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In un’epoca di pazzia, credersi immuni dalla pazzia è una forma di pazzia Saul Bellow

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QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 22 GIUGNO 2011

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’esecutivo incassa la fiducia alla Camera. Scontro Cicchitto-Fini sull’ordine del giorno per i ministeri

Berlusconi fa lo gnorri Ma Bossi e Calderoli aprono alla riforma della legge elettorale Il premier dice: «La crisi di governo sarebbe una sciagura» (ma ignora che il suo è da tempo a pezzi) Propone tre aliquote (ma lo dice da 17 anni). Strizza l’occhio ai moderati (ma li ha cacciati tutti) I RICATTI LEGA-PDL

di Errico Novi

Tirare a campare danneggia il nostro Paese

sistere. Berlusconi non pronuncia letteralmente l’invocazione, ma in pratica ne fa la sua bandiera. Si arrocca dietro l’affermazione secondo cui «una crisi di governo sarebbe una sciagura», senza ammettere che il suo esecutivo è già in gravissima crisi. Naturalmente si affanna ad affermare il contrario. Eppure l’intervento con cui adempie davanti al Senato alla verifica è desolante. a pagina 2

di Rocco Buttiglione n Parlamento Berlusconi i voti li ha e lo ha dimostrato ancora una volta. Una volta registrato l’ ennesimo penultimatum di Bossi dubbi sull’esito del voto non ce ne erano e infatti tutto è andato liscio come l’olio. Il problema dunque non è la quantità del consenso parlamentare. Il problema, per questa maggioranza, è la qualità del consenso. Certo non è (più) un consenso entusiasta. È il consenso di chi ha paura delle elezioni, perchè sa che le perderebbe, ma non vede nessuna strategia di governo capace di fargli recuperare il consenso del Paese. È questo in effetti ciò che manca. La Lega fa finta di credere che Berlusconi diminuirà le tasse e farà anche tante altre bellissime cose. a pagina 7

Il convegno di Roma

ROMA. Resistere, resistere, re-

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L’allarme lanciato dal Censis

Cronaca di una farsa annunciata

Il futuro? Oramai è solo un Gratta&Vinci

La montagna di Pontida partorì un topolino

Le condizioni dell’economia italiana sono sempre più fragili: la disoccupazione e le pensioni arrivano a livelli record

Gli “uffici di rappresentanza” ottenuti per il Nord dalla Lega sono costosi, inutili e frutto di un braccio di ferro senza senso

Francesco Lo Dico • pagina 6

Giancristiano Desiderio • pagina 3

Come eleggere la Terza Repubblica di Osvaldo Baldacci iforme, la parola magica che ci accompagna da anni. Riforme che tutti invocano e nessuno fa. Che sono per l’ennesima volta la parola chiave della propaganda per il rilancio dell’attuale governo ridotto ai minimi termini. Tutti dicono che bisogna fare le riforme, ma pochi dicono come. La crisi economica con il dramma della disoccupazione, il mondo che cambia mentre l’Italia perde competitività, il sistema Italia che non funziona, la politica che ha sempre meno capacità di rappresentanza.

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Un’analisi del più grande dissidente cinese

La Palestina si prepara al voto di settembre

Un rapporto sul destino del “bere pubblico”

A Pechino va in scena il suicidio del Partito

Fatah e Hamas, il governo impossibile

Cosa succederà all’acqua italiana

di Wei Jingsheng

di Antonio Picasso

di Gianfranco Polillo

egli ultimi tempi abbiamo iniziato a essere molto preoccupati per due casi molto importanti. Il primo è la sparizione dell’artista Ai Weiwei, il secondo è il caso dell’avvocato Li Zhuang di Chongqing. Questi due casi sembrano avere molto poco in comune: invece hanno un collegamento diretto e interno. Questo collegamento va cercato nel ritorno della politica del Partito comunista cinese “a sinistra”.

ià il fatto che l’incontro tra Fatah e Hamas sia saltato dovrebbe far riflettere. Era previsto per ieri pomeriggio al Cairo, un nuovo confronto diretto tra le due fazioni più forti del mondo politico palestinese, con l’idea di iniziare a costruire un cammino di riconciliazione politica e quindi di governo comune. Tuttavia, in mattinata è giunta l’improvvisa cancellazione dell’appuntamento. Per un’intervista di troppo.

ensavamo di andare a votare per l’acqua e invece il quesito numero 1 del referendum del 12 e 13 giugno scorsi si riferiva a tutt’altra cosa: è questo il paradosso dell’ultima tornata elettorale. Colpa di una cattiva comunicazione che ha disorientato l’elettore e prodotto danni ai quali sarà difficile porre rimedio. Ma questo è anche il limite di un uso improprio dell’istituto referendario.

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I QUADERNI)

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• ANNO XVI •

NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la crisi politica

pagina 2 • 22 giugno 2011

Il premier a palazzo Madama per la verifica chiesta dal Colle, il Senatùr e Tremonti disertano il suo intervento. Oggi discorso alla Camera

Il catenaccio del Cavaliere «La crisi di governo sarebbe una sciagura», dice al Senato. «Avanti fino al 2013». Promette «aliquote più basse» ma non convince Bossi di Errico Novi

ROMA. Resistere, resistere, resistere. Berlusconi non pronuncia letteralmente l’invocazione, ma in pratica ne fa la sua bandiera. Si arrocca dietro l’affermazione secondo cui «una crisi di governo sarebbe una sciagura», senza ammettere che il suo esecutivo è già in gravissima crisi. Naturalmente si affanna ad affermare il contrario. Eppure l’intervento con cui adempie davanti al Senato alla verifica chiesta dal Quirinale (oggi sarà alla Camera) viene pronunciato in mezzo a una scenografia desolante: i due ministri che non sono presenti lì ad ascoltarlo sono i suoi due interlocutori decisivi, Bossi e

UMBERTO

Tremonti. Il Cavaliere rivolge a un Senatùr assente il suo consueto e politicamente vano appello all’indissolubile amicizia. Al ministro dell’Economia riserva la parte finale del discorso, quella in cui parla della riforma fiscale. Smentisce che attorno a quel totem sia in corso un nervoso balletto, assicura che è tutto condiviso e che nessun intervento sulle tasse sarà fatto in deficit. Poi però si lascia scappare un’anticipazione, «le aliquote passeranno a 3, dalle attuali 5». E la condisce con un azzardo quando aggiunge che quelle aliquote saBOSSI ranno «più basse».

«Nuova legge elettorale? Si può ragionare con l’opposizione. Sui ministeri non cediamo»

Se non altro il premier adotta un profilo basso, più sobrio rispetto ad altre apparizioni in Parlamento. Rivolge appelli all’opposizione affinché dia «un contributo», perché «lavorare insieme

GIANFRANCO FINI

Segnali ambigui ar- Una scena poco rassicurante, rivano dalla prima considerato che in nottata un parte della giornata vertice a Palazzo Grazioli aveparlamentare. In mat- va sancito l’intesa sulla quetinata la Camera vota stione. Accordo sintetizzato a la fiducia sul decreto sua volta in un ordine del giorsviluppo con 317 favo- no che poi però Cicchitto chierevoli e 293 contrari. de di non mettere ai voti. Fini, Score sufficiente a che in quel momento presiede spingere il segretario l’aula, parla di «furberia tattidel Pdl Angelino Alfa- ca». Il capogruppo pdl risponno a parlare di «mag- de piccato, i leghisti per protegioranza assoluta e sta escono di nuovo dall’aula. più robusta» e di buon Di fatto il testo che apriva alla viatico per la doppia dislocazione di «uffici di rapverifica parlamentare. presentanza operativi», bizMa è sempre l’aula di zarro ossimoro, resta a gallegMontecitorio, proprio nei mi- giare nel vuoto. nuti in cui il premier tiene la sua arringa a Palazzo Mada- Si consuma il solito scambio ma, a certificare gli affanni di dichiarazioni tra Alemanno dell’esecutivo: il Pd presenta un FABRIZIO CICCHITTO ordine del giorno contro «qualsiasi ipotesi» di delocalizzazione dei ministeri, e il governo dà parere favorevole, giusto per non uscire sconfitto. Il documento infatti passa con l’astensione del Pdl e l’uscita dall’emiciclo dei depadani. putati

«La richiesta del Pdl di non mettere ai voti l’ordine del giorno sui ministeri è una furberia» vuol dire rispondere positivamente al capo dello Stato che richiama all’unità in nome degli interessi del Paese». Pare riassumere i panni del Berlusconi di inizio legislatura, quello che spalancava le porte a Veltroni, quando dice che l’unità, appunto, «è un obiettivo di grande importanza in tempo di crisi, il modo più efficace per contrastarla». Rafforza infine il concetto con l’inaspettato e stentoreo «viva l’Italia» che chiude l’intervento. Ma è difficile scorgere qualcosa di più di una strategia difensiva. Di un disperato tentativo di guadagnar tempo e galleggiare nel mare agitato della sua maggioranza.

«Non capisco la polemica di Fini, che dimentica il suo ruolo e scende in campo»


Il paradosso del premier nel giudizio sulla crisi

Dalle teorie federaliste di Miglio alla caccia alla poltrona

Il sogno padano Sì, non avere un oggi è “un posto” governo è proprio una sciagura al ministero di Riccardo Paradisi

di Giancristiano Desiderio

erto che a riflettere sulla parabola della Lega, sul suo esito così prosaico, così grigio ministeriale, viene un po’di malinconia. Quanti allarmi, quante preoccupazioni ma anche quanti entusiasmi e speranze si sarebbero risparmiati nemici e amici del Carroccio se avessero saputo che la montagna d’intenti rivoluzionari agitata da Bossi – che a seconda dell’uditorio suonavano come speranze o minacce – avrebbe partorito il topolino della richiesta d’una manciata di ministeri per il nord.

l presidente del Consiglio è andato a Palazzo Madama e ha pronunciato un discorso di difesa. Legittimo. Inevitabile. Che altro avrebbe potuto fare? Tuttavia, la difesa di Berlusconi da parte di Berlusconi inizia e finisce qui. In particolare, ciò che è sbagliato è l’idea che tutto va bene e il male lo vede solo l’opposizione. Il capo del governo dice che ora la crisi del governo sarebbe una sciagura. Ma il problema del governo non è come entrare nella crisi: è come uscirne. La crisi non è domani, è oggi. Il governo è in crisi non perché non ha più i numeri, ma perché non sa cosa farne. E appena accenna a voler far qualcosa i numeri diventano incerti e politicamente inafferrabili. Anche sulla riforma fiscale annunciata, ancora una volta, per essere messa in pista prima della pausa estiva.Verrà il generale Agosto è metterà le cose a posto. Ancora una volta.

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Una richiesta che magari è eccessivo definire accattonaggio come ha fatto il segretario del Pd Bersani ma che comunque svela molto più di tante inchieste giornalistiche e saggi politologici come sia diventata romana questa Lega che in realtà vuole esportare un po’ di software capitolino su a Milano. Una battaglia quella che s’appresta a fare la Lega a cui regala qualche energia solo il contrapporsi gladiatorio del duo AlemannoPolverini passati dal patto della pajata coi leghisti alla guerra sulle petizioni popolari e pronti di nuovo a scatenare le truppe cammellate dell’orgoglio romano. Tra le quali si distingue per attivismo quel Popolo di Roma che da qualche anno tappezza la capitale di manifesti con slogan tonitruanti e il cui capo in testa, tale Giuliano Castellino, così s’esprimeva appena un anno fa in occasione d’uno dei tanti scontri a distanza col nemico padano: «Da porci vivevano i barbari del Nord prima dell’avvento di Roma». Per dire della civilizzazione di Roma rispetto all’arretratezza del nord era stato anni prima, più elegante e autoironico anni prima Giuseppe Ciarrapico: «Quando voi stavate sugli alberi noi eravamo già froci». A dimostrazione che dall’epica padana la lega è scivolata dritta dritta nella commedia all’italiana, quella dei derby Roma-Milano, di Massimo Boldi e Christian de Sica. È una storia molto italiana del resto quella leghista, è la storia d’un movimento che nasce incendiario a Milano e nelle valli del Nord e che diventa pompiere a Roma, lasciando con l’amaro in bocca i boccia della prima ora, quelli di “Roma ladrona”e “Padania libera”. Quelli che la Padania chiama ancora ”barbari sognanti” e che alla rivoluzione federale ci credevano come i vecchi compagni al sol dell’avvenire. La Lega del resto è un movimento politico che ha continuato a crescere negli anni in estensione e altezza: ha prodotto classi dirigenti, leader nazionali, un linguaggio politico, s’è conquistata un posto di rilievo nella politica nazionale, governa due grandi regioni italiane e ha messo radici in almeno tre regioni del centroItalia. E lo ha fatto tenendosi in equilibrio tra la lotta e il governo, un equilibrio difficile, alla lunga usurante. La normalizzazione è così arrivata progressiva e inesorabile come la maturità che segue all’adolescenza e la richiesta di ministeri al nord ne è in qualche modo il sigillo.

Il costo per i quattro ministeri da portare al nord, di cui due a Monza, è stato stimato intorno a 1,8 miliardi l’anno. Un’operazione a perdere

Una richiesta che peraltro non sarebbe nemmeno così oscena se fosse formulata chiarendo funzioni, spettanze e coperture finanziarie d’un operazione che detta così sembra solo una bizzarria, o il contentino simbolico con cui rifocillare una base delusa e fremente. Una bizzarria anche per i costi. Per i quattro ministeri indicati da Bossi di cui due a Monza si spenderebbero infatti secondo uno studio di settore circa 1,8 miliardi l’anno a cui vanno aggiunte le spese per far seguire a chi deve le riunioni di Consigli dei ministri e i lavori parlamentari, 15 mila euro a settimana per tre funzionari e un direttore generale più il costo di un ufficio per far lavorare la missione a Roma.

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L’alleanza tra il partito del capo del governo e il partito del capo della Lega è indicato dal premier come l’unico che sia in grado di governare il Paese. Ma qui siamo al detto dell’acquaiolo che altro non può dire che l’acqua è fresca. In realtà, l’acqua è stantia, ferma e soprattutto poca. Berlusconi lo sa meglio di chiunque altro dal momento che proprio nel suo discorso si è voluto auto-rassicurare dicendo a se stesso che Bossi e la Lega non tireranno i remi in barca. Al contempo, citando le riforme ha voluto aprire a un “consenso allargato” rivolgendo il suo pensiero e la sua disponibilità al centro moderato. Perché? Perché non è vero che l’alleanza tra il Pdl e la Lega è l’unica in grado di governare il Paese. La storia del suo governo sta qui davanti a noi a dimostrare il contrario: è la storia del progressivo esaurimento delle funzioni di governo dell’alleanza tra Berlusconi e Bossi. Si sta chiudendo un capitolo e, come accade in questi casi, i protagonisti si confidano amore eterno proprio quando la storia volge al termine e stanno per voltare pagina. Come andrà a finire? La verifica parlamentare, voluta giustamente dal Presidente della Repubblica dopo i risultati del voto amministrativo e dei referendum, vedrà sorridere i numeri della maggioranza. Ma, per lo strano sistema politicoistituzionale messo in piedi in due decenni di Seconda repubblica, i numeri non verranno per superare la crisi politica del governo: semplicemente serviranno per congelarla. La stabilità non è virtuosa, ma inoperosa. Il governo regge ma è fermo ed è fermo proprio perché si regge. Appena si muove viene giù. Governo e maggioranza si tengono su come i classici pugili suonati che non hanno più la forza per darsele ma solo di non darsele per la paura di farsi troppo male.

Il problema del governo non è come entrare nella crisi: è come uscirne. La crisi economica non è domani ma oggi

Ma un governo che dice di voler governare ma non governa e una maggioranza che dice di voler ripartire ma è ferma non servono a un Paese che ha tenuto sui mercati soprattutto perché gli italiani sono, a conti fatti, più formiche che cicale. Se guardiamo le cose fino in fondo ci rendiamo conto che è l’Italia a reggere il governo e non è il governo a reggere o guidare l’Italia. Giulio Tremonti, gli va dato atto, ha dimostrato di saper gestire il patrimonio di risparmi e risorse che gli italiani - imprese medie e piccole, artigiani, commercianti, borghesia di Stato e famiglie - hanno accumulato nel tempo non senza sacrifici. Persino parlare di una riforma fiscale non in deficit è possibile proprio grazie a questa struttura reale di fondo del risparmio italiano.Tuttavia, il governo è ancora fermo alle intenzioni e ai “si dice”e ai “faremo”e ai “il governo sta lavorando”. Ciò che ha detto ancora una volta ieri Berlusconi.

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e Polverini da una parte e Bossi dall’altra. Il capo lumbàrd sentenzia che «sui ministeri non c’è alcun passo indietro». Vero solo in parte. Più preoccupanti per Berlusconi sono altri del Senatùr: sulla legge elettorale («con l’opposizione si può ragionare», e Calderoli subito s’associa), un’altra ambivalente sulla Libia («la guerra finisce quando finiscono i soldi») e una terza sulla ricandidatura di Berlusconi nel 2013: possibile se l’amico Silvio «fa quello che gli diciamo di fare». E lui, Berlusconi appunto, come replica? Assicurando che «è nostra ferma intenzione completare il programma di governo fino alla scadenza naturale del 2013». Più l’annuncio di una difesa a oltranza che di un’iniziativa politica forte. D’altronde, continua il premier, «le richieste di dimissioni sono mera propaganda». Lui è lì davanti ai senatori solo per «l’appello del capo dello Stato alla responsabilità». Peraltro, aggiunge, pur con l’ingresso dei nuovi sottosegretari, l’esecutivo resta «uno dei meno numerosi nella storia della Repubblica». Catenaccio anche di fronte alle perplessità del Colle, dunque. Non a caso, quando definisce «irresponsabile» aprire una crisi in questo momento, Berlusconi precisa che «questo lo sanno anche le più alte cariche del Paese».

Prima l’elenco delle cose fatte, quindi la promessa di intervenire su «architettura istituzionale, sicurezza, immigrazione e giustizia», oltre che sul fisco. C’è l’ennesimo annuncio di un «piano per il Sud», che transiterà con cadenza mensile al tavolo del Cipe. Alla Lega viene sì riservata la mozione degli affetti, ma poca sostanza sul resto. Un vago accenno al fatto che la stessa Onu prevede di concludere le operazioni in Libia «a settembre», come vorrebbe il Carroccio. Forse il solo passaggio che incrocia davvero le attese di Bossi è quello sulla «contrazione» delle missioni umanitarie, da sottoporre al Consiglio supremo di difesa. Dove però c’è un Napolitano che non intende venir meno agli impegni. Così, al netto di proclami assai meno roboanti del solito, resta solo quella frase sul suo futuro, «non intendo restare per sempre a Palazzo Chigi né fare il leader del centrodestra per tutta la vita». Berlusconi dice che la sua aspirazione, casomai, è di lasciare in eredità «un unico grande partito dei moderati aperto a tutte le forze del popolarismo europeo». Anche all’Udc, dunque, che «preferisce giocare di rimessa». Ma pare l’auspicio di un leader stanco e ambizioso, appunto, solo di resistere.


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la crisi politica

Il ministro della Semplificazione e i due ex presidenti della Camera d’accordo sul dialogo tra maggioranza e opposizione

Come eleggere la Terza Repubblica Sì allo sbarramento, via premio di maggioranza e liste bloccate. Dal confronto a Roma tra Casini, Calderoli e Violante arrivano proposte concrete per una seria riforma elettorale. Alla quale ieri ha aperto anche Bossi di Francesco Lo Dico iforme, la parola magica che ci accompagna da anni. Riforme che tutti invocano e nessuno fa. Riforme che sono di nuovo per l’ennesima volta la parola chiave della propaganda per il rilancio dell’attuale governo ridotto ai minimi termini e anche per una Lega in crisi di identità. Riforme, parola magica ma poca sostanza. Perché tutti dicono che bisogna farle, ma pochi dicono cosa bisogna fare. La crisi economica con il dramma dell’occupazione che manca, il mondo che cambia mentre il nostro Paese perde competitività, il sistema Italia che non funziona, la politica che ha sempre meno capacità di rappresentanza. I motivi per delle riforme serie ci sono tutti. Riforme davvero capaci di trasformare il nostro Paese e di dare risposte di modernizzazione che restituiscano all’Italia il ruolo che merita, le ridiano prospettive di crescita e di sviluppo, capacità di crescere e di essere protagonista nel mondo. Riforme che restituiscano

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alla politica il suo ruolo doveroso di rappresentare il Paese, e anche di guidarlo e di lavorare per creare le condizioni perché i cittadini possano dare il meglio per sé e per il Paese. Riforme che devono includere anche la ristrutturazione dell’architettura istituzionale, a partire dalla legge elettorale e del referendum: se da una parte è cresciuta a disaffezione dalla politica ma al contempo con i referendum si è manifestato un grande desiderio di partecipazione, ebbene allora bisogna dare risposte. Ma anche su questo c’è molta confusione, tante chiacchiere, molti che provano ad arrogarsi la rappresentanza del presunto “popolo dei referendum”, ma poi nessuno è davvero in grado di dare risposte. Non a caso il tema delle riforme è stato il leit motiv e la promessa più forte del discorso di Berlusconi ieri al Senato: prima dell’estate riforma dell’architettura istituzionale e riforma fiscale, da aggiungere all’epocale riforma della giustizia (già, che fine a fatto?). Un pro-

gramma entusiasmante, se non fosse lo stesso mai svolto iln 17 anni, figuriamoci cosa può succedere in 30 giorni...

A parlare seriamente di riforme ci hanno invece provato ieri con concretezza Casini e Mantini a un incontro stampa con Calderoli e Violante. Alla Camera è stato presentato il libro di Pierluigi Mantini, deputato Udc, Riforme istituzionali per la Terza Repubblica, pubblicato dalla rivista Formiche. L’incontro, moderato dal cura-

Il leader Udc: «Bisogna presto restituire rappresentanza ai cittadini»

tore della rivista Paolo Messa, rappresenta anche un tentativo di dialogo tra realtà che restano distinte e distanti ma che possono prescindere dal berlusconismo per provare a tornare a una dinamica di collaborazione e concorrenza fra le forze politiche di maggioranza e di opposizione. Soprattutto sulle riforme, che senza questo clima di dialogo sono impossibili. Punto su cui si sono trovati d’accordo il Ministro per la semplificazione normativa e i due ex presidenti della Camera

è proprio la necessità di modificare la legge elettorale. Per Casini questo è da mettere al primo punto dell’agenda, perché serve a far funzionare il sistema e a restituire rappresentanza ai cittadini. Per Calderoli «riformare la legge elettorale è un obbligo e andrebbe approvata da un’ampia maggioranza». Sulle regole del gioco, ha aggiunto l’autore del Porcellum, non si possono fare forzature: «Io per primo devo ammetterlo. Se nel 2001 avessi ascoltato le raccomandazioni degli esponenti dell’opposizione, la riforma della seconda parte della Costituzione presentata dal centrodestra, poi bocciata dal referendum, forse non avrebbe avuto la sorte che ha subito e sarebbe diventata operativa». Poi però nel concreto c’è una grande differenza tra le proposte preferite da ciascuno, anche all’interno di ogni partito. Il primo step, quindi, è circoscrivere il meccanismo sul quale lavorare. Calderoli non ha difficoltà a togliere la lista bloccata: «Nessuno la vuo-


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Le riflessioni dell’Unione di Centro possono essere il punto di partenza di questa nuova svolta

Ora non sprechiamo lo spirito dei referendum

Bisogna superare l’inerzia delle istituzioni e tornare a parlare della selezione della classe politica in modo serio e bipartisan di Pierluigi Mantini* on i referendum hanno vinto (di nuovo in poche settimane) la voglia di cambiamento, facebook e i social network, i “beni comuni” contro gli abusi del liberismo e delle leggi impunitarie. Il desiderio di partecipazione dal basso è vitale, necessario, positivo, ma l’abrogazione conservatrice da sola non basta, occorre l’innovazione di governo. Per questo la politica non può sottrarsi alle sue responsabilità ed occorre riprendere il cammino delle riforme, in tutti i campi, anche in quello delle istituzioni.

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Istituzioni più moderne ed efficienti, minori costi, una nuova legge elettorale in grado di consentire la formazione di un governo autorevole, perché basato su un ampio consenso, sono le condizioni per condurre l’Italia verso l’impegnativo traguardo di “Europa 2020”attraverso sfide difficili. I fatti corrono veloci, la politica appare spesso lenta, impotente. Occorre cambiare l’agenda delle priorità e l’Italia deve riprendere il cammino delle riforme, anche istituzionali, su cui ci si attarda da oltre un decennio. “Veni Spiritus Creator”: l’invocazione di Benedetto Croce sui lavori dell’Assemblea Costituente fu generosamente accolta nei lavori che portarono alla Carta Costituzionale del 1948.Non altrettanto può dirsi dei tentativi di grandi riforme costituzionali dell’ultimo trentennio, dal cosiddetto “decalogo Spadolini” (1982), dal Comitato Riz-Bonifacio (VIII legislatura), dalla Commissione Bozzi (IX legislatura), dalla Commissione De Mita-Iotti (XI legislatura), dal Comitato Speroni (1994), dalla Commissione D’Alema (XIII legislatura) fino al disegno di legge della cosiddetta “devolution”, approvato dalle Camere nel 2005 e respinto dal corpo elettorale nel referendum confermativo. Solo la riforma del titolo quinto nel 2001, confermata dal referendum, è andata in porto, sebbene figlia di un’improvvisa accelerazione della decisione politica, che ne ha depotenziato la qualità, e di un voto parlamentare di stretta maggioranza.Le ragioni di questi “fallimenti” sono molteplici, connesse a diverse stagioni politiche, e variamente analizzate. Ora occorre una nuova agenda “epocale” ossia della nuova fase politica che l’Italia ha dinanzi a sé. Molto diversa dalle ossessioni di Berlusconi, un’agenda per la Terza Repubblica. Su questi complessi temi abbiamo presentato proposte di legge impegnative, frutto di un accurato dibattito nei mondi universitari, nelle

fondazioni, nelle aule parlamentari. Proposte e soluzioni, non solo analisi, ispirate al modello che potremmo definire “italo-tedesco”. La prima affronta il tema del superamento del bicameralismo paritario e dell’istituzione del Senato federale o delle Autonomie, con un modello che riprende la cosiddetta “bozza Violante”, su cui si manifestò ampio consenso nella XV legislatura, con alcune motivate diversità (approvazione dei “principi fondamentali” da parte della

Dal premier non ci si può aspettare più nulla. Ma con Lega e Pd si può ancora dialogare

Camera e non dello stesso Senato delle Regioni; introduzione del principio di interesse nazionale; ridefinizione di alcune competenze legislative del Titolo quinto). Ne consegue la riduzione del numero dei parlamentari. Ma il testo propone anche un equilibrio più avanzato tra governo e Parlamento, ad esempio con il potere diretto di nomina e revoca dei ministri da parte del premier e la “corsia privilegiata” per l’esame dei disegni del governo e, ex adverso, lo strumento della “sfiducia costruttiva” nelle mani del Parlamento. Ed ancora la riduzione delle Province inferiori ai 500mila abitanti, la rivisitazione del quorum per i referendum, un nuovo equilibrio del Csm (con la nomina di 1/3 dei componenti da parte del Capo dello Stato). La seconda proposta di revisione costituzionale riguarda gli artt. 41, 97 e 118 Cost. con un intento dichiaratamente dialettico rispetto al disegno del governo, proponendo costruttivamente la nostra concezione delle libertà economiche, della semplificazione amministrativa, della sussidiarietà orizzontale. Si tratta di temi di grande rilievo su cui è in realtà sufficiente agire con legislazione ordinaria, con un’azione orientata allo sviluppo del Paese. Sulla riforma elettorale abbiamo proposto il modello tedesco (50% collegi, 50% proporzionale) con sbarramento al 5%) ma anche due modifiche al Porcellum: eliminazione del premio di maggioranza, introduzione di due preferenze, con alternanza di genere.Vedremo.

Nel frattempo, per vincere l’inerzia, sosteniamo il referendum elettorale che agisce su limitati punti. Abroga l’assurdo premio di maggioranza che consente, a coalizioni che non superano il 40% dei voti, di ottenere seggi pari al 55%. Porta la soglia di sbarramento al 4% (anziché al 2% in coalizione) frenando la frammentazione e i ricatti delle liste minori. Cancella l’obbligo di indicare il premier, che confligge con il ruolo del Capo dello Stato e, se questo supererà il vaglio della Cassazione, reintroduce una preferenza. Il referendum abrogativo, si sa, è uno strumento imperfetto. Noi la riforma vogliamo farla in parlamento con la più alta intesa. Ma il rischio dell’inerzia c’è e i cittadini vogliono esprimersi. Da Berlusconi non ci aspettiamo nulla. Ma da Calderoli e Bersani attendiamo risposte nell’interesse del Paese, per l’oggi e per il domani. * Responsabile Riforme Istituzionali UDC

le ma vi assicuro che ai segretari di partito non dispiace. Non lo dicono apertamente ma quando parlano con me...». Per Calderoli comunque il tempo per le riforme non manca: «Due o tre mesi per fare la riforma elettorale sono più che sufficienti per andare a votare nel 2013 con un sistema nuovo». «Le parole di Bossi e Calderoli sono una buona partenza. Maggioranza e opposizione - ha osservato Casini - devono trovare un punto di incontro. Sul meccanismo si può discutere ma la priorità è cancellare la lista bloccata. Non è possibile che 5 segretari di partito decidono chi deve essere eletto e, in pratica, chi saranno i mille senatori e deputati che andranno in Parlamento».

Secondo il leader Udc, la riforma dovrebbe prevedere lo sbarramento ma non il premio di maggioranza (e comunque non entrambi insieme), un meccanismo che impedisce la formazione di gruppi parlamentari che non si siano presentati alle elezioni e l’istituto della sfiducia costruttiva. Il più prudente è Violante (forse anche perché il Pd ha presentato un’ampia serie di proposte contraddittorie). Sulle riforme istituzionali, Violante consiglia di procedere «secondo il principio del minimo indispensabile, anziché sul massimo risultato possibile». Piccoli passi per operare dei cambiamenti «secondo Costituzione e non contro la Costituzione». Allo stesso tempo vola alto: la funzione del Parlamento andrà totalmente ripensata. Pessimista sui tempi, Violante sostiene che l’opposizione dovrebbe raccordarsi prima di confrontarsi col governo: forse pensava più che altro al Pd. Conclusioni all’autore del volume, Mantini, che ha ricordato come il suo libro sia un compendio di temi e soluzioni che, nel corso degli anni e delle legislature, hanno registrato maggior consenso. La priorità per il deputato Udc è riformare la legge elettorale, «riducendo o cancellando l’abnorme premio di maggioranza che si configura come un vero e proprio elemento distorsivo del voto, una ‘dittatura della minoranza». Ma il suo volume non è solo sulla legge elettorale, affronta anche altri temi. Come il superamento del bipolarismo perfetto italiano, con l’ipotesi di un Senato federale, o quello del referendum, istituto che nonostante i recenti fasti così come è non sembra davvero utile all’Italia, mentre - sostiene Casini - sarebbe molto più utile alzare il numero delle firme dei presentanti e magari abbassare il quorum. C’è molto da fare, per rendere vera quella parola “riforma”. Ma c’è bisogno di chi si rimbocca le maniche, non di prestigiatori preoccupati di continuare l’accanimento terapeutico su questo governo.


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la crisi politica

Il Censis parla di un Paese appiattito nel presente, l’Inps denuncia pensioni magrissime (ma sempre più gravose per il Pil), e Moody’s rincara la dose

Il futuro? Gratta e vinci

Ci si sposa sempre più tardi, pochi trovano lavoro e uno su due ha una pensione inadeguata. Le agenzie di rating sono sempre più scettiche: l’Italia è al collasso di Francesco Lo Dico rima l’allarme pensioni lanciato dall’Istat, poi Moody’s che ci rimanda a settembre e last but not least, il rapporto Censis che descrive gli italiani come insetti intrappolati in un eterno presente perché non hanno una lira per pensare al futuro.

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Dissolto il velo d’aria fritta sparso a piene mani dai felici meteorologi del berlusconismo, il quadro della nostra situazione è finalmente svelato in ogni parte. ll problema è che assomiglia terribilmente alla Zattera della Medusa di Gericault. Dritti a babordo, a pochi metri dalla Grecia. Ci spieghiamo meglio: se l’Europa può essere paragonata alla famosa fregata francese che si incagliò a Waterloo, l’Italia è sempre più la zattera attaccata all’imbarcazione dei Paesi membri. Da un momento all’altro potrà decidere di tagliare la fune e abbando-

narci al nostro destino. Oggi come allora, tutta colpa dell’inettitudine di un comandante sciagurato. Silvio come il De Chaumaray della Seconda Repubblica: bravissimo a intrattenere gli ospiti a bordo, ma senza la minima idea di come si tiene un timone.

Il rapporto Censis non esce di metafora. De Rita non parla di un grave cambiamento dei costumi, ma di una mutazione antropologica. «Gli italiani non sono più capaci di guardare al domani, ma sono vittime del “presentismo”», scrive l’istituto nella ricerca illustrata ieri a Roma nell’ambito della XXIII edizione dell’iniziativa “Un mese di sociale”. L’onda lunga del berlusconismo dunque continuerà ad abbattersi sulla Penisola ancora per molti anni. «La società non avanza ma, credendo di avanzare, gira a vuoto e ricade sempre su se stessa, perché appiattita sul

presente», mette a verbale l’istituto di De Rita. Tra i segnali più significativi di questa nuova tendenza c’è l’aumento dell’età in cui ci si sposa e si diventa madri. Dalla media del 1990 che era di 25,6 anni per le donne e di 28,5 per gli uomini, ai corrispettivi 30 e 33 anni di oggi. Il perché è presto detto. «La realtà spinge i giovani ad assumere at-

teggiamenti attendisti e in questo attendismo rielaborano il loro modo di vedere il mondo», annota il Censis. Un popolo di miopi, incapaci di vedere in prospettiva. In caduta libera, dopo lo tsunami Gelmini, la scuola, che per il 50 per cento dei giovani italiani è ormai un investimento a perdere, contro il 90 della Germania. E fare un’attività in proprio, senza padroni che eternano il precariato? Poche speranze: ci crede soltanto il 27,1 per cento dei nostri ragazzi, contro una media europea del 42. Il motivo di tanta sfiducia? Per la maggior parte uno solo: «Troppo complicato».

Ma ci sono altri parametri, apparentemente marginali, che spiegano bene quello che il Censis definisce un generale “rattrappimento sul presente”. Ad esempio il tempo di permanenza su una singola pagina web, che nell’ultimo

anno è diminuito tra 33 a 29 secondi: segno che navighiamo a vista, cerchiamo di continuo l’aggiornamento, ma abbiamo rinunciato a ricomporre i pezzi del puzzle italico. Probabilmente, si può aggiungere, cerchiamo di conoscere anzitempo l’ultima fregatura in programma, perché i processi generali li abbiamo capiti benissimo. E poi c’é il boom del consumo low cost, che per il Censis si basa sul «soddisfacimento del gusto dell’acquisto che così può essere ripetuto senza più cercare prodotti che ci accompagneranno a lungo o che abbiamo desiderato a lungo». Ci rifugiamo nello shopping per stemperare la miseria, insomma. Meglio comprare carabattole e cose scadenti, che tornare a casa con le pive nel sacco. Ma nelle tasche italiche, più metaforico di ogni cosa non manca mai il “gratta e vinci”. A fronte del calo dei tagliandi della lotteria, che ri-


Berlusconi non ha più il sostegno entusiasta dei suoi. Ha solo i numeri

I precari manifestano davanti al Parlamento italiano durante una manifestazione nazionale. Lo scontro fra la categoria e il ministro Brunetta ha scatenato di nuovo la polemica sull’occupazione, sempre più nota dolente per lo sviluppo e la crescita del Paese. A destra il leader della Lega Nord e ministro del governo italiano Umberto Bossi. Nella pagina a fianco il presidente del Censis, De Rita

chiedono settimane di insopportabile impazienza, dieci milioni di italiani si affidano ai giochi istantanei: pochi, maledetti e subito, altro che turista per sempre.

Turista per niente , è invece il nostro pensionato medio. Uno su due ha un mensile inferiore ai mille euro ( e cioè circa otto milioni di persone), il 14,7 per cento è sotto i 500 euro (2,4 milioni), mentre il 31,8 (5,3 milioni) annaspa tra i 500 e i 1.000 euro. Ma nonostante tanto impegno nel rendergli la vita impossibile, il risultato è che le pensioni drenano sempre più Pil: dal 15,38 del 2008 al 16,68 dell’ultima indagine. Senza contrare che gli uomini hanno quote più elevate nelle classi di importo mensile più alto, e le donne in quelle di importo più basso. La spesa per le prestazioni pensionistiche è salita, prosegue il rapporto Istat, dai 241.165 milioni del 2008 ai 253.480 milioni di euro attuali. La crescita è legata all’importo medio delle prestazioni erogate, che è aumentato del 5 per cento, a fronte di un numero di trattamenti pensionistici rimasto praticamente invariato. Ma se le pensioni assorbono Pil in maniera famelica, niente paura. Giusto il tempo che milioni di precari smettano di lavorare: visto che non avranno una pensione, tutto tornerà in splendido equilibrio. Terzo e ultimo capitolo è il trailer mandato in onda ieri da Moody’s: “Tutto quello che avreste voluto sapere sul no-

stro debito, ma Minzolini non vi ha mai detto. Dopo aver annunciato un possibile taglio del rating del nostro debito, l’agenzia ha deciso di vigilare da vicino le nostre principali società partecipate (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste e Terna) e 23 tra città, province, regioni ed enti. E a rischio downgrade ci sono le province autonome di Trento e Bolzano, la Basilicata, l’Emilia Romagna, la Liguria, la Lombardia, le Marche, la Sicilia, la Toscana, l’Umbria e il Veneto. E ancora le province di Arezzo, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Torino, e le città di Bologna, Firenze, Milano, Siena, Venezia.

M a a n c h e l a C a s s a del Trentino e Finlombarda. «Per le province autonome di Trento e Bolzano e per la regione Lombardia», precisa però Moody’s, «la revisione si focalizzerà sui fattori istituzionali che hanno consentito ai loro rating di restare sopra al livello nazionale». Trento e Bolzano mantengono infatti un rating Aaa, mentre la regione Lombardia gode di un Aa1. La scarsa crescita, i conti pubblici pericolanti,Standard&Poor’s che ha tagliato da stabile a negativo l’outlook sul nostro debito, anche hanno convinto Moody’s a mettere le mani avanti. L’Europa ci guarda dunque, pronta a lasciare la nostra zattera ai marosi. Certo, Bisignani potrebbe tentare una telefonata a Bruxelles. Ma il rischio è che forse, troverebbe occupato.

Il ricatto della Lega strozza la crescita

Il Carroccio non vuole la riforma fiscale: vuole subito l’immunità per chi non ha pagato (e non paga) le tasse di Rocco Buttiglione n Parlamento Berlusconi i voti li ha e lo ha dimostrato ancora una volta. Una volta registrato l’ ennesimo penultimatum di Bossi dubbi sull’esito del voto non ce ne erano e infatti tutto è andato liscio come l’olio. Il problema dunque non è la quantità del consenso parlamentare. Il problema, per questa maggioranza, è la qualità del consenso. Certo non è (più) un consenso entusiasta. È il consenso di chi ha paura delle elezioni, perchè sa che le perderebbe, ma non vede nessuna strategia di governo capace di fargli recuperare il consenso del Paese. È questo in effetti ciò che manca.

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La Lega fa finta di credere che Berlusconi diminuirà le tasse e farà anche tante altre bellissime cose capaci di fargli riconquistare il favore degli elettori. In realtà sanno benissimo che non le farà. La ragione è semplice: i soldi non ci sono. Se la riforma fiscale dovesse fare crescere il deficit l’Italia verrebbe immediatamente punita non dall’Europa ma dai mercati. I nostri creditori non crederebbero più alla nostra capacità di pagare i nostri debiti e non ci farebbero più credito o ci chiederebbero per farci credito tassi di interesse usurai. Lo Stato sarebbe costretto a fare bancarotta. Certo, una riforma fiscale si può sempre fare. Deve essere però una riforma fiscale a saldi invariati. Questo vuol dire che si può decidere di fare pagare meno tasse a qualcuno a condizione che ne paghi di più qualcun altro. In effetti vi è un mare di esenzioni ed agevolazioni fiscali che potrebbero essere abolite ampliando la base imponibile. Con il ricavo di questa operazione di disboscamento di privilegi si potrebbero diminuire le aliquote per tutti. Non è detto che tutti coloro che avrebbero un (piccolo) vantaggio di questa riforma sarebbero abbastana grati al governo da votarlo. È sicuro invece che le categorie che perderebbero i loro privilegi si rivolterebbero e farebbero di tutto per fare perdere le elezioni al governo. Non è questa la riforma elettorale di cui il governo ha bisogno e che Bossi vuole. In realtà Bossi non vuole tanto la riforma fiscale, altrimenti l’avrebbero fatta da tempo. Quello che Bossi veramente vuole è che si chiuda un occhio (e se necessario anche due) sulla evasione fiscale. In questi tempi difficili, invece, Tremonti può evitare di aumentare le tasse solo a condizione di fare pagare agli evasori una parte di quanto da loro dovuto. Bossi, invece, vuole l’amnistia per chi ha truffato sulle quote latte e per chi le tasse non le vuole pagare. Non sarà dunque la riforma fiscale a raddrizzare la banca del consenso della Lega. Ci riuscirà il trasferimento di qualche ministero a Milano? Molti sentono come una umiliazione per il Nord imprenditoriale e produttivo il chiedere

il regalo di una manciata di posti di lavoro burocratici. Per di più i ministeri non si possono trasferire per ragioni costituzionali (Roma è la Capitale), per ragioni organizzative (non si possono spostare da un giorno all’altro migliaia di lavoratori che hanno una famiglia e innumerevoli vincoli con il loro luogo di residenza) e per ragioni politiche (il PDL non si può permettere di perdere in blocco il voto di Roma e del Lazio). Su questo punto è diventato evidente lo stato di confusione mentale in cui versano governo e maggioranza. Il governo accetta un ordine del giorno che lo vincola a trasferire i ministeri e, contemporaneamente, ne accetta un altro che lo vincola a non trasferirli. È saltato completamente il principio di non contraddizione. Semplicemente il governo sa che nel voto sulla questione dei ministeri i parlamentari del PdL del Sud non potrebbero non votare insieme con l’opposizione e per evitare il voto lo accetta andando chiaramente contro se stesso. Quando poi i presentatori dell’ordine del giorno insistono perchè esso sia messo in votazione i parlamentari della Lega non votano e quelli del PdL votano scheda bianca. La spaccatura della maggioranza è resa ancora più evidente dai mezzucci regolamentari cui il governo ricorre per cercare di occultarla. È altrettanto difficile che il governo possa ritirarsi dalle operazioni in Libia. I risparmi di spesa sarebbero ridotti e la perdita di prestigio e di ruolo internazionale devastante. In sostanza Bossi non porterà a casa nulla e lo sa. Perchè dunque questa pantomima? La ragione è semplice: si tratta di una foglia di fico per coprire il fatto che la Lega ha paura delle elezioni e tira a campare per non tirare le cuoia. Nessuno crede che il governo farà qualcosa di utile per il Paese nei prossimi mesi, la crisi peggiorerà e si avviterà. Per alcuni mesi, però, questo governo continuerà a occupare le sue poltrone magari nella speranza che un improbabile miracolo renda di nuovo competitiva questa maggioranza nelle prossime elezioni.

C’è un mare magnum di agevolazioni fiscali che potrebbero essere abolite ampliando di molto la base imponibile

Per perdere meno voti la Lega cercherà di differenziarsi da Berlusconi in ogni occasione possibile e questo abbasserà ancora di più la qualità dell’azione di governo. C’è il rischio che alla fine questa lunga e faticosa agonia del governo consegni ad una sinistra estremizzata ed incattivita un paese estenuato, impaurito e stremato. L’unico modo di evitarlo è che le forze politiche responsabili che ci sono nel governo si decidano a staccargli la spina per costituire un altro governo capace di affrontare veramente l’emergenza davanti alla quale si trova il Paese. Si aprirebbe allora finalmente anche il cantiere per la ricostruzione della rappresentanza politica della area moderata.


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l titolo di questa commedia, straordinaria, divertentissima ancorché profondamente filosofica e malinconica, indica già in qualche modo l’atteggiamento dell’Autore nei confronti della sua opera: Shakespeare è uomo di teatro, e scrive perché il pubblico apprezzi, perché esca da teatro contento di quello che ha visto. È la legge della scena, la catarsi aristotelica per la quale il dramma, tragedia o commedia che sia, ci faccia in qualche maniera “sentire bene” dopo che lo si è visto. E così vuole Shakespeare, in ogni caso, forse più che mai esplicitamente in questa narrazione: che pur svolgendosi in un luogo preciso, la Foresta di Arden, trova qui il topos che l’Autore ricerca per tutta la sua attività creativa, la concezione e il pensiero del “mondo come teatro”. Ci troviamo infatti sempre in un clima fiabesco, che si svolge nel I atto presso la corte di Federigo, il Duca usur-

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Nella commedia pastorale «As you like it», il Bardo elabora il concetto di vita com

Già dal titolo dell’opera si può capire l’atteggiamento del drammaturgo: mettere in scena affinché il pubblico apprezzi. Affinché torni a casa contento di quello che ha visto patore: qui incontriamo anzitutto un giovane bello e forte di nome Orlando, come l’eroe ariostesco, figlio di Sir Roland de Boys, che ha subito un grave torto dal fratello maggiore Oliviero: è stato defraudato di tutte le sue aspettative di eredità e costretto ad una vita da stalliere. Il giovane si confessa al vecchio servo Adamo (si chiama così perché ha quasi 100 anni), laddove sopraggiunge l’invidioso fratello che lo obbliga a sostenere uno scontro di lotta libera con Charles, il lottatore di Corte. A questo assisterà Rosalinda, la grande protagonista della commedia, insieme alla cugina Celia. Rosalinda è figlia del Vecchio Duca esiliato, il fratello di Federigo, di cui si dice appunto che è andato a vivere “come il vecchio Robin Hood d’Inghilterra”, volendo rifugiarsi in un esilio bucolico fuori dai rumori del mondo.

Rosalinda incontra per la prima volta Orlando quando costui si batte con il peso massimo, il lottatore Charles: a prima vista nessuno scommette un soldo su quel giovane magro, ancorché energico, ma il ragazzo si farà più che mai valere stendendo in pochi colpi l’avversario. Rosalinda è assai colpita dal giovane, come anche lui da lei. Ma proprio per questo saranno costretti all’esilio, che entrambi ricercheranno nella Foresta, seppure per vie diverse. Qui il vecchio Duca si è circondato di alcuni nobili, tra cui il poeta e cantore Amiens e in

particolare il malinconico viaggiatore Jacques: è questo un personaggio di volta, leggero quanto estemporaneo, inteprete più o meno consapevole di tutte le situazioni. Egli si dichiara in grado “di succhiare la malinconia da una canzone come fa la faina dalle uova”, e prega Amiens di confortarlo con le sue ballate, che ricordano tanto le poesie e le assonanze provenzali. Nel frattempo il povero Orlando è stremato dalla fame, e ancor più il fido Adamo che alla sua veneranda età l’ha voluto seguire nel ricordo di suo padre e di suo nonno; ed ecco che, nel bel mezzo dell’incantata Foresta, Orlando incontra il Vecchio Duca e gli altri suoi compagni che stanno per pranzare. Disperato intima loro di non muoversi, di consegnare a lui tutto il cibo, che deve nutrire il povero Adamo, laddove i nobili si mostrano ospitali. E proprio in tale occasione ci arriva la grande apologia di Jacques, laddove il Vecchio Duca constata come “gli infelici non siamo solo noi, e questo grande teatro universale mostra drammi ben più dolorosi della nostra recita”; di riflesso Jacques pronuncia uno dei più celebri monologhi shakespeariani, che in certo senso riassume tutta la filosofia del grande autore: “Tutto il mondo è teatro, e gli uomini e le donne non sono che attori, con le loro entrate, battute e uscite, recitando molte parti nei sette atti della vita”.

Questi atti sono l’infanzia, la prima giovinezza, poi l’età dell’amore; il momento della guerra, l’approdo al potere, quindi la vecchiaia, e poi quella “settima scena, fine di questa strana e avventurosa storia”, che corrisponde ad una seconda infanzia, senza denti, senza occhi, senza gusto, senza più niente. La parabola è splendida, soprattutto per-

Tutto il mondo è teatro. In VII atti

«Come vi piace» di Shakespeare, ovvero l’uomo raccontato attraverso infanzia, giovinezza, età dell’amore, guerra, potere, vecchiaia, e la fine «di questa strana e avventurosa storia» di Franco Ricordi


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me una recita di attori che si relazionano tra loro attraverso la variabile del Tempo

In queste pagine: un’illustrazione dell’opera di Shakespeare «As You Like It»; la locandina della rappresentazione; il ritratto del drammaturgo inglese; la ricostruzione del Globe Theatre a Londra

ché detta in quel momento e in quel luogo, che sembrerebbe fuori dal mondo, la Foresta di Arden, ma che in realtà fa parte della stessa complessità dell’uomo nel mondo: la metafora è antica, e se ne trovano echi anche nel pensiero greco. Tuttavia essa viene espressa in maniera sistematica per la prima volta in uno straordinario passo delle Enneadi di Plotino, dove il filosofo neoplatonico paragona la nostra vita e tutte le nostre vicende storiche a “scene di teatri”: “Come sulle scene del teatro”, scrive Plotino, “così dobbiamo contemplare anche nella vita le stragi, le morti, la conquista e il saccheggio delle città, come fossero tutti cambiamenti di scena e di costume, lamenti e gemiti teatrali. Infatti, in tutti i casi della vita, non è la vera anima interiore, ma un’ombra dell’uomo esteriore quella che si lamenta e geme e sostiene tutte le parti su questo vasto teatro che è la terra tutta”. Questa prima grande descrizione del mondo-teatro, che sembra proseguire la filosofia platonica nella dottrina dell’immortalità dell’anima, arriva a Shakespeare e alla drammaturgia elisabettiana come a quella di Calderon e del Siglo de Oro spagnolo. E certamente il Bardo di Stratford non solo la raccoglie, ma la elabora e sedimenta per tutto il suo cammino: basti pensare alle parole di Macbeth, quando afferma che la vita è soltanto “la recita di un attore, tutta suono e furia, e non significa nulla”. E tuttavia in questa nostra commedia bucolica e pastorale essa si lega al tema costante e centrale, anche in relazione delle sette età suddette: questa è la problematica del Tempo. Qui Shakespeare sembra anticipare Heidegger nella sua tesi più celebre, l’Essere come Tempo, l’Uomo come Tempo. E tutto questo avviene pro-

prio in quel luogo che sembra “senza tempo”, la Foresta di Arden, dove soltanto Jacques rifiuta i “passatempi”. E in questo senso la dea-ex-machina e regista delle situazioni sarà senza dubbio Rosalinda, la giovane principessa che nel frattempo si è travestita da ragazzo, insieme alla cugina Celia, per poter affrontare l’esilio nella Foresta.

Ha assunto il nome di Ganimede e quando incontra Orlando, che nel frattempo ha scritto per tutti gli alberi della foresta le sue dichiarazioni d’amore per Rosalinda, ecco che nascono due splendide scene che potremmo definire “d’a-

L’autore qui dimostra di contenere anche le più forti sedimentazione delle tecniche novecentesche, anche in questo gioco straordinario fra omosessualità e diversità more e di tempo”: “Per favore, che ora fa l’orologio”, chiede Rosalinda; Orlando risponde: “Fareste meglio a chiedere l’ora del giorno, non ci sono orologi in questi boschi”. E Rosalinda lo incalza: “Allora non ci sono veri amanti in questi boschi, sennò un sospiro al minuto e una lagna all’ora rintraccerebbero i pigri passi del tempo, proprio come un orologio”. L’amore e la follia sono i veri orologi del tempo, come già aveva detto Jacques nella descrizione del Matto che aveva incontrato nella Foresta,“di ora in ora maturiamo e maturiamo, e di ora in ora marciamo e marciamo”. Il tempo, sembra dire Jacques, non esiste: è qual-

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cosa che sta sopra di noi, una dimensione che ci supera, e che nessuno può davvero comprendere: quasi una anticipazione della relatività. E tuttavia è sempre lui, il Tempo (inteso anche in senso meteorologico), che regola le nostre leggi: così il secondo incontro fra Rosalinda e Orlando, che ancora non riconosce nel giovane pastore la sua amata, finisce esplicitamente in una apologia del Tempo: “Beh, il Tempo è il Giudice antico, che giudica tutte queste infrazioni. Lasciamo tutto al Tempo. Addio”. La saggia decisione proviene dalla chiara consapevolezza del problema che sussiste fra Amore e Tempo: Rosalinda, sempre recitando en travesti, aveva poco prima incontrato un giovane pastore di nome Silvio, che si lamentava per le sue pene d’amore nei confronti della sua amata, la pastorella Febe. Questa, che trattava altezzosamente il povero Silvio, viene fortemente redarguita da Rosalinda-Ganimede; tanto che, per la sua veemenza, la pastorella Febe finisce per innamorarsi di lui-lei. E così si giunge alla paradossale ballata del V atto, in cui tutti gli amanti cercano qualcuno che non trovano: Silvio spasima per Febe, questa per Ganimede, Orlando per Rosalinda e Rosalinda per “nessuna donna”. È una delle scene più belle ma anche più amare di Shakespeare, come ha notato bene Jan Kott nei suoi saggi intitolati proprio Arcadia amara, dove parla esplicitamente di una anticipazione del Teatro di Beckett e ancor più di Genet. Il travestimento di Rosalinda (che dobbiamo calcolare doppio, dal momento che all’epoca le donne non potevano recitare, e i ruoli femminili erano interpretati da ragazzi), è analogo a quello di Porzia nel Mercante di Venezia, ma forse ancor più peculiare nella sua quintessenza: è un gioco pericoloso, sacrale e sessuale, liturgico ed orgiastico. Rappresenta la stessa quintessenza del Grande Teatro di tutti i tempi, e giunge proprio a quella straordinaria prima immersione drammaturgica di Pasolini, il cui titolo è appunto Orgia. Shakespeare dimostra di contenere anche le più forti sedimentazione del teatro novecentesco, anche in questo gioco straordinario fra omosessualità e diversità. E lo attesta proprio l’ultima battuta di Rosalinda quando, una volta che tutta la trama si è risolta, che Oliviero si è innamorato di Celia ed è stato perdonato da Orlando; che l’altro buffone Paragone è riuscito nella conquista dell’altra pastorella Audrey; e che infine Jacques si sia rifiutato di unirsi all’allegra brigata nel bosco per continuare nei suoi viaggi, ecco l’epilogo meta-teatrale e chiarificante di Rosalinda: “A me gli occhi, signore. Per il ben che volete ai maschi, per il bene che portate alle donne – dai sorrisetti mi par di capire che qui nessuno le odia – ordino che tra voi e loro lo spettacolo vi aggradi. Se fossi donna darei un bacio a quelli di voi che hanno barba che mi piaccia, corpo che mi attiri, e fiato non cattivo. E son sicuro che tutte le belle barbe, le belle facce e i fiati gradevoli, alla mia richiesta gentile, al mio inchino, risponderanno con un applauso”. E in questo modo si chiude As you like it: con la promessa di un bacio. Il Tempo e l’attesa alla fine ci confortano e nulla ci potrà piacere più di questo: nulla più della promessa di un bacio.


dossier

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A rimetterci sarà il cittadino, costretto a pagare di più per un servizio meno brillante

Il Paese del «water pocket» Ogni singolo comune (sono più di 8mila) avrà la sua municipalizzata tascabile per offrire un servizio inevitabilmente più costoso di Gianfranco Polillo ensavamo di andare a votare per l’acqua e invece il quesito numero 1 del referendum si riferiva a tutt’altra cosa: è questo il paradosso dell’ultima tornata elettorale. Colpa di una cattiva comunicazione che ha disorientato l’elettore e prodotto danni ai quali sarà difficile porre rimedio. Ma questo è anche il limite di un uso improprio dell’istituto referendario. Siamo assolutamente d’accordo con quanto ha scritto Giuseppe De Rita sulle pagine del Corriere della Sera. Nato per dirimere le grandi questioni ideali (il divorzio, l’aborto, il finanziamento pubblico dei partiti e così via) su cui la politica politicante non riusciva a intervenire, se non a prezzo di profonde lacerazioni interne, è divenuto un’arma impropria dove la furbizia dei manipolatori e la scarsa trasparenza delle proposte la fa da padrone. Si prenda il testo su cui si è chiesto il conforto del popolo elettore: “Volete voi che sia abrogato l’art. 23bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia», e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea», convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?”.

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Schiere di giuristi e di avvocati si troverebbero in difficoltà nel decrittare un testo così complesso, non avendo a portata di mano codici, pandette e formulari. Immaginiamo quale possa essere stata la reazione della casalinga di Voghera. Con tutto il rispetto per questa categoria benemerita. Ci sarebbe voluto un traduttore. Ma un traduttore onesto, che avesse spiegato quali erano le reali intenzioni dei promotori. La gestione pubblica

dell’acqua: è stato detto. Vero, ma assolutamente minimalista. Perché oltre l’acqua erano in ballo i trasporti pubblici, i rifiuti, il servizio giardini, la manutenzione delle strade e via dicendo. E per fortuna che la norma, ora abrogata, escludeva la distribuzione del gas e dell’energia, nonché le farmacie ed il trasporto ferroviario regionale; perché altrimenti il ritorno al “socialismo municipalizzato” sarebbe stato totale. Con buona pace delle famose “lenzuolate” di Pierluigi Bersani: ieri grande liberalizzatore, oggi, di nuovo, alfiere di un colbertismo in sedicesimo, destinato a spazzar via ogni uso intelligente del mercato, necessario per introitare un po’ d’efficienza nel grande moloch del controllo pubblico parcellizzato. Ed al tempo stesso coinvolgere un po’ di capitale privato per diluire nel tempo il costo della relativa gestione.

Per gli investimenti necessari a fornire, nei prossimi anni, acqua

Una comunicazione cattiva ha disorientato l’elettore e prodotto danni cui sarà difficile rimediare agli italiani ci vorranno dai 70 ai 100 miliardi. Dovranno tappare le falle di un sistema idrico che arriva a sprecare circa la metà del suo flusso giornaliero. Occorrerà, inoltre, estendere la rete ai tanti che soffrono della mancanza di rifornimenti. Quindi migliorare la qualità di quello che beviamo: non sempre all’altezza dei bisogni collettivi. Come mostra, in Italia, l’enorme consumo di acque minerali. Dove li prenderemo? Il comitato promotore dice: dalle tariffe, dalla fiscalità generale e dai prestiti.Vita dura, quindi, per i comuni che dovranno consorziarsi – problema non da poco – per gestire una risorsa che non rispetta, certo, le ripartizioni amministrative. Dovranno scegliere tra aumentare le tasse di propria competenza o ridurre i servizi al cittadino. Quanto ai prestiti: lasciamo perdere. Il Comitato suggerisce di lanciare un prestito irredimibile (si pagherebbero solo gli interessi): archeologia finanziaria. L’unico tentativo fatto (la cosiddetta Rendita italiana) risale al 1861. Non ebbe vita breve. Fu, tuttavia, altrettanto travagliata. E che dire dei controlli? Sempre il Comitato suggerisce forme di de-

mocrazia diretta di sapore sessantottino. Niente male per un Paese, come il nostro, che vive il condizionamento dell’Europa e quello ancora più pervasivo dei mercati internazionali. Se queste sono le controposte per l’acqua, figuriamo quelle relative gli altri servizi affidati al potere locale. Per fortuna viene in soccorso la disciplina europea, che offre una rete di sicurezza. Ma le maglie di questa normativa sono fin troppo ampie per un Paese malato di localismo ed eccesso di appetito da parte dei politici più legati al territorio. I cacicchi: come li definì Massimo D’Alema. L’Europa ci dice che i servizi pubblici locali possono essere solo gestiti in house – ossia direttamente – se non si vogliono cedere ai privati. Gli apporti esterni sono consentiti, ma solo nel caso di tratti di posizioni di minoranza e comunque il frutto di una gara, attraverso la quale scegliere il proprio partner. Quali saranno le conseguenze? Che ogni singolo comune – sono più di 8.000 – avrà la sua municipalizzata tascabile per offrire un servizio inevitabilmente più costoso. La politica economica, dai tempi dei tempi, ha visto nelle economie di scala il modo migliore per crescere e ridurre i costi. Se i vincoli giuridici – amministrativi impediscono questo salto di qualità, chi ci rimetterà sarà alla fine il singolo cittadino: costretto a pagare di più per un servizio meno brillante. Si può aggirare questo vincolo? In teoria: si. I consorzi di comuni, ad esempio, possono decidere di avere un’unica azienda che serve abitanti residenti in un territorio più vasto. Operazione possibile: che sia facile da realizzare – visto le inevitabili rivalità tra le diverse comunità – è tutto da vedere.

Ed ecco allora una prima amara conclusione. Con il referendum abbiamo azzerato una normativa tutt’altro che perfetta; ma a essa abbiamo sostituito il nulla. Non solo. Abbiamo abbattuto dei paletti che cercavano di introdurre alcuni elementi di moralizzazione. Le “vecchie” municipalizzate erano sottoposte ai vincoli del “Patto di stabilità interno”. Con l’abrogazione della norma, possono tornare le assunzioni facili che scardinano quel po’ che resta della finanza locale. I vecchi consiglieri comunali, trombati alle elezioni, per un periodo di tre anni, non potevano far parte dei consigli d’amministrazione. Ci sarà un nuovo arrembaggio? Il legislatore dovrà rimettere le mani su questa complicata materia. Ma era proprio necessario fare, prima, piazza pulita?

Luci, ombre, manipolazioni e conseguenze della scelta fatta dagli italiani

Ora quale acqua?


dossier

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La confusione tra aziendalizzazione e privatizzazione ha bloccato lo sviluppo

Le 5 leggi del «bere pubblico» Adeguatezza, equità, continuità, razionalizzazione, giusto margine. Tutte le qualità che deve avere un’azienda di gestione dei servizi di Carlo Pacella* i è fatto presto a dire di non mettere in mano ai privati la gestione di alcuni servizi pubblici locali. Quello che in realtà stava accadendo è che i “privati” stavano mettendo in mano ai “pubblici” le loro imprese. Infatti i privati hanno progressivamente rivolto sempre di più lo sguardo al Pubblico anziché al mercato, e alla concorrenza. È stata quasi una rincorsa alla “gara”, all’avviso pubblico e al finanziamento - di qualunque natura a da qualunque fonte provenisse. È la conseguenza di una politica italiana che per troppo tempo si è basata sull’assistenzialismo alle imprese e che non ha consentito loro di far capire in pieno le vere sfide della globalizzazione e della e-civilisation. Molti - troppi privati, a causa delle insolvenze-ritardi delle Pubbliche amministrazioni (nei pagamenti) hanno chiuso i battenti o lo stanno facendo.

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In materia di servizi pubblici in Italia, si deve evidenziare il grande sforzo giuridico per sostituire al modello organizzativo di autoproduzione e gestione, la nuova struttura-modello basata sulla Azienda di servizi e sulle possibilità offerte alla stessa di muoversi con una certa autonomia gestionale e sperimentale. Si trattava, naturalmente, di un cambiamento enorme, giacché si voleva introdurre nell’amministrazione pubblica una organizzazione fondata su criteri aziendalistici, a salvaguardia della pubblica economia. La nozione giuridica di servizio pubblico -destinato a soddisfare bisogni pubblici ricadenti nella pubblica economia - è connessa al concetto della essenzialità di una prestazione o di una cessione che mira a soddisfare una diminuzione della conflittualità sociale. Una azienda erogante un pubblico servizio è una azienda “caratterizzata” da alcune importanti peculiarità, quali, innanzitutto, i caratteri di socialità ed equità, essendo rivolta al soddisfacimento di bisogni di tutti (ma non sempre) i cittadini, senza distinzione di ordine e grado, secondo criteri di giustizia sociale ma è pur sempre un’azienda con “diritto” a un “margine di profitto” giusto e adeguato, in grado di consentirgli di “adattarsi” al mercato e di “aggiornarsi” con nuovi investimenti e ricerche; creare conseguentemente la nuova occupazione atta a ridurre la citata conflittualità sociale nella pubblica economia. Il diritto al giusto profitto naturalmente si ripercuote direttamente sul costo-prodotto, che si presenta come un costo-prodotto di natura

complessa, un vero e proprio pacchetto di elementi sia fisici sia intangibili (psicologici, ecc.). Questo concetto è spiegabile se consideriamo che una azienda (privata, pubblica o mista) di gestione di pubblici servizi, specie se preposta al soddisfacimento di bisogni ad alto impatto sociale, o per lo meno percepito come tale, deve necessariamente soddisfare, oltre al bisogno principale, altri bisogni secondari variabili per caratteristiche e importanza a seconda del tipo di popolazione e delle sue caratteristiche storiche, geografiche, culturali e sociali. Non è un caso che, anche a parità di servizi fisici o tangibili resi, il rapporto tra fornitore della prestazione e cliente-cittadino si realizza sulla base di elementi anche di tipo psicologico scarsamente prevedibili. Il ricorso allo strumento dell’azienda pubblica, privata o mista, per la realizzazione di attività di pubblica utilità non significava che lo Stato o l’Ente locale avesse dovuto rinunziare al controllo sul raggiungimento delle finalità “politicamente” fissate ma si spiegava, invece, con finalità di ordine organizzativo e gestionale. Ora, un certo grado di infiltrazione entro queste ultime (aziende) dell’elemento “partitico” e spesso non politico, con conseguente rapporto conflittuale e antagonista tra orga-

La Public-privatepartnership, in Italia, stenta a decollare come modello e formula di gestione ni di partito e organi tecnici, la mancanza di una accorta programmazione gestionale delle risorse, ha portato, nel corso del tempo, a un discredito del modello. La Public-private-partnership ha stentato a decollare definitivamente, in Italia, come modello e formula di gestione, oltre che per la forte ideologizzazione del “Pubblico” e del “Profitto Privato”, anche per le presunte (talvolta reali) collisioni partiti-privati. Questo, a nostro avviso, il referendum ha voluto sanzionare; senza scendere nel merito delle questioni. Non si è riusciti a fare un ragionamento scientificamente corretto, anche perché si è seguitato ad agire sulla normativa corrente e ad ogni “finanziaria”, mettendo mano a nuo-

ve norme. Si è creata una situazione di permanente instabilità e incertezza sul “futuro”. Di fatto, la politica di aziendalizzazione del settore pubblico è stata dettata da profonde esigenze organizzative da parte dello Stato e degli Enti locali per il riordino e la razionalizzazione dei criteri di spesa, sulla base del raggiungimento di livelli di maggiore produttività delle strutture, per la qual cosa non bisognava intendere, invece, l’aziendalizzazione come “privatizzazione” dei servizi: infatti, non si mirava ad affidare a Aziende private bensì a razionalizzare la gestione secondo parametri aziendalistici. Questo concetto è molto importante e andava, e forse va ancora, spiegato più nel dettaglio. Si può affermare che un’azienda di gestione di servizi pubblici deve funzionare secondo 5 princìpi fondamentali: • principio dell’adeguatezza e dell’appropriatezza: il servizio erogato deve essere adeguato alle esigenze reali dell’utente, rispondere ai parametri qualitativi e quantitativi, rispondere ai requisiti di efficacia, efficienza ed economicità; • principio di equità: tutti i cittadini devono avere equamente diritto di accesso da un punto di vista sia fisico sia economico; • principio della continuità: non devono esistere pause nella erogazione del servizio, pena gravi risvolti per la collettività; • principio della razionalizzazione: deve esistere un impiego razionale delle risorse a disposizione per erogare un servizio; • principio del giusto margine: deve esistere la possibilità di remunerare equamente il capitale e di disporre di risorse per nuovi investimenti e ricerca.

Dovrà essere questa, a nostro avviso, la base di partenza per un corretto processo di modernizzazione, che renda la gestione “pubblica” efficace, efficiente, economica e appropriata. Le amministrazioni locali ci riusciranno? Certo è che l’esito del referendum sui servizi pubblici, cosiddetto impropriamente sull’acqua, creerà conseguenze gestionali che in questo momento non si riesce neppure a immaginare; certamente andranno fatte (da chi?) norme attuative e transitorie. E cosa si andrà “ri-pubblicizzando” ora? La scuola? Le ferrovie? Le Poste? L’elettricità? Il Gas? * docente di Marketing e Comunicazione alla Link


mondo

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La questione del nuovo Stato torna nelle mani delle Nazioni Unite, che ieri hanno riconfermato Ban Ki-moon alla Segreteria generale fino al 2017

La Palestina dimezzata Salta all’ultimo il colloquio fra Hamas e Fatah. E il governo unitario si allontana sempre di più di Antonio Picasso ià il fatto che l’incontro tra Fatah e Hamas sia saltato dovrebbe far riflettere. Era previsto per ieri pomeriggio al Cairo, un nuovo confronto diretto tra le due fazioni più forti del mondo politico palestinese, con l’idea di iniziare a costruire un cammino di riconciliazione politica e quindi di governo comune. Tuttavia, in mattinata è giunta l’improvvisa cancellazione dell’appuntamento. Molto probabilmente il casus belli è da rintracciare nell’intervista rilasciata dal presidente dell’Autorità palestinese e leader di Fatah, Abu Mazen, alla Tv libanese Lbc. Tra le sue dichiarazioni, è emersa la conferma di poter nominare in assoluta autonomia il nuovo premier del governo dell’Anp. Hamas non ha accettato una presa di posizione tanto categorica.Vi ha visto inoltre l’intenzione di precludere qualsiasi opportunità che un suo membro possa guidare un futuro esecutivo a Ramallah. Com’è stato cinque anni fa, quando a Ismail Haniyeh era stata scippata una legittima vittoria elettorale. Sami Abu Zuhri, portavoce del movimenti islamista, ha definito le dichiarazioni di Abu Mazen «un’inutile provocazione mediatica». Ha accusato il rivale – possiamo usare questo termine senza paura di essere corretti – di mettere in pericolo l’unità fra le parti, appena raggiunta (ma subito crollata). Facendosi scu-

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L’Anp si trova incapace di fornire al popolo un’alternativa credibile al governo di Meshaal. Che per gli Usa è un terrorista do dei fragili ordinamenti giuridici che reggono l’Anp, Abu Zuhri ha ricordato che la nomina del primo ministro deve essere approvata dal Consiglio legislativo. La mossa è volpina, considerando che questo è dominato da Hamas. Però ha una sua ragion d’essere. In pochi attimi, è andato in fumo un progetto nel quale nes-

suno credeva. La scarsa rilevanza degli incontri del Cairo, negli ultimi due mesi, è stata motivata dall’importanza di altri eventi che hanno caratterizzato la cronaca del Medioriente.Tuttavia, proprio perché passato sotto silenzio, inizialmente si era pensato che il confronto potesse avere un seguito. D’altro canto, l’assenza di supporti stranieri – in termini di mediatori – ha impedito il raggiungimento dell’obiettivo.

Del resto, c’è da chiedersi: era possibile? C’era, e ci

sono ancora, le condizioni per la creazione di un governo di unità nazionale tra Fatah e Hamas? Al di là delle incomprensioni (eufemismo) reciproche, e come pure messe da parte le rispettive posizioni di intransigenza, appare evidente che il contesto regionale impedisca la riconciliazione in seno all’Anp. Sarebbe straordinariamente bello se, dalle ancora fumose conseguenze della primavera araba, sbocciasse una ritrovata compattezza del popolo palestinese e soprattutto dei suoi politicanti. Sarebbe la conclusione virtuosa di quella solu-

Palestinesi a Gerusalemme. La questione del “diritto al rientro” ha esacerbato ancora di più gli animi nella zona. A sinistra Abu Abbas, leader di Fatah, e sotto il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Nella pagina a fianco: in alto Meshaal; in basso Ban Ki-moon zione poco probabile sintetizzata nella formula “Un popolo, due Stati”. Poco probabile perché nata in seguito allo sgombero unilaterale di Gaza da parte degli israeliani e sulle ceneri di un’elezione – la già citata del 2006 – che ha visto Hamas vincitore, senza però che nessuno ne avesse accettato il risultato. La ripresa del dialogo

e il successivo step del governo di unità nazionale chiuderebbero questa parentesi di stallo politico in seno all’Anp. Tuttavia, come detto, mancano le condizioni diplomatiche. Né l’Egitto né la Siria – rispettivamente sostenitori di Fatah e Hamas – sono in grado fare da garanti. Men che meno l’Arabia Saudita o addirittura l’Iran.

Erdogan e Obama d’accordo su Siria e Libia, mentre si cerca il riavvicinamento tra Gerusalemme e Ankara

La Turchia si affida alla diplomazia segreta Anche il presidente Abdullah Gul chiede a Damasco di varare riforme democratiche spettino le aspirazioni democratiche dei siriani». Poche ore prima il presidente turco, Abdullah Gul, aveva invitato l’uomo forte della Siria, Bashar alAssad, ad impegnarsi in termini «più chiari e netti» in favore di un cambiamento democratico. La Turchia, Paese frontaliero della Siria, è meta di un flusso continuo di profughi siriani, oltre 10mila secondo le ultime stime dell’Onu.

di Pierre Chiartano l gigante anatolico è di nuovo in movimento sul fronte occidentale. Pare che la Turchia di Erdogan stia riattivando i canali diplomatici che sembravano essersi raffreddati dopo la vicenda della Mavi Marmara, la nave turca diretta a Gaza e abbordata dalle truppe speciali israeliani, il 31 maggio 2010, che provocò numerose vittime, tra le quali dei cittadini turchi. Lunedì, i colloqui tra Barack Obama e il premier turco hanno anche riaperto le speranze per un’azione coordinata sul regime siriano. Nei primi tempi c’era stato molto imbarazzo e qualche censura sulle notizie provenienti dalla Siria. Ora Ankara sembra convinta a fare squadra con Washington per esercitare pressioni su Da-

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masco. Il presidente americano e il premier turco hanno lanciato un appello congiunto per la fine delle violenze in Siria. Nel corso di una conversazione telefonica, ha reso noto

ieri la Casa Bianca, i due leader politici «hanno convenuto di chiedere al governo siriano di mettere fine adesso alle violenze e di varare rapidamente riforme significative che ri-

Forse rassicurato dal risultato alle elezioni politiche del 12 giugno, il governo dell’Akp sembra anche interessato a riaprire tutti i canali e a risolvere la crisi con Israele, con l’aiuto e la mediazione della Casa Bianca. Certo occorre usare il condizionale vista ormai l’estrema suscettibilità di Ankara su certi argomenti. Il protagonismo turco sulla sce-


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Se c’è un argomento fuori quadrate, allo stato dei fatti, è proprio il conflitto israelo-palestinese. Israele ha già detto chiaramente che da un accordo bilaterale del genere non può emergere nulla di positivo. Gli Stati Uniti, a dispetto delle buone intenzioni di Obama e dell’opportunità che si potrebbe venire a creare di essere l’unico

mediatore, hanno preferito mantenere una posizione marginale. Il che, tutto sommato, è comprensibile. Per quale motivo tuffarsi in un ginepraio? Ad Abu Mazen, infatti, non basta aver assistito alla sua progressiva perdita di carisma di fronte ai palestinesi di Gaza e nel West Bank. Così come non è servito asse-

na mediorientale è un elemento comunque stabilizzante, che toglie spazio ai protagonisti della retorica radicale. Come riporta il quotidiano israeliano Haaretz, i colloqui si sarebbero tenuti tra inviati del premier Bejamin Netanniahu e del sottosegretario agli Esteri turco, Feridun Sinirlioglu, uno degli assertori più convinti, in seno al governo di Ankara, della necessità di superare la crisi diplomatica tra Gerusalemme e i turchi. Altri contatti sarebbero avvenuti all’interno della commissione d’inchiesta Onu sulla vicenda della Freedom flotilla, tra il rappresentante israeliano Yosef Ciekhanover e il turco Ozdem Sanberk. Ci sono stati anche colloqui tra l’amministrazione Usa e alti funzionari di Ankara nel tentativo di annullare la seconda puntata della Freedom flotilla prevista per la fine del mese e che si annunciava come un grande evento mediatico dagli esiti imprevedibili. In quell’occasione i diplomatici americani avrebbero fatto pressioni sui turchi, affinché si riallacciassero le relazioni con lo Stato

ebraico. Sabato scorso era toccato al segretario di Stato, Hillary Clinton, incontrare l’omologo Ahmet Davutoglu incassando l’assicurazione che non ci sarebbe stata una seconda Mavi Marmara nell’iniziativa della ong Ihh che si occupa di inviare aiuti umanitari nella Striscia di Gaza.

Il punto sarebbe se Gerusalemme abbia voglia o meno di andare oltre il semplice «rammarico» per l’episodio. E voglia porgere delle scuse ufficiali alla Turchia, soddisfando le parti civili rappresentate dalle famiglie delle vittime (nove cittadini turchi) con un adeguato risarcimento. Siamo così giunti al terzo tentativo di ricomporre le relazioni tra i due Paesi che storicamente sono state sempre ottime. Però il nuovo ruolo di Ankara come «modello», meglio «un’esperienza da condividere», come preferiscono presentarsi i turchi in Medioriente, ha reso meno flessibile il comportamento del governo di Erdo-

condare le polemiche più maliziose rivolte alla sua persona, tale per cui sarebbe un uomo in tutto e per tutto di Israele. Ora questa sua rivendicazione di muovere le pedine tra Ramallah e la Striscia mette in luce l’ostinazione di un leader politico orfano del sostegno eletto-

gan. Sentono di essere una parte, un tassello importante, della rinascita del mondo islamico. La crisi del radicalismo – se pur non ancora sconfitto – ne aumenta la caratura morale e politica di Paese sviluppato, sulla strada di una vera democrazia, integrato internazionalmente, e a prevalenza islamica. Il primo tentativo di riappacificazione, l’inverno scorso, vide il niet del ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman a «scuse ufficiali» alla Turchia. Ma Erdogan e Obama hanno parlato anche di Libia e della decisione che i due governi lavorino in stretto contatto per monitorare la situazione in Tripolitania e Cirenaica. Visto anche che la prossima riunione del Gruppo di contatto sulla Libia si terrà ad

rale. Abu Mazen pretende di agire pro domo sua. Questo vuol dire aver paura di una bocciatura da parte della collettività. È il goffo tentativo di imitare Yasser Arafat, egli stesso emarginato dall’appeal innovativo – per quanto estremistico – di Hamas. E che dire di quest’ultimo? Non si può certo biasimare Israele. Quale

Istanbul il 15 e il 16 luglio. E la voglia di allentare le tensioni fuori dai propri confini fa il paio con l’aumento dei problemi interni. A una settimana dal giuramento dei nuovi deputati eletti, atteso per il 27 o il 28 giugno prossimo, quelli appartenenti al Bdp, il Partito curdo per la Pace e la Democrazia, hanno fatto sapere che boicotteranno la cerimonia del giuramento, se non verranno liberati i sei candidati eletti, ancora detenuti.

Lo scrivono I quotidiani Hurriyet e Sabah. Una vicenda che ha improvvisamente riacceso le tensioni nell’Est del Paese. Lunedì in serata, alla notizia che due dei deputati curdi condannati per collaborazione con il Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan che figura anche nelle liste nere Ue del terrorismo) stavano per essere rilasciati, oltre 2mila persone si sono recate davanti alla prigione di Diyarbakir. Il mancato rilascio ha causato momenti di forte tensione con la polizia.

sarebbe l’approccio della comunità internazionale di fronte a un governo palestinese supportato da un movimento che, agli occhi dei più, è nella lista dei gruppi terroristici? Giusta o sbagliata che sia questa classificazione, oggi sono pochi gli spazi di manovra. Fino a quando Khaled Meshal e Hanyieh – ma ancor più la fronda massimalista di Mahmoud al-Zahar – conserveranno la violenza come strumento politico, dal governo israeliano di Netanyahu non riceveranno altro che reazioni altrettanto intransigenti. La responsabilità è di entrambi i fronti. Anzi, di tutti e tre. Come sempre.

Da qui l’idea di un governo palestinese, che possa essere presentabile sulla ribalta internazionale, appare come una debole chimera.E a questo punto, possono dirsi incerti anche i passaggi del riconoscimento dell’Anp all’Onu. L’appuntamento è segnato per il prossimo settembre, quando l’Assemblea generale si esprimerà in merito. Sulla carta, è probabile che non ci saranno problemi. Tanto più che è di questi giorni al conferma di Ban ki-Moon come Segretario generale. È lui che ha voluto fermamente questo risultato. Nella pratica, al contrario, non si può restare ciechi di fronte alle complicazioni. Il soggetto politico che le Nazioni Unite stanno per accogliere in grembo risponde ben poco alla nozione di Stato. Non ha un territorio. Si può essere indulgenti finché si vuole, ma West Bank e Gaza, insieme, sono ben lungi dall’essere quella Palestina sognata dagli arabi. L’Anp, inoltre, non ha un governo. Le sue stesse istituzioni, proprio in queste ultime ore, lo hanno confermato. Infine, manca di un popolo. In termini di cittadinanza, il palestinese non ha passaporto nazionale. È apolide.Visto così, è facile identificare in un placebo quel voto prossimo venturo all’Onu. La comunità internazionale si appresta a concedere un premio di consolazione ai palestinesi. Mentre questi, distratti dalle intestine rigidità ideologiche e devianze operative, sembra che non se ne accorgano nemmeno.


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grandangolo L’analisi di uno dei più grandi dissidenti di tutta l’Asia

Clamoroso suicidio a Pechino: il Partito comunista

Con gli arresti e le “sparizioni” degli attivisti per i diritti umani, la Cina ripercorre non soltanto le aberrazioni di Mao Zedong ma anche quelle dell’epoca imperiale. Violando la legge e scrivendo norme repressive, infatti, i dirigenti del regime mettono a rischio il loro potere: nessuno potrà salvarsi dalle vendette di chi gli sta sopra di Wei Jingsheng egli ultimi tempi abbiamo iniziato a essere molto preoccupati per due casi di giurisprudenza molto importanti. Il primo è la sparizione dell’artista Ai Weiwei, mentre il secondo è il caso dell’avvocato Li Zhuang di Chongqing. Questi due casi sembrano avere molto poco in comune: invece hanno un collegamento diretto e interno. Questo collegamento va cercato nel ritorno della politica del Partito comunista cinese “a sinistra”: passo dopo passo, in Cina sta tornando la dittatura su larga scala dell’era della Rivoluzione culturale. La caratteristica di questa dittatura su larga scala è la rimozione della protezione legale, che viene rimpiazzata dal desiderio capriccioso del Partito. I desideri dei leader comunisti, di tutti i livelli, decidono tutto. Usando una frase onesta della moglie di Mao Zedong, Jiang Qing, possiamo dire che il Partito “è così senza diritto che arriva ad ignorare persino Dio”. Usando la dichiarazione standard del Partito, invece, “non bisogna cercare di usare la legge come uno scudo”.

N

Analizziamo per primo il caso di Ai Weiwei. Persino il Codice di procedura penale cinese recita chiaramente che, quando si priva un cittadino della propria libertà, lo Stato ha il dovere di avvertire per prima cosa la sua famiglia. Altrimenti ci troviamo davanti a una detenzione illegale. Secondo le Nazioni Unite, sono “sparizioni forzate”. Passate

due settimane dalla sparizione di Ai, un tempo in cui la sua famiglia non è stata contattata, il Consiglio di Stato cinese e persino alcuni media ufficiali del regime hanno iniziato a chiedersi che fine avesse fatto. Quindi l’autorità dittatoriale che ne ha deciso l’arresto è colpevole di “detenzione illegale”. Non sono sospettati: sono colpevoli evidenti e hanno fornito già le prove del loro errore.

Più avanti potranno cercare di giustificarsi con dei formalismi: ma persino retrodatare la situazione si rivelerà inutile. Due condizioni sono essenziali

Ai Weiwei è soltanto la punta dell’iceberg. Con la sua detenzione, il Pcc infrange il diritto e distrugge uno scudo per commettere questo crimine: limitare o negare la libertà personale e non informare del fatto i membri della famiglia. Secondo il dettame della Procedura penale non importa quale autorità compia questo atto: se risponde a que-

ste due condizioni, è un reato. Da quanto sembra, il ministero cinese degli Esteri e i media ufficiali hanno messo nel mirino il Dipartimento di pubblica sicurezza: sono stati loro ad annunciare l’arresto di Ai Weiwei, e quindi sono loro che hanno fornito la prima prova della detenzione illegale.

Tuttavia, al Dipartimento di pubblica sicurezza tutto questo non importa. Più di dieci anni fa, hanno già usato dei cosiddetti “regolamenti interni” per svuotare di efficacia il Codice di procedura penale. Questo approccio è stato definito “residenza sotto sorveglianza”. Secondo il Codice, si tratta della misura “più leggera” nel campo della restrizione della libertà personale. Questa misura prevede infatti una sorveglianza continua della persona in oggetto, ma che tecnicamente non viene limitata nella propria libertà di movimento. Di conseguenza, questa procedura non richiede l’approvazione di un giudice o di una corte. Dopo tutto, in Cina, questo non vuol dire nulla: la sorveglianza ufficiale non deve essere autorizzata da nessuno. Nel 1994, il regime comunista cinese mi ha arrestato senza alcuna approvazione da parte del procuratore. Quindi, con il consenso delle maggiori autorità, hanno dato una nuova interpretazione di questa “residenza sotto sorveglianza”. Mi hanno spiegato: «Noi ti abbiamo arrestato e messo sotto sorveglianza.

Ma tu vivi fuori da una prigione ufficiale: nei fatti, sei in una residenza». Combinando questi fattori, hanno creato la nuova figura giuridica. Più avanti, persino i tribunali cinesi sono arrivati a dire che questa non è una privazione della libertà e quindi la pratica giudiziaria ha “legalizzato” questa detenzione illegale. La polizia che arresta la gente non compie un vero crimine: è il regime comunista che infrange la legge. È l’autorità dittatoriale che, portando avanti queste azioni illegali, infrange per prima la legge. Il Partito comunista cinese ha creato una legge che permette di violare la sua propria legge mentre applica la legge. Sembrano giochi di parole, ma non sono così divertenti. Quando viene applicata la “residenza sotto sorveglianza” nei confronti dei “nemici” all’interno del Partito, viene definita una “doppia designazione”. Ovvero si dice che questi “nemici”debbano confessare “entro un tempo designato in un posto designato”. Non è uguale a quello che accade ai normali cittadini posti sotto la “residenza sotto sorveglianza”?

Il caso di Li Zhuang, avvocato di Chongqing, è ancora più sorprendente. Li ha raccolto le prove della violazione delle leggi da parte del Partito comunista, e può provare come abbia portato avanti delle evidenti ingiustizie. Quindi ah colpito la legge del Partito, quella che prevede di violare il diritto in nome del diritto. Il segretario del Partito di


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Chongqing, Bo Xilai, lo ha sbattuto in galera. Come si può trattare con questi avvocati, che divengono un ostacolo alle politiche del Partito? Il segretario Bo ha creato una nuova pratica che ha chiamato “auto-incriminazione”. Secondo i dettami della procedura penale, non si può dichiarare una persona colpevole soltanto sulla base di dichiarazioni: servono prove. Tuttavia, il potere del segretario è più forte della legge. Quando decidono che Li Zhuang deve dichiararsi colpevole ecco che questi diventa colpevole, prove o non prove.

Mentre si avvicina la fine della condanna a tre anni per l’avvocato Li, il suo rilascio potrebbe rappresentare molti problemi per il segretario locale. Cosa dovrebbe fare? La risposta è semplice. Se l’avvocato può essere incastrato una volta, perché non potrebbe avvenire lo stesso una seconda volta? La prima era sperimentale, e quindi serviva una condanna emessa da una corte. Ma ora questo non serve più: se dichiara di essere colpevole ecco che diviene colpevole. Anche se è innocente. Questa pratica si incastra perfettamente con la dittatura su larga scala, e persino i caporioni del Partito appoggiano la linea di Bo. È semplicemente la storia che si ripete. Anche la dittatura di Mao Zedong prima della Rivoluzione culturale ricevette il sostegno di tutta la leadership comunista. Ma, subito dopo, questa dittatura divenne un mostro che divorava se stesso. Gli occidentali definiscono questa pratica “spararsi da soli a un piede”. Il popolo cinese dice invece: “Si muore male come punizione per le azioni malvagie compiute”. Queste persone non capiscono che se applicano misure irragionevoli, prima o poi queste si rivolteranno contro di loro.

Ai tempi di Mao, il presidente cinese Liu Shaoqi pensava che – sostenendo in pieno la linea del Timoniere – si sarebbe salvato dalle epurazioni politiche. Quello che non capiva è che la sua stessa presenza era un ostacolo per gli altri, e che questo bastava per ritenerlo colpevole. Per i leader comunisti che dovranno affermare il proprio potere il proble-

Alcuni manifestanti a Hong Kong indossano una maschera con il volto di Ai Weiwei, artista e dissidente politico scomparso da più di un mese

ma è lo stesso: come possono sapere che non offenderanno mai, loro o i loro figli, il futuro premier Bo? Se si permette a qualcuno di creare l’istituto della detenzione illegale e gli si permette di prendere decisioni giuridiche che violano la legge, la spada di Damocle penderà sopra la testa di tutti. Quando chi comanda è felice, o infelice, può decidere semplicemente di ucciderti. Come avvenne per Liu Shaoqi o Peng Dehuai; possono arrivare a gettare i tuoi figli in galera proprio come Ai Weiwei o Li Zhuang.

re il movimento “Cantiamo in gloria dei rossi e colpiamo i neri” ideato dal segretario Bo non basta a esentare i suoi sostenitori da punizioni future. Fino a che si collabora nella creazione di un diritto che permette alle autorità di violare la legge in nome della legge, ci si mette in una situazione in cui ognuno può arrestare il prossimo senza alcuna ragione legale valida.

Prima della Rivoluzione culturale, la

popolazione pensava (sbagliando) che le leggi irragionevoli fossero applicabili soltanto agli altri. In realtà vennero usate come prima cosa per sistemare i nemici politici: lo stesso presidente cinese Liu Shaoqi venne gettato in galera, dove morì miseramente. La conclusione è semplice: il grado di un politico non è Circa 2500 anni fa, in Cina, il pioniere mai abbastanza alto, e l’oro non è mai della legge Shang Yan creò il diritto ma abbastanza per metterlo al sicuro. non riuscì a evitare le sanzioni previste proprio dalla sua stessa legge. Sostene- Questo fu il caso di Zhou Bo, che diede un contributo significativo per stabilire la dinastia han 2300 anni fa. Zhou non puntava al potere, voleva soltanto andarsene in pensione da benestante. Eppure non poteva vivere in pace, nonostante i suoi grandi crediti con la patria e il suo semplice desiderio. E perché? Perché sapeva che avrebbe potuto essere messo da parte senza alcuna ragione. La gente, questo, lo capisce facilmente: sono questi geniali dirigenti che non lo capiscono. Hanno duplicato in maniera cieca gli errori fatti da altri geni diversi anni fa. Ma d’altra parte, a questo mondo esistono sempre degli idioti che si ritengono più intelligenti di tutti gli altri.

Durante la Rivoluzione culturale, persino l’allora presidente Liu finì in carcere per crimini che non aveva commesso

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

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Benedetto XVI, contrariamente alle attese, ha già fatto più viaggi del predecessore. È cambiato il compito del Papa?

E Ratzinger superò il record di di Luigi Accattoli omenica Papa Benedetto era a San Marino e Montefeltro, il 4 e 5 giugno aveva fatto un fine settimana in Croazia, il 7 e 8 maggio era stato ad Aquileia e Venezia: tre trasferte in due mesi. E ne ha annunciate altre sei entro l’anno: andrà a Madrid per la Giornata mondiale della gioventù (18-21 agosto), ad Ancona (11 settembre) per il Congresso Eucaristico nazionale, in Germania (22-25 settembre), a Lamezia Terme e Serra San Bruno (9 ottobre), ad Assisi (27 ottobre), in Benin (18-20 novembre). Nove viaggi in un anno e già sappiamo che andrà a Milano – per l’Incontro mondiale con le famiglie – il 3 giugno 2012. Ma quanto viaggia questo Papa che in tanti immaginavamo tendenzialmente sedentario al momento dell’elezione? La sorpresa di chi conta o viaggi è viva: sta viaggiando nei suoi primi sei anni di più del Wojtyla degli ultimi sei, che aveva la stessa età. Non solo, ma per numero di trasferte internazionali i suoi primi anni si possono benissimo paragonare ai primi del predecessore, che aveva vent’anni di meno. Sommando le trasferte italiane (23) e internazionali (20) compiute da Benedetto XVI da quando è Papa (sei anni e due mesi) abbiamo un totale di 43 viaggi. Calcolando nel Pontificato di Giovanni Paolo II un tempo equivalente, a partire dal 78° compleanno (che corrisponde all’età in cui fu eletto Benedetto), troviamo 9 trasferte italiane e 22 internazionali per un totale di 31. Dunque Benedetto batte Giovanni Paolo per 43 a 31. Il confronto è sbilanciato, stante la condizione di salute debilitata in cui era venuto a trovarsi – in quella stessa età – il Papa polacco. Proviamo dunque a cercare una riprova paragonando i due Papi viaggiatori nel periodo iniziale dei Pontificati. Tenendo fermo il periodo dei sei anni e due mesi vissuti fino a oggi da Benedetto

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e proiettandoli sul Pontificato nascente di Papa Wojtyla, otteniamo in esso un totale di 23 trasferte internazionali, paragonabilissimo alle 22 di Ratzinger.

Andrebbe precisato che in quei sei anni iniziali Papa Wojtyla fece anche 35 uscite in Italia (Papa Ratzinger 23) e che fu intralciato dall’attentato del maggio 1981 (lo fermò per sei mesi) e che i suoi viaggi internazionali, in quei primi tempi, erano di più lunga durata rispetto a quelli che sta facendo Benedetto. Il Papa viaggiatore resta e resterà pur sempre lui, almeno fino a quando non arriverà un altro “successo-

visitare – anche più volte – ogni Chiesa locale, per una sistematica mobilitazione della comunità cattolica mondiale. Il modo di viaggiare di Papa Ratzinger è più simile a quello di Papa Wojtyla che a quello di Papa Montini. Forse i suoi viaggi più simili a quelli di Giovanni Paolo sono i tre delle giornate mondiale della gioventù ma che si sono poi sviluppati anche come “visite pastorali” ai paesi ospitanti: Colonia 2005, Sydney 2008, Madrid 2011 (il prossimo agosto). E’ verosimile che egli non avrebbe inventato le Giornale mondiali della Gioventù se non le avesse ricevute in eredità dal predecessore, ma avendole avute come lascito privilegiato ha voluto portarle avanti ricavandone anche un motivo per viaggiare. Un’altra similitudine è possibile con i ritorni in patria: Giovanni Paolo nei primi sette anni di Pontificato tornò in Polonia due volte (1979, 1983), i ritorni in patria di Benedetto saranno tre il prossimo agosto. Il Papa polacco fu di aiuto al risveglio della Polonia e Benedetto confida che lo stesso possa avvenire – su altro fronte – per la sua patria con il dono provvidenziale di un Papa tedesco.

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Fatte le debite proporzioni di età e malattie (negli ultimi anni Giovanni Paolo II era provato da entrambe) stupisce l’attivismo del Pontefice: altri 9 viaggi previsti nel 2011 re” eletto in giovane età e altrettanto proiettato verso i “confini della terra”: egli fu eletto a 58 anni e compiva un ventennio di Pontificato quando arrivò ai 78 che è l’età di elezione di Papa Ratzinger. Ma sta il fatto che Benedetto XVI viaggia e come. Non avendo l’uomo Ratzinger lo stesso temperamento mosso che aveva Wojtyla, la conclusione non può che essere una: il viaggiare è divenuta una componente obbligata del ministero papale, forse anche a rimedio della crisi delle Chiese cristiane un po’ ovunque nel mondo. E’ verosimile che qualsiasi Papa nel prossimo futuro sarà indotto a viaggiare dall’esempio dei predecessori e dalle necessità della Chiesa, quale che sia la sua formazione o l’età di elezione. Paolo VI – inventore dei viaggi papali in epoca contemporanea – viaggiava occasionalmente, per attuare missioni simboliche verso grandi mete, in risposta alle nuove dimensioni della cattolicità (fu il primo Papa della storia a toccare tutti i continenti) e in applicazione alle indicazioni conciliari (andò a Gerusalemme, a Costantinopoli, a Ginevra e all’Onu). Giovanni Paolo invece viaggiava nell’intento di

Anche la Spagna ci può dire qualcosa: Benedetto vi andò nel 2006 per l’Incontro con le Famiglie, il novembre scorso per l’inaugurazione della Sagrada Familia e vi torna il prossimo agosto per la GmG. Paolo VI con i suoi viaggi internazionali toccò tutti i continenti e le mete simboliche che sopra ho ricordato, ma non tornò mai nello stesso Paese: ecco invece che Benedetto lo fa sull’esempio di Giovanni Paolo. Due volte Papa Ratzinger è andato nelle Americhe: in Brasile nel maggio del 2007 e negli Usa nell’aprile del 2008. Una volta è arrivato in Australia. È stato in Africa nel 2009 e vi tornerà il prossimo novembre. Come l’audace Wojtyla non ha evitato le mete geopolitiche più difficili: Turchia, Terra Santa, Cipro. Neanche le patrie del secolarismo l’hanno intimorito: abbiamo nominato la Germania e la Spagna ma va ricordato che è stato in Austria, in Francia, nella Repubblica Ceca, in Gran Bretagna. Egli – a modo suo – continua l’opera di Giovanni Paolo che pose il prestigio della figura papale al servizio della rivitalizzazione delle comunità cattoliche prese in una spirale recessiva di inedita portata storica. www.luigiaccattoli.it


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