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La sconfitta non può essere nemmeno presa in considerazione Winston Churchill

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 14 GIUGNO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I No ai quattro quesiti si fermano tra il 4 e il 5%. Casini: «Tutti questi Sì in realtà sono un no al governo»

La seconda spallata I cittadini non si astengono: in 27 milioni dicono no a Berlusconi Oltre il 57% degli italiani ha scelto di votare, contro le indicazioni del Cavaliere. Ancora decisivo l’apporto del Terzo Polo. Il Pdl fa finta di niente ma la Lega incalza: «Ora basta prendere sberle» 1 2 Minimizzare Bossi non può è irresponsabile: più permettersi Silvio è ormai di “tirare un pugile suonato a campare” di Giancristiano Desiderio

di Giuseppe Baiocchi

I referendum, che non erano politici, avranno grandi risvolti politici.

Il Senatùr lo sa: per la prima volta, in gioco c’è anche la sua leadership.

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Tutti gli occhi puntati sulla verifica parlamentare

Carroccio: «I conti il 22 giugno»

3 4 Anche la Chiesa Berlusconismo: festeggia: adesso perfino l’impegno morale i “liberi servi” ha pagato si arrendono di Luigi Accattoli

di Osvaldo Baldacci

Dopo le parole del Papa sul nucleare, i cattolici si sono spesi per il voto.

L’ultima resa è quella dei fedelissimi cresciuti nella stampa di famiglia.

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«Non vogliamo un’altra sconfitta», dice Calderoli. «Subito riforma fiscale e stop ai raid in Libia» Franco Insardà • pagina 5

La reazione serafica di Palazzo Chigi

E nasce il premier incassatore «Dal voto è arrivata un’indicazione chiarissima di cui terremo conto sicuramente» Marco Palombi • pagina 2

Anche la Turchia «molla» il regime di Damasco e dice sì a una risoluzione Onu

Ora Assad è come Gheddafi

Il tiranno spara sulla propria gente: il mondo deve intervenire Parla il politologo libanese Saad Kiwan

di Antonio Picasso

«È come per la Libia, questione di tempo»

artiamo da un presupposto: la rivolta in Siria è fallita. Un efficace rovesciamento di regime ha successo quando è fatto in maniera morbida (Praga, 1989), oppure si limita a scontri di piazza (Il Cairo). A Damasco la rivoluzione non è stata né di velluto, né i morti sono stati numericamente pochi come quelli egiziani. a pagina 10

P

di Martha Nunziata «Lo scenario che si prospetta adesso – dice Saad Kiwan, politologo libanese, Direttore del Center For Media and Cultural Freedon - è lo stesso della Libia». a pagina 10 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

113 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Ricordo di Attilio Piccioni

Lo stratega della libertà Casini, Forlani e Folli presentano oggi la biografia dell’ex leader Dc Maurizio Stefanini • pagina 8 19.30


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referendum

Dopo la sconfitta di Milano e Napoli

Il centrodestra non sa più cos’è l’Italia di Giancristiano Desiderio referendum, che non erano politici, avranno risvolti politici. Se è vero, come è vero, che il governo e la sua maggioranza erano in crisi prima del referendum, a maggior ragione è verissimo che lo sono ora. Come era già accaduto per il voto amministrativo a Milano e a Napoli, il presidente del Consiglio ha nuovamente dimostrato di non essere più in sintonia con niente. Le sue mosse non solo non incontrano né suscitano il vento favorevole degli elettori e dell’opinione pubblica ma, addirittura, lo fanno soffiare all’incontrario. Come il famoso treno dei desideri (Celentano sarà contento). In pratica, dai referendum non sarebbe dovuta arrivare nessuna spallata al governo, ma il governo che confidava nel pic-nic degli italiani in gita è sempre più bravo a infliggersi delle pesanti auto-spallate. Un po’ come le tremende bottigliate del popolare Tafazzi.

I

Il risultato più pesante per Berlusconi e la maggioranza che lo sorregge(va) è naturalmente dato dal quarto quesito, quello sul legittimo impedimento. Gli italiani - il popolo sovrano, secondo la definizione enfatica di cui abusa da Angelino Alfano - lo hanno abrogato: la legge è uguale per tutti. È questo, senza dubbio, il risultato più pesante perché è evidente che anche gli elettori del centrodestra hanno abrogato lo “scudo” pensato apposta per Berlusconi. Il problema più autentico del centrodestra è proprio qui: non si può trasformare la rappresentanza politica di questa area in un’oligarchia. A chiunque toccherà rappresentare il centrodestra - e qualunque cosa sarà il centrodestra - entrerà nuovamente in comunicazione con gli italiani solo e soltanto se si romperà il cerchio magico degli interessi personali e della casta che il berlusconismo, per ragioni di controllo e di patrimonio, prima ha tirato su e poi vi si è rinchiuso dentro. Dobbiamo riconoscerlo: il governo è stato bravissimo a mettersi in trappola da solo. L’idea di non dire nulla sui quesiti, di farli passare in cavalleria, di addormentare informazione e dibattito confidando nel sole, nel mare e nei monti si è rivelata un fiasco. Tutto sarebbe stato più giusto e normale se il governo su acqua e nucleare avesse preso la posizione più naturale: nel caso dell’acqua la difesa di una legge dello Stato e nel caso del nucleare da una parte la difesa della ricerca e dall’altra evidenziando l’esigenza sempre da soddisfare dell’energia che ci serve per andare avanti. Certo, l’opposizione di sinistra avrebbe attaccato accusando l’esecutivo di essere partigiano, ma il governo avrebbe avuto buon gioco nel ribattere dicendo di praticare solo la sua funzione istituzionale di governare. Invece, proprio questa è la tessera mancante: il governo è in vacanza da molto tempo. Stretti intorno a Berlusconi e alle sue inenarrabili avventure personali dai risvolti pubblici, ministri, sottosegretari, consiglieri, intellettuali hanno perso il “ben dell’intelletto” e il senso del “bene comune”. L’arte di governare è diventata l’arte di difendere Berlusconi. La particolarità della natura politica del Pdl, che è un partito a responsabilità limitata, ha fatto il resto. Oggi il ministro dell’Interno dice: «O una svolta o si andrà a votare». Meglio la seconda, ministro.

Un referendum torna a ottenere il quorum dopo sedici anni: oltre il 57% alle urne

Ventisette milioni di spallate I no ai quesiti tra il 4 e il 5%: il Pdl minimizza ma la Lega non ci sta: «Basta con le sberle». Terzo Polo: «Noi determinanti per il no al governo». Bersani: «Berlusconi, dimettiti!» di Marco Palombi

ROMA. Ci volevano i due tramontanti, il Cavaliere ed Umberto Bossi, per resuscitare il referendum, un istituto di democrazia diretta depotenziato da anni di disinteresse dei media, tradimenti della politica e abuso. Ieri, infatti, prima ancora del dato politico, ne va segnalato uno statistico: gli italiani assicurano il quorum ad un referendum per la prima volta dai 12 quesiti del 1995 (fatta eccezione per la consultazione confermativa sulla devolution del 2006, in cui però la soglia minima non c’era).

Pure i numeri sono in linea: anche sedici anni fa votò il 57-58% degli aventi diritto, quasi esattamente come oggi, come se questi anni in mezzo fossero stati solo una parentesi. Gli italiani – superando il black out informativo, il no all’election day, la scelta di una data estiva e gli inviti ad andare al mare del Tg1 – sono andati a votare per dire delle cose molto chiare, al di là dei tecnicismi: no alle centrali nucleari, gestione pubblica dei servizi idrici, basta con le leggi ad personam. Con i voti di questi ultimi due giorni, in sostanza, la maggioranza assoluta degli elettori (cioè quell’oltre 90% che ha votato “sì” ai quesiti) ha riscritto una scala di valori radicalmente altra rispetto al berlusconismo di questi ultimi tre anni. Ha buon gioco Pierluigi Bersani a sostenere che «questo è un referendum sul divorzio: il divorzio tra governo e paese», una battuta che è l’altra faccia della

sicumera con cui a palazzo Chigi i consiglieri del Cavaliere prevedevano un risultato favorevole ancora venerdì scorso («il quorum non ci sarà: vorrebbe dire che non capiamo niente del paese»). Fare i conti sulla portata della sconfitta del centrodestra versione Arcore è abbastanza semplice: domenica e lunedì hanno votato circa 27 milioni di italiani, il 95% dei quali ha bocciato tre leggi del governo, ma la coalizione di centrosinistra più larga (quella del 2006 dai comunisti a Mastella) prese 20 milioni, le opposizioni – quindi contando anche l’Udc - nel 2008 ne racimolarono meno di diciotto. Insomma qualche milione di elettori “berlusconiani”ieri e l’altroieri ha votato contro il premier, persino su un tema che il nostro considera centrale: la sua intangibilità rispetto ai magistrati. La mobilitazione è stata talmente alta da sterilizzare persino la criminale gestione del voto degli italiani residenti all’estero: il quorum c’è, anche se alla fine nessun loro voto sarà contato.

Ora la linea ufficiale del nostro esecutivo è sostenere che non è successo nulla: «Quando la Democrazia cristiana perse il referendum sul divorzio, poi governò per altri 20 anni», ha sostenuto bizzarramente Ignazio La Russa (forse dimenticando che Amintore Fanfani si dimise da segretario dc subito dopo quel voto). Altri, invece, hanno notato che in un mese Silvio Berlusconi ha


referendum

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La Chiesa esulta: l’impegno ha pagato Le feste di Arcore hanno mandato i cattolici alle urne. Anche quelli che votano a destra di Luigi Accattoli ufficialità ecclesiastica non aveva detto nulla sui referendum ma la Chiesa diffusa sul territorio aveva favorito la partecipazione e dunque ora anche quella Chiesa festeggia. L’aveva favorita per sostenere il Sì ai quesiti sull’acqua e sul nucleare, ma si può scommettere che – senza sbandierarla – anche l’avversione alla legge sul legittimo impedimento sia stata tra le motivazioni di quel favore. Il favore di buona parte del mondo ecclesiale al voto aveva poi, in questa tornata referendaria, un valore politico oggettivo: invitando a votare – come ha fatto la maggioranza della Chiesa diffusa – ci si esponeva in una scelta che aveva un carattere di diretta opposizione all’invito del premier e dei suoi a non votare. Aveva dunque un implicito carattere antiberlusconiano. Si può dedurne che d’ora in poi anche l’ufficialità ecclesiastica sarà meno reticente nelle questioni che coinvolgono le posizioni e la figura di Berlusconi, almeno per quegli aspetti (festini e delegittimazione della magistratura) che gli uomini di Chiesa da sempre riprovano ma dei quali cercano di non parlare.

L’

L’unica possibilità di procedere senza troppo arbitrio in questa lettura a caldo degli umori prevalenti negli ambienti ecclesiali è di attenersi alle prese di posizione degli ultimi giorni. Conviene proporne una rapida rassegna, partendo da quelle più chiare e più autorevoli. Per primo viene l’invito del Papa a “riflettere” sui pericoli della tecnologia nucleare e sull’opportunità di compiere – in sede Onu – dei passi di concertazione mondiale sulla ricerca di fonti di energia alternative a essa. Un “retroscena” del Corriere della Sera di sabato attribuiva agli ambienti berlusconiani la convinzione che quell’in-

vito – formulato da Benedetto giovedì 8 parlando a un gruppo di ambasciatori di vari paesi ricevuti per le credenziali – avrebbe potuto portare alle urne un 5% di elettori, mentre il dichiarato favore al voto del presidente della Repubblica ne avrebbe portati un 3% e l’appello di Celentano l’1%. Credo che l’incidenza diretta delle parole del Papa – che non parlava all’Italia e non si riferiva a scelte referendarie ma a concertazioni mondiali – sia stata minore rispetto a quella valutazione di sicuro polemica, ma ritengo che molto forte sia stato il loro effetto

ha detto: «Vi ricordo il dovere civico di oggi e domani. Anche il Papa ci ha invitato a riflettere sul nucleare».

Un cardinale della Curia Romana, l’africano Peter Turkson, in una conferenza stampa del suo «Consiglio della Giustizia e della Pace», senza parlare dei nostri referendum ha ricordato che l’acqua è «un bene comune» e anche le sue parole sono suonate come un incoraggiamento ai sostenitori dei due Sì in materia. Il cardinale Dionigi Tettamanzi che va a votare senza parole e l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia che ci va dicendo che «si tratta di temi molto importanti ed è giusto informarsi bene per dare un voto consapevole» sono gesti eloquenti. Molti vescovi – una ventina sono stati echeggiati dalla stampa nazionale – hanno dichiarato che sarebbero andati a votare e hanno detto che era importante farlo. Per lo più non sono entrati nel merito dei referendum ma essendoci una parte politica che invitava a non votare, il merito veniva da solo. Un testo di don Lorenzo Milani del 1955 che contiene le parole «L’acqua è di tutti» ha aiutato il quotidiano Avvenire a sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda. L’Azione Cattolica ha invitato a «un’ampia partecipazione» al voto. Le Acli hanno proposto il Si alle quattro schede. Analogo è stato il pressing svolto

Hanno pesato le parole del Papa sul nucleare. E forse adesso la Curia potrà dire più liberamente ciò che pensa dei comportamenti privati del premier

di “legittimazione” a parlare per i portavoce della Chiesa diffusa. Domenica sono stato a messa in una parrocchia di Osimo, nelle Marche, dove un parroco che gode di buon seguito popolare

assommato in sé due condizioni che spinsero, da sole, ben due premier alle dimissioni: Giuliano Amato dopo la sconfitta ai referendum del 1993 e Massimo D’Alema dopo quella alle amministrative. Per il Pdl, però, non se ne parla nemmeno: «Non si può dire che il dato di affluenza alle urne è talmente significativo che il governo se ne deve andare a casa: non si diceva che il tema era il merito delle questioni referendarie? Ora vogliamo rovesciare la cosa?», sostiene Claudio Scajola. Mentre il ministro della Difesa regala al paese un’altra perla: «Aver raggiunto il quorum è l’assoluta normalità, è merito della Cassazione che ha riammesso il quesito sul nucleare: quindi i risultati non hanno nessuna incidenza sul governo». La Lega, invece, non ci sta per niente a far finta di nulla (anche perché parecchi suoi pezzi grossi sono andati alle urne, Maroni e Zaia su tutti): «Alle amministrative due settimane fa abbiamo preso la prima sberla, ora con il referendum è arrivata la seconda sberla e non vorrei che quella di prendere sberle diventasse un’abitudine», ha scolpito Roberto Calderoli durante una riunione del Carroccio in via Bellerio. Il presidente del Consiglio, però, è in versione atarassica: «L’alta affluenza nei referendum dimostra una volontà di partecipazione dei cittadini alle decisioni sul nostro futuro che non può essere ignora-

ta» e quindi «governo e Parlamento hanno ora il dovere di accogliere pienamente il responso dei quattro quesiti». Indicazioni sulla giustizia comprese, si presume.

Resta che non solo il premier, ma pure Umberto Bossi aveva invitato gli italiani a non votare. Nel mirino, però, c’è il Cavaliere: «Non è più il premier – scrive il finiano Filippo Rossi sul suo Il futurista - Non rappresenta più il paese. Non ha proprio più nulla in comune con chi lo ha eletto e con tutti quelli che dovrebbe rappresentare». Dello stesso parere anche il segretario del Pd:

Quella posizione – tre Sì e attitudine defilata sul legittimo impedimento – è un po’la cifra di tutto il favore ecclesiale alla partecipazione al voto. Il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo parlando a un convegno Cei sul tema «Per una Chiesa custode della terra» non ha avuto difficoltà a evocare i referendum affermando che essi «richiamano l’urgenza e l’attualità del dovere dell’uomo di farsi carico della salvaguardia del Creato». Singoli preti qua e là per l’Italia e il comboniano Alex Zanotelli – che ha portato un 150 persone in piazza San Pietro – hanno detto di più. Il prete anticamorra Aniello Manganiello è arrivato a dire che «chi non va a votare in difesa dell’ambiente e del creato non è un buon cristiano». Ma qui ci interessano le posizioni che hanno trovato espressione nel tessuto ordinario della vita ecclesiale, non le punte polemiche. Quel tessuto ordinario a maggioranza vota a destra – così risulta da tutte le analisi sul voto cattolico degli ultimi quindici anni – ma in occasione di questi referendum ha respinto con una maggioranza forse ancora più consistente le indicazioni di Berlusconi e della Lega. Il vento nuovo si avverte anche negli ambienti di Chiesa, come del resto avevano già segnalato le inchieste d’opinione degli ultimi mesi sull’immagine “trasgressiva” delle feste di Arcore. www.luigiaccattoli.it

perde quella delle lobbies», sostiene Vendola, mentre Beppe Grillo ne approfitta per rimandare «affanculo i partiti» e Antonio Di Pietro incredibilmente si rifiuta di chiedere le dimissioni di Berlusconi («Continueremo a fare opposizione dura e ferma al governo ma non sui temi referendari: chiedere le dimissioni è una strumentalizzazione»). L’ex pm si rivolge evidentemente al Partito democratico, che le ha chiesto praticamente all’unanimità, e anche al Terzo Polo, secondo il quale «è ormai chiaro che la maggioranza e il governo sono totalmente sordi, incapaci di capire ciò che vogliono gli italiani», come hanno scritto in una dichiarazione comune Casini, Fini e Rutelli: «Nel raggiungimento del quorum siamo stati determinanti con la decisione di invitare tutti al voto – scrivono - Il Sì ai referendum è un No grande come una casa a questo governo. È tempo che Berlusconi ne prenda atto. Minimizzare, come ha fatto dopo le amministrative, sarebbe irresponsabile e dannoso». È arrivato, ha spiegato più tardi Casini, «un segnale forte, serve un atto di coraggio: aprire una fase nuova con un governo di responsabilità». Di Pietro però, come dice in continuazione, non vuole mettere il cappello sui referendum, vuole metterlo sui voti: lui d’altronde, come Vendola e Grillo, compete per la leadership dell’opposizione, mica per il governo.

Il presidente del Consiglio fa finta di niente: «L’alta affluenza dimostra una volontà di partecipazione dei cittadini alle decisioni sul nostro futuro che non può essere ignorata» «Credo che ormai non sia neanche più corretta la discussione se ciò che fa Berlusconi è produttivo o controproducente, la situazione per lui è più grave: sta diventando irrilevante. Uno che è al governo dovrebbe accorgersi che quando dice una cosa agli italiani entra da un orecchio ed esce dall’altro». I referendari della prima ora – che quanto a partiti vuol dire Idv, Sel, comunisti e Movimento 5 Stelle – ovviamente festeggiano, ma con differenze interne: «Oggi vince l’Italia dei beni comuni e

da Famiglia Cristiana che la settimana scorsa aveva la copertina con il titolo «L’acqua bene di tutti». Il presidente della Fisc – Federazione dei settimanali cattolici – Francesco Zanotti intervistato dalla Radio Vaticana ha invitato a tre Sì mantenendosi cauto sul legittimo impedimento: e si sa quanto capillare sia la presenza dei settimanali diocesani in tutta Italia.


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referendum

Il Carroccio è allo sbando quasi come il Pdl: l’alleanza con Berlusconi pesa sempre di più sulla base che chiede novità

Enigma Ultimatum

I leghisti hanno promesso fuoco e fiamme a Pontida. Vogliono subito la riforma fiscale e lo stop ai raid in Libia. Ma Bossi sa che ormai la sua leadership è in discussione e quindi tutti si chiedono: passerà dalle minacce ai fatti? di Giuseppe Baiocchi a seconda ondata, forse meno inattesa della prima, è piombata sul quadro politico. I contenuti dei quesiti referendari hanno perso ogni significato rispetto al valore emotivo e politico di cui l’appuntamento è stato caricato. E si aprono scenari sicuramente nuovi, con un processo di accelerazione repentina che appariva impensabile all’inizio della primavera.

L

Governo e centrodestra sono certamente nella tempesta. Ma con diverse connotazioni. Infatti il Pdl appare ormai come un pugile suonato. E lo stesso Berlusconi, che non ha mai smarrito la tempra e la tenacia del combattente, sembra paralizzato dalla scoperta dolorosa di aver perduto il consenso diffuso, di ritrovarsi imnell’esatto provvisamente contrario del mitico Re Mida, che trasformava in oro tutto quanto toccava. E il suo parti-

to non è da meno: lacerato tra interessi e lobbies in conflitto tra loro, stretto in una Corte di palazzo che ha perduto il polso del Paese reale, compreso quel vasto arcipelago di moderati che era il suo naturale elettorato di riferimento, appare consumarsi in una serie di recriminazioni reciproche e costretto dalla gravità delle circostanze politiche a mostrarsi comunque unito, sotto la provvisoria e tardiva gestione di Angelino Alfano.

Chi invece cerca di reagire è a suo modo la Lega. Sulla quale si appuntano tutte le aspettative di chi crede in un deciso mutamento del quadro politico soprattutto in vista dell’appuntamento di Pontida, domenica prossima. Un raduno che, come ai tempi della prima espansione del Carroccio, non avrà solo un significato simbolico, ma lascerà tutti in attesa con il fiato sospeso. Si rincorrono al ri-

guardo le voci più disparate: dall’annuncio di una rivolta fiscale del Nord fino all’ipotesi del ritiro del leader e padre-padrone del movimento, ormai stanco e indebolito dalla malattia dopo una vita passata e spesa tra pane e politica. La Lega non è più da tempo il monolite compatto e fedele: e tuttavia proprio lo stesso Bossi è pienamente consapevole che, oggi più che mai, gli tocca la respon-

Nel futuro c’è sicuramente un ritorno al movimentismo delle origini

sabilità di indicare una prospettiva, di tracciare una strada e di rassicurare anche emotivamente un popolo di militanti scosso e sorpreso dall’imprevista caduta di consensi alle recenti amministrative e smarrito di fronte agli scenari politici in movimento e ben poco appagato dal ruolo di governo.

Semmai l’angoscia visibile tra i quadri periferici e la le-

gione di amministratori locali è quella di non finire coinvolti nella crisi (anche di consensi) dell’alleato stabile e di subirne l’abbraccio mortale. Oltretutto di ritrovare nell’immaginario collettivo la Lega «impiccata al vecchio» quando ancora non si è compiuta la tanto inseguita rivoluzione federalista e il suo impatto positivo sulla vita della gente. La modernità sembra passare altrove e anche la protesta e la “voglia di nuovo”si manifestano confusamente in altre vie bypassando il solito collettore verde-padano. Non è un caso che tocchi al ministro dell’Interno Roberto Maroni uscire allo scoperto, porre condizioni pesanti a Berlusconi e sfidare (per ora amichevolmente) Tremonti sulla riduzione delle tasse e su più coraggiose riforme economiche. Il protagonismo di Maroni non è mai casuale o solitario: con qualche voluta ambiguità anticipa


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Calderoli si fa portavoce del sentimento leghista e dà appuntamento a Pontida per domenica prossima

«Siamo stanchi di continuare a prendere delle sberle» Bossi critica il Cavaliere: «Ha perso la capacità di comunicare alla tv». Casini: «La Lega si svincoli, serve una fase nuova» di Franco Insardà

ROMA. «Alle Amministrative due settimane fa abbiamo preso la prima sberla, ora con il referendum è arrivata la seconda sberla e non vorrei che quella di prendere sberle diventasse un’abitudine... Per questo domenica andremo a Pontida per dire quello che Berlusconi dovrà portare in Aula il 22 giugno, visto che vorremmo evitare che, in quanto a sberle, si concretizzi il proverbio per cui non c’e’ il due senza il tre...». Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione e coordinatore delle segreterie regionali della Lega, non ci sta nel ruolo dello sconfitto e reagisce così prima di iniziare la riunione nella sede della Lega in via Bellerio per discutere l’esito dei referendum. Con lui, dalle prime ore del pomeriggio, Umberto Bossi, il presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, e il capogruppo della Lega al Senato, Federico Bricolo. Alla chiusura dei seggi è arrivato anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Pier Ferdinando Casini, intervistato da La7 conferma: «La sberla vera l’ha presa la Lega. Per salvare il suo insediamento politico e sociale la Lega deve svincolarsi da questo equilibrilio politico». Casini ha anche risposto a Maroni che aveva dichiarato che al governo non serve l’Udc: «Lo ringrazio, ma mi sembra la volpe e l’uva: non ci passa dall’anticamera del cervello di unirci ad una coalizione politica barcollante di cui non condividiamo nulla. Con questo equilibrio politico non saranno capaci di realizzare convergenze proprie, vivacchieranno fino alla fine della legislatura. Secondo me al Paese serve un atto di coraggio e una strada nuova: un governo di responsabilità più ampia, perché non possiamo continuare a vivere tra guelfi e ghibellini». Nonostante i principali esponenti del governo abbiano ripetuto per giorni, forse per esorcizzarne il rischio, che il raggiungimento del quorum non avrebbe avuto alcun significato politico, i risultati che sono usciti dalle urne difficilmente non avranno effetti sulla maggioranza. I riflettori sono tutti puntati sulla Lega. E ora il primo obiettivo di Umberto Bossi è il raduno di Pontida per iniziare a recuperare il consenso perduto. Un appuntamento a cui vuole arrivare preparato, giocandosi la carta della riforma fiscale come promessa da mantenere con il popolo padano. «A Pontida - ha detto il Senatùr - tireremo fuori la soluzione per trovare i soldi, e riuscire a fare la riforma fiscale che aiuti le nostre imprese. I soldi per fare la riforma ci sono basta chiudere le missioni all’estero, a partire da quella in Libia costata un miliardo di euro».

Nella mattina di ieri Roberto Maroni, dalle colonne del Corriere della Sera aveva espresso lo stesso concetto, lan-

ciando un vero e propio ultimatum: la Lega non è disposta a tirare a campare. Il titolare del Viminale ha esposto quali sono i nodi che il Cavaliere,“con coraggio”, deve affrontare per continuare ad avere l’appoggio del Carroccio: il rilancio dell’economia, attuando la riforma fiscale e il sostegno alla famiglia, e la Libia, chiedendo alla comunità internazionale di sospendere i bombardamenti e riprendere delle trattative diplomatiche per bloccare l’esodo di profughi.

Maroni: «Il 22 giugno il premier si impegni in Parlamento su fisco e immigrati o si vada a votare» Come ogni ultimatum che si rispetti Maroni ha indicato anche il termine: il 22 giugno davanti alle Camere, altrimenti non ci sono alternative al voto. Il ministro leghista non ha lasciato spazio a nessun altra possibilità di governo tecnico o istituzionale. Maroni conosce bene la sua gente e sa che senza uno scatto da parte del governo il rischio, anzi la certezza, è quello di perdere consensi. Radio Padania negli ultimi mesi è stata una sorta di cartina di tornasole degli umori

del popolo padano e con l’appuntamento di Pontida alle porte è meglio far salire la tensione della “Lega di lotta”. La batosta elettorale delle ultime amministrative ha lasciato il segno e il Carroccio ha cercato di recuperare i voti persi, anche con il tentativo di sganciarsi dalla linea governativa e dichiarare timidamente di essere d’accordo con alcuni quesiti referendari, nonostante il gruppo dirigente avesse lasciato libertà di coscienza ai suoi elettori. Ma i militanti nelle regioni “leghiste” sono andati a votare numerosi e con loro anche il governatore veneto Luca Zaia che ha detto: «Ho votato da cittadino, non da presidente della Regione». Ma come ha fatto notare Antonio De Poli, portavoce nazionale dell’Udc e segretario regionale del Veneto ha «vinto la partecipazione e sono state persino ignorate le indicazioni del premier Berlusconi e del leader del Carroccio Bossi. L’Udc, alla vigilia del voto, aveva invitato tutti a partecipare recandosi alle urne. I dati sul quorum ci danno ragione. La voglia di partecipare ha prevalso su tutto, anche su chi voleva distogliere l’attenzione non garantendo un’adeguata informazione nei media nazionali. Altro che l’invito del Tg1 di andare al mare: questo risultato è la dimostrazione che un’alternativa all’Italia di Berlusconi esiste e può vincere». Sempre ieri mattina, dopo che i dati sull’affluenza di domenica indicavano vicino il superamento del quorum, Umberto Bossi durante l’inaugurazione di una sede leghista a Lesa, in provincia di Novara, ha detto, con il suo stile molto franco: «Berlusconi ha fatto poca pubblicità chiara perché doveva dire che questo referendum portava un po’ di miliardi nelle casse della sinistra. Ha perso la capacità di comunicare alla tv, questa è la semplice verità e la gente è caduta nella trappola».

La Lega in marcia verso Pontida, nel tentativo di riprendere le fila del discorso con i suoi elettori, cavalcando i temi classici che in questi anni le hanno consentito di veder aumentare i propri consensi, elezione dopo elezione: su tutti l’atteggiamento xenofobo e la tanto sbandierata sicurezza dei cittadini. Al quale si aggiunge quello del federalismo fiscale, molto sentito soprattutto in considerazione del fatto che il Carroccio, oltre ad amministrare in molti comuni del Nord, l’anno scorso ha conquistato Piemonte e Veneto. Senza tralasciare quella riforma fiscale che potrebbe permettere al Carroccio di recuperare quel “popolo delle partite Iva”che in questi anni è stato uno dei punti di forza e che, deluso dal governo, ha mollato anche la Lega.

la tendenza che poi Bossi disegnerà pubblicamente come complessiva linea politica per tutto il movimento. E se Maroni insiste, come ha fatto da diversi mesi, sul sostanziale “smarcamento” dal Cavaliere, è anche l’uomo che, per ruolo istituzionale, affronta e conosce più in profondità le ragioni del malessere e del disorientamento della base leghista: dal tormento dei sindaci virtuosi prigionieri del rigido “patto di stabilità” alle nuove ondate immigratorie all’inutilità dell’Europa, più incline a sganciare bombe che a dividere i profughi.

Chi scrive non ha il dono della profezia, ma non è impossibile presumere che Bossi sia costretto a riprendere in mano la linea di una autonoma politica estera, abbandonata anche come elaborazione culturale da almeno un decennio. Globalizzazione e interdipendenza fanno sì che si soffrano in Italia gli effetti devastanti di processi che si svolgono altrove e che spiovono all’interno con pesanti conseguenze: dalla crisi finanziaria internazionale all’instabilità sull’altra sponda del Mediterraneo alla frequenza dell’arrivo dei barconi a Lampedusa. E, forse, il paradosso più doloroso per la Lega è che in tutta Europa avanzano nelle urne (i casi più recenti la Finlandia e il Portogallo) forze localiste e generalmente conservatrici che hanno assimilato e spesso fatto proprio i motivi forti dell’ubi consistam della Lega e del suo ormai lungo radicamento popolare. E quando il “contagio” si diffonde (dai nazionalisti scozzesi fino alla Francia, non immune dalle sirene del lepenismo di seconda generazione), invece proprio il Carroccio sembra accusare vistosamente impensate sconfitte elettorali e larga incertezza sull’esperienza di governo. Bossi sa bene che la Lega non può “tirare a campare” e che il movimentismo resta nel Dna del partito che ha fondato e fatto crescere: e nella natura profonda del Carroccio resta forte una vena di “pacifismo localista” che è stato sfregiato e contraddetto dall’ambigua e misteriosa guerra con la Libia (che oltretutto costa già qualche miliardo, sottratto a Tremonti per possibili interventi riformatori). Pur coltivando vie secondarie (come la riforma della legge elettorale in senso proporzionalista o il rapporto con il Colle se si profilerà un diverso assetto di governo) non mancheranno il rifiuto della guerra e la riduzione delle missioni militari nell’“ultimatum” che lancerà al Cavaliere dal palco di Pontida.


referendum

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Dopo le amministrative, i referendum. E così nel partito del premier volano gli stracci

La Fukushima del Pdl Per sdrammatizzare, Berlusconi fa battute sul bunga bunga negando la valenza politica del voto referendario. Nel centrodestra però c’è chi si scopre improvvisamente antinuclearista e chi approfitta per regolare vecchi conti di Riccardo Paradisi el Pdl solo Silvio Berlusconi è convinto che il raggiungimento del quorum referendario non costituisca la seconda spallata contro il governo e contro la sua leadership. Dimenticando due particolari non accessori: il primo è che uno di questi referendum riguarda una legge come il legittimo impedimento che si connette direttamente alla sua vicenda giudiziaria e alla sua figura politica; il secondo è che è stato proprio lui a definire inutili questi tre referendum, a far passare la consegna di ignorare ufficialmente l’appuntamento del 12 e 13 giugno.

N

Nel Pdl la consapevolezza che le cose stiano così, che cioè anche il voto referendario, dopo quello amministrativo, rappresenti un nuovo e ulteriore colpo alla maggioranza, è più diffuso di quanto non appaia pubblicamente. Si, certo, anche Bossi continua a dire che si trattava di referendum

inutili ma aveva fatto sapere, per precauzione, che quello sull’acqua e quello sul nucleare lo interessavano e un suo ministro, Roberto Maroni, a votare c’è andato. Non solo: quando Bossi vede avvicinarsi il raggiungimento del quorum dice, senza mezzi termini, che Berlusconi non sa più comunicare con gli italiani.

E forse ha ragione visto che appreso il risultato dei referendum, tra una battuta e l’altra sul bunga bunga, il premier dichiara: «A seguito di una decisione che stanno prendendo in queste ore gli italiani dovremo dire addio all’opzione delle centrali nucleari e dovremo impegnarci fortemente nel settore delle energie rinnovabili». Come se non fosse stato il governo a frenare sulle rinnovabili, adducendo, attraverso il ministro Romani, anche dovizia di argomentazioni. Comunque se il presidente leghista della regione Piemonte

Roberto Cota continua a recitare la formula d’ordinanza – «la valenza di questi referendum non è contro il governo» – il giudizio del vicepresidente della Camera Maurizio Lupi è più prudente: «Abbiamo lasciato libertà di scelta fin dall’inizio. Peraltro so che altri amici del partito e del centrodestra hanno votato e che molti hanno votato ”no”». Ecco. Il dissenso interno - fino a ieri catacombale -ora diventa una risorsa; la dimostrazione

Alla maggioranza parlamentare non corrisponde più quella nel Paese

che all’interno del Pdl c’erano anche idee e posizioni che poi al referendum hanno vinto. Un esponente del Pdl come il romano Fabio Rampelli arriva addirittura ad accreditare alla sua area il merito di aver portato molti elettori di centrodestra alle urne. E anzi, ancora a urne aperte, dichiara: «Se non sarà raggiunto il quorum, la responsabilità sarà esclusivamente di quella sinistra che ha tentato in ogni modo di politicizzare i referendum, Bersani in testa. In questi giorni abbiamo incontrato un solo ostacolo: il timore degli elettori che la vittoria dei si sul nucleare e sull’acqua potesse essere strumentalizzata politicamente contro Berlusconi».

Alla luce del risultato referendario Rampelli azzarda anche una curiosa analisi : «La vera notizia che in molti fin qui hanno tentato di oscurare è che il quorum si raggiunge con la partecipazione al voto della maggioranza di elettori

del centrodestra. E, quindi, ogni strumentalizzazione politica è destinata a spiaggiarsi sull’implacabile logica dei numeri. La sinistra ha totalizzato nelle ultime elezioni politiche circa 17 milioni di voti. Una parte di questi elettori ovviamente non avrà votato, talchè si può dedurre che circa 10 milioni di elettori di centrodestra hanno consentito il superamento del quorum». Ecco, non viene in mente a Rampelli che come per le amministrative anche gli elettori di centrodestra hanno voltato le spalle a Berlusconi e al Pdl. Che s’è rotta una cinghia di trasmissione, che a una maggioranza istituzionale nel Paese non corrisponde più una maggioranza politica. Nella logica dell’appropriazione Daniela Santanchè va addirittura oltre: «Se la scelta dei cittadini va contro il nucleare direi che la loro scelta è in linea con quella del governo perché noi abbiamo già abrogato quella che era la costru-


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Dopo lo schiaffo di Milano e Napoli, l’ennesima sconfitta di un Cavaliere ormai al tramonto

E anche i “mitra à penser” del berlusconismo si arrendono Belpietro, Ferrara, Sechi e Feltri. L’analisi del voto degli intellettuali fedeli al premier non lascia troppi dubbi: «Il tempo è scaduto» di Osvaldo Baldacci ono stati per tre lustri l’avanguardia del berlusconismo. Spesso hanno dettato la linea più ancora degli esponenti politici. Oggi si sono prima stretti a quadrato intorno al leader assediato dagli scandali, ma a un certo punto hanno iniziato a sentire gli scricchiolii. E hanno rispettato il loro ruolo di menti pensanti, di intellettuali spesso armati ma mai ignavi all’interno del perimetro della maggioranza. Che sia fiuto politico, istinto di sopravvivenza oppure capacità di visione, fatto sta che i direttori dei principali giornali del centrodestra stanno lanciando chiari avvertimenti e segnali di insofferenza e stanno iniziando a guardare oltre Berlusconi. Forse un pelo troppo tardi, ma erano troppo coinvolti da protagonisti nella fase precedente per accettare di uscirne senza lottare: non sarebbe stato da galantuomini.

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Hanno voluto fare fino in fondo la loro parte, hanno acceso tutte le spie di allarme che potevano, hanno indicato le vie, hanno avvisato il Cav di cambiare in tempo rotta, hanno chiesto ai cittadini-lettori-elettori di fare uno sforzo per continuare a sostenere la baracca dando al contempo al capo segnali di richiesta di operatività. Ora però, traditi in molte delle loro stesse richieste, non possono stare a guardare la casa che crolla. Anche perché se tenevano tanto a Berlusconi, tengono ancor di più al centrodestra, e se fino a poco tempo fa tendevano a identificare le due realtà, oggi anche a loro è evidente che non è così, e che per salvare il secondo occorre forse prendere atto del tramonto del primo. E dopo il voto amministrativo il referendum lo conferma: diciamo la verità, come hanno fatto anche Ferrara, Sechi, Feltri e Belpietro, al raggiungimento del quorum un bel contributo lo ha dato anche Berlusconi (e Bossi). Moltissimi hanno votato più contro il premier che nel merito dei quesiti. Ugualmente, il fatto che al referendum si sia espressa contro la linea del premier ben più della metà del corpo elettorale, beh, è un dato assolutamente superiore ai risultati di qualunque recente elezione politica. Per il direttore di Libero Belpietro, ieri in tv commentando in presa diretta i risultati, è evidente che c’è una disaffezione degli elettori dal centrodestra, elettori che a suo dire non vanno a sinistra. Cosa che ha un che di ancor più grave perché è proprio un voto “contro”. Belpietro, insistendo in un ottimismo di facciata, ha ribadito che la sberla, l’ennesima, potrebbe essere salutare qualora, parole sue, Berlusconi recepisca il messaggio e dia se-

gni di essere ancora in sella, ancora capace di rispondere alle richieste dell’elettorato, «con la riforma fiscale o altro». Altrimenti, sono sempre parole di Belpietro a La7, si va inevitabilmente verso una secca sconfitta politica. Giu-

Il direttore del “Foglio”: «Il governo purtroppo ha deciso di non cambiare»

liano Ferrara già nei giorni scorsi aveva convocato e guidato l’adunata dei “servi liberi”: Berlusconi e il governo devono radicalmente cambiare rotta, smetterla di occuparsi degli affari pro-

pri e iniziare a occuparsi seriamente dei problemi del Paese, anche se per salvare la nave occorre cambiare capitano. Ieri sul Foglio Ferrara si è spinto a parlare apertamente di uscita dal berlusconismo e addirittura ha già chiesto agli intellettuali avversi di sforzarsi di giudicare con maggior equanimità e magnanimità l’era trascorsa (e quindi finita). D’altro canto al Tg3 Ferrara ieri è stato molto molto esplicito: «Salvo la riserva di rilanciare il governo con una riforma fiscale, Berlusconi e il suo gruppo dirigente hanno deciso di non cambiare, di continuare così e io sono in profondo e radicale dissenso. Berlusconi è sotto assedio ma non vedo una classe dirigente determinata a fare qualcosa di diverso per tornare a parlare agli italiani, non vedo questo coraggio. Anche sui referendum - continua Ferrara - è stata data una lettura politicista. Mi viene da dire: buona fortuna».

Più esplicito il direttore del Tempo Mario Sechi, che invoca un Tea Party per rinnovare il centrodestra incapace di rilanciarsi e di comprendere i ripetuti segnali di sconfitta: «Dopo la caduta di Milano e Napoli, un quorum centrato e una strabordante vittoria dei Sì sarebbe un colpo enorme sul governo. Proveranno a minimizzare, a dire che non cambia nulla e va tutto bene madama la marchesa. Errore già fatto per le amministrative... le cuoia si tirano lo stesso, ma con una lenta e dolorosa agonia che porterà dritta all’implosione del centrodestra e a una crisi paragonabile a quella dei conservatori inglesi dopo la Thatcher». «Ovviamente le mie analisi sono apparse “eretiche”ai realisti più realisti del re che s’affaccendano nel Pdl e forse persino a Berlusconi, che un tempo avrebbe partecipato a quell’happening raccogliendo la sfida, mettendosi in gioco e cavalcando un Tea Party che ora, con lui o senza di lui, prenderà vita contro le oligarchie inamovibili e irresponsabili del suo partito». «Quorum o meno, siamo di fronte a un problema che non è più eludibile: la spinta propulsiva del berlusconismo si sta esaurendo». Sulla linea del Piave solo Feltri, ma viste certe sferzate che ha dato in precedenza è forse più che altro un vezzo: in tv ha sostenuto strenuamente che nel voto referendario ha vinto la paura atavica e irrazionale in merito agli slogan passati sul nucleare e sull’acqua, provando a dire che però non si è trattato di un voto pro o contro Berlusconi e il governo. Non sono certo che lo pensasse davvero. Intanto ribadisce che Berlusconi e il centrodestra debbono individuare «due o tre punti e, impegnandosi alla morte, arrivare al 2013 in condizioni di vincere le elezioni».

zione dei siti nucleari». Insomma «il referendum in parte è stato già fatto dal governo» è la tesi del sottosegretario. Non la pensa così il leader della Destra Francesco Storace che invece accusa il centrodestra di aver regalato il copyright della vittoria referendaria alla sinistra«È una pazzia regalare la palma del vincitore a questa sinistra. Anche a destra c’è una coscienza ambientalista». «Vale la regola fiat voluntas populi» dice invece salomonico Maurizio Sacconi. «La riflessione principale dovrà essere svolta soprattutto sulla diffidenza verso la gestione privata dei servizi di pubblica utilità».

Nessun messaggio politico, però, secondo Sacconi, è stato rivolto dagli elettori al presidente del Consiglio: «Il voto ha visto convergere elettori di diverso segno. Non complica e non agevola il lavoro della maggioranza, che ha di fronte a sé la responsabilità precisa dei provvedimenti che dovrà assumere per la stabilità e per la crescita». Ma è il quotidiano online del Pdl Il Predellino di Giorgio Stracquadanio a far emergere senza troppa diplomazia il disagio e il nervosismo che percorre il Pdl. E ad ammettere senza nascondersi dietro un dito, che il Pdl sta collezionando una sconfitta politica dietro l’altra. «La realtà quotidiana porta alla sistematica distruzione della natura stessa del Pdl... Mentre si discute se occorre più coraggio o più prudenza, si perde la cognizione della realtà, mentre la realtà procede a smentire programmi e impegni assunti con gli elettori». È colpa di Giulio Tremonti tutto questo? si chiede poi il Predellino: «No, è colpa di tutti noi. È colpa di chi non ha voluto il coraggio di discutere di abolizione delle province e oggi chiede coraggio agli altri; è colpa di chi, in Parlamento e nel Pdl, non ha saputo alzare la voce contro una mutazione genetica del centrodestra e della sua trasformazione in una riedizione di quella partitocrazia vorace contro la quale Bossi e la Lega Nord, Berlusconi e Forza Italia sono nate». Ma il più definitivo di tutti è l’ex ministro allo Sviluppo Claudio Scajola: per l’esponente azzurro il voto referendario è una bocciatura del governo: «Sul piano politico non c’è dubbio che è un segnale di forte disagio che l’opinione pubblica dimostra verso chi governa». Minimizza invece con un paragone ardito il coordinatore del Pdl Ignazio La Russa «Voglio ricordare che la Democrazia Cristiana perse nel 1974 il referendum sul divorzio, poi governò altri vent’anni».


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a scelta occidentale. Vita e opere di un padre della Repubblica. È il sottotitolo del libro che Gabriella Fanello Marcucci ha dedicato a Attilio Piccioni per i tipi di Liberal (524 pagine, 22,00 euro), e che viene presentato oggi alla 17 all’Istituto Luigi Sturzo (Via delle Coppelle 35, Roma). Moderatore Francesco Malgeri; interventi di Pier Ferdinando Casini, Stefano Folli e Arnaldo Forlani. Una biografia che parte appunto dal sottolineare il ruolo internazionale e interno di un protagonista della Storia nazionale, per la ricostruzione di un Sistema Paese che dittatura, guerra e sconfitta avevano ridotto ai minimi termini.

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Ma quella di Attilio Piccioni è una storia esemplarmente italiana a tutto campo, che proprio per i vari luoghi della Penisola in cui si è svolta acquisisce un contenuto particolare, nella ricorrenza per i 150 anni dall’Unità. Si inizia da Poggio Bustone: paesino a 700 metri sul versante ovest del massiccio del Terminillo, nell’attuale provincia di Rieti, prima dell’Unità al confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Nel XIII secolo il villaggio era stato un centro della predicazione di San Francesco; nel XX secolo sarebbe diventato famoso come luogo di nascita di Lucio Battisti. Ma nel 1892, il 14 giugno, lì nasce il nono figlio dei coniugi Giuseppe Piccioni e Gaetana Fabiani: due maestri elementari, lui umbro di Foligno, lei di un paesino sull’Appennino reggiano. La famiglia vive in una casa che ha al piano terra una grande cucina con un imponente camino, e in cui nei mesi più freddi i genitori

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La biografia di Gabriella Fanello Marcucci, che sarà presentata oggi a Roma, ricos assegnano è a Cascina Costa: al confine tra la provincia di Varese e il Piemonte. Per questo inizia a gravitare su Ulisse, alla cui casa si appoggia durante licenze e permessi.Trasferisce a Torino anche la sua iscrizione all’Università; a Torino si laurea in Giurisprudenza; a Torino conosce e sposa Carolina Marengo, torinese per nascita e per padre ma di madre pistoiese; e a Torino inizia subito a lavorare nello studio legale di un avvocato che è anche un esponente del movimento cattolico. A Torino nasceranno tutti i suoi figli. E quando nel ’19 nasce il Partito Popolare Italiano, al I Congresso di Bologna Attilio è delegato della sezione di Torino. E quando dopo le politiche il segretario della sezione torinese deve dimettersi perché eletto deputato, prende il suo posto. Leader dei popolari torinesi, Piccioni a livello nazionale fa riferimento alla corrente di sinistra, e sarà uno dei sei eletti per quella componente al Consiglio Nazionale dopo il II Congresso di Napoli del ’20. E a cura della sezione che dirige fa pubblicare un giornale che appoggia le occupazioni delle fabbriche. Ma a Torino per via della legge elettorale contratta invece una lista comune con i liberali, che il 7 novembre 1920 sconfigge una lista socialista egemonizzata da quel gruppo di Gamsci che di lì a poco uscirà dal partito, per fondare il Pci. Tra i 64 eletti ci sono 30 popolari, e tra questi anche Attilio Piccioni, avvocato. I popolari costituiscono comunque un gruppo autonomo, e Piccioni diventa assessore al Lavoro. Ostile ai comunisti, il Ppi

La straordinaria lezione di uno dei padri della nostra Repubblica, che si dedicò anima e corpo ai principi e ai valori della libertà: Attilio Piccioni In queste pagine: la copertina del libro di Gabriella Fanello Marcucci “Attilio Piccioni. La scelta occidentale” (Liberal); la testata “Il pensiero popolare”; alcune immagini di Attilio Piccioni con Giulio Andreotti, con Aldo Moro, con De Gasperi e con le figlie

Lo stratega del

di Maurizio invitano a venire gli scolari, per poter fare lezione in un ambiente più accogliente delle gelide aule scolastiche. C’è dunque un corto circuito tra casa e scuola che si cumula all’altro corto circuito tra genitori e insegnanti, e che probabilmente contribuisce alla buona riuscita dei figli della coppia Piccioni e Fabiani negli studi. Giovanni, il primogenito, diventa sacerdote a Pistoia: impegnato nel nuovo movimento della Dc di don Romolo Murri, e consigliere comunale. Il secondogenito Ulisse fa il liceo anche lui a Pistoia, si iscrive alla Facoltà di Scienze Fisiche e Matematiche a Bologna, milita nell’anarchismo, passa a Giurisprudenza, inizia a lavorare nella struttura periferica del ministero dell’Interno, che lo manda a Torino, dove consegue la laurea. I due fratelli avranno entrambi importanza nel futuro di Attilio, anche se per il momento lui va prima al liceo a Rieti, e poi alla Facoltà di Giurisprudenza di Roma. In origine simpatizzante per un vago socialismo umanitario, anche lui dopo aver ascoltato un comizio su una piazza di Rieti inizia a orientarsi verso il movimento cattolico. Il che non gli impedisce però di essere interventista. Volontario nei bersaglieri, dopo una degenza a Gorizia per una ferita viene ammesso nella nascente Aeronautica, dove diventa prima pilota e poi istruttore. Il campo di addestramento dove lo

torinese guarda con sempre maggior preoccupazione ai fascisti e alle loro incursioni violente, malgrado dopo la Marcia su Roma il Ppi nazionale partecipi invece al governo con Mussolini. Ma il 2 luglio del ’23 il Consiglio Comunale è sciolto di autorità dal prefetto. Un anticipo dell’annullamento della democrazia che verrà di lì a un paio di anni. Quando la dittatura si consolida Attilio Piccioni è ormai schedato come antifascista irriducibile. E ciò crea imbarazzi al fratello Ulisse, che ormai è alla dirigenza della Pubblica Sicurezza di Torino. È questa situazione che, dopo la nascita del quarto figlio, porta Attilio Piccioni al nuovo cambio di scena, con la decisione nel ’26 di trasferirsi a Pistoia. Lì le autorità non lo conoscono, ma in compenso c’è ancora il ricordo del fratello Giovanni, anche se ormai è divenuto vescovo di Livorno. A Pistoia ci sono poi un altro fratello e i parenti della moglie, mentre un’altra sorella vive nella vicina Firenze, e i genitori stessi si sono trasferiti a Livorno da Giovanni. Inoltre a Firenze ci si può appoggiare al ben avviato studio legale di Adone Zoli, altro ex-dirigente del Ppi. Anzi, Zoli e Piccioni sono collegati a un’altra rete di avvocati ex-dirigenti del Ppi spar-

sa in tutta Italia. A parte cercare di aiutarsi nello sbarcare il lunario nell’immediato, si tratta di una struttura già pronta per la ricostruzione di un partito, non appena ciò sarà possibile. Già durante i 45 giorni di Badoglio l’ex-segretario del Ppi di To-

tario Alcide de Gasperi è distratto da un impegnativo incarico da ministro degli Esteri, il 27 giugno del 1945 Piccioni è designato vicesegretario con l’incarico di condurre effettivamente il partito. A questo punto, a Roma deve prendere anche una casa: l’intera famiglia si trasferisce in un appartamento reperito dal partito, in Via della Conciliazione. Il 25 settembre 1945 Attilio è designato alla Consulta Nazionale, l’assemblea a interim che fa

Dello statista, fondatore della Democrazia cristiana, si parlerà oggi all’Istituto Luigi Sturzo. Modera Francesco Malgeri, intervengono Pier Ferdinando Casini, Stefano Folli e Arnaldo Forlani rino diventa segretario della nuova Dc toscana. Già dal ’45 le esigenze della politica nazionale lo costringono a stare a Roma per periodi sempre più lunghi. Dal momento che nel governo Parri il segre-

le funzioni del Parlamento. Nel ’46 è lui a gestire la difficile campagna elettorale per le amministrative e la Costituente, con in più un voto per il referendum istituzionale su cui la Dc è divisa. Il 2 giugno è eletto alla Costituente, candidato a Firenze-Pistoia e nel collegio unico nazionale per il recuperi dei resti.

In qualità di avvocato, viene designato in quella Commissione dei 75 che deve redigere la prima bozza della Costituzione. In particolare, nella seconda delle tre sottocommissioni in cui la Commissione si è ulteriormente divisa, e che deve redigere i testi sull’organizzazione costitu-


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struisce a 360 gradi l’impegno politico (e non solo) dell’ex ministro e segretario Dc

lla democrazia

o Stefanini zionale dello Stato. In quanto vicesegretario del partito, coordina il lavoro e le proposte dei democristiani. Alcuni suoi importanti interventi, reiterati anche in assemblea plenaria, sottolineano i problemi delle autonomie e della seconda camera: il libro di Gabriella Fanello Marcucci ci fa capire comunque come alcune osservazioni di Attilio Piccioni non furono ascoltate, al prezzo di ritrovarci così oggi con le polemiche sull’inutilità delle Province e con quelle sul Senato doppione della Camera. Divenuto nel frattempo anche Presidente del Consiglio, il 22 settembre 1946 De Gasperi chiede di poter dedicarsi del tutto al governo, e Attilio Piccioni diventa così segretario del partito. Deve subito affrontare il problema di un calo di consensi alle amministrative, organizza incontri interregionali, e dal gennaio del ’47 istituisce un rapporto mensile che ogni comitato provinciale deve spedire a Roma. Compilati su moduli appositamente stampati, i rapporti permetteranno di avere un preciso polso della situazione nazionale, oltre a fornire agli storici futuri un materiale prezioso. È Piccioni in gran parte lo stratega della campagna elettorale che il 18 aprile del ’48 porta alla clamorosa vittoria sul Fronte Popolare social-comunista. E De Gasperi per compensarlo gli impone di accettare la vice-presidenza del Consiglio. Piccioni entra al governo mantenen-

do la segreteria, ma la maggioranza assoluta porta nella Dc a un senso di orgogliosa auto-sufficienza che favorisce il proliferare delle correnti interne. E proprio per protesta contro questo andazzo, il vincitore del 18 aprile il 10 gennaio 1949 dà le dimissioni. Contro il degenerare delle correnti Piccioni dà battaglia anche al III congresso della Dc di Venezia, del 2-6 giugno 1949. Ma ormai il suo fronte di lotta è il governo, e il 26 febbraio del ’51 De Gasperi lo designa al ministero di Grazia e Giustizia. Un incarico che durerà un anno, e che vedrà l’inizio di quel processo di adeguamento dei codici alla nuova Costituzione che a sessant’anni di distanza non si è ancora del tutto esaurito. Poi, nel VII governo De

Nato a Poggio Bustone il 14 giugno del 1892, gestì nel ’46 la difficile campagna elettorale per le amministrative e la Costituente. E fu tra i 75 incaricati di redigere la prima bozza della Costituzione Gasperi, Piccioni torna a essere vicepresidente del Consiglio. La situazione politica si sta scaldando sia all’interno della Dc sia con gli alleati, e il presidente del Consiglio sente di aver bisogno del suo aiuto. Ma alle elezioni del ’53 la coalizione centrista è sconfitta, non scattando per pochi voti il premio previsto dalla nuova legge elettorale maggioritaria. L’-

VIII governo De Gasperi non ottiene la fiducia, e il 2 agosto del ’53 proprio Piccioni è incaricato di formare il nuovo esecutivo. Ma i veti dei socialdemocratici, scioccati dal “destino cinico e baro” che secondo Saragat si è abbattuto su di loro, lo costringono a rinunciare dopo 10 giorni. Quando subentra il nuovo governo Pella, è la prima volta dal suo ingres-

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so in Parlamento che Piccioni non ha incarichi né di governo né di partito. Una sua scelta. Il 29 settembre De Gasperi ridiventa segretario ma con 22 consiglieri nazionali su 71 che in segreto votano scheda bianca. A gennaio anche Pella dà le dimissioni e il 18 diventa per la prima volta presidente del Consiglio Fanfani, leader emergente della sinistra. Per blindare l’appoggio del partito coinvolge esponenti di tutte le componenti, e il degasperiano Piccioni diventa così ministro degli Esteri. Sono sul tavolo questioni delicate, da Trieste alla Comunità Europea di Difesa. Di nuovo, il 30 gennaio 1954 la fiducia è negata. Ma Piccioni resta ministro degli Esteri anche col nuovo governo di Scelba, che stavolta riesce a conquistarsi una maggioranza. Inizia in modo autorevole, ma quasi subito arrivano tre differenti mazzate. Il 19 agosto muore De Gasperi. Il 31 agosto il Parlamento francese respinge la ratifica della Ced. E poi arriva la notizia che per lo scandalo Montesi suo figlio Piero, affermato musicista, è stato privato del passaporto: evento che il 19 settembre lo porta alle dimissioni. La Magistratura accerterà poi che Piero non c’entra niente. Gli storici aggiungeranno che lo scandalo è stato montato ad arte dalla corrente fanfaniana (Fanfani consenziente): per togliere di mezzo Piccioni dalla corsa per l’eredità di De Gasperi alla leadership del partito, per la quale Piccioni sarebbe uno dei pretendenti più qualificati.

In realtà, la carriera politica di Piccioni non termina. Dopo una pausa di riflessione in cui si dedica a una rivista, nel ’56 sarà eletto capogruppo alla Camera, proprio come candidato di garanzia considerato al di sopra delle parti. Nel novembre del ’57 andrà a New York, nella delegazione italiana all’Onu. E il 5 febbraio 1958 è lui che prende la parola per annunciare il voto della Dc a favore di una importante mozione sull’adesione dell’Italia al blocco occidentale. Nel 1958 Piccioni passa al Senato, per il collegio di Sondrio. E anche lì diventa capogruppo. E dal ’60 torna al governo: vicepresidente del Consiglio con il terzo e il quarto governo Fanfani dal 26 luglio 1960 al 21 giugno del 1963; dal 6 maggio 1963 anche agli Esteri, per l’elezione di Segni alla Presidenza; di nuovo vicepresidente e ministro degli Esteri col primo governo Leone, dal 21 giugno al 4 dicembre 1963. E ministro senza portafoglio col primo governo Moro dal 4 dicembre 1963 al 22 luglio 1964; col terzo governo Moro, dal 23 febbraio 1966 al 24 giugno 1968; e nel secondo governo Leone, dal 24 giugno al 12 dicembre 1968. Insomma: non è mai stato capo del governo, ma è restato al centro della scena anche con l’inizio del centro-sinistra e con la costruzione europea. Poi, per l’età, dal ’72 pensa di non ricandidarsi più. Ormai, più che alla politica è interessato a che lo riportino in gita a Poggio Bustone per rivedere i luoghi dell’infanzia. È il segretario Forlani a imporgli amichevolmente di tornare al Senato. Il 14 giugno 1972, il gruppo Dc a Palazzo Madama festeggia i suoi ottant’anni pubblicando un’antologia di suoi scritti. Morirà il 10 marzo 1976. Otto giorni prima di quel XIII Congresso che elegge segretario Benigno Zaccagnini.


mondo

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Bashar al Assad ha scelto il pugno di ferro contro il suo popolo e la repressione è sempre più sanguinosa. È ora di agire

Dopo la Libia, la Siria?

Fosse comuni ed eccidi. Mentre anche Erdogan molla Damasco e dice sì a una risoluzione all’Onu. Ma ci vuole la Lega araba di Antonio Picasso artiamo da un presupposto: la rivolta in Siria è fallita. Un efficace rovesciamento di regime ha successo quando è fatto in maniera morbida (Praga, 1989), oppure si limita a qualche scontro di piazza (Il Cairo neanche sei mesi fa). A Damasco la rivoluzione non è stata né di velluto, né i morti sono stati numericamente pochi per poterli paragonare i quelli egiziani. Con le frontiere chiuse a tenuta stagna, non si ha uno scenario ben chiaro della situazione.Tuttavia, è facile fare due conti. Finora i morti è ben probabile che abbiano superato le 1.300 unità. La rivolta è fallita, inoltre, anche da un punto di vista del governo. Posto il fatto che questo ha come obiettivo la sopravvivenza al potere, a costo di scendere a compromessi con l’opposizione, le violenze alle quali è ricorso escludono la sostenibilità di un dialogo con gli avversari. Assad, per l’ennesima volta, non ha mantenuto le promesse. Forse perché pressato dai nuclei di oltranzismo che lo circondano. O forse perché egli stesso oltranzista.

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Sta di fatto che Polizia, Mukabarat, Forze armate e Baath ormai sono colpevoli, tutti alla stessa maniera, di un’escalation della situazione. Siamo alla guerra civile?

C’è chi si espone nel sostenerlo. Altri più cauti ne paventano il rischio. A nostro giudizio, trattasi unicamente di sottigliezze lessicali. Quel che conta è: che si fa? A marzo in Libia, di fronte a una situazione critica, seppure

La smentita dell’esistenza di Amina Abdallah, la presunta attivista omosessuale arrestata la scorsa settimana, ha smontato le speranze di coloro che sognavano una genuina rivoluzione siriana on line meno evoluta, la comunità internazionale ha deciso per un intervento armato. L’Alleanza atlantica e alcuni Paesi arabi, per ordine dell’Onu, si sono mossi per sostenere il governo di transizione di Bengasi e

Parla l’esperto Saad Kiwan

L’ in te rv e nt o è ( q ua si ) in e vi ta bi le . È so lo q ue s tio n e d i te m po di Martha Nunziata

fronteggiare Gheddafi. È possibile fare lo stesso in Siria? È opportuno aprire un nuovo teatro di conflitto in un Paese delicato altrettanto quanto lo è la Libia? Fermo restando che a Damasco non c’è un interlocutore ufficiale di riferimento. I

moti di protesta appaiono spontanei. Il che è positivo perché conferma la volontà della popolazione a ribellarsi. Ma è drammatico da un punto di vista politico. “Con chi parliamo?” Si chiedono nelle cancel-

numeri delle violenze, già da soli, sono spaventosi. Le vittime accertate, secondo i Comitati Nazionali di Coordinamento, la principale organizzazione dell’opposizione al regime, sono ormai quasi 1.400. Un centinaio delle quali dopo l’ultima, sanguinosa repressione dell’esercito regolare nella città di Jisr al-Shughur (ormai una “città fantasma”, come riferito da alcuni testimoni oculari, che hanno anche raccontato di un “ingresso in città di almeno 200 carri armati” che, nella giornata di domenica, con l’appoggio anche di diversi elicotteri), hanno riconquistato la città. «Lo scenario che si prospetta adesso – dice a liberal Saad Kiwan, politologo libanese, Direttore del “Center For Media and Cultural Freedon” - è quello della Libia. Quello di Jisr al-Shughur, città dove la popolazione è stata attaccata dall’alto, dal cielo con gli elicotteri, è solo l’ultimo episodio, in ordine di tempo, della repressione in atto nei confronti della versione siriana del-

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lerie straniere.“Con i blogger?” Peraltro, forse nemmeno loro non sono così affidabili quanto sembra. Ieri la smentita dell’esistenza di Amina Abdallah Araf, la presunta attivista omosessuale arrestata la scorsa settimana, ha smontato le speranze di coloro che sognavano una genuina rivoluzione siriana on line. Sembra infatti che “A gay girl in Damascus” sia gestito da un tale Tom MacMaster, 40 anni e con passaporto stelle e strisce.

Chi propende per un intervento in Siria è mosso da ragioni umanitarie. I settemila profughi che hanno varcato il confine turco-siriano, una cosa simile sta succedendo verso il Libano, fanno capire che, se la situazione dovesse peggiorare, il rischio sarebbe la creazione di un nuovo corridoio di immigrazione clandestina, dal cuore della Mezzaluna fertile dritto in Europa. C’è poi un discorso morale. Dai tempi delle guerre con Israele, si parla del Baath siriano come di un Leviatano imperscrutabile, capace di manipolare i diplomatici occidentali e far credere loro di essere un interlocutore valido. Quando poi nelle galere di Damasco l’opposizione paga lo scotto per aver tentato di alzare la voce. Oggi, dopo oltre quarant’anni di misteri e ipocrisie,

la “primavera araba”: una repressione barbara e durissima, simile a quelle di Saddam Hussein, quella messa in atto dai fedelissimi del presidente Assad, che ormai non risparmia più nessuno, neanche i bambini, con cui si accanisce con una crudeltà impressionante». Una repressione feroce che sta costringendo all’esodo forzato migliaia di cittadini inermi, che solo tra ieri e oggi, hanno raggiunto le città turche di Yayladagi e Altinozu, nella provincia di Hatay, dove sono stati allestiti quattro campi: i profughi oltre il confine turco sarebbero ormai oltre diecimila, secondo testimoni citati dalla Bbc.

«L’esodo per il popolo siriano verso il Libano, verso la Giordania e adesso verso la Turchia – dice ancora Kiwan - rappresenta oggi il futuro per questi profughi. Il confine diventerà sempre di più una zona cuscinetto. E la Turchia avrà un ruolo determinante nella crisi

il mondo avrebbe la possibilità di relegare gli Assad alla storia. Invece, sembra che sia meglio aspettare. Chi è per il no, infatti, adduce motivazioni equamente valide. La Nato non può permettersi di intervenire in un terzo Paese (includiamo nella lista anche l’Afghanistan), fuori dal proprio quadrante geopolitico di origine. Soprattutto perché, proprio al di là dei monti libanesi, i caschi blu di Unifil stanno cercando di attribuire una parvenza di stabilità politica a Beirut. L’impegno riesce, ma solo in parte. Elemento ancora più importante è il necessario avvallo dell’Onu per un’operazione militare straniera in terra di Siria.

A onor del vero una terza via c’è. Questa, da un lato, riconosce la necessità di intervenire in qualche modo, per lo meno onde evitare di bloccare il massacro e il disastro umanitario. D’altro canto, cerca di contenere anticipatamente i danni di una Odissey dawn in chiave siriana. Se i contorni della presenza Nato in Libia restano poco definibili, è plausibile che lo stesso accadrebbe in altra sede. Giusto è quindi reclamare un


A fianco, un bambino siriano sfila per le strade di Damasco. Nelle sue mani un cartello semplice: non siamo terroristi, vogliamo la libertà. Il regime, però, risponde con il terrore della tortura (foto sotto). A sinistra: dimostranti anti Assad per le vie di Beirut e sotto una sostenitrice del presidente siriano nella capitale. In basso: Saad Kiwan

cordone sanitario, al fine di contenere la crisi. Tuttavia, se il timore è che dalla Siria si passi a Turchia, Iraq, Libano ed eventualmente Iran, va ricordato che questi quattro Paesi sono, in uno o nell’altro modo, già chiamati in causa. La comunità kurda che fa capo agli Assad, ma in connessione con i fratelli iracheni, è rimasta finora tranquilla. Lecito chiedersi quanto reggerà l’appeasement. Non si può dimenticare poi la triangolazione Beirut, Teheran e Damasco, vale a dire Hezbollah, Ayatollah e Baath, utile a dimostrare che, ormai, cauterizzare i

confini siriani è tardi. In questo senso, il governo di Ankara, fresco di una vittoria dimezzata, resta in una posizione ambigua. La mediazione promossa dal premier Erdogan è ormai lettera morta.

Gli Assad sono troppo compromessi con i massacri perché una Turchia, ambiziosa di sfoggiare la propria stabilità democratica, possa ancora difenderli. Tanto più che l’Akp, adesso, avrà bisogno di dialogare con l’opposizione interna (laica). Se Erdogan desidera sopravvivere, è bene che si renda conto

siriana, perché è un paese molto interessato e coinvolto direttamente sia per motivi di confine, sia per la interdipendenza economica, ma anche per i rapporti tra i due paesi che sono costituiti anche dai rapporti di parentela tra le famigliedei due paesi». «La Turchia – continua - ha assunto un ruolo preciso in questa vicenda, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato direttamente il fratello di Bashar, Maher che ha in mano la repressione, e lo ha accusato di non essere umano per i crimini che sta commettendo verso i civili». Ma un intervento militare, sulla scorta di quanto sta ancora accadendo in Libia, è realmente attualizzabile anche in territorio siriano? «Al momento credo che l’intervento dell’Onu sia difficile, risponde Kiwan - almeno per le prossime settimane, anche perché la Siria non è isolata, ha forti alleanze nell’area. La Turchia, invece, sembra la più incline ad intervenire perché spalleg-

che Damasco è una zavorra per il suo esecutivo. Esclusi tutti quindi, resta la Lega araba. Nel vortice della rivoluzione dei gelsomini, è sorprendente come l’organizzazione, nata a supporto degli equilibri interstatali della regione, sia rimasta fuori dai giochi. Si è trattato di una scelta studiata a tavolino. Se il vertice del gruppo si fosse esposto in favore delle rivolte, avremmo assistito a un effetto domino ben più virulento di quello attuale. Amr Moussa, per quanto il suo mandato di segretario della Lega sia in via di scadenza, è riu-

giata dagli americani, dagli inglesi e dai francesi». Nel frattempo il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha esortato il Consiglio di sicurezza dell’Onu a prendere una posizione chiara sulla Siria, con una risoluzione che condanni la repressione.

Analoga la condanna arrivata da Italia e Germania, che hanno definito «urgente» a questo punto l’adozione della risoluzione, chiedendo con forza di «cessare ogni violenza e di concedere l’accesso alla Croce rossa per prendersi cura dei feriti, dei prigionieri e dei profughi». Anche gli Stati Uniti hanno continuato, nelle scorse settimane, a chiedere che il regime siriano si fermi. Al Palazzo di Vetro è già allo studio, in realtà, una bozza presentata da Gran Bretagna e sostenuta da Francia, Germania e Portogallo, con le posizioni

scito a preservare dai disordini l’Arabia saudita. Proprio il Paese che gli Usa tengono in maggiore considerazione.

A questo punto però, un intervento dell’organizzazione appare obbligatorio. La logica esclude altri soggetti.

contrarie di Russia e Cina. Il mondo intero, insomma, chiede, con forza, l’intervento delle Nazioni Unite. E la risoluzione Onu di condanna nei confronti del regime siriano, suona come la giustificazione, l’appiglio giuridico, la vidimazione di un intervento armato di una forza di pace, sotto il grande ombrello delle Nazioni Unite. «Ritengo – continua Saad Kiwan – che se non ci sarà un intervento internazionale forte da parte del Consiglio di Sicurezza, dei paesi europei o degli Stati Uniti, tutto il paese, e tutto il popolo siriano rimarranno in una situazione drammatica. Io credo – continua - che sia più possibile un intervento turco che si è reso disponibile e pronto a qualsiasi emergenza sia militare, sia di sicurezza e sia umanitaria. La Turchia da sola o con appoggio di una forza multinazionale potrebbe

Dal momento che il governo e i rivoltosi siriani hanno fallito, ciascuno per propria colpa, e per evitare un vero conflitto civile, alla comunità internazionale non resta che la Lega araba, come testa di ponte per un’immediata risoluzione della crisi.

compiere un intervento strategico». Anche perché la tattica di Assad, secondo Kiwan è palese: «Il regime - dice - vorrebbe portare il paese ad una situazione come quella che si è creata in Libia, ma l’opposizione siriana non cade in questo tranello.

Si cerca di diffondere notizie false, come quella delle bande armate dei ribelli, ma questo non è assolutamente vero, è tutta una tattica del regime che vorrebbe uno scontro più radicalizzato. Ma i ribelli non sono armati e i soldati delle forze di sicurezza massacrati e mutilati nella fossa comune nella provincia di Idleb di cui parla Assad a proposito di Jisr al-Shughur, circa 120, sono stati sterminati dal regime, a seguito di un ammutinamento e dei successivi scontri tra i militari siriani, perché c’è stata una spaccatura tra i militari: anche se solo una piccola minoranza, per ora, molti di loro si sono già uniti ai ribelli».


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grandangolo Gli arabi (e le rivolte) visti da Istanbul

Cosa cambia con la nuova Turchia del vecchio Erdogan Le diffidenze di Bruxelles e il neottomanesimo di Ankara hanno creato un sempre maggior interesse verso il mondo arabo e l’islam, anche se ai turchi brucia ancora «il grande tradimento» dei popoli del deserto ai tempi dell’Impero. Breve viaggio all’interno del Paese che guarda sempre un po’ meno all’Europa di Pierre Chiartano

ISTANBUL. La Turchia si è svegliata ieri con un governo più forte che mai. Più forte in Patria e all’estero. L’Akp e la sua politica di partito «conservatore e liberale» di matrice islamica, come ha sottolineato a liberal il professor Bayram Sinkaya, docente di Relazioni internazionali alla Middleast technical University di Ankara, dimostra come la paura dell’avvento di un partito islamico “alla pakistana”sia ormai passata. Il confronto acceso tra secolaristi, difensori del kemalismo di Stato e i nuovi “credenti” in politica, che ha avuto momenti di grande frizione fino a sfiorare crisi istituzionali (vedi il caso Ergenekon), sembra destinato a una lenta ma costante normalizzazione. Ora anche la politica estera turca, definita «neottomana» da alcuni analisti, improntata invece al pragmatismo del «zero problem, maximum trade» per il dinamico ministro degli Esteri Turco, Ahmet Davotoglu, avrà una spinta ulteriore. Specialmente in Medioriente e nel mondo arabo.

Ankara gestisce investimenti in tutta la regione del Mashreq e del Maghreb, utilizzando anche i ricchi fondi sovrani dei Paesi del Golfo. Ha lanciato un canale satellitare della tv pubblica (Trt) in lingua araba che raggiunge ben 24 Paesi, coinvolti quasi tutti da una politica estera «che non vuole imporre un modello politico ed economico turco ai Paesi arabi, ma solo condividere un’esperienza» ha spiegato a liberal, l’ammiraglio

Nazmi Cesmeci, docente di Studi strategici alla Piri Reis Univesity di Istanbul. Insomma, la comparsa di un Paese musulmano bene inserito nel contesto internazionale – è membro della Nato – con un’economia in forte espansione e un partito islamico moderato al governo, ha scombinato parecchio le carte degli equilibri mediorientali. Diventando un elemento di stabilizzazione regionale. La forte popolarità di Erdogan presso le popolazioni arabe è lo specchio del nuovo corso. Sicuramente non mancano i problemi interni. Il rapporto tra arabi e turchi non è tra i più facili e spesso

Nazmi Cesmeci: «L’esperienza turca attrae molte simpatie, perché riesce a coniugare bene religione e modernità» gli arabi denunciano una sorta di «aparthaid culturale» di cui sarebbero vittime in Turchia. Basterebbe girare in metropolitana e vedere la faccia di un abitante di Istanbul, ad esempio, quando sente parlare nella lingua del Profe-

ta: perde il buon umore. Certo è che l’immagine del mondo arabo in Turchia è cambiata con l’avvento della primavera delle rivolte. Una percezione per anni influenzata da quella europea e occidentale in genere. Che vedeva quella società come «violenta, insincera e con una bassa considerazione sulla difesa dei diritti delle donne e di quelli civili in genere», come affermava qualche tempo fa Abdullah Bozkurt, dalle colonne di Today’s Zaman, il quotidiano turco più vicino all’attuale governo. Un’immagine negativa alimentata anche da alcune considerazioni di carattere storico. Il «grande tradimento» che si perde nella notte del vecchio Impero Ottomano. Per un Paese ultranazionalista un vero peccato mortale. Ma le cose stanno cambiando e stereotipi e pregiudizi anche.

«Solo in Libia, la Turchia ha firmato contratti nel settore edilizio e infrastrutturale per circa 20 miliardi di dollari. E sono sempre più numerosi i programmi televisivi turchi trasmessi nei Paesi arabi, dove emergono i caratteri moderni di una società, compreso un diverso ruolo della donna. L’esperienza turca attrae molte simpatie, perché è riuscita a coniugare insieme islam e modernità», ci spiega l’ammiraglio Cesmeci. E un bell’esempio di un’immagine di donna dinamica e culturalmente preparata è quella di Hajer Ben Hassine. Lavora per la tv pubblica turca (Trt) che manda in onda programmi in lingua araba. Di ori-

gine tunisina, figlia di un imam, senza peli sulla lingua, esperta in letteratura araba e dialogo interculturale è il prototipo di un giornalismo moderno, non solo per i canoni di un Paese islamico, ma anche per gli standard dei media internazionali. La anchorwoman di Trt spiega come sia sfumato negli utlimi anni in Turchia l’interesse per l’Europa e aumentato quello per il mondo arabo.

«Sono molti i Paesi che ormai dedicano trasmissioni televisive al pubblico arabo, ad esempio la Russia. Naturalmente per la Turchia c’è un maggior interesse, perché si vuole ricreare l’antico legame col mondo arabo e con la religione islamica. Conduco un talk show diretto a un pubblico abbastanza ampio. Cerco di parlare di letteratura, arte, politica e filosofia in maniera divulgativa. Trovando un mix tra argomenti seri e domande spontanee fuori copione. I programmi con un buon seguito di pubblico sono utili per trasmettere un modello positivo, non solo della figura femminile, ma anche del modo di fare informa-


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L’Akp manca la maggioranza utile a riformare la costituzione con un plebiscito

E l’Onda rosa spinge il premier alla sua terza vittoria elettorale di Etienne Pramotton una vittoria personale del primo ministro turco Tayyip Recep Erdogan, accompagnata da un’onda rosa di candidate elette. L’Akp ha vinto le elezioni per il terzo mandato, ma avrà bisogno di un più ampio consenso per fare l’annunciata riforma della Costituzione. Erdogan, che con l’Akp ha trasformato la Turchia musulmana in una delle economie più dinamiche del mondo e ha messo fine ad un ciclo di golpe militari, ha ottenuto quasi il 50 per cento alle elezioni di domenica. Il risultato ha esaltato i mercati finanziari e la lira turca si è rafforzata sul dollaro. Per gli investitori il risultato costringerà Giustizia e sviluppo a trovare un compromesso con gli altri partiti per cambiare la costituzione, che è stata scritta circa 30 anni fa quando al governo c’era una giunta militare. «Vedremo se Erdogan sceglierà questa strada o cercherà di imporre la sua visione alla Turchia, nel qual caso avremo tempi difficili». ha dichiarato alla stampa Cengiz Aktar, professore all’università Bahcesehir di Istanbul. Ed è anche un Parlamento più rosa quello uscito dalle urne. Il numero delle donne elette, infatti, è cresciuto da 50 a 78, portando così il gentil sesso ad occupare il 14 per cento dei 550 seggi della Grande Assemblea Nazionale (nel 2007 rappresentavano il 9 per cento). A fare la parte del leone sono state le candidate dell’Akp, il Partito della Giustizia e dello sviluppo del premier: ben 45 elette, infatti, appartengono allo schieramento degli islamisti moderati. Anche se Erdogan non è riuscito ad avere abbastanza seggi in parlamento per indire un referendum su una nuova costituzione, le elezioni hanno segnato il maggior successo elettorale per l’Akp da quando è andato al potere nel 2002 e i giornali turchi esaltano questa performance. «La Turchia lo ama», «Il padrone delle urne», si legge nei titoli di apertura dei quotidiani accanto alla foto di un sorridente Erdogan che saluta i sostenitori dalla sede del suo partito. I risultati non definitivi mostrano la vittoria dell’Akp con il 49,9 per cento, che si traduce in 326 seggi, poco meno dei 330 richiesti per poter indire un plebiscito. I critici temono che Erdogan, che non ha la fama di essere accomodante verso il dissenso, possa usare la vittoria per cementare il suo

È

Sopra, sostenitrici dell’Akp esultano per i risultati elettorali. A sinistra: Recep T. Erdogan e in basso il leader dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu (Chp) zione». La mancanza di libertà d’informazione che ha trasformato anche la maniera a cui attingere informazioni facendo diventare internet e i social network i canali privilegiati per la libera comunicazione nel mondo arabo. Partiti d’opposizione e canali istituzionali sono così stati tagliati fuori, almeno in parte, dai processi che formano il consenso politico. In Turchia dunque la percezione delle popolazioni arabe è stata per molti

Il successo elettorale dell’Akp darà nuovo slancio alla politica estera nell’area, peraltro attiva da tantissimi anni decenni influenzata da quella europea ed occidentale. Stessi stereotipi e stessi pregiudizi. Allo stesso è stata influenzata dagli eventi accaduti in Tunisia, Egitto, Bahrein, Libia, Yemen e Siria. E con le stessa percezione delle differenze sulla natura delle rivolte. Il professore di Studi startegici turchi ci spiega anche quali siano le speranze e le preoccupazioni sul futuro di questi cambiamenti: «Ci sono due scenari possibili. Uno ottimistico e l’altro meno. Il primo vede tutti i Paesi mediorientali ottenere e mantenere dei regimi democratici. In questo caso comunque la trasformazione non sarà facile e richiederà molto tempo, se guardiamo all’esperienza turca. Nel secondo scenario i nuovi regimi avrebbero una vita breve a causa delle fragili condizioni economiche e potrebbero cadere nelle mani dell’integralismo islamico. In questo si avvierebbe un processo diffici-

le e doloroso e sarbbe assai difficile vedere nuove ”primavere” a breve. Non ci sono dubbi che la Turchia desideri vedere il primo scenario. Ci sono tanti membri dei partiti d’opposizione di questi paesi mediorientali che visitano continuamente la Turchia. Ma non siamo certi che gli sforzi di Ankara siano sufficenti, visto che sono appesantiti da due debolezze: il mancato ingresso nella Ue e il problema curdo». «La Turchia si trova oggi in un fase molto critica, Nell’ultimo decennio le aspirazioni del popolo curdo sono cresciute come mai prima. Ma sono ancora compresse a causa di problemi di natura legale e politica». Ne è convinto Omar Taspinar, memembro del Brookings Institution ed editorialista di Today’s Zaman. La “primavera”delle rivolte oltre a cambiare l’immagine di una piazza araba, sempre vagheggiata, ma per molti fino a ieri inesistente, ha sottolineato anche alcune caratteristiche di quel mondo. Primo, il ruolo dei militari.

«Il problema in Libia rispetto all’Egitto o alla Tunisia ad esempio – spiega l’ammiraglio Cesmeci – è che lì manca una classe di ufficiali culturalmente pronti per diventare classe dirigente. In Turchia uno dei compiti principali delle Forze armate è stato quello di dare una preparazione intellettuale di buon livello ai propri ufficiali. Le forze armate turche oltre ad detenere il potere della forza pura hanno esercitato quello del soft power». Insomma vista sotto questa lente il ruolo dei militare sarebbe supplente rispetto a una classe politica incapace di una vera selezione meritocratica dei propri leader. Ma le cose stanno cambiando in Turchia. Le scorso settembre è passato un referendum costituzionale che permette che gli uomini in divisa siano giudicati da tribunali civili. Mettendo così fine a un privilegio che aveva fatto dei militari il dominus della politica turca per mezzo secolo.

potere, limitare le libertà e perseguire gli oppositori. E dopo le accuse di “radicalismo”religioso, ora il premier viene attacco per il suo “autoritarismo”. Lo scorso anno era stato pubblicato un pamphlet che in copertina ritraeva Erdogan in divisa nazista. E qualche critica era arrivata anche dall’interno dell’Akp. Probabilmente l’approccio un po’ muscolare del premier turco è dovuto alla continua pressione politica cui è sottoposto fin dal suo primo insediamento. Ma nel discorso per celebrare la vittoria di fronte a migliaia di sostenitori ad Ankara ha promesso «umiltà» collaborando con l’opposizione.

Congratulazioni per la vittoria arrivano anche dalla “controversa” Europa. Amata, perché un ingresso turco nella Ue sarebbe la certificazione del percorso democratico di Ankara ed “odiata” a causa della presunzione secolarista con cui ha sempre trattato l’Anatolia dell’Akp. I vertici dell’Unione europea dopo le felicitazioni al premier turco per la vittoria hanno auspicato le riforme per una nuova costituzione. L’obiettivo, naturalmente, è di riprendere i negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Ue. Come dichiarano in una nota congiunta i presidenti del Consiglio Ue Herman Van Rompuy e della Commissione José Manuel Barroso, i risultati elettorali «aprono la strada a un ulteriore rafforzamento delle istituzioni democratiche della Turchia, oltre che alla continuazione della modernizzazione del Paese in linea con i valori e i criteri europei». «Siamo convinti - proseguono i presidenti - che il prossimo periodo offra nuove opportunità per ulteriori riforme, compreso quella di una nuova costituzione» nel segno di «un’ampia consultazione» e di uno «spirito di dialogo e compromesso», «per il rafforzamento della fiducia fra Turchia e tutti gli Stati dell’Unione europea». Secondo i vertici Ue, infatti, «progressi in questi settori potranno dare anche un nuovo impulso ai negoziati di adesione». Van Rompuy e Barroso confermano il loro impegno «a rilanciare dialogo e collaborazione a beneficio dei nostri cittadini e della nostra area» e invitano Erdogan a Bruxelles.


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mondo

Lettera aperta a una donna colta, forte e innamorata del proprio marito, che però, forse, avrebbe fatto meglio a tacere di fronte ai recenti scandali

Il mistero di lady Sinclair La moglie di Dominique Strauss-Kahn, ovvero l’arte di rimanere (inspiegabilmente) al fianco di un uomo sempre più indifendibile di Anna Camaiti Hostert ara signora Strauss-Kahn, devo ammettere che come donna lei è davvero un puzzle per me. Di quelli difficili di cui, anche quando sono conclusi, si tarda a figurare chiaramente quale sia la overall picture. Perché pur considerando le irriverenti e provocatorie parole di de Sade sull’inclusione tra i valori repubblicani da parte delle donne francesi di quello di un sano rispetto del fallo, lei davvero appare un po’ eccentrica. Perfino in confronto al marchese suo conterraneo, purtroppo più noto per le sue intemperanze sessuali che per il suo pensiero, lei risulta eccessiva. Quando nel 2006 le fu riferito che suo marito era un donnaiolo, che correva dietro a tutte le gonnelle che gli si paravano sul cammino e che non se ne salvava nessuna, lei commentò infatti: «Ne sono davvero fiera. Per un uomo politico è importante essere capace di sedurre». Questo più che rispetto del fallo mi pare una sottomissione non tanto sana alle incontrollabili incontinenze del testosterone di suo marito. Eh sì, perché la seduzione è quasi impalpabile, sottile, ambigua, fatta di sguardi, di frasi non dette, di apparizioni e di scomparse, molto lontana dallo stile da bestione vichiano tutto stupore e ferocia a cui il suo consorte mi pare avvicinarsi di più.

C

Neanche mia nonna, signora StraussKahn, che certamente è vissuta molto prima dei grandi movimenti di liberazione femminile e che forse avrebbe potuto addurre come scusante, per un’affermazione del genere, l’immagine della donna, moglie e madre, che il Fascismo aveva per anni propagandato, avrebbe mai affermato di essere fiera di un marito donnaiolo. Proprio perché era fiera invece della sua identità femminile che dato il suo carattere molto indipendente mal si sarebbe conciliata con l’incapacità da parte del marito di tenere abbottonata la patta dei pantaloni. Anche se adesso scopriamo essere cosa assai comune, tra molti dei manager dell’alta finanza di Wall Street trastullarsi quotidianamente con sesso a pagamento e cocaina volontà. Aveva provato a dircelo Charlie Ferguson nel suo Inside Job ma nessuno l’aveva ascoltato e pur avendo vinto il suo bel documentario un premio Oscar, questo non costituì un campanello d’allarme. La denuncia dei legami sempre più stretti tra sesso mercenario e potere non parve essenziale allora, mentre ora comincia a preoccupare davvero questa consuetudine legata ad una dimensione malata del potere per lo più maschile che invece è quasi assente tra le donne. Forse su questo lei avrebbe dovuto riflettere.

Anche perché lei è vissuta durante i grandi movimenti di liberazione delle donne che in tutta Europa hanno spazzato via pregiudizi e subalternità millenarie, viene da una famiglia colta, borghese e benestante, è una donna di mondo, una giornalista affermata e famosa e questa sudditanza non se la può permettere. Nella sua trasmissione tele-

Le sue apparizioni sembrano un’astuta mossa politica, tutta tesa a sostenere l’ambizione ultima del consorte: correre per l’Eliseo contro Sarkozy alle prossime elezioni

visiva 7/7 lei ha fatto più di 500 interviste a personaggi famosi del mondo politico del calibro di Francois Mitterrand, Bill e Hillary Clinton, Mikhail Gorbaciov e a grandi star dello spettacolo come Yves Montand e perfino Madonna. Professionalmente lei è stata paragonata a Larry King e a Barbara Walters, due mostri sacri del giornalismo, non solo americano, ma mondiale. Pochi sanno di questi tempi quanto lei sia stata famosa, troppo presi dalla notizia di ciò che ha fatto suo marito. Il New York

Times ha scritto che lei ha un pedigree di tutto rispetto: che viene da una famiglia ebrea rifugiatasi negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste, tanto che lei è nata a New York, che suo padre adottò il nome in codice Sinclair per aderire alla Resistenza francese, che invece lei ha abbandonato quando nel 1991 si è sposata con Strauss-Kahn, «al cui charme e alla cui intelligenza non seppe resistere».

Il quotidiano americano riporta inoltre che per evitare un conflitto di interessi, quando suo marito divenne ministro delle Finanze abbandonò la sua brillantissima carriera di giornalista, prima occupando un posto di rilievo all’interno del canale TF1 e poi divenendo direttore generale del settore

Internet del canale affermando che «quando hai passato 13 anni intervistando i politici non sei più tanto affascinata dal potere». Ed è proprio qui che ho qualche dubbio sulla sincerità delle sue parole e di questa affermazione tutta tesa all’apparente riconquista dei valori importanti della vita. Alla luce dei fatti la vedo invece come un’astuta e calcolata mossa politica. Una dissimulazione quasi machiavellica tutta virata a sostenere l’ambizione ultima di suo marito: correre per l’Eliseo

contro Sarkozy alle prossime elezioni. Qualcuno dice anche che avrebbe avuto buone probabilità di successo.

Si vocifera che lei, signora Sinclair, sia la vera artefice della carriera politica di suo marito per la quale ha messo a disposizione le sue ingenti ricchezze accumulate da suo nonno, Paul Rosenberg, famoso e rinomato mercante d’arte, che le ha lasciato una fortuna ingente. Quella stessa che le ha permesso non solo di vivere in un lusso sfrenato, con


mondo

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e di cronach

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case milionarie a Parigi, Marrakesch e Georgetown (uno stile di vita che malignamente qualcuno ha definito da gauche caviar), ma anche appunto di finanziare l’allora nascente, ormai abortita per sempre, corsa alla presidenza di suo marito. Altro che disincanto nei confronti del potere! Lei ha perfino affermato che la vittoria di suo marito proverebbe che «75 anni dopo l’avvento di Leon Blum i francesi sarebbero capaci di eleggere un ebreo al potere».

Certo si potrebbe addurre come possibile scusante al suo comportamento l’amore che lei prova per suo marito. E non dubito che lei ne sia stata innamorata, perché l’uomo, va detto, un certo fascino ce l’ha di sicuro. Ma adesso dopo le denunce non solo della cameriera di New York ma anche di altre giovani, che sono venute allo scoperto, di assalti sessuali e anche di stupro forse anche l’amore più profondo subisce qualche incrinatura. O forse, se non l’amore, che come sappiamo ci vede poco bene, almeno la stima nei confronti di un uomo che con la violenza cerca di forzare donne in generale di metà dei suoi anni ad avere rapporti sessuali che non vogliono, dovrebbe essersene andata e con essa la capacità di profferire qualsiasi statement di supporto. Tacere sarebbe stato meglio invece di giurare sull’innocenza di suo marito. Come ha fatto in questi anni la signora Maria Shriver, moglie del governatore Schwarzenegger, la quale alla fine ma solo alla fine della carriera del muscoloso consorte ha chiesto il divorzio e se ne è andata dopo

Sopra, Dominique Strauss-Kahn e sua moglie Anne Sinclair mentre escono dal tribunale. A sinistra, alcune proteste durante l’udienza

avere tollerato anni di tradimenti. Ma certo è difficile competere con la classe dei Kennedy! Si potrebbe infine supporre che suo marito, signora StraussKahn, sia stato vittima di un complotto oppure semplicemente che sesso ci sia stato, ma consensuale e che le accuse siano semplicemente state un buon motivo da parte della giovane cameriera

Si vocifera anche che sia lei la vera artefice della carriera politica del marito, per il quale avrebbe messo a disposizione ingenti ricchezze accumulate da suo nonno, Paul Rosenberg per spillare soldi ad un uomo ricco e potente. Ma in ambedue questi casi l’arroganza di chi pensa di sentirsi al di sopra la legge pensando di poter aggirare meccanismi di controllo, cioè di suo marito, si è dimostrata un anello debole. Perché se complotto c’è stato chi ha pensato questa trappola è stato geniale in quanto ben a conoscenza del fatto che suo marito era incapace di frenare i suoi istinti. Se invece è solo frutto del ricatto di una povera cameriera del Ghana, madre single che dopo un rapporto sessuale ha denunciato lui, uno degli uomini

più potenti del mondo, forse c’è da riflettere sull’intelligenza di suo marito. Forse lei mi potrà obiettare che anche la signora Clinton ha sostenuto il marito Bill durante i vari scandali che ha dovuto affrontare, soprattutto durante quello gravissimo di Monica Lewinsky, che gli ha fatto rischiare l’impeachment e alla fine è invece restata. La differenza, signora Strauss-Kahn, sta nel fatto che Hillary non solo non si trovava di fronte a un marito accusato di stupro (e anche se esso può essere una montatura non le rimane tuttavia un’ombra di dubbio, conoscendo le inclinazioni di suo marito?), ma probabilmente è addivenuta ad un accordo secondo il quale al supporto di lei in quel momento delicatissimo sarebbe succeduto quello di lui nella sua entrata in politica. E così è stato. Forse questo non la assolve, ma almeno la giustifica, perché alla fine almeno per lei il gioco è valso la candela.

Ma lei, signora Strauss-Kahn, perché lo fa? Forse mi sfugge l’obiettivo remoto e forse il tempo darà ragione a lei. Però lei, che è bella, ricca, colta, sexy, professionista di grande qualità non si sente un po’ offesa in generale dal comportamento un po’ primordiale e per niente di classe di suo marito? O forse vuole essere ricordata come una donna che non abbandona il suo uomo secondo la famosa canzone Stand by your man in attesa di tempi migliori? Non sarebbe stato meglio divenire trasparente o rimanere muta? Le confesso che per me lei è un puzzle davvero indecifrabile.

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Lo sport più “nero” degli States espugnato da un “bianco”: Dirk Nowitzki ha dato il titolo della Nba a Dallas

Se l’America si inchina a un di Marco Scotti allas non è la città più bella degli Stati Uniti, né la più popolosa. Non è neanche la più ricca né la più famosa, ma, da ieri notte, può fregiarsi del titolo di campione Nba e ritrovare le prime pagine dei giornali dopo averle riempite con l’assassinio di Kennedy. I Dallas Mavericks hanno infatti sconfitto i Miami Heat – che durante l’estate si erano guadagnati il gallone di “squadra più odiata dell’Nba” dopo aver messo sotto contratto il Prescelto Lebron James e il sopravvalutato Chris Bosh – sovvertendo ogni pronostico. La vittoria di Dallas è la vittoria degli outsider, sia per quanto riguarda lo sport che, più in generale, per quanto riguarda la città. I Mavericks si sono presentati ai playoff come testa di serie numero tre nella Western Conference, grazie alle 57 vittorie (a fronte di 25 sconfitte) ottenute durante la stagione regolare. Di fronte a loro, nei pronostici, avevano almeno cinque squadre (Chicago Bulls, Los Angeles Lakers, Miami Heat, Boston Celtics e San Antonio Spurs) e dovevano fare i conti con la nomea di “incompiuti” che si sciol-

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dopo undici anelli e oltre 1000 vittorie. E invece Dallas ha sovvertito ogni pronostico facendo patire a Phil Jackson il primo “sweep”(in italiano diremmo “cappotto”) della sua carriera. In finale di conference i Mavericks se la devono vedere con i giovani e talentuosi Oklahoma City Thunder, ma regolano la pratica in cinque partite e approdano, per la seconda volta nella loro

Il cammino di Dallas in questi playoff, poi, ha macinato anche un mito: i campioni in carica dei Los Angeles Lakers guidati dall’immenso Kobe Bryant, guidati dal santone Phil Jackson – anche lui ha annunciato che questa è stata la sua ultima stagione nel basket americano,

Dallas ha vissuto un momento di gloria nello sport professionistico a stelle strisce negli anni ‘90, quando i Dallas Cowboys, squadra di

TEDESCO storia, alle finali Nba. Dallas, però, è la squadra che manca clamorosamente ogni appuntamento che conta. E invece... invece arriva la vittoria degli outsider. Il personaggio che incarna questo ruolo – giustamente insignito del premio di miglior giocatore delle finali – è il gigante tedesco Dirk Nowitzki. Che non è proprio un simpaticone, né una star da copertina come Kobe Bryant o Lebron James. Ma è stato il primo europeo a conquistare il titolo di miglior giocatore Nba (nel 2007) e il primo tedesco a vincere il titolo. Anche nel suo caso si può parlare di rivincita, dopo essere stato bersagliato di critiche per aver avuto – usando un termine tennistico – il “braccino” nelle finali del 2006 contro gli Heat.

La vittoria va in Texas per la prima volta, ma soprattutto porta definitivamente alla ribalta uno straniero che sembrava destinato ad essere ”espulso” dall’ambiente chiuso del basket Usa gono puntualmente di fronte agli appuntamenti che contano. Come nel 2006, quando Dallas arrivò a giocarsi le finali Nba proprio contro i Miami Heat vincendo le prime due partite, ma perdendo poi le successive quattro, consegnando il titolo alla squadra di Shaquille O’ Neal – ritiratosi al termine di questa stagione lasciando un vuoto difficile da colmare in tutti gli appassionati del basket americano. O come nel 2007, quando i Mavericks, giunti ai playoff con il miglior record della lega, vennero clamorosamente eliminati al primo turno dai modesti Golden State Warriors.

Neil Armstrong mentre metteva piede sulla luna. Tutte le città americane si fregiano di aver dato i natali a quale importante celebrità: quella di Dallas è Chuck Norris.

È un campione assoluto, Dirk, anche se sembra fare di tutto per stare lontano dai riflettori, capace di performance stratosferiche – come il fantascientifico record di 24 tiri liberi realizzati su altrettanti tentativi nella finale di conference con Oklahoma City. Strepitoso tiratore nonostante l’altezza (213 cm), Nowitzki ha saputo vincere lo scetticismo generale con cui è stato accolto dodici anni or sono dalla Nba, imponendosi come una delle migliori “ali” del basket statunitense. E, ancora, quale città statunitense può rivestire meglio il ruolo di outsider se non Dallas? In Texas patisce il confronto con Houston, sede della Nasa – ricordate? «Houston we have a problem» diceva Tom Hanks dal suo Apollo 13; ma anche “Houston” fu la prima parola pronunciata da

football americano, vinsero tre titoli in quattro anni. Prima e dopo, il nulla, un’assenza totale dalla ribalta sportiva americana che ha reso la città texana un’eterna incompiuta. Perfino il proprietario dei Mavericks è un outsider: Mark Cuban, giovanottone mormone che ha iniziato ad accumulare la sua fortuna (stimata in oltre 2,5 miliardi di dollari) già a dodici anni vendendo sacchetti della spazzatura per potersi comprare un paio di costose scarpe da ginnastica. Perché outsider? Perché da elettore del partito repubblicano ha pensato bene di sostenere la fallimentare campagna presidenziale di Michael Bloomberg del 2008. Ma Cuban è anche il presidente che ha saputo ricevere il maggior numero di multe – oltre un milione di dollari – per frasi oltraggiose divise in parti uguali tra giocatori, lega professionistica e arbitri. Un personaggio particolare in un mondo, quello dell’Nba, che non ama troppo gli eccessi. E allora permetteteci di sorridere alla vittoria di quelli un po’ meno belli e un po’ meno bravi, un po’ più sporchi e meno attraenti e, proprio per questo, molto più simpatici e apprezzabili.


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