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In generale, si chiedono consigli

he di cronac

solo per non seguirli o, se si seguono, è per avere qualcuno da rimproverare per averli dati.

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Alexandre Dumas di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 23 FEBBRAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La titolare del Welfare avverte Bersani: «Sui licenziamenti andremo avanti anche senza l’avallo dei partiti»

Tre bluff sul lavoro

Il governo non ha i soldi, il Pd non ha linea, Confindustria è divisa Oggi nuovo incontro tra il ministro Fornero e tutte le forze sociali sulla riforma per superare l’impasse. Cambia in peggio il decreto sulle liberalizzazioni: l’autorità sui taxi torna ai Comuni Tre ore di colloquio con Letta e Alfano a palazzo Chigi

Operazione 2013: Berlusconi vuole Monti anche dopo il voto Il Pdl sancisce con il premier il cambio di rotta. Cicchitto: «Il rapporto con Bossi è irrecuperabile, è ora di guardare al centro». Ma il Cavaliere trema per i processi: sabato arriva la sentenza sul caso Mills

Anche il candidato dei “falchi” contro la Marcegaglia

E Bombassei bacchetta Non bisognava Emma: «Sull’articolo 18 tornare indietro questa volta ha esagerato» sui tassisti Ieri è stato il giorno della rottura definitiva tra gli industriali. Non va meglio in casa dei democrats. Dopo l’aut aut di Fornero, rientra il caso-Fassina che aveva annunciato di voler partecipare alla manifestazione della Fiom in programma il 9 marzo: «Ci andrò solo se avrò il pieno appoggio della segreteria» pagina 2

Riccardo Paradisi • pagina 4

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Ha vinto la linea-Casini: «Ora nulla sarà più uguale»

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Tra le vittime un francese e una americana di Antonio Picasso

ercoledì delle ceneri per Silvio Berlusconi che con Gianni Letta e Angelino Alfano affronta un insolitamente lungo pranzo di quaresima con il premier Mario Monti. Tre ore di incontro che potrebbero rappresentare un momento cruciale per la vita di questo governo. Un tentativo di rilancio che, per restare nella metafora quaresimale, rappresenta un cammino di conversione. Quel Pdl che voleva staccare la spina a Monti ha affrontato una rapida e non indolore mutazione che lo ha portato ad assumersi via via sempre più responsabilità fino ad arrivare a un sostegno pieno al governo Monti. a pagina 5

arie Colvin e Remi Ochlik uccisi. Edith Bouvier e Paul Conroy feriti gravemente. Sono le vittime d’eccezione del bombardamento che ieri ha preso di mira Homs. La città ormai passerà alla storia come la martire della rivolta siriana. A scioccare stampa e osservatori occidentali è stata soprattutto la notizia della caduta di Marie Colvin: 54 anni, giornalista di guerra, firma del Sunday Times, vittima già in passato di una ferita grave. a pagina 10

CON I QUADERNI)

orenzo Bittarelli non vuole concedere neppure l’onere delle armi a Mario Monti. «Non è vero che sui taxi in Senato è passata la linea morbida, perché la nostra categoria ha concesso moltissimo per migliorarsi ed ampliare il servizio, senza aver ottenuto in cambio alcuna contropartita»: così il leader di Uritaxi ha salutato la sua vittoria. a pagina 3

Homs, bombe sui cronisti

di Osvaldo Baldacci

EURO 1,00 (10,00

di Francesco Pacifico

Ancora morti nella città ribelle: la rabbia di Francia e Usa

Anche il Popolo della libertà ha accettato la realtà

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INDECISIONISMO

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• ANNO XVII •

NUMERO

37 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


verso il 2013

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Bombassei attacca Marcegaglia sull’articolo 18 e sui sindacati che «difendono i fannulloni»: «I toni di Emma sono esagerati»

Il tavolo dei bluff

Il governo non ha i fondi per un nuovo Welfare, il Pd, pressato dalla Cgil, non ha una linea, Confindustria è spaccata: ecco le incognite che pesano sulla trattativa che riprende oggi tra Fornero e le forze sociali Aria di rottura tra Bombassei e Emma Marcegaglia. Il candidato alla successione al vertice di Confindustria ieri ha stigmatizzato la presa di posizione della presidente che aveva accusato i sindacati di «difendere i fannulloni» tramite l’articolo 18. «Toni esagerati», ha commentato il candidato dei “falchi” in Viale dell’Astronomia. Sotto, Elsa Fornero: oggi nuovo incontro sulla riforma del lavoro

di Francesco Pacifico

ROMA. Giorgio Santini, numero due della Cisl e rappresentante di Bonanni al tavolo tra governo imprese e sindacati, ne fa una questione di metodo: «È il primo caso di negoziati in diretta televisiva. C’è troppa enfasi, ogni volta sembra dovuto un colpo di scena, come se nelle altre trattative non si discutesse e non ci fossero differenze tra le parti». Tutto vero, fatto sta che la riforma del

Emma Marcegaglia ad alzare i toni. Risulta una partita decisiva per il governo, che non avendo soldi per finanziare i futuri ammortizzatori universali e convincere i sindacati.

Al riguardo, nota il pidiellino Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro e in passato segretario confederale della Cgil: «La verità

Il ministro del Lavoro avverte Bersani: pronti ad approvare le modifiche all’articolo 18 senza l’avallo dei partiti. Marcia indietro da parte di Stefano Fassina: alla manifestazione della Fiom soltanto con il pieno appoggio della segreteria lavoro – e con essa le modifiche all’articolo 18 – ha abbandonato il campo prettamente economico per entrare in un ambito più politico. Diventa il casus belli che fa scoppiare l’ultima battaglia per il controllo del Pd tra bersaniani e veltroniani. È il grimaldello con il quale in Confindustria Alberto Bombassei può ribaltare i pronostici e strappare la presidenza che sembra già assegnata a Giorgio Squinzi, costringendo anche

che tutte le parti in causa stanno prendendo tempo, perché è ormai chiaro a tutti che la modifica dell’articolo 18 – l’unica cosa che interessa all’Europa, non se manteniamo o meno la cassa integrazione – è conditio sine qua non per tenere in piedi questo governo: se c’è la volontà di continuare con Monti, allora si cambia anche la normativa sui licenziamenti». Concetto confermato dal premier quando ricorda che a

fine marzo onorerà gli impegni con l’Europa sull’articolo 18 con o senza l’accordo con le parti sociali e dalla Fornero, secondo la quale non è necessario l’avallo dei partiti. Un monito per il Pd. Se a Walter Veltroni, per far implodere il partito, è bastato spiegare che «è necessario evitare tabù su materie come l’articolo 18», a Stefano Fassina, responsabile economico del partito e uomo cresciuto alla scuola di Visco e di Bersani, è stato necessario ad annunciare la sua partecipazione alla manifestazione indetta il 9 marzo dalla Fiom per dimostrare quanto il partito è succube della Cgil su queste materie. Ieri lo stesso Fassina ha provato a mettere una toppa annunciando che si atterrà alle indicazioni decisione della segreteria nazionale. Ma ormai la situazione è ingestibile. Roberto Giacchetti, dai microfoni di Radio Radicale, ha rivendicato: «Se sul mercato del lavoro le posizioni del Pd saranno subordinate a quelle di un sindacato io terrò le mani libere e vote-


verso il 2013 ro’ secondo coscienza». Circa qualche settimana fa il partito sembrava pronto ad appoggiare il tentativo della Cisl di superare l’articolo 18, portando sotto l’alveo della legge 223 per i licenziamenti collettivi anche la disciplina dei rapporti chiusi senza giusta causa. Ipotesi per la cronaca bocciata soprattutto dalle aziende perché considerata onerosa. Ieri, in Parlamento, girava voce che tutti – riformisti o meno – sperano in un compromesso al ribasso: seguendo il modello tedesco e dando al giudice la facoltà se imporre il reintegro del lavoro oppure un semplice risarcimento.

Accordo su un emendamento che, di fatto, depotenzia l’Autorità per i trasporti

E i tassisti sono salvi L’esecutivo accetta la mediazione dei partiti: toccherà ai Comuni decidere sulle licenze

ROMA. Lorenzo Bittarelli non vuole Prova a gettare acqua sul fuoco Elsa Fornero, che non ha mai reputato centrale la questione, ma ha dovuto allinearsi al rigore montiano quando la Cgil ha cassato sul nascere la sua proposta per uscire dall’impasse: sperimentare, come le ha consigliato Pietro Ichino, in due regioni, e per 3 anni, le deroghe all’articolo 18 previste per imprese e sindacati dall’articolo 8 dell’ultima manovra firmata Berlusconi-Tremonti e dal collegato lavoro. L’economista torinese ieri ha fatto sapere: «Non abbiamo moltissime risorse da mettere nella riforma degli ammortizzatori sociali, ma nessuno ha mai sostenuto che andrà in vigore nel 2012 e neppure forse nel 2013». E ha ostentato ottimista forte degli accordi già chiusi con sindacato e imprese sull’apprendistato e sul contratto di inserimento. Peccato che ora ci sia da convincere Confindustria a pagare più contributi per i collaboratori (anche restituendo i soldi quando il rapporto di lavoro verrà reso definitivo) e per quell’ammortizzare unico molto vicino ai sussidi tedeschi, che sostituisca cassa integrazione in deroga, mobilità e l’attuale magro assegno di disoccupazione. In quest’ottica oggi pomeriggio rivede le parti, conscia che l’incontro finirà soltanto per sottolineare le spaccature all’interno del mondo industriale. In attesa del vertice decisivo già fissato ufficiosamente per il 1 marzo, oggi Confindustria, Abi, Ania e Alleanza delle Coop presentano un documento per chiedere al governo di mantenere gli sgravi sull’apprendistato, di non buttare all’aria i contratti di somministrazione (quelli che un tempo venivano definiti rapporti interinali) magari coinvolgendo meglio Regioni e Agenzie per il lavoro e di non rendere più onerosi e più burocratici i contratti a tempo determinato. Quasi contemporaneamente toccherà a Rete imprese Italia – al fronte che unisce commercianti, artigiani ed esercenti – presentare le proprie richieste. Le partite Iva infatti chiedono che non venga-

concedere neppure l’onere delle armi a Mario Monti. «Non è vero che sui taxi in Senato è passata la linea morbida, perché la nostra categoria ha concesso moltissimo per migliorarsi ed ampliare il servizio, senza aver ottenuto in cambio alcuna contropartita», sbraita lo storica leader di Uritaxi, dopo che a Palazzo Madama i partiti hanno cancellato il tentativo del governo di aumentare le licenze, migliorare il servizio e abbassare la tariffa. La lobby più famosa d’Italia anche questa volta è riuscita a respingere i tentativi di liberalizzazione. Infatti i partiti ci hanno di nuovo messo lo zampino e – con un apposito emendamento – riportare in capo ai Comuni e Regioni la facoltà di aumentare le licenze e di contrattare le tariffe. Poteri che i sindaci si guardano bene dall’usare per non contrastare una categoria elettoralmente molto forte.

Stando all’ultima versione dell’articolo 36 del testo in discussione in commissione Industria di Palazzo Madama, viene confermata entro il 31 maggio l’istituzione del collegio dell’Authority di regolazione dei trasporti. Quella che, nelle iniziali intenzioni del premier e del sottosegretario Antonio Catricalà, doveva occuparsi in toto anche della materia taxi. Dopo l’intervento del Senato però l’organismo potrà intervenire soltanto se gli enti locali non faranno quanto in loro potere per garantire le migliori condizioni di mobilità ai loro cittadini. In caso di inosservanza dei propri provvedimenti o di mancata ottemperanza, l’autorità potrà irrogare sanzioni amministrative pecunia-

viene attraverso la leva fiscale e di questo che dovremo discutere». Ormai all’angolo da quando le relazioni industriali non sono più contraddistinte

Confindustria e Imprese Rete Italia si spaccano sulle richieste da presentare all’esecutivo. Dal fronte del Pmi Marco Venturi attacca: «Perché dobbiamo pagare ammortizzatori sociali che non useremo mai?». Dubbi sull’aumento dei contributi no aumentati i contributi per le collaborazioni e tutte quelle figure contrattuali che la Camusso e la Fornero bollano come cattiva flessibilità (salvando in toto la Biagi). Non comprendono perché la Cisl voglia estendere la cassa integrazione anche a una realtà dinamica come le Pmi. Ma soprattutto non vogliono pagare – spiega l’attuale presidente Marco Venturi – «per ammortizzatori sociali che non useremo mai. La solidarietà av-

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dall’asse Tremonti-Sacconi-Bonanni, le partite Iva avrebbero molto da lamentarsi con questo governo: sono troppo piccole per usufruire degli sgravi Irap inseriti nell’ultima Finanziaria, devono sistemare i conti delle loro casse previdenziali in tempi brevi e devono accrescere la loro patrimonializzazione se sperano di poter continuare a credere nell’accesso al credito. Eppure a Palazzo Chigi si chiede soltanto un aiuto do-

rie. Le somme riscosse andranno a un fondo per il finanziamento di progetti a vantaggio dei consumatori dei settori dei trasporti, approvati dal ministro delle Infrastrutture, e sempre su proposta della neonata autorità. Secondo stando all’emendamento al decreto Liberalizzazioni, gli enti locali potranno decidere possibili aumenti delle licenze anche in base alle analisi della nascente Autorità dei trasporti, il cui parere non sarà comunque vincolante. La quale potrà però avere la facoltà di ricorrere al Tar nel caso in cui le decisioni di Comuni e Regioni agiscano in maniera difforme dai suoi pareri.

È facile ipotizzare

All’organismo anche il potere di sanzionare i sindaci inadempienti. L’ira di Raffaele Bonanni (Cisl): «Non si può essere forti soltanto con i più deboli»

che questo compromesso al ribasso spinga Palazzo Chigi a chiedere la fiducia. E che soprattutto finisca per indebolire l’appeal del governo, soprattutto in una fase nella quale si valuta di dare un taglio sempre più politico all’esecutivo Monti. Non a caso il presidente del Senato, Renato Schifani, fa sapere che in aula «si rafforzerà il provvedimento con interventi che liberalizzino di più il mercato, difendendoci

po la chiusura di centomila negozi. Ma ben guardare le richieste dei piccoli potrebbero diventare centrali anche tra i grandi (Confindustria) nella corsa alla successione di Emma Marcegaglia. La base, infatti, non ama la mediatica campagna elettorale che si aperta tra Giorgio Squinzi e Alberto Bombassei.

Gli iscritti – soprattutto nel Nordest che sulla carte ha appoggiato Mister Brembo – definiscono quello in atto «uno scontro tra due potentati: i ricchi lombardi e il Sud manifatturiero con Squinzi e la Fiat, le grandi controllate del Tesoro e le imprese vicine all’ex presidente Montezemolo dall’altro». In quest’ottica i giochi si riaprono, con il rischio di arrivare a marzo, quando si sceglierà il nuovo presidente, con il direttivo spaccato a metà. Ad acuire le tensioni e le divisioni anche l’approccio che i due duellanti han-

dalle ovvie pressioni di lobby e corporazioni che cercano di irrigidirlo». Intanto se la ride il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «Il governo non può essere forte con i deboli e debole con i forti». Sulla stessa linea le associazioni dei consumatori aderenti a Casper: «Una liberalizzazione così di fatto annulla qualsiasi beneficio in (f.p.) favore degli utenti».

no con il modello di relazione sindacale. Forte dei successi ottenuti con gli accordi dei chimici – dove per la prima volta le parti hanno fatto della bilateralità e delle eccezioni aziendali un must – Squinzi non mette in discussione la centralità del contratto nazionale, arrivando persino a definire non centrale il mantenimento dell’articolo 18. Il falco Bombassei suggerisce di incentivare l’utilizzo della contrattazione di secondo livello e la rimodulazione di alcune tutela troppo onerose per le aziende. In quest’ottica va inserita l’attacco della Marcegaglia (molto vicina a Squinzi) contro il sindacato che, attraverso l’articolo 18, difende «assenteisti cronici e fannulloni», fatto proprio a Firenze dove gli imprenditori sembrano orientati a votare per Mister Brembo. Il quale ne ha subito approfittato per stigmatizzare «il tono della presidente, che forse è stato un po’ esagerato».


Il segretario del Popolo della libertà, all’uscita da Palazzo Chigi, ha commentato: «È stato un incontro molto costruttivo»

Operazione 2013

Un vertice di tre ore con il premier, Alfano e Letta sancisce il cambio di rotta per il Pdl: Berlusconi sta con Monti. Anche dopo il voto di Riccardo Paradisi

ROMA. «Incontro costruttivo» lo definisce il segretario del Pdl Alfano quello tra Monti e Berlusconi. Incontro dove Berlusconi ripete a Monti le sue intenzioni: sostenerlo lealmente su tutta la linea e soprattutto sulla riforma del lavoro. Sostenerlo, se del caso anche domani, alla fine di questa legislatura. Facendo capire all’attuale premier che se non si presenterà con nessuno in particolare il suo appoggio e quello del centrodestra gli sarà garantito anche nel 2013. Il sugo è questo, poi c’è il corredo, compresa la lamentela sui processi. “Monti non è una meteora” aveva detto del resto Berlusconi ai suoi nell’incontro di martedì sera con i vertici del Pdl. Il suo ciclo è destinato a durare anche dopo questa legislatura. Si tratta di prenderne atto – ragiona l’ex presidente del Consiglio - assieme al fatto che le rendite di posizione sono finite, le vecchie alleanze, a destra e sinistra, archiviate e destinate a perdere progressivamente ogni potere propulsivo.

Un ciclo è compiuto insomma. E Monti rappresenta il lungo interregno verso una nuova geografia politica che non prevede più le coalizioni sin qui conosciute rese possibili dal premio di maggioranza. Per questo Berlusconi ribadisce la necessità di proseguire nella elaborazione di un modello che non pri-

Illegittima l’istanza del Cavaliere sotto processo per corruzione

Dalla Corte, no alla ricusazione. Sabato la sentenza su Mills MILANO. Il pranzo deve essergli andato storto. Proprio qualche minuto prima di incontrare il premier Mario Monti, Berlusconi ha appreso la notizia che i giudici della Corte d’Appello di Milano hanno respinto la richiesta di ricusazione nei confronti dei giudici del processo Mills, presentata nei giorni scorsi, dai suoi avvocati. Berlusconi, come è noto, in questo processo è imputato di corruzione in atti giudiziari. Il Cavaliere, per tramite dei suoi avvocati, lamentava una «anticipazione del giudizio» che sarebbe stata espressa dal collegio, presieduto dal giudice Francesca Vitale. In pratica, è stata bocciata la tesi (sostenuta da Berlusconi) che il collegio avrebbe «anticipato il giudizio in tema di prescrizione» e avrebbe condotto un’ istruttoria dibattimentale «a senso unico», consentendo l’audizione dei soli testimoni indicati dall’accusa, e tagliando invece quelli chiesti dalla difesa. Una tesi, questa, evidentemente infondata per i giudici della Corte d’ Appello, i quali invece hanno accolto la richiesta dell’ avvocato generale Laura Bertolè Viale di respingere nel merito la dichiarazione di ricusazione proposta dall’ex premier in quanto non è indebita manifestazione del proprio giu-

dizio indicare in udienza che un reato sta per prescriversi. Insomma, Berlusconi resta appeso fino a sabato, quando il processo riprenderà con lo stesso collegio ed è previsto che arrivi a sentenza. La speranza, per il Cavaliere, è che i giudici almeno decidano di dichiarare il reato prescritto: in realtà, il collegio di difesa del leader del Pdl ha sempre puntato su questo e a questo punto la probabilità che la corte dichiari prescritto il reato è altissima. La pubblica accusa, da parte propria, ha sempre ripetuto che i termini di prescrizione scadono più avanti e hanno chiesto per Berlusconi una condanna a cinque anni di reclusione. L’ansia si propaga anche ai fedelissimi del Cavaliere, quelli che ancora non hanno deposto le “armi bipolari”. Per esempio Sandro Bondi ha rilasciato la seguente dichiarazione: «La decisione della Corte d’Appello di Milano non rappresenta una sorpresa, ma costituisce comunque un altro colpo alla credibilità della giustizia». Dello stesso tono, il commento affidato alle agenzie da Maurizio Gasparri: «Che taluni magistrati siano prevenuti è sotto gli occhi di tutti. Forse sono prevenuti anche quei giudici che oggi ne avrebbero dovuto prendere atto».

vilegi più le coalizioni bensì i partiti maggiori, evitando una eccessiva frammentazione e la dispersione di voti. Per il resto si tratta di resistere alle amministrative e sostenere il governo Monti con un’azione di proposta migliorativa dei provvedimenti governativi. A partire dalla riforma del lavoro. Un tema in cui il Pdl è compatto sul chiedere al governo di andare avanti senza tentennamenti anche per allargare il varco delle contraddizioni interne al Pd, che sul nodo lavoro e in particolare articolo 18 potrebbe davvero spaccarsi in due.

In effetti, il partito democratico in questo tornante della politica italiana è all’angolo. Anche se il segretario Bersani è impegnato in uno sforzo ammirevole per sopire o almeno non rendere clamoroso il dissenso interno, sdrammatizzando il rischio invece reale d’una frattura insanabile in seno al partito. I vertici del Pd sono preoccupati e indecisi sulla condotta migliore: tengono un occhio al governo, uno al sindacato ed entrambi alle correnti interne che con Veltroni in testa non vogliono regalare Monti alla destra. Del resto sono in gioco, insieme, tattica e strategia del partito. Bersani intanto si tiene in equilibrio, tanto da ricordare il Veltroni del “ma anche”: «In questo momento di recessione serve la riforma ma serve anche la coesione. Serve una scommessa insieme e sono


verso il 2013

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Ha vinto la linea Casini: cambierà tutto «Non basterà un anno», aveva detto il leader Udc chiedendo ai partiti un occhio più lungo di Osvaldo Baldacci ercoledì delle ceneri per Silvio Berlusconi che con Gianni Letta e Angelino Alfano affronta un insolitamente lungo pranzo di quaresima con il premier Mario Monti.Tre ore di incontro che potrebbero rappresentare un momento cruciale per la vita di questo governo. Un tentativo di rilancio che, per restare nella metafora quaresimale, rappresenta un cammino di conversione. Quel Pdl che voleva staccare la spina a Monti ha affrontato una rapida e non indolore mutazione che lo ha portato ad assumersi via via sempre più responsabilità fino ad arrivare a un sostegno pieno al governo Monti e addirittura – sono indiscrezioni riportate sulle riunioni delle sere scorse – alla possibilità di proseguire nella prossima legislatura l’ipotesi di questo governo tecnico e in grande coalizione, anche se magari continua a non piacere chiamarla così. Governo guidato da chi, dipende dalla disponibilità di Monti (sempre ieri Adolfo Urso parlava di «governo Monti o nello spirito di Monti»), ma queste sono vicende ancora lontane: quel che è vicino è la rivoluzione copernicana del Pdl o almeno del suo direttorio, che sposa la linea che aveva respinto a morte fino a pochi giorni prima delle dimissioni di Berlusconi.

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Insomma, il sostegno senza se e senza ma al governo di risanamento del Paese vuol dire molto. Vuol dire molto per la forza del Governo, per il cammino dell’Italia. Ma vuol dire molto anche sul piano politico.Vuol dire che viene definitivamente accolta la linea che convinto che il governo è impegnato a raggiungere un accordo. Il Pd seguirà quell’accordo, anche perché l’articolo18 è un principio di civiltà garantito anche in altri paesi». Già, ma se Monti invece tirerà dritto? Che fa il Pd? Il deputato del Pd Roberto Giacchetti, per parte sua, ha già deciso «Se sul mercato del lavoro le posizioni del Pd saranno subordinate a quelle di un sindacato io terrò le mani libere e voterò secondo coscienza.Tanto più che fino a prova contraria il Pd nei suoi organi statutari non ha mai preso una posizione del tipo di quella che esprime Fassina sulla riforma del mercato del lavoro». Non è solo Giacchetti a pensarla così, a ritenere cioè che il Pd non debba subordinare le sue decisioni al gradimento di un accordo sindacale, a ritenere inopportuna anche solo l’ipotesi d’una partecipazione al corteo della Fiom da parte

l’Udc predica da molto molto tempo, la linea dell’impegno comune che sostituisce la contrapposizione, la linea della sobrietà che sostituisce quella della propaganda, la linea del rigore che prende il posto di quella della spesa per conquistare consenso, la linea del dialogo invece di quella della faziosità, la linea della continuità nel nuovo stile rispetto alla linea della restaurazione del preMonti. In quest’ottica la cena di Lesmo di martedì è stata importantissima: Berlusconi non si è spinto apertamente a candidare

Sul Pdl ha pesato anche il calo di consensi: ormai il Cavaliere è pronto anche a candidare Monti alle prossime elezioni Monti per dopo il 2013, ma secondo le agenzie alcuni presenti avrebbero riferito che in diversi colloqui non ha escluso questa possibilità. L’obiettivo – dicono – sarebbe quello di stringere un patto con il Professore anche per il 2013, perché - avrebbe spiegato il cavaliere - non sarà facile uscire da questa crisi economica entro un anno e per questo servono riforme condivise e un progetto più a lungo termine. Più o meno quello che ripete continuamente e da tempo l’Udc. Tutto questo infatti ha ulteriori profonde conseguenze politiche. Perché riscrive non solo una maggioranza politica ma una specie di arco nazionale. Difficile che chi argomenti in questo modo scelte così importanti e di prospettiva

possa poi ritrovarsi fianco a fianco chi contesta frontalmente quello stesso governo Monti con tutte le armi della demagogia. Il Pdl in versione quaresimale quindi non sta solo imboccando una via tattica di breve periodo, bensì sta sposando una linea che lo riporta nell’area moderata e popolare allontanandolo dall’area populista. Una linea avviata dalla mozione unitaria sulle politiche europee che tanta importanza ha avuto e che ha segnato un perimetro anche per il futuro all’interno del quale si può scegliere di stare o non stare.

E il Pdl, pressato tanto dall’assunzione di responsabilità quanto dal crollo di consenso e coesione, sta scegliendo. Non senza problemi, perché al di là della facciata permane nel Pdl, nei suoi quadri e nei suoi elettori un disagio fortissimo, che si manifesta continuamente ogni volta che l’aula parlamentare va al voto: il tabellone in riferimento ai banchi pidiellini mostra sempre tutti e tre i colori possibili, il verde dei favorevoli, il bianco degli astenuti, il rosso dei contrari. Senza contare i numerosi assenti e i tanti disimpegnati. E senza chiamare in ballo le contraddizioni altrettanto grandi di quelle costole del Pdl che sono in Popolo e Territorio e nel Gruppo misto. Per non voler ricordare cosa è successo sulla Legge Comunitaria in riferimento all’emendamento leghista sulla responsabilità civile dei magistrati, un emendamento avviato per conto del Pdl, che in aula il gruppo Pdl aveva acconsentito ad accantonare, ma la rivolta dei loro stessi deputati ha portato a cambiare l’indicazione di voto in libertà di

di suoi esponenti di rilievo come Cesare Damiano, capogruppo Pd nella Commissione Lavoro della Camera ex ministro del Lavoro, o del consigliere economico di Bersani Stefano Fassina. Bersani fa spallucce anche alla provocazione veltroniana per cui il Pd non deve regalare Monti alla destra e riesuma la vecchia idea della centralità del Pd. «Monti non viene dopo i partiti ma dopo Berlusconi». Il messaggio è esplicito: dovrà decidere Monti da che parte schierarsi: con o contro il Pd.

di monti si giocherà una partita nuova. Non a caso Berlusconi non esclude la possibilità che sia il centrodestra a candidare Monti come presidente del Consiglio per la prossima legislatura. Una risposta a Veltroni ma anche la consapevolezza che il vecchio schema bipolare non c’è

Un fianco apertissimo agli affondi del Pdl. La realtà è che ha ragione Berlusconi e ha torto Bersani. Non sulla questione della riforma del lavoro – questione di punti di vista – ma sul mutato scenario politico italiano. I partiti e le vecchie coalizioni hanno perduto la loro centralità bipolare e dopo l’interregno

più. «I partiti - dice a liberal il politologo Gianfranco Pasquino – sono in una posizione ambigua perché la realtà è ambigua. Monti fa quelle cose che loro non potevano e non volevano fare. Sono costretti ad appoggiarlo perché le politiche sono utili. Però sanno anche che se lui ha successo loro rischiano di

coscienza e alla fine l’emendamento è passato contro la volontà della dirigenza. Insomma, Berlusconi e Alfano hanno il loro bel da fare a far digerire la loro linea, e scommettono molto rischiando anche di pagare conseguenze pesanti. Per questo sanno che non possono più tentennare, che la migliore via di uscita è dedicarsi al Paese e al contempo inserirsi in un contesto più ampio che sfumi le contrapposizioni e dia loro respiro. Un contesto in questo momento favorevole perché i temi del lavoro e in precedenza delle pensioni mettono in maggiore difficoltà il Pd.

Per questo Alfano, che già in precedenza aveva invitato Monti a procedere speditamente sul tema del lavoro senza farsi condizionare, dopo l’incontro ha subito twittato soddisfatto“Incontro costruttivo con il presidente Berlusconi, il premier Monti e Gianni Letta sui principali temi dell’agenda parlamentare e internazionale”, dettando la linea ai suoi. E anche Monti da parte sua sa bene che tenere buono il PDL è una garanzia necessaria per proseguire le riforme: e in formato twitter risponde su Panorama: “A Berlusconi sono molto riconoscente perché il suo atteggiamento è stato di grande responsabilità verso il Paese. Lo sento spesso, ma non lo disturbo su ogni cosa”.

essere appannati. Del resto la dialettica interna al Pd è quella che c’era prima di Monti, la dialettica nel Pdl è quella che si è aperta dopo la nomina di Alfano. La novità è che i più attenti di entrambi gli schieramenti cercano di avere oggi un rapporto con Casini. Intuendo che

Dice Gianfranco Pasquino: «I partiti sono in una posizione ambigua perché il premier è riuscito a fare tutte quelle cose che loro non potevano e non volevano fare. Perciò devono sostenerlo» sarà lui l’ago della bilancia della prossima tornata politica. Non a caso tutti stanno convergendo verso il sistema elettorale fin qui caldeggiato dall’Udc». Si tratta di vedere però i numeri delle elezioni politiche. «I partiti – ricorda Pasquino – sono organizzazioni fatte da uomini ambiziosi. Veltroni non fa pura ac-

cademia quando parla del rapporto che il Pd dovrebbe instaurare con Monti. Si vede di nuovo proiettato a un ruolo di leader. E così D’Alema, che non ha mai rinunciato alla prospettiva del Colle. Nel Pdl Alfano non rinuncerà tanto facilmente a correre per il premierato. Diverso appunto è il discorso se Monti avrà successo, se l’esperienza di questo profilo governativo proseguirà. In questo caso a dare le carte sarà Casini, agevolato anche da una riforma elettorale in senso proporzionale. L’ago della bilancia si fisserebbe al centro e verso di lui sarebbe la corsa ad allearsi. In questa prospettiva Casini potrebbe anche lavorare alla costruzione del partito dei moderati. Trasformando il suo terzo polo in un polo alternativo al centrosinistra. Ma sono analisi datate ad oggi. Possono cambiare molte cose prima del 2013».


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verso il 2013

Il capogruppo alla Camera, in un intervento che sta per uscire, riposiziona in modo drastico il partito del Cavaliere

Contrordine azzurri

Il rapporto con Bossi? Irrecuperabile. Il ruolo “monarchico” di Berlusconi? Finito. Un saggio di Cicchitto dà base teorica alla nuova stagione del Pdl. Obiettivo: un altro soggetto politico in grado di allearsi con tutti i moderati di Giancristiano Desiderio olete sapere la verità sul futuro del Pdl e sul governo Monti? Dovete aspettare marzo. Dunque, ancora soltanto qualche giorno. Lo dice Fabrizio Cicchitto nel suo saggio politico di prossima uscita per la rivista L’Ircocervo. Qualche anticipazione, però, la possiamo già dare perché nella sua ricostruzione della crisi internazionale e della crisi italiana, il caprogruppo del Pdl alla Camera lascia facilmente immaginare la meta verso la quale si è in cammino. Anzi, lo dice esplicitamente: «Il Pdl deve riservarsi una valutazione complessiva della situazione di qui a qualche mese lasciandosi libere le mani rispetto ai due diktat contrapposti, quello della Lega che condiziona un’intesa elettorale al Nord ad una immediata crisi di Governo, quello di chi ci chiede di impegnarci ad occhi chiusi e perinde ac cadaver fino al 2013. A nostro avviso, il Pdl dovrà fare a marzo il punto, senza fare oggi scelte pregiudiziali e preco-

V

stituite». Senza ripetere adesso quanto ha dichiarato in modo perentorio l’ex ministro leghista Calderoli - «l’alleanza con il pdl è morta e sepolta» - appare evidente che il Pdl non considera più recuperabile il rapporto con la Lega e pensa a se stesso come a una “cosa nuova”.

Il saggio di Cicchitto è lungo e articolato: svolge sia un’analisi economica del mondo americano e del continente europeo, sia una storia degli avvenimenti politici e giudiziari degli ultimi anni, quando ebbe inizio l’ultimo governo Berlusconi. Tuttavia, dovendo indicare il cuore del saggio, beh, appare evidente che questo batta là dove il capogruppo del Pdl parla chiaramente dell’errore commesso dalla Lega nell’estate del 2011 quando rifiutò di riformare le pensioni. Un errore che, sembra di capire, per Cicchitto non solo ha determinato la fine del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti ma ha ancora adesso un peso politico

chiaro nell’influenzare gli sviluppi della politica e delle alleanze di partito. «Attraverso la segreteria di Alfano è in atto il tentativo di una profonda trasformazione del partito, da partito guidato unicamente da una leadership carismatica a partito che mantiene la leadership carismatica di Berlusconi ma che si auto-organizza sul territorio e nella società civile e che ha

I guai sono iniziati quando la Lega ha bocciato la riforma delle pensioni

una guida politica, appunto quella di Angelino Alfano». Che significa? Che è finita l’era berlusconiana che si reggeva sulla presenza del leader e del suo carisma, vero o presunto. Qui Cicchitto parla di un Pdl 1 e un Pdl 2 e boccia l’ipotesi del doppio partito che per certi versi è la riedizione di quanto si fece nel 1994 con l’alleanza al Nord con la Lega e al Sud con il Msi: «Non sarebbe certo una via d’uscita dalla attuale difficoltà politica quella di ipotizzare un Pdl del Nord e un Pdl del CentroSud magari con due leadership diverse e con due diverse alleanze politiche. Il Pdl è per definizione un partito nazionale e la sua eventuale divisione per aree geografiche sarebbe un suicidio”. Dunque?

Ecco la novità politica di Cicchitto: «Per ciò che riguarda la politica delle alleanze essa, allo stato, attraversa una situazione di difficoltà da entrambi i lati, quello della Lega e quello Udc. D’altra parte, come abbiamo

già visto, a luglio-ottobre la Lega Nord si è assunta una responsabilità assai rilevante per la riuscita dell’operazione architettata contro Berlusconi rifiutando la riforme delle pensioni, successivamente la Lega non si è posta l’obiettivo di salvare il paese dalla crisi finanziaria, ma il problema opposto, quello di cavalcare l’inevitabile dissenso. Ci auguriamo che sia possibile riprendere un discorso, ma la manifestazione di Milano si è svolta all’insegna di un integralismo che andava addirittura oltre Bossi». La distanza che c’è tra il Pdl e la Lega sembra ormai incolmabile: sia per quanto accaduto in estate - l’errore della Lega, dice Cicchitto - sia per la scelta della Lega di «cavalcare l’inevitabile dissenso». Allora, Cicchitto si volta dall’altra parte e cerca il dialogo con i moderati: «Come ha rilevato Maurizio Lupi c’è qualche intenzione nell’Udc di puntare a disarticolare a mettere in difficoltà il Pdl. Al punto in cui siamo sia per ciò


Il nuovo corso del Popolo della libertà mette in difficoltà La Russa, Matteoli e Gasparri

«Ma questa volta noi ex-An non ci faremo mettere da parte» I colonnelli si preparano a sostenere la svolta: «Il partito, così come era stato concepito nel 2008 non ha più senso», dice Marcello De Angelis di Marco Palombi

ROMA. Nel dibattito interno al Pdl la componente che sembra più in difficoltà nel seguire le evoluzioni “tecniche” del quadro politico è certamente quella degli ex An. Per questo abbiamo chiesto a Marcello De Angelis - deputato e direttore del Secolo d’Italia vicino ad Altero Matteoli (ma ben visto da tutti i furono colonnelli) – un’analisi della situazione dal punto di vista di chi il governo dei professori lo ha subito più di chiunque altro, meno lo sopporta e più ha da perdere dall’affermarsi di un clima da Grosse Koalition permanente. Ne è uscita una conversazione molto franca sulle varie posizioni in campo, che spiega bene il procedere spesso ondivago del partitone berlusconiano dilaniato dalle correnti e dall’incertezza. Eccola. Berlusconi e Letta sono andati di nuovo a pranzo da Monti. Il Cavaliere ha semplicemente preso atto del consenso straordinario che circonda il governo dei tecnici. Dico straordinario nel senso che arriva nonostante i provvedimenti dolorosi che prende e, secondo me, ha a che fare col fatto che gli italiani percepiscono finalmente un governo che governa – con buona pace della democrazia diretta – di fronte ad una grande crisi su cui la politica non ha saputo o potuto intervenire. Quindi Berlusconi è diventato “montiano”? Diciamo che Monti sta realizzando il programma del Cavaliere, tutte quelle riforme che lui non è riuscito a fare nonostante un’ampia maggioranza parlamentare, ma non esiste una corrente montiana nel Pdl. Lei dice? L’appoggio del partito a Monti è tattico non strategico, il problema mio personale e di molti fra gli ex An è che abbiamo il problema della coerenza: forse in politica si può dire tutto e il suo contrario, ma non ci si riesce così facilmente, è una vita che denunciamo i tecnocrati… Berlusconi, comunque, adesso pare andarci a nozze. Il Cavaliere sta cercando di convincere un Pdl riluttante che Monti in realtà è un’opportunità: i tecnici fanno le riforme che a noi non è stato concesso di fare, questo è il suo pensiero, e finita questa parentesi noi ci troviamo di fronte ad un’Italia diversa. Un’Italia in cui lui, evidentemente, ritiene ancora di poter giocare un ruolo. Si candida ancora? Credo che la scelta di impegnarsi o meno in prima persona dipenderà probabilmente

dall’esito delle sue vicissitudini giudiziarie e dalla sua volontà: io comunque gli consiglio il ruolo di grande elettore e non quello di candidato. In tutto questo, il Pdl che futuro ha? Quel partito, per com’era stato concepito per le elezioni del 2008, ha finito il suo percorso, sarebbe inconcepibile ripresentarlo con lo stesso formula: la partita, ormai, si gioca sul dopo-Monti.

«Una rifondazione missina al 3% sarebbe una follia. Ormai i partiti identitari non hanno più senso» Questo governo, d’altronde, è stato un bagno nell’acido per tutti i partiti: il Pd non sta certo meglio del Pdl… Si parla di un nuovo movimento berlusconiano, del ritorno a Forza Italia… Sciocchezze. Il problema si è posto per le amministrative: i sondaggi del Pdl non sono buoni e quindi si è valutata l’idea di utilizzare solo le liste civiche. Al-

la fine, secondo me giustamente, si è scelto di proseguire in entrambe le direzioni: sarebbe bizzarro che un partito che ha appena fatto il tesseramento e si appresta a celebrare congressi non presenti il proprio simbolo. Il Cavaliere, però, ci pensa davvero ad un nuovo partito. È ovvio. Il collante del PdL era la vittoria e senza quella si rischia che i topi scappino dalla nave che affonda: Berlusconi cerca solo un nuovo modo per tenere tutti insieme. Voi ex An non avete paura che vi “facciano fuori”? Noi ci possiamo fare fuori solo da soli e la cosa non è all’ordine del giorno: come si è dimostrato poco prima delle dimissioni di Berlusconi, il problema sono semmai le fuoriuscite dei fedelissimi berlusconiani che cercano una nuova collocazione forte, potremmo chiamarla la sindrome Carlucci. Però si parla spesso di un partito degli ex An? Per fare cosa? Una rifondazione missina al 3%? Sarebbe una follia: i partiti identitari non hanno più senso. Noi diciamo che il grande contenitore di centrodestra, anche in una forma nuova, da inventare, va rafforzato. Altrimenti? Quel che accade è che Casini sta lanciando un’Opa sulla dissoluzione del Popolo della Libertà: se passasse quel progetto evidentemente la destra diventerebbe marginale. La nostra esigenza, dunque, è tutelare il Pdl: d’altronde abbiamo anche subìto scelte dolorose, come l’appoggio al governo Monti, pur di non rompere. Si parla sempre più spesso di Grande Coalizione anche alle elezioni. La politica è il regno del possibile, per carità, ma qui è come tentare di fare l’oroscopo. Per sapere se questa cosa ha un senso bisogna vedere quale sarà la legge elettorale: sono le regole del gioco a costruire la partita. E quindi? La proposta del Pd che abbiamo di fronte mi sembra che abbia l’unica caratteristica di passare dalla tutela del bipolarismo a quella del tripolarismo: probabilmente Bersani e Casini hanno già un accordo da mesi. Il Pdl, però, partecipa alle trattative e non pare scandalizzato, anzi… Io non mi siedo a quel tavolo, dunque non so cosa dire su questo. Mi sembra, però, si dimentichi un dato: si capisce perché questa legge convenga a Pd e Udc, ma non cosa porti al Pdl.

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che riguarda la persistenza di una situazione assai grave a livello internazionale sia per i rischi di scollamento fra il sistema politico e la pubblica opinione, riteniamo che la cosa più seria, ma anche la più realistica per tutti, per noi del Pdl ma anche per Casini sia quello di andare oltre i giochi tattici. Allora la nostra risposta fondamentale deve essere quella da un lato di migliorare e rinnovare il Pdl in quanto tale, dall’altro quella di lavorare esplicitamente per una grande formazione politica che vada aldilà di ciò che è lo stesso Pdl con l’obiettivo strategico di offrire un nuovo soggetto politico in grado di coprire tutto lo spazio moderato e riformista esistente a livello politico, sociale e culturale».

La novità di cui parla Cicchitto è «una grande formazione politica che vada aldilà di ciò che è lo stesso Pdl». E prima di concludere l’articolo che anticipa l’uscita del saggio di Cicchitto che, in fondo, divulga la nuova linea politica del Pdl, riportiamo ancora un passo: «Non si tratta di rifare la Dc perché in politica e anche nella storia i flashback non esistono, ma di aggregare tutti coloro che sono moderati, riformisti, provenienti dalle esperienze politiche dei cattolici, dei socialisti riformisti, dei laici, dalla evoluzione della destra democratica e specialmente di giovani che non hanno avuto modo di conoscere le sigle precedenti e che quindi non si portano dietro il retaggio del passato ma hanno un orientamento politico culturale preciso. A mio avviso questa operazione deve coinvolgere il Pdl, l’Udc, altre forze, aprire, se possibile, un confronto positivo con la Lega, aldilà dei giochi tattici, dei rinvii, dei tentativi, di operazioni di piccolo cabotaggio. La vita politica italiana per effetto di un combinato disposto del tutto micidiale costituito dalle conseguenze sociali della crisi finanziaria e del conseguente rigorismo economico, dall’anti politica e dal gioco a somma zero delle forze politiche esistenti rischia di andare incontro a derive devastanti, se non si alza il tiro sul terreno della prospettiva politica e se dallo stesso Pdl, in un momento di indubbia difficoltà, non viene un appello e un’iniziativa politica per andare oltre la situazione attuale e le schermaglie quotidiane. Con un’iniziativa di questo tipo si potrebbe anche interloquire con il dibattito all’interno del mondo cattolico che allo stato rivela l’esistenza di molti fermenti, intenzioni, velleità insieme generosi e contraddittori». E allora, la conclusione? È quanto veniamo scrivendo su queste pagine da qualche anno a questa parte: il partito dei moderati. Il governo Monti ne è già un’espressione.


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i sono molti modi per affrontare un quadro, per comprenderlo e collocarlo all’interno della storia. Estetica e intenzione figurative si mescolano in modo complesso e inscindibile, il rapporto fra significante e significato è stretto. Maria Elena Massimi propone un’indagine molto interessante nel suo La Cena in casa di Levi di Paolo Veronese. Il processo riaperto, recentemente edito da Marsilio (205 pagine, 30,00 euro), nel quale l’opera d’arte è considerata prima di tutto come fonte storica, oggetto di una ricerca di comprensione che la inserisce nel contesto di quanto avveniva nella Venezia della seconda metà del Cinquecento, gli anni nei quali venivano messe in atto le decisioni prese al Concilio di Trento. Il risultato del lavoro della Massimi è un racconto vivo, intenso e appassionato che ci dice molto su di una società nella quale l’iconografia pittorica aveva un valore ben superiore che in quella attuale, il cui immaginario figurativo è dominato dalla televisione. Quasi mezzo millennio fa un grande quadro come quello ordinato a Paolo Veronese dai frati del convento dei Santi Giovanni e Paolo era insieme un’opera d’arte e un manifesto ideologico in grado di provocare reazioni significative, persino di innescare un processo, come in effetti accadde. Gli atti del tribunale dell’Inquisizione relativi al procedimento intentato contro Paolo Veronese a proposito del dipinto che oggi conosciamo come La Cena a casa di Levi furono scoperti da Armand Baschet nel 1867 e hanno aperto numerosi interrogativi in relazione all’opera, alla sua concezione e al suo significato. Il grande pittore, all’epoca quarantacinquenne e pienamente affermato dal punto di vista professionale, dovette presentarsi il 18 luglio 1573 davanti al tribunale dell’Inquisizione di Venezia per spiegare quale fosse il soggetto del quadro che aveva da poco realizzato e come mai avesse scelto di inserire nella scena raffigurata una serie di personaggi non convenzionali.

C

I primi dubbi, del tribunale come dei contemporanei, sono proprio relativi all’argomento del quadro e non sono fugati dalla scritta che si legge lungo la balaustra dell’architettura che inquadra l’evento raffigurato. Lì si legge Fecit D[omino] Co[n]vi[vium] Magnu[m]Levi Lucae Cap[itulum] V, e cioè Levi preparò un grande banchetto per il Signore, Luca capitolo V. Già il fatto che si debba scrivere che cosa un quadro raffigura rende perplessi, inoltre lo stesso Veronese, secondo il verbale del tribunale, alla domanda relativa a qual fosse l’argomento dell’opera rispose che si trattava di un’Ultima Cena. Eppure una sguardo alla scena rappresentata basta a contraddire questa affermazione. Il Cristo è seduto a tavola al centro dell’azione, ma buona parte degli apostoli è assente, mentre invece ci sono molti altri personaggi raccolti attorno al desco, circondati da una miriade di figure secondarie indaffarate attorno a loro oppure dedite ad attività che non si conciliano con l’atmosfera dell’Ultima Cena. La prima domanda che la Massimi si pone riguarda proprio il soggetto del quadro e le ragioni che rendono necessari il suo nascondimento e la dichiarazione, un falso evidente che però doveva pur avere un senso all’interno della vicenda in corso. Il giudizio si concluse quasi in un nulla di fatto. In un primo momento il

il paginone Tra ispirazione e committenza: il mistero del soggetto del celebre dipinto «La cena a casa di Levi», per il quale il grande pittore fu interrogato dal tribunale dell’Inquisizione, analizzato da Elena Massimi

Ma con chi ha ce di Sergio tribunale richiese al Veronese una modifica molto impegnativa dell’opera: l’inserimento nella scena della figura della Maddalena, ma lui si rifiutò adducendo motivi artistici, di equilibrio delle figure. Con chiara evidenza si sta parlando di qualcos’altro: la Maddalena non è presente all’Ultima Cena, non è lei il personaggio che manca nell’opera del Veronese, lei è la figura chiave di un’altra cena, quella a casa di Simone, in Luca 7. Perché mai essa dovrebbe venire dipinta in un quadro che si dice raffiguri l’Ultima cena e che in seguito verrà chiamato Cena a casa di Levi? Infatti al momento del processo ancora non è questo il suo titolo ufficiale, altrimenti la risposta del Veronese in merito al tema ritratto non avrebbe senso. Di fronte al rifiuto dell’autore dell’opera di effettuare l’inserimento richiesto, il tribunale si dichiarò disponibile ad accettare un intervento minore, che venne realizzato. Con questo si concluse la parte giudiziaria della vicenda. Anche se non sappiamo da nessuna fonte diretta in cosa sia consistito questo intervento, cominciamo a poterlo immaginare. La Massimi procede nella sua indagine in modo analitico. Considera nei dettagli la complessa scena raffigurata nel quadro e poi la confronta con le possibili occasioni conviviali di Gesù presenti nelle Scritture. Esse sono diverse, ma non

moltissime, soprattutto quasi sempre durante i banchetti ai quali il Cristo partecipa accadono fatti di rilievo dal punto di vista iconografico che permettono una facile identificazione. Esclusa l’Ultima Cena, che sarebbe ben riconoscibile, troviamo in Giovanni le nozze di Cana e la cena di Betania, offerta a Gesù da Lazzaro risuscitato. Nessuna delle due si adatta al quadro del Veronese, la prima è dominata dal miracolo dell’acqua trasformata in vino, la seconda dalla figura di Lazzaro, che palesemente manca nel

cena a casa di Simone, con la Maddalena come protagonista. Poi ci sono altre due occasioni conviviali in relazione alle quali non esistono indicazioni sul nome del padrone di casa. Esse si trovano entrambe in Luca. Nella prima, Luca 11, si svolge uno duro scambio di battute prima fra Gesù e il fariseo che lo ospita in relazione alle abluzioni rituali e al rapporto che esse possono avere con un atteggiamento di reale devozione e dopo, più o meno sullo stesso tema, fra Gesù e un dottore

L’ambiguità interpretativa è tra due episodi, narrati nel Vangelo di Luca nel capitolo V e nell’Undicesimo. Il tutto complicato da una dichiarazione rintracciata nel verbale dell’interrogatorio in cui si fa riferimento all’Ultima Cena quadro realizzato per il convento dei Santi Giovanni e Paolo. Nei vangeli sinottici sono citati altri cinque eventi. Il pranzo a casa di Matteo, detto anche Levi, il quale invita il Signore a un banchetto subito dopo essere stato chiamato fra gli apostoli, una scena che non presenta speciali caratteri identificativi; il banchetto offerto da Zaccheo, la cui iconografia è segnalata dalla bassa statura del padrone di casa e di solito dominata dal sicomoro sul quale si era arrampicato per meglio vedere Gesù; la

della legge che interviene nella discussione sentendosi chiamato in causa. Ben a ragione, come il Cristo puntualizza nella sua risposta, quando contesta l’interpretazione oppressiva che viene data alla legge dai dottori, ai quali dice «caricate gli uomini di pesi insopportabili e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!». Anche in Luca 14 Gesù si trova a pranzo con un capo dei farisei di cui non viene detto il nome: la scena è dominata dalla guarigione di un idropico, che la rende iconograficamen-


il paginone

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sulla mensa alla posizione dei tovaglioli. C’è persino un trompe-l’oeil che fa sembrare il braccio di uno dei commensali staccato dal corpo. La questione a cui tutto questo rimanda è sempre il rapporto fra verità della fede e legalismo, fra sostanza e apparenza, fra amore per il Cristo e ambizione di ricchezza e potere. In occasione dell’interrogatorio del 1573 il Veronese dichiarò di aver inserito figure di sua invenzione per ragioni estetiche e di fantasia. I giudici insistettero e gli chiesero una valutazione sull’opportunità di collocare nani, buffoni e soldati tedeschi in una tela raffigurante l’Ultima Cena. Il pittore ammise una qualche leggerezza, ma sottolineò come lo spazio nel quale aveva collocato Gesù fosse ben appartato rispetto a queste figure irriverenti e si dichiarò disponibile a effettuare le correzioni che fossero giudicate indispensabili per la correttezza teologica del quadro. Gli vennero accordati tre mesi per apportarle, senza che risulti ben chiaro in cosa dovessero consistere.

enato Veronese? Valzania te ben individuata, alla quale segue una riflessione teologica relativa al fatto che il miracolo è avvenuto di sabato. Solo il banchetto a casa di Levi, quello in Luca 11 e la cena a casa di Simone, quest’ultimo se la Maddalena comparisse in scena, si adattano alla raffigurazione proposta dal Veronese nel suo quadro. Individuare quella giusta vuol dire capire chi sono i personaggi raffigurati e quale siano state le intenzioni dei committenti e dell’esecutore.

Fatte queste considerazioni, la Massimi si dedica a inserire la vicenda del quadro nel contesto della commissione, la cui comprensione è necessaria per la sua interpretazione. L’opera ha una destinazione precisa: il refettorio di un convento, dove deve sostituire un’Ultima Cena andata distrutta in un incendio. Il tema di un banchetto di Gesù è quindi d’obbligo. Quello dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia non è un convento qualsiasi, al contrario si tratta di un luogo attorno al quale è in corso una disputa feroce fra conventuali e osservanti, in merito alle forme che il rispetto della regola debba avere, che i primi immaginano in modo meno formale dei secondi. Si tratta di intellettuali, studiosi, uomini di cultura, spesso con il ruolo di insegnanti nelle università veneziane, che hanno scelto di

prendere i voti per condurre una vita riservata e che non condividono la trasformazione in corso degli ordini religiosi in veri e propri apparati dipendenti da Roma, come invece le decisioni conciliari richiedono. Nella contesa gli osservanti contano quindi sull’appoggio pontificio, mentre la Repubblica di Venezia tende a difendere le realtà esistenti, che considera importanti sul piano culturale e anche riguardo all’indipendenza politica della città. In questo contesto è facile credere che i

venga imponendo una modifica radicale del dipinto. La Massimi riconosce con chiarezza nel quadro del Veronese i protagonisti dell’episodio narrato in Luca 11: il fariseo e il dottore della legge condannati da Gesù per la loro ipocrisia, insieme a personaggi di contorno il cui significato allegorico doveva risultare trasparente per il pubblico del Cinquecento. Si tratta di una galleria di figure che rimandano al tema del peccato e della mancanza di purezza, dell’ipocrisia e della vera fede:

Sullo sfondo la diatriba tra i religiosi committenti, divisi sul rispetto della regola. Forse l’artista abbracciò la causa dei conventuali, scontentando così gli osservanti. Per mettere pace e non perdere la faccia il tribunale chiese una modifica religiosi del convento dei Santi Giovanni e Paolo, roccaforte dei conventuali, abbiano deciso di utilizzare in chiave polemica l’occasione offerta dalla realizzazione di un nuovo quadro di notevole impegno, chiedendo all’artista che lo doveva dipingere di farne una sorta di manifesto delle loro ragioni, fornendogli la consulenza teologica e dottrinaria necessaria. Questo ha provocato la reazione degli osservanti, che una volta visto il quadro finito si sono rivolti al tribunale dell’Inquisizione perché inter-

un nano ubriaco, un servo che si allontana sanguinando dal naso, due lanzichenecchi che scendono le scale mangiando e bevendo, un grasso addetto alle carni in abito ebraico inoperoso in un angolo messo a confronto con il maestro di cerimonie che invece si prodiga a far sì che la tavola sia servita come si conviene. Anche i dettagli hanno un significato allegorico, dalle bottiglie vuote o piene alla trasparenza dei vetri, dai gesti compiuti da Pietro alla direzione degli sguardi dei personaggi, dagli oggetti disposti

Sappiamo che la prima modifica richiesta consisteva nell’inserimento nel dipinto della figura della Maddalena. Si domandava al Veronese di cambiare completamente il senso del suo quadro, che lui pretendeva fosse l’Ultima Cena mentre con ogni evidenza rappresentava un’occasione diversa. La presenza della Maddalena avrebbe dichiarato che si trattava della cena a casa di Simone e con questo avrebbe stravolto il significato di tutti i personaggi. A casa di Simone non era avvenuto nessun contrasto fra Gesù e il fariseo che lo ospitava e la conversazione si era svolta in termini distesi, senza alcuna accenno all’ipocrisia dei dottori della legge. Come abbiamo detto, il Veronese rifiutò di eseguire la modifica richiesta adducendo motivi artistici. Il gioco delle parti è chiaro. Il tribunale era composto almeno per metà da membri favorevoli ai conventuali, che sostenevano le loro posizioni accettando le dichiarazioni del Veronese, per quanto poco credibili esse fossero. Agli occhi di un contemporaneo il significato del dipinto del Veronese risultava evidente. Il tribunale non era quindi avverso all’imputato e non intendeva infliggergli una condanna, chiedeva solo che si individuasse una via d’uscita concordata, che si facesse un gesto riparatorio capace di tacitare la parte che si sentiva lesa, o almeno che consentisse al tribunale di dimostrare l’efficacia del suo intervento. Se in un primo momento si era chiesto al pittore di stravolgere il significato del quadro, in seguito ci si accontentò di una mediazione, molto favorevole a lui e ai suoi committenti. Risultava sufficiente dichiarare che l’occasione raffigurata nel quadro non era quella che sembrava ma un’altra, anche se simile, e si scelse a questo scopo il banchetto meno connotato dei Vangeli, quello durante il quale non succede niente di figurativamente significativo. Poco importa se fra i personaggi presenti nel dipinto manca il protagonista, Levi, che ha invitato Gesù a cena per ringraziarlo della chiamata che gli ha rivolto. Quello che serviva era solo una scritta, non troppo evidente, che corre lungo la balaustra dell’architettura: così la cena raccontata non fu più quella di Luca 11 e divenne almeno in modo formale qualcos’altro, anche se nel refettorio del convento dei Santi Giovanni e Paolo tutti i commensali sapevano alla perfezione cosa rappresentava il quadro che avevano di fronte.


mondo

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Ira di Obama. Sarkozy: «Assad se ne deve andare. Quel che troppo è troppo»

Siria, bombe sui cronisti Preso di mira il centro stampa di Homs. Uccisi due reporter: l’americana Marie Colvin e il francese Remi Ochlik di Antonio Picasso arie Colvin e Remi Ochlik uccisi. Edith Bouvier e Paul Conroy feriti gravemente. Sono le vittime d’eccezione del bombardamento, l’ennesimo, che ieri ha preso di mira Homs. La città ormai passerà alla storia come la martire della rivolta siriana.

M

A scioccare stampa e osservatori occidentali è stata soprattutto la notizia della caduta di Marie Colvin: 54 anni, giornalista di guerra, firma del Sunday Times, vittima già in passato di una ferita grave. Durante la guerra civile in Sri Lanka, alla fine degli anni Novanta, la scheggia di una granata le aveva provocato la perdita dell’occhio sinistro. Di Ochlik fanno riflettere i soli 28 anni. Infine, sempre per restare nella retori-

stesso ha fatto Rupert Murdoch, che del Sunday è editore. Gli artigli del raìs siriano lambiscono anche un cinico e disincantato tycoon com’è il padrone della News Corp. Indignazione anche su suolo francese. Ochlik era nato a Thionville. Mentre Edit Bouvier - che tra i feriti dell’attentato è la più grave - scrive per il Figaro. «Quel che troppo è troppo», si legge nel comunicato del ministero degli esteri transalpino. Ma è davvero troppo? E se l’esagerazione fosse stata superata già da mesi? È infatti a questo che si deve arrivare perché la Siria resti in pole position su tutti i giornali? La polemica dà spazio all’amarezza. Il realismo induce alla rabbia. O meglio all’irritazione. Non solo per quel che sta accadendo laggiù, ma anche per quel che si

Il colpo di mortaio che ha colpito i giornalisti (lei 54 anni, firma del «Sunday Times»; lui 28 anni, fotografo) era premeditato e non accidentale, come invece ha cercato di dire subito dopo Damasco ca risuona amaramente il silenzio intorno ai giornalisti siriani, anch’essi vittime del conflitto. Di loro si sa poco o nulla. Molti i blogger, oppure i fotografi fai da te che si sono immolati per postare su internet anche solo un’immagine a testimonianza del livello di efferatezza a cui si è arrivati. Homs, Hama, Damasco. Le tappe del genocidio non si limitano a queste. Agli aguzzini di Assad torna utile la polverizzazione della geografia siriana. Piccoli villaggi e tanto deserto: luoghi lontani dall’attenzione internazionale e dov’è facile far piazza pulita senza tanta eco. Per la morte della Colvin si è mobilitata la classe dirigente britannica. Cameron e il suo ministro degli esteri Hague hanno espresso il loro personale dolore durante la seduta alla Camera dei Comuni. Lo

legge e si sente dire da politici e governanti occidentali. Partiamo da Parigi. No, non siamo ancora al troppo. Perché i russi hanno imposto un ulteriore veto, per quanto informale, alla creazione dei corridoi sanitari che possano aprirsi in aiuto alla popolazione di Homs e Hama. Mosca vuole che «la questione» (guai a parlare di guerra) si risolva tra siriani. Senza che forze straniere possano mediare. Non è una faccenda di militare, ai quali è impedito l’accesso nel Paese. Fin qui, sebbene sia cinica e disumana la posizione del Cremlino, c’è un realismo di fondo. I russi vietano l’intervento anche alle Ong, come agli osservatori internazionali. Il che vuol dire che se non saranno le bombe, ci penserà la fame ad ammazzare donne e bambini sotto as-

sedio. Il tutto perché Assad non si può toccare. In questo modo si risponde anche alla seconda domanda. L’esagerazione non ha mai fine nella cronaca della primavera araba che a Damasco sta sfogando le tossine più avvelenate. Sembrano passati secoli dall’euforia che tutti provavamo proprio un anno fa accogliendo la fine di Mubarak e aspettando quella di Gheddafi e appunto di Assad. Nessuna delle tre rivolte tuttavia è andata davvero a buon fine. Anzi, si andrà avanti a esagerare in Egitto, in Libia e ovviamente in Siria. Così, mentre c’è chi si ostina a parlare di un Cairo ormai in via di normalizzazione, è giusto ricordare che la Giunta ha procrastinato ancora una volta la data per le presidenziali. Alla faccia di quella visione ottimisticamente miope per cui l’Egitto vanta gli anticorpi per risolvere l’instabilità politica con pochi sforzi. Stesso dicasi in Libia. Caduto il miglior manico ed ex nemico giurato dell’Occidente, ci si è convinti che a Tripoli sia tornata la pace. Senza però vedere che la guerra civile ha imboccato le piste nel deserto, dove nessun testimone può dire quel che succede fra tribù tuareg, nostalgici del regime e qaedisti.

Siria imperat però. Giustamente, visto quel che succede. Ma non in maniera davvero efficace. E qui sta l’esagerazione. Perché quando muoiono due giornalisti europei, colpiti espressamente da un colpo di mortaio - il tiro era premeditato e non accidentale, come ha cercato di dire Damasco - e nessu-

Sopra, proteste in Siria. In basso, i reporter uccisi ieri dalla repressione del regime. A destra, profughi palestinesi

del regime. Colpire i media occidentali poi vuol dire provocare i rispettivi governi.Vedi Londra e Parigi. Consapevoli del fatto che nessuno dei due governi potrebbe intervenire. Né da solo né in concertazione diplomatica. I veti di russi e cinesi sono un ottimo ticket di nulla osta per la sua artiglieria. Infine c’è quella percezione di non aver nulla da perdere. Assad sa bene che, prima o poi, dovrà andarsene. Gli analisti israeliani sono convinti che la deadline non sia così prossima come pensiamo noi. Tuttavia, la data di scadenza c’è. A questo punto tanto vale avvelenare i pozzi e sterminare tutto lo sterminabile. Che si tratti di popolazione innocente, oppositori o giornalisti non importa. Gli Assad sono vendicativi. Del resto chi può fermare la violenza? Gli Usa non hanno alcun interesse petrolifero in una zona del Medioriente per loro off limit da decenni. Di conseguenza, bri-

Nell’exploit della violenza che si è scatenata ieri, sono rimasti feriti anche altri due reporter: Edith Bouvier e Paul Conroy. La città ormai passerà alla storia come la martire della rivolta siriana no fa nulla, allora bisogna ammettere che il troppo è stato raggiunto e superato. Assad spara sui giornalisti stranieri per tre motivi. Primo perché la stampa non gli piace. E per questo non era necessario aspettare un suo bombardamento per rendersene conto. Reporter e blogger, siriani e stranieri, sono da sempre nel mirino dei servizi di sicurezza

tannci e francesi potrebbero fare ben poco da soli. Primo perché la Russia ha già bloccato qualunque procedura internazionale. Secondo perché è dalla crisi di Suez del ’56 che Londra e Parigi non si azzardano a muovere in loco senza aver ricevuto prima il placet di Washington.Terzo non ci sono soldi. Sugli editoriali legge che dovremmo appoggiare il Free Sy-


Le responsabilità sono da rintracciare nel lavoro dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per loro istituita

Saremo tutti rifugiati?

Il singolare caso dello “status” di profugo palestinese, che invece di diminuire aumenta in modo esponenziale di Daniel Pipes i tutte le questioni che motivano il conflitto arabo-israeliano, nessuna è più basilare, dannosa, primitiva, costante, emotiva e complessa dello status di quelle persone note come rifugiati palestinesi.

D

Le origini di questo caso singolare, osserva Nitza Nachmias della Tel Aviv University, risalgono al conte Folke Bernadotte, mediatore del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Riferendosi a quegli arabi che abbandonarono la Palestina mandataria, egli argomentò nel 1948 che l’Onu aveva una «responsabilità nel prestare loro soccorso» perché era una decisione delle Nazioni Unite, la creazione di Israele, che li aveva resi profughi. Per quanto il suo punto di vista fosse inesatto, rimane però ancora vivo e potente e contribuisce a spiegare perché l’Onu dedichi una particolare attenzione ai profughi palestinesi in attesa di avere un proprio Stato. rian Army, sostenere gli amici della Siria, che domani si riuniscono a Tunisi, e infine creare una no Fly Zone sui cieli di Damasco. Ottime idee. Salvo il fatto che per ciascuna di ogni proposta c’è un contro talmente esplicito che pochi si degnano di calcolare. Per esempio qualcuno andrebbe a chiedere come reagirebbe Israele se si trovasse una flotta straniera, per quanto sotto l’egida dell’Onu, che sorvola terre vicine ai propri confini. Già Unifil in Libano non è la presenza più gradita.

Ancora: i cosiddetti Amici della Siria sono appena riusciti a ottenere il riconoscimento ufficiale dalla Lega araba. È passato un anno dallo scoppio della rivolta. Troppo per una società civile siriana che abbiamo sempre osservato come laica e sempre attiva nell’animare l’opposizione al rais. In questo, è andata meglio alla Libia, di cui tutti dubitavano potesse avere un’opposizione. I Friends of Syria hanno solo da imparare dal Consiglio di transizione di Bengasi. A questo punto, tanto vale investire sull’esercito ribelle, le cui provvigioni di armi e l’addestramento sono di responsabilità di Turchia e Usa ormai da mesi. Il problema è che non basta. Per sconfiggere l’esercito regolare del Baath serve qualcosa di più di un’armata di guerriglieri indomiti. Serve un intervento massiccio internazionale. Per cui è richiesta una mossa politica. Ecco cosa manca: il coraggio politico. Nel mentre Assad va avanti. Sterminando e uccidendo, senza curarsi di esagerare.

Fedeli all’eredità di Bernadotte, le Nazioni Unite hanno creato una serie di organizzazioni ad hoc per i rifugiati palestinesi. Una di queste, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’assistenza ai profughi palestinesi (Unrwa), fondata nel 1949, si distingue come la più importante. Essa è al contempo l’unica organizzazione per profughi che ha a che fare con un popolo specifico (l’Alta Commissione delle Nazioni Unite per i rifugiati si prende cura di tutti i rifugiati non-palestinesi) e la più grande organizzazione dell’Onu (in termini di personale).

ri, solo una frazione di quella cifra, circa 150.000 persone, è ancora in vita. Nel corso degli anni, il personale dell’Unrwa ha compiuto tre passi importanti per estendere la definizione di rifugiati palestinesi. Innanzitutto, e contrariamente alla prassi universale, ha reiterato lo status di profughi a chi è diventato cittadino di un Paese arabo (la Giordania in particolare). In secondo luogo, nel 1965, l’agenzia prese una decisione poco nota che estendeva la definizione di “rifugiato palestinese”ai discendenti di quei profughi di sesso maschile, un cambiamento che permette unicamente ai rifugiati palestinesi di trasmettere il loro status di rifugiati alle generazioni successive. Il governo americano, il maggior donatore dell’agenzia, si è limitato a protestare in modo blando contro questo cambiamento importante. Nel 1982, l’Assemblea generale dell’Onu approvò questa decisione in modo tale che ora la definizione di rifugiato palestinese annovera ufficialmente «i discendenti maschi dei profughi palestinesi, compresi i figli legalmente adottati». In terzo luogo, nel 1967, l’Unrwa aggiunse alla sua lista i profughi

di circa 750.000 profughi palestinesi. Oggi, 5 milioni di rifugiati palestinesi hanno diritto a usufruire dei servizi dell’Unrwa». Inoltre, secondo James G. Lindsay, un exconsigliere generale dell’Agenzia Onu, in base alla definizione dell’Unrwa, quella cifra di 5 milioni rappresenta solo la metà di coloro che potrebbero in fieri avere diritto allo status di rifugiati palestinesi.

In altre parole, piuttosto che diminuire di cinque volte nell’arco di sei decenni, l’Unrwa ha visto aumentare la propria popolazione di rifugiati di quasi sette volte. Questa cifra potrebbe moltiplicarsi ancor più velocemente a causa della crescente opinione che anche i rifugiati di sesso femminile dovrebbero trasmettere il loro status di profughi. Anche se, tra circa quarant’anni, l’ultimo rifugiato della Palestina mandataria sarà morto, gli pseudo-rifugiati continueranno a proliferare. Pertanto, è probabile che lo status di “rifugiato palestinese” si estenderà all’infinito. In altre parole, come osserva Steven J. Rosen del Middle East Forum, «visti i parametri dell’Unrwa, alla fine tutti gli essere umani saranno rifugiati palestinesi».

È stato permesso loro di trasmettere la condizione di profugo alle generazioni successive. Inoltre, sono stati conteggiati anche quelli della guerra dei Sei Giorni: un quinto del totale dei rifugiati

L’Unrwa definisce i suoi pupilli in modo molto specifico: «I rifugiati palestinesi sono persone il cui normale luogo di residenza tra il giugno 1946 e il maggio 1948 era la Palestina e che hanno perso sia le loro case che i mezzi di sussistenza a seguito del conflitto arabo-israeliano del 1948». I numeri di questi profughi (che inizialmente includevano qualche ebreo) sono, naturalmente, diminuiti di molto negli ultimi 64 anni. Accettando la cifra (esagerata) fornita dall’Unrwa di 750.000 rifugiati palestinesi origina-

della guerra dei Sei Giorni: oggi, essi costituiscono circa un quinto del totale dei rifugiati palestinesi.

Questi cambiamenti hanno avuto degli esiti clamorosi. A differenza di tutte le altre popolazioni profughe, che diminuiscono numericamente man mano che la gente trova una sistemazione o muore, la popolazione dei profughi palestinesi è aumentata col passare del tempo. L’Unrwa riconosce questo fenomeno bizzarro: «Quando l’Agenzia ha iniziato a lavorare nel 1950, essa rispondeva ai bisogni

Se lo status di profugo palestinese fosse soddisfacente questa espansione all’infinito non avrebbe importanza. Ma lo status ha delle implicazioni distruttive per le due parti: per Israele, che subisce le depredazioni di una categoria di persone le cui vite sono spezzate e stravolte da un impossibile sogno di far ritorno nelle case dei loro bisnonni; e gli stessi “rifugiati” il cui status implica una cultura di dipendenza, risentimento, rabbia e futilità. Tutti gli altri profughi della Seconda guerra mondiale (compresi i miei genitori) si sono sistemati da molto tempo; lo status di rifugiato palestinese è già durato troppo a lungo e deve essere ristretto ai veri rifugiati prima che faccia ulteriori danni.


mondo

pagina 12 • 23 febbraio 2012

Delicata missione per il sottosegretario agli Esteri, ma l’India insiste: «Tratteremo i due militari secondo le nostre leggi»

La grande trattativa Staffan de Mistura a Dehli per cercare di risolvere il caso dei due marò. «Faremo di tutto per riportali a casa il prima possibile», dice il ministro Terzi di Pierre Chiartano

ROMA. È una brutta storia quella dei due marò arrestati in India. Brutta perché non è chiara, brutta perché due militari italiani hanno subito un trattamento che non andava permesso, essendo tutto il naviglio battente bandiera italiana parte del territorio nazionale. Brutta perché ci sono due pescatori indiani morti. E le circostanze della loro morte non sono ancora state chiarite veramente. L’interesse delle autorità indiane potrebbe essere quello di nascondere l’attività di pirateria che proprio alcuni gruppi di pescatori svolgono di fronte al porto di Kochi. Un’attività predatoria

rore. Abbiamo elementi per ritenere che la versione data dalle autorità indiane sulla presenza italiana nelle acque territoriali non sia corretta». Ma l’India procederà «in base alle proprie leggi» e i due marò del Battaglione San Marco imbarcati sul mercantile con funzioni antipirateria, accusati di aver ucciso due pescatori indiani. A ribadirlo è stato il ministro di Stato per gli Affari Esteri indiano, Preneet Kaur, che oggi ha incontrato a New Delhi il sottosegretario agli Esteri italiano, Staffan de Mistura. «Dal punto di vista legale, loro hanno le loro interpretazioni e noi le

Le foto satellitari, in realtà, confermano che la petroliera italiana con a bordo i nostri soldati del San Marco si trovava in acque internazionali. Dove non è applicabile la legge dello Stato indiano che si limiterebbe all’attacco di navi alla fonda. Ma restiamo nel campo delle ipotesi speculative. Ieri si è mossa anche la Farnesina inviando in missione in India il sottosegretario Staffan de Mistura.

I due militari italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone indagati per la morte di due pescatori durante un tentativo di abbordaggio pirata alla petroliera «Enrica Lexie» sono intanto agli arresti. Anche il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha ribadito che «la nave italiana era sicuramente in acque internazionali, e il sostenere che esiste una giurisdizione indiana e non italiana è un grosso er-

nostre», ha osservato Kaur secondo quanto riferisce la stampa locale. «Noi andremo avanti in base alle nostre leggi». Sembrerebbe un muro contro muro. Al momento sembra non essere servito neanche l’intervento dell’arcivescovo di Kochi, cardinale George Alencherry. Dehli vuo-

le mantenere il problema sul piano puramente giudiziario, almeno questo trapela dalle dichiarazioni ufficiali. E che non sia un problema politico puro lo confermerebbe anche la legge in studio al parlamento di Nuova Dehli che dovrebbe consentire l’imbarco di uomini armati sul naviglio in transito anche nelle acque territoriali indiane. Il problema della pirateria è molto sentito anche da quelle parti, ma non si capisce come le autorità locali stia gestendo la vicenda dei due marò.

«Siamo consapevoli e riconosciamo che due pescatori indiani sono morti. Nessuno dubita di questo e ciò è terribilmente triste». Così si è espresso il sottosegretario agli Esteri, Staffan de Mistura, al termine dell’incontro avuto ieri con la collega indiana, Preneet Kaur, a New Delhi. «Esprimiamo terribile tristezza e dispiacere per la perdita di vite umane. Due pescatori sono morti e appartenevano a famiglie povere del Kerala». Lo riferisce il Times of India nell’apertura dell’edizione online. A confondere la “scena del delitto” ci sarebbe anche un rapporto dell’Agenzia internazionale per la sicurezza marittima (International maritime bureau) che avrebbe segnalato un episodio con scontro a fuoco di fronte al porto di Kochi, poco tempo dopo l’evento della nave italiana. In questo caso sarebbe stato coinvolto un mercantile greco bersaglio di un presunto attacco pirata con una reazione a fuoco. Il fatto particolare è che si tratterebbe proprio della zona dove gli uomini del peschereccio affermano di essere stati bersaglio dei colpi sparati dalla «Enrica Lexie». Il mistero

dunque tende a infittirsi. La polizia ha chiesto al tribunale di Kochi il mandato di perquisizione della «Enrica Lexie» per individuare le armi usate dai militari, trattenuti in custodia preventiva fino al 5 marzo.

Un fatto che potrebbe rivelarsi decisivo nel caso il calibro dei proiettili ritrovati sul peschereccio non dovesse corrispondere con quello delle armi usate dai militari del San Marco, di solito dei fucili d’assalto Beretta Ar 70/90 calibro 5,56

È infatti questa l’opinione del giornalista e scrittore indiano M.J. Akbar, che in un’intervista a un’agenzia giornalistica, spiega che «non si tratta di orgoglio nazionale, ma di una vicenda giudiziaria su cui bisogna indagare e deve esserci un processo in base alla legge indiana. Gli italiani sono i benvenuti con il loro punto di vista, che tuttavia non porterà lontano». Insomma, fidatevi di noi. Il direttore editoriale di India Today, ex direttore di Asian Age e autore del libro Fratelli

È stata presentata all’Alta corte del Kerala, dai legali che difendono i due connazionali, l’istanza per l’annullamento del provvedimento di custodia dei militari italiani. Ora bisogna aspettare Nato. I legali dei militari si apprestano a presentare ricorso all’Alta Corte del Kerala per difetto di giurisdizione. Infatti le foto satellitari confermano che la petroliera si trovava in acque internazionali dove non è applicabile la legge indiana. Il problema è stato che la nave italiana non avrebbe dovuto attraccare a Kochi. Ma si aprono anche degli spiragli alla speranza per una soluzione positiva della vicenda. L’Italia deve fidarsi della giustizia indiana, perché «l’India non è uno stato canaglia, non è la Cina».

di sangue non ritiene che la vicenda possa essere considerata come un «incidente diplomatico, ma come la morte di due pescatori e nessun governo prende alla leggera l’uccisione di suoi cittadini». «Non ci sono prove che la barca (dei pescatori, ndr) costituisse una minaccia precisa. I pescatori non hanno usato armi e non ci sono state provocazioni». «Se una nave indiana avesse ucciso dei pescatori al largo della Sicilia – dice – certamente l’Italia non avrebbe lasciato perdere e avrebbe deciso di aprire


23 febbraio 2012 • pagina 13

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

In apertura, il sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura incontra il sottosegretario indiano Preneet Kaur. A destra, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò interrogati dalla polizia indiana perché accusati di aver ucciso due pescatori, scambiati per pirati. In basso, il ministro degli Esteri, Giulio Terzi

un’inchiesta». Ma il problema è proprio la ricostruzione dei fatti come abbiamo spiegato in precedenza. Il giornalista indiano ammette che la natura giudiziaria del caso non gli toglie rilevanza politica: «ogni governo eletto deve fare i conti con la politica», afferma. Ma «l’Italia e l’India restano Paesi amici, non sono in guerra prosegue - La delegazione (guidata dal sottosegretario Staffan de Mistura) potrà condurre colloqui con il governo, negoziare garanzie per il ritorno (in India, ndr) dei marine quando sarà necessario e garanzie che non diventeranno latitanti». La vicenda dei due italiani rischia però di diventare anche un caso politico, nonostante le autorità indiane lo neghino, con il governo e i politici locali che potrebbero usare l’episodio per cavalcare un diffuso sentimento anti-italiano. Il governo del Kerala ha offerto subito un posto di lavoro, come impiegata presso il dipartimento della pesca, a Dora Jalastein, la moglie di uno dei due pescatori uccisi. Proprio martedì la donna aveva presentato un’istanza all’Alta corte dello stato meridionale indiano per chiedere un risarcimento di 200mila dollari.

Comunque alla fine, come già preventivato, è stata presentata all’Alta corte del Kerala (che tradotto significa più o meno «terra delle noci di cocco») l’istanza per l’annullamento del provvedimento di custodia dei due marò. Lunedì scorso il giudice KP Roy aveva disposto la misura cautelare per i due connazionali. Il nostro ministro degli Esteri, interpretando un sentimento comune in Italia ha espresso la volontà di riportare presto a casa i due militari.

e di cronach

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

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pagina 14 • 23 febbraio 2012

La realtà non è quella filtrata dal regime. Ma davanti alla selvaggia politica di pianificazione familiare, l’Occidente resta in silenzio

Donne tradite due volte J’accuse del grande dissidente: «Non solo la Cina, anche l’Onu le ha abbandonate» di Wei Jingsheng

WASHINGTON. Lo scorso novembre ho partecipato a una conferenza presso l’Unione europea, dove ho incontrato molti vecchi amici. Sono stato anche invitato dal Parlamento europeo a partecipare a un programma moderato dal direttore di Europarl Tv. Il tema originario di questo programma era discutere sul ruolo delle donne nelle transizioni democratiche, con la domanda se possano o meno essere leader oppure quale tipo di ruolo possano svolgere. Le risposte a questa domanda sono divenute una denuncia di discriminazione nei confronti delle donne e di violenza contro di loro. In origine non avevo nulla da dire. Ovviamente, le donne possono essere leader. Questo è confermato

dalla storia, molte donne sono divenute ottime leader. Se fosse stata una cerimonia in onore delle donne, avrei potuto dire qualcosa. Ma esporre soltanto questa verità non mi sembrava poi così interessante. Quindi sono rimasto seduto a guardare le luci del palco, pronto a rimanere in silenzio per l’intera trasmissione. Ma quando mi sono accorto dell’espressione trionfante del vice direttore esecutivo del Programma Onu per le donne, che sembrava l’eroina della festa, mi sono arrabbiato.

Quando sono stato invitato a dall’entusiasta intervenire ospite, ho cambiato la mia decisione originaria di dire soltanto parole favorevoli come le altre pronunciate e ho deciso di chiedere giustizia per le donne cinesi. Ho iniziato l’intervento dicendo che, prima di tutto, non potevo parlare a nome

delle donne cinesi poiché sono soltanto un osservatore della loro situazione. Subito dopo, ho sottolineato che molti politici e accademici occidentali hanno una visione sbagliata riguardo molte questioni inerenti alla Cina. Per esempio, molti studiosi occidentali che non sostengono il Partito comunista pensano che - nonostante Mao Zedong abbia fatto molto male al popolo cinese - la sua scelta di liberare le donne sia stata una buona cosa. È ovvio che questa è una incomprensione, dovuta alla propaganda del Partito comunista. Non so-

lo le donne cinesi non sono state liberate, ma sono state gettate in una nuova situazione di oppressione e violenze. Le donne sono oppresse e violate tanto quanto gli uomini, senza la cosiddetta liberazione. Anzi, le donne soffrono di più degli uomini. Ad esempio, le vittime della selvaggia politica di pianificazione familiare introdotta dal regime comunista cinese sono state negli anni per lo più le donne. Il Partito comunista ha rapito molte donne giovani e di mezza età per le strade, le ha caricate sui camion e le ha mandate in ospedale per costringerle alla sterilizzazione: sono state castrate come animali. Queste pesanti violazioni ai diritti umani, questi atti barbarici che portano l’uomo a essere trattato come un bestia sono state appena condannate dalle Nazioni Unite e continuano, fino a oggi, a essere messe in pratica. A quel punto mi sono girato e ho chiesto a questo vice direttore esecutivo del Programma Onu per le donne: «Qual è il commento delle vostre Nazioni Unite su questa questione? Perché il suo Programma o il consiglio per i diritti umani non intervengono e non criticano questo fatto?». Centinaia di ospiti presenti nello studio hanno applaudito con calore e hanno chiesto alla signora di rispondere. Il moderatore le ha passato subito il microfono. Questa dirigente ha spiegato con molto imbarazzo che la Cina è una grande nazione, che ha grande influenza nelle Nazioni Unite, che queste non possono intervenire negli affari interni degli Stati membri, ecc ecc... Un discorso fatto con il linguaggio diplomatico. In maniera sorprendente, il pubblico non le ha riservato un applauso. Il moderatore le è andato in soccorso, spiegando che il Programma e persino le Nazioni Unite sono organizzazioni che non hanno autorità, che lavorano più che altro per dare consigli e incoraggiamento.

Il vice direttore esecutivo ci ha pensato sopra ancora un poco e, dato che non era soddisfatta, ha trovato il modo per

Dobbiamo sfatare, con tutte le nostre forze, alcuni miti politici creati dal Partito comunista, incluso quello che dice che c’è più prosperità se c’è meno popolazione spiegare ancora una volta: «Facciamo molte indagini sui problemi cinesi, e scriviamo molti rapporti per criticare la situazione, ma non riceviamo risposte soddisfacenti dal governo cinese». Dopo il dibattito, molti dei presenti sono venuti a stringermi la mano per esprimere il proprio incoraggiamento. Anche il presidente del Parlamento europeo e il suo vice sono venuti da me e hanno stretto con calore la mia mando, dicendomi: «Hai parlato bene, dobbiamo far conoscere al popolo la verità». In effetti, mi sono molto dispiaciuto per il tempo limitato a disposizione, che non mi ha permesso di dire a tutti come stanno realmente le cose. Al ricevimento subito dopo il programma, molte persone sono venute per sapere altre cose. Le donne cinesi non soltanto soffrono più miseria rispetto agli uomini, ma la selvaggia politica per la

pianificazione familiare ha portato la Cina a dover affrontare problemi sociali a lungo termine. Il significativo calo della natalità in Cina, che è iniziato negli anni Settanta, da una parte ha creato una penuria di lavoratori e dall’altra il tasso di anziani ha iniziato a sorpassare quello di molte nazioni sviluppate. Si può dire con più semplicità che la popolazione in grado di lavorare è diminuita in maniera drastica, mentre è cresciuta con rapidità quella fascia di popolazione che ha bisogno di sostegno. Alle attuali circostanze, una giovane coppia deve prendersi cura di 1 bambino e 12 anziani. Gli si chiede troppo per affrontare tutta questa miseria, e si scatenano i problemi sociali. Negli anni Settanta, la politica ufficiale del Partito comunista è cambiata all’improvviso dal sostegno alle nascite alla selvaggia politica di pianificazione familiare. Il Partito cercava una scusa per il suo fallimento economico. Tuttavia, la popolazione in eccesso era davvero la ragione del fallimento economico. Non soltanto non esistono prove di questo nelle nazioni straniere, ma la crescita economica della Cina stessa negli ultimi 30 anni non ha niente a che vedere con la politica di pianificazione familiare. I popoli di diverse nazioni sviluppate sono vicini a un tasso di crescita negativo (o ci sono


società

23 febbraio 2012 • pagina 15

Sono oltre settemila le persone confinate in un campo di rieducazione

Lhasa, ovvero l’inferno dei tibetani

Una fonte ci racconta: «Vivono in aree limitate da filo spinato, costretti ad ascoltare inni comunisti sorvegliati dalle armi cinesi» di Vincenzo Faccioli Pintozzi n Tibet «i tibetani stanno sparendo: vivono in aree limitate da mura e da filo spinato, costretti ad ascoltare e cantare inni comunisti, guardati a vista dalle armi cinesi. Oltre 7mila persone sono state sbattute in un campo di rieducazione tramite il lavoro, e i monaci sono in sciopero della fame». È il racconto di una fonte che ha appena lasciato Lhasa: anonima per motivi di sicurezza, traccia la vera situazione della provincia occupata con la forza dai comunisti di etnia han. La sua testimonianza è preziosa, perché il governo centrale cinese impedisce da tempo a reporter e turisti di visitare il Tibet e la capitale, Lhasa. Oggi è il Losar, il capodanno tibetano, ma in Tibet «non si festeggia.Troppo dolore». Di seguito il testo completo del racconto.

sa, all’interno della città ci sono posti di blocco militari permanenti con 10 soldati ciascuno. Alla cerimonia del Kalachakra, celebrata nel gennaio 2012 a Bodh Gaya in India dal Dalai Lama, hanno partecipato circa 10mila tibetani provenienti dal Tibet: di questi, 3mila erano informatori del governo. Appena rientrati in Tibet, gli altri 7mila sono stati mandati tutti nei campi di rieducazione tramite il lavoro per un minimo di 3 mesi. Un artista tibetano ha disegnato un tibetano che guarda un orologio e ha intitolato il quadro Aspettando: è stato arrestato per il simbolismo sovversivo usato nell’opera. Mi hanno detto che molte persone sono state portate via dalla pubblica sicurezza e sono sparite nel nulle. Il Palazzo Potala di Lhasa è un luogo di pelle-

«Sono appena tornato da Lhasa. I tibetani stanno scomparendo: ognuno è terrorizzato dal bagno di sangue che sembra inevitabile. Al momento a Lhasa vivono circa 1,2 milioni di cinesi di etnia han e 200mila tibetani. La maggioranza di questi vive in aree quasi del tutto circondate da stazioni militari, con mura alte più di due metri: alcune di queste hanno in cima il filo spinato. L’isolamento dà l’impressione di quello che era il Ghetto di Varsavia. All’interno delle “aree chiuse” operano soldati armati, membri delle squadre speciali e poliziotti, che controllano le strade 24 ore al giorno. Le canzoni e le marce militari si possono udire durante tutto il corso della giornata. I camion della Swat (squadra anti-terrorismo, ndt) e gruppi di veicoli anti-proiettile simile ai carri armati passano per la zona ogni giorno. Sulla torretta di ogni veicolo ci sono 3 o 4 soldati armati di fucili d’assalto o mitragliatrici, puntati contro i tibetani. Questi devono portare le proprie carte di identità in ogni momento: quelli che vivono a Lhasa devono registrarsi dalla polizia. Al momento ci sono circa 134 nuovi posti di blocco militari, che fermano a caso pedoni e veicoli. Oltre alle caserme dentro e fuori Lha-

grinaggio per tibetani, in particolare durante il Losar: ma nessuno può passare dai posti di blocco e Pechino ha imposto un limite di tibetani che possono stare nella capitale. Qualche tempo fa, nel Palazzo vivevano tra i 300 e i 400 monaci: ora sono 36. Nelle stanze dei lama ora vivono militari e poliziotti. Anche se è considerato un patrimonio dell’umanità, il Potala è divenuto una caserma cinese. Nel monastero interno ora ci sono i bunker militari.

I

Se la Cina vuole avere uno sviluppo sostenibile abbiamo bisogno non soltanto di un sistema politico che sia democratico, ma anche di una politica sociale davvero corretta già), ma le loro economie non si fermano a causa di questo fattore. Dire che la povertà nasce da una rapida crescita della popolazione è un sofismo puro e illogico.

Il ruolo della popolazione nello sviluppo economico è invece un fattore positivo. La popolazione rappresenta lavoro e consumo, che sono le basi fondamentali dell’attività economica. Certo, una rapida o lenta crescita esponenziale della popolazione può portare a problemi per lo sviluppo economico. Ma la popolazione non è l’unica ragione alla base dello sviluppo o del declino economico. Oltre a portare delle bustarelle nelle tasche di alcuni funzionari corrotti, la politica di pianificazione familiare in Cina non ha una relazione diretta con lo sviluppo economico; invece, produce problemi sociali molto difficili. Se la Cina vuole avere uno svi-

luppo sostenibile abbiamo bisogno non soltanto di un sistema politico democratico, ma anche di una politica sociale corretta. Dobbiamo escludere alcuni miti politici creati dal Partito comunista, incluso quello che dive che c’è più prosperità se c’è meno popolazione. Dobbiamo mettere in atto una politica di crescita bilanciata di popolazione ed economia. Da un punto di vista umanitario, dobbiamo come prima cosa abolire la barbarica politica di pianificazione familiare del Partito comunista cinese. Di questo argomento non si deve neanche discutere. Il passo successivo è aggiustare il livello di crescita della popolazione secondo le condizioni attuali. Secondo le prove fornite da molte nazioni, mentre cresce il livello culturale ed economico il tasso di natalità affronta un trend negativo ma lento. Invece, se il tasso di crescita della popolazione cade troppo velocemente, creerà un problema nell’ambito del processo di sviluppo economico. La crescita della popolazione e il progresso tecnologico sono le due forze più importanti per arrivare allo sviluppo economico. Come coordinare il rapporto fra crescita della popolazione e progresso è una questione importante per lo sviluppo sostenibile dell’economia. Troverò il modo di discutere di questa complessa questione in futuro.

«Qualche tempo fa - ci dice - al Palazzo Potala della città, viveva una comunità di 300 o 400 monaci. Oggi sono solamente 36»

Il monastero Jokhang è talmente pieno di soldati che devi stare attento a non pestarli, quando lo visiti. Nel monastero Drepung vivevano fra i 7 e i 10mila monaci: ora sono 500. Nel monastero Sera erano 6mila, oggi sono 200. Attorno a questo monastero la polizia è particolarmente presente, controllano tutto compreso il luogo dove i monaci discutono. Il Palazzo Norbulingka era la casa di 300 monaci: oggi non sono più di 10. I piccoli appartamenti privati del Dalai Lama sono stati venduti a un uomo d’affari cinesi e per vedere il parco Nobulingka, anche questo patrimonio dell’umanità, si deve pagare un biglietto. Mi dicono che 100 monaci sono pronti a digiunare fino alla morte contro questa situazione.


ULTIMAPAGINA Nel triste scenario di artisti depressi, drogati, che si lasciano morire, lei rappresenta un modello. Anche da premiare

Adele, il lato buono della di Martha Nunziata i chiamano Brit Awards, o più semplicemente Brit: in pratica, gli Oscar della musica del Vecchio Continente, pur essendo, appunto, “british”. La loro consegna è l’appuntamento più importante dell’anno in calendario per artisti, discografici e addetti ai lavori ma anche, e soprattutto, per gli appassionati che la notte scorsa hanno celebrato l’ennesimo trionfo di Adele. La voce che ha incantato il mondo, inconfondibile, suggestiva, emozionante fino a provocare i brividi. Una notte magica per la musica pop, nella quale la ventitreenne londinese si è aggiudicata le due statuette più ambite della competizione del pop britannico: quella come migliore artista donna e quella miglior album per il suo “21”, che ha venduto 12 milioni di copie in tutto il mondo. «Sono così orgogliosa di essere britannica e di portare alta la nostra bandiera. E sono orgogliosa di essere qui con voi», ha detto Adele al momento della consegna dei premi. Quella della O2 Arena di Londra, è stata solo la seconda apparizione della cantante in pubblico dopo l’operazione alle corde vocali che l’ha costretta al silenzio per quattro mesi: in precedenza aveva cantato a Los Angeles, due settimane fa, in occasione della consegna dei “Grammy Awards”, il corrispettivo musicale degli Oscar del cinema, dei quali aveva fatto razzia, portandosene a casa ben 6. In quella circostanza, tra l’altro, Adele aveva mandato nel panico i milioni di fans in tutto il mondo dichiarando di avere intenzione di fermarsi e ritirarsi dalla musica per un periodo indefinito (si era parlato di cinque anni di pausa, ndr) per prendersi del tempo per sé e per il suo fidanzato, l’imprenditore Simon Konecki, che le era rimasto accanto per tutto il tempo dell’operazione e della convalescenza («è meraviglioso - ha detto la cantante - si prende cura di me e non

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Alla serata dei Brit, ennesimo trionfo meritato: è giovane, brava, si distingue per il “low profile” e per non aver fatto uso di droghe o alcol. È insomma un esempio di rara virtù credo che avrei recuperato così bene se non fosse stato per lui»). In realtà sembra che il ritiro dalle scene sia stato scongiurato o, quantomeno, ridotto ad una piccola pausa, fisiologica dopo un anno abbondante in giro per il mondo a fare concerti (memorabile l’esibizione di inizio estate a Londra in una Royal Albert Hall stracolma, ndr). Adele, appena ventitreenne, si è sempre distinta dalle altre stelle delle musica per il suo “low profile”, la sua educazione, il suo tatto, per non aver mai fatto uso di droghe o di alcol, e per rappresentare, in un certo senso, il volto bello e buono della musica. Stupisce, perciò, che sia rimasta coinvolta in un incidente diplomatico quanto meno singolare proprio dopo aver ritirato il “Brit” per il miglior album: dopo essere stata interrotta dal presentatore della serata,

MUSICA James Corden, che ha stoppato il suo discorso di ringraziamento per introdurre sul palco i Blur, premiati come miglior gruppo, Adele ha lasciato il palco stizzita, mostrando il dito medio al pubblico. Un gesto istintivo, figlio della tensione e della stanchezza, ha spiegato poi la cantante, immediatamente pentita al punto da scrivere di persona, in lacrime, una nota di scuse per il pubblico in sala e per i telespettatori.

Una riprova ulteriore della profondità dell’anima della cantante londinese, che con il singolo Someone like you, una delle canzoni più belle e malinconiche che l’hanno resa famosa, dedicata, non a caso, al suo fidanzato, ha portato nello scenario della musica internazionale anche un nuovo modello di bellezza. Adele, infatti, è una donna dalle curve morbide e generose, che spesso ha affermato di adorare il proprio corpo

e di non aver bisogno di dimagrire per stare bene con sé stessa. «Io amo le mie curve», ha dichiarato spesso a chi le chiedeva se il suo aspetto abbondante le fosse di intralcio, in qualche modo, per la carriera (anche se non si capisce perché, visto che canta e non sfila in passerella, ndr). Adele è anche un esempio di come si possa essere bravi senza concedersi vizi e, anzi, difendendo i valori come l’amore e la famiglia. La serata dei Brit Awards ha reso omaggio a Amy Winehouse e Whitney Houston, le due artiste scomparse nell’ultimo anno e protagoniste, in passato, della cerimonia. La Houston si esibì con It’s Not Right, But It’s Okay nella cerimonia dei Brit del 1999, mentre l’ultima perfomance della Winehouse fu quella del 2007 con il brano Valerie. Nella stessa notte anche dall’altra parte dell’oceano si è fatta sentire anche la voce del blues, alla Casa Bianca si è tenuto un concerto per celebrare il Mese della storia afro-americana (“Black History Month”). Davanti al presidente Barack Obama e ai suoi ospiti hanno cantato, tra gli altri, BB King e Mick Jagger. Alla fine del concerto lo stesso Obama si è lasciato trascinare da King, ha preso il microfono e ha cantato alcune strofe della canzone Sweet Home Chicago, la sua città, dimostrando, anche, di essere piuttosto intonato. Chissà, in caso di sconfitta elettorale, a novembre, potrebbe diventare la strada per una seconda carriera. Magari parallela a quella di allenatore di basket, l’altra sua grande passione.


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