma mi sembra che molti curricula, nel pubblico, siano un po’ immutabili». Stipendi legati ai risultati. Ricambio nelle posizioni apicali basato su concetti come conoscenze ed esperienze. Obiettivi fissati dalla politica e valutati da terzi. In fondo la riforma della pubblica amministrazione si può fare anche senza scomodare autorevoli commissari e istituire sconfinare commissioni paritetiche.


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Giovanni Pascoli vive nel cuore dell’oggi. Per quel confronto problematico con l’irrazionale, per quei riflessi di luce e ombre che come un veggente ha evocato con la forza della vera poesia. Nella prossimità del centenario della morte, una serie di nuovi titoli ne arricchiscono l’esegesi

omaggio più alto possibile è che un Nobel per la letteratura ancora vivente chiuda l’ultima sua silloge con dei versi a lui ispirati. A Giovanni Pascoli questo è accaduto, ben prima di questa ormai imminente occasione centenaria che scoccherà il 6 aprile. Due anni fa Seamus Heaney, nordirlandese e poeta tra i massimi viventi, pubblica Human Chain (Catena umana), tradotta l’anno successivo per Mondadori da Luca Guerneri, e chiude la raccolta con Un aquilone per Aibhín dichiaratamente in debito con il celebre e antologizzato L’Aquilone, quello dal pubblicitario incipit «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole/ anzi d’antico». Risalta in questo Heaney lo stesso pensiero di Pascoli, quello di chi, ormai adulto, avverte qualcosa nell’aria che gli riporta alla mente i giochi dell’infanzia, il volo degli aquiloni, le voci degli amici di un tempo, ma anche un evento drammatico: la morte prematura di un compagno di scuola. La memoria tragica offre ai due poeti l’occasione per riflettere sul significato della vita e per domandarsi se non sia meglio morire quando si è ancora giovani, prima di affrontare le delusioni e i dolori dell’età adulta.

L’

QUEL FANCIULLINO NOSTRO CONTEMPORANEO di Francesco Napoli


quel fanciullino nostro

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I temi dell’infanzia perduta e del contrasto con l’età adulta hanno sempre fatto andare a nozze certa critica psicanalitica e forse lo stesso Sigmund Freud avrebbe visto volentieri sul suo lettino il cantore di San Mauro. Così come la sua esistenza ha morbosamente attratto strizzacervelli letterari. Grosso modo le biografie recitano quasi tutte così: Giovanni Pascoli, uno dei principali poeti del Decadentismo italiano, nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre del 1855, dove vive gli anni della sua infanzia presso la tenuta agricola La Torre, appartenente ai principi Torlonia, alle cui dipendenze lavora il padre. Nel 1867 inizia la sequenza di lutti che segnerà la sua vita e condizionerà pesantemente la sua opera e la sua poetica: il padre viene assassinato in circostanze misteriose (accadimento immortalato in X agosto e nella memorata Cavallina storna) e la situazione peggiorerà l’anno successivo per la scomparsa della madre e della sorella primogenita. La lunga catena di morti famigliari riducono il nucleo fino al ricomporsi di quel famoso «nido», con le sorelle Mariù e Ida, che tanto ha mandato in sollucchero gli psicocritici.

Vittorino Andreoli ha condotto nel suo Segreti di casa Pascoli (Rizzoli) un’attenta e sensibile analisi della vita affettiva e familiare del poeta. Con un particolare punto di vista di studioso delle anime umane e dei malesseri psicologici che affliggono chi, come il poeta, ha vissuto tragedie familiari, traumi infantili, legami morbosi, por-

ta a conoscenza del lettore una sua personale ipotesi sulla vita del Pascoli e della sua famiglia. Non è da meno Elio Gioanola che nel suo Giovanni Pascoli, sentimenti filiali di un parricida (Jaca Book) fonda tutto sull’inespressa risoluzione del conflitto padre-figlio. Ma sulla «famiglia Pascoli» la cosa più bella e originale resta il lavoro di scelta testuale firmato da Cesare Garboli e dal titolo Trenta poesie familiari di Giovanni Pascoli (Einaudi), nucleo originario di un meno riuscito Meridiano «personale» dello studioso. Le biografie si chiudono poi più o meno tutte così: dopo aver inseanno V - numero 7 - pagina II

gnato all’università di Messina e di Pisa, al pensionamento del Carducci gli sarà affidata la cattedra di Letteratura Italiana a Bologna, dove lavorerà fino alla morte, avvenuta il 6 aprile del 1912. La ricostruzione della vita è importante, certo, ma per un poeta resta l’opera a dirci quasi tutto di lui: è, ad esempio, più decisivo ricordare che ha avuto proprio Carducci come nume e maestro, D’Annunzio sull’opposta riva di poetica in un rapporto di vicinanza e di rispetto reciproco, almeno formalmente. O, ancora, non è più vivo ricordare come l’intero Novecento poetico italiano e oltre, quantomeno fino a tutti gli anni Sessanta, ha fatto i conti con la sua opera e non certo con la sua biografia? Si tratta di soluzioni di poetica, di suggestioni e risoluzioni non solo formali che si sono da lui irradiate per poi essere assimilate e rilanciate a loro volta dopo un sorta di processo metabolico, del tutto fisiologico in poesia, soprattutto con la sovrapposizione, almeno parziale, di modalità e

contemporaneo

Non a caso la critica nel tempo ha proseguito e approfondito costantemente l’indagine sul binomio Pascoli-D’Annunzio, spesso proprio cercando di individuarne eventuali tracce nel Novecento. Così se Edoardo Sanguineti nella sua einaudiana Poesia del Novecento proietta con decisione i due verso il XX secolo, Pier Vincenzo Mengaldo, nell’altrettanto celebre antologia mondadoriana Poeti del Novecento, li esclude facendoli stazionare inequivocabilmente nell’Ottocento. Ulteriori e rinnovati sti-

nato Aymone sui Nuovi poemetti (Mondadori) confluito in un’edizione scrupolosamente annotata della silloge pubblicata anni addietro e in certa misura ancora insuperato. Con il suo lavoro si è potuto disporre per la prima volta di un commento di vastissimo respiro per una raccolta che costituisce ideale e materiale prosecuzione dei Primi poemetti. Conducendo il lavoro con un assiduo confronto sugli autografi, Aymone ha individuato la fittissima e raffinata trama di sostegno di quest’opera. Attraverso il suo commento riconosciamo lo scrupoloso metodo di lavoro, gli orizzonti culturali e i legami con la poesia coeva, italiana e non, del Pascoli. Di fronte a lavori come questi, dunque, saldamente fondati sull’assoluto rigore analitico, è più che lecito ritenere che l’esegesi abbia tanti strumenti di rilievo. La poesia di Giovanni Pascoli arde con ancora maggior forza dinanzi l’occhio del lettore contemporaneo. Una poesia che per Pascoli è luce ma, soprattutto, persona: ecco forse il primo e più forte segnale d’attrazione verso la sua opera. Pascoli lo rende chiaro al termine di un itinerario contorto e di un inno, La poesia, cui teneva tanto da volerlo porre come apertura della sua opera omnia o, come scrisse a De Carolis, ri-

moli per l’esegesi pascoliana arrivano dai lavori di Mario Pazzaglia: l’accurata monografia pubblicata dalla Salerno Editrice sul poeta e due volumi di Poesie ne sono il portato più recente. Una nota introduttiva apre le singole sillogi, inquadrandole nel complesso dell’opera pascoliana e individuandone le peculiarità più salienti. Il commento è essenziale ma puntuale, e nonostante la dovuta brevitas l’annotazione del curatore rivela al lettore i tratti essenziali della poetica e dell’articolato e complesso universo simbolico pascoliano. Altrettanto rigoroso il lavoro di Re-

cavarne un emblema grafico che gli appartenesse. L’incipit suona «Io sono una lampada ch’arda soave». Non sfugge certo il valore ottativo della declinazione verbale del primo verso, un congiuntivo. Pubblicato dapprima in rivista nel 1898 e poi posto in apertura dei Canti di Castelvecchio, datati 1903, l’inno spicca da subito per un’evidente esplicitazione di poetica e per quella misura del novenario che rappresenta l’identità musicale dei Canti. Un metro quasi narrativo, descrittivo, che sembra regalare all’intera opera una sorta di cadenza meditativa, come se l’andamento in-

funzioni attribuite alla poesia. Con un po’ d’azzardo critico si potrebbe allora considerare uno degli sviluppi della nostra lirica novecentesca su un asse Pascoli-crepuscolari-MontaleSereni e Linea lombarda (di contro a quella, non sempre in aperta opposizione, ravvisabile in D’Annunzio-Futuristi-Ungaretti-Gruppo ’63).

calzante di questo ritmo derivasse da una mente sognante e contemplativa capace di generare pensieri travestiti e poi liberati sotto forma di immagini e suoni. Se non è un’apertura alla prosa poco ci manca e Pascoli, da gran maestro di retorica, sa adattarli con sapienza ma anche spezzarli. E la rottura del ritmo e della sintassi significano tout-court la rottura dell’ordine razionale delle cose. Agli inizi del Novecento non era certo da poco accantonare la solida certezza dell’endecasillabo, non farsi prendere dalla tentazione dei primi versoliberisti e costruire su un verso comunque nobile quel tentativo, riuscito, di rinnovarsi: «la letteratura ha certo bisogno di sveltirsi», affermò Pascoli, forse una necessità anche odierna.

Ma quello che appare profondamente mutato nella poesia pascoliana è il rapporto tra l’io e il proprio mondo, non più solido e sicuro di sé ma in balìa di un confronto serrato e problematico con l’inconnu. In Pascoli si fa sempre più forte il richiamo dell’irrazionale e in poesia mescola le carte: le diverse modalità del linguaggio possono intrecciarsi, o devono farlo, ed essere orchestrate per assecondare questa spinta. Una dinamite in mani non poi tanto inconsapevoli, per adottare un aggettivo caro a Giacomo Debenedetti e al suo ancora insuperato Pascoli: la rivoluzione inconsapevole (Garzanti) ma invece capaci di superare la separazione tra evocazione e lingua. Come? Chiamando le cose a parlare ed estendendo il diritto di cittadinanza poetica a tutti gli elementi della realtà. Dopo di lui si può tranquillamente far poesia con le agavi e gli acanti, come con la pimpinella e i rosolacci e Pascoli vive nel cuore dell’oggi per quel persistere di una conradiana linea d’ombra dove la luce sembra far fatica a distaccarsi, quasi ne resta invischiata. Siamo, insomma, ben lontani dalla clarté razionalista e così prossimi al nostro contemporaneo Essere che quasi ci spaventa la capacità preveggente di Giovanni Pascoli se non sapessimo che questa è semplicemente la forza distintiva della vera poesia.


MobyDICK

cinema

di Anselma Dell’Olio n ragazzo di 27 anni con un buon lavoro, una bella fidanzata, e in ottima forma, scopre di avere un tumore maligno lungo la spina dorsale: è una commedia. La trama di 50/50 fa venir voglia di rifugiarsi nel primo cinepanettone italo-becero, ma sarebbe un errore. Del regista Jonathan Levine, abbiamo apprezzato il giocoso, strambo Fa la cosa sbagliata (The Wackness, premio del pubblico a Sundance). È la storia di un teenager solo e isoltato, a Manhattan d’estate. Frequenta un bizzarro psicoanalista (Ben Kingsley) che lo analizza in cambio di sacchetti di marijuana, mentre il ragazzo cova una cotta per la figliastra di lui. 50/50 è basato sulla vita vera di Will Reiser, lo sceneggiatore: da giovane adulto gli è stato diagnosticato lo stesso rarissimo cancro, un fulmine a ciel sereno. Reiser l’ha scritto con Seth Rogen, il suo migliore amico nella vita e nel film. All’epoca i due comici scrivevano per l’esilarante Da Ali G Show, commedia-culto che ha lanciato la carriera di Sacha Barron Cohen (Borat, Hugo). 50/50 racconta l’odissea di Adam (Joseph Gordon-Levitt (Mysterious Skin di Gregg

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Araki), della fidanzata Rachael, del suo amico Kyle (Rogen) e della psicologa Katherine (Anna Kendrick, Tra le nuvole). Rachael è Bryce Dallas Howard, che a essere antipatica ci riesce bene, come in The Help, ma non è all’altezza della sua quasi sosia, Jessica Chastain (Tree of Life, The Debt, The Help). La reazione di Racheal alla malattia è di simulare compassione per Adam e poi ferirlo nel peggiore dei modi. Anjelica Huston (brava nonostante un’orrenda parrucca) è la madre devastata di Adam, che lui tiene a distanza. Regista e autorl colgono bene la comicità in agguato nella tragedia più nera, con effetti delicati e spiritosi. Quando Kyle, sempre a caccia di pischelle, sfida Adam a sfruttare la malattia per intenerire il cuore grande delle ragazze, c’è il profumo della verità. Il film s’insinua sotto la pelle, acuto, buffo e commovente. Da vedere.

Quasi amici (Les intouchables, diretto da Eric Toledano e Olivier Nakache), campione d’incassi in Francia, ha punti in comune con 50/50. Di nuovo ci troviamo immersi nell’umorismo pronto a esplodere persino nel disgraziato destino di Philippe, un facoltoso aristocratico tetraplegico (François Cluvet). Ridotto all’immobilità totale da un incidente di deltaplano, l’uomo è incapace di qualsiasi movimento autonomo. Amante di sport estremi e del vivere pericolosamente, cambia spesso badante perché insofferen-

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Ridere della malattia? Si può fare...

“50/50” e “Quasi amici” raccontano con commovente ironia le storie vere dello sceneggiatore Will Reiser, affetto da una rara forma di cancro, e di un amante di sport estremi ridotto all’immobilità totale. Poi c’è il fenomeno Gina Carano, da non perdere in “Knockout” di Soderbergh

te e anticonformista. Lo incontriamo mentre assiste ai colloqui con una serie di badanti di professione, mentre sciorinano le nobili intenzioni che li portano a dedicarsi alla cura di disabili gravi. Poi esplode sulla scena Driss (Omar Sy, una rivelazione), un omone di colore che arriva dritto dalle banlieus. Un marpione nato, Driss è reduce da qualche mese al fresco per furto, e la brava mamma faticona è stufa delle sue continue disavventure con la legge, la cronica disoccupazione, temendo la pessima influenza del suo esempio sui fratelli più piccoli. Sy ha un’ingombrante fisicità, alleggerita da un passo leggero da boxeur. Il suo personaggio è un simpaticissimo malandrino, dedito al divertimento e allo sfruttamento degli emolumenti statali. Si presenta baldanzoso, e chiede solo che Philippe o la sua assistente gli firmi un documento di presenza al colloquio, naturalmente «respinto nonostante le sue ovvie qualità, blablabla». Così può continuare a prendere il sussidio di disoccupazione. La vitalità e la sincerità di Driss conquistano Philippe, che lo assume all’istante, uno choc tremendo per l’afrofrancese innamorato della libertà e del fancazzismo. La premiata ditta dei fratelli Weinstein ha già comprato il film originale e i diritti per un remake americano. Anche questa è una storia vera, e a fine film vediamo gli originali di Philippe e Driss. Questo buddy-movie sui generis ha irritato il critico di Variety, che sente puz-

za di stereotipi razzisti. È un giudizio politicamente corretto: la complicità e l’evolversi dei due personaggi così diversi e diversamente bisognosi, danno spessore a una commedia senza un attimo di noia, che fa molto ridere. Da vedere.

E ora per qualcosa di completamente diverso, come direbbero i Monty Python. Knockout - La resa dei conti, è un action thriller che per una volta piacerà moltissimo ai maschi e ancor più alle femmine. Il fenomenale Steven Soderbergh (Palmarés a Cannes per il suo debutto, Sesso, bugie e videotape, e quattro Oscar per Traffic) si è cimentato con molti generi diversi, dalla pura confezione d’intrattenimento (la serie di Ocean’s 11) fino a piccoli film d’essai a basso costo. Qui si cimenta in una spy story, con al centro un’autentica campionessa di arti marziali miste, Gina Carano. Spia di punta delle operazioni coperte della Cia, Mallory Kane (Carano) è stata falsamente incriminata di malefatte da qualcuno all’interno delle «operazioni speciali». Ora vuole scoprire chi l’ha tradita, vendicarsi e ripristinare il suo buon nome. Intanto è inseguita da assassini del suo stesso calibro e mestiere. I suoi incontri-scontri con una serie di sicari toglie il fiato per la furiosa genialità. Niente controfigure per questo fenomeno di femmina: bella, sensuale, fisico sensazionale. È più che convincente grazie a uno dei migliori registi di attori professionisti e non in circolazione. (Vedere per credere il suo low-budget The Girlfriend Experience, affascinante storia di una squillo d’alto bordo che ha per protagonista un’attrice dilettante, di mestiere escort). Unico accorgimento tecnico è la voce di Carano, modificata elettronicamente per renderla più calda. Accanto ad attori veri come Michael Fassbender, Michael Douglas, Ewan MacGregor, la debuttante tiene botta (figurativamente e letteralmente) e non sfigura paragonata a questi eccelsi professionisti. Le lotte feroci, splendidamente coreografate, tra Mallory e i suoi aguzzini incollano allo schermo. I 94 minuti volano, la soddisfazione garantita. Da non perdere. N.B. È uscito anche Hysteria, l’imperdibile commedia sull’invenzione del vibratore, presentato all’ultimo festival del cinema di Roma. Per le donne è da non perdere; per i maschi è obbligatorio.


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intoretto è Venezia anche se non dipinge Venezia» scrisse Jean Paul Sartre giunto per la prima volta nella città lagunare negli anni Quaranta e subito folgorato dalla tempra di Jacopo Robusti, figlio di un tintore, al quale deve il soprannome con cui passerà alla storia, cresciuto in mezzo ai colori che gli ispirarono in fretta il sogno della pittura. Il legame, il collante che salda l’artista ai luoghi in cui nacque, nel 1519, e morì, nel 1594, trascende il puro dato biografico, e “Venezia parla” nelle sue creazioni attraverso un lungo elenco di corrispondenze. Intanto, Tintoretto è Venezia perché il suo pennello pervade in modo capillare la topografia di campi e canali, di chiese e scuole, insinuandosi, grazie anche a un’intraprendenza ai limiti della correttezza, nei centri più prestigiosi della città. E qui Tintoretto, a differenza di altri colleghi più vagabondi e proiettati anche fuori dai confini della laguna, circoscrive il proprio raggio d’azione e, ad eccezione di alcune commissioni da parte dei Gonzaga di Mantova, per la Serenissima realizza quasi la totalità dei suoi capolavori. Di veneziano c’è poi un’evidente teatralità della sua pittura, pensata come un palcoscenico di scenografie affollate e di azioni concitate. Lo stesso metodo di lavoro di Tintoretto è intriso di teatralità, per quell’abitudine di allestire, in un laboratorio

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il paginone

MobyDICK

Alle Scuderie del Quirinale, una monumentale mostra curata da Vittorio Sgarbi ci offre un percorso di quaranta opere del Tintoretto. Un’occasione per riscoprire la rappresentazione sacra, allegorica e mitologica dell’artista tico titano dell’arte, ora presentato al pubblico con un’importante esposizione alle Scuderie del Quirinale di Roma, curata da Vittorio Sgarbi. Circa quaranta le opere del maestro: due celebri autoritratti, quello giovanile dal Victoria and Albert Museum di Londra e quello senile dal Louvre di Parigi, che aprono e chiudono un percorso di capolavori tra i quali Gesù tra i dottori dal Museo diocesano del Duomo di Milano, Il Miracolo dello schiavo, La madonna dei Tesorieri, Il trafugamento del corpo di San Marco, dalle Gallerie dell’Accademia, le due versioni dell’Ultima cena realizzate per San Trovaso e San Polo, Susanna fra i vecchioni dal Kunsthistorisches di Vienna, La deposizione nel sepolcro, che lascia la chiesa di San Giorgio. Prestiti dai maggiori musei del mondo che illustrano la produzione sacra, allegorica e mitologica, la formidabile ritrattistica dell’artista veneziano e, con un’ulteriore sezione, gettano

Prima di dipingere, preparava le tele con un colore scuro. Il punto di partenza verso un chiarore discontinuo, che irrompe a lampi con sorgenti di luce segreto e a lume di candela, piccole scene tridimensionali con figure in cera, o di sospendere i modelli alle travi del soffitto per studiarne gli scorci dal basso. Un’umanità tipicamente veneziana vive inoltre nei suoi dipinti, presa dalle strade, dalle botteghe, dal porto, fissata con tratti realistici e antiretorici. E, ancora, Tintoretto è Venezia per una pittura affidata poco al disegno e molto al colore, ma lo è anche per qualcosa di liquido che increspa le superfici, per il tocco fluido e nervoso che le intacca, le consuma, per quella luce che scivola sopra e fa ondeggiare e vibrare ogni cosa.

Tintoretto ebbe una capacità lavorativa sbalorditiva, la sua attività si protrasse per circa sessanta anni, le sue tele sono monumentali. Un autenanno V - numero 7 - pagina IV

uno sguardo sulla pittura del tempo. Una rassegna attesissima, l’ultima in Italia risale al ’37, seguita circa vent’anni fa da una selezione di ritratti, che intreccia anche le suggestioni della letteratura con i testi in mostra di Melania Mazzucco, scrittrice appassionata del Tintoretto, rivisitato in un romanzo, focalizzato

sul rapporto con la prediletta figlia Marietta, anche lei pittrice, e in un’articolata biografia. Un taglio che ben sottolinea l’attenzione mai venuta meno per uno dei massimi interpreti della pittura cinquecentesca, uomo dalla personalità controversa, così orgoglioso e smanioso di successo, circondato da molte antipatie e rivalità, tra cui quella leggendaria con Tiziano, che lo cacciò via dalla propria bottega appena si rese conto di quale talento fosse dotato il piccolo tintore.

Determinante nella costruzione del profilo dell’artista fu il giudizio del Vasari, secondo il quale Tintoretto fu «il più terribile cervello che ebbe mai avuto la pittura». E «dipinto in terribile maniera che fece stupire ognuno», era, riferisce Ridolfi, pure l’autoritratto che il giovane espose in strada, all’imbocco delle Mercerie, come era consuetudine fare tra gli esordienti nella speranza di farsi notare. Qualcosa di terribile, nel senso di un racconto infiammato da una fantasia singolare, si trova certamente nella tela con Il miracolo dello schiavo, che Tintoretto realizzò nel 1548 per la Scuola grande di San Marco entrando prepotentemente nella cerchia dei protagonisti della pittura cinquecentesca. Oltre cinque metri di lunghezza per quattro e mezzo di altezza, il santo che scende sulla folla atterrita, un corpo in caduta libera con uno «scorcio maraviglioso accomodato», commenta ancora Ridolfi. L’opera rifiutava ogni precedente modello e suscitò impressioni contrastanti, a tal punto che Tintoretto dovette ritirarla dalla Sala del Capito-

Il «teatran di Vene di Rita Pacifici lo, per poi restituirla dopo le preghiere degli stessi detrattori. L’arte del Tintoretto era, in sintesi, tutta qui, nei riferimenti al plasticismo di Michelangelo, «la tentazione della scultura», l’ossessione della pesantezza, dirà Sartre, nella ricerca degli effetti chiaroscurali, nella rapidità d’esecuzione che gli procurerà tante critiche e lascerà qualcosa di non finito nei dettagli, nel farsi interprete di una religiosità popolare suscitando vera commozione. Quando quasi quindici anni più tardi, dopo le Storie della Genesi per la Chiesa della Trinità, dopo i lavori per la Chiesa della In queste pagine, le opere del Tintoretto: “La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”; “Susanna e i vecchioni”; “Autoritratto”; “San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura”


In memoria La via della spada è quella della Croce

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ante» ezia Madonna dell’Orto con la celebrata Presentazione della Vergine al Tempio, e tante altre imprese decorative, l’artista tornerà alla Scuola Grande di San Marco con tre tele, tra le quali Il trafugamento del corpo del santo, l’impeto narrativo non è mutato, anche se Tintoretto ha modificato le sfolgoranti gamme chiare della tavolozza, scoprendo che alle sue favole drammatiche ben si addicono l’ombra e le tenebre.

È stato accertato che Tintoretto preparava le sue tele, prima di dipingerle, con un colore scuro. Le imbrattava, le cospargeva di oscurità. Il punto di partenza verso un chiarore discontinuo, che irrompe a lampi, strappato al buio attraverso diverse sorgenti di luce. È quanto l’artista mette a punto nell’immenso ciclo per la Scuola grande di San Rocco, il regno di questa pittura notturna, declinata in più di cinquanta tele, l’opera che riassume l’estetica, lo slancio vitale, il profondo senso del sacro e anche la smisurata ambizione del maestro veneziano. È un’impresa che attraversa gran parte della vita del

Robusti, iniziata nel 1549 con l’impressionante San Rocco risana gli appestati, destinato alla Chiesa, proseguita nel 1564 all’interno della Scuola, bruciando sul tempo gli altri concorrenti con la donazione di una tela già finita, al posto del consueto bozzetto da presentare in concorso, e portata avanti fino al 1588 con un susseguirsi di straordinarie interpretazioni dei temi della vita del Santo, della Passione di Gesù, dell’Antico e Nuovo Testamento: San Rocco in prigione, La fuga in Egitto, il Cristo davanti a Pilato, la Crocifissione, le toccanti Santa Maria Egiziaca e Santa Maria Maddalena. Frammenti esemplari in mostra, quest’ultime, dell’inconfondibile cromatismo e dell’evoluzione stilistica compiuta dall’artista, sempre più ispirato da una tensione che scuote le forme, che si fanno livide e allungate oppure minuscole e immerse in paesaggi dilatati e misteriosi. Un sentimento della natura proprio della tradizione veneta ma esasperato, condotto dal pittore verso una dimensione irreale e intima. Siamo lontani dall’equilibrio compositivo del rinascimento, dalle epopee solenni di Tiziano o dalle atmosfere serene del Veronese.Tintoretto è autore tormentato, lirico, di quell’“assoluta potenza pittorica”che tre secoli dopo toccherà le corde dei romantici, primo fra tutti Ruskin per il quale è al di sopra di tutti i veneziani e dello stesso Michelangelo, dando inizio alla riscoperta di una sensibilità sempre più apprezzata dai contemporanei.

Stesso pathos, stessa accesa immaginazione si ritrovano nelle tante storie profane del maestro veneziano, dai dipinti per il soffitto Pisani, con le scene dalla forte audacia prospettica di Apollo e Dafne e Deucalione e Pirra, (qui in mostra dalla Galleria estense di Modena) a Susanna e i vecchioni, capolavoro della maturità, giocato sul contrasto del nudo luminoso che esce dalla penombra del giardino, dal ritmo vorticoso di San Giorgio che uccide il drago, al dinamismo esasperato del Ratto di Elena che Velasquez acquisterà per il re di Spagna. Anche nei numerosi ritratti eseguiti per la clientela veneziana, Tintoretto dà prova, oltre della consueta rapidità che lo portò a chiudere quello commissionato dal doge Girolamo Priuli in meno di un’ora, come ricorda l’amico Andrea Calmo, di uno sguardo non convenzionale e di una viva capacità di penetrazione. È stato detto che i suoi personaggi invitino «ad un colloquio lo spettatore». Certamente, meno alteri e distanti di quelli del Vecellio, gli anonimi gentiluomini in pelliccia, o

i procuratori, i senatori, le cortigiane, fanno balenare una più sfumata interiorità e quelle «intermittenze, quei sussulti dell’anima» che costituivano il rovescio inquietante delle belle pagine del cinquecento veneziano. La gravissima epidemia di peste che sconvolse la città, la minaccia dei turchi, «la miseria dietro lo splendore dei fondachi». L’umanità che affiora dalle tele ormai quasi monocromatiche del Tintoretto, è talvolta più nuda, segnata dalla condizione dell’essere vecchi, come si legge nei ritratti di anziani che l’artista realizzò frequentemente negli ultimi decenni della sua attività, quello di Vincenzo Morosini, di Alvise Cornaro, dell’«amicissimus» Jacopo Sansovino. Come l’immagine di sé lasciata verso la fine della propria vita, portata in Francia e copiata egregiamente da Manet che l’ammirò moltissimo, dove Tintoretto non mostra né tele né pennelli, né più la giovanile passione ma solo i suoi occhi spenti e sprofondati nel volto eroso dal tempo.

Tintoretto è pittore visionario, è tra la schiera di coloro che scavano nella fisicità del reale cercando di riportarne a galla le fibrillazioni più nascoste. Per questo, riferisce Sartre nelle sue riflessioni (raccolte nel saggio Tintoretto o il sequestrato di Venezia, Marinotti edizioni), pure Cezanne se ne invaghì è lo chiamò, semplicemente, «Il pittore». Anche le opere dell’estrema stagione creativa, avviate quando l’artista aveva superato i settant’anni, il ciclo per la Chiesa di san Giorgio, con Gli Ebrei nel deserto, ancora un’Ultima cena, dagli intensi effetti luministici e l’accorata Deposizione nel sepolcro confermano questo linguaggio rivoluzionario che “tritura” e trasfigura ciò che vede, scivolando oltre il manierismo. Proprio alla Deposizione, il pittore lavorò prima di morire, dopo quindici giorni di febbre. Si racconta che avesse lasciato disposizioni precise per essere sepolto, accanto alla figlia nella Chiesa della Madonna dell’Orto, soltanto dopo tre giorni, come gli antichi sovrani orientali.Tiziano era scomparso da quindici anni, Veronese da sei. Tintoretto, alla guida della bottega insieme al figlio Domenico, era diventato, nel frattempo, anche il pittore ufficiale della Serenissima lasciando in Palazzo Ducale tante altre decorazioni compreso Il Paradiso, considerata la tela più grande del mondo. La smania di affermarsi, la brama di cimentarsi con gli antagonisti, doveva essersi ormai placata, ma non l’orgoglio di appartenere a una stirpe fuori dal comune.

di Riccardo Paradisi accio parte di quella che generazione non ha fatto in tempo a perdere la guerra» diceva di sé Fausto Gianfranceschi - morto a 84 anni lo scorso 19 febbraio a Roma. «Eravamo sconfitti - scriveva Fausto Gianfranceschi in un libro omaggio a Julius Evola, Testimonianze, curato da Gianfranco de Turris - e tuttavia decisi a non rinunciare al nostro modo di percepire la realtà: un elementare senso dell’onore, che ci impediva di apprezzare la maniera in cui il nostro paese aveva cambiato fronte durante la guerra. Non potrò mai dimenticare l’umiliazione sofferta allo spettacolo dell’entrata a Roma delle truppe americane quando la folla applaudiva i vincitori e si azzuffava ubriaca al lancio di sigarette e cioccolata». In queste parole e in queste immagini c’è già in nuce la biografia intellettuale ed esistenziale di Gianfranceschi. Il percorso esistenziale e culturale di un cattolico di destra, di un uomo di carattere e di gusto, segnato da un tratto interiore fiero e aristocratico, mai supponente e arrogante e anzi incline a una tagliente ironia. Un’equazione personale nobile alla quale la vita riserverà molto. Nella gioia e nel dolore. Se Gianfranceschi non ha fatto in tempo a perdere la guerra ha però avuto tutto il tempo di subire il dopoguerra. Un periodo di faziosità cieca che ha impedito a telenti come il suo di avere un più vasto pubblico, riconoscimenti maggiori di quelli che pure ha avuto malgrado l’estraneità ai circuiti ufficiali del sistema culturale. Gianfranceschi è stato un saggista e narratore di rango. Nei suoi romanzi si riflettono criticamente le contraddizioni della società italiana del dopoguerra, dagli anni del boom fino al dopo Tangentopoli. Fra questi Diario di un conformista (1965) e Giorgio Vinci psicologo (1983). Come critico letterario ha aperto prospettive inedite su Dino Buzzati, di cui era anche amico, contribuendo alla demolizione di quel luogo comune che era il kafkismo buzzattiano. Fra i suoi saggi più si-

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gnificativi L’uomo in allarme (1963), Svelare la morte (1980), Stupidario della sinistra (1992), Il Reazionario (1996). Non che la vita, assieme a prove durissime come la morte di due figli - prima Gianni e poi recentemente Federica - non sia stata anche generosa con lui. Stenio Solinas in un articolo di celebrazione di Gianfranceschi, ricordava come il destino avesse dato a Fausto una bella moglie, una bella casa, la passione per il mare e le cavalcate, un gusto elegante, un’intelligenza profonda e brillante, un carattere forte e fiero. Lo stesso che gli ha consentito di affrontare vitalisticamente una lunga e tremenda malattia - il microcitoma polmonare - che secondo i medici avrebbe dovuto ucciderlo in cinque mesi e alla quale Gianfranceschi ha invece resistito virilmente per oltre quindici anni. Continuando a fare le cose che gli piacevano, compreso fumare. Entrato al Tempo di Renato Angiolillo nel 1956, Gianfranceschi ne ha diretto per vent’anni la Terza pagina con lo sguardo strategico dell’organizzatore culturale, portandovi le collaborazioni di Augusto Del Noce, Mario Praz, Ettore Paratore, Rodolfo Wilcock; e dei giovani Franco Cardini, Paolo Isotta, Marcello Veneziani. Un’attività giornalistica e intellettuale intensa che non lo ha mai distolto però dalla meditazione religiosa e dall’introspezione esistenziale condotta alla luce del magistero tradizionale cattolico. «Sono un perdente, qualcuno deve pur farlo», ha scritto in uno dei suoi aforismi Gianfranceschi ricordando il suo debole per le cause perse. È la rivendicazione guascona d’un combattente cristiano per cui si deve stare dalla parte giusta anche se non paga, che occorre sacrificarsi anche quando non conviene. La via della spada è anche quella della Croce. È la via più dura e più stretta ma è l’unica che apre le porte del cielo. È la via sulla quale Fausto Gianfranceschi ha camminato fino alla morte. L’inizio della vita vera per chi ha combattuto la buona battaglia e conservato nel cuore la fede.

Ricordo di Fausto Gianfranceschi, scrittore e giornalista. Un libero pensatore, fiero e ironico, capace di andare controcorrente


Teatro L’antieroismo di un grande

MobyDICK

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di Enrica Rosso

arte da far far away - per dirla alla maniera di Shrek - l’idea di Personaggi, interpretato da Antonio Albanese e scritto con la complicità di Michele Serra e la collaborazione di Piero Guerrera, Enzo Santin e Gianpiero Solari che ne firma anche la regia. Era il lontano 2004 quando Albanese presentò a Raitre un programma che titolava Non c’è problema, divenuto l’anno successivo uno spettacolo teatrale - Personaggi appunto, nella stessa formula con cui Albanese, tra una regia lirica per il Teatro alla Scala di Milano e alcune ricche incursioni cinematografiche nei film di Avati, Veronesi, Soldini, Archibugi, oltre a un altro spettacolo teatrale (sempre scritto con la stessa squadra) e un’ospitata a Che tempo fa?, cavalca ancor oggi la scena. Nel frattempo ha girato con la regia di Manfredonia il suo ultimo film Qualunquemente che ha sbancato i botteghini. Insomma questo è l’uomo: vulcanico, eclettico, inesauribile. Leccese, classe ’64, forte di un diploma alla Paolo Grassi di Milano e una frequentazione teatrale che va da Cechov a Pinter passando per Brecht e Camus, l’attore ha negli anni elaborato personaggi di spessore, studiati nei minimi dettagli. Non le solite macchiette con battute «mordi e fuggi», da comico televisivo - anche se a Mai dire gol deve molto - ma esseri umani veri, a tutto tondo che non fanno solo ridere. Il pubblico romano che lo ha accolto alla prima gli ha tributato

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Jazz

eclettico

un affetto e un calore davvero particolari: da subito partecipe e pronto a salutare i suoi antieroi, tutti sfrontati, esemplarmente dediti a una causa, a volte lirici. Ha le idee chiare sul suo percorso, motivazioni forti che lo sostengono: «Vorrei che dopo un mio spettacolo tutti si sentissero un po’ meno soli, un po’ più allegri, un po’ più forti, vorrei abbracciarli tutti. La risata è un abbraccio, un bisogno che ci sarà sempre». In quest’ultimo lavoro la scrittura scenica sviluppa il testo come un nastro che srotolandosi fa comparire e scomparire i vari personaggi, la regia aggiunge solo gli elementi necessari a raccordarli. Apre i giochi l’Ottimista e subito in platea si scatena come un’onda, la ridolite. Il ministro della Paura poi, monolitico e con tanto di mascherina, entra in scena su una poltrona radiocomandata modello Phantom of the Paradise de noantri con buona pace del buon De Palma: irresistibile.

spettacoli

Alex Drastico, il più amato dagli italiani - forse per via delle mutandine di vipera - ha una presa formidabile. Anche Perego agguanta, nonostante esponga alcuni punti di vista decisamente impopolari seppure veritieri. Cetto La Qualunque - con pulpito incorporato ricoperto di pilu - sbanca con le sue promesse pre elettorali e il buon Albanese fatica ad andare avanti per via delle risate contagiose ormai inarrestabili. A Epifanio Girardi, sempre più stretto nel suo cappottuccio dantan con le maniche troppo corte, perdutamente innamorato della sua piantina di valeriana, l’ultimo dei romantici nel lancio degli infiniti bacini con effetti speciali, è affidato

un testo poetico e un poco surreale punteggiato dal lancio dei pelucchi che strappa dalla tasca come fossero i petali di una margherita per un insolito m’ama non m’ama. Conclude un memorabile Sommelier che, stante la mole, dal vivo risulta più dotato della Fracci, più fluido del mercurio, più plastico di Michael Jackson. Insomma: vota Antonio vota Antonio vota Antonio….

Personaggi, Auditorium della Conciliazione di Roma, fino al 3 marzo, info: tel. 06 44258270, info@conciliazionelive.com

zapping

IL ROCK VISSUTO di Courtney Love di Bruno Giurato

ella canzone Mono canta: «Quando dicono che il rock è morto/ probabilmente hanno ragione», ma a tenere alta la bandiera della trasgressione ci pensa lei. Courtney Love, vedova Cobain e punkettona della più torbida acqua di San Francisco. Gli infortuni in cui è incappata negli ultimi due anni sono leggenda. A cominciare da Twitter, social media da lei utilizzato spesso per litigare a morte con chi la criticava. Ora la vedova Cobain è accusata, secondo documenti ottenuti dal sito specializzato TheFix, d’aver causato la morte del gatto e del cane di casa. Il felino ci ha rimesso la pelliccia, come avrebbe riferito Frances Bean, figlia di Courtney e Kurt Cobain, rimanendo strangolato in un ammasso di stoffe, rifiuti e plastica che la Love aveva lasciato ammonticchiato con negligenza. Il cane invece sarebbe morto per aver ingerito le pillole della cantante. «Courtney si droga da sempre», avrebbe detto Frances Bean. «Praticamente vive solo di Xanax, Adderall, Sonata, Abilify, zucchero e sigarette. Non mangia quasi mai. Spesso si addormenta a letto mentre fuma». La Love ha vinto la causa che la opponeva alla padrona di casa Donna Lyon e non sarà sfrattata come pretendeva invece la landlady. La vedova Cobain risiede in una palazzina del 1827, che si trova nella zona newyorkese del West Village, ed era stata accusata di morosità e danni. Insomma, la biografia della nostra è la testimonianza che il rock è vivo. Quando ai Grammy vediamo una star tirata e stanca come Madonna che colleziona finti scandali, o una come Lady Gaga che esce sui giornali un giorno sì e l’altro pure perché ha i tacchi delle scarpe a forma di mentula, pensiamo che in qualche luogo del mondo c’è in giro una che vive rock, cioè vive male, un po’ nello stile di Cocksucker blues, il film censuratissimo dei Rolling Stones. Vecchia cara - vera - trasgressione. Insomma, meno male che Courtney c’è.

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Date a Thelonious quel che è di Thelonious

n un articolo pubblicato a novembre 1958 sul primo numero della rivista Jazz Review, il musicista e musicologo Gunther Schuller divideva l’opera di Thelonious Monk in tre periodi: uno di formazione, un secondo nel quale le componenti stilistiche venivano copiosamente alla luce, documentate principalmente nei dischi Blue Note e Prestige, e infine un terzo di consolidamento e maturità. Schuller però nella sua opera successiva, The Swing Era, pubblicata in Italia da Edt in tre volumi - I grandi maestri, I grandi solisti e Le grandi orchestre nere - non citava Monk solista, ma solo compositore in relazione alle opere di altri musicisti a lui precedenti, Jelly Roll Morton e soprattutto Duke Ellington. Bisognerà attendere gli anni Ottanta perché la figura e l’opera di Monk venisse analizzata da Yes Buin, Jacques Ponzio, François Postif e Laurent De Wild in tre volumi pubblicati fra il

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di Adriano Mazzoletti 1988 e il 1996, anche se in questi casi il ritratto offerto era solo parziale e in parte distorto: quello di un genio eccentrico, di un uomo mentalmente disturbato, di un musicista primitivo e naïf. Con il nuovo libro Thelonious Monk. Storia di un genio americano di Robin D.G. Kelley pubblicato nel 2009, edito in Italia da Minimum Fax, si ha finalmente una biografia che - come è stato scritto - «rimette finalmente nella giusta prospettiva critica la vita e la musica del grande pianista-compositore. Grazie a un lavoro di ricerca durato più di dieci anni, durante i

quali l’autore ha avuto accesso per la prima volta ai documenti e ai nastri privati della famiglia Monk, scopriamo un Thelonious diverso: un musicista pienamente consapevole della propria arte, determinato a lottare senza compromessi per difendere la sua visione musicale; un individuo sensibile e spiritoso, che malgrado gli eccessi comportamentali conquistava immancabilmente la stima e la simpatia del prossimo; un uomo attentissimo alla realtà sociale, che nella musica vedeva anche il mezzo per affermare la possibilità di un mondo mi-

gliore». Anche Chick Corea, a proposito del nuovo volume si è espresso in termini lusinghieri: «Una ventata d’aria fresca tra le biografie dei nostri leggendari musicisti jazz». Un’opera dunque di grande importanza. Ma chi era in realtà il musicista Thelonious Monk? Era con Parker e Gillespie uno degli inventori del bop, oppure altro ancora? Di lui Miles ha detto: «Fu Parker a presentarmi a Monk. L’uso delle pause nei suoi assolo e la sua capacità di manipolare la progressione degli accordi più strani, mi sconvolse. Io dissi sorpreso: “Ma cosa sta facendo costui?”. L’uso che faceva Monk delle pause ha avuto sicuramente una grande influenza sul mio modo di suonare». E ancora: «Monk poteva sembrare sicuramente un po’ strano alla gente che non lo conosceva, così come lo sono diventato io più tardi per la gente che non mi conosce». Tutto questo ed altro viene riportato in questa nuova biografia.


Personaggi

MobyDICK

libri

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Il Gattopardo alla scoperta del Nord Quel che vide e pensò Tomasi di Lampedusa attraverso le lettere - quasi dei bozzetti in bilico tra Chesterton e Dickens spedite dai suoi viaggi a Londra, Parigi, Berlino e Genova. Una ricostruzione affidata da Salvatore Silvano Nigro alle pagine del suo “Il Principe fulvo” di Pier Mario Fasanotti mabili con i fantasmi, figuriamoci se le apparizioni sono avvolte da fosforiche luminescenze. Eccentrici ma sempre col passepartout concesso da una biblioteca ricca e lungamente consultata. Poliglotti ed eruditi, i fratelli Piccolo, baroni, cugini di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, accolsero nel 1967 una troupe televisiva. Si aprirono così le porte della loro villa di Capo d’Orlando. Lucio, poeta e «musico» e mezzo occultista, familiariarmente contiguo alle anime di letterati. E poi Casimiro, pittore che impastava il colore e il fiabesco. Accadde in Sicilia, al limite estremo dell’isola del Gattopardo, confinante però con un mondo visibile a pochi, mitologico ed enorme. Le telecamere curiosarono attorno a una cassapanca, «irta di chiavistelli». Dentro c’erano le cosiddette «lampeduse», vale a dire le lettere che Giuseppe Tomasi aveva spedito dal nord (Londra, Parigi, Berlino, ma anche Genova). Lucio: «Un giorno qualcuno le leggerà e si divertirà un mondo». Le aveva trovate l’anno prima e allo scrittore Antonio Pizzuto confidò: «Ho ritrovato e raccolto un gruppo di lettere di Lampedusa, di molti anni addietro … di tono umoristico, alcune di carattere privato altre veri e propri bozzetti-atmosfera chestertoniana». Domanda: che farne? Entusiasmo, contatti, poi ripensamenti. Alla fine nulla, anche perché la vedova del romanziere, «carattere pessimo», decise di infilarle in un mobile della villa sulla fiumara di Naso.

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Credute disperse, ricomparvero. E da qui, da queste gustose Mémoires d’un touriste (sapore stendhaliano, senza dubbio) parte il viaggio letterario di Salvatore Silvano Nigro (nucleo di Il Principe fulvo, Sellerio, 151 pagine, 13,00 euro), eccezionale archeologo di tracce gattopardesche in quei bozzetti spediti da città fredde. E così disegna, con un linguaggio raffinatissimo e pertinente, un ritratto del Principe attraverso i riflessi, ossia spunti, pensieri e appigli a libri, quadri, confronti, del padre del ca-

polavoro che pubblicò Feltrinelli. Un Lampedusa «scrittore ancora segreto» che accosta sarcasticamente il circolo Pickwick con il circolo Bellini di Palermo, «castello di spiriti che vorrebbero essere “magni” e sono invece angusti oltre che patetici», così poco capaci di rallentare il passo agli «sciacalletti» borghesi che vorrebbero succedere ai «lioni» della millenaria possanza del Principe di Salina. Un circolo, come Lampedusa scriverà in un racconto, ove mormora gente che ha perso il «primato» e «fa scarso consumo di idee generali». Nigro osserva il wicked joke, di ispirazione dickensiana, usato dal viaggiatore siciliano. Garibaldi ha vinto, è innegabile. Ma fa stomacare la movenza dei rosicchiatori di fortune e deturpatori di tradizioni, da secoli superbamente lontane dall’avidità borghese. È un assalto al barocco, alla delicatezza stilistica nutrita da un sole antico. Dopo lo sbarco dei Mille, scorazzano i parvenu, etnia mentale che si riproduce e si ripresenta a cadenze quasi fisse: noi posteri lo sappiamo bene. La nobiltà si ritrae lasciando orme di imbarazzata e

fiera decadenza. La nuova Italia inghiotte porzioni di penisola, e cambia: ma siamo sicuri di aggiungere «in meglio»? Scrive Nigro: «Il Gattopardo è un romanzo della disperazione, rabbiosa alla fine». Il dopo-Garibaldi colleziona quadretti nauseanti: per il cattivo gusto, per la caduta dell’etica. Alla larga comunque - va detto con chiarezza - dall’insipienza del re Borbone, intrappolato in una maschera dialettale, col fiato corto e la presunzione di averlo lungo: era già sconfitto prima di perdere con le baionette. Giuseppe Tomasi in vita sua affrontò un altro cambiamento. Non camicie rosso fiamma, ma nere. All’inizio credette a Mussolini in quanto garante «dell’ordine sociale», annota l’autore. Fece un sogno e dentro ci trovò Mussolini. Il parvenu col fez trovò un ruolo «nella camera notturna della coscienza». Ma di certo non poteva durare la cotta squilibrata, soprattutto dopo aver annusato «l’irrespirabile atmosphère Nazi». No: il fascismo «era arrivato alla tragedia più sconcia». Tracce di questa nausea sono visibili, a occhi esperti, nel Gattopardo. Nigro inforca occhiali giusti quando scrive che nel Gattopardo «la palinodia troverà sintetico spazio e discreta dissimulazione»: con la derisione delle baracconate di «gale e pennacchi»; e adombrando le parate fasciste, un tempo applaudite, in una fantasia di formiche incolonnate che, attratte dal «marciume» ed esaltate dalla «gloria secolare» e dalla «prosperità futura» marciano «colme

di baldanza» verso «il sicuro avvenire». I mirmidoni. O, secondo Baudelaire, i «neri battaglioni di larve».

Tomasi di Lampedusa è intriso di scetticismo, «non ha fiducia nella Storia, nelle sue magnifiche sorti e progressive. Crede in una immobilità che si preserva “nel fondo”, al di là delle accelerazioni del tempo e degli occasionali trionfi politici». L’ha detto anche Mario Vargas Llosa: per l’autore e per il suo personaggio «la storia non si muove». Già, c’è la triste profezia d’una società identica a se stessa, «nella sua immemore divisione tra ricchi e poveri, forti e deboli, padroni e servi… varieranno i modi e le mode, ma in peggio: i nuovi capi e padroni sono volgari e incolti, senza le raffinatezze di quelli antichi». Eccolo qui l’homunculus novus: Calogero Sedàra, neo-sindaco di Salina, padre di quell’Angelica «con denti da lupatta» che sposerà Tancredi, nipote del principe di Salina dalla stazza erculea, peli fulvi e orgoglio affaticato. Il Sedàra entra nell’antro nobile. Con i soldi in tasca. Scrive Nigro: «La rivoluzione borghese saliva le scale del palazzo di Donnafugata sugli scombinati stivaletti con bottoni e dentro il frac di pessima sartoria, disconcio quanto il cilindro in testa al cafone in un verso di Eliot, del sindaco Sedàra». Il Principe fulvo è un continuo collegare immagini, dettagli e pulsioni a quel che vide e pensò Tomasi di Lampedusa nei suoi viaggi. Ma anche il prestare attenzione a coincidenze. Sparizioni, per esempio. Nel ’38 svanisce nel nulla Ettore Majorana. Nello stesso anno si promulgano le leggi razziali. Tomasi, deluso dalla pacchianata fascista che si fa violenza, scrive il racconto La sirena. Sempre nel ’38 si perde in mare il grecista Rosario La Ciura: «accoglie l’invito della sirena Lighea». Forse il subacqueo olimpo pagano dà immortalità a quel ceto che è superiore per tradizione o linfa intellettuale.


Camera con vista

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icordate Piccole donne? Naturalmente sì. Ma forse non ricordate un romanzo, Bagna i fiori e aspettami che Lidia Ravera pubblicò nel 1986, a dieci anni da Porci con le ali ispirandosi, molto liberamente, al fortunatissimo libro di Louisa May Alcott. A volte gli editori fanno qualche giusto repêchage e in questo caso si tratta di Et Al. che annuncia pure la pubblicazione, in un molto prossimo futuro, del sequel Se lo dico perdo l’America del 1988. Intanto godiamoci la leggerezza pulp, anzi pulp rosa, delle rinate sorelle March, divenute Lazzarini: Margherita, Amelia, Bettina e Giovanna, detta Giò, io-narrante che fa la parte del leone in una scatenanta ricerca in giro per il mondo del padre scomparso (causa non morte come nell’originale, ma una serie di complicati avvenimenti che sono il succo di questa nuova storia). I caratteri delle quattro sorelle, con i necessari aggiustamenti, sono rispettati. La saggia, convenzionale Meg si sposa come da copione e tutto spiega con gli strumenti della psicoanalisi, la meditabonda Beth declina la bontà in forme oriental spirituali, Amy ambiziosa e narcisista vuol fare la fotomodella o la valletta televisiva e Jo, ça va sans dire, scrive (gialli hard boiled sotto falso nome) sognando una vera affermazione, ma tutto il resto è pura fantasia novecentesca di una delle più duttili autrici italiane che qui si è misurata con «un romanzo per ragazzine» come lo definisce lei stessa nella spigliata introduzione. Solo che gli anni trascorsi dall’86 a oggi, trasformano il romanzo per ragazzine in una sofisticata commedia, con intreccio rosa-nero e linguaggio spiritoso, alla faccia di tutti i modaioli neorealismi e neoimpegni che possiamo allegramente accantonare per almeno tre/quattro ore, tante ne servono per arrivare alle ultime movimentate pagine di questa storia liscia come l’olio e rigorosamente a lieto fine.

MobyDICK

ai confini della realtà

R

A proposito di repêchage e piccoli editori, oltre a non lasciare nel dimenticatoio vecchi libri di autori italiani che i potenti dell’editoria (avevo scritto grandi, cancellando subito: specie estinta) snobbano alla ricerca sfrenata di un nuovo che la maggior parte delle volte è già superato prima ancora di uscire, parecchio lavoro c’è da fare anche sugli stranieri. Ben venuta, per esempio, la traduzione di Angelo Molica Franco e Rosalia Botindari con postfazione di Gabriella Bosco, per la casa editrice Del Vecchio, di alcuni deliziosi testi di Colette, Prigioni e paradisi, mai comparsi prima in Italia. A proposito di leggerezza, l’opera omnia della scrittrice francese è piena di brevi articoli, critiche teatrali, cinematografiche, letterarie, divagazioni varie che sia pure minori rispetto alla narrativa, sono non solo utili a capirne il temperamento, ma di piacevolissima lettura per il brio, la competenza, la passione, lo spirito di cui sono pervasi. Colette è capace di fare letteratura anche sul decorso dell’influenza, su una fetta di pane immersa nel latte da mangiare a merenda, su un bicchiere di vino bianco di ChâteauxChalon che non ha nulla da invidiare a

Le genoflessioni di Mademoiselle Coco di Sandra Petrignani un Bordeaux. Scritti fra il 1912 e il 1932 per i tanti giornali e riviste a cui collaborava, sono un autoritratto fedele della persona Colette, che ama gli animali, discute con la gatta e cura le lucertole, visita lo zoo e s’intristisce sulle bestie imprigionate, si lascia sedurre dall’elegante indifferenza di Landru al suo celebre processo e dà un ritratto superbo della sua amica Coco Chanel che paragona a uno scultore mentre drappeggia e taglia la stoffa intorno all’«angelo biondo dorato» della mannequin. Ha «una nuca divorata dai capelli neri che le crescono con un vigore quasi

nella cattività rassegnata dei leoni, e in tutto si riflette e si rivela: il mondo un grande specchio dei suoi sentimenti generosi, perspicaci, miracolosamente oggettivi. A proposito di libri che non si trovano più. Nei giorni scorsi mi sono disperata alla ricerca di Fiato d’artista. Dieci anni a Piazza del Popolo di Paola Pitagora, pubblicato undici anni fa dalla Sellerio. L’avevo letto e recensito appena uscito e poi probabilmente prestato e, quindi, come capita spesso, perduto e dimenticato. Ma poi viene il giorno che mi serve, proprio quel libricino, niente altro. Lo ricompro, mi dico,

Chanel si piegava centomila volte quando drappeggiava la stoffa intorno alla mannequin. Così la descrive Colette di cui si pubblicano testi inediti grazie a un benemerito piccolo editore. A cui fanno eco altri repêchage altrettanto benemeriti. Ma ci sarebbe ancora molto da fare… da arbusto», si piega centomila volte «con rapide genuflessioni da monaca». Lo sguardo di Colette è preciso, asciutto. Non si commuove, descrive. Non è esclamativa, è complice. Lo scoiattolo diventa un «folletto ilare», scova «serenità borghese»

e spulcio in rete. Niente. Certo ci sarebbe la rubrica di Fahrenheit «Caccia al libro», il programma di Radiotre che aiuta gli scambi di questo genere fra gli ascoltatori. Ma ho fretta e non so come rintracciare l’autrice. Così mi rivolgo all’editore

che ritrova una vecchia copia e me la manda. Mai gentilezza fu più gradita e cocciutaggine di lettore meglio premiata. Si tratta infatti (come ricordavo) di un racconto coinvolgente e utilissimo.

È la testimonianza da protagonista di un periodo esaltante, quello fra il 1958 e il 1968 fra gli artisti a Roma. Ed è anche la bella storia d’amore di un’attrice, Pitagora, e un pittore, Renato Mambor, dalla loro estrema giovinezza a una difficile, altalenante evoluzione. Seguendo le loro vicissitudini ci s’imbatte in una Roma scomparsa e si rivivono le passioni, le amarezze, i dissidi del gruppo dell’avanguardia artistica romana (Schifano, Ceroli, Festa, Kounellis…) riunitasi intorno al Caffè Rosati, meta anche di intellettuali, scrittori, giornalisti, e a due celebri gallerie, La Tartaruga e L’Attico. Sono rari in Italia libri come questi, libri testimonianza ben scritti, avvincenti come romanzi, che ti danno il sapore di un periodo, quelle microstorie che rimpolpano la Storia rendendola viva, comprensibile nelle pieghe della quotidianità perduta per sempre. Allora, mi chiedo: com’è possibile nell’epoca della riproducibilità digitale, immediata e sterminata, che un libro cada fuori catalogo e non sia disponibile anche fosse solo per un unico lettore desiderante? Perché non ci pensano almeno i piccoli editori a costruire una grande biblioteca virtuale in cui si possano ritrovare tutti i titoli possibili? E magari, previo un prezzo equo, a stampare anche un’unica copia, copertinarla in modo adeguato e spedirla al lettore? Vedo pure, in una simile operazione, un bel po’ di lavoro per giovani laureati a spasso…


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

IL POLO DELLA BUONA POLITICA (I PARTE) Quasi nessuno dei commentatori politici si è potuto sottrarre dal gioco sulla natura dell’attuale Governo in carica (tecnico e/o politico). In realtà è a tutti chiaro che dal punto di vista istituzionale è una differenziazione che non ha senso. Il Governo è sempre l’espressione di una maggioranza parlamentare e, quindi, frutto di una scelta politica. La composizione dello stesso non muta la natura dell’organo. Si tratta, pertanto, di una caratterizzazione anch’essa priva di effetti e la presenza di tecnici, in luogo di politici, sotto questo profilo è del tutto priva di significato. Addirittura potrebbe ritenersi la regola aurea. Infatti negli attuali sistemi liberaldemocratici l’elettività è la regola per la formazione degli organi legislativi, la professionalità per gli organi dell’attuazione e dell’applicazione della legge. Per comprendere quindi quello che sta avvenendo nella politica italiana, è necessario spostare l’attenzione dal Governo al Parlamento: luogo, per definizione, d’elezione della democrazia rappresentativa. Da questa visuale appare evidente la nascita di una possibile nuova prospettiva politica che, con una calzante intuizione è stata definita: il polo della buona politica. In quest’ottica il quadro potrebbe chiarirsi mettendo in luce coloro che politicamente hanno fatto la scelta di non appoggiare il Governo in carica. La Lega, l’Idv e Sel. Si tratta di schieramenti tra loro politicamente omogenei sotto il profilo della natura identitaria che li caratterizza, per la natura carismatica dei loro leader di riferimento, per una caratterizzazione particolaristica della loro offerta politica. Schieramenti sui quali è difficile contare in un momento storico in cui le scelte impongono sacrifici a tutte le categorie sociali. Non è più il tempo di porre pregiudiziali ed in quest’ottica l’assenza di una possibilità di interposizione pone i citati soggetti politici naturalmente all’opposizione. Sia ben chiaro significative opposizioni perché capaci di rappresentare una fetta importante del Paese. Per questa ragione, sopratutto qualora la ricetta “Monti”, anti-leader per eccellenza ma autorevole nella sua dimensione nazionale ed europea, dovesse allontanarci dalle rapide a cui eravamo vicini, il quadro d’insieme svelerebbe la sua piena connotazione politica. Ignazio Lagrotta C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L PU G L I A

Solo col Fattore Famiglia la riforma fiscale sarà nuova, equa ed efficace Pare che la prospettiva di una diminuzione della pressione fiscale sulla famiglia entri finalmente nel cuore del progetto del governo Monti. Questo è certamente positivo anche se si tratta per ora solo di una promessa, che per giunta si proietta nel tempo e riguarda solo i redditi più bassi. Ma è un’importante inversione di tendenza soprattutto nella scelta di legare la riduzione delle aliquote ai carichi familiari. Ma a questo punto, perché il governo non fa un passo ulteriore affidandosi a misure strutturalmente inserite nel sistema fiscale invece di affidarsi a provvedimenti spot, occasionali e straordinari? Ci permettiamo di suggerire soluzioni che si muovano nella logica imboccata dal presidente Monti ma che, sia pure in un’ottica di gradualità, incidano strutturalmente nel sistema fiscale. In particolare facciamo riferimento all’introduzione del Fattore Famiglia, già presentato alla Conferenza nazionale della famiglia con apprezzamento unanime, e alla revisione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee). Il Fattore Famiglia si presta ad una applicazione equa, graduale e flessibile. Se accompagnato da una efficace lotta all’evasione fiscale può costituire un elemento imprescindibile di una riforma fiscale equa e moderna, adatta anche alle situazioni di crisi, come quella attuale, dove una diminuzione della pressione fiscale sulle famiglie può incidere profondamente su una decisa ripresa dei consumi, sul lavoro dei giovani e delle donne, per un rilancio deciso dell’economia italiana.

Francesco Belletti - Forum delle associazioni familiari

DIO È BABBO MA NON BABBEO Assodato che non poche riviste cattoliche (o presunte tali) non vengono distribuite nelle chiese a motivo del fatto che molti sacerdoti si rifiutano di distribuire ai fedeli giornali che come ha detto Celentano fanno molta politica e zero teologia, l’argomento più gettonato andato in onda nei giorni scorsi sui media italiani aveva per argomento i Novissimi. I Novissimi, spiega la teologia cattolica, sono le cose ultime che riguardano la morte, il giudizio, l’inferno, il paradiso e il purgatorio. Nella scorsa settimana, per una singolare coincidenza, ben tre personaggi hanno parlato di quello che spetta agli esseri umani dopo la morte. Celentano ha detto che Famiglia Cristiana e Avvenire non parlano mai di paradiso; la vincitrice del Festival Emma Marrone ha vinto con la canzone “Non è l’inferno” e infine al Chiambretti Sunday Show il tradizionalista veronese Maurizio Ruggero, citando San Paolo, ha ricordato all’ex prete scomunicato Franco Barbero che i sodomiti e gli effeminati non entreranno nel regno dei cieli, bensì all’inferno. Nonostante il “novello”Savonarola scaligero abbia ricordato una banale verità delle Sacre Scritture e del Magistero, vale a dire

che l’inferno c’è ed esiste, poco è mancato che il pubblico aizzato da Platinette lo lapidasse in diretta. Ma l’ignoranza circa la sottovalutazione dell’inferno non concerne unicamente i “don Celentano” o pochi laici “superbi” che ne vorrebbero sapere più della Chiesa Madre e Maestra, ma anche una consistente fetta (se non maggioritaria) di clero che ha scambiato l’istituzione fondata da Cristo per una sorta di crocerossina laica finalizzata alla realizzazione della pace e della giustizia sociale. In realtà, la Chiesa Cattolica è stata eretta da Gesù Cristo e affidata a Pietro e a suoi successori, esclusivamente per la salvezza delle anime. Parlare, come fanno laici e preti solo di paradiso e mai di inferno e purgatorio, equivale a illudere i peccatori che le loro colpe non saranno punite. La conseguenza di tale dottrina parallela è di mandare i mancati “penitenti” tra le fiamme eterne. Predicatori da strapazzo e preti buonisti si devono convincere che Dio è si babbo, ma non babbeo.

Gianni Toffali - Verona

LA RIPRESA PARTE DALLE DONNE Le parole del presidente Monti vanno condivise in pieno perché il rilancio della no-

L’IMMAGINE

Venerdì 2 - ore 11- Università Gregoriana Piazza della Pilotta 4 - Roma CONSIGLIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL Venerdì 9 - ore 11- Camera dei deputati Auletta dei Gruppi Parlamentari Via di Campo Marzio 78 - Roma

VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Effetto serra: la terra si ribella Le nubi del nostro Pianeta stanno diminuendo in spessore. E lo fanno al ritmo di un centesimo ogni 10 anni. La scoperta è stata realizzata dalla Nasa. I risultati potrebbero avere un’implicazione determinante sul futuro del clima del pianeta. I ricercatori della University of Aucland in Nuova Zelanda hanno analizzato l’altezza delle nubi dei primi 10 anni di misure raccolte dal Misr (Multi-angle Imaging SpectroRadiometr), uno strumento che si trova a bordo del satellite chiamato Terra. L’analisi dei dati dice inequivocabilmente che l’altezza media sta diminuendo ad un tasso di 30-40 metri per decade, con una riduzione particolarmente intensa delle nubi che si formano alle più alte quote. «Anche se è ancora presto per giungere a risultati definitivi», spiega Roger Davies, responsabile della ricerca, «non è da escludere che le conseguenze possono essere particolarmente importanti se proiettate su lunghi periodi di tempo. Una riduzione consistente nell’altezza delle nubi infatti, permetterebbe alla Terra di raffreddarsi più intensamente di quel che ha fatto nel passato, riducendo così la temperatura del pianeta e rallentando gli effetti del riscaldamento globale».

stra economia parte proprio dall’inclusione delle donne nel mondo del lavoro. Servono più opportunità e, soprattutto, è necessario introdurre nel nostro sistema un grande piano di conciliazione che consenta alle lavoratrici di dedicarsi alla famiglia e contemporaneamente al lavoro, evitando di obbligarle ad una scelta. È necessario inoltre superare, anche attraverso la riforma del lavoro che l’esecutivo sta mettendo a punto, tutte quelle discriminazioni che oggi le donne sono costrette a subire: licenziamento in bianco, retribuzioni più basse rispetto ai colleghi uomini ed esclusione dai ruoli apicali.

Lettera firmata

PRONTO SOCCORSO, OLIMPIADI 2020 E GIUBILEO

APPUNTAMENTI MARZO

LECTIO MAGISTRALIS di Michael Novak “I diritti umani nell’era della globalizzazione”

LE VERITÀ NASCOSTE

Bagno refrigerante Siamo in Siberia e i signori della foto stanno andando a farsi una nuotata nel fiume Yenisei, nonostante la temperatura dell’aria si aggiri intorno ai -25°C. I nuotatori invernali o del ghiaccio - a seconda delle latitudini e delle condizioni dell’acqua in cui si immergono - sono tutt’altro che un caso isolato: si annoverano, infatti, centinaia di migliaia di praticanti in tutto il mondo

Si rivela sempre più saggia e lungimirante la decisione del presidente del Consiglio, Mario Monti, di non proporre la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020. Dopo il blocco della città per qualche centimetro di neve, lo stop alla metropolitana C, in questi giorni è allarme pronto soccorso negli ospedali della Capitale d’Italia. Ammassati in stanze e corridoi i pazienti (è proprio il caso di chiamarli così) rendono visibile lo stato di insufficienza di una struttura fondamentale quale è, appunto, un pronto soccorso di un ospedale. E in questa situazione i nostri governanti proponevano la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020! Avrebbero speso qualche decina di milioni dei contribuenti solo per promuovere l’iniziativa e 4,7 miliardi per realizzarla, quando lo stato dell’assistenza ospedaliera primaria è, oggi, sotto gli occhi di tutti. Ci chiediamo dove vivano coloro che sono stati demandati a governare. Ci permettiamo un suggerimento: nel 2025 si svolgerà il Giubileo. Occorre prepararsi in tempo, visti i tempi.

Primo Mastrantoni


mondo

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Ieri un’altra decina di morti, nonostante le scuse di Obama. Adesso rischia anche il nostro contingente stanziato nell’area

Afghanistan in fiamme Nel Paese dilaga la protesta dopo il rogo del Corano da parte dei soldati Usa di Antonio Picasso e non fosse che dall’alleanza con gli Usa non ci si può dissociare, giustamente, varrebbe la pena prendere le distanze dalle ultime boutade commesse dai marines in Afghanistan. Perché quelli che Obama giudica come «futili errori» rischiano di far pagare un prezzo a tutti gli eserciti di Isaf e Nato. Ad appena tre giorni dalla diffusione su internet del video che mostra come si brucia un Corano, girato nella base militare Usa di Bagram, in tutta l’Asia islamica

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nel Reno, fiume sacro alla Germania, a dispregio del nazismo. L’iconoclastia adesso è arrivata anche nel cuore dell’Asia. E non azzardiamoci a dire che è colpa dei talebani! Nulla può giustificare i fatti di Bagram. E nemmeno i precedenti. Tanto più questi atti vandalici stanno ricadendo celermente sugli stessi Usa. La geografia delle proteste è in veloce espansione. Herat infatti è l’ultimo anello di una catena di città coinvolte dalla rabbia della popolazione. Mercoledì Kabul, il giorno do-

La guerra si sta avviando al fatidico 2014, anno stabilito per smobilitare. E con l’avvicinarsi del “tutti a casa”, i comandi Usa in loco non sono più in grado di contenere delle truppe ormai frustrate cresce la protesta. Ieri, tra Herat e Kabul si sono contati almeno dodici morti. Ma il numero delle vittime è in costante aumento. La cittadina a est dell’Afghanistan, quasi al confine con l’Iran, è la sede del comando del Prt (Provincial reconstruction team) italiano. Questo fa sì che anche i nostri soldati rischiano di essere coinvolti nell’ennesimo scivolone commesso dagli americani. Il comando fa sapere che non si registrano diretti coinvolgimenti dei nostri uomini. Tuttavia, lo stato di allerta è elevato.

Prima il filmato di alcuni Gi che orinano sui cadaveri dei talebani uccisi poc’anzi, poi una sconvolgente foto di gruppo di marines ritratti con bandiera stelle e strisce e croce uncinata, infine il Corano dato alle fiamme. Sembra che i bravi ragazzi d’oltre Atlantico siano stati colpiti da una sorta di ingiuriosa schizofrenia nei confronti del Paese per la cui pace sono lì a combattere. Non è una novità che le armate statunitensi vengano attraversate da simili cadute di stile. Leggenda vuole che, nel 1945, Patton avesse fatto urinare un intero battaglione

po alcuni villaggi del centro e del sud del Paese, ieri la protesta si è fatta sentire anche a Mazar-i-Sharif. Non è un caso che si tratti sempre di zone ad alta densità talebana, oppure vicine ai due Paesi interessati a provocare ulteriori tensioni ai danni della Nato. Iran e Pakistan, infatti, magari non sono le dirette promotrici di quanto sta accadendo, ma è certo che vi

stiano assistendo con una certa soddisfazione. Sempre che la rabbia non sfoci in sommosse anche nelle loro piazze. Ieri, in Pakistan gli isterismi afgani si facevano già sentire e l’ambasciata Usa di Islamabad - alla stregua di quella lontana di Kuala Lumpur, in Malesia - era bersaglio dei loro lanci di pietre. Non sorprendiamoci se ogni giorno che passa una città afgana passa a sostenere i talebani e abbandona Karzai al suo destino. Simili efferatezze sono, agli occhi della popolazione locale, la conferma che Nato e Isaf facciano parte di un unico esercito di invasori. La guerra in Afghanistan si avvia al fatidico 2014 con un crescendo di tensioni. L’anno stabilito dalla Casa Bianca per smobilitare, come se avessimo vinto, si avvicina. Ed è forse per questo che gli uomini hanno perso totalmente la Trebisonda. A meno che gesta tanto raccapriccianti non siano accadute anche in passato, senza che nessuno lo sapesse. Può essere anche questo, ma è più probabile che, con l’avvicinarsi del “tutti a casa”, i comandi Usa in loco non sano più in grado di contenere la follia della truppa, frustrata da una guerra decennale. Riflessione capziosa, questa. Inutile se non addirittura ridicola è invece la lettera che Obama ha inviato al governo di Kabul, per scusarsi di quanto accaduto. «Il fatto non è stato intenzionale», ha scritto. Forse è il caso che faccia un giro su Youtube prima di esporsi in simili giustificazioni. In tal senso, passano per quasi dignitose le posizioni assunte dalle autorità di Kabul. «Sebbene le manifestazioni pacifiche siano un diritto di tutti, chiediamo ai nostri connazionali di evitare di trasformarle in proteste violente», ha detto il portavoce del ministero dell’Interno afgano, Sediq Sediqqi. Per poi chiedere che la Na-

to faccia luce sull’accaduto. Per tutta risposta il generale Allen, numero uno dell’Isaf, si è affrettato a visitare la base incriminata, dove ha parlato a una platea di giovani in mimetica.

È una guerra che cola a picco quella in Afghanistan. Affonda a causa delle sconfitte sul terreno, ma anche per l’immagine ormai riscossa. In Occidente l’opinione pubblica è sempre più scollata dalla necessaria partecipazione in un impegno

mes. Mancanza di tattica da parte dei comandi locali e una totale inconsapevolezza di quanto stia accadendo in seno alla dirigenza politica di Washington. «Quanti altri uomini devono morire prima che ci si renda conto che è una missione ormai persa?» si chiede Davies. Alla domanda verrebbe da rispondere se il falò sacrilego del Corano possa mai provocare dei segnali di fumo comprensibili sulle rive del Potomac. Il colonnello ha ragione però nel di-

L’intervento a sostegno della popolazione afgana non può essere bocciato del tutto. Il Prt italiano, nella fattispecie, ha fatto molto per la ricostruzione della propria area di competenza militare privo di risultati positivi da sostenere. Nel Paese, ma questo si sa, la situazione è in netto peggioramento. L’ultimo rapporto di Amnesty international parla di mezzo milione di abitanti che vivono sotto la soglia di povertà. In questi giorni, circola sui giornali statunitensi un’inchiesta realizzata dal colonnello Daniel L. Davies, veterano delle missioni Iraq e Afghanistan. 84 pagine fatte di dettagli e descrizioni, frutto di un viaggio di 15mila chilometri in lungo e in largo per tutto l’Afghanistan, in cui Davis ha raccolto oltre 250 interviste. Il veterano ha visitato basi, avamposti, presidi e ha parlato con tutti, dalle reclute diciannovenni ai comandanti di divisione, dagli ufficiali della sicurezza afgana ai civili. Il lavoro è stato pubblicato prima dal magazine Rolling Stone e poi rilanciato dal New York Ti-

re che nemmeno l’intervento di Petraues, fino a settembre al comando dell’Isaf, ha cambiato le sorti dell’impegno. Del resto la surge in Iraq che si pensava di esportare in Afghanistan si è dimostrata inefficace sia a Kabul sia a Bagdad. Certo, sappiamo che non è tutto così. Al di là del bilancio negativo in termini, l’intervento a sostegno della popolazione afgana non può essere bocciato del tutto. Il Prt italiano, nella fattispecie, ha fatto tanto per la ricostruzione della propria area di competenza. Piaggeria? No semplice realismo che ci permette alle Forze armate italiane di dire: «Noi non siamo così». Ma il singolo contributo non basta. Soprattutto perché al vertice del comando Isaf e Nato vi restano gli Usa, con le loro rigidità e adesso anche presi da isterismi estremistici.


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e di cronach

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Molti feriti dopo un lancio di sassi contro gli ebrei e i turisti al Muro del Pianto

Scontri a Gerusalemme davanti alla Spianata

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di Gualtiero Lami

“LaPresse S.p.a.”

ROMA. Tutto il Medioriente ormai è in fiamme e un po’ ovunque si riverberano i lampi degli scontri sempre più gravi perpetrati dagli islamici (talebani in particolare) in Afghanistan alla vigilia della partenza dei miliati dell’Isaf dal Paese. Come in un’eco sinistra di ciò che sta accadendo tra Kabul e Herat, ieri ci sono stati nuvi, gravi disordini anche a Gerusalemme nella Spianata delle Moschee, al termine delle preghiere islamiche del venerdì. Fonti locali hanno riferito di nutriti lanci di pietre da parte di fedeli islamici in direzione degli ebrei raccolti di fronte al sottostante Muro del Pianto. La polizia israeliana sarebbe intervenuta nel tentativo di riportare l’ordine. Dopo il lancio di pietre, la polizia - in assetto antisommossa - ha fatto il suo ingresso sulla Spianata per disperdere la folla con i gas lacrimogeni: secondo la polizia all’interno della moschea di Al Aqsa sarebbe rimasta fino a sera qualche decina di giovani palestinesi mentre all’esterno la situazione era già tornata alla normalità nel pomeriggio. In realtà, se la situazione non è precipitata si deve a un lungo negoziato tra le autorità religiose islamiche e i vertici della polizia che hanno impedito l’ingresso delle forze di sicurezza direttamente nella moschea dove i manifestanti si erano asserragliati. Alla fine, il bilancio è stato di quattro palestinesi leggermente e un numero non precisato di agenti di

Nella notte, azione aerea su Gaza per fermare un lancio di razzi palestinesi: i ribelli non vogliono che i coloni vadano in preghiera nella città sacra

polizia costretti a ricorrere alle cure d’ospedale. Come si ricorderà, domenica scorsa la polizia aveva arrestato una ventina di palestinesi che gettavano pietre contro dei turisti stranieri; martedì in un episodio analogo erano stati colpiti dei poliziotti israeliani che scortavano dei pellegrini cristiani ed ebrei. Lo sceicco Muhammed Hussein ha imputato ad Israele la responsabilità dei disordini dovuti, a suo parere, al ripetersi negli ultimi tempi di ingressi nella spianata di coloni israeliani. La Spianata delle Moschee - il «Monte del Tempio» per gli ebrei - il terzo luogo più sacro dell’Islam e quello più sa-

cro per l’ebraismo. Come se non bastasse, nella notte precedente c’era stato uno scambio di attacchi tra palestinesi e israeliani nella Striscia. In particolare, due miliziani palestinesi sono rimasti feriti a Gaza in seguito a un raid condotto dall’aviazione militare israeliana organizzato per fermare appunto un lancio di razzi palestinesi dalla Striscia verso il Neghev. Il braccio armato dei Comitati di resistenza popolare, dopo aver ammesso il ferimento di due suoi militanti, ha rivendicato la paternità dei lanci di razzi verso Israele. Anche in questo caso, ha precisato un portavoce, si è trattato di una reazione all’ingresso della polizia israeliana nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme.

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il personaggio della settimana A dieci giorni dalle presidenziali russe, ecco le sue ultime mosse per la corsa al Cremlino

Tra il compagno Lenin e il dottor Botox Dal botulino antirughe al potenziamento dell’Armata Rossa. Dalla tassa sugli oligarchi alla ricostituzione dei cosacchi a cavallo. Promesse (e fenomenologia) del Putin elettorale di Enrico Singer a lanciato un’offensiva a tutto campo. Da qualche ritocco al botox per cancellare le rughe e apparire ancora più giovane e in forma, alla promessa di investire 600 miliardi di dollari per dotare l’Armata Rossa di 28 nuovi sottomarini, 50 navi, 600 aerei, mille elicotteri e un centinaio di sistemi missilistici di difesa e di offesa. Dall’annuncio che arriverà una tassa sugli oligarchi per riparare le ingiustizie delle privatizzazioni degli Anni Novanta, all’ordine impartito alla banca Vtb di riacquistare al prezzo originario azioni per 18 miliardi di rubli che hanno perso la metà del loro valore in tre anni rovinando migliaia di piccoli risparmiatori. Fino alla decisione di ricostituire il corpo dei cosacchi a cavallo e all’organizzazione dei “raduni patriottici” affidati alla sapiente direzione del regista Stanislav Govorukhin, che è il capo operativo del suo staff elettorale. L’ultimo, giovedì, ha riunito nel centro di Mosca una enorme folla che gridava “Difendiamo la patria”: uno slogan studiato per presentare gli oppositori, che manifesteranno domani con una catena umana lungo il Sadovoie Kolzo (l’anello dei giardini), come dei traditori che vogliono portare la Russia alla rovina. Mancano dieci giorni alle elezioni presidenziali del 4 marzo e Vladimir Putin sta sparando i suoi colpi più fragorosi per rimanere al Cremlino. Da quando un sondaggio realizzato dal VTsIOM, ha sentenziato che l’attuale premier si riprenderà la poltrona di presidente, ceduta per cinque anni a Dmitri Medvedev, con un tondo 58,6 per cento dei voti già al primo turno, la sua vittoria ampiamente scontata è diventata praticamente una certezza. Il VTsIOM è il più autorevole istituto demoscopico russo, nato nel 1987 come centro di studi pub-

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blico, e ogni sua previsione ha quasi il sapore di un annuncio ufficiale. Anzi, c’è chi scommette che Putin otterrà proprio il 58,6 per cento dei suffragi. O, magari, il 60 per far vedere che il successo ha superato anche le migliori aspettative.

Allora perché tanto attivismo? Per Putin il problema non è quello dei numeri che si possono sempre addomesticare, come dimostra tutta la storia delle elezioni in Russia. Sia sovietica che postsovietica. Il vero problema è come assicurare credibilità a una vittoria talmente annunciata da apparire già sospetta, soprattutto dopo i brogli che hanno macchiato le elezioni di dicembre per la Duma. Secondo le indiscrezioni che circolano a Mosca, la prima questione che gli strateghi della campagna di Putin hanno dovuto affrontare è stata quella di decidere se puntare direttamente all’elezione al primo turno, o se accettare la possibilità di una vittoria al ballottaggio che la legge prevede nel caso in cui nessun candidato superi il 50 per cento dei voti. L’ipotesi di un ballottaggio che, in un’ottica occidentale, avrebbe forse dato un’apparenza di maggiore legittimità alla vittoria, è stata subito considerata da evitare a ogni costo perché,

Il più autorevole istituto di sondaggi, il VTsIOM, attribuisce all’attuale premier il 58,6 per cento dei voti già al primo turno

oltre a dimostrare la debolezza di Putin, potrebbe far precipitare per due settimane - l’intervallo tra primo e secondo turno - la Russia nel caos. I più stretti collaboratori di Putin sono convinti che offrire all’opposizione un successo, sia pure parziale come sarebbe quello di costringere l’uomo forte del Cremlino al ballottaggio, potrebbe trasformare in vere e proprie rivolte le proteste che già ci sono state a Mosca e in altre parti del Paese e che sono destinate a continuare. Ma per vincere al primo turno, Vladimir Putin deve migliorare il risultato delle politiche del 4 dicembre scorso. Allora il suo partito, Russia Unita, ottenne il 49 per cento dei voti e riuscì a mantenere il controllo assoluto del Parlamento soltanto grazie al meccanismo del premio di maggioranza. Ecco perché tutta la campagna elettorale è stata studiata per rosicchiare consensi ai principali partiti di opposizione. In particolare al Kommunisticeskaja partija Rossijskoj Federacij, il partitito comunista di Gennady Zyuganov, reincarnazione del vecchio Pcus che nel voto per la Duma ottenne il 20 per cento.

Le previsioni del VTsIOM, annunciate dal direttore dell’istituto, Valery Fedorov, in persona, assegnano adesso a Gennady Zyuganov soltanto il 14,8 per cento dei suffragi. In calo rispetto al risultato delle politiche sarebbe anche il liberal-democratico Vladimir Zhirinovsky (9,4 per cento contro il 13). Al quarto posto si piazzerebbe il miliardario Mikhail Prokhorov con l’8,7 per cento dei consensi e quinto sarebbe Sergei Mironov, leader di Russia giusta con il 7,7 per cento. Se queste previsioni si dovessero rivelare esatte, vorrà dire che gli ammiccamenti di Putin a comunisti e nazionalisti avranno avuto effetto. La promessa di una corposa una tantum per riequilibrare i conti delle privatizzazioni, da lui stesso avallate al suo arrivo al potere nel 2000, era contenuta anche nel programma di Zyuganov. Un modo per dare soddisfazione ai tanti russi che considerano l’ingiustizia sociale il primo male del Paese. Già ai tempi del crollo dell’Urss girava una barzelletta


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che diceva più o meno così: tutto quello che ci hanno detto sul comunismo era falso, ma tutto quello che ci hanno detto sul capitalismo era vero. La tassa sulla vorticosa quanto opaca nascita del capitalismo nella Russia postsovietica - se mai sarà applicata - dovrebbe recuperare risorse da destinare alle categorie più deboli della società proprio come chiede il partito comunista. Anche l’annuncio del colossale piano di spese militari, lanciato appena martedì scorso, ha un forte sapore elettorale ed è diretto tanto ai sostenitori di Zyuganov, nostalgici della potenza dell’Urss, che a quelli dell’ultranazionalista Vladimir Zhirinovsky. Non solo. Quando Putin dice che la

pagato un soggiorno negli Stati Uniti al blogger e giovane leader dell’opposizione, Aleksej Navalny.

Una mossa elettorale è stata anche la conferma che la seconda banca del Paese, Vtb, compenserà i piccoli azionisti russi per un’offerta pubblica di titoli che hanno perso più della metà del loro valore. Putin ha annunciato che la banca li riacquisterà al prezzo di emissione: un bel gesto che, secondo i calcoli del presidente di Vtb, Andrej Kostin, costerà alla banca 18 miliardi di rubli (600 milioni di dollari), ma che dovrebbe essere gradito a un altro settore della società: la classe media che, almeno nelle grandi

bandiera del partito Vita. Una candidatura-fantoccio perché Mironov, originario di San Pietroburgo come Putin, ha sempre fatto parte dei sostenitori del capo del Cremlino. Nel 2006 i partiti Vita, Patria e dei Pensionati russi si unirono sotto il nome di Russia Giusta. Mironov, nel 2007, ha invitato i suoi elettori a votare per Dmitri Medvedev alle presidenziali e adesso sfida Putin da posizioni che definisce socialdemocratiche. Mikhail Prokhorov, invece, è l’unico candidato che si presenta senza un partito. Ha 46 anni ed è forse l’uomo più ricco di Russia da quando Mikhail Khodorkovsky è in galera e gli altri oligarchi non subalterni a Putin - come Vladi-

Perché allora tanto attivismo? Il problema non sono i numeri, ma dare credibilità a una vittoria così annunciata da apparire già sospetta Russia non deve «indurre nessuno in tentazione con la propria debolezza» intreccia la voglia di recuperare la dimensione di grande potenza al sospetto, più volte denunciato, che gli Usa - e l’Occidente in generale - finanzino i movimenti politici di opposizione. Quelli che i “raduni patriottici” definiscono traditori per dividere i giovani che manifestano a Mosca o a San Pietroburgo dalla Russia profonda sulla quale Putin è convinto di poter ancora contare. Una delle voci messe in giro a Mosca riguarda addirittura l’ambasciatore americano, Michael McFaul, accusato di avere

città, sta scendendo in piazza a protestare. A rastrellare i voti della nuova middle class russa dovrebbero essere, poi, gli altri due candidati alla corsa presidenziale: Sergei Mironov e Mikhail Prokhorov che non hanno alcuna possibilità di impensierire Putin e, al contrario, dovrebbero favorirlo disperdendo i consensi dell’opposizione. Mironov, ex presidente del Consiglio della Federazione, la Camera alta del Parlamento russo, è un geofisico che si candida per la seconda volta alle elezioni presidenziali. La prima fu nel 2004, dieci anni dopo essere sceso in politica sotto la

mir Gusinsky e Boris Berezovsky - sono in esilio. Prokhorov faceva parte dei giovani economisti del presidente Eltsin e divenne il potentissimo amministratore delegato della più grossa società mineraria russa nel campo dei metalli preziosi, la Norilsk Nickel, e la tassa sulle privatizzazioni promessa da Putin sembra ritagliata proprio per lui.

Ma la partita delle presidenziali si giocherà soprattutto nella sterminata periferia dell’impero. La Federazione russa è un gigante di 142 milioni di abitanti divisi in ben 83 entità amministrative, di cui

21 sono Repubbliche e altre decine sono Territori autonomi (soltanto nella definizione ufficiale, naturalmente). Ci sono realtà floride o poverissime, stabili o in bilico tra conflitti nazionali e anche religiosi. C’è, per esempio, la Cecenia, feudo del giovane presidente Ramzan Kadyrov, proconsole di Putin, dove il partito Russia Unita nelle elezioni di dicembre, invece di arretrare come nella media generale, ha ottenuto il 99,48 per cento dei voti e dove l’affluenza alle urne è stata del 98,6 per cento degli aventi diritto, secondo i numeri forniti senza vergogna dagli uffici elettorali che non hanno ammesso alcun controllo da parte delle commissioni internazionali indipendenti. Alla vigilia di quell’incredibile voto, durante una conferenza stampa al Consiglio della Federazione russa, il portavoce del Parlamento ceceno, Dukvakha Abdurakhmanov, dichiarò: «Se Russia Unita deve ottenere il 120 per cento dei voti, siamo in grado di raggiungere anche questo risultato». Forse scherzava, forse no. E come la Cecenia, ci sono altre parti della Federazione dove Putin è sicuro di non avere avversari. Ma ci sono anche regioni, come l’Ingushetia per fare un altro esempio, dove potrebbe bastare una scintilla per innescare di nuovo una guerra civile con contraccolpi che arriverebbero, inevitabilmente, fino a Mosca. Uno dei grandi interrogativi delle prossime elezioni presidenziali, non è tanto la percentuale con la quale Putin vincerà, ma che cosa accadrà dopo il voto nella capitale e nelle grandi città russe, dove l’opposizione già si prepara a contestare i risultati, e nella periferia centro-asiatica dove il contrasto con il potere centrale è già critico e sono sempre in agguato milizie nazionaliste e formazioni di guerriglia, come racconta bene un libro della scrittrice e giornalista Masha Gessen dedicato a Putin (il titolo inglese è A man without a face) che uscirà il primo marzo in tutto il mondo contemporaneamente. Per il momento sarebbe azzardato fare previsioni di disordini. Ma di sicuro Putin ha investito più di 12 milioni di dollari nella sua campagna elettorale. E ha messo in allarme tutti i distretti delle forze di sicurezza della Federazione.


parola chiave CRITICA

Tutta la storia della conoscenza ruota intorno a questa facoltà, perché giudicare equivale a capire. «È l’arte di non essere eccessivamente governati», diceva Foucault. Con l’esercizio del giudizio si limita il potere perché si dà alla verità la possibilità di essere proferita

Il pulpito della libertà di Giancristiano Desiderio er valutare l’importanza della critica basterebbe citare i titoli delle tre grandi critiche kantiane: Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica, Critica del giudizio. Il significato della parola “critica”nei titoli dei tre grandi libri di Kant è quello della facoltà del giudizio. È come se fosse scritto così: il giudizio sulla ragione, il giudizio sull’azione, il giudizio sul giudizio. Criticare equivale a giudicare e giudicare a capire o almeno provarci. Un filosofo italiano del secolo scorso considerato minore - il filosofo, non il secolo - ossia Luigi Scaravelli, dedicò particolare attenzione alla capacità di giudicare come conoscenza, tanto che per continuare con la citazione dei titoli significativi - la sua opera più importante reca proprio questo titolo, bel titolo: Critica del capire. Tutta la nostra conoscenza ruota intorno a questa facoltà o attività che è la vera generatrice dei concetti, tanto quelli filosofici considerati puri - dalle Idee di Platone fino alla dialettica di Hegel - quanto quelli scientifici o pratici che un’antica

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questione della filosofia italiana - ma in vero non solo italiana considerò minori o, come disse Croce, pseudoconcetti. Nella critica, però, non c’è“solo”gran parte della storia della conoscenza ma anche la nostra stessa idea di libertà. La critica è non solo “teoria”ma anche “pratica”, è pensiero e azione. La nascita della filosofia è un atto critico che si porta dietro la rivendicazione della libertà di pensiero e di vita.

Che cos’è la critica? si chiedeva il filosofo francese Michel Foucault. Rispondeva così prima di tutto a se stesso: «La critica è l’arte di non essere eccessivamente governati». Infatti, che si debba essere governati non c’è dubbio, pena il cadere in uno stato di anarchia che Hobbes definì «stato di natura». Ma “quanto”si dovrà essere governati è affare delicato che riguarda non solo i nostri interessi e la nostra libertà ma la nostra stessa vita sensibile e biologica. Un governo ci deve essere, va bene. Ma su quante cose dovrà governare? La domanda sul quantum è posta dalla critica o dal sapere critico co-

me atto di libertà. È la critica che fa emergere i “diritti naturali”degli uomini - che sono in verità diritti storici, ma si lasci cadere la cosa, ora - e dice al governo - sia esso un re, un’assemblea o un’oligarchia - «ti devi limitare perché non puoi governare su tutto». Il fine della critica è proprio il“limite”che si configura concretamente come limitazione del potere che non va inteso solo come potere sovrano o politico ma come il potere umano e quindi politico, religioso, economico, militare e anche lo stesso potere filosofico o della conoscenza. Il fine della critica non è la verità ma la sua possibilità di essere detta. E a chi vien detta la verità? Al potente. Dire la verità all’impotente non ha gran senso perché l’impotente per sua stessa condizione non ne può abusare. Invece, il potente ha bisogno che qualcuno gli rinfreschi la memoria perché il potente per sua natura o condizione abusa del potere. Non perché sia cattivo ma perché il potere tende sempre ad andare oltre la linea ossia oltre il limite. Il potere è tracotante.


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per saperne di più

hanno detto Honoré de Balzac

Immanuel Kant Critica della ragion pura Critica della ragion pratica Critica del giudizio Laterza

La critica è una spazzola che non si può usare sulle stoffe leggere, dove porterebbe via tutto.

François-René de Chateaubriand Abbandonate la piccola e facile critica dei difetti per la grande e difficile critica delle bellezze.

Luigi Scaravelli Critica del capire Sansoni

Decimo Giunio Giovenale La critica è indulgente coi corvi e si accanisce con le colombe.

Michel Foucault Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri Feltrinelli

Henry James Criticare è valutare, impadronirsi, prendere possesso intellettuale, insomma stabilire un rapporto con la cosa criticata e farla propria.

Benedetto Croce Contributo alla critica di me stesso nella rivista “La Critica”

Oscar Wilde Un’epoca che non possiede critica è anche un’epoca in cui l’Arte è immobile, ieratica, e confinata alla riproduzione di tipi formali, o un’epoca che non possiede Arte del tutto.

Hans-Georg Gadamer Verità e metodo Bompiani Karl Popper Tutta la vita è risolvere problemi Bompiani

I Greci avevano un nome per tutto ciò: parresìa. Che significa proprio dire la verità in faccia al potente pubblicamente. Non è un caso che la Grecia sia la patria della democrazia. La vicenda di Socrate è tutta dentro questa storia della critica e del potere e della democrazia. La democrazia sarà con lui crudele e tracotante: lo condannerà a morte a maggioranza. Democraticamente. E la sua morte democratica ci ricorda da millenni che il valore della democrazia è solo parzialmente nei numeri mentre è da ricercarsi meglio nella impossibilità umana di mettere le mani sulla verità come se fosse un soprammobile. Una democrazia fondata sulla verità è una contraddizione in termini giacché il fondamento della vita democratica è la critica ossia la possibilità di dire la verità. Socrate esercitò proprio questa possibilità con un sapere critico che prese coscienza di sé distinguendosi dal sapere poetico o mimetico in cui prevaleva l’espressione senza consapevolezza. La parola critica inaugura anche lo stile della filosofia moderna che non sarà caratterizzata dal trattato sistematico ma dal saggio. La critica non deve metter mano al mondo metafisico bensì alla comprensione del mondo umano. Il suo fuoco è l’esercizio

A sinistra, il filosofo tedesco Immanuel Kant. In alto, lo Speaker’s Corner di Hyde Park dove ognuno può esprimere liberamente le proprie idee. Sopra, Orson Welles in “Quarto Potere”

Benedetto Croce La critica è un fucile molto bello: deve sparare raramente!

«La lettura del giornale è la preghiera laica dell’uomo moderno». E in effetti, in modo un po’ enfatico, si dice che la stampa, di cui il lavoro critico è parte integrante, sia il cane da guardia della democrazia

del giudizio che proprio come esercizio mette in fuori gioco l’idea metafisica o religiosa del sapere definitivo di cui il giudizio sarebbe solo un’applicazione. Ma se così fosse il sapere critico sarebbe non la fondazione della nostra libertà ma la sua condanna. La critica è invece a tutti gli effetti una pratica di libertà per la libertà. Il maggior filosofo italiano del secolo scorso volle dare

alla sua rivista il nome che stiamo discutendo: La Critica. Una rivista che uscì per la prima volta nel 1903 e vide regolarmente la luce per quasi tutta la metà del Novecento: durante la seconda guerra mondiale, data l’età avanzata del filosofo, fu sostituita da I quaderni de La Critica. Un lavoro critico che non ha eguali e che il filosofo in alcune pagine riepilogative e di memorie avvicinò a

Il Caffè dei fratelli Verri, la rivista dell’illuminismo lombardo che, peraltro, vide la luce solo in pochi numeri. Il lavoro critico è parte integrante del lavoro della stampa. «La lettura del giornale è la preghiera laica dell’uomo moderno» amava dire Hegel, che da parte sua fu anche caporedattore nella gazzetta di Bamberga prima di dedicare la sua intelligenza

solo allo spirito del mondo, con o senza cavallo. La stampa nasce proprio come esercizio di critica del potere sovrano. Con una frase che sa di enfasi si dice che la stampa sia il cane da guardia della democrazia. Più che il cane da guardia è, ancora una volta, la possibilità che si possa fare la guardia e, ancor meglio, è nella sua pluralistica manifestazione la democrazia incarnata nella libertà di stampa o espressione del libero pensiero. La democrazia si “esporta” prima di tutto attraverso la critica che essendo un esercizio faticoso non è detto che abbia di per sé successo. La critica non mette capo a niente altro che non sia ancora una volta la critica. Qui si annida il pericolo della critica: la sua corrosività.

La critica rode e corrode. Da qui nascono espressioni del tipo “atteggiamento critico”, “critica distruttiva”, “critica costruttiva”, “iper-critica”,“critica a senso unico”, “critica polemica”. Ma sono definizioni che, quando non sono dettate dal bisogno di difendersi dalla critica, mettono in luce attraverso una coloritura polemica quello che è il pregio e il difetto della critica o il suo limite: la teoria. «Una cosa è la teoria, altra cosa è la pratica» ripete il buonsenso, che è a sua volta senso critico. Non che la critica non si porti dietro un che di pratico, ma non è di per sé sufficiente a far scoccare la scintilla della volontà o azione. Qui meglio della critica possono altre“facoltà”o realtà umane come l’immaginazione, la fantasia, il sentimento, gli interessi che riescono meglio a riscaldare il cuore.


ULTIMAPAGINA Per i Maya quella del 21/12/2012 non era la data della fine del mondo, ma di un nuovo inizio. Una sorta di “anno 0”

La solitudine del numero di Maurizio Stefanini a è vero che per il 21 dicembre del 2012 i maya avevano previsto la fine del mondo? In realtà, quello era per loro l’anno zero, ed è abbastanza noto anche tra i non specialisti di cose pre-colombiane che i maya conobbero lo zero prima degli occidentali. Ma cos’era lo zero per i maya? Qui è d’obbligo fare riferimento a un evento che si tenne a Roma il 21 ottobre 2003: Calcolo matematico precolombiano, un convegno organizzato dall’Istituto Italo-Latino Americano (Iila), e i cui atti furono poi pubblicati nel 2004 da Bardi Editore.Tra l’hardware di una calcolatrice ispirata ai principi della matematica incaica e esperimenti di calcolo della radice quadrata con la matematica maya, alcuni degli interventi più intensi si concentrarono appunto sulla cosmovisione dei numeri maya e sullo “zero concreto” del mondo pre-colombiano. E per spiegare, bisogna innanzitutto chiarire la differenza dei punti di partenza.

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Noi, infatti, contiamo in base 10: come le dita delle due mani. Gli stessi numeri romani riproducono le dita, con il V di 5 che rappresenta la mano aperta e la X di 10 che sovrappone due mani. I maya contavano invece in base 20, perché ritenevano ingiusto trascurare le dita dei piedi: un’idea comune anche ai celti, che è la ragione per cui ancora oggi il francese per ottanta dice“quatre-vingts”, quattro venti. Per i maya, però, era importante anche il 260: cioè, i giorni della gestazione umana. A riprova della loro competenza astronomica, avevano pure calcolato l’anno solare con maggior precisione del calendario gregoriano, a 365,2420 giorni. Per questo avevano due diversi calendari. Quello rituale, il Tzolkin, era appunto di 260 giorni, che diviso in base 20 dava 13 mesi. Quello civile, lo Haab, per dividerlo esattamente in 18 mesi (Uninal) da 20 giorni (Tun) doveva invece essere di 360 giorni: più cinque giorni fuori conto considerati per questo particolarmente iettatori (Uyaeb). E se ciò sembra bizzarro, si ricordi che anche noi abbiamo un 29 febbraio un anno sì e tre no. Noi andiamo poi avanti per 10: decennio, secolo, millennio... I maya invece per 20, togliendo però i giorni nefasti: 20 tun = un k’atun; 20 k’atun = un b’ak’tun. Ma i b’ak’tun si contano invece a 13, come i cicli del Tzolkin. E il tutto fa allora 1.872.000 di giorni, che dal 2 agosto del 3114 a.C. finisce appunto il 21 dicembre del 2012. Perché avevano scelto proprio il 2 agosto del 4114 a.C.? E perché noi abbiamo scelto l’anno zero per contare l’era cristiana, il 5 settembre del 476 per passare dall’Età Antica al Medio Evo, il 12 ottobre del 1492 per l’Età Moderna e il 14 luglio del 1789 per la Storia Contemporanea? Per una serie di eventi epocali coincidenti rispettivamente con la nascita di Cristo, con la deposizione dell’ultimo imperatore romano d’Occidente, con la scoperta dell’America e con la presa della Bastiglia. È possibile che anche in quella data ci sia stato un evento importante, che però è stato dimenticato. È possibile che sia stata individuata come data di importanza cabalistica o astronomica. Il 21 dicembre 2012, dunque, ci sarà per i maya un nuovo anno zero. Ma il loro era uno zero diverso dal nostro. Per noi, zero significa nulla: la numerazione inizia dall’uno. È vero che i greci lo zero non lo avevano neanche, ma non è difficile il comprendere che quando a noi occidentali nel Medio Evo lo zero è arrivato dagli indiani attra-

verso gli arabi, è stato proprio in base all’idea greca di separazione tra spazio e tempo che lo abbiamo interpretato. Come nel Timeo di Platone, dove i numeri nascono dal tempo. «Non appena il padre che lo aveva generato osservò muoversi e vivere questo mondo che era stato fatto a immagine degli eterni dèi, si rallegrò e pieno di gioia pensò di renderlo ancora più simile al modello. Come dunque esso è un essere vivente eterno, così, per quanto gli era possibile, cercò di rendere tale anche questo tutto. Dunque la natura di quell’essere è eterna, e questo non

ZERO

Per noi significa “nulla”: la numerazione inizia dall’uno. Ma il loro era uno zero diverso dal nostro. Rappresentava qualcosa che “prima c’era e poi è mancato”

nell’anno 1000, quando lo zero non era stato ancora portato in Europa; ma fu immaginato più tardi, dopo appunto quel simbolo era stato adottato. Per i pre-colombiani, invece, sia il tempo che lo zero erano entità concrete. A partire dal simbolo: un filo senza nodo per gli Inca, una conchiglia per i maya. Blas Valera, gesuita che aveva studiato a fondo la cosmologia inca, aveva spiegato nel 1618 che lo zero incaico era la Luna: il “pianeta”che, a seconda delle sue fasi, si può vedere o non vedere; ma continua a esistere, e a influenzare la fecondità femminile e agraria. E la Luna Nuova, cioè lo zero, era infatti il punto di partenza del calendario inca.

era possibile applicarlo completamente a questo mondo generato: pensò allora di realizzare un’immagine mobile dell’eternità, e, ordinando il cielo, fa dell’eternità che rimane nell’unità un’immagine eterna che procede secondo il numero, e che noi abbiamo chiamato tempo. E i giorni e le notti, e i mesi e gli anni, che non esistevano prima che il cielo fosse generato, fece allora in modo che essi nascessero nel momento in cui componeva il cielo». Ma se i numeri tornano allo zero, non c’è il rischio che anche la realtà possa a quel punto essere risucchiata dal nulla? «Il tempo dunque è nato insieme al cielo, in modo che, generati insieme, insieme anche si dissolvano, se mai avvenga una loro dissoluzione». Appunto, la paura dell’anno 1000: che in realtà non avvenne

Ma anche la conchiglia era in Mesoamerica un simbolo lunare. Dunque, non uno zero che inghiotte la realtà, ma uno zero germinativo, che ne genera di nuova. Ricordava appunto Laura Laurencich Minelli, docente di Civiltà Indigene d’America a Bologna, un’esperienza in Costa Rica presso una scuola per indios Bribri e Cabecar tra ’60 e ’62: «Da un lato mi resi conto che per loro il giorno già concluso è 0 e dall’altro l’impossibilità di far comprendere agli adulti come ai bambini il concetto di 0 = nulla, mentre hanno ben chiaro il concetto di 0 = qualcosa che prima c’era e al momento manca». Non lo zero del serbatoio vuoto, ma lo zero del contachilometri della macchina che sta per ripartire. E buon viaggio, anche nel 2012!


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