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he di cronac

Ognuno ha la pretesa di soffrire molto più degli altri. Honorè de Balzac

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 22 FEBBRAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il premier italiano: «Un risultato importante, che allontana nuovi rischi di contagio. L’Italia è meno sul baratro»

Salva la Grecia,divisa l’Europa Accordo su Atene, ma cresce nella Ue la contestazione alla Merkel Dopo 16 ore la posizione franco-tedesca cede alla nuova cordata, guidata da Monti, che punta alla crescita. L’Ecofin approva gli aiuti ai greci ma segna anche l’inizio di una nuova fase per l’Unione SVOLTE

In Rete i patrimoni dei ministri

Redditi, la Severino batte Passera Primo il Guardasigilli con 7 milioni e mezzo, secondo il titolare dello Sviluppo con 3 milioni e mezzo. Ultimo Riccardi

Ora Roma gioca il ruolo di playmaker di Rocco Buttiglione

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Parlano gli analisti

«Alla fine vinceranno i Dodici» «Berlino teme le presidenziali francesi e le elezioni interne, che cambieranno tutti gli assetti europei» Riccardo Paradisi • pagina 4

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L’opinione del Daily Telegraph

«Persino la Thatcher era più dolce» La Lady di ferro «aveva degli scrupoli. Olli Rehn e i suoi, invece, manderebbero Atene al macero» Peter Oborne • pagina 5

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on c’è un’Europa divisa in due, non più di prima. C’è anzi un’Europa che comincia a serrare le fila per navigare nella stessa direzione. Ci ha messo un po’, ma ora è in movimento. L’accordo sulla Grecia è un successo che aiuta a dare sostanza a tutto il resto. In questo contesto l’Italia ha ritrovato credibilità e di conseguenza un ruolo importante, e con la lettera sulla Crescita il nostro governo ha voluto dare un segnale di presenza e capacità di indirizzo. La lettera sulla crescita sottoscritta dai Dodici chiede a Ue e Commissione «di rispondere all’appello dei nostri popoli per le riforme e di aiutare a ristabilire la loro fiducia nella capacità dell’Europa di assicurare una crescita forte e sostenibile». segue a pagina 2

Marco Palombi • pagina 6

Parla il neo cardinale John Tong Hon: «Il papa ama i cattolici cinesi»

Confindustria: «Difendono chi ruba lo stipendio»

«Ecco la Cina che vorrei»

Sindacati, scontro con la Marcegaglia

Dialogo con Pechino, ma la Chiesa va rispettata

di Francesco Lo Dico

di Bernardo Cervellera

ROMA. Sul tavolo del governo c’è in esame il de-

ons. John Tong Hon, 72 anni, vescovo di Hong Kong è fra i 22 prelati che hanno ricevuto la berretta cardinalizia da Benedetto XVI. In un’intervista con AsiaNews egli si definisce “inadeguato”per la posizione a cui il papa lo ha chiamato, ma “pieno di gratitudine per questo onore”, che mostra la considerazione che Benedetto XVI ha verso la Chiesa cinese. Attualmente vi sono infatti tre cardinali cinesi: oltre a mons. Tong, vi è il card. Joseph Zen e il card. Paul Shan (Taiwan). Mons.Tong afferma che essi possono ”lavorare insieme”, soprattutto nel rafforzare il ruolo di Chiesa-ponte fra i cattolici cinesi e la Chiesa universale.

creto legge sulla semplificazione fiscale, ma l’ennesima puntata della faida a tre tra Fornero, sindacati e Confindustria conferma che la vera partita politica si gioca sulla riforma del mercato del lavoro. A svolgere il ruolo di agente provocatore, stavolta è stato il presidente degli industriali, Emma Marcegaglia. «Vorremmo avere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro», ha detto nel corso di un intervento al convegno di Federmeccanica. Una presa di posizione che non è piaciuta alla Cgil. a pagina 7 EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

M

a pagina 10

• ANNO XVII •

NUMERO

36 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


La Lettera dei 12 e la svolta dell’Unione

Ora Roma gioca il ruolo di playmaker

prima pagina

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di Rocco Buttiglione segue dalla prima Una lettera che il Governo italiano ha potuto promuovere grazie prima di tutto al fatto che l’Italia ha fatto i suoi compiti a casa e quindi può chiedere agli altri di fare i loro. In secondo luogo anche grazie al sostegno convinto e ampio che il Parlamento ha dato alla nostra mozione sulle politiche europee nella quale chiedevamo di affiancare alla politica di rigore di bilancio la politica della crescita e dello sviluppo. La stabilità è condizione necessaria per la salvezza dell’Europa, ma non è condizione sufficiente. È la premessa necessaria alla crescita, una crescita intelligente che dia risposte alle domande di occupazione e benessere, che permetta di creare la ricchezza con cui pagare i debiti e sostenere le politiche sociali. In questo senso la lettera firmata da diversi Stati europei non va assolutamente letta come una contrapposizione a quell’altra parte di Europa che più ha insistito sulla stabilità. Non è una sfida all’asse franco-tedesco.

E l’Italia ne è la prova. L’asse franco-tedesco nella fase acuta della crisi è stato necessario per imporre un rigore che appunto era necessario, ma l’asse franco-tedesco non è sufficiente per l’Europa. Non è un problema ma non è neanche la soluzione. In quel dialogo serrato tra Francia e Germania l’Italia è tornata ad inserirsi costruttivamente, e questa lettera è un passo concreto di collaborazione europea. Non solo perché come detto la crescita è e deve essere l’altra faccia della medaglia rispetto alla stabilità, ma anche perché l’azione dell’Italia compie un’operazione utile coinvolgendo la Gran Bretagna - così come chiesto anche dal nostro Parlamento – che era rimasta fuori dal Fiscal Compact. Quindi questa lettera non solo è uno stimolo che tiene ben presente una visione futura di Europa, ma è anche un gesto di ricucitura, non certo di strappo. E lo conferma anche la trasversalità delle firme dei sottoscrittori, realtà eterogenee dal nord al sud dell’Europa. Anche in questo senso la lettera unisce, tiene insieme più Paesi europei, li rende compartecipi delle scelte essenziali, quando invece nei momenti di crisi più acuta il direttivo franco-tedesco ha svolto un ruolo di supplenza, a sua volta scrivendo lettere che servivano di ispirazione al Consiglio europeo.

L’Italia ora gioca il ruolo di playmaker, che smista la palla dal duo centrale agli altri giocatori, e allarga il gioco. Ora il dibattito è più ampio, ma non esclude certo Parigi e Berlino senza le quali l’Europa non è pensabile. D’altro canto la lettera non ha contenuti contrari a quanto interessa anche Francia e Germania. Salvo forse un punto che invece l’Italia fa bene a sostenere, anzi è uno dei nostri cavalli di battaglia: il completamento del mercato interno con le liberalizzazioni all’interno dei singoli Paesi. Noi le stiamo facendo, perché crediamo siano utili a liberare il Paese da lacci e lacciuoli e a spingere la crescita. Ma il mercato interno deve essere equo e competitivo: se i treni tedeschi e francesi possono arrivare a Napoli, è giusto che i treni italiani possano arrivare a Parigi e Berlino. E così per tutte le altre situazioni. Su questo Francia e Germania hanno forse bisogno di più tempo per assimilare i cambiamenti del loro sistema, ma questo può servire perché loro capiscano a loro volta le difficoltà degli altri Paesi che necessitano di tempo e impegno per mettersi sulla strada giusta, e rischiano di essere soffocati da pretese eccessive. Insomma la Germania è un esempio virtuoso, ma l’Europa non può diventare tedesca.

A Bruxelles Ecofin, Fmi e Bce sbloccano il prestito di 130 miliardi di euro

Una nuova Europa salva la Grecia Monti: «Scongiurato il rischio contagio. Ora puntare sulla crescita, anche se i conti devono essere tenuti al sicuro». La cordata guidata dall’Italia batte i Merkozy di Franco Insardà

ROMA. La Grecia viene salvata per i capelli dal baratro e Mario Monti, al termine del vertice a Bruxelles dell’Ecofin, parla di «un risultato importante perchè toglie i rischi immediati di contagio». Così la posizione franco-tedesca cede alla nuova cordata, guidata da Monti, che punta sulla crescita. E il presidente del Consiglio italiano aggiunge un «si poteva agire più rapidamente, già due anni fa, ma allora non seguivo queste cose. Però c’è da dire che c’è sempre una prima volta anche per i governi e per i paesi, e il caso greco è stato un caso nuovo». La conferma alle parole di Monti la si ha osservando il bilancio dell’affaire greco che ricorda un bollettino di guerra: quasi tre anni buttati tra polemiche e mezze riforme, oltre 500 miliardi di euro bruciati (tra aiuti diretti, crolli di borsa, speculazioni sul debito sovrano e manovre correttive dei singoli stati). Per non parlare della frammentazione dell’Europa e il default della sua classe politica.

Lunedì notte, comunque, dopo oltre quattordici ore di serrate trattative a Bruxelles fra i ministri europei delle Finanze, l’Fmi e la Bce il vecchio Continente è riuscito a concludere finalmente il bailout della Grecia e a sbloccare quei 130 miliardi di euro promessi ad Atene. La difficoltà maggiore è stata quella dell’accordo con i privati detentori del debito greco che dovranno accettare una ulteriore riduzione del valore nominale dei titoli in loro possesso. Sulla presenza stabile di osservatori della troika ad Atene per controllare che il piano di risanamento del Paese venga rispettato e

sulla creazione di un conto bloccato dove i greci verseranno da ora in poi gli interessi sul loro debito e l’inserimento nella Costituzione di una norma sulla priorità dei pagamenti delle scadenze, le difficoltà per trovare un’intesa sono state minori. L’obiettivo fissato a Bruxelles è che la Grecia arrivi nel 2020 a un rapporto debito-Pil del 120,5% rispetto al 160% di oggi, grazie proprio alle rinunce dei creditori privati per un totale di 107 miliardi. Anche gli stati dell’Eurozona dovranno fare la loro parte abbassando gli interessi sui prestiti concessi ad Atene, così come la Bce che, attraverso un meccanismo particolare, potrà intervenire superando le norme che vietano un suo intervento in aiuto degli stati. La Bce distribuirà i profitti sui bond greci nel suo portafoglio alle banche centrali nazionali che, a loro volta, li verseranno agli stati dell’Eurozona che hanno accettato di girarli alla Grecia. A marzo, poi, il Fondo monetario internazionale deciderà la sua partecipazione al piano di aiuti. E sempre a marzo si giocherà la partita importante sui fondi salvastati e sulle loro dotazioni.

Ottimisti si sono dichiarati i protagonisti della trattativa a cominciare da Margrethe Vestager, ministro danese dell’Economia e presidente di turno del Consiglio: «È un nuovo inizio per la Grecia». Mentre il presidente della Bce, Mario Draghi, ha parlato di «un accordo molto buono». Per Monti «molto dipenderà da quello che tutti noi faremo, e da come trasformeremo le lettere - spedite e ricevute - in piani d’azione. Per ridurre le probabilità di


Atene proprio come 150 anni fa Leggete con attenzione questo articolo. Sembra scritto oggi, ma è del 1858 di Edmond About a Grecia è l’unico esempio di un paese che vive in bancarotta sin dal giorno della propria fondazione. Se la Francia o l’Inghilterra vivessero anche solo un anno in simili condizioni, si assisterebbe a catastrofi terribili. La Grecia, invece, ha vissuto in pace oltre vent’anni di bancarotta.Tutti i bilanci, dal primo all’ultimo, sono in passivo. Quando in un paese civile le entrate non bastano a coprire le uscite, si ricorre a prestiti a livello interno. È un sistema che il governo greco non ha mai sperimentato, né potrebbe sperimentare. Perché la Grecia potesse negoziare un prestito all’estero c’è stato bisogno che le sue potenze protettrici ne garantissero la solvibilità. Le risorse fornite da questo prestito sono state scialacquate dal governo, senza alcun vantaggio per il paese, e una volta dilapidati i soldi è stato necessario che i garanti, per puro buon cuore, ne onorassero gli interessi. La Grecia non sarebbe stata in grado di pagarli.

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primo tempo di imporre il regime fiscale, ma dopo poco gli agricoltori sono venuti meno agli obblighi verso lo stato, che non ha potuto obbligarli a versare il dovuto. Da quando lo stato si è assunto l’incarico di raccogliere le imposte, le spese a ciò connesse sono aumentate e le entrate sono salite di poco.

I contribuenti fanno ciò che facevano gli agricoltori: non pagano. I ricchi proprietari, che sono anche personaggi influenti, trovano modo di eludere lo stato, corrompendo o intimidendo i funzionari pubblici. E costoro – malpagati, senza un avvenire garantito, sicuri di essere licenziati al primo avvicendamento di ministri – non prendono affatto a cuore gli interessi dello stato. Badano soltanto a farsi delle amicizie, ad accattivarsi i potenti, a trarre profitto. Quanto ai piccoli proprietari, che devono pagare per i grandi, sono esentati dai pignoramenti grazie a qualche conoscenza tra i potenti oppure alla loro stessa miseria.

«Il governo sopravvive solo grazie ai soldi delle potenze europee», raccontava l’intellettuale francese

Oggi Atene rinuncia alla speranza di potersi affrancare un giorno dai suoi debiti. Nel caso in cui le tre potenze soccorritrici continuassero all’infinito a pagare per lei, la Grecia non si ritroverebbe in condizioni migliori: le sue spese non sarebbero coperte dalle sue entrate. La Grecia è l’unico paese civilizzato al mondo nel quale le imposte si pagano in natura. Il denaro è a tal punto raro nelle campagne che è stato indispensabile ritornare a questa forma di raccolta delle imposte. Il governo ha cercato in un

La legalità in Grecia non è mai quella entità incorruttibile che siamo abituati a conoscere. Gli impiegati danno retta ai contribuenti e appena si inizia a darsi del “tu” e ci si chiama fratelli si trova un modo per intendersi. Tutti i greci si conoscono molto e si amano un po’, ma non conoscono quasi per nulla quell’entità astratta chiamata sta-

contagio abbiamo insistito fin dall’inizio sulla necessità di firewall adeguati per risorse finanziarie e prontezza di attivazione». Il premier ha manifestato ottimismo anche per le parole del primo ministro greco, Lucas Papademos: «Ha ricordato che negli ultimi due anni la Grecia ha recuperato un terzo della competitività perduta negli ultimi dieci anni rispetto ai partner commerciali e metà rispetto a quella perduta dall’Eurozona. Per cui se nel silenzio della struttura greca, nonostante le falle che ha, si è verificato questo, allora possiamo farcela». Però, Monti ha sottolineato «una difficoltà in più per la Grecia, rispetto all’Italia, oltre a strutture certo non comparabili: l’incombenza di elezioni anticipate ad aprile e che non sono mai un fattore che stimola la tranquillità d’azione in materia di politica economica».

E in vista del vertice del primo marzo

to, e non l’amano affatto. E l’esattore è prudente: sa che non bisogna esasperare nessuno, che ha strade buie da percorrere prima di arrivare a casa e non si azzarda a correre rischi. I contribuenti nomadi (pastori, taglialegna, carbonai, pescatori) provano soddisfazione a non pagare le imposte e lo ritengono motivo d’onore. Pensano, come ai tempi dei turchi, che il loro nemico sia il loro padrone e che il diritto più bello di ogni uomo sia di tenere per sé i propri soldi. Ecco perché i ministri delle finanze fino al 1846 preparavano due bilanci delle entrate: il primo, quello d’esercizio, indicava le somme che il governo avrebbe dovuto ricevere nell’anno e i diritti che avrebbe acquisito; l’altro, il bilancio di gestione, indicava ciò che sperava di incassare.

Dato che i ministri delle finanze sono soggetti a commettere errori a vantaggio dello stato nel calcolo delle tasse plausibilmente raccolte, è stato necessario pensare a un terzo bilancio, quello che indica gli importi che il governo era sicuro di poter riscuotere. Per esempio, nel 1845 per la produzione degli oliveti su suolo pubblico, regolarmente affittati ai privati, il ministero aveva scritto sul bilancio d’esercizio la cifra di 441.800 dracme. Sperava che di quella somma lo stato sarebbe stato fortunato a incassarne 61.500. Tale speranza in realtà era illusoria, tenuto conto che l’anno precedente lo stato non aveva percepito 441.800 dracme e neppure 61.500 per quella medesima voce, ma 4.458 dracme e 31 centesimi, vale a dire circa l’uno per cento del dovuto. Nel 1846 il ministro delle Finanze non ha redatto più il bilancio di gestione, e

do Rehn, allo stesso tempo «anche se non sono scomparse, si sono allentate in modo sostanziale le tensioni sul mercato dei titoli sovrani, grazie all’azione della Banca centrale europea e alle misure di consolidamento fiscale intraprese in Italia e Spagna negli ultimi mesi». Rehn ha sottolineato come Roma e Madrid si sono distinte anche per l’impegno mostrato nel condurre riforme strutturali, incluse quelle sul mercato del lavoro, dove «ora stiamo facendo passi in avanti, con paesi come Italia e Spagna che ora stanno dando l’esempio all’Europa».

da allora è invalsa l’abitudine di non farlo.

Le spese della Grecia sono così ripartite: debito pubblico (debito interno e debito con l’estero), appannaggio del capo di stato, indennità per le camere, servizi dei ministeri, spese di esattoria delle imposte indirette, spese varie. Se conoscessi un governo che dubita della propria autorevolezza, del proprio credito, dell’appoggio dei propri sostenitori e della prosperità del paese, gli direi: «Procurati un prestito». Ma si presta soltanto ai governi ritenuti solidi e a quelli che si ha interesse ad aiutare. In nessun paese al mondo l’opposizione ha aumentato i fondi pubblici. E, infine, si presta soltanto quando si ha motivo di prestare. L’autore di questo articolo apparso nel 1858 in Francia, era un letterato e giornalista francese, membro dell’Académie Française e dell’Ecole française di Atene. Visse diversi anni in Grecia, dove scrisse il saggio La Grecia contemporanea (1854).

to se non avessimo dato la priorità a evitare la caduta nel baratro». Mario Monti ha ringraziato Francia, Germania e Stati Uniti per «l’atteggiamento che hanno avuto nei nostri confronti fin dal primo momento. La dimostrazione di stima e fiducia rappresenta una parte psicologica e uno stimolo importanti». Questa rinnovata fiducia dei partner internazionali è per l’Italia «un risultato fatto in casa», ha osservato il premier. In queste settimane, ha rivendicato Monti «abbiamo lavorato molto intensamente con il Parlamento, perché con il governo si costruisse una sinergia costruttiva per una maggiore sintonia tra l’Italia e l’Ue in una prospettiva di osservanza delle regole, ma anche di accrescimento del peso della voce italiana in Europa». A questo proposito il premier ha elogiato il ruolo svolto da Giorgio Napolitano: «Ci sono in Italia dei fari per la consapevolezza europea. E il primo è il Capo dello Stato».

Le borse restano fredde all’accordo sul debito greco, Piazza Affari chiude quasi in pareggio, mentre le altre piazze europee sono in lieve discesa. Cala il differenziale tra i titoli di Stato tedeschi e quelli italiani che si attesta a 340 punti

che dovrà decidere sul rafforzamento dei fondi salvastati, alla domanda se si ritenga ottimista come si è detto Jean-Claude Juncker, il premier ha replicato: «Vale più l’ottimismo di Juncker come presidente dell’Eurogruppo che l’eventuale ottimismo di un membro dell’Eurogruppo come il sottoscritto, ma condivido la sua pacata serenità in proposito». Secondo il commissario Ue agli Affari economici, Olli Rehn l’economia dei paesi europei «sta vivendo una recessione moderata e il rischio di un credit crunch si è attenuato, grazie all’azione della Bce con cui ha fornito liquidità alle banche». Così come, sempre secon-

Concetto espresso anche dal nostro presidente del Consiglio che, nella conferenza conclusiva a Bruxelles, ha detto con soddisfazione: «Siamo meno vicini al baratro di quanto fossimo tre mesi fa e questo è percepito dai mercati e dal mondo». Monti ha ricordato che tra gli obiettivi che si è posto il suo governo c’è quello di «traghettare l’Italia fuori dal baratro delle crisi e sono stati compiuti passi avanti significativi». Il premier ha, comunque, ammesso che per il nostro Paese «sicuramente occorrono misure più incisive per la crescita, l’occupazione e il welfare, tre valori molto importanti che avrebbero soffer-

L’intesa sulla Grecia ha, però, registrato una certa indifferenza dei mercati. Le Borse europee hanno chiuso la seduta leggermente in negativo, avendo già scontato nei giorni scorsi l’ok all’accordo sul nuovo piano di aiuti alla Grecia, mentre Milano ha fatto registrare un meno 0,08%. Positiva Wall Street con l’indice Dow Jones che ha toccato quota 13.000 punti per la prima volta dal 2008. In calo spread tra Btp e Bund che si è attesta a 340 punti.


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l’approfondimento

Finalmente, dopo due anni di polemiche e rampogne, arrivano gli aiuti ad Atene. Il prezzo è la sovranità nazionale greca

L’opa dei Dodici

«Se in Francia vince Hollande, ipotesi probabile, l’asse franco-tedesco non ci sarà più», dice il politologo Rusconi. «Non c’era alternativa al piano - sostiene Tzogopoulos ma il Paese umiliato sente di non avere più un futuro» di Riccardo Paradisi ’accordo raggiunto nella notte tra lunedì e martedì dall’Eurogruppo sarà anche un nuovo inizio per la Grecia’: come ha detto il ministro danese all’Economia Margrethe Vestager, presidente di turno del Consiglio ma è un accordo che prevede per la Grecia clausole durissime e soprattutto il commissariamento politico di Atene.

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A Strasburgo si preferisce parlare di stretta sorveglianza ma è una formula eufemistica. In cambio degli aiuti – ancora indeterminati quelli che dovranno arrivare dal Fondo monetario internazionale - la Grecia ha infatti accettato e sottoscritto una sorveglianza così stretta da prevedere la presenza permanente della troika ad Atene e l’inserimento nella Costituzione di una norma sulla priorità dei pagamenti delle scadenze del debito. Non solo: il premier greco, Lucas Papademos ha dovuto pubblicamente rassicurare sull’in-

tenzione della Grecia di mantenere gli impegni presi, dicendosi convinto che «anche il governo che ci sarà dopo le elezioni di aprile sarà impegnato a implementare il programma». Insomma in Grecia il voto diventa una variabile ininfluente tanto più che gli aiuti sono condizionati a una serie di scadenze che si protraggono nella seconda metà del 2012. Tutto questo nella prospettiva di un’inversione del trend economico che dovrebbe avvenire nel 2014 ma che lascerà il livello di disoccupazione praticamente inalterato fino al 2015. Oggi il tasso di disoccupazione in Grecia è al 18% e resterà sopra questa cifra anche per tutto il 2012 e nel 2013. Solo a partire dal 2014 ci sarà un lieve calo di disoccupazione che resterà comunque al 17%. È il risultato di anni di traccheggiamento tedesco: la lentezza degli aiuti verso la Grecia ha aggravato infatti la crisi e fatto impennare l’azione speculativa su Atene. «Si poteva agire piu’

rapidamente, due anni fa» ha rimarcato persino il prudente premier italiano Monti. Ora che gli aiuti sono arrivati ad Atene però non si festeggia. La Grecia sente il peso dell’umiliazione e avverte la minaccia d’uno svuotamento della sua sovranità nazionale. George Tzogopoulos, economista del think tank ellenico Eliamep ed autore di un prossimo saggio sulla crisi greca descrive la situazione del suo Paese.«Oggi ad Atene solo il premier Papa-

La Grecia sente il peso del salvataggio e teme la fine dell’indipendenza

demos e quei politici che lo sostengono sono soddisfatti per l’accordo di Bruxelles. Gli altri partiti e l’opinione pubblica, invece, sono delusi, giovani e disoccupati non hanno speranze per il futuro». «Peraltro - aggiunge Tzogopoulos - tutti vogliono che la Grecia rimanga nell’euro, ma non si accorgono che questo è l’unico modo per farlo». L’Europa a trazione tedesca ha le sue colpe ma anche Atene non ha scherzato: una politica

di bilancio farlocca e un populismo istituzionale che s’è ben guardato dall’informare la popolazione sulle conseguenze reali di una bancarotta ha contribuito a precipitare la Grecia nel baratro. Un cul de sac ormai anche perché «Se la Grecia uscisse all’Eurozona sarebbe impossibile prevedere le conseguenze a lungo termine: di sicuro la nuova moneta subirebbe una fortissima svalutazione, bruciando ricchezza e aumentando le tensioni sociali».

È chiaro comunque che l’Europa non riuscirebbe a sostenere un’altra tragedia greca come è evidente che la governance ferrea tedesca ha mostrato in questi anni a quali conseguenze possa portare il rigore senza misericordia e senza politica. Gian Enrico Rusconi, politologo esperto di cose tedesche, che ha appena pubblicato per Laterza Cosa resta dell’Occidente accetta le critiche alla Germania ma non se la sente di gettare la


L’opinione dell’editorialista del Daily Telegraph: «Londra stia lontana da queste persone»

Persino la “Lady di ferro” era più tenera di questa Ue La situazione catastrofica all’ombra del Partenone non interessa i burocrati ciechi e insensibili di Bruxelles, che parlano solo di numeri di Peter Oborne a quando ho memoria, il Regno Unito ha sempre considerato l’Unione europea una forza del bene in un mondo in difficoltà, per quanto vagamente incompetente e corrotta. Un giudizio che sta diventando sempre più difficile da sostenere. L’Europa unita si sta progressivamente trasformando in un brutale oppressore, indifferente alla democrazia, all’identità nazionale e alle necessità della gente comune. Questa settimana l’ultimo intervento di Bruxelles potrebbe aver segnato un ennesimo punto di svolta: i burocrati hanno minacciato di far fallire un intero paese a meno che i partiti di opposizione non si impegnino a sostenere il piano di austerity voluto dall’Ue.

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Analizziamo i problemi della Grecia dalla giusta prospettiva. La Grande depressione britannica degli anni trenta è entrata a far parte della mitologia nazionale. Erano gli anni dei pasti gratuiti per centinaia di persone ritrovatesi sul lastrico e della disoccupazione di massa, immortalati dai romanzi di George Orwell. Eppure durante la depressione il pil britannico non è mai calato di più del 10 per cento. In Grecia, al contrario, è già crollato del 13 per cento dal 2008, e secondo gli esperti dovrebbe perdere un ulteriore 7 per cento entro la fine dell’anno. In altre parole, prima del prossimo Natale la depressione della Grecia avrà raggiunto livelli doppi rispetto alla terribile catastrofe economica che ha colpito il Regno Unito 80 anni fa. Nonostante ciò, l’élite europea continua a comportarsi come se la tragedia dei greci non avesse alcuna importanza. Questa settimana Olli Rehn, l’economista di riferimento dell’Ue, ha parlato di ”devastanti conseguenze” in caso di default di Atene. Dal contesto delle affermazioni si capisce benissimo che Rehn è preoccupato delle ripercussioni per gli altri Paesi europei, non del futuro della Grecia. La vita in Grecia, la culla della civiltà europea, è diventata un incubo, ma l’elite europea sembra del tutto indifferente. Circa centomila attività commerciali sono state costrette a chiudere battenti, e molte altre sono sull’orlo del fallimento. Il numero dei suicidi cresce esponenzialmente, gli omicidi sono raddoppiati e per le strade vagano decine di migliaia di senzatetto. La vita nelle campagne, dove la gente è tornata al baratto, è ancora accettabile. Nei paesi e nelle città le condizioni sono invece insostenibili. Per le minoranze – soprattutto gli albanesi, che non hanno diritti e da tempo accettano i

lavori che i greci considerano troppo degradanti – sopravvivere è un’impresa disperata. Non sono soltanto le famiglie a vivere un incubo. Anche le istituzioni sono al collasso. Diversamente da quanto accaduto nel Regno Unito durante gli anni trenta, la Grecia non ha alle spalle una lunga storia di democrazia parlamentare stabile. È passata appena una generazione dalla dittatura dei colonnelli, e oggi, mentre alcune aree del paese sono già sprofondate nell’anarchia, stanno emergendo forze inquietanti. Appena qualche mese fa i

Se tutto il resto non basta, allora è la questione umanitaria che deve spingerci a sostenere Atene

partiti estremisti raccoglievano il favore del 30 per cento della popolazione. Oggi, secondo i sondaggi, la sinistra e la destra radicali sono arrivate al 50 per cento, e la loro avanzata non si ferma. Tra le ragioni del distacco dei greci dalla democrazia c’è sicuramente l’ingerenza dell’Ue, e l’imposizione da parte di Bruxelles del premier-fantoccio Lucas Papademos. Alla fine dell’anno scorso sono stato aspramente criticato e addirittura allontanato dallo studio di Newsnight per aver definito il portavoce Ue Amadeu Altafaj-Tardio ”l’idiota di Bruxelles”. Da allora in molti si sono affannati a sostenere che Altafaj-Tardio è in realtà un uomo intelligente e affascinante. Non ho motivo di dubitarne, e inoltre bisogna tenere presente che si tratta semplicemente di un portavoce al soldo di Olli Rehn, Commissario agli affari economici e monetari. Eppure se ci ripenso mi accorgo di essere stato fin troppo generoso nelle mie valutazioni. E mi piacerebbe spiegarmi meglio. L’Idiozia è chiaramente una delle cause dei problemi di Bruxelles, e può spiegare molte delle valutazioni risibili e degli errori strategici degli ultimi anni. Tuttavia ciò che mi colpisce di più è l’atteggiamento insensibile e disumano dei commissari Ue come Rehn, che stanno facendo a pezzi un paese che un tempo era fiero, famoso e abbastanza ben gestito.

Sono abbastanza vecchio da ricordare la loro retorica quando Margaret Thatcher portava avanti le sue politiche monetariste per reagire alla recessione dei primi anni ottanta. All’epoca fu accusata di non avere alcuna compassione o umanità. Eppure tra il 1979 e il 1982 il pil era calato di appena il 6 per cento, meno di un terzo rispetto alla Grecia travolta dalla crisi. Il picco nel tasso di disoccupazione era stato del 10,8 per cento, lametà di quello registrato oggi dalla Grecia. La verità è che Margaret Tatcher è stata una figura molto più pragmatica e compassionevole di Olli Rehn, del suo portavoce Amadeu Altafaj-Tardio e compagnia. La lady di ferro non avrebbe mai distrutto un intera nazione in nome di un dogma economico. Per il Regno Unito sarebbe altamente immorale continuare a sostenere la moneta unica europea, un esperimento catastrofico che ha già provocato devastazioni inumane su larga scala. Anche lasciando da parte ogni altra considerazione, dovrebbe bastare il senso di umanità a convincere David Cameron a staccarsi da Bruxelles e correre in aiuto della Grecia.

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croce addosso solo alla Merkel. «Intendiamoci ci sono delle responsabilità tedesche ma a quelli che per esempio dicono che queste politiche di rigore rischiano di innescare reazioni xenofobe e populiste di estrema destra e sinistra si può rispondere che è vero anche il contrario. Ossia che il rigore tedesco ha impedito al nazionalismo nord-europeo di esplodere tenendo a bada gli spiriti animali della xenofobia più feroce» L’impressione di Rusconi sulla Germania è che si è resa conto di essersi esposta troppo. «Se guardiamo con attenzione non è la Germania in prima persona a imporre qualcosa direttamente alla Grecia. La parte del cattivo la fa la troika. Certo che si tratta di una vittoria della linea tedesca perché di fatto l’europa ha assunto la prospettiva di Berlino sulla crisi, ma la Germania ha almeno l’accortezza, ora, di fare un passo di lato».

Una prospettiva che prevede come conseguenza lo svuotamento della sovranità greca, una specie di trattato di Versailles. «Quello che sta succedendo ad Atene con la troika pronta a insediarsi per vigilare sulla politica greca è clamoroso ma siamo nella linea di progressiva perdita di sovranità nazionale a scapito di enti sovranazionali. Che peraltro, come nel caso della troika, sono europei solo per un terzo. Il problema è sempre il solito: non c’è una politica europea». Rusconi registra un escalation: «Prima della crisi c’era un discorso positivo, attento alle questioni dell’equilibrio di democrazia,economia e sovranità. La Germania era in testa a questa teoria. Poi, incalzata dagli eventi, ha fatto marcia indietro». Responsabilità tedesche? «Ce ne sono - dice Rusconi - ma io mi chiedo cosa fa il parlamento europeo. Il vero problema, lo scandalo è che l’Europa ha delegato tutto. È clamoroso che il parlamento europeo non tenti di rovesciare il tavolo, di pretendere partecipazione decisionale». Alla Merkel Rusconi dà anche altre attenuanti: «È vicina alle elezioni. Doveva tacitare un opinione pubblica in maggioranza ostile verso i paesi dell’Europa meridionale. E del resto non è che i socialdemocratici si facciano sentire più di tanto. Anzi, si accodano». Eppure questa filiera della volontà rigorista che da Berlino continua con la troika e impone le sue decisioni potrebbe spezzarsi con le elezioni francesi. Nel caso cioè d’una non improbabile vittoria del candidato socialista Holland. Per questo la Merkel è impegnata in prima persona come democristiana e non come cancelliera - nel sostegno al suo subornato amico Sarkozy. Il quale per ostentare grandeur deve restare aggrappato al carro tedesco. La storia ha senso dell’ironia.


politica

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Come promesso, l’esecutivo punta sulla trasparenza. Mancano all’appello il premier e il titolare del Welfare

Il ministrometro Il governo pubblica i guadagni dei suoi membri. Severino a sorpresa batte Passera. Ultimo Riccardi di Marco Palombi aola Severino è quella che ha il reddito più alto, Corrado Passera il più ricco, Piero Gnudi ottimo terzo: parecchi perderanno soldi a fare il ministro, qualcuno ci guadagnerà, per altri non si sa (l’ex prefetto Cancellieri e il dg del Tesoro congelato Grilli – oggi viceministro - non hanno indicato redditi per il 2010). È il giorno dell’operazione trasparenza sui soldi del governo e la notizia, in realtà, è che in tre al momento in cui andiamo in stampa non hanno ancora ottemperato all’obbligo di pubblicare online i loro conti: Mario Monti, Enzo Moavero e Lorenzo Ornaghi. Eccovi una panoramica.

P

Paola Severino. Il ministro della Giustizia, come detto, è quella che guadagna di più: col suo lavoro da avvocato nel 2010 ha messo insieme un imponibile netto di 7.005.649 euro ed ha versato tasse per 4.017.761 euro. Quanto al patrimonio, Severino risulta proprietaria di due appartamenti a Roma e di uno da 150 mq a Cortina (su cui paga il mutuo), di due macchine (una Daihatsu M3 del 2006 e una Toyota AJ1 del 2009) e una barca “Aqua 54 Cruiser Baia”in leasing. Notevole pure il portafogli azionario: 4 milioni in azioni Generali e Gbm, obbligazioni e Btp. Da Guardasigilli prenderà 195.225 euro. Corrado Passera. Ben messo, ovviamente, pure il titolare dello Sviluppo economico: tre milioni e mezzo il reddito lordo 2010, su cui il nostro ha pagato 1,4 milioni di tasse. L’ex ad di Banca Intesa è il ministro col patrimonio più sostanzioso: una casa da 141 mq a Parigi e un terreno di 3.220 metri quadrati a Casale Marettimo (Pisa), più una Mercedes A180 del 2010. Il botto arriva sugli strumenti finanziari: Passera possiede il 33% circa sia di Lariohotels spa che della Immobiliare Venezia Srl (5 e 1,6 milioni il valore rispettivo), ha 8,8 milioni in banca derivanti dalla vendita delle sue azioni Intesa, titoli obbligazionari per 192mila euro, polizze vita per 1,28 milioni e un deposito nel fondo pensione complementare da 3,3 milioni. Ha anche qualche debito, l’ex banchiere: ha mutui per 2,9 milioni. Il suo compenso annuale da ministro sarà di 220mila euro circa. Piero Gnudi. Il ministro del Turismo e dello Sport è il terzo Paperone del governo: nel 2010 dichiarava un reddito lordo da 1,7 milioni di euro e tasse versate per 721mila. L’ex manager amico di Prodi non ha proprietà immobiliari dirette, dichiara di essersi dimesso dalle molteplici cariche sociali che rivestiva prima della nomina e di possedere due auto e un gozzo Aprea Mare 10 in leasing. Gonfio il portafogli azionario (Intesa, Unicredit, Enel, Eni, General Electric, Deutsche Telecom,Telecom rispar-

mio) cui vanno aggiunti 500 mila euro in obbligazioni e 1,22 milioni in Ctz. Circa 198mila euro il suo stipendio da ministro. Filippo Patroni Griffi. Il ministro della Pubblica amministrazione nel 2010 aveva messo insieme 504mila euro, quest’anno prevede di guadagnare meno: 205mila euro come ministro, 24mila da un affitto e 12mila come presidente del Comitato di sorveglianza del gruppo Morleo. Quanto alle case, il nostro ne ha una a Roma, il 45% ciascuna di due abitazioni in nuda proprietà a Napoli, il 20% di un trivani a Massa Lubrense e il 10% di un terreno da 6,2 ettari a Frignano.Tre le auto di Patroni Griffi (1 Bmw 320, una Ford Fiesta e una Toyota Yaris) più una moto. Poca roba il patrimonio azionario, cui vanno aggiunti 60 mila euro in obbligazioni e 250mila in fondi di gestione. Elsa Fornero. La ministro del Lavoro ha guadagnato 402mila euro nel 2010 (166mila euro le tasse), quest’anno ne prenderà la metà. Quanto al patrimonio, Fornero possiede una quota del 25% della sua abitazione di Torino, il 50% di un appartamento a Courmayeur, la comproprietà di una casa a Torino e di una a San Carlo Canavese. Poca roba il portafogli azionario. Giulio Terzi di Sant’Agata. Il ministro degli Esteri, quand’era ambasciatore a New York, dichiarava 340 mila euro, quest’anno invece ne prenderà 203mila. Niente strumenti finanziari per il capo delle feluche, ma una casa a Roma e una New York, più una villa, un garage e tre ettari di terreno tra Curno e Brembate di Sopra (Bergamo). Due le macchine (una Golf e una Focus) e una moto: il nostro è orgoglioso proprietario di una Harley-Davidson 883 del 2005. Giampaolo Di Paola. Il ministro della Difesa, già ammiraglio, l’anno scorso ha messo insieme 343 mila euro di redditi, principalmente da pensione (quest’anno si aggiungeranno i 199mila euro da ministro). Il nostro possiede poi al 50% una casa a Livorno, due auto (una Mercedes Classe B e una Polo), azioni varie, quote di fondi comuni d’investimento, 150 mila euro in titoli di Stato, una polizza da Generali 85.000 e obbligazioni per 655.000 euro.

Piero Giarda. Il ministro per i Rapporti con il parlamento nel 2010, esclusi i redditi da pensione, ha messo insieme 262.288 euro. Dieci gli immobili del ministro: quattro baite (di una ha allegato pure una foto), un appartamento e due terreni in Valsesia, un appartamento e un box auto a Milano, che raggiunge con una Seat Ibiza del 2002. Consistente il pacchetto di azioni e titoli: 501.411 euro. Il reddito attuale, ironizza, è di 16.234 euro lordi al mese, per quello annuale “dipende dalla durata del governo”. Francesco Profumo. Il ministro dell’Istruzione nel 2010 guadagnava 227.500 euro, quest’anno dovrebbe sfiorare i 200mila. L’ex presidente del Cnr, in ogni caso, possiede quattro appartamenti: uno al 100% a Savona, due al 50% a Torino e a Salina (Me) e uno al 25% ad Albissola Mare (Sv). Profumo è anche il fortunato proprietario di 4 garage (tre al 50% e uno al 25%) in cu parcheggiare la sua Lancia Lybra del 2001. Diversificato, ma non enorme, il portafogli azionario. Mario Catania. Il titolare delle Politiche agricole, da dipendente del ministero, l’anno scorso ha dichiarato redditi per 213mila euro e risparmi per 450mila tutti investiti in titoli di Stato. Il nostro non è sposato e non ha figli, possiede la casa in cui vive (120 mq a Roma) e la metà di una a Manciano (Grosseto), la sua auto è una Golf del 2004. Quest’anno dovrebbe guadagnare 211mila euro. Corrado Clini. Il minidell’Ambiente, stro che era direttore generale dello stesso dicastero, nel 2010 ha guadagnato circa 170.000 euro (ora salirà a 190mila). Il nostro possiede il 50% di un appartamento a Mirano (Venezia) e una 500 del 2010.

Paola Severino 7.005.649 euro lordi

Corrado Passera 3.529.600 euro (più quote)

Anna Maria Cancellieri 183.084 euro (più immobili)


politica

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Il presidente di Confindustria si scaglia contro la triplice al convegno di Federmeccanica

Lavoro, Marcegaglia attacca i sindacati: «Difendono i ladri» Cgil e Cisl replicano a muso duro: «Ci offende. Smentisca». Sgravi per le famiglie dal 2014. E torna l’elenco fornitori di Francesco Lo Dico

ROMA. Sul tavolo del governo c’è in esame il decreto legge sulla semplificazione fiscale, ma l’ennesima puntata della faida a tre tra Fornero, sindacati e Confindustria conferma che la vera partita politica si gioca sulla riforma del mercato del lavoro. A svolgere il ruolo di agente provocatore, stavolta è stato il presidente degli industriali, Emma Marcegaglia. «Vorremmo avere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e quelli che non fanno il loro lavoro», ha detto nel corso di un intervento al convegno di Federmeccanica.

Fabrizio Barca. L’uomo della Coesione territoriale nel 2010 metteva insieme 160.484 euro, cui si sommavano i 24 mila guadagnati dalla moglie Clarissa Botsford. L’economista risulta proprietario di una casa di 70 mq a Roma e di una da 35 mq a Roccagorga (Latina) in comproprietà con la moglie. La signora è a sua volta proprietaria di un trivani a Roma e dell’auto di famiglia, una Renault Kangoo. Barca dichiara pure polizze vita per 117.203 euro, obbligazioni per 112.510 euro e altri strumenti finanziari per 9.735 euro. Ora prenderà 194 mila euro l’anno. Renato Balduzzi. Il ministro della Salute l’anno scorso ha dichiarato 143.750 euro e 11 immobili (alcuni in comproprietà) tra Alessandria, Molino de’ Torti (Al), Avise (Ao) e Bordighera (Im).Tre le auto, tutte del 2006: una Subaru B9 Tribeca, una Fiat Multipla e una Fiat Panda. Balduzzi ha pure un bel pacchetto di azioni e un conto corrente con 52mila euro. Andrea Riccardi. Il ministro per la Cooperazione internazionale è il più “povero”: nel 2010 ha dichiarato 120mila euro, possiede un appartamento e un terreno a Trevi (Pg) e la nuda proprietà di una casa a Roma in cui vive la madre. Ha due depositi titoli e da marzo 2011 percepisce una pensione da professore universitario da 81mila euro l’anno: sommata ai 199mila che prenderà da ministro, nel 2012 il suo reddito dovrebbe schizzare a 280mila euro. Anna Maria Cancellieri. La titolare del Viminale non ha indicato il reddito pregresso, ma sostiene che come ministro metterà insieme 183mila euro. Ben 24 gli immobili di cui è proprietaria o comproprietaria: due appartamenti, due box auto, una cantina e un negozio a Milano; un appartamento e un box auto a Roma; fabbricati e terreni al 20% a Palazzolo Acreide (Siracusa). La ministro dell’Interno ha pure una jeep della Toyota e un po’ di azioni della Bp di Vicenza.

Una presa di posizione che non è piaciuta alla Cgil che ha risposto subito attraverso Twitter: «Come fa Marcegaglia a dire di volere un sindacato che non protegge assenteisti cronici, ladri e chi non fa il proprio lavoro è davvero troppo». Sono «affermazioni non vere che offendono il ruolo del sindacato confederale».«Quelle della Marcegaglia sono affermazioni non vere. Si possono avere e sostenere tesi e idee diverse», avvisa il segretario confederale della Cgil, Fulvio Mammoni, «anche in modo forte, ma così si mette in discussione il ruolo del sindacato confederale italiano. La presidente di Confindustria deve smentire queste affermazioni». Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, più che scuse chiede chiarimenti sull’obiettivo della polemica. «La Marcegaglia farebbe bene a precisare di quale sindacato parla. La mia organizzazione si è sempre presa le proprie responsabilità di fronte alle scompostezze degli imprenditori e pure di alcune realtà sindacali», spiega Bonanni. Ma al di là del merito della riforma del mercato del lavoro, ancora molto confuso a parte l’intento di introdurre licenziamenti più facili, il metodo non sembra mutare. E anche se Marcegaglia ritiene che i margini per un accordo al momento ci sono, ha ripetuto al convegno Federmeccanica le stesse parole utilizzate giorni prima dal ministro Fornero: «Credo sia giusto che nel caso in cui non si arrivi a un accordo, il governo vada avanti e faccia la riforma che deve fare». Ma da Firenze, in un ideale botta e risposta nella stessa città, il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, accusa: «Da quello che ho capito il governo vuole rompere la trattativa, noi non lo permetteremo». Il presidente di Confindustria ha però precisato di non volere la cancellazione totale dell’articolo 18. «Non vogliamo la sua abolizione», ha precisato Marcegaglia, ma che «rimanga per casi di licenziamento per discriminazione». Sugli ammortizzatori sociali, la massima carica di viale dell’Astronomia ha inoltre chiesto ancora una volta una moratoria: «Ora siamo in una situazione drammatica e l’impatto sull’occupazione durerà più a lungo. Chiediamo che per almeno due anni non vengano toccati». E Bonanni da Firenze concorda: «Bisogna mantenere in piedi il sistema di protezione fatto dagli ammortizzatori perchè qui funzionano meglio che in altre parti d’Europa». Il presidente di Confindustria ha infine toccato il tema della riduzione del costo del lavoro. «Gli introiti del recupero dell’evasione devono essere usati per abbassare la pressione fiscale sui lavoratori dipendenti e le imprese», in quanto «c’è una pressione fiscale insostenibile nel medio termine e così il Paese non può crescere». E ja conclu-

so: «È assolutamente giusto che il governo abbassi l’Irpef dal 23 al 20 per cento». Il decreto legge allo studio in Consiglio dei ministri, opererà in questa direzione. Nella bozza messa a punto dal governo è previsto che a partire dal 2014, cioè dall’anno successivo al pareggio di bilancio, le risorse raccolte nel 2012 e nel 2013 dalla lotta all’evasione fiscale verranno destinate a misure, anche non strutturali, a favore delle fasce deboli, con particolare riferimento all’incremento delle detrazioni fiscali per i familiari a carico. Ma il calo delle tasse, recita il documento, sarà condizionato comunque al «rispetto degli obiettivi di finanza pubblica». L’articolo 9 della bozza pianifica inoltre una black list dei cattivi contribuenti: in seguito a ripetute segnalazioni all’Agenzia delle entrate o alla Guardia di finanza, chi non emette scontrini finirà nella lista dei cattivi. Ancora un nulla di fatto, invece, dopo gli annunci sull’Ici anche per la Chiesa: la norna al momento non è contemplata, sebbene il governo sembri intenzionato a rafforzare i poteri di controllo sul terzo settore.

Il numero uno di viale dell’Astronomia ribadisce la linea Fornero: «Se non si trova l’accordo, il governo farà la riforma che deve fare». Ma Bonanni avvisa: «Il governo vuole rompere la trattativa, noi non lo permetteremo» E arriva anche un deterrente contro il gioco illegale. Gli ispettori dei Monopoli avranno a disposizione un monte di 100mila euro per testare il corretto funzionamento delle “macchinette”.

In arrivo anche misure di alleggerimento sul fronte del recupero crediti. Dal primo luglio 2012 non saranno iscritti a ruolo i debiti fino a 30 euro in riferimento a ogni periodo d’imposta, purché si tratti di casi isolati e non di ripetute violazioni. E viene introdotta la “rateazione flessibile”dei pagamenti (rate variabili di importo crescente) per fronteggiare più serenamente “l’incubo Equitalia”. Molto importante il ritorno dell’elenco clienti-fornitori per le aziende. ”L’obbligo di comunicazione delle operazioni rilevanti ai fini dell’Iva per le quali è previsto l’obbligo di emissione della fattura”, recita il documento, “è assolto con la trasmissione, per ciascun cliente e fornitore, dell’importo di tutte le operazioni attive e passive effettuate”. Per le operazioni senza obbligo di fattura, la comunicazione deve essere effettuata comunque per cifre superiori a 3600 euro.


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egli ultimi anni della sua vita, il grande filosofo Michel de Montaigne (1533-92) aggiunse una domanda ad un saggio che aveva scritto molti anni prima: «Quando io gioco con il mio gatto come faccio a sapere se il gatto non sta giocando con me?». L’interrogativo è una sorta di sintesi della forte convinzione di Montaigne che nessuno può veramente conoscere chi ha di fronte, siano essi gatti o esseri umani. Il felino di Montaigne è di fatto l’emblema della co-operazione. Questa premessa è utile a comprendere il perché noi spesso e volentieri non capiamo che cosa passi nella mente e nel cuore delle persone con cui abbiamo a che fare. Eppure, esattamente come per Montaigne e il suo enigmatico animale domestico, anche noi, a fronte della carenza evidente di una profonda comprensione dell’altro, desideriamo comunque fare qualcosa assieme. Montaigne nacque nell’anno in cui Holbein il giovane dipinse Gli ambasciatori. Alla stregua dei giovani emissari alla corte inglese disegnati dall’artista tedesco, il giovane Montaigne ebbe un’educazione politica come membro del parlamento di Bordeaux. E come i due emissari, venne a conoscenza del conflitto religioso in corso fra cristiani e protestanti. Le guerre di religione esplose nella metà del sedicesimo secolo, si fecero sentire anche nella

N

La carità passiva è divenuta la risposta tradizionale della sinistra contro i mali del capitalismo regione francese terrorizzando il suo paese natale. Benché Montaigne si schierasse al fianco di Enrico IV di Navarra, il suo cuore non battè mai nè per i dogmi religiosi nè per la politica. Nel 1570, due anni dopo la morte di suo padre, si ritirò nella sua proprietà e precisamente nella torre sud del suo castello, dove si ritagliò una stanza per pensare e scrivere. In questa camera cominciò sia a sperimentare la scrittura dialogica sia a ragionare sulla sua applicazione nella vita quotidiana.

Benché si fosse ritirato in una sorta di eremitaggio e spendesse buona parte del suo tempo a fare il viticoltore, non si ritirò mai nè mentalmente nè emozionalmente dal mondo reale. Il suo caro amico di infanzia, Étienne de La Boétie, scrisse il Discorso sulla servitù volontaria intorno ai 22 anni (probabilmente nel 1553), un saggio sul-

il paginone la cieca obbedienza, e senza meno Montaigne elaborò successivamente molte delle sue idee. Le guerre di religione avevano suscitato nei due giovani filosofi un vero e proprio orrore nei confronti di un cieco asservimento alla fede, a un principio o a un leader carismatico. Se i due amici fossero vissuti un secolo più tardi, la teatralità di Luigi XIV probabilmente li avrebbe indotti a sottomettersi al suo potere. Così come sarebbero probabilmente rimasti invischiati nelle ideologie carismatiche dei despoti del Ventesimo secolo.

Montaigne fu un feudatario che godette pienamente di tutti i privilegi del suo rango e che dunque non avrebbe mai potuto far parte di una comunità per come noi oggi la intendiamo. Però non smise mai di studiare l’organizzazione della vita sociale attorno a lui, cercando sempre di captare qua e là qualche segnale, qualche frase e ogni utile rituale della corte dei suoi dipendenti. Tornando all’inizio di questo articolo, l’enigmatico gatto di Montaigne rappresenta tutti i suoi pensieri. Che cosa passa nella mente delle persone con cui co-operiamo? Un tema sul quale spese fiumi di inchiostro, tanto che Blaise Pascal lo descrisse come «l’incomparabile autore dell’arte della conversazione». Quest’arte è per Montaigne centrata su un aspetto speculare: la capacità di ascoltare. In un suo saggio descrive un buon uditore alla stregua di un detective. E questo perché detestava sommamente quello che il filosofo Bernard Williams definì «fetish of assertion». Una passiva e feroce assertività, infatti, nega il vero ascolto dell’altro. In un suo saggio, osservò inoltre come, in una società più grande, la boria declamatoria di uno speaker fosse in grado di instillare il dubbio nell’ascoltatore sulla propria capacità di giudizio. Così scrivendo, mise ben in chiaro la minaccia di una sottomissione passiva della folla a un leader carismatico. Intendiamoci, Montaigne analizzò profondamente lo spazio che intercorre fra quel che le persone pensano e quello che poi realmente dicono, e si soffermò lungamente sulla capacità di un uditore di saper cogliere questa verità nascosta. Una capacità potenizalmente presente in ogni individuo. Così come quella della prevaricazione. Prevaricazione che però è a volte inconsapevolmente perseguita, visto che la folla comunque chiede di essere diretta, di essere azzittita e in ultima analisi comandata. Ciò nonostante, e forse proprio per l’esperienza maturata sotto il conflitto fra cattolici e protestanti, è altresì necessario restare vigili, saper cogliere la verità, e questo al fine di non essere sopraffatti. Un modo di stare al mondo “diplomatico”, l’unico in grado di

In alto, un ritratto del filosofo francese Michel Eyquem de Montaigne. In apertura il dipinto di Van Gogh “I mangiatori di patate”

La fine della

di Richard

In passato i ricchi sostenevano i poveri. Dal ’900 in poi, è bastato prendersi genericamente cura di loro. In piena crisi economica questo valore è saltato. Adesso è l’ora dell’io contro tutti far progredire la società. Da uomo abituato a muoversi nella sua comunità, Montaigne adorava il dialogo più della dialettica, convinto che la contrapposizione portasse troppo facilmente alla violenza. E praticò nei suoi scritto per tutta la vita questa arte delicata, passaggio dopo passaggio, frase dopo frase, rendendo chiaro il suo pensiero solo al termine di ognuno dei suoi saggi.

Dialogico è infatti il nome moderno di una pratica molto antica, e Montaigne è stato, a mio giudizio, il precursore di quest’arte. Il lento srotolarsi dei suoi pensieri dissipano continuamente ogni diapason emotivo nel lettore. Nulla può chiarire meglio questa forma mentis del desiderio espresso dal filosofo di far dimenticare il male al suo lettore. «Disimparare il male» grazie al dialogo, guar-


il paginone

a solidarietà

d Sennett*

monto dell’età moderna che si mette in discussione di fronte a nuove possibilità. Il quadro rappresenta un nuovo modo di fare le cose. Il gatto è un metodo differente di convivenza. La retrospettiva storica del felino è quella del suo padrone, con il sistema sociale definito da La Boétie: cooperazione ma anche libertà di comando al vertice.

Cos’è successo quindi ai buoni auspici della modernità? Con una frase lapidaria, il sociologo Bruno Latour ha detto: «Non siamo mai stati moderni». Parole con cui vuole dire che la società ha fallito nell’investire in toto nella tecnologia. Quasi quattro secoli dopo Holbein, gli strumenti che rimangono a disposizione sono quelli mistici. Per questo, nel segno della cooperazione, faccio mia la riflessione di Latour: noi non siamo ancora moderni. Il gatto di Montaigne dimostra che le capacità della società dell’uomo restano legate al naturale nutrimento. Il XX secolo ha trasformato la cooperazione in solidarietà. I regimi che ne hanno parlato non erano solo dittature. L’effettiva tendenza della solidarietà è il comando e la manipolazione dall’alto. Il suo potere perverso, nella sua forma “noi contro loro”, permane presso le democrazie liberali, così come nell’atteggiamento dell’Europa nei confronti dei flussi migratori. Lo stesso accade in America dove, sempre all’insegna della solidarietà, si auspica un ritorno ai valori della famiglia. La solidarietà è divenuta la risposta tradizionale della sini-

dando ogni sfaccettatura della medaglia. Solo questo esercizio può, per Montaigne, rendere le persone consapevoli, obiettive e capaci di controllare le proprie reazioni. Da vero uomo del suo tempo, Montaigne fu elegantemente umile e interessato a ogni forma del vivere sociale. Una regola che servì pedissequamente. Seguiva la vita del carpentiere o del cuoco come quella dei nobili e non era falsamente partecipe. In questo modo poté scandagliare davvero l’animo umano e mettere in pratica le idee che lo accompagnarono per tutta la sua vita. Come ha scritto Sarah Bakewell , Montaigne fu il filosofo per eccellenza della modestia. Soprattutto nel suo tentativo quotidiano di aiutare le persone a comunicare e interagire fra loro.

La modestia incarna l’ideale di civiltà del filosofo. Una modestia esperita in tutte le sue forme e con estrema leggerezza. E che permette un vero contatto con l’altro, scevro da ambiguità, retropeniseri e una carità povera di spirito. Montaigne è convinto che sia l’empatia

piuttosto che la simpatia a far da collante sociale. Del resto lo si ricorda prender parte alla vita quotidiana del suo maniero, condividendo usi e costumi con i vicini e la servitù della gleba. Ovviamente lo si vede più interessato alle somiglianze.Tuttavia si prende a cuore anche le eccezioni e le particolarità, in modo che possano essere la parte di un unico insieme. In altri termini, l’altruismo è forse l’aspetto più incisivo del pensiero di Montaigne. Viveva in un’era di gerarchie, durante la quale le distinzioni di rango sembravano distinguere i signori dai servi in razze separate. Nemmeno Montaigne è immune da questo modus vivendi. Tuttavia è curioso. Spesso lo si incontra, leggendolo, a parlare con se stesso. È il primo scrittore ad assumere questo atteggiamento. Il suo metodo di introspezione è impostato sul confronto e sui contrasti. Spesso è soddisfatto di queste distinzioni, ma come per il suo gatto quel che è fonte di differenza genera in lui perplessità. Come la tela di Holbein, il gatto di Montaigne rappresenta il tra-

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stra contro i mali del capitalismo. Ma come tale non ha altra strategia se non la resistenza. Per quanto possa apparire enfatica, è la linfa della sinistra. Le nuove forme di capitalismo fanno pressione sul lavoro a breve termine e sulla frammentazione istituzionale. La conseguenza è che i lavoratori non riescono a sostenersi vicendevolmente. In Occidente il gas tra elite e massa si sta espandendo. Così come le ineguaglianze sono più marcate presso i regimi neo-liberali, tra cui Gran Bretagna e Stati Uniti. I membri di queste società hanno sempre meno da condividere. Il nuovo capitalismo offre la possibilità di separare il potere dall’autorità, svincolandolo dal senso di responsabilità, soprattutto durante un periodo di crisi economica. Di fronte a queste condizioni, la popolazione regredisce su se stessa. Non bisogna meravigliarsi che il desiderio di solidarietà, che distrugge quel metodo “noi contro loro”, torni in qualche modo a essere in voga. Del resto, il fenomeno coincide con la nascita di un nuovo attore sociale, emerso dall’incrocio tra potere politico ed economico.

L’individualismo, così com’è descritto da Tocqueville e che sembra ricalcare quello di La Boétie, è ancora oggi vivo e si tratta di una nuova forma di volontario asservimento. Il singolo quindi appare schiavo di se stesso e delle sue inquietudini, perché alla ricerca di un senso di sicurezza per il suo “particulare”. Tuttavia il termine individualismo credo che faccia riferimento all’assenza degli elementi sociali così come degli impulsi personali. La ritualità in questo caso è assente. Il ruolo del rito, presso tutte le società, è quello di contenere le ansietà, orientando la popolazione verso gesti simbolici. Le società moderne hanno perso questi elementi. La ritualità secolare, tra cui appunto la solidarietà, è stata messo a dura prova dalla perdita di questo sostegno. Nel XIX secolo, lo storico Jacob Burckhardt ha parlato della modernità come di un’epoca di brutale semplificazione. Oggi gli effetti incrociati del desiderio di ripresa di solidarietà insieme all’insicurezza economica si traduce in palese semplicità: “noi contro loro”, accoppiata a “sei nel mio territorio”. Tuttavia, insisterei sulla condizione del “non ancora”. L’approssimazione moderna potrebbe reprimere e distorcere le nostre capacità di convivenza. Ma non possiamo permettercelo. In qualità di social animal, siamo in grado di cooperare molto più profondamente rispetto all’attuale erosione dei valori sociali. *professore di sociologia alla London School of Economics e docente di scienze sociali al Mit di Boston


mondo

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Di fronte a un attacco a tutto tondo, nessuno reagisce. Anzi: il mondo si indigna se Israele immagina di agire...

L’Iran minaccia tutti Conquista il nucleare, taglia le forniture di greggio e vuole chiudere Hormuz di John R. Bolton annuncio nel giorno di San Valentino dei nuovi traguardi scientifici e tecnologici conquistati dall’Iran nell’ambito del suo programma nucleare, dimostra quanto il regime stia continuando ad ampliare e intensificare le sue capacità in questo delicato e pericoloso campo. Mentre la corsa per raggiungere armamenti nucleari sempre più potenti e funzionali è l’aspetto più ipnotizzante e minaccioso del lavoro dell’Iran, la sua continua marcia verso le attività nucleari non fa che dimostrare quanto Teheran sia certa di poterla fare franca senza essere contrastata. L’Iran sta concludendo un lungo cammino,

L’

città santa di Qom sia operativo al cento per cento, e che le sue prime barre di combustibile nucleare prodotte autonomamente siano state installate nel reattore di ricerca di Teheran, dimostra che la padronanza dell’Iran sul ciclo di combustibili nucleari prosegue rapidamente. Magari presto avremo notizie che lo stabilimento Arak per la produzione dell’acqua pesante è completo e in funzione, e che il vicino reattore ad acqua pesante sarà quindi inaugurato nel 2013. Oppure che il programma di missili balistici disponga pienamente di veicoli testati per il lancio capaci di coprire obiettivi nell’emisfero occidentale.

Ahmadinejad si dice pronto ad agire in modo preventivo contro i suoi nemici se dovesse intravvedere un rischio per gli interessi nazionali del suo Paese. E Barack Obama resta silente

Ogni passo successivo sottolinea che l’infrastruttura nucleare che l’Iran ha attentamente e sistematicamente programmato e reso sempre più operativa non è disegnata semplicemente per mostrare un atteggiamento di sfida alle sanzioni e alle opposizioni occidentali, come alcuni affermano in modo superficiale. Ricordate, ad esempio, la raffica di valutazioni ottimistiche sulle proposte di scambiare il rifornimento esistente dell’Iran di uranio impoverito per permettere ad una nazione estera di produrre le barre di combustibile per il reattore di Teheran. l’Iran ha spazzato via questa iniziativa per diversi motivi, non meno importante quello che produrre in casa le barre di combustibile è sempre stato parte della sua strategia di allargamento e potenziamento della sua capacità nucleare. Il progresso lento e costante dell’Iran di questi ultimi venti anni ha dimostrato, al di là dei frenetici sforzi retorici per rinnegarlo, che la diplomazia non solo è stata futile, ma ha fornito anche all’Iran una copertura politica e una legittimità consentendogli di continuare a perseguire i propri obiettivi nucleari. Ancor più importante è che le trattative e l’imposizione di deboli e inefficaci sanzioni hanno dato all’Iran il tempo per rendere le sue attività nucleari ampie e intense e di avvicinarsi al traguardo per la gara per gli armamenti nucleari. Lo stesso direttore dell’Intelligence Nazionale di Obama ha dichiarato in Senato lo scorso gennaio che «le sanzioni imposte fino ad ora non li hanno indotti a cambiare il loro comportamento o la loro politica». Le dichiarazioni pubbliche e le rispo-

smentendo così le ipotesi secondo cui la diplomazia o le sanzioni economiche avrebbero potuto fermare il suo avanzamento. La conferma che lo stabilimento di Fordo per l’arricchimento dell’uranio vicino alla

Pur se integrati nel G20 non rispettano alcun accordo

Brics, le cinque spine dell’Occidente Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica con gli ayatollah trattano a modo loro di Mario Arpino e esternazioni di Ahmadinejad relative ai programmi nucleari non vanno sottovalutate, perché l’Iran ha dei buoni alleati di fatto che gli consentiranno, prima o poi, di entrare nel ristretto club dei possessori di ordigni nucleari. I Paesi del Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – continuano ad essere cinque spine nel fianco di un Occidente che, tra problemi economici e pruderie garantiste, ormai si dimostra ogni giorno più debole. E non sono i soli, perché ad essi si affiancano, come supporter, quei Paesi sudamericani che, come il Venezuela, hanno ormai abbracciato vocazioni indigeniste. Pur integrati nel G.20, di posizioni condivise i cinque non ne vogliono proprio sapere e continuano a fare tutto, o quasi tutto, di testa propria.

L

Un esempio sono, per Russia e Cina, il comportamento nei confronti della crisi in Libia e, peggio ancora, nella Siria di oggi. Il Brasile, e l’Italia ne sa qualcosa con il caso Battisti, ha un comportamento ondivago ed anomalo persino nell’osservanza di accordi sottoscritti, e il Suda-

frica in diverse occasioni non si è certo dimostrato in favore delle posizioni occidentali. Resterebbe l’India, che, pur con le sue contraddizioni interne, in politica estera aveva sinora mostrato posizioni di grande equilibrio. Ma oggi, con la questione del nucleare iraniano e le relative sanzioni – quelle già dichiarate, non quelle ancora in contesa a Palazzo di Vetro – anch’essa mostra chiari segni di scostamento.

Si sente forte, è nucleare, sta conseguendo un’invidiabile base tecnologico-industriale, mentre l’economia e lo sviluppo sono in piena espansione. Di conseguenza, ritenendo di non avere più bisogno dell’Occidente, lo considera solo alla stregua di “mercato” e opera le proprie scelte in modo autonomo. Il primo ministro indiano, infatti, sinora ha fermamente resistito alle pressioni occidentali per la riduzione delle proprie attività commerciali con l’Iran, con particolare riferimento alle importazioni di petrolio. Dopo il colloquio della scorsa settimana con il presidente dell’Unione Herman Van Rompuy, in un incontro con la stampa Manmohan Singh


mondo

22 febbraio 2012 • pagina 11 A destra il presidente Ahmadinejad passa “in rassegna” l’impianto nucleare di Natanz. Sotto, il premier israeliano Netanyahu. Non è più un mistero per nessuno che il governo di Gerusalemme stia pianificando eventuali attacchi ai siti atomici dell’Iran. In basso a sinistra, il presidente Usa Barack Obama e a destra il premier indiano Manmohan Singh. Nuova Delhi, assieme alle altre capitali del Brics, ha preso nei confronti dell’Iran una posizione “attendista” che, diplomaticamente parlando, equivale a concederle l’atomica

Per decenni Teheran ha mentito sui suoi obiettivi, ha ostacolato gli ispettori internazionali e ha trasgredito i suoi solenni obblighi contrattuali a non perseguire l’atomica

Approfittando del democratico torpore di America ed Europa, invischiate in procedure, regole ed elezioni, continuano a seguire irrispettosamente i propri interessi aveva testualmente affermato di credere sinceramente che i problemi riguardanti il programma nucleare iraniano vadano risolti «…dando la massima libertà alla diplomazia». In altre parole, niente sanzioni e niente risoluzione di problemi. Solo compromessi. E lo si può anche comprendere, visto che l’Iran è per l’India, con 550 mila barili al giorno, il più grande fornitore di greggio dopo l’Arabia Saudita. Immediatamente prima di questo incontro, l’ambasciatore iraniano in India aveva testualmente affermato che i due Paesi «…avevano raggiunto un accordo per facilitare reciprocamente le attività commerciali».

Altro schiaffo, che l’Occidente incassa con ineffabile leggerezza. Sembra proprio che, seguendo ciò che traspare dall’America di Obama, si stia ormai rassegnando a convivere con l’atomica degli Ayatollah e di coloro che, rinfrancati dall’inettitudine altrui, ne vorranno

seguire l’esempio. A parole, l’Occidente sembra voler scongiurare un’iniziativa drastica che Israele certamente ha pronta tra le opzioni pianificate. Nei fatti, è proprio questo attendismo che rischia di spingere Israele, che si sente sempre più isolata, all’azione preventiva.

Intanto i Paesi del Brics, da soli o in compagnia, approfittando del democratico torpore di America ed Europa, più che mai invischiate in procedure, regole ed elezioni, continuano a seguire irrispettosamente i propri interessi immediati. In questo, con buona pace e senza offesa per l’Onu e il Consiglio di Sicurezza, non c’è nulla di illegittimo. Ma tutto ciò, assieme ad altro, non può non far riflettere sui destini dell’Occidente, il cui declino, vuoi per ignavia propria, vuoi per spregiudicatezza altrui, sembra davvero tristemente avviato su una strada senza ritorno.

ste date da Cina, India, Turchia e altri rendono evidente che nuove sanzioni economiche e petrolifere non otterranno alcun risultato. Questo continuo fallimento dimostra anche perché l’idea, ancora dominante in Europa e nell’amministrazione Obama, secondo cui all’Iran può essere concessa fiducia per un “pacifico”programma nucleare se rinuncia alle capacità di armamenti nucleari, sia infondata e pericolosa. Non esiste alcun modo per monitorare esaustivamente le attività nucleari segrete portate avanti da una nazione decisa a coprirle, come ha già indiscutibilmente mostrato la Corea del Nord. Per decenni, l’Iran ha mentito sui suoi obiettivi, ha ostacolato gli ispettori internazionali e ha trasgredito i suoi apparentemente solenni obblighi contrattuali a non perseguire armamenti nucleari, mentre continuava a sostenere il terrorismo internazionale. È chiaro a tutti quindi, tranne agli irriducibili ingenui, che al regime di Teheran non devono essere affidati oggetti appuntiti, ancor meno armamenti nucleari.

Il ritmo sorprendentemente pacato con cui l’Iran sta portando avanti il suo programma nucleare dimostra inequivocabilmente la sua ulteriore mancanza di interesse per l’azione militare statunitense. Infatti, Teheran è talmente sicura che non solo ha cospirato per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington, ma ha anche pedinato diplomatici israeliani con attacchi terroristici, minacciando di far sentire all’Europa il gusto della sua stessa medicina tagliando i rifornimenti petroliferi ancor prima che le sanzioni Ue siano effettive. Purtroppo per gli Stati Uniti, i progressi dell’Iran rappresentano un fallimento della politica estera bi-partisan che si protrarrà sulle prossime tre amministrazioni. L’unica vera distinzione dell’amministrazione Obama – per quanto sia imbarazzante – è che ha portato gli errori dell’amministrazione Clinton e Bush alla loro conclusione. Probabilmente Obama verrà ricordato nella storia come il presidente addormentato al timone mentre l’Iran conquistava sia gli armamenti nucleari che un ciclo di combustibile nucleare totalmente indigeno. Rimane solo una domanda. Per quanto l’Iran sia ottimista sulla mancanza di attenzione da parte degli Usa, nè Teheran nè Washington sanno veramente cosa Israele deciderà di fare militarmente. La finestra per una simile azione è rimasta chiusa per anni, e Israele potrebbe aver aspettato troppo a lungo. Data la dimensione e la crescita del programma dell’Iran, e la notoria inadeguatezza della intelligence Usa sul posto, sono molte le cose che non sappiamo e nessuna di queste può essere buona. Di conseguenza, anche un attacco riuscito di Israele potrebbe essere insufficiente per fermare il programma dell’Iran nel lungo periodo. E certamente l’Iran gode delle informazioni necessarie utili a preparare le sue difese. Alla Casa Bianca potrebbe prevalere chi teme un attacco da parte di Israele più degli armamenti nucleari iraniani. Tuttavia un mondo in cui l’Iran (e quindi inevitabilmente anche altri paesi confinanti) dispone di armi nucleari sarà molto più pericoloso di un mondo dopo un attacco militare israeliano.


mondo

pagina 12 • 22 febbraio 2012

Parla il neo-cardinale John Tong Hon: «Il papa dimostra amore e interesse per la Chiesa d’Asia. Speriamo che migliori»

Ecco la Cina che vorrei «Sono preoccupato per la sorte dei fratelli scomparsi, ma credo ancora nel dialogo» di Bernardo Cervellera ons. John Tong Hon, 72 anni, vescovo di Hong Kong è fra i 22 prelati che hanno ricevuto la berretta cardinalizia da Benedetto XVI. In un’intervista con AsiaNews egli si definisce ”inadeguato” per la posizione a cui il papa lo ha chiamato, ma ”pieno di gratitudine per questo onore”, che mostra la considerazione che Benedetto XVI ha verso la Chiesa cinese. Attualmente vi sono infatti tre cardinali cinesi: oltre a mons. Tong, vi è il card. Joseph Zen (Hong Kong) e il card. Paul Shan (Kaohsiung, Taiwan). Mons.Tong afferma che essi possono ”lavorare insieme”, soprattutto nel rafforzare il ruolo di Chiesa-ponte fra i cattolici cinesi e la Chiesa universale. Mons. Tong ha seguito gli avvenimenti della Cina per decenni. Membro della Commissione vaticana per la Chiesa in Cina, egli fa un bilancio positivo del lavoro di tale Commissione che in pochi anni è riuscita a diffondere la Lettera del papa ai cattolici cinesi e a riconciliare sempre più le comunità sotterranee e ufficiali. Egli sottolinea che la Lettera di Benedetto XVI dice con chiarezza che l’Associazione patriottica - l’organismo di controllo della Chiesa - è da rifiutare perché ”incompatibile con la dottrina cattolica e con la struttura cattolica”. Per il neo-cardinale i rapporti diplomatici fra Santa Sede e Cina non hanno importanza primaria e non devono assorbire tutte le energie della Commissione. Il neo-proporato si associa alla preoccupazione di AsiaNews per i vescovi imprigionati o scomparsi nelle mani della polizia, ma confessa di avere un approccio più morbido verso le autorità cinesi: occorre costruire con essi una ”buona relazione”e poi esprimere le nostre preoccupazioni. In ogni caso, non dobbiamo ”mai cancellare dalla nostra memoria questi nostri fratelli”. Ecco l’intervista completa rilasciata ad AsiaNews a poche ore dal ricevimento della berretta cardinalizia: Card.Tong, come si sente in questa nuova responsabilità che il papa le ha conferito? Mi sento molto inadeguato per questa posizione. Ma sono anche pieno di gratitudine per questo onore. Non ho nessun motivo per meritare questo: è stata una

M

decisione del Santo Padre che vuole mostrare la sua considerazione per la Chiesa in Cina. È un vero incoraggiamento anche per la Chiesa di Hong Kong, perché continui il suo compito come ”Chiesa ponte” con i fedeli della Cina popolare. Il card. Joseph Zen di Hong Kong ha ormai 80 anni; il card. Paul Shan di Kaohsiung (Taiwan) ne ha 90. Entrambi non sono più voce attiva in un possibile conclave. La sua nomina cardinalizia mostra che il papa sembra non voler fare a meno di una voce della Chiesa cinese fra i cardinali. Avere tre cardinali cinesi in contemporanea significa una grande gratitudine verso il papa e la sua attenzione alla Cina. Noi tre lavoriamo insieme. Del resto, non ha importanza se gli altri sono in pensione o no e non c’è il

questo campo adesso che è cardinale? Dico subito che la Chiesa di Hong Kong non è fatta soltanto dal clero, ma anche dai laici: siamo una comunità e tutti siamo Chiesa, dalla persona al vertice fino all’ultimo cattolico. Ora che i cinesi godono di un po’più di libertà, vi sono diversi sacerdoti cinesi o gruppi di fedeli che vengono in visita ad Hong Kong. Da diversi anni abbiamo organizzato un team per il loro “benvenuto”, per accoglierli e per far loro visitare le nostre comunità, il nostro centro di catechesi. In tal modo mostriamo loro come funziona la catechesi dei catecumeni, il contenuto del nostro insegnamento. Se poi sono persone che studiano teologia, seminaristi, sacerdoti, religiose, li invitiamo a visitare i conventi o il seminario, così possono paragonare la loro esperienza alla nostra. In

La Lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi lo spiega senza possibilità di errore: l’Associazione patriottica è incompatibile con la dottrina e con la struttura del cattolicesimo problema di essere anziani. Di una persona più anziana possiamo approfittare dalla sua sapienza. Il card. Zen lavora ancora molto e con decisione, e noi rispettiamo la sua opinione e la sua saggezza. Del resto, la cultura cinese esalta la figura dell’anziano come chi ha una maggiore saggezza della vita... Tutti noi vogliamo fare tesoro della loro esperienza. Non ha importanza quante parole si dicono: è importante la qualità di ciò che si dice. Perfino una sola parola può essere preziosa. Il card. Shan è molto impegnato nell’evangelizzazione a Taiwan e ancora adesso tiene ritiri, conferenze, incontri. E lo stesso si può dire del card. Zen, con la sua personalità piena di forza e di entusiasmo. Va in Europa, in America, ritorna ad Hong Kong e dopo una notte passata in aereo è subito pronto a incontrare persone, insegnare, ecc... È davvero più forte di me. Come vede la Chiesa di Hong Kong e la sua funzione di ”Chiesa-ponte” con i cristiani del continente? Come sarà il suo lavoro in

tal modo loro imparano da noi e noi impariamo da loro. È anche un modo con cui cerchiamo di offrire loro anche un aggiornamento sull’insegnamento e sulla vita della Chiesa universale. Una volta vi erano diverse personalità di Hong Kong che andavano a insegnare in Cina; ora ce ne sono meno. Ma oggi vi sono molte più persone che vengono ad Hong Kong. Di fatto vi è uno scambio in due direzioni. Ormai Hong Kong, più che una Chiesaponte, si può considerare una Chiesa-sorella di quella della Cina. Il frutto di tutta questa semina non lo sappiamo, ma speriamo che sia abbondante. Lei è da molto tempo membro della Commissione vaticana per la Chiesa in Cina, che esiste ormai da quasi 5 anni. Secondo lei quali sono i risultati ottenuti in questi anni per l’evangelizzazione della Cina e per una ripresa dei rapporti diplomatici fra la Santa Sede e Pechino? Quale pensa possa essere il suo contributo ora che è cardinale? La Commissione ha prodotto molti risultati. Il gruppo è stato costituito dopo che il papa ha promulgato la sua Lettera ai cattolici cinesi nel giugno 2007. Nell’autunno dello stesso anno è stata varata la Commissione. Il nostro lavoro è strettamente legato a quella Lettera, che dà le linee guida di come affrontare alcuni temi nella vita della Chiesa in Cina. La Lettera è formata da due parti. La prima tratta della dottrina cattolica e della struttura della vita della Chiesa. E per questo si cita il fatto che l’Associazione patriottica è incompatibile con la dottrina cattolica e con la struttura cattolica. In più nella Lettera si comunica al governo che la Chiesa non ha mire o interessi politici, ma incoraggia i suoi

membri a migliorare la propria nazione e a dare un contributo alla società. La parte seconda tratta della formazione dei sacerdoti, delle religiose e dei laici.Tutti abbiamo bisogno di formazione e una formazione che non si fermi al seminario, ma continui anche dopo. Noi dovremmo imparare tutta la vita. In tutti questi anni la Commissione ha ottenuto diversi ottimi risultati. Anzitutto abbiamo pubblicato un Compendio per spiegare con maggiore semplicità i contenuti della Lettera, mettendo in luce gli aspetti più importanti. In secondo luogo abbiamo cercato di aiutare la gente a ricevere tale messaggio e, in terzo luogo, di attuare il suo messaggio. Da tale lavoro abbiamo ricevuto anche domande e questioni sul modo in cui attuare le direttive della Lettera. Noi le raccogliamo e le presentiamo alla Commissione per trovare risposte illuminate dallo Spirito e convalidate dal papa. Per quanto riguarda le relazioni diplomatiche fra la Santa Sede e la Cina, va detto che questo elemento è solo una parte delle questioni. Prima di tutto dobbiamo agire sulla nostra vita; le relazioni diplomatiche vengono dopo e non possono assorbire tutto il quadro delle problematiche. Partecipando alla Commissione ho imparato moltissimo e ne sono grato al Papa per avermi dato questa opportunità. Fra i risultati va aggiunto anche un migliore e più fraterno rapporto fra le comunità sotterranee e quelle ufficiali. Vi sono ancora tensioni e attacchi - soprattutto da parte della comunità sotterranea - ma si sono molto ridotte rispetto al passato. Sui rapporti diplomatici non vi sono stati miglioramenti. Forse dobbiamo pregare di più e incoraggiare di più il governo ad accettare un dialogo.


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e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Prima del Capodanno lunare, AsiaNews ha chiesto al governo cinese di liberare alcuni vescovi e sacerdoti scomparsi nelle mani della polizia o condannati ai lavori forzati senza alcuna accusa o processo. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta né dal governo di Pechino, né dall’ambasciata cinese a Roma. Anche la Chiesa di Hong Kong ha domandato molte volte la loro liberazione. Cosa possiamo fare per questi nostri fratelli perseguitati? Anch’io ho le stesse vostre preoccupazioni, per il destino di questi nostri fratelli, soprattutto per i due anziani vescovi, Su Zhimin e Shi Enxiang. Ma ho un approccio differente dal vostro. Io cercherei anzitutto di migliorare il mio rapporto con le autorità cinesi. Dopo che ci siamo conosciuti e vi è una buona relazione, comincerei a esprimere le mie preoccupazioni per la prigionia di questi vescovi. Ad esempio, nel 2008 sono stato invitato a prendere parte alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino. Io ho detto loro che ero molto felice dell’invito e che le Olimpiadi erano una grande occasione di gloria per la nostra nazione. Dopo che abbiamo stabilito un minimo di fiducia reciproca, ho detto loro che essendo cattolico, ero preoccupato per i vescovi cinesi che sono in prigione. E ho spiegato loro che questo fatto non è buono per la nazione. Se questi vescovi tornano a godere piena libertà e rispetto per i loro diritti umani, essi potrebbero dare un contributo ancora maggiore per la nazione. Nello stesso tempo, con la loro liberazione, la Cina potrebbe godere di una più alta reputazione nella comunità internazionale. Dovremmo anche pregare molto e mai cancellare dalla nostra memoria questi nostri fratelli.

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Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse Seregni Roma s.r.l. Viale Enrico Ortolani 33-37 00125 Roma Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

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società

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Non solo samba: dopo l’elezione di Dilma Roussef, la politica e l’economica brasilera sono state rivoluzionate del tutto

La Repubblica delle donne Undici nel governo e 10 all’opposizione: il Brasile guida la carica del potere rosa di Maurizio Stefanini n Paese machista «si risveglia all’improvviso governato dalle donne», commentò lo scrittore Heitor Cony lo scorso giugno. «Eleonora sta per entrare nel governo più femminile nella storia del Paese non solo perché c’è una donna alla Presidenza e dieci donne ministre, ma perché l’Esecutivo riconosce l’importanza della donna e i suoi diritti nella società», ha detto Dilma Roussef il 10 febbraio. La prima battuta risale al ribaltone con cui Dilma si tolse di torno gli uomini più legati all’eredità di Lula, per imporre alla testa del governo un triumvirato femminile. La seconda, all’insediamento di Eleonora Menicucci.

U

L’inizio del processo fu quando uno scandalo obbligò Antonio Palocci Filho alle dimissioni dal ministro della casa Civile e Dilma Rousseff lo sostituì con Gleisi Hoffman, in quell’incarico che nel sistema brasiliano è una via di mezzo tra un ministro dell’Interno, un primo ministro alla francese e un sottosegretario alla Presi-

denza del Consiglio all’italiana. 47 anni, proveniente da una famiglia tedesca di cattolici osservanti, Gleisi fu chiamata così per un errore dell’impiegato dell’anagrafe, che capì male il nome che volevano darle in onore di Grace Kelly. Studiò dalle suore e dai gesuiti che però le insegnarono la Teologia della Liberazione, e in nome della Teologia della Liberazione pensò a un certo punto di farsi suora.

Entrò poi nel Partito Comunista, come dirigente studentesca. Dopo la laurea in Diritto iniziò a lavorare con vari politici, uno dei quali sposò: l’attuale ministro delle Comunicazioni Paulo Bernardo. Finita in area Pt, il governo Lula la nominò alla testa di Itaipu Binacional, la grande installazione idroelettrica al confine col Paraguay. Eletta senatrice alle ultime elezioni, è infine approdata al secondo posto più importante del sistema di potere brasiliano. Affiancata però da un’altra donna anche alle Relazioni Istituzionali: che sarebbe l’equivalente dei nostri Rap-

L’inizio del processo risale alle dimissioni di Antonio Palocci Filho, sostituito con Gleisi Hoffman in quell’incarico che è una via di mezzo tra un ministro dell’Interno e un premier alla francese

In alto il Carnevale di Rio. Da sinistra a destra: María das Graças Silva Foster, Gleisi Hoffman, Eleonora Menicucci, e Dilma Roussef. Queste quattro donne guidano le politica e l’economia porti col Parlamento, e che è particolarmente importante per assicurare la tenuta di una maggioranza che conta su ben 10 partiti.

Da sinistra a destra: il Partito Comunista del Brasile (Pcdob); lo stesso Partito dei Lavoratori (Pt); il Partito Socialista Brasiliano (Psb); Il Partito Democratico Laburista (Pdt); il Partito del Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb); il Partito della Repubblica (Pr); il Partito Social Cristiano (Psc); il Partito Repubblicano brasiliano (Prb); Il Partito Laburista Cristiano (Ptc); il Partito Popolare (Pp). Sette dei dieci al governo con propri ministri: con l’eccezione di Psc, Prb e Ptc. Il Pctb è appunto nostalgico della falce e martello. Pt, Psb e Pdt sono tutti più o meno socialdemocratici: il Pt creato dai sindacati e dai movimenti sociali; il Psb erede del socialismo storico; il Pdt, che è l’unico riconosciuto dall’Internazionale Socialista, erede di un’ala del movimento di Getúlio Vargas, il Perón brasiliano. Il Pmdb è centrista. Pr, Psc, Prb e Ptc sono tutti più o meno al centro-destra: il Prb vicino a una chiesa pentecostale, il Pr più o meno liberale, Psc e Ptc più o meno dc. Il Pp è di destra: addirittura l’erede del

partito dei sostenitori del regime militare che ci fu tra 1964 e 1985, durante il quale gran parte dei fondatori del Pt finì in galera e la stessa Dilma Rousseff faceva la guerrigliera. Insomma, un compito che davvero era necessaria qualcuna che sapesse quali pesci pigliare. E infatti ci mandò Ideli Salvatti: una professoressa sessantenne, ex dirigente del sindacato degli insegnanti e, appunto, ex-responsabile della Pesca. Tanto per capire i tipi: Dilma la chiamano “la Dama di Ferro”; Gleisi “il Trattore”; Ideli “la Fiera”. Un’oriunda bulgara con una tedesca e un’italiana tutte e tre famose più per la loro aggressiva energia che non per diplomazia. Lula sembra che non gradisse, ma abbozzò. Il ministro della Difesa Nelson Jobim non riuscì invece a stare zitto, e in un’intervista sparò a zero sia contro la Salvatti, “molto debole”; sia contro la Hoffman, “che neanche conosce Brasilia”. Risultato: Dilma l’ha cacciato.

Ma non sono solo la presidentessa e le sue due ministre più fidate a descrivere quello che ormai si presenta come il governo più femminile e femminista del mondo. Fuori dal governo, una donna è infatti appena andata alla guida del-

la società petrolifera di Stato Petrobras, che appena benedetta dalla scoperta degli immensi giacimenti dell’Atlantico del Sud è l’impresa più potente del Brasile. Cresciuta in una favela di Rio de Janeiro dove da ragazzina aveva dovuto girare gli immondezzai a cercare cartoni e lattine per aiutare la famiglia a sopravvivere per pagarsi la scuola, entrata nella Petrobras trent’anni fa con un contratto di praticantato subito dopo essersi laureata in ingegneria chimica, la 58enne María das Graças Silva Foster è conosciuta col soprannome di “Dama di Ferro del Petrolio”: tanto per completare il quartetto con Dama di Ferro, Trattore e Fiera.

Lavora tutti i giorni dalle 7,30 del mattino alle 8 di sera, è il terrore dei dipendenti convocati nel suo ufficio, e dopo essere stata una delle prime donne in Brasile a lavorare su una piattaforma petrolifera dal 2007 è stata direttrice della divisione Gas e Energia, dove ha curato piani di biocombustibile che Dilma aveva promosso come ministro dell’Energia e Miniere. Il Financial Times l’ha classificata tra le 50 donne d’affari più potenti del mondo. Ma non ci sono solo queste


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che per la Donna Iriny Lopes, dimessasi per candidarsi a sindaco, è appena stata sostituita dalla sociologa e femminista Eleonora Menicucci, da cui siamo appunto partiti. Una excompagna di cella di Dilma durante la sua detenzione come guerrigliera, che ha scioccato il Congresso brasiliano rivelando appena insediata di essere bisessuale e di avere abortito due volte. «La mia lotta per i diritti riproduttivi e sessuali della donna, e la mia lotta perché nessuna donna in questo Paese muoia per partorire, non fanno altro che rafforzarmi», ha detto la Menicucci nella sua prima dichiarazione da mini-

Tanto per capire i tipi: Dilma la chiamano “la Dama di Ferro”; Gleisi “il Trattore”; Ideli “la Fiera”. Tutte e tre sono famose più per la loro aggressiva energia che non per la diplomazia strazione di Porto Alegre che fece da fiore all’occhiello del Pt e che generò il Forum Sociale Mondiale, in particolare come autrice della riforma della fiscalità municipale. All’Ambiente c’è la biochimica Izabella Teixeira: indipendente e funzionaria nell’Istituto dello stesso Ministero. Alla Pianificazione c’è la docente universitaria Miriam Belchior: esperta amministrativista e vedova di un sindaco del Pt che fu assassinato in circostanze misteriose nel 2002 e che è considerato uno dei “martiri” del partito.

quattro. Nel governo, si è ricordato, in tutto le donne sono ben 11, su 39 membri del Governo. 29 di questi, compresa Dilma, hanno etichetta di partito: 18 del Pt, 5 del Pmdb, due socialisti, un comunista, un Pdt, un Pp, un Pr.

Ma tra le donne ci sono tre indipendenti e ben 8 del Pt. A parte Dilma, Gleisi e Ideli: alla Cultura c’è l’indipendente Ana

de Hollanda, compositrice e sorella dell’altro noto compositore Chico Buarque de Hollanda, che è stata particolarmente attiva in quella Funarte istituita dal governo fimn dal 1975 come strumento di promozione culturale. Allo Sviluppo Sociale e Lotta alla Fame c’è l’economista Tereza Campello.

Una economista che fu un cervello della famosa ammini-

Alla Comunicazione Sociale c’è la giornalista Helena Chagas: anche le indipendente, già coordinatrice della campagna elettorale di Dilma. Ai Diritti Umani c’è la pedagoga Maria do Rosário Nunes: anche lei in origine comunista, ma passata al Pt nel 1993. All’Eguaglianza Razziale c’è la sociologa afrobrasiliana Luiza Helena de Bairros: in passato attiva nei programmi anti-razzisti del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo. E alle Politi-

stro, nel rispondere alle critiche subito arrivate sia dagli ambienti cattolici che da quelli evangelici. «Siano state catturate, torturate, siamo vissute nella stessa cella», ha poi ricordato della detenzione assieme alla presidentessa. «Abbiamo preso un impegno che ci ha insegnato a affrontare le avversità e a non sfuggire mai dalle situazioni, per quanto difficili siano», ha pure detto, in riferimento alle richieste di dimissioni che gli sono subito piombate addosso da un intergruppo di congressisti evangelici, e anche a quell’eletto del governativo del Pmdb che l’ha tacciata di non vivere in questa epoca ma “in quella di Sodoma e Gomorra”.

Ma va peraltro ricordato come sia una donna anche la grande leader anti-aborto e avversaria della Rousseff, Marina Silva. Classe 1958, laureata in storia dopo essere stata analfabeta fino ai 16 anni, è una figlia di seringueiros: quei poveri raccoglitori di gomma dell’Amazzonia che per difendere gli

alberi da cui ricavavano la loro fonte di sostentamento si trasformarono in una attiva lobby anti-disboscamento alleata degli indios. In particolare con il loro popolare leader Chico Mendes, il cui omicidio proiettò l’attenzione mondiale sui problemi delle foreste pluviali. E di Mendes Marina fu compagna di lotta, prima di diventare nel 1994 senatrice: primo seringueiro a essere eletto al Congresso. Ministro a sua volta di Lula, dal 2003 al 2008 è stata titolare dell’Ambiente, riuscendo a ridurre la deforestazione del 59%. Più volte però si è scontrata con i colleghi, in particolare con Dilma, e con gli ambienti della maggioranza in generale. Ed è stata attaccata anche dalla Chiesa: convertitasi al protestantesimo dopo aver militato fra le comunità cattoliche di base, era stata infatti accusata di avvantaggiare i missionari evangelici in Amazzonia. Fiore all’occhiello del modello Lula, nel maggio del 2008 ruppe con lui, annunciando una candidatura alla Presidenza con i Verdi alle elezioni. La goccia che fece traboccare il vaso fu il progetto della gigantesca diga di Belo Monte, in Amazzonia: già bloccato negli anni ’80 con una famosa mobilitazione di Sting - il quale infatti è tornato a mobilitarsi, assieme a James Cameron, ambientalista dell’ultima ora dopo il successo di Avatar.

Dilma Rousseff come ministro dell’Energia e Miniere era stata la principale regista dell’Operazione Belo Monte, e il 19,9% che Marina Silva prese al primo turno, costringendo Dilma al ballottaggio, ha avuto un eloquente significato di protesta ecologista.Ma molti hanno visto in lei anche una “candidata per la vita”, in contrapposizione alle posizioni considerate abortiste e pro-matrimonio gay di Rousseff. Insomma, in Brasile le donne guidano il governo, e smuovono anche l’opposizione.


ULTIMAPAGINA Arrestate nove persone nell’ambito di un’inchiesta sulle scommesse clandestine. Nel mirino lo Shanghai Shenhua

Cina, anche il calcio diventa

di Vincenzo Faccioli Pintozzi o scandalo delle partite di calcio pilotate arriva anche in Cina: le autorità hanno arrestato 9 persone, fra cui l’arbitro più famoso del Paese, con l’accusa di aver manipolato i risultati di diverse gare per un giro di scommesse truccate. Lu Jun, noto anche come “fischietto d’oro”, è stato condannato a 5 anni e mezzo di galera dopo aver ammesso di essere stato corrotto. Diverse indagini sono ancora in corso. La corte della città di Dandong ha scoperto che nel giro erano incluse almeno 4 società: tra queste anche la Shanghai Shenhua, che ha appena ingaggiato il famoso calciatore francese Nicolas Anelka. Il club ha speso più di 1 milione di dollari per “comprarsi”i risultati: a Lu Jun sono andati circa 128mila dollari per almeno 7 partite di campionato. Il calcio cinese ingaggia grandi campioni come Nicolas Anelka, da poco nell’organico proprio della Shanghai Shenhua, ma deve fare i conti con scandali e arresti. In galera anche Lu Feng, ex direttore della società che organizza la Super League cinese e che è stato condannato a sei anni e sei mesi di reclusione per tangenti. Dure condanne anche per quattro ex arbitri: sette anni per Huang Junjie, sei anni per Wan Daxue, cinque anni e sei mesi per Lu Jun, tre anni e sei mesi per Zhou Weixin. Condanne anche per due ex dirigenti della Super League cinese.

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L’arbitro Lu è stato il primo di nazionalità cinese a gestire una partita della Coppa del Mondo: nell’edizione del 2002, ospitata da Corea e Giappone, ha fatto il suo ingresso nel circuito Fifa. Per due volte è stato anche nominato come “Arbitro dell’anno”dalla Confederazione calcistica dell’Asia. Gli altri 8 inquisiti sono stati condannati a pene fino a 7 anni di reclusione. Il calcio in Cina sta cercando di affermarsi: alla popolazione piace ma, non essendo uno sport tradizionale, c’è voluto del tempo per mettere in piedi un campionato degno di questo nome. Nell’ultimo decennio, le autorità hanno investito molto nel settore e hanno spinto le società private a ingaggiare i grandi calciatori

CORROTTO teste. Secondo Sun Liping dell’università Qinghua, nel 2010 sono arrivati a 180mila, quasi il triplo rispetto a tre anni prima. Le rivolte potrebbero portare a scontri, oppure a un cambiamento di politica – magari a un ritorno maoista – che penalizzerebbe chi si è arricchito godendo dei privilegi all’interno del Partito, divenendo oggetto dell’ira della popolazione. Dato che molto spesso questi patrimoni sono pagati con il sangue e lo sfruttamento dei lavoratori inermi.

I super-ricchi cinesi cercano in ogni modo di emigrare all’estero: i loro capitali sono almeno per metà frutto di corruzione ed estorsione. Lo sport è solo la punta dell’iceberg occidentali (spesso all’ultima fase della carriera). Nel 2009, il governo centrale ha lanciato una campagna tesa a ”ripulire” il settore - già da allora sospettato di corruzione - e ha arrestato decine di giocatori, allenatori e dirigenti. Ma secondo l’agenzia di stampa del regime, la Xinhua, «il processo ai due pesci grossi della Federazione deve ancora iniziare».

In ogni caso, l’ondata della corruzione sta seppellendo la Cina. Quasi la metà dei milionari cinesi sta pensando di emigrare all’estero, preoccupati per la situazione politica, le tensioni sociali e l’inquinamento; il 14% lo ha già fatto o sta preparando le carte per andarsene. Fra le mete più gettonate vi sono Usa, Canada, Singapore e Australia. Il motivo primario che li spinge ad emigrare è l’insicurezza sociale del Paese. Negli ultimi anni sono cresciuti i cosiddetti “incidenti di massa”: scioperi, rivolte, pro-

Vi è anche un’insicurezza legale: i tribunali in Cina e le accuse di corruzione o di illegalità si muovono secondo la politica del Partito e delle sue correnti e vi è sempre il rischio di trovarsi dalla parte sbagliata. D’altra parte, molti di questi milionari hanno spesso accumulato ricchezze attraverso metodi corrotti. Da anni il Partito chiede ai membri (e ai loro familiari) di dichiarare in modo esplicito tutte le fonti di guadagno e le proprietà, ma non è riuscito ad ottenere nulla. Emigrare all’estero è il modo migliore per mantenere al sicuro le ricchezze, sottraendole da possibili controlli. Ma proprio questo aspetto sta creando problemi nei Paesi di trasferimento. Almeno un terzo degli interrogati dall’inchiesta, dichiara di aver scelto lo schema “migrazione per investimento”. In esso, si offre la residenza a chi può investire un considerevole capitale nel Paese di destinazione. Negli Usa, ad esempio, in questo anno almeno 3mila ricchi cinesi hanno domandato questo tipo di visto. Nel 2007 erano solo 270. Ma proprio gli Usa e altri Paesi domandano documentazione precisa sulle ricchezze possedute e spesso i super-ricchi cinesi non possono presentarla, data l’ambigua provenienza. La situazione sembra comunque peggiorare: il “sommerso”in Cina raggiunge il 20 per cento del Pil, e il calcio può essere soltanto la punta di un iceberg diretto dritto verso il Dragone dell’Asia.


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