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“Si vis pacem, para bellum”

he di c a n o r c

è un gioco di parole. Torniamo, signori, al senso comune: “Si vis pacem, para pacem” Filippo Turati

9 771827 881004 di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

New York 2001

Mumbai 2008

Abbiamo capito che si tratta della stessa guerra? da pagina 2 a pagina 7 Ecco i limiti del provvedimento

Le nuove misure anti-crisi: il governo ancora diviso sulla riduzione dell’Irpef

La social card? È del tutto inutile

In arrivo il bonus di Natale Da 200 fino a 1000 euro per le famiglie più povere

di Gianfranco Polillo

di Francesco Pacifico

ROMA. Sugli sforamenti al deficit/Pil Bruxelles chiuderà gli 1.000 euro. Il tetto di reddito salirebbe a 22.000 euro (rispetocchi soltanto per un anno. E difficilmente si mostrerà flessibile con l’Italia per colpa del suo debito pubblico. Nonostante ciò, Silvio Berlusconi continua a non voler sentire ragioni (soprattutto quelle di Giulio Tremonti). E siccome bisogna evitare di fornire il fianco alle proteste dei sindacati, bisogna abbassare le tasse. Questo il suo imperativo per il piano di aiuti a imprese e famiglie che arriva oggi in Consiglio dei ministri. Il coupe de théatre è un bonus familiare che andrebbe da un minimo di 200 euro ad un massimo di VENERDÌ 28 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

to ai 20.000 delle simulazioni iniziali). Secondo le ipotesi tecniche, un pensionato solo, per esempio, prenderà un contributo di 200 euro se ha un reddito annuo fino a 15.000 euro. Per le famiglie gli scaglioni di reddito sarebbero tre: 17.000, 20.000, 22.000. Il contributo varierà anche a seconda del numero dei figli. Al massimo l’una tantum per le famiglie dovrebbe variare da un minimo di 300 euro ad un massimo di 1.000 euro. s e gu e a pa gi n a 8

CON I QUADERNI)

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NUMERO

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ome valutare gli ultimi provvedimenti del governo? In attesa di conoscere le cifre definitive, valgono le indiscrezioni che circolano. Un intervento di circa 5 miliardi, di cui 3,5 riservati al welfare. Di questi: 1,2 miliardi se ne andranno per gli ammortizzatori sociali; 1,5 per i bonus figli e il resto per la social card. Lo strumento attraverso il quale si darà agli “ultimi degli ultimi”, secondo Maurizio Sacconi, un piccolo ristoro di 40 euro al mese.

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• CHIUSO

se gu e a p ag in a 9 IN REDAZIONE ALLE ORE

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prima pagina È difficile, a questo punto, continuare a parlare di “semplici” azioni terroristiche: c’è in gioco un coinvolgimento globale e, soprattutto, l’idea di un nemico non solo da sconfiggere ma anche da distruggere completamente a guerra iniziata con la distruzione delle Torri di New York, dunque, continua. Continua dove la rete del terrorismo fondamentalista decide ci colpire i suoi bersagli simbolici - in questo caso la metropoli indiana e gli alberghi pieni di turisti occidentali. E continua dove l’Occidente resta impegnato a contrastare il nuovo nichilismo deciso a distruggere tutto quanto considera “diverso” e quindi inaccettabile. Nonostante gli anni passati, più di sette, siamo ancora impegnati in quel conflitto che, quasi ancora al suo inizio, George W. Bush ebbe a definire “infinito”, ricevendo per questo molte critiche ma dimostrando alla fine di aver ragione. Già, perché è utile non perdere l’abitudine di riflettere sulle ragioni e sui torti. Oggi, a chi nel 2001 parlò di “sacche d’odio” che gli Stati Uniti avevano scavato nel mondo - spero non per giustificare ma per spiegare l’offensiva del terrorismo globale - mi viene da chiedere quali possano essere le responsabilità dell’India, quali i suoi torti, se non essere da sempre in conflitto territoriale, religioso ed etnico

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con il Pakistan e - si può aggiungere - da essere divenuta ora una delle grandi potenze economiche del pianeta.

Possono essere molte e diverse fra loro le ragioni per le quali i nuclei armati del terrorismo alqaedista hanno scelto di colpire a Mumbai. Gli analisti e gli esperti ce le stanno spiegando. Ma, in ogni modo, quel che non si può ignorare è la ragione principale dell’attacco. Cioè la parola “guerra”. Una parola che suona in modo differente dalla semplice azione terroristica e che comporta un coinvolgimento globale e, soprattutto, l’idea di un nemico non solo da sconfiggere ma anche da distruggere completamente, da annientare. Di questa guerra c’è una lunga ed eloquente storia alle spalle, ormai quasi ventennale. Lo ricordo, se mai qualcuno avesse dimenticato l’insurrezione fondamentalista in Algeria, all’inizio degli Anni Novanta dello scorso secolo, quando vennero scelti come bersaglio tutti coloro che ritenevano di non doversi adeguare alle regole dell’Islam più fanatico. I morti, allora, si calcolarono

non a migliaia o a decine di migliaia, ma almeno in duecentomila, il più delle volte sgozzati secondo i rituali più macabri. Lo ricordo anche, se mai altri avessero dimenticato in quello stesso periodo l’ondata di attentati contro le città israeliane che fece saltare il processo di pace di Oslo e che cominciò a scavare di nuovo un vallo con i palestinesi, dopo il sogno e l’illusione di una pace raggiunta. Ricordo anche - il periodo è lo stesso - l’inzio dei conflitti in Sudan contro le minoranze cristiane e anche contro le minoranze animiste, scatenate dagli stessi fanatici che ora devastano il Darfour. In altre parole ricordo una lunga, sanguinosa e complicata premessa a quella che è stata la guerra iniziata l’11 settembre direttamente contro l’Occidente.

Si tratta di un promemoria indispensabile, perché aiuta a rispondere alla domanda più ovvia: non si doveva, non si deve rispondere in modo adeguato a questo tentativo distruttivo che ha portato André Glucksmann a parlare di “nuovo nichilismo”? E la risposta è diversa da quella che si diede gene-

L’attacco terroristico a Mumbai sposta il centro gravitazionale dello scontro globale dall’Iraq all’India

Protocollo Pakistan

Arpino: «Ieri è cominciata l’offensiva di al Qaeda per conquistare il Paese che solo Musharraf riusciva a tenere vicino all’Occidente» colloquio con Mario Arpino di Enrico Singer terroristi che hanno insanguinato Mumbai hanno rivendicato il massacro con un comunicato che minaccia nuovi attentati e accusa il governo di New Delhi di avere “oppresso la comunità musulmana” che vive nel Paese. Un comunicato che porta la firma dei Mujaheddin del Deccan: i combattenti del Deccan, la pianura che copre gran parte dell’India meridionale. Come a voler dimostrare che la nuova, micidiale esplosione di violenza avrebbe radici e ragioni locali. Ma basta questo per spiegare gli attacchi a colpi di granata nelle stazioni e negli alberghi, la caccia agli stranieri e l’assassinio degli ostaggi? Oppure siamo di fronte a una vera a propria azione di guerra: della stessa guerra che il terrorismo ha scatenato l’11 settembre del 2001 con la distruzione delle Torri Gemelle di New York? Il generale Mario Arpino, ex capo di Stato maggiore della Difesa e grande esperto di geostrategia, non ha dubbi. La guerra è la

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stessa. I terroristi avevano puntato sul conflitto in Iraq per dissanguare le forze americane e degli altri Paesi occidentali intervenuti per accompagnare la difficile opera di stabilizzazione del regime democratico del dopo-Saddam: per sei anni sono riusciti a tenere in scacco le forze della coalizione, adesso hanno subito dei colpi durissimi ed ecco che hanno spostato il centro di gravità della loro azione nella mezzaluna Afghanistan-Pakistan-India.

Quello che è successo a Mumbai lo dimostra. I nomi, le sigle contano poco. Arpino lo definisce «il franchising di al Qaeda». Magari non ha nemmeno bisogno di un sistema centrale di controllo e di comando: le organizzazioni terroristiche locali sono autorizzate a muoversi da sole nel solco dei proclami di Osama bin Laden - rilanciati dal suo luogotenente, Ayman al Zawahiri - e a compiere attentati perché l’obiettivo generale, e comune, è l’instabilità: per i terroristi

l’instabilità è come l’acqua per i pesci. Certo, si dirà che in India i musulmani hanno patito delle discriminazioni da parte della maggioranza indù e che questo può essere il terreno di coltura per nuovi gruppi terroristici. Ma, attenzione: in India c’è anche il terrorismo dei nazionalisti indù: quello che nelle passate settimane si è scatenato contro i cristiani bruciando le chiese e uccidendo sacerdoti e fedeli. E tra opposti terrorismi ci possono essere anche delle alleanze apparentemente contronatura. In realtà, un estremismo vale l’altro: l’estremismo vuole il caos perché è nel caos che naviga. In più, nel caso dell’alleanza tra terroristi islamici e indù - che sembra provata dal braccialetto rituale trovato al polso di uno dei terroristi di Mumbai - c’è un nemico comune: i cristiani, considerati come espressione dell’Occidente.

L’attacco a Mumbai , poi, ha un altro significato simbolico. La città è la New York dell’India, la capitale dell’e-

conomia e del boom di questo Paese che, a differenza del musulmano Pakistan, ha avuto negli ultimi anni una crescita industriale e commerciale che è seconda soltanto a quella della Cina. Questo, per il terrorismo islamico, è un motivo in più per colpire. Nel mirino entra, comunque, tutto ciò che somiglia a un modello occidentale di sviluppo. I prossimi obiettivi del riposizionamento dell’attacco terrorista potrebbero essere l’Indoniesia e le Filippine. Al Qaeda non attacca dove ci sono regimi forti. Ci ha provato in Cina con due o tre attentati, ma la reazione di Pechino è stata estremamente decisa. Come nella Russia di Putin. Negli Usa, nonostante le ultime minacce di attentati per il prossimo Natale, per al Qaeda è molto difficile agire. Il ventre molle del terrorismo è la grande area che ha al centro il subcontinente indiano e che arriva fino al Medio Oriente, alle coste dell’Africa e all’Indonesia: è qui che si sta


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È se mpr e la stessa guerra al m ondo liber o. Bush aveva ragione. P iù d i q u an to si pe ns i di Renzo Foa

ralmente mentre imperversavano i massacri in Algeria, sostenendo che era necessario trattare, così come è diversa da quella che venne data quando il terrorismo palestinese mandò all’aria il processo di pace - anche allora si insistette sulla parola trattativa. La risposta non può che essere diversa da quelle date allora, perché si è dimostrato che abbassare la guardia porta solo al rischio di nuove sconfitte.

C’è da tornare a chiedersi, ora che sta lasciando la Casa Bianca accompagnato da indici di popolarità molto bassi, se in realtà la presidenza di George W. Bush, segnata dalla risposta militare al terrorismo fondamentalista, non sia stata in realtà positiva, giusta, corretta. Se le grandi scelte non siano state davvero all’altezza della sfida che l’Occidente ha subito e che si è accentuata con l’attacco dell’11 settembre. Per grandi scelte penso all’intervento in Afghanistan, dove venne rovesciato il regime dei talebani, ma anche all’invasione dell’Iraq, con la liquidazione di uno dei poteri peggiori della storia recente, cioè quello di Saddam Hussein. E penso anche al tentativo di mobilitazione di tutta l’area atlantica non solo a difesa di se stessa, ma anche per attaccare un nemico che non si è fermato di fronte alle minacce peggiori, nel nes-

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so tra terrorismo e Stati canaglia. In altri termini, c’è da chiedersi se la presidenza di Bush non abbia in realtà avuto grandi intuizioni, prendendo importanti decisioni, magari - questo sì - commettendo pesanti errori nella loro realizzazione. Una presidenza che ha sbagliato non sulle grandi opzioni globali, come si tende a dire in Europa, ma su alcuni importanti atti concreti. Una presidenza che non ha sbagliato ad intervenire in Afghanistan, ma che ha for-

Lasciamo stare le immagini caricaturali dell’interventismo, disegnate da coloro che si sono illusi pensando a una tregua se sottovalutato il mosaico tribale della società afghana, che non ha sbagliato nemmeno ad intervenire in Iraq, ma che ha sbagliato imponendo un’occupazione militare e non affermando una visione politico-militare della vittoria.

Ma soprattutto una presidenza che non ha sbagliato nella sua risposta al terrorismo e alla rete di Osama bin Laden, che non ha tentennato, che ha fatto quello che doveva fare.

Dall’11 settembre tutto si è giocato - e continua a giocarsi sulla parola “guerra” anche se negli ultimi mesi il conflitto scatentato dal fondamentalismo terrorista è sembrato più lontano, forse più mediato. Ma adesso questa parola - appunto “guerra” – che fa paura soprattutto agli europei o a una parte di essi torna per forza in primo piano, da minaccia lontana diventa di nuovo un tratto della nostra condizione umana.

Un tratto che ci colpisce. Un tratto che - come raccontano le cronache da Mumbai - ci trascina in un gorgo di violenza irrazionale e senza fine. E che ci pone il problema di una risposta decisa ed efficace, all’altezza della sfida che è stata rilanciata. In che forma si pone questo problema? Lasciamo stare le immagini caricaturali dell’interventismo che sono state disegnate in questi anni da coloro che si sono cullati nell’illusione di una tregua, che hanno sperato che il conto alla rovescia per l’uscita di George W. Bush dalla scena cambiasse la natura dello scontro, dando così ragione a bin Laden. Le forme in cui questo problema si pone, invece, sono in primo luogo quelle della conferma della solidarietà con chi è impegnato nella lotta al terrorismo, ma poi quelle di un impegno diretto. Anche a non aver paura della parola “guerra”.

I nomi, le sigle contano poco. Al Qaeda è come un marchio di fabbrica senza bisogno di un sistema centrale di controllo e di comando: spesso bastano i proclami di Osama bin Laden. Il vero obiettivo comune è l’instabilità spostando il punto di gravitazione del franchising di al Qaeda. Sempre nella stessa strategia della guerra cominciata con l’attacco alle Torri Gemelle.

A sinistra, l’hotel Taj. Attaccato nella notte fra mercoledì e giovedì, è stato liberato ieri grazie a un blitz effettuato da un reparto anti-terrorismo dell’esercito indiano. Nella pagina a fianco, un soldato controlla la zona degli alberghi, dove si danno appuntamento i turisti occidentali a Mumbai

In questo piano il Pakistan è uno snodo centrale. Il generale Mario Arpino è convinto che Asif Ali Zardari, il nuovo presidente, non ho lo stesso carisma dell’ex capo di Stato, Pervez Musharraf. Le frange deviate dell’Isi i servizi segreti pakistani - che sono infiltrate dentro al Qaeda e, forse, in certi casi ne sono addirittura parte, facevano resistenza ad obbedire al generale Musharraf. Figuriamoci se obbediscono adesso a Zardari. Il controllo del Pakistan è l’altra posta in gioco del terrorismo qaedista. Ma che cosa può fare l’Occidente per contrastare questa strategia? La risposta di Arpino è: un buon accardo con il Pakistan per sradicare il terrorismo, soprattutto dalle zone tribali del Paese che sono la vera roccaforte di al Qaeda. Il presidente eletto degli Usa, Barack Obama, ha capito che il nuovo fronte della guerra al terrorismo è in questa parte del mondo. Il progetto, già annunciato a Washington, di ridurre la presenza militare in Iraq per «vincere la guerra in Afghanistan» è la prova che l’Amministrazione democratica che s’insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo vuole contrastare il riposizionamento di al

Qaeda e dei gruppi della sua galassia terroristica. Ma il generale Arpino avverte che per vincere in Afghanistan bisogna vincere anche nelle zone tribali del Pakistan. Ecco perché è necessario un buon accordo con Islamabad e una ritrovata unità d’intenti contro il terrorismo. Con Musharraf, a parte ogni considerazione sul grado di democrazia interna del regime del generale-presidente, la collaborazione per arginare al Qaeda era efficace. Può di sicuro tornare ad esserlo, ma è chiaro che i terroristi faranno di tutto per impedirlo. Il rischio potrebbe essero quello di ottenere un successo militare in Afghanistan battendo la controffensiva che i talebani, da qualche mese, hanno messo in atto contro il governo di Hamid Karzai, ma di perdere in Pakistan. Con il conseguente spostamento del fronte nelle zone tribali. Per il generale Mario Arpino è pericolosa anche l’ipotesi del dialogo con i “talebani buoni” che viene presentata da alcuni come un’alternativa all’azione militare per sradicare il terrorismo nella sua principale roccaforte. Il ritorno, anche sotto forme dichiaratamente più morbide, del fondamentalismo islamico al potere finirebbe per offrire una sponda in più al terrorismo che, dall’11 settembre del 2001, continua la sua guerra con tattiche sempre nuove. Ma con la stessa strategia.


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Fondamentalismi. Le ambizioni egemoniche qaediste sull’India, la porta sull’Oceano

Il Risiko di al Qaeda La mappa del terrorismo internazionale dall’Africa all’Indonesia Una ragnatela di organizzazioni per destabilizzare il mondo di Justo Lacunza Balda li attentati sincronizzati di Mumbai dimostrano non solo la grande capacità operativa del terrorismo islamista, ma indicano anche le ambizioni egemoniche di al-Qaeda sull’India. A prima vista un tale pensiero può sembrare una follia, ma percorrendo la storia di alQaeda e la sua presenza in almeno 60 Paesi del mondo, si arriva a una conclusione indiscutibile: niente e nessuno è riuscito a fermare la avanzata feroce né a controllare la presenza globale del movimento di Osama bin Laden. In Paesi come Afganistan, Iraq, Africa orientale, Pakistan, Somalia, Etiopia, Sudan, Africa occidentale, Maghreb, Indonesia, Malesia, Filippine si sono costituiti gruppi e sono nate cellule che operano con totale indipendenza, sempre, però, con il marchio qaedista. Hanno adottato l’ideologia dell’islamismo radicale, applicando con estrema violenza i suoi principi nel Nome dell’Islam: la jihad contro gli occidentali e i suoi alleati, la jihad contro i cristiani e gli ebrei, la jihad contro i miscredenti delle altre religioni. A tutto questo bisogna aggiungere che al-Qaeda ha come obiettivo principale rimuovere i governi in carica, togliere tutte le libertà civili e imporre con la forza la sua versionne della religione musulmana.

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med” (L’Esercito di Maometto). Attraverso queste formazioni islamiste al-Qaeda ha lasciato la sua impronta criminale, puntando innanzitutto a costituire le milizie ben disciplinate dei giovani combattenti, sempre disposte ad intervenire. Il momento propizio è arrivato con la crisi economica e il crollo finanziario a livello mondiale. Una ragione in più per mettere in evidenza i misfatti e le colpe dell’Occidente. E India, potenza economica emergente, si è affiancata ai Paesi occidentali in questo periodo di turbolenze economiche con la sua partecipazione alla riunione del G-20 di Washington. Perciò, colpire Mumbai, il centro finanziario dell’India, è una indicazione della logica jihadista di al-Qaeda. Ma l’uragano islamista ha avuto un preludio in India: l’islamismo radicale ha colpito senza pietà le chiese cristiane di Orissa, uccidendo i cristiani, incendiando chiese, distruggendo le proprietà delle comunità cristiane. Una jihad vera e propria in un paese conosciuto per la sua tradizione di tolleranza religiosa.

Ma la pianificazione degli islamisti non si ferma all’India e all’Oceano Indiano. Dal crollo delle Torri Gemelle la strategia qaedista è andata oltre il sogno dell’islamizzazione progressiva. Al-Qaeda è riuscito a fare dimenticare i problemi del Medio Oriente e a lasciare nel fossato la questione storica del problema israelo-palestinese. Non perché questo non interessi alQaeda: anzi. Quello che vogliono è mettere la zampa qaedista sul Medio Oriente, soffiando sul fuoco di un jihad senza tregua che lasci finalmente i Paesi occidentali fuori combattimento e lontano dalle vicende mediorientali. Così sarà più facile combattere il nemico sionista, conquistare Gerusalemme e finalmente piegare lo Stato di Israele e, se possibile, cancellarlo. Questo problema sarà uno dei tanti che il presidente eletto degli Usa, Barack Obama, troverà sulla sua scrivania il prossimo gennaio. Al-Qaeda lo ha già condannato con parole di disprezzo e di avvertimento, definendolo “schiavo dei bianchi”, la storia prossima ci dirà se il neo eletto riuscirà a prendere la strada giusta per sconfiggere il terrorismo islamista. A questo punto è necessario ricordare che alQaeda vuole ritornare ai tempi gloriosi delle grandi conquiste arabe. Gli ideologi e finanziatori di al-Qaeda vorrebbero controllare non solo le finanze per piegare la testa dei miscredenti, ma anche ridare agli arabi musulmani il protagonismo storico di altri tempi. Perciò, i qaedisti continuano le loro campagne di guerra aperta e le cellule islamiste, in India e altrove, continuano a seminare morte, terrore e distruzione.

Bin Laden controlla i mari del Corno d’Africa con i pirati. Senza i militari di Delhi avrebbe via libera

Dalla sua nascita in un ostello di fortuna a Srinagar (Pakistan) dove arrivavano giovani musulmani per diventare combattenti della jihad contro infedeli e miscredenti, al-Qaeda è diventata la multinazionale del terrore ed è oggi in fase di espansione. In India, in Bangladesh, e anche nell’isola dello Sri Lanka dove i musulmani sono di ascendenza migratoria e di origine araba, indiana, pakistana e malesiana. Perché al-Qaeda controlla i mari del Corno d’Africa con i pirati somali, i sequestri di persone, gli assalti alle navi e la imposizione della legge islamica con i tribunali islamici. L’allargamento verso il sud dell’India creerebbe diverse zone geografiche dove i pirati agirebbero indisturbati. Ma per arrivare a questo obiettivo occorre propagandare l’islam di al-Qaeda nel sud dell’India. Non è una coincidenza che i fautori degli attentati di Mumbay si facciano chiamare “Deccan Mujahideen”. Infatti, il termine Deccan fa riferimento al “Deccan Plateau”che comprende gli stati di Andhra Pradesh, Karnataka e Maharashtra. Negli ultimi anni la strategia dell’allargamento in India per via della rivendicazione del Kashmir ha trovato un eco favorevole nelle file dei movimenti islamisti in India, che sono di ispirazione pakistana, in particolare “Lashkar-e-Tayyiba” (L’Esercito dei Puri),“Markaz-e-Dawa al-Islam” (Il Centro di Propaganda dell’Islam) e “Jaish-e-Moham-

Medio Oriente

Il salvadanaio del jihad amas, Hezbollah, Jihad islamica, Fratelli musulmani. Sono soltanto alcuni dei movimenti terroristi islamici che operano nel grande puzzle del Medio Oriente. L’area, collegata nel profondo con la questione israelo-palestinese, è stata nel corso degli ultimi cinquant’anni una fucina di scontri, in cui sono nati i più importanti ideologi del movimento musulmano estremista. Dal Libano, dove opera il “Partito di Dio”, parte l’idea della guerriglia come strumento di legittima difesa contro tutti coloro che non osservano con rigore gli insegnamenti di Allah e del suo profeta, Maometto. In Palestina ha visto la luce Hamas, che sia pure con tonalità

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differenti coniuga il terrore e la religione alla questione territoriale e alla resistenza contro Israele. La Jihad islamica, figlia dei Fratelli musulmani d’Egitto, rilancia la necessità di ricreare l’antico Califfato passando “a fil di spada” gli infedeli. Tutti i movimenti terroristici, insomma, premettono la religione alla questione politica, che rimane però l’unico vero collante che gli permette di esistere e di tenere rapporti con il resto del mondo arabo. Rapporti che data la natura tribale della zona - sarebbero altrimenti impossibili. Il fondamentalismo musulmano diventa dunque l’unica strada di dialogo fra le etnie e le tribù che popolano l’area che divide il Golfo dall’Oceano.

Sudan

La vera culla del terrore l Sudan sembra essere una delle principali culle in cui è stata incubata la “madre”delle organizzazioni terroristiche dell’islam contemporaneo: al Qaeda. Pur essendo nata fra Pakistan e Afghanistan negli anni della resistenza ai sovietici, infatti,“la Base” ha trovato un rifugio sicuro nello Stato africano dal 1992 al 1996. Qui, giunti su invito del teologo islamico Hassan al Turabi (fondatore del movimento dei Frateli musulmani), i vertici qaedisti – fra cui lo stesso Osama bin Laden – hanno offerto il loro sostegno al neo proclamato governo musulmano. Sempre qui, sono nati i primi campi di addestramento militare per i militanti stranieri. Dal Sudan sono partiti gil addestratori che vennero arrestati in un campo di

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formazione paramilitare in Indonesia e nelle Filippine: questi hanno ammesso l’esistenza di una sorta di “scuola istruttori” per il jihad, che avrebbe sede proprio nei pressi della capitale sudanese Khartoum. Attualmente, il Paese sembra essere costretto a convivere con la guerriglia fra la popolazione cristiana, nel sud, e quella musulmana. Le milizie islamiche sudanesi, diretta derivazione dell’addestramento qaedista nel Paese, sono accusate dal Tribunale penale internazionale per il genocidio che avviene in Darfur. Fallito il tentativo di introdurre una versione integralista della shari’a nel Paese, le corti amministrano la giustizia nelle aree rurali secondo i dettami del Corano e i detti del Profeta.


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India Afghanistan - Pakistan

Il guardiano dell’Occidente

I campi di addestramento Afghanistan e il Pakistan in particolare le sue zone tribali - sono il centro nevralgico del terrorismo qaedista. Se in Afghanistan sono i talebani che compiono attentati e azioni di guerra per riprendere il potere in nome del fondamentalismo islamico che mira a distruggere l’infedele, l’origine di questa organizzazione e del suo pensiero è in Pakistan. In diverse parti del Paese vengono addestrati terroristi per la jihad. I campi d’addestramento sono stati allestiti da differenti organizzazioni jihadiste pakistane che fanno parte del Fronte Islamico Internazionale di Osama bin Laden, come l’Harkat-ul-Mujahideen (Hum, ex Hua), l’Harkat-ul-Jihad-al-Islami (Huhji) e il Jaish-e-Mohammad (Jem). Harkat-ul-Jihad-al-Islami è noto co-

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me l’Ordine dei Santi guerrieri, mentre l’Harkat-ul-Jihad-al-Islami è l’Ordine dei Jihadisti islamici e il Jaish-eMohammad è l’esercito di Maometto. Ma ci sono anche il gruppo separatista del Kashmir Lashkar-e-Toiba (Let) - uno dei possibili responsabili dell’ultimo massacro di Mumbai - e il Jamaat-ul-Fuqra (Juf) con base a Lahore. Secondo fonti d’intelligence pakistane, Shehzad Tanweer, uno dei sospetti attentatori della strage di Londra, venne addestrato in due campi del Let vicino Lahore, mentre il quarto sospettato di origini giamaicane, Lindsey Germaine, era collegato al Juf, il gruppo che, non ostacolato dalle autorità pakistane, recluta volontari negli Usa e nei Carabi: li porta in Pakistan e li addestra per poi rispedirli nei loro luoghi di origine.

l massacro di Mumbai è stato rivendicato dai Mujaheddin del Deccan, un gruppo islamico finora sconosciuto. Ma il terrorismo fondamentalista in India nasce nel 1926 con la Jamaat-I-Tabligh, un movimento di propaganda e di diffusione dell’Islam fondato dal deobandi Mawlana Elyas (1885-1994). I leader del ”Tabligh” presentano un islam puramente religioso, senza un progetto politico. Il loro obiettivo è risvegliare le coscienze dei musulmani affinché diventino ferventi credenti e praticanti dell’islam. Dopo l’indipendenza dell’India, la diaspora dei maestri tabligh raggiunge la Gran Bretagna, gli Usa e il Canada. L’altra grande branca del terrorismo in India, è rappresentato dai nazionalisti Indù che hanno recentemente attaccato i cristiani, bruciando le chiese e uccidendo sacerdoti e fedeli. Nella strage di Mumbai è molto probabile che sia sia realizzata un’alleanza di fatto tra terrorismo islamico e indù in nome del comune nemico: i cristiani e quindi l’Occidente.

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Indonesia

La testa di ponte per il Sud n Indonesia, il gruppo ultra-fondamentalista Jemaah Islamiyah (JI), considerato la testa di ponte di Al Qaeda nel Sud-Est asiatico, da tempo ha varato nuove tattiche che mirano all’uccisione di soli stranieri. Motivo: la proporzione non soddisfacente fra le uccisioni di stranieri e di indonesiani negli attentati dinamitardi. Nell’attentato all’hotel Marriott di Jakarta nell’agosto 2004, ad esempio, rimasero uccisi 11 indonesiani e un solo straniero. I capi della JI sono convinti che gli omicidi mirati possono colpire gli interessi occidentali in modo più diretto e letale.

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La tattica degli omicidi mirati di stranieri e non musulmani è stata usata anche nell’attacco di Al Khobar, in Arabia Saudita, rivendicato da Al Qaeda. L’antiterrorismo di Giakarta pensa che la JI imiti la strategia utilizzata da Al Qaeda. I legami fra Al Qaeda e JI sono provati da tempo: l’isola di Sulawesi, base delle operazioni del JI, è stata per sede anni di campi di addestramento di Al Qaeda. Secondo diversi esperti, la lotta al terrorismo in Indonesia è ostacolata dalla mancanza di volontà politica e dalla debolezza del sistema giuridico.


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Metropoli. Oltre 19 milioni di abitanti, due Borse, guerre fra bande criminali Ritratto della città simbolo di una nazione che riparte dopo gli attacchi

La New York dell’India Mumbai è la città più “occidentale” dell’ex impero coloniale Ecco perché si trova nel mirino dei fondamentalisti islamici di Maurizio Stefanini umbai, la New York dell’India: nelle dimensioni, nel potenziale economico, in certi tratti storici, e adesso purtroppo anche nella capacità di fare da grande obiettivo simbolico per il terrorismo integralista. Con 13 milioni di abitanti, che diventano 19 attraverso le due città satelliti di Navi Mumbai e Thane, il capoluogo del Maharashtra - “il Grande Stato” - è già da ora la quinta città del mondo. Ma all’attuale tasso di crescita già nel 2015 sarà la prima, con 27,4 milioni di abitanti: più i quasi 120 milioni dell’immenso agglomerato urbano che si estende tutto intorno. Insomma, la città-mondo simbolo del XXI secolo, come New York lo fu del XX e Londra del XIX. Come la Londra del XIX secolo e la New York del XX secolo la città è un incredibile mosaico di lingue, culture e religioni. Fondata dai portoghesi e sviluppata dagli inglesi soprattutto dopo che divenne il capolinea della nuova rotta del Canale di Suez, la città era nata come una Bom Baim,“Buona Piccola Baia”, che in inglese divenne Bombay, in hindi e urdu Bambai, in marathi e gujarati Mumbai. I marathi, antica etnia di guerrieri nemici storici dei musulmani che è il popolo nazionale del Maharashtra, in città sono però poco più della metà della popolazione; i gujarati, etnia oriunda del vicino Stato del Gujarat nota per le sue spiccate capacità commerciali, rappresentano un altro quinto.

Sale il bilancio delle vittime, 40 italiani messi in salvo

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In particolare, è per lo più di lingua gujarati il quasi 1% di parsi: discendenti di persiani zoroastriani scappati di fronte all’invasione islamica, che hanno in Mumbai una specie di capitale mondiale, e che sono stati all’origine sia dell’industrializzazione indiana in generale che del boom economico di Delhi in particolare. Sono parsi anche quei Tata recenti partner di Fiat e Confindustria, che a Mumbai hanno appunto il cuore del loro impero. È invece sia di lingua gujarati che marathi il 4% di jaina: altra minoranza religiosa che ha nella città una sua capitale, e che è specializ-

Blitz al Taj Mahal uccisi tutti i terroristi più di 24 ore dall’inizio dell’ondata di attacchi terroristici a Mumbai sale ancora il bilancio delle vittime mentre è stata espugnata la roccaforte della resistenza al Taj Mahal e uccisi tutti i terroristi. I morti sono 125 e i feriti 327, ma la cifra, citando fonti di polizia, è destinata ad aumentare. Al momento di andare in stampa, proseguono inoltre i tentativi dell’esercito di New Delhi di avere ragione dei terroristi e liberare le decine di persone tenute ancora in ostaggio. Immagini in diretta dalla Tv indiana Ndt mostrano in tarda serata uno scontro a fuoco nei pressi dell’Hotel Oberoi/Trident tra militari e terroristi asserragliati, e si sentono forti esplosioni mentre i primi piani del complesso alberghiero sono in fiamme. I commandos della National Security Guard (Nsg), specialisti delle operazioni anti-terrorismo che affiancano esercito e polizia a Mumbai, sono riusciti invece a liberare i quindici israeliani bloccati al centro ebraico Nariman House. La serie di assalti coordinati che hanno preso di mira località frequentate dagli stranieri, la stazione, gli alberghi, due ospedali, un ristorante, un cinema - è stata rivendicata da un gruppo fin qui sconosciuto, i sedicenti «Mujaheddin del Deccan». Ma la matrice islamica dell’attentato è fuori discussione. Rimane invece circondato dal mistero la provenienza di uno degli attentatori: in alcune immagini, tratte da un video di servizio, si vede uno dei presunti terroristi, un giovane in jeans e maglietta, che porta al polso un bracciale sacro indù. Il dettaglio allude a una possibile sinergia fra gli estremisti radicali. Il primo ministro indiano Manmohan Singh ha dichiarato ieri alla nazione che «gli attacchi sono opera di terroristi venuti dall’estero giunti con l’unica idea di portare distruzione nella capitale commerciale del Paese» e che «ci sarà un costo se non verranno prese misure adeguate per fermare questa scalata fondamentalista». Nuova Delhi ha accusato in passato Pakistan e Bangladesh di aver offerto rifugio a gruppi islamici responsabili di attentati in India e secondo un alto responsabile militare indiano, «non ci sarebbero dubbi sulla loro provenienza: dal Pakistan». Ma il ministro della difesa di Islamabad, Ahmed Mukhtar, ha negato il coinvoglimento del suo Paese. In serata, intanto, la marina indiana ha inter-

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cettato due navi pachistane al largo dell’India. E sempre la marina si è detta convinta che i terroristi siano giunti a Mumbai a bordo di un motoscafo proveniente da una nave più grande. Immediata la reazione del presidente Usa George Bush, che ha offerto aiuto a Singh e del presidente in pectore Obama, che ha sottolineato come gli Usa debbano rafforzare i propri legami con l’India ed altre nazioni allo scopo di «sradicare e distruggere le reti terroristiche».

I nostri connazionali bloccati all’hotel Oberoi sarebbero sette.Tra questi, una donna e la figlia di pochi mesi e i coniugi Patrizio Amore, 64 anni, e Carmela Zappalà, 50, genitori di un ispettore di polizia. La loro presenza nella struttura è confermata proprio dal figlio, che spiega: «Dovevano trascorrere a Mumbai l’ultima parte del loro viaggio in India. Li ho sentiti al telefono e mi hanno rassicurato sul loro stato di salute». Nessuna conferma ufficiale sulla liberazione di madre che e figlia, vivono nell’albergo dove il marito lavora come cuoco: secondo alcune voci locali sarebbero state liberate, ma non c’è alcuna conferma da parte della Farnesina. Il ministro degli Esteri Frattini ha sottolineato che «quaranta italiani sono rifugiati nel consolato italiano di Mumbai. Siamo di fronte a un strategia meticolosa che non può che appartenere ad al Qaeda». Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha fatto sapere di seguire con preoccupazione, attenzione costante e apprensione la sorte degli italiani coinvolti. E alle condanne giunte da ogni parte del mondo si è aggiunta quella del Papa che, di fronte al “brutale attacco” di Mumbai, ha lanciato un appello perché si ponga fine a tutti gli atti di terrorismo che «destabilizzano la pace e la solidarietà umana». I siti colpiti dagli attacchi terroristici simultanei, lanciati la sera fra il 26 e il 27 novembre nella città indiana, sono stati almeno dieci. Sparatorie anche nei pressi di alcuni edifici dell’area di Colaba-Nariman Point, dove si trovano gli alberghi e altri luoghi frequentati dai turisti, tra cui molti italiani, come il pub Leopold’s. Esplosioni e spari sono stati avvertiti anche a Mazgaon, la stazione di scambio della metropolitana e nell’area di Crawford market.

I nostri connazionali bloccati all’hotel Oberoi sarebbero sette. Tra questi una donna e la figlia di pochi mesi

zata nel taglio dei diamanti. Uno dei quattro centri mondiali del taglio dei diamanti assieme a New York, Anversa e Tel Aviv, dove invece la specializzazione è tradizionale appannaggio di maestranze ebraiche. Ma a Mumbai risiede anche un quarto della piccola comunità ebraica indiana. E tra il quinto di immigrati dall’India del Nord non manca un’altra comunità dalla cultura spiccatamente imprenditoriale come i sikh, che fanno per lo meno un altro 1%. Ma nel calderone etnico ci sono pure un 3% di tamil e un 2% di tulu e kannada dall’India del Sud, e un 3% di sindhi dal territorio dell’attuale Pakistan. E nel calderone religioso per lo meno un 14% di musulmani e un 1% di cristiani. Il tutto crea il 38% del gettito fiscale di tutta l’India, il 10% della manodopera industriale, il 40% dell’interscambio commerciale, il 40% del traffico marittimo, il 70% delle transazioni di capitale, il 5% del Pil, il 25% della produzione industriale.

A Mumbai hanno sede sia la Banca Centrale che la Zecca. A


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Parte da Delhi una campagna promozionale per tutelare le vittime

Contro le stragi? Assicurazioni private di Pierre Chiartano Napoli si userebbero corna e scongiu- stro furto e incendio. Ma leggiamo i numeri ri, oppure ci si rivolgerebbe al Santo del terrore in India per capire meglio il clima protettore, in India, invece, sembra di che respira da quelle parti e cosa può signifiessere entrati in una dimensione più care tradotto nel freddo calcolo dei gudagni e global. L’attacco terroristico non ha ancora delle perdite. Quest’anno, esclusa l’ultima terminato di mietere vittime nelle strade di tragedia, si sono verificati un numero di episodi terroristici che hanno Mumbay, la conta dei cadaprovocato ben 970 vittime veri è ancora in atto, che già (fonte South Asia terrorism è cominciata una campaportal). gna pubblicitaria. «Assicuratevi contro il terrorismo», Tra queste 379 tra i civili, la promuove una compa36 tra le forze di sicurezza e gnia indiana, la Optima in 555 tra i militanti del terroassociazione con altre assire. Le regioni più colpite socurazioni, evidentemente no l’Assam, l’estreabituate al clima che da anmo lembo orientale ni si vive in quel Paese. del Paese, il vicino Fra estremismo, indù, Nagaland, piccolo tamil e islamico ci saStato che confina rebbe solo l’imbarazzo della scelta nel anche col Myanmar campo dei rischi, soe il Manipur apparprattutto ramo vita. tenente alla stessa Ma non è assolutaregione estremomente una novità queorientale del substo tipo di polizza, dicontinente. ventata più conosciuta, Nel 2007 il conin Occidente, solo dopo teggio era stato l’attentato del 2001 alle simile con un toTorri gemelle. In quel tale di 1.019 cacaso le assicurazioni daveri lasciati sul terreno Una schermata del sito che avevano accumulato della follia e dell’odio omicipropone assicurazioni contro perdite per un totale di 31,7 da. L’anno precedente erano il terrorismo. A sinistra, miliardi di dollari ed era nato state 640, per cui la progresuna veduta aerea di Mumbai il problema sui premi da far sione è stata impressionanpagare per questo genere di te, diventando un fenomeno eventi. sociale che non poteva non La politica generale seguita a coinvolgere anche il ramo quel perido, avrebbe seguito assicurativo, come per i danla traccia usata con le coperni da tifoni o le assicurazioni ture dalle catastrofi naturali. sui raccolti. La società ha fatto molta pubblicità del Comunque già nel 2006, Fra le vittime degli attentati nuovo portale web (www. proprio a Mumbai, per la fesuicidi contro Mumbai c’è click2insurance.in) anche stività Navaratri, c’erano staanche un italiano, Antonio sul Wall Street Journal, tanto che è possibile scaricarsi ti dei problemi. Le compaDi Lorenzo. La Farnesina ha il documento che spiega le gnie non volevano più stipureso noto il decesso del conlinee guida e la filosofia di lare contratti durante le nazionale attraverso un comunicato e il premier Silvio grandi feste religiose, perché questo “particolare” ramo Berlusconi ha espresso il ormai i rischi erano diventati assicurativo. Si garantisce il cordoglio suo e del governo eccessivi. Troppo onerosi rimborso solo per ferite dialla famiglia di de Lorenzo. senza la possibilità di suddirettamente provocate da un Di Lorenzo, un uomo d’affavidere la copertura rivendenatto terroristico o per la ri di passaggio nella città indola. Un catena ben nota e morte causata entro i dodici diana, è morto all’interno rodata nel caso dei subprime mesi successivi all’evento. dell’hotel Oberoi, secondo e prodotti simili. E avevano Nel campo degli «special quanto riferito dal console limitato i contratti solo per Rugge. Il ministro degli Estesomme uguali o superiori al free benefit» non sono da diri Frattini ha spiegato che Di milione di dollari, indirizzata menticare le spese di trasporLorenzo è stato ucciso da fondamentalmente agli orgato della salma al luogo di reuna granata lanciata dai ternizzatori di questi grandi sidenza, sempre che tale speroristi. Diverse testimonianeventi popolari. sa non superi il due per cento ze sottolineano che gli italiaOggi, sul sito web di Optima, della somma assicurata. ni sono stati rilasciati dai terinvece, si offrono polizze Insomma gli affari sono affaroristi subito, non appena gratis ai primi 100mila clienri e i ragionieri devono far hanno dichiarato la loro nati che dovessero cliccare su quadrare i conti. zionalità. Gli assalitori, infatuna tale “fortuna”. Fino a ieNaturalmente in caso di riti, sembra che abbiano cerri l’assicurazione contro gli tardato pagamento di una racato esclusivamente turisti atti di terrorismo era solo ta il contratto scade, con deamericani e britannici. uno delle tante coperture agcorrenza immediata. Non si giuntive, un po’ come il nosa mai.

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Le agenzie si attrezzano per soddisfare le richieste dei clienti spaventati dall’esplosione di violenza

Mumbai stanno, come a New York, ben due Borse: la National Stock Exchange, terza al mondo per volume di transazioni, e la Bombay Stock Exhcange. E Mumbai è anche Bollywood, sede della più grande industria cinematografica mondiale, che vende ogni anno un miliardo di biglietti in più di Hollywood. Accanto alle grandi ricchezze, però Mumbai è anche città di miserie immense, coi due terzi dei marciapiedi letteralmente “abitati” da senza tetto che vivono per la strada. E la povertà significa anche tensioni etniche: quelle più generali che scuotono l’India, per le rivendicazione del fondamentalismo indù; quelle di segno contrario del fondamentalismo islamico; e quelle particolari dei marathi che chiedono di essere privilegiati nell’assegnazione dei posti di lavoro. Fondamentalista indù e ultraregionalista è il partito dello Shiv Sena, che quando andò al governo dello Stato nel 1995 impose di chiamare la città Mumbai in tutte e tre le lingue ufficiali: non solo in marathi ma anche in hindi e in inglese. Oltre a ciò, Mumbai è al capolinea di traffi-

ci criminali in quantità: dalla droga ai diamanti, alle armi. Come nella New York delle gangs del film di Martin Scorsese, le bande di Mumbai sono a forte collocazione comunitarie: mafie indù e mafie musulmane, come la famigerata DCompany di Dawood Ibrahim, uno dei più ricercati narcotrafficanti del mondo. Dopo gli scontri da indù e musulmani del dicembre 1992, furono attivisti dello Shiv Sena e delle mafie indù a organizzare i pogrom anti-islamici del gennaio 1993; fu la D-Company a rispondere con gli attentati del marzo 1993. Bilancio totale, tra pogrom, scontri e attentati: oltre 1300 morti.

Dal 2002 al 2006 lo stillicidio delle bombe è ripreso: in bus, treni, taxi, perfino biciclette, con un bilancio complessivo di quasi 300 morti. E via via le rivendicazioni hanno iniziato ad arrivare da gruppi di islamisti ormai differenti dalla DCompany: fino all’ultima mattanza, col drammatico salto di qualità dalle bombe alla caccia al turista a colpi di fucile e granata.

Il cordoglio per la vittima italiana


economia

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Crisi. Oggi sarà presentato in Consiglio dei ministri il provvedimento che dovrebbe ridare ossigeno ai consumi

Arriva il bonus di Natale Una tantum da 200 fino a 1000 euro per le famiglie entro la fine dell’anno di Francesco Pacifico segue dalla prima Il ministro ha ripetuto in più occasioni che detassare le tredicesime può costare per le esigue casse statali fino a 7 miliardi di euro. E che lanciare un provvedimento di questo genere a meno di un mese da Natale – quando le imprese hanno già allocato in cassa il monte stipendi – è un’operazione di una complessità assurda.

Così nessuno si aspetta per questa mattina un piano come quello messo in campo in Gran Bretagna da Gordon Brown (20 miliardi di euro) o da Nicolas Sarkozy (19 miliardi) per affrontare la crisi. Lo stesso Tesoro è stato chiaro, spiegando che anche sfruttando il rompete le righe di un anno sui parametri di Maastricht non si possono recuperare risorse per più di 6 miliardi di euro. E non è detto che tutti questi soldi finiranno nel piano oggi al vaglio di Palazzo Chigi.

A quanto se ne sa – perché i tecnici di via XX Settembre hanno lavorato ieri sera fino a tardi – l’idea è quella di un collage di provvedimenti da attuare al piu presto oppure entro l’inizio della primavera, che abbiano l’effetto di ridurre la fiscalità e aumentare la disponibilità economica sia per i lavoratori dipendenti sia per i lavoratori autonomi. Per i salariati il governo sembra di disponibile a giocare sulle risorse da destinare allo sgravio fiscale per gli straordinari e creare di fatto un ulteriore bonus o una detrazione una tantum per i nuclei familiari con redditi medio bassi fino a 22 mila euro, da erogare già in concomitanza con l’arrivo delle tredicesime. Un pensionato con un reddito fino a 15.000 euro avrà 200 euro, i nuclei con due componenti con un reddito fino a 17.500 riceveranno 300 euro. Costo complessivo dell’operazione, 2,3 miliardi di euro.

Nessuno si aspetta per stamattina un piano come quello messo in campo in Gran Bretagna da Gordon Brown (20 miliardi di euro) o da Sarkozy (19 miliardi) per affrontare l’emergenza

Una scelta con maggiori impatti politici che economici. Berlusconi lo ripete appena può: provvedimenti di natura espansiva innanzittutto sono necessari per aumentare sia il livello di ottimismo sia la propensione agli acquisti. Eppoi c’è da fare i conti con le tensioni politiche e sociali. Ieri Pier Luigi Bersani – non certo un pericoloso estremista alla Di Pietro – ha annunciato la sua partecipazione alla manifestazione della Cgil indetta per lo sciopero del 13 dicembre. Di conseguenza a Palazzo Chigi si teme che le mancate misure contro la crisi possano diventare come la riforma Gelmini un grimaldello nelle mani dell’opposizione.

Quindi, anche facendo qualche sforzo in più, un altro piccolo bonus che si aggiunge a quello fino a 800 euro finora previsto per le famiglie con reddito fino a 20mila euro lordi, il congelamento delle tariffe per i primi 4 mesi dell’anno, per non parlare delle risorse per gli ammortizzatori sociali salite a 1,2 miliardi. Se Berlusconi spinge per ottenere qualcosa in più per le famiglie, la Lega invece difende

Professionisti e piccole imprese non sono soddisfatti delle scelte economiche di Tremonti: per quietare le loro contestazioni, l’esecutivo annuncerà anche la revisione degli studi di settore le esigenze delle partite Iva. Oggi, come ha anticipato il ministro Sacconi, Tremonti dovrebbe annunciare che entro la primavera sarà rivista la congruità degli studi di settore. La richiesta potrebbe quietare

Il centrodestra prova a recuperare i consensi tra quello che è stato sempre un suo bacino naturale. E che ora si sente abbandonato

E Sacconi evita in corner l’ira delle partive Iva ROMA. In avanscoperta, davanti a quello che era una volta era il mitico e coraggioso popolo della partite Iva, è stato mandato Maurizio Sacconi. Non il loro ex beniamino Giulio Tremonti, quello che un tempo denunciava il «fisco criminogeno», né un duro e puro della Lega, l’unico partito che chiede correzioni agli studi di settore. Ieri a Roma è toccato al ministro del Lavoro affrontare l’assemblea degli artigiani della Cna. E il segretario Ivan Malavasi non ha nascosto un certo fastidio del suo mondo ricordando al governo che «dopo essere intervenuto per salvaguardare il sistema creditizio nazionale, adesso deve pensare alle imprese e alle famiglie». Più chiaro Giancarlo Sangalli, ex segretario e ora deputato del Pd: «Finora non c’è un euro di tasse in meno». Certo, questa è una confederazione che ha da sempre

vertici di sinistra, ma i suoi iscritti sono trasversali. Così ha fatto un certo effetto sentire l’indifferenza quando Sacconi ha portato il saluto del loro ex collega imprenditore, Silvio Berlusconi. «Il presidente del Consiglio mi ha raccomandato di dirvi – dicendomi che avreste capito – che nessun pessimista ha mai avuto successo». Ma non è seguito uno scroscio di applausi.

Sacconi che è cresciuto nella Cgil, sa parlare con la piccola impresa come con Confindustria, ha saputo come invertire una china in una giornata nella quale il rappresentante del governo rischiava di conquistare più mugugni di quelli raccolti da Alessandro Profumo. Ma se l’Ad di Unicredit ha rinfacciato ai presenti che il suo gruppo «alle piccole imprese ha au-

mentato del 13 per cento i crediti», il ministro ha spiegato che «in primavera saranno rivisti gli studi di settore». Manna dal cielo per la platea, anche perché Sacconi ha aggiunto: «Bisognerà correlarli all’andamento effettivo del mercato. Gli indicatori di normalità economica dovranno essere interpretati non come elementi automatici ma come indicatori, con l’onere della prova a carico dell’amministrazione». A quel punto per lui è stato facile uscire tra gli applausi. Anche perché ha promesso che gli 1,2 miliardi di euro destinati agli ammortizzatori sociali per una volta non saranno monopolio della grande impresa. «Se nascerà un fondo ad hoc da un ente bilaterale tra associazione e Pmi, sarà più facile per il governo estendere i sussidi di disoccupazione anche agli artigiani». (f.p.)

un mondo che non è sembrato finora entusiasta del pacchetto per le piccole imprese, anche perché tagliate per quelle con un numero di dipendenti e di fatturato più alto. Confermati il taglio sull’Irap che ricade sul


economia

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La vera emergenza da risolvere è quella delle regole dei bilanci

La social card? È del tutto inutile di Gianfranco Polillo segue dalla prima La carta elettronica, riservata soprattutto alle persone anziane ed alle coppie con figli a carico che non riescono a sbarcare il lunario, - il reddito previsto oscilla tra i 6 mila e gli 8 mila euro (format Isee) – potrà essere utilizzata per l’acquisto, in negozi convenzionati, di derrate alimentari e per ottenere qualche sollevio sulle bollette della luce. I negozi convenzionati ci metteranno qualcosa del loro, garantendo uno sconto del 5 per cento che il Governo spera di aumentare. Si creerà comunque una rete che potrebbe essere utilizzata anche per altri scopi e per veicolare eventuali altri benefici: frutto di successive liberalità.

monte Ires e i tre punti sulle aliquote da pagare a novembre, lo slittamento della fatturazione Iva all’avvenuto incasso, il pagamento degli arretrati dovuti alle aziende dalla pubblica amministrazione.

Il mare magnum di lavoro straordinario che è toccato ai tecnici del Tesoro, potrebbe spingere Tremonti a far slittare il provvedimento sulle banche e gli sgravi agli istituti che

emettono bond e ampliano le risorse per le imprese. Accordo di massima sul piano delle grandi opere, con il Cipe che dovrebbe sbloccare gli oltre 16 miliardi nella prossima settimana. Governo e regioni avrebbero trovato anche un accordo sui fondi Fas: agli enti locali la decisione su come destinarli, al livello centrale il controllo definitivo proprio attraverso il Comitato interministeriale dei prezzi.

Maurizio Sacconi ministro del Welfare. In alto, Silvio Berlusconi con Giulio Tremonti: tra i due è in atto una controversia sulla riduzione dell’Irpef. Il premier vorrebbe tagliarla, il ministro si oppone. A destra un’immagine della social card

Qualcosa del genere si vede, fin da ora, in controluce. Il totale delle risorse stanziate, per questo servizio, ammonta a poco più di 1 miliardo e trova copertura in fonti diverse: 250 milioni proverranno da Eni ed Enel; 450 dai conti dormienti, 170 dal decreto legge sulla manovra di luglio, altri 200 dal decreto sullo sviluppo ed i rimanenti 450 saranno invece stanziati dal prossimo Consiglio dei ministri. Già in questo panorama variegato si coglie una prima difficoltà. Stiamo raschiando il fondo del barile. Il che è paradossale. Con una spesa pubblica che sfiora il 50 per cento del Pil, ogni qual volta si tratta si trovare un minimo di risorse da destinare ad altri obiettivi, nasce il dramma. Ricerca affannosa di qualche rivolo occultato nelle pieghe del bilancio. Ministri che si azzuffano in difesa del proprio perimetro di spesa. Governatori e sindaci – che spendono qualcosa come il 50 per cento totale – che alzano ponti levatoi contro lo Stato centralista. Ma come fanno gli altri Stati occidentali? Mentre il governo italiano annunciava i suoi interventi, Sarkozy decideva un taglio dell’Iva, su auto e case, per un valore pari a 19 miliardi. Qualcosa di simile aveva fatto Gordon Brown qualche giorno prima. Per non parlare del mega intervento americano a favore dell’economia, per diversi trilioni di dollari. Perché gli altri possono fare cose che per noi sono impensabili? La risposta è semplice: il debito pubblico italiano non consente scelte. È una macigno che pesa su ogni determinazione. C’è naturalmente del vero in questa preoccupazione, ma anche una sorta di alibi per tutta la classe politica italiana. Quel debito non è nato ieri. Risale agli inizi degli anni ’80. Ed in tut-

ti questi anni si è fatto ben poco per aggredirne le dinamiche. Lo sforzo è stato quello di conviverci, con interventi ellittici che, tutto al più, ne scuotevano i rami, per raccoglierne i frutti ormai maturi. Il nodo di fondo non è stato mai aggredito. Esso è dato da quel complesso di norme e regole giuridiche che governano il bilancio dello Stato. Che lo rendono rigido e ingestibile. Una forza inerziale, insensibile ad ogni cambiamento dell’ambiente circostante.

Al contrario, la forza degli altri paesi sta nella flessibilità degli strumenti di governo del ciclo economico. Se interviene un’emergenza, devono cambiare le priorità delle politiche di bilancio. Alcuni programmi vanno annullati. Altri impostati in tutta fretta. Gordon Brown era il paladino della deregulation e del trionfo del libero mercato. È stato il primo, con un tempismo che ha fatto scuola, a nazionalizzare le banche in crisi. Questa capacità di adattamento è sconosciuta in Italia. L’orizzonte teorico che fa da sfondo alle nostre procedure è ancora quello del 1978. Quando l’Italia era impantanata nel “compromesso storico”. L’Urss non aveva ancora invaso l’Afghanistan e la Cina si leccava le ferite lasciate dalla “rivoluzione culturale”. Un mondo che non esiste più da anni. Anni che sembrano secoli. Dovevano cambiarle radicalmente ed invece sono, ancora là: salvo qualche piccola operazione di manutenzione. Perché non si è fatto e non si fa nulla? La risposta è in quel mix di conservatorismo e di opportunismo che caratterizza la politica italiana. Affrontare il tema delle riforme economiche e finanziarie significa turbare equilibri consolidati. Rimettere in discussione i rapporti tra Parlamento e governo. Risolvere l’aporia costituzionale che caratterizza il nostro sistema politico. Da un lato un sistema tendenzialmente bipolare – addirittura bipartico, almeno in prospettiva – dall’altro un ordinamento giuridico che conserva tutto il suo impianto proporzionale. Con Parlamento e Governo che cogestiscono la spesa, ma nessuno che ne controlla i possibili sviluppi. Il risultato è un magma indecifrabile: segnato dalla simultanea presenza di sprechi e di scarsità. Se la crisi avrà un effetto positivo, questo sarà quello di determinare un’accelerazione nei processi di riforma. Sempre che la politica sappia cogliere in tempo i segnali del crescente malcontento.

Il Parlamento e il governo gestiscono insieme la spesa, ma nessuno ne controlla i possibili sviluppi: il risultato è un magma indecifrabile segnato da sprechi e scarsità


panorama

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Rese dei conti. Ormai non c’è più solo Parisi a dire: «Al centrosinistra serve un altro federatore»

Quelli che rimpiangono Prodi di Riccardo Paradisi

ROMA. Scuote la testa Arturo Parisi mentre nella sala della Stampa estera di via dell’Umiltà racconta a Gad Lerner e Andrea Romano i prossimi step dell’agenda del Partito democratico: direttivo nazionale, conferenza programmatica e congresso. L’occasione dell’incontro è la presentazione del libro di Rodolfo Brancoli Fine corsa, le sinistre italiane dal governo al suicidio condotta dal giornalista del L’Espresso Marco Damilano e a cui è presente anche lo storico Lucio Villari, il più pessimista di tutti sui destini della sinistra italiana: «Andiam camminando – dice funereo – ma siamo morti». Arturo Parisi continua a lamentarsi: è convinto che Prodi fosse l’unica carta vincente per il Pd, che senza il suo lavoro di mediazione il centrosinistra italiano semplicemente non esi-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

ste. O esiste all’opposizione. «Il Pd per ora – dice l’afflitto Villari, che apre la serie degli interventi – produce solo effervescenze interne. Il berlusconismo ha di fronte a sè una legislatura per eclissare la democrazia. La sinistra del Paese resiste, ma che strumenti politici ha a disposizione? Il Pd purtroppo non è

dismo ha molti meriti: ha rappresentato il punto di sintesi della sinistra italiana, uscita dal berlinguerismo proprio grazie a questo nuovo fattore. La sinistra politica, rispetto alla quale il professore ha rappresentato un outsider, ha vissuto per anni della rendita del prodismo che a sua volta si è trovato a vivere

Non sono “girotondini da salotto”, eppure molti intellettuali del Pd sostengono: con questi dirigenti, siamo condannati all’opposizione una risposta politica». Cosa diversa, spiega Villari in quella che ormai è una lezioncina di storia contemporanea, è stato il prodismo: il suo nobile tentativo riformsita, il suo incarnare quello spirito di borghesia illuminata che l’Italia ha sempre respinto. Perchè questo Paese tollera tutto, persino il fascismo ma non il riformismo borghese».

Andrea Romano, editorialista del Riformista e editor Einaudi è il meno prodiano dei convenuti a discutere del libro di Brancoli eppure dice che il pro-

se stesso come eccezione, a percepirsi come fenomeno elitario. Un suo limite. Ma perché un outsider della politica come Berlusconi è riuscito a conquistare e organizzare la leadership di un partito politico mentre a Prodi questa operazione è risultata due volte fallimentare? Non basta a spiegarlo la sproporzione delle risorse materiali in mano al Cavaliere dice Gad Lerner: sono molti i protagonisti politici della vecchia sinistra che avrebbero dovuto togliersi di mezzo perchè il passaggio di Prodi da precursore a organiz-

zatore di una nuova forza politica potesse riuscire. Ma errori ne ha fatti anche il professore, convengono i prodiani riuniti a Roma per il libro di Brancoli. Dopo le primarie nell’Unione dell’ottobre 2005 si era aperto per Prodi una grande occasione per dire alla sinistra italiana che era ora di sciogliere i recinti. Era in quel frangente che Prodi doveva calare la carta per vincere le resistenze della formazione del Pd. Non l’ha fatto, non ha voluto forzare la mano. Come nel 1999 quando preferì andarsene a Bruxelles e non dare battaglia all’interno dell’Ulivo: «A Romano piace governare non fare politica di partito», dice Bracalini citando Flavia la moglie di Prodi, «gli dà fastidio ogni conflitto che non sia sulle cose».

Un limite non piccolo per chi deve fare politica in Italia. Ma il fatto «che il centrosinistra sia tornato allo start del duo D’Alema-Veltroni che nel 2001 portò i Ds al 16 per cento è inquietante» dice Bracalini. «Con questa classe dirigente non vinceremo mai». Ora Parisi annuisce.

Mentre cala il silenzio su Vito Scafidi, a che punto è l’anagrafe dell’edilizia?

Le scuole, queste eterne sconosciute ono passati sette giorni dalla tragedia di Rivoli e i titoli di prima pagina non ci sono più già da qualche giorno. Non ci si può occupare sempre della stessa notizia, certo. Resta da capire quando realmente si dedicano tempo, risorse, intelligenza, attenzioni, cura alla scuola italiana. Dopo la morte sul banco di scuola del liceale Vito Scafidi sono stati pubblicizzati i numeri: una scuola su due ha bisogno di interventi di ristrutturazione, in pratica una cosa come trentamila edifici. L’Italia è il Paese del giorno dopo. Dopo tutti sanno, tutti dicono, tutti intervengono. Prima, nessuno. Sette anni fa ci fu il dramma di San Giuliano di Puglia, oggi la tragedia di Rivoli. L’espressione «la scuola italiana cade a pezzi» non ha più un significato metaforico e culturale, bensì letterale: cadono proprio le scuole. Ma nonostante le scuole cadano, le amministrazioni nazionali e locali sono immobili.

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Tra lo Stato, le regioni e gli enti locali c’è un conflitto permanente su chi deve agire. «Tocca a voi». «No, vi sbagliate, è colpa vostra». Intanto le scuole crollano. Sono passati oltre dieci anni dalla legge che istituiva l’anagrafe nazionale dell’edilizia scolastica: la legge c’è, ma l’anagrafe no. Guido Ber-

tolaso ha snocciolato dati, numeri e situazioni, ma di fatto non si dispone di una mappa nazionale che disegni lo stato materiale dei luoghi dove ogni santo giorno entrano milioni di ragazzi e ragazzini.

Non ci sono neanche i parametri in base ai quali decidere il dimensionamento delle istituzioni scolastiche, senza i quali non si potrebbe conferire l’autonomia. Così, per legge, si moltiplicano i casi di illegalità, inadempienza, provvisorietà. La battuta di Giuseppe Prezzolini non è mica una battuta: «In Italia niente è più definitivo del provvisorio». Per la scuola non è una massima, ma una situazione di necessità. Una fotografia. Il decreto - il famigerato decreto Gelmini - proprio in materia di dimensionamento della rete scolastica prevedeva il commissariamento delle regioni inadempienti.

Ma il governo ha fatto retromarcia. La sinistra naturalmente ha esultato. Così lo stato di provvisorietà continua all’infinito. I Comuni e le Province sono direttamente responsabili dello stato dei luoghi delle scuole elementari e degli istituti secondari. I direttori e i presidi segnalano le cose che non vanno e gli amministratori pongono rimedio. In teoria. In pratica le scuole sono abbandonate a se stesse. Gli enti locali sono gelosi delle competenze che gli sono stati riconosciuti, ma a queste competenze non corrispondono delle reali responsabilità.

Per cui se un assessore alla Pubblica istruzione non fa il suo dovere di amministratore, non ha la sana abitudine di girare per le scuole che dovrebbe “amministrare”, non svolge il normale e prezioso lavoro di manutenzione, nessuno gli può imputare un bel nulla. Il ministero stanzia i

fondi, i soldi arrivano a destinazione, ma poi tutto si blocca e ingolfa perché subentrano interessi locali, inefficienze, disamministrazione e soprattutto il normalissimo stato di abbandono di cui gode la scuola nelle “politiche” degli enti locali. La cosa è abbastanza semplice e si risolve in questo: gli amministratori locali non amministrano.

La tragedia di Rivoli è accaduta al Nord. Tuttavia, è soprattutto al Sud che gli edifici scolastici sono messi male ed è qui che più alto è il rischio sismico. La scuola meridionale è terremotata ancor prima del terremoto. I bimbi di San Giuliano sono diventati angeli per le condizioni della loro scuola, non certo per la modesta scossa tellurica del Molise. La scuola è a tutti gli effetti, anche nei suoi aspetti tecnici e materiali, un affare umano (per dirla con parole kantiane). Ma agli uomini non interessa. Per l’Italia la scuola non è un vero problema: si può scioperare, manifestare, protestare, riformare, innovare, ma la scuola non è mai un vero problema. La scuola serve ad altro, ma non serve a educare ai valori superiori della cultura e della vita morale, senza i quali non c’è democrazia che tenga. La scuola cade a pezzi perché la decadente democrazia italiana non sa cosa farsene della scuola.


panorama

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Equivoci. La confluenza di Pionati, Santanchè, Baccini etc. nel Pdl serve anche a rimescolare le carte e sottrarne qualcuna ad An

Alleanze di centro? Sì, per isolare Fini di Errico Novi

ROMA. Il gioco si fa complicato. E quanto meno viene disatteso l’auspicio di Gianfranco Rotondi, che una settimana fa aveva lanciato una proposta: riunire tutti i piccoli del Pdl per dar vita alla “terza componente”del futuro partito e trattare così con pari dignità – seppur con minore forza contrattuale – al grande tavolo aperto da Forza Italia e An. A poco più di cento giorni dal congresso fondativo (14 e 15 marzo) l’assemblea dei soci si allarga e qualche certezza viene messa in discussione. Francesco Pionati è l’ultimo arrivato. Fonda l’“Alleanza di centro”, lascia il gruppo dell’Udc e si iscrive («per ora», avverte) al Misto. Farà anche lui parte della costituente berlusconiana, come concordato mercoledì in serata con il coordinatore forzista Denis Verdini. Obiettivo dichiarato: dare casa ai «moderati che, non condividendo l’attuale posizionamento dell’Udc, intendono collocarsi senza ambiguità all’interno del centrodestra, a sostegno di Berlusconi e del suo governo». Da una parte si punta dunque a indebolire il “centro che

Sempre più difficile mettere ordine tra le quote del nuovo partito unico: Rotondi e gli altri “piccoli” dovranno stringersi. E Via della Scrofa? non ci sta”, l’Udc appunto. Un anno fa Pier Ferdinando Casini si è rifiutato di seppelire lo scudo crociato e una storia centenaria, e allora si persevera nell’idea che a un così irriguardoso diniego si debba rispondere con le trasfusioni. Questo un

po’ complica anche i piani di Gianfranco Rotondi e, soprattutto, le aspettative degli altri “piccoli”: dal Pri di Francesco Nucara al Nuovo Psi di Stefano Caldoro, ad Alessandra Mussolini e Carlo Giovanardi. Speravano di poter custodire gelosa-

mente la loro preziosa quota all’interno del partito unico, adesso dovranno dividerla con l’ultimo arrivato. È un magma difficile da plasmare, visto che in realtà nelle ultime ore spuntano nuovi azionisti come se fossero funghi: mica si saranno messi in testa che Mario Baccini (Cristiano-liberali) rinuncerà al suo diritto di tribuna? E c’è persino Riccardo Conti, un folliniano di Brescia fuoriuscito pure lui, come Baccini e Pionati, dall’Unione di centro, ma per andarsene nella direzione opposta (con Follini appunto). Quando poi il gioco si è fatto troppo duro (all’epoca delle stentatissime fiducie di Romano Prodi) Conti ha tenuto in piedi l’Italia di mezzo, adesso pronta a fare il percorso al contrario, dritta dritta verso la costituente del Pdl. Dulcis in fundo, Daniela Santanchè: lei pure aspetta di vedersi riconosciuta una porzione di delegati (sui 6000 totali che confluiranno al congresso di marzo, sono 700 i posti che spettano in tutto alle forze minori), ma la Mussolini, Rotondi e gli altri hanno già pronta, in questo caso, l’obie-

zione per Denis Verdini: l’ex candidata premier della Destra deve scontare il suo eventuale budget (ivi comprese le ipoteche su rimborsi elettorali presenti, passati e futuri) presso il socio da cui ha iniziato il suo peregrinare, ossia An.

Proprio An sembra d’altronde l’altro obiettivo implicito, probabilmente non del tutto consapevole, dell’Alleanza di centro che Pionati si accinge a battezzare. Perché una così impovvisa concentrazione di soci alternativi può creare problemi soprattutto all’unico interlocutore in grado di incrinare la super-semplificazione del Pdl berlusconiano: la vecchia destra di via della Scrofa, appunto. Nel partito di Fini (?) le posizioni critiche come quelle di Riccardo Menia non sono più così isolate. Alleanza nazionale da un lato, alleanza di centro dall’altro: improbabile che la bilancia possa stare in equilibrio, ovvio, ma quando si prepara la nascita di un partito inforcando gli occhiali da farmacista non si può mai dire.

Cieli chiusi. La compagnia tedesca a Malpensa con nuove tratte internazionali. In realtà vuole uno spazio per i voli nazionali

Cosa cerca veramente Lufthansa in Italia di Andrea Giuricin a creazione di Lufthansa Italia e il relativo posizionamento di alcuni aerei su Milano Malpensa, non è solo un’opportunità per lo scalo milanese, ma è soprattutto un rafforzamento di una tendenza in atto nel trasporto aereo internazionale e di una strategia tipica del vettore di bandiera tedesco. Il trasporto aereo si caratterizza di due modelli principali; il primo, tipico delle compagnie tradizionali, è l’hub & spoke, dove l’aeroporto principale è posizionato nel paese della compagnia di bandiera. Il secondo, è il modello point to point che viene utilizzato principalmente dalle compagnie low cost, dove non esiste uno scalo predominante e i voli sono diretti tra le diverse destinazioni. La liberalizzazione del volo intercontinentale verso gli Stati Uniti, tramite l’accordo Open Skies, di fatto ha modificato il panorama nel settore aereo; a oggi ogni compagnia europea può collegare una qualunque destinazione negli Stati Uniti da qualsiasi aeroporto europeo. È importante quindi per una com-

L

pagnia globale come Lufthansa riuscire a presenziare i maggiori scali europei, per poi avere abbastanza traffico per alimentare una tratta intercontinentale. La scelta di cominciare a operare più di 15 voli quotidiani da Milano Malpensa verso destinazioni internazionali, quali Madrid, Londra o Parigi è molto importante nella logica multi-hubbing che la

teressante notare che Lufthansa potrà effettuare voli sul mercato internazionale e non su quello nazionale; questo dipende dal fatto il mercato interno sarà chiuso alla concorrenza dal nuovo monopolista Cai, mentre rimane lo spazio per la concorrenza in ambito europeo. Non a caso, lo stesso nuovo operatore italiano, nel proprio “Piano Fenice”, prevede che il prezzo medio del biglietto sul mercato domestico sarà più elevato di quello internazionale. Lufthansa Italia, detenuta completamente dal vettore tedesco, avrà bandiera italiana tanto che ha fatto richiesta del certificato di operatore aereo (Aoc) all’Enac; normalmente i tempi di ottenimento di tale certificato sono nell’ordine di 4-6 mesi ed è la ragione per la quale la compagnia ha già presentato domanda; anche la nuova Compagnia Aerea Italiana ne ha fatto richiesta, seppur circa un mese fa; nonostante non abbia anco-

Il monopolio italiano della Cai sarà contrastato da nuove regole, a quel punto le compagnie già attive da noi avranno opportunità importanti compagnia tedesca sta ormai attuando da diversi anni.

La creazione di Lufthansa Italia è certamente in piena concorrenza con le rotte che Alitalia ed Air France-Klm offrono attualmente dagli scali milanesi e sembra indicare che probabilmente Cai finirà con l’allearsi con il gruppo franco-olandese. È in-

ra la licenza, è previsto che Cai decolli nelle prossime settimane.

È necessaria la riapertura del mercato aereo italiano, tramite la modifica della legge 166/2008, in modo che si possa aprire alla concorrenza nei principali scali italiani dove Cai detiene una posizione monopolistica. È inoltre indispensabile un’apertura delle rotte intercontinentali con nuovi accordi bilaterali con altri Stati extra-europei. Tramite queste due semplici azioni, Lufthansa e un qualunque altro operatore che voglia investire in Italia, potranno offrire non solo voli internazionali, ma anche voli nazionali ed intercontinentali.


il paginone

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sserci o non esserci, questo è il problema. Che cosa avrebbe fatto Amleto, ridotto in solitudine a chiacchierare con un teschio? (molto dark, veramente…). Si sarebbe iscritto e avrebbe trovato amici vecchi e nuovi, sufficientemente lontani da evitarne le pugnalate, almeno quelle reali, perché da quelle virtuali non si salva nessuno. Ed ecco spiegata la “Facebookmania”, la curiosità di esserci, nel social network che ti fa ritrovare compagni di scuola, ex di tutti i generi, anche quelli che non vorresti mai più incrociare, la catena di Sant’Antonio per cui l’amico del mio amico è anche mio amico. In pratica, ti circondi di amici che non conosci, il che dimostra come il concetto di amicizia sia cambiato, parallelamente a quello di “fidanzato/a”. Ha ragione Zygmunt Bauman, è tutto liquido. Intanto Facebook è diventato un fenomeno, e chissà se se lo immaginava il diciannovenne, oggi multimiliardario, Mark Zuckenberg di Harvard che l’ha inventato nel 2004, pensando a un circolo esclusivo per tenere i contatti con i compagni di scuola, scambiarsi appunti e fare quattro chiacchiere (ma c’è chi ci vede l’ombra lunga della Cia dopo l’11 settembre).

E

Era un passatempo adolescenziale, un’alternativa all’e-mail ed è diventato una piazza virtuale dove incontrarsi, un network planetario con cento milioni di connessioni, una megalopoli da trecento milioni di dollari che consuma un milione al mese solo di energia elettrica, aperto a tutti, gratis. Iscriversi è semplice: mail, password, nome vero o finto, sesso (è obbligatorio). A scelta: il numero di cellulare, la data di nascita, le scuole frequentate, i gusti (musica, libri, hobby). Decidi il livello di sicurezza, ovvero chi può avere accesso ai tuoi materiali (tutti? Gli amici? Gli amici degli amici?) e metti in rete le foto che vuoi, matrimonio, figli, nipoti, compleanni. Un pizzico di narcisismo, un altro di esibizionismo, e rien va. Se desideri un pubblico, eccoti accontentato. Mandi una “richiesta di amicizia” che può essere o non essere accettata, accogli o respingi chi bussa alla tua porta, e almeno ci sono le buone maniere. C’è un linguaggio formale che nella vita vera è sparito. Curiosa follia epocale, secondo alcuni destinata a estinguersi senza ragioni plausibili, un po’ come i dinosauri, o a inciampare in qualche serio problema di privacy. Critico, fra i tanti, Giovanni Floris (“Ballarò”): «Non è semplice ritirarsi dal gioco, è possibile evitare che nella “bacheca”

Boom italiano per il social network più diffuso al mondo: negli ultimi tre superando il milione e mezzo. Un fenomeno di massa che ha costretto molti uff

Tutti su Facebook, app di Roselina Salemi vengano esposti giudizi su di te, evitare che qualcuno si iscriva al posto tuo». Ma l’onda è ancora troppo forte, in molti uffici le connessioni sono state disabilitate per impe-

nino alla scrivania, mentre l’anima vaga nella Rete. Nelle Università assegnano tesi di laurea e gli psicologi studiano la “deconcentrazione”. Hollywood ci farà un film,

Il sito nasce nel 2004, come un circolo esclusivo per tenere (o riallacciare) i contatti con i compagni di liceo e d’università. Oggi il suo inventore, Mark Zuckenberg, è multimiliardario dire che gli impiegati andassero in cerca di “amici” anziché lavorare. Al comune di Torino, Facebook (come eBay e altri siti di intrattenimento), è concesso soltanto nella pausa pranzo. Risultato: pa-

scritto da Aaron Sorkin. L’editore Alberto Castelvecchi, nel suo piccolo, ci farà un libro: “Rispieghiamo Facebook per chi era assente”, uscita gennaio. Il New York Times ha pubblicato una seriosa

analisi sui rischi dell’”intimità digitale”. Luca De Biase, inventore di Nòva100 ha lanciato un questionario per chi capire chi lo usa, come e perché. L’Italia è arrivata in ritardo, ma si sta mettendo alla pari. Negli ultimi tre mesi le iscrizioni sono aumentate del 140 per cento e il milione e mezzo di account è stato superato abbondantemente.

Ma la particolarità è che su Facebook non ci sono soltanto adolescenti con tanto tempo libero, ci sono occupatissimi direttori di telegiornali come Clemente J. Mimun e di settimanali come Alfonso Signorini, che presto batterà

il record di “amici” registrati (ma non è possibile averne più di cinquemila), celebrity che si lamentano di non avere il tempo per respirare, tipo Simona Ventura, e poi sono lì, grazie a un ufficio stampa che “smanetta”. Bruno Vespa ha fatto un giro e poi ha lasciato perdere.

Tra i politici, Antonio Di Pietro è stato il primo: sulla sua pagina personale conta oltre 4000 amici. Ma, se non direttamente, ci sono un po’ tutti, attraverso i sostenitori. Il ministro Maria Stella Gelmini è in cima alla classifica: ne ha più di 8000, tallonata da Walter Veltroni con 7800 (i numeri cambiano ogni gior-


il paginone

Su Facebook non ci sono soltanto adolescenti con tanto tempo libero, ci sono occupatissimi direttori di tg come Clemente J. Mimun e di settimanali come Alfonso Signorini, che presto batterà il record di “amici” registrati. Ma anche celebrity che si lamentano di non avere il tempo per respirare, tipo Simona Ventura, e poi sono lì, grazie a un ufficio stampa che “smanetta”

mesi le iscrizioni sono aumentate del 140 per cento, fici a bloccare la connessione al sito per i propri dipendenti

passionatamente no), Umberto Bossi (5760), Renato Brunetta (poco meno di 5200), Silvio Berlusconi (poco più di 4000), e giù Ignazio La Russa (2030), Massimo D’Alema, Roberto Maroni e Romano Prodi (sotto i 1500). Maluccio Gianfranco Fini: non arriva a 400 fan, ampiamente superato da Marco Pannella, Fausto Bertinotti ed Emma Bonino. Grandi numeri, invece, per le celebrità televisive, alcune diventate addict.

Paola Perego, per esempio, ha sviluppato una vera e propria di-

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pendenza: in poche settimane ha acquisito 1500 amici e, una volta chiaro che era “la Perego vera”, le richieste hanno superato le seimila. La sua bacheca, il luogo dove lasciare i messaggi, è stata presa d’assalto. Niente paura, lei è felice, segue e legge gli inviti, anche se annuncia che non riuscirà a rispondere a tutti i messaggi (500 in una volta) e si scusa. No, Facebook non può essere liquidato facilmente: è un gioco di massa, una fonte di notizie, una manna per i cacciatori di gossip e vip, un modo per monitorare i gusti e sentire l’aria che tira, un mix che attira intellettuali serissimi e fuoriditesta. Mette assieme tutti, conviene a molti.

Roberto Cotroneo ha usato Facebook per annunciare il suo nuovo libro, “Il vento dell’odio”: prima la scheda, poi la copertina e l’incipit. Aldo Nove ha un fan club: “Innamorati di Aldo Nove”. Elena Loewenthal raccoglie opinioni sul romanzo appena pubblicato: “Conta le stelle, se puoi”. Ma è entrata nel network per un motivo molto

president” e “Insegna l’italiano ad Antonio Di Pietro “, impresa che attira soltanto 36 volontari. Uno dei gruppi più gettonati è: “Che mi aggiungi a fare su Facebook se poi per strada non mi saluti”. Ed è questo il punto, il dito nella piaga. Facebook è una bellissima illusione generata dal bisogno di comunicare. Un confessionale privato, che in realtà è pubblico, come nel Grande Fratello. Una terra di nessuno dove condividere brutte foto e poesie scritte sotto l’effetto di una sbronza, sventure sentimentali e attacchi di rabbia. Accettando (o ignorando) il fatto che non sei del tutto al sicuro. La homepage di Facebook avverte: «Non possiamo garantirti che i contenuti che invii al sito non siano visualizzabili da persone non autorizzate» e «Non siamo responsabili di elusioni delle misure di sicurezza del sito o delle impostazioni della privacy». Senza contare l’impossibilità di controllare, in un mondo anarchico e globalizzato, i siti di social network. È per questo che tanti, negli Usa, hanno fatto marcia in-

Tra i politici, Antonio Di Pietro è stato il primo. Ma la classifica degli “amici” è guidata dal ministro Gelmini, davanti a Veltroni, Bossi, Brunetta, Berlusconi, La Russa, D’Alema e Maroni tenero, molto materno. Voleva sbirciare nella vita digitale dei tre figli e la più grande (24 anni), non ha accettato la sua “richiesta di amicizia” (sciò, mamma!). Poi si è fatta prendere dal meccanismo, ha aderito al gruppo Drof (“Diritto alla ruga per le over fifty”) e ha cominciato a vagabondare. Quando sei dentro, travolto dagli inviti (c’è chi fa parte di 582 club), fai surf tra serietà e goliardia, tra community letterarie e cazzeggio allo stato puro. Andrea Romano, saggista, si è iscritto a tre gruppi: “Per l’abolizione dell’aggettivo ‘straordinario’ in politica”, “Mandare in Africa Veltroni”e “Fai una pernacchia a Marco Travaglio”. Manuela Modica, giovane intellettuale siciliana, è stata accolta da “Il Molise non esiste” e “Quelli che odiano i balli latino-americani: proibiteli!” Carlo Rossella, presidente di Medusa, che non è su Facebook e forse se ne guarda bene, ha un fan club. Ma sono più divertenti gli anti-fanclub, tipo “Aboliamo Gigi D’Alessio da questo mondo” e “Eliminiamo Barbara D’Urso e Paola Perego”, anche se ti possono capitare richieste di iscrizione a “Salento vip” e “Il mio libraio è differente”e “Chi eri nelle vite precedenti?”, “Mettiamo un bavaglio a quella cafona della Mussolini”,“Santanchè for

dietro. Il primo è stato Bill Gates: ogni giorno, 8000 sconosciuti volevano diventare suoi amici. Non ce l’ha fatta. Altri, pur di andarsene, si sono “suicidati” in massa (in gergo si dice così). Non è un’eutanasia vera e propria. Per uscire si compila un modulo spiegando le ragioni, tipo «Facebook sta creando problemi alla mia vita sociale» o anche «si tratta di uno stato temporaneo. Tornerò». Che cosa rimane di te? Il profilo, coperto di grigio, ad memoriam, e i dati immagazzinati dal sistema. Una forma di immortalità, una lapide virtuale, in attesa di resurrezione.

Un’altra soluzione c’è: conoscere gli amici dal vivo ai “Facebook Party”. Al primo, allo Spazio Zero Village, in viale Tor di Quinto, a Roma, l’11 ottobre sono arrivati in 4000, al Limelight di Milano, il 22 ottobre, tutto esaurito: quindicimila iscritti (ma non si sono presentati tutti, per fortuna): è stata una festona, dieci euro all’ingresso con consumazione, fragole e champagne, e tutti contenti perché «il web aggrega le persone, non le isola». Molti bla bla sulla “nuova socialità”, e poi di corsa a casa, a cercare nuovi amici. Tutti su Facebook, appassionatamente. E un po’ disperatamente.


mondo

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Centrismo. La scelta del team economico ha deluso quelli che temono ci possa essere uno stop alla politica progressista annunciata

Obamisti per forza Secchi: «Non propone una nuova politica: tutto il mondo ha la stessa strada obbligata» colloquio con Carlo Secchi di Franco Insardà

ROMA. Sta già finendo la honey moon tra Barack Obama e la stampa americana che lo ha accompagnato fino alla Casa Bianca? Sembrerebbe proprio di sì. I media stanutinensi, stanno sollevando dubbi sulla squadra economica scelta dal futuro presidente degli Stati Uniti. Si chiedono se Timothy Geitner, Larry Summers, Christina Rommer e Paul Volcker, ex capo della Fed che è passato alla storia per aver abbattuto l’inflazione galoppante negli anni 80, siano le persone giuste per realizzare il cambiamento che è stato il motivo dominante della sua campagna elettorale. Secondo alcuni osservatori queste scelte sono da considerarsi centriste e farebbero storcere il muso all’ala più riformista dei supporter di Obama, ma Carlo Secchi professore ordinario di Politica economica alla Bocconi, non è d’accordo. Professore, allora Barack Obama è un centrista? Questa classificazione si addice poco alla cultura politica

americana, Le misure approntate dallo staff economico del futuro presidente degli Stati Uniti sono state dettate dalla situazione contingente di grande difficoltà. È evidente, essendo Obama un democratico, che c’è grossa attenzione per la coesione sociale. Aiuti di Stato, ma anche tagli alle tasse. È questa la strada giusta? È difficile fare delle previsioni. L’obiettivo è condivisibile, in questo momento è necessario rimettere in pista un sistema economico che ha ricevuto dei colpi paurosi. Aperture ai sindacati, vincoli per le banche e per i produttori di auto in difficoltà che saranno aiutati. È giusto? Sul piano politico assolutamente sì. Non bisogna dimenticare che Obama ha puntato la sua campagna proprio sugli aiuti ai ceti più poveri ed è stato votato anche in base a queste dichiarazioni.

Le misure approntate dallo staff economico, scelto dal futuro presidente degli Stati Uniti, sono state dettate dalla situazione contingente di grande difficoltà

Ma non c’è un’incoerenza tra questo e gli interventi a sostegno della finanza? Direi di no. In questo momento esiste un’emergenza e va fronteggiata. Molti esperti che fanno parte dello staff economico di Barack Obama erano anche con Bill Clinton. C’è differenza tra questa politica economica e quella clintoniana? Le circostanze sono totalmente diverse. Il presidente Clinton doveva gestire una normale congiuntura, adesso ci troviamo di fronte a un’emergenza quasi biblica. Aspettiamo di vedere come se la caverà Obama. Clinton, invece, sarà giudicato dalla storia. I mercati stanno reagendo bene all’annuncio del piano Obama, non crede? In questo momento i segnali sono più importanti dei contenuti. E la reazione dei mercati dimostra proprio questo. Il piano di Obama, infatti, è stato soltanto annunciato, ma la discontinuità con il suo predecessore ha il suo peso. Qual è il valore aggiunto che porteranno all’amministrazione Obama Geithner, Summers e gi altri del team economico? Prima di tutto si tratta di perso-

Timothy Geithner, nella foto con Barack Obama, insieme con Larry Summers e Christina Rommer forma il team economico del presidente degli Stati Uniti: in basso Carlo Secchi ne di valore, come lo sono anche quelli che collaborano con il presidente Bush. Ma? Hanno il vantaggio di essere liberi dalle azioni svolte dal governo, danno il senso del cambiamento e non ci sono pregiudizi nei loro confronti. Cambiare team è stata una buona idea.

Il cambiamento di Obama significa questo? Anche. Ma bisogna tener presente che si tratta di un cambiamento nella continuità. Qualcuno ritiene che si tratti di una squadra poco progressista per un presidente democratico, è d’accordo?

I conti in tasca. Secondo l’agenzia Bloomberg sono stati stanziati sette miliardi e mezzo di dollari

Quanto sono costati i salvataggi delle banche Usa di Alessandro D’Amato

ROMA. Settemila miliardi e mezzo di dollari. Ovvero, 7,441 trilioni: è la cifra che il governo degli Stati Uniti ha finora stanziato per fare fronte ai salvataggi di Wall Street e del sistema finanziario. Il conto lo ha effettuato l’agenzia Bloomberg, basandosi sui dati della Federal Reserve, del Dipartimento del Tesoro, della Federal Housing Administration e della Federal Deposit Insurance Corporation, e che non include i provvedimenti a favore di Citigroup, che dovrebbero far lievitare ancora di più la spesa complessiva. Il numero – impressionante – va comunque interpretato: questi fondi rappresentano non quanto è già stato speso, ma il “limite massimo”, la soglia oltre la quale, ad oggi l’amministrazioneamericana non può andare. Finora, la spesa effettiva è stata soltanto di meno della metà della cifra stanziata, ed è comunque comprensiva non solo di sussidi, ma

anche di un buon numero di prestiti, che comunque almeno in parte dovrebbero rientrare nel breve o nel medio periodo. Ciononostante, l’impressione del dato rimane intatta, specialmente se si pensa che l’intera seconda guerra mondiale, ai valori attualizzati, è costata meno della metà secondo il noto esperto di finanza Barry Ritholtz. Il dettaglio della spesa rivela che il Net Portofolio Commercial Paper della Fed è pari a 1800 miliardi di dollari, mentre i depositi garantiti dalla FDIC ammontano a 1400 miliardi; la medaglia di bronzo degli stanziamenti spetta al TARP (Troubled Asset Relief Program) del Tesoro, che arriva a 700. Intanto, fa discutere la decisione di Barack Obama di richiamare l’ex capo della Fed, per traghettare gli Stati Uniti fuori dalla crisi. Obama ha nominato l’81enne Paul Volcker alla guida di un nuovo organi-

smo consultivo della Casa Bianca: una scelta che intrinsecamente sembra una presa di distanza dall’era Greenspan, che arriva subito dopo le continue ammissioni dell’ex chairman sulla responsabilità di una crisi i cui prodromi (o per lo meno alcuni di essi) vanno ricercati nelle decisioni di politica monetaria prese durante la sua era. Volcker, democratico, è stato presidente della Fed durante l’era Carter e Reagan. Il suo nome è legato alla conclusione della stagflazione degli Usa negli anni ’70, arrivata grazie alla sua scelta di limitare la crescita della money supply: l’inflazione, che arrivò al 13,5% nel 1981, solo due anni dopo scese fino al 3,2%. Un chiaro segno di distacco dalla precedente tradizione economica, che dovrà però integrarsi con tutte le altre personalità chiamate dal nuovo presidente al capezzale del sistema finanziario statunitense.


mondo

Il sistema economico americano è basato essenzialmente sul pragmatismo, esiste un’ampia base comune sia al centrodestra che al centrosinistra Mi sembra un giudizio azzardato. Chi conosce bene la realtà americana non si aspettava un team di descamiciados. In una situazione di crisi così complessa c’è una condivisione nella sostanza delle cose nel solo interesse del Paese. Anche nelle dichiarazioni dei due candidati alla presidenza questo atteggiamento è apparso evidente. Sia un democratico che un repubblicano avrebbero avuto atteggiamenti simili facendo i conti con le cose possibili da fare. I risultati dell’azione e delle riforme di Obama si vedranno, comunque, nel medio-lungo periodo. Insomma questa crisi può essere un vantaggio per Barack Obama? È stata, sicuramente, la sua fortuna durante la campagna elettorale, oggi, vista la situazione drammatica, è la sua disgrazia dalla quale, però, potrà avere grossi vantaggi se riuscirà a superarla brillantemente. Barack Obama potrebbe utilizzare questa crisi per portare a termine, come promesso in campagna elettorale, le riforme strut-

turali sulla sanità, l’istruzione, l’energia e preparare la crescita economica degli Stati Uniti? Le riforme saranno più selettive, nel senso che bisognerà conciliarle con la scarsità di risorse. In questo momento non è facile capire i tempi e la portata della crisi. Il sistema economico americano è basato essenzialmente sul pragmatismo, esiste un’ampia base comune sia al centrodestra che al centrosinistra. I margini di manovra sono limitati anche perché sulle decisioni influiscono il Congresso e le lobby organizzate. In una situazione come questa non si possono fare miracoli. Qualche osservatore ha criticato i salvataggi che l’amministrazione americana ha messo in atto a favore delle banche. Lei pensa che siano stati giusti? Direi indispensabili. Se dovessero saltare grandi banche ci sarebbero delle conseguenze catastrofiche dalle quali sarebbe difficile venirne fuori. Abbiamo visto che cosa ha causato il fallimento di Lehman

Brothers: forse, se fosse stata salvato il sistema avrebbe avuto meno perdite. Queste critiche mi sembrano fuori luogo: le banche sono il lubrificante del sistema economico, se si fermano il motore si inceppa. Passiamo al New Deal europeo. Secondo lei questo piano non rischia di stritolare l’Italia e gli altri Paesi che si trovano nella stessa situazione? Nell’applicazione coerente del patto di stabilità 3 anni fa si tenne conto dei disavanzi dei debiti pubblici e delle prospettive di crescita dei singoli Stati. Minore è il debito pubblico più si potrà derogare al patto di stabilità. L’Italia quindi è messa male? Il nostro Paese deve tener conto della situazione, d’altro canto lo stesso presidente del Consiglio, prima ancora che fosse ufficializzato il piano dell’Unione europea, ha dichiarato che bisogna tener conto del nostro debito pubblico e procedere con cautela. Una bella sfida. I Paesi più indebitati hanno inevitabilmente un compito più difficile. Se non agiscono con cautela corrono il rischio di avere problemi peggiori di quelli attuali. L’approccio deve tendere a tamponare questa situazione e a prepararsi a sfruttare le opportunità di crescita future. Anche il governo inglese ha adottato provvedimenti che prevedono l’aumento della spesa pubblica e l’aumento delle imposte. Misure che vanno in controtendenza rispetto alla politica New Labour di Tony Blair, non crede? Gordon Brown è un pragmatico. Non dimentichiamo che era lui il ministro del Tesoro con Blair, ma adesso la situazione è completamente cambiata. Non parliamo di una situazione economica normale, è come se fossimo in guerra e bisogna adottare misure capaci di contrastare questa situazione. Penso che lo stesso Blair oggi avrebbe preso decisioni simili, con identico pragmatismo. Ritiene che quello messo a punto dall’Unione europea sia un buon piano? Le misure adottate sono sicuramente valide perché agiscono sulla domanda finalizzata alla competitività e allo sviluppo. Questo è un modo corretto di sostenere l’economia che necessariamente deve passare per un concetto fondamentale: quello di non sprecare denaro pubblico. Alla fine del 2010 l’Italia sarà riuscita a rimettersi in moto? Speriamo prima. La grande sfida è riuscire a coniugare infrastrutture e misure sociali con le esigenze di competitività e di sviluppo, senza fare investimenti inutili. Una cosa è scavare delle buche e poi riempirle, altro è realizzare delle infrastrutture che serviranno a migliorare il sistema produttivo.

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L’allarme del commissario Almunia

Ue in picchiata per tutto il 2009 S e qualcuno aveva dei dubbi ci ha pensato il commissario europeo agli Affari economici Joaquin Almunia a dissiparli. Ieri durante un incontro a Bruxelles ha detto chiaramente: «La recessione per Eurolandia può non finire nel 2009. Dovremo rivedere le precedenti stime verso una crescita negativa, che nell’ultimo esercizio di previsioni aveva indicato per la zona euro un Pil 2008 all’1,2% e uno striminzito +0,1% per il 2009. Con una leggera ripresa prevista solo per il 2010 (+0,9%)» .Proprio mercoledi l’Unione europea ha varato il piano per fronteggiare la crisi mettendo sul tavolo 200 miliardi di euro, una cifra vicina all’1,5 per cento dell’intero Pil europeo che si potranno ottenere, sforando il tetto del 3 per cento imposto dal trattato di Maastricht nel rapporto tra prodotto interno lordo e debito pubblico, mentre per i rimanenti 30 milioni ci penserà il bilancio comunitario. Il piano dovrà essere essere varato in forma definitiva dal summit in programma a Bruxelles per l’11 e 12 dicembre dove, pur lasciando agli Stati membri la possibilità di stabilire come investire i fondi, il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso chiederà che le misure economiche adottate dai singoli Stati siano coordinate.

Joaquin Almunia ci ha tenuto, però, a precisare che: «seppure sarà possibile allentare i cordoni del deficit, fino a poter sforare il tetto del 3 per cento anche se di poco e solo per un anno, il Patto di stabilità continua a esistere». Lo stesso Manuel Barroso incontrando ieri a Bruxelles i rappresentanti delle Regioni e degli enti locali nella seduta plenaria del Comitato delle Regioni per illustrare il piano di rilancio dell’economia ha sottolineato che il piano: «è una risposta senza precedenti a una crisi senza precedenti. Si può dire che bisognava fare di più, noi abbiamo coltivato le ambizioni rispettando il realismo di fronte a una crisi che non ha precedenti nell’Ue. Il nostro provvedimento interviene a breve senza mettere a repentaglio il medio e lungo periodo».

Barroso: «È una risposta senza precedenti a una crisi senza precedenti. Abbiamo coltivato le ambizioni rispettando il realismo»

Il presidente della Commissione Ue ha posto l’accento sulle misure che: «sostengono i settori più vulnerabili, perché è una questione di giustizia e solidarietà sociale». Barroso ci ha tenuto a precisare, in sottile polemica con le misure adottate da Gordon Brown, che: «È più importante intervenire per i disoccupati piuttosto che ridurre in modo indifferenziato l’Iva. Il nostro obiettivo è rilanciare il consumo, ma non è detto che il surplus di una riduzione fiscale vada poi a stimolare i consumi». Il presidente Barroso ha anche comunicato che la Commissione ha previsto di accelerare il pagamento agli Stati dei fondi strutturali e dei fondi sociali europei a sostegno dell’occupazione, di destinare almeno 4 miliardi di euro in prestiti alla Bei per sostenere lo sviluppo delle cosiddette ”auto verdi”, e di fornire aiuto alle industrie che investiranno su ricerca, innovazione, protezione ambientale, tecnologie pulite, trasporti, efficacia energetica. Barroso ha anche rivolto un invito alle banche perché: «forniscano liquidità e sostengano gli investimenti dell’economia reale’ e avanza qualche suggerimento in tema di tagli fiscali tra cui sgravi ai redditi più bassi, anche se su questo tema la parola spetta ai governi». Ora si attende anche la Banca centrale europea che probabilmente giovedì potrebbe decidere un ulteriore taglio dei tassi di interesse.


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mondo

Crack in Sudamerica. In Colombia la situazione più grave. Preoccupazione per l’Argentina

L’anno nero di Uribe di Franz Gustincich

è una crisi economica nella crisi economica: la Colombia è nel caos. Ricordate le cosiddette “società finanziarie piramidali” che condussero l’Albania alle soglie della guerra civile nel 1997? Ebbene sono riapparse in America Latina e, da circa un mese stanno concludendo il loro ciclo vitale, gettando nel caos i risparmiatori ed i mercati finanziari locali. E come in Albania, nei giorni scorsi, le autorità hanno assistito all’assalto e alla devastazione degli uffici di queste società da parte dei risparmiatori. La differenza – non da poco – della situazione colombiana rispetto a quella albanese di undici anni fa, sta nella scarsa disponibilità di armi e, quindi, nel più facile contenimento delle violenze. La provincia di Putamayo, la più colpita dalla devastante attività finanziaria, è praticamente bloccata già da alcuni giorni, a causa della protesta che imperversa in ogni piazza. Alvaro Uribe, presidente colombiano, è dovuto correre ai ripari, prima dichiarando lo stato di emergenza e, immediatamente dopo, istituendo una commissione d’inchiesta per far luce sulle responsabilità – che si preannunciano governative in larga misura – ottenendo, secondo l’opposizione, solamente la sparizione dei registri delle maggiori società coinvolte. Il compito della commissione, infatti, è tentare di quantificare quanti soldi sono già stati

C’

trasferiti all’estero e nei paradisi fiscali. Nel frattempo le società che non hanno già chiuso i battenti, vengono chiuse d’autorità, una dopo l’altra, tra lo sconcerto della popolazione.

La crisi delle “piramidali” si innesta sulla crisi globale, e gli economisti si aspettano un incremento della già forte recessione colombiana, una situazione che potrebbe dare nuova vita ai narcotrafficanti

Come conseguenza a questo disastro, oltre che alla minor disponibilità economica statunitense, Uribe teme il ridimensionamento degli aiuti che Washington ha fino ad ora erogato quale contributo al contrasto al narcotraffico. In gioco, a causa del crack, potrebbe esserci anche la rielezione di Uribe. Sono state necessarie anche delle misure straordinarie, rivolte sopratutto alle fasce più povere della popolazione, come la concessione di crediti particolarmente agevolati, disponibili anche per gli studenti. Ma la polemica verte sul fatto che numerosi sarebbero stati gli avvertimenti da parte di economisti e dei cittadini che semplicemente ricordavano quanto accaduto in Albania e, ancor prima, in Russia, mentre il governo avrebbe tollerato la presenza di questi truffatori, fintanto che garantivano tranquillità ed aspettative di benessere. La crisi delle piramidali si innesta sulla crisi globale, e gli economisti si aspettano un incremento della già forte recessione colombiana, una situazione che potrebbe dare nuova vita ai narcotrafficanti, che proprio nelle sacche di impoverimenti trovano nuova manovalanza per i loro affari illegali. La piramide classica, (da cui le piramidali), lo ricordiamo, nota anche come Ponzi scheme, è stata inventata da un truffatore nato a Parma, Carlo Ponzi, emigrato prima in Canada e successivamente a Boston negli anni Venti, dove ha messo in pratica il suo gioco. Si tratta di convogliare investimenti su progetti fittizi, garantendo interessi stratosferici. Gli interessi vengono dapprima pagati regolarmente, utilizzando gli stessi fondi raccolti e quelli degli investitori attratti successivamente, ma più si allarga la base della piramide di risparmiatori coinvolti, più aumenta il capitale necessario per pagare gli interessi.

Quando la base cessa di allargarsi, com’è naturale accada, lo schema non regge più, e il truffatore dispone comunque di di un capitale pari almeno al 50% dei soldi versati. L’America Latina nel suo insieme, però, sembra essere meno colpita dalla crisi globale, sia per la forte espansione e la ripresa seguita ai crolli (ricordate i Bond argentini?) che ha caratterizzato gli ultimi anni. La Corporazione Andina di Sviluppo (Caf) un organismo economico transnazionale, ha annunciato che aumenterà il fondo per il credito ai Paesi aderenti, di un miliardo di dollari, oltre ai 7,5 già previsti.

A preoccupare i mercati occidentali è l’Argentina, con la decisione di nazionalizzare i fondi pensione privati, costringendoli a vendere gli assets esteri: se ciò venisse seguito da altri Paesi sudamericani si assisterebbe ad un ulteriore crollo delle borse, Wall Street in primis. Molti Paesi dell’America Latina, tuttavia, dispongono ancora di un asso nella manica per tentare di riavviare le proprie economie: è il caso non solo dell’Argentina, ma anche di Cile e Brasile, per fare un esempio, che stanno attendendo il momento più opportuno per mettere mano alle politiche fiscali di incentivazione, ancora intoccate. Uribe, molto prosaicamente, in un messaggio ai suoi connazionali ha citato la Bibbia per ricordare che il denaro è un illusione: «Ricordatevi di quel che ha detto il Signore: devi guadagnarti il pane con il sudore della fronte».

in breve Thailandia, premier dichiara stato emergenza Il primo minsitro thailandese, Somchai Wongsawat, ha dichiarato lo stato di emergenza dei due aeroporti di Bangkok, chiusi fino a sabato. In un appello televisivo alla nazione il premier ha spiegato «che la polizia e alcune unità militari hanno tentato di porre fine alle proteste» all’aeroporto Suvarnabhumi (voli internazionali) e a quello di Don Muang (voli nazionali), «ma i dimostranti hanno rifiutato di andarsene». Circolano intanto le voci di un colpo di stato ma, mentre i turisti stranieri cercano di lasciare la Thailandia, l’esercito ha negato qualsiasi tentativo di putsch. «L’esercito ha dispiegato dei carri armati per ragioni strategiche ma non c’è nessun golpe», ha dichiarato all’Afp un portavoce militare, il colonnello Sunsern Kaewkumnerd.

Iraq, parlamento ratifica patto Usa Con una maggioranza di 144 voti su 198 presenti, il parlamento di Baghdad ha ratificato il patto strategico con Washington che prevede il ritiro delle truppe Usa dal Paese entro la fine del 2011. Prima del voto sull’accordo presentato dal governo, i deputati hanno approvato con 149 (su 198 presenti) voti il documento per le Riforme politiche raggiunto tra il governo e l’opposizione che sarà sottoposto ad un referendum entro il 31 luglio 2009.

Papa, appello per suore rapite

Il presidente colombiano Alvaro Uribe e, a lato, risparmiatori furibondi manifestano per le vie di Bogotà dopo il crollo delle ”piramidi” che hanno inghiottito tutti i loro risparmi

Benedetto XVI «segue con preoccupazione» il rapimento avvenuto in Kenya delle 2 religiose, suor Maria Teresa Olivero e suor Caterina Guiraudo, ormai in mano ai sequestratori da 15 giorni. E ieri ha lanciato un appello per una rapida liberazione.


mondo

28 novembre 2008 • pagina 17

in breve Kosovo: piano Onu. Serbia plaude, Pristina condanna

Londra. La neo ministra dell’Istruzione, Sarah McCarthy-Fry, vuole ripristinare le classi separate

Torna il banco unisex di Silvia Marchetti

LONDRA. Che siano i ragazzi ad allontanare le ragazze dalle carriere scientifiche, a farle odiare la matematica e preferire l’insegnamento? In Inghilterra la neo ministra dell’istruzione Sarah McCarthy-Fry, entrata nel governo dopo il recente rimpasto voluto da Gordon Brown, la pensa esattamente così e vorrebbe riportare in vigore le classi separate maschifemmine nelle materie scolastiche scientifiche, dalla chimica alla fisica alla biologia fino all’ingegneria. Una nostalgia delle aule unisex, come ai bei vecchi tempi dell’era vittoriana. Perché secondo la ministra McCarthy le fanciulle sarebbero molto più portate a ragionare in termini matematici e quantistici, ma verrebbero demotivate dai loro colleghi. «Le ragazze sono messe in soggezione dai loro coetanei che alzano sempre la mano facendo i saputelli, i primi della classe» - spiega la ministra - bisogna invece incentivare le ragazze, fare in modo che possano dare il massimo di sé nei laboratori scientifici e questo è possibile soltanto con la reintroduzione delle classi unisex. Non vedo perché ciò non possa accadere». Basta, dunque, con la consuetudine che vuole il gentil sesso più portato per le materie umanistiche, le lingue, l’insegnamento o la professione di infermiera. McCarthy vuole distruggere lo stereotipo che vede la scienza come terreno esclusivo del cervello maschile.

«ci sono delle sostanziali differenze neurologiche». McCarthy crede invece che si tratti di metodo: «Occorre presentare e insegnare le materie scientifiche in modo tale che le ragazze si avvicinano a queste altre carriere, rendere insomma i numeri meno terrificanti».

nistra Sarah, succeduta a Lord Adonis alla guida del dicastero dell’istruzione, ha deciso che non resterà nell’ombra ed è così partita subito con una proposta a dir poco “indecente”. Anche se non è stata la prima: la settimana scorsa la signora Vicky Tuck, presidentessa dell’associazione nazionale del-

È necessario sviluppare nel gentil sesso la predisposizione alla scienza, partendo da altri interessi. «Per esempio - continua la ministra - se una ragazza ha a cura i problemi ambientali va incoraggiata a studiare le energie rinnovabili, se invece è interessata nella salute questa sua passione in futuro potrebbe portarla a disegnare un nuovo incubatore che salvi la vita ai neonati». La collega di Brown vuole fare le cose in grande, forse per paura che presto i laburisti se ne vadano a casa cacciati dai conservatori. McCarthy ha infatti intenzione di lasciare il segno in questi pochi mesi di governo, oltre alle classi separate unisex vorrebbe mandare all’università anche i ragazzi delle famiglie più disagiate. Detto questo, a differenza di molti altri Paesi europei, tra cui l’Italia, nei licei inglesi le materie scientifiche vengono studiate in maniera approfondita. Si fanno veri e propri esperimenti di laboratorio, si analizzano al microscopio gli effetti di una reazione chimica e la formazione delle cellule umane. Gli studenti ricevono in questo modo un ottimo background per proseguire poi a livello universitario. Sta di fatto che le preoccupazioni delle femministe inglesi (McCarthy in testa) sono più che fondate. Secondo le statistiche ufficiali del ministero dell’istruzione, le ragazze respingono sempre più gli studi scientifici. Nel 2008 i ragazzi erano quasi il doppio delle loro coetanee nelle classi di chimica, biologia e fisica.

Sono 400 le scuole “monogenere”, a fronte delle 2.500 di cinquant’anni fa. La maggior parte sono private, ma di recente un paio di istituti pubblici hanno applicato il metodo in via sperimentale

Ma la crociata “unisex”della neo ministra potrebbe rivelarsi un boomerang. L’idea, in fondo, mal si addice a una Paese come l’Inghilterra, dove i moti femminili scossero tutta l’Europa e l’uguaglianza sessuale fa invidia al resto del mondo. Ma tant’è: la mi-

le studentesse inglesi, ha parlato in favore di un ripristino addirittura delle scuole (non solo classi) separate per ragazzi e ragazze, passate da 2500 nel 1960 ad appena 400 di oggi. La maggior parte di queste sono private, ma negli ultimi tempi anche un paio di istituti pubblici hanno introdotto la sperimentazione delle aule unisex, tra cui una scuola di Shenfield nell’Essex. Casi che sono sotto osservazione della ministra McCarthy e dei suoi tecnici. Questione di superiorità cerebrale? Mrs. Tuck è convinta che le fanciulle abbiano altri metodi di apprendimento dei ragazzi,

Grande soddisfazione a Belgrado, stizza e recriminazioni a Pristina. Sono queste le reazioni sul campo all’indomani dell’approvazione da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu del nuovo piano di dispiegamento differenziato in Kosovo della missione Ue dell’Eulex (forte di 2mila funzionari), dichiarata fra l’altro “neutrale” rispetto al riconoscimento della controversa secessione dalla Serbia proclamata il 17 febbraio dalla ex provincia a maggioranza albanese. «Accogliamo con grande soddisfazione l’adozione del piano del segretario generale, Ban Ki Mooon», ha affermato il primo ministro serbo, l’europeista Mirko Cvetkovic. Si tratta di «una decisione molto importante per lo sviluppo futuro delle relazioni regionali» nei Balcani, ha rimarcato. Di tenore opposto i commenti della leadership kosovaro albanese, che ritiene il piano un cedimento verso Belgrado e una sostanziale spartizione del Kosovo. Il piano di Ban Ki Moon, nonostante le proteste kosovare, prevede non solo la neutralità di Eulex sul tema chiave dell’indipendenza, ma anche un suo dispiegamento a macchia di leopardo, affiancato in particolare dal mantenimento della vecchia missione Onu dell’Unmik nella principale residua enclave serbofona, Kosovska Mitrovica, riconosciuta nel suo attuale regime di autonomia totale da Pristina.

Scudo antimissile, primo ok Rep. Ceca ll senato ha approvato ieri a Praga l’accordo principale per l’installazione nella Repubblica Ceca di una stazione radar antimissile nell’ambito del progetto dello scudo spaziale americano. In favore hanno votato 49 senatori degli 81 presenti. Con lo stesso risultato il Senato ha approvato l’accordo complementare sullo stazionamento dei soldati Usa nella Repubblica ceca (Sofa). Entrambi gli accordi entreranno in vigore dopo la ratifica della Camera dei deputati e dopo la firma del presidente Vaclav Klaus.


cultura

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Urss. Disegnando un complesso e penetrante ritratto di Lenin, lo scrittore medita sulle radici profonde del bolscevismo, ripercorrendo l’intera storia della Russia

Il cimitero della libertà Il dramma umano e intellettuale di Grossman, caduto in disgrazia per non aver nascosto la verità di Ettore Cinnella egli anni in cui, dopo il XX congresso del Pcus, le cronache letterarie e politiche nel mondo occidentale riboccavano di notizie e commenti sulla mancata pubblicazione in patria del Dottor Zivago e del clamoroso esordio narrativo di Solzhenitsyn con Una giornata di Ivan Denisovic, nessuno era ancora a conoscenza del dramma umano e intellettuale di Vasilij Semenovic Grossman. Scrittore un tempo famoso e apprezzato sia dal pubblico che dagli ambienti ufficiali, Grossman stava ultimando un grosso romanzo, Vita e destino, con la speranza di vederlo stampato in patria. È vero che talune delle sue opere precedenti erano state censurate, o criticate in maniera rude, sul finire dell’era di Stalin. La grande inchiesta, condotta assieme ad Il’ja Erenburg, sulla sorte degli ebrei sovietici durante l’occupazione nazista, già pronta per la stampa nel 1947, era stata bloccata dalla censura (Vasilij Grossman e Il’ja Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici, 1941-1945, edizione a cura di Arno Lustiger, Mondadori, 1999). Del suo affresco sulla battaglia di Stalingrado, Per una giusta causa, accolto con entusiasmo dai lettori, un critico malevolo aveva scritto sulla Pravda del 13 febbraio 1953 che l’autore non mostrava il decisivo ruolo del partito nell’organizzazione della vittoria. Ma adesso i tempi sembravano mutati, le riviste letterarie s’erano fatte assai vivaci, racconti veritieri sulla realtà delle città e delle campagne sovietiche cominciavano a veder la luce, la denuncia del “culto della personalità” lasciava presagire l’avvio d’una libera riflessione sugli orrori del passato staliniano.

N

Forse Grossman non s’aspettava che il suo manoscritto di Vita e destino, offerto in visione ad una famosa rivista, sarebbe stato non solo respinto, ma addirittura consegnato al

Kgb e che la polizia politica gli avrebbe sequestrato tutti i dattiloscritti e i materiali del romanzo. Grossman si rivolse a Krusciov in persona per chiedere giustizia; ma, per tutta risposta, l’ideologo del partito Suslov gli comunicò che il suo libro avrebbe potuto veder la luce soltanto dopo 200 o 300 anni.

La sinistra profezia, per fortuna, s’avverò solo in parte, ché

logico di tipo particolare: ricostruire il testo definitivo di un romanzo confiscato dalla polizia. Un problema che i manuali di filologia non avevano previsto» (V.S. Grossman, Vita e destino, Jaca Book, 1984, p. 17). Soltanto oggi, con la nuova traduzione approntata da Claudia Zonghetti per Adelphi, il lettore italiano dispone del testo definitivo e integrale d’uno dei classici della letteratura novecentesca. Impadronendosi del-

L’autore non s’aspettava che il suo manoscritto, offerto ad una rivista, sarebbe stato non solo respinto, ma addirittura consegnato al Kgb Vita e destino apparve - all’estero - nel 1980, quando l’esacerbato autore era da tempo scomparso (e in patria il libro sarebbe uscito anni dopo, durante il regno di Gorbaciov). I poliziotti sovietici, comunque, si presero la ri-

vincita rendendo di fatto, per lungo tempo, ardua la ricostruzione del testo autentico del romanzo, le cui stesure manoscritte e dattiloscritte erano da loro gelosamente sigillate. Come ebbe a notare con una punta d’ironia Efim Etkind, curatore della prima edizione estera del romanzo, ciò richiese «un lavoro filo-

le carte di Grossman, i censori sovietici videro giusto, intuirono cioè la natura radicale ed eversiva di Vita e destino, che formalmente era la seconda parte del dittico sulla battaglia di Stalingrado, ma che in verità rappresentava un’opera nuova e originale rispetto a Per una giusta causa (apparso nel 1952). Sin dalle prime pagine del romanzo, nel dialogo tra prigionieri russi in un lager nazista, il “folle in Cristo” (jurodivyj) Ikonnikov formula una concezione della vita e del mondo agli antipodi di qualsivoglia ideologia, sia essa politica, sociale o religiosa: «Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà». L’antitesi fra «bene» (dobro) e «bontà» (dobrota) è uno dei motivi centrali del romanzo e viene formulata più compiutamente. È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie». L’umile e fattiva bontà, contrapposta all’invadente e oppressivo “bene”, è il criterio con il quale vengono osservati e descritti gli eventi e i protagonisti del romanzo. Sul grandioso sfondo della battaglia di Stalingrado s’intrecciano i destini in-

dividuali dei soldati russi, dei militari tedeschi e dei cittadini sovietici. Il romanzo etico-filosofico, intessuto di riflessioni sulla vita e sulla morale, si trasforma così nella rievocazione d’un cruciale momento della storia novecentesca, il duello all’ultimo sangue tra la Germania nazista e la Russia sovietica. Ne risulta un’epopea realistica, che mostra gli uomini in carne e ossa dei due campi avversi. La descrizione dell’uno e dell’altro mondo consente all’autore di cogliere le sorprendenti e paurose analogie tra i due regimi totalitari, nei quali lo Stato onnipotente schiaccia e annienta i singoli individui. Proprio l’evento storico che, più d’ogni altro, è sempre valso a magnificare il sistema sovietico e la sua supposta superiorità etico-politica sulla Germania hitleriana, qui offre il destro per una riflessione sagace e impietosa sulle affinità tra nazismo e comunismo.

Indicibile è l’orrore suscitato dai progetti nazionalsocialisti e inappellabile la condanna del fascismo: «Il giorno che il nazifascismo si convincerà del proprio definitivo trionfo, il mondo annegherà nel sangue. Se non troveranno più avversari in armi sulla terra, i boia che ammazzano donne, vecchi e bambini non avranno più freni. Perché è l’uomo il primo nemico del fascismo». All’analisi dell’antisemitismo, delle sue radici e della sua fenomenologia è dedicato il capitolo 32 della seconda parte. La mala pianta dell’odio antiebraico può crescere anche nei paesi democratici, dando vita ad un «antisemitismo di natura sociale, che si manifesta negli organi di stampa appartenenti a gruppi reazionari, nell’operato di quegli stessi gruppi»; invece «nei paesi totalitari, dove la società civile non esiste, può svilupparsi solo un antisemitismo di Stato». La comparazione tra il comunismo sovietico e il nazionalsocialismo, sottesa in tutto il libro, prorompe con energica vividezza nell’improvvisa apparizione di Hitler e di Stalin, dei quali viene immaginata la reazione alle notizie provenienti

da Stalingrado. La presenza, tra i protagonisti, del dittatore bolscevico e del Führer nazista (assieme ad altre figure, come Eichmann, von Paulus e diversi generali sovietici) fa di Vita e destino un romanzo storico, oltre che filosofico e realistico. Meno riuscita e calzante a me pare l’immagine di Hitler, vagante nel bosco e assalito da paure infantili dopo l’accerchiamento dell’armata di von Paulus. Del resto, riuscirà mai qualcuno a cogliere gl’intimi moti dell’anima d’uno tra più enigmatici e insondabili personaggi storici di tutti i tempi? Suggestiva e profonda, per la sua pregnanza simbolica e conoscitiva, è la rievocazione di Stalin prima e dopo la battaglia di Stalingrado.

Grossman raffigura una prima volta il signore del Cremino, nei giorni della disfatta, insofferente di Berija («forse perché gli leggeva nel pensiero») e alle prese con i fantasmi delle sue innumerevoli vittime: «Dietro ai carri armati di Hitler, in


cultura inspiegabile, sino alla lenta decadenza e alla morte ingloriosa per interna putrefazione.

Un’altra cosa saggia e profonda Grossman ci mostra nel suo romanzo, seguitando a riflettere sulla comparazione tra i due regimi e sul significato storico della battaglia di Stalingrado. Già simili negli apparati repressivi, dopo il 1943 nazismo e comunismo andarono avvicinandosi anche in taluni aspetti della dottrina ufficiale. Fu lo stalinismo a mutar pelle, copiando l’ideologia sciovinistica del suo nemico. La guerra di popolo contro il nazismo consentì a Stalin di «proclamare apertamente il nazionalismo di Stato». I russi «cominciarono allora a guardare a se stessi e alle altre nazioni con occhi diversi. Ormai la storia era la storia della gloria russa, non quella delle sofferenze e delle umiliazioni patite da contadini e operai patri». In Vita e destino il mondo sovietico è da Grossman osservato al centro come in periferia e descritto nei suoi molteplici aspetti politici, sociali, culturali. Per la ricchezza dei dettagli sulla vita quotidiana al fronte e nelle retrovie, a Mosca come nelle città di provincia, il romanzo è anche un illuminante affresco storico sull’Urss durante la seconda guerra mondiale. L’autore, del resto, conosceva bene la vita sia civile sia militare del suo paese, essendo stato corrispondente per il giornale delle forze armate (Stella rossa) negli anni

mezzo alla polvere e al fumo, gli sembrava che avanzassero tutti quelli che aveva punito, represso, domato». Con l’annuncio della vittoriosa controffensiva sovietica, mutarono l’atteggiamento e lo spirito del generalissimo comunista. Mezzo secolo fa Grossman intuiva, con geniale anticipazione sui tempi, una verità profonda da pochi ancor oggi capita e assimilata. Il comunismo sovietico, isolato e agonizzante alla vigilia e all’inizio della guerra, trasse linfa e vigore dal trionfo sugli occupanti nazisti; ed è questa la ragione principale della sua perpetuazione, altrimenti

Nella foto qui sopra, Vasilij Grossman. Nelle foto piccole (dall’alto): Stalin; Nikita Krusciov; Michail Gorbaciov

del conflitto bellico. Oltre a rappresentare la vita quotidiana all’epoca dello stalinismo trionfante, l’autore indaga sulla fenomenologia etica del comunismo sovietico attraverso alcune figure di vecchi bolscevichi dalla fede incrollabile, che finiscono anch’essi stritolati dalla mostruosa macchina del terrore. Il problema della dignità e della resistenza dell’individuo, solo e fragile dinanzi al gigantesco e onnipotente Stato totalitario, è simboleggiato nella vicenda del fisico teorico Strum, un ebreo caduto in disgrazia, il quale ha la forza di rifiutare l’assurda e umilian-

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te abiura richiestagli. Quando, fiero e rassegnato, egli attende l’arresto e la sicura condanna, riceve una telefonata da Stalin, che gli domanda cosa gli occorre per il suo prezioso lavoro scientifico. Contro ogni aspettativa e previsione, Strum può considerarsi salvo e magari godersi la rivincita sui suoi meschini accusatori. Ma dall’altra terribile prova, nella quale subito dopo incorre, egli esce sconfitto. Allorché gli chiedono di sottoscrivere un delirante appello di scienziati sovietici, che accusano due noti medici ebrei d’aver assassinato Gor’kij, Strum non sa tirarsi indietro e appone la sua firma: «Strum aveva sbandierato il proprio coraggio e la propria rettitudine facendosi beffe di chi si mostrava debole e pavido. Ma poi anche lui, uomo, aveva tradito altri uomini. Disprezzava se stesso, si vergognava». Strum potrà sperare di riscattarsi dall’abiezione solo tornando «a essere il figlio di sua ma(un’ebrea dre» che, prima di morire nel ghetto allestito dai nazisti, era riuscita a mandare una lettera al figlio). Al Novecento, secolo selvaggio e generatore di mostri totalitari, Grossman contrappone il secolo umanitario che l’aveva preceduto. È, questa, un’altra delle sue lucide e mirabili intuizioni: «Il secolo di Einstein e Planck era diventato anche il secolo di Hitler. La Gestapo e il Rinascimento scientifico erano figli della stessa epoca. Com’era umano il XIX secolo, il secolo della fisica ingenua, rispetto al XX: il XX secolo aveva ucciso sua madre».

Il cupo e tragico sfondo storico, sul quale campeggiano personaggi dai nomi altisonanti e dai poteri illimitati, serve a dare maggior risalto all’umilissima epopea dei genuini sentimenti umani. Uno dei più alti momenti poetici del romanzo è, senza dubbio, la lunga lettera d’addio della madre a Strum; e non meno bello e commovente è il dialogo di Ljudmila Nikolaevna con il giovanissimo figlio, da poco seppellito in un cimitero militare. In un mondo fosco e lugubre, dominato da regimi aggressivi e sanguinari, la libertà sembra annientata. Tuttavia, «il desiderio congenito di libertà non può essere amputato; lo si può soffocare, ma non distruggere... L’uomo non rinuncia mai volontariamente alla libertà. E questa conclusione è il faro della nostra epoca, un faro acceso sul nostro futuro».

Meditando sulla fine della libertà in Russia, Grossman mette in bocca ad un protagonista l’asserzione, blasfema per uno scrittore sovietico, che era stato proprio Lenin ad annientare la libertà in un paese il quale, dopo “mille anni” di schiavitù, cominciava appena ad assaporarla nel 1917. Il fugace accenno al tenebroso passato della Russia e al ruolo nefasto di Lenin sarà ripreso e sviluppato nell’ultima opera di Grossman, il romanzo Tutto scorre, composto all’inizio degli anni ’60 e pubblicato anch’esso postumo, all’estero, nel 1970 (tradotto in italiano da Pietro Zveteremich per Mondadori, nel 1971, e da Gigliola Venturi per Adelphi, nel 1987). Qui non solo leggiamo un intero capitolo dedicato alla drammatica e icastica rievocazione della terribile carestia del 1932-1933 in Ucraina, il raccapricciante holodomor (sterminio per fame) in cui perì il fior fiore dei contadini.

Affrontando in Tutto scorre il tema dello “Stato senza libertà” (creato da Lenin, edificato da Stalin ed entrato, dopo la morte del dittatore georgiano, nella sua terza fase), Grossman ha modo di disegnare un minuzioso, complesso e penetrante ritratto del fondatore del bolscevismo, un personaggio «tutt’altro che facile da decifrare». Egli medita poi sulle radici profonde della vittoria del bolscevismo liberticida, ripercorrendo genialmente l’intera storia della Russia: «lo sviluppo dell’Occidente era fecondato dalla crescita della libertà, mentre lo sviluppo della Russia era fecondato dalla crescita della schiavitù». Soltanto nell’Ottocento, con l’emancipazione dei contadini, «vacillò il principio basilare della vita russa: il rapporto fra progresso e servaggio». Ma quando «nel febbraio 1917 si aprì davanti alla Russia la strada della libertà», «la Russia scelse Lenin». Mentre Solzhenitsyn, movendo dalla denuncia del comunismo, sarebbe approdato all’esaltazione mitologica e slavofila dei più torbidi aspetti del passato russo, Grossman ebbe l’acume e l’ardimento di scoprire e di rivelare verità terribili e amare: «il corso della storia russa determinò Lenin - per strano, per assurdo che sembri - a conservare la maledizione della storia russa, quel rapporto millenario tra il suo sviluppo e la sua non-libertà, la servitù». Poiché la storia dell’umanità «è la storia della sua libertà», «dov’è mai la speranza della Russia, se perfino i suoi grandi profeti non distinguono la libertà dalla schiavitù?».


spettacoli

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Fiction. Domenica e lunedì andrà in onda lo sceneggiato su Paolo VI, il pontefice che ha traghettato la Chiesa nella modernità

Il Papa di frontiera formato tv di Francesca Parisella

il 6 settembre 1978, a un mese dalla morte di Paolo VI, quando il neoeletto Papa, Giovanni Paolo I, ricordò i quindici anni del pontificato del suo illustre predecessore, anni importanti per la storia della Chiesa per gli «enormi servizi resi» e i cui effetti, come sostenne lo stesso Giovanni Paolo I, si percepivano già allora e che riteneva sarebbe stati «più evidenti in futuro».

È

Una giusta considerazione con la quale in molti concordano e che, a trent’anni dalla morte di Paolo VI, è stata determinante perché si decidesse di raccontare la vita del Cardinale Montini in una fiction, una coproduzione Lux-Vide e Rai Fiction, che andrà in onda, in prima serata su Rai Uno, domenica 30 novembre e lunedì primo dicembre. A portare in immagini la significativa storia di Giovanni Battista Montini, gli sceneggiatori Francesco Arlanch, Maura Nuccetelli e Gianmario Pagano, con la consulenza del professore Giuseppe Lazzaro, direttore delle Edizioni Studium, fondata proprio da Montini nel 1927. Un ottimo lavoro di collaborazione iniziato a novembre dello scorso anno per dare vita sul piccolo schermo alla storia di un personaggio storico «molto complesso per la sua ricchezza e importanza», un personaggio che con il suo percorso di vita porta con sé cinquanta anni che determinarono la storia del nostro paese, ma anche di tutto il mondo sconvolto da guerre, quali il secondo conflitto mondiale, la guerra in Vietnam, e da un profonda trasformazione sociale. Molti i testi e le biografie consultate dagli sceneggiatori, tra queste una delle più affascinanti, per Francesco Arlanch, è l’opera di Carlo Cremona, «una biografia affascinante nella sua semplicità», che ben racconta la figura di questo grande Papa, forse poco comunicatore, rispetto ad altri Papi che lo seguirono, il cui ruolo fu fondamentale per traghettare la Chiesa nella modernià. Un uomo colto, riservato e umile, ma molto determinato nel suo percorso di vita, quella vita che dedicò a Dio e agli altri, in nome della libertà, «la chiave di fondo per raccontare quello che si può definire un vero eroe della libertà, una caratteristica che lo segue in ogni fase della sua vita» (Arlanch). È la sua ricerca della libertà che lo porta a seguire con passione i giovani della Fuci – la Federazione Universitaria Cattolica Italiana – e i loro percorsi di vita, è sempre in nome della libertà che prosegue i lavori del Concilio Vaticano II, tanto voluto dal suo predecessore Giovanni XXIII, ed è ancora in nome della libertà che scrive

la toccante lettera alle Brigate Rosse, un grido di dolore per il rapimento dell’amico Aldo Moro. È da questa vicenda che ha inizio la fiction. Siamo a Roma, quando Paolo VI riceve la notizia del sequestro dello statista democristiano, una vicenda che per 55 giorni terrà con il fiato sospeso l’intero paese, giorni che hanno segnato la storia del nostro paese e che addolorarono profondamente il Pontefice che morirà pochi mesi dopo la morte di Aldo

miniserie. Una necessità di sceneggiatura che ha portato a fare delle scelte, come limitare il racconto del rapporto tra don Battista e Pio XII e che per semplificazione ha portato all’invenzione del personaggio di Roberto Poloni, uno studente della Fuci che resterà accanto al suo professore in tutta la sua carriera clericale che lo porterà alla soglia pontificia il 21 giugno 1963. Tutta la famiglia di Roberto sarà rappresentante di quell’Italia del miracolo economico e del terrorismo, infatti sarà il figlio di Roberto, Matteo che, prendendo parte agli scontri durante le manifestazioni giovanili del ’68, rappresenterà uno dei momenti più tristi, quando per Paolo Vi il mondo sembra essere impazzito e il dialogo inutile.

È sempre attraverso Matteo che Paolo VI vive da vicino gli scontri e le ideologie che si trasformano in terrorismo che porta alla strage di Piazza Fontana a Milano, infatti Matteo verrà arrestato in occasione delle contestazioni e successivamente, quando gli verrà proposto di partecipare a un attentato armato contro una caserma dei carabinieri, il giovane rifiuterà perché colpito dalla lettera scritta da Poalo VI per liberare l’onorevole Moro. Un Papa unico in molti suoi aspetti, dall’apertura alle altre religioni, sarà il primo Papa a visitare a Gerusalemme, a riabbracciare il Patriarca Ortodosso e a parlare alle Nazioni Unite e sarà il primo Papa che deciderà di vendere la tiara Pontificia in beneficio dei meno abbienti. Un Papa dei primati che promette di rapire ancora una volta l’attenzione degli italiani, facendo della sua storia e del suo messaggio probabilmente anche un primato di ascolti.

In primo piano, Fabrizio Gifuni interpreta Paolo VI. Sotto, alcune scene della fiction su Raiuno

Non è stato facile tradurre con il linguaggio del piccolo schermo la vicenda complessa di Giovanni Battista Montini. A lui toccò affrontare le sfide del divorzio, dell’aborto e del terrorismo Moro. Il dolore porta Paolo VI indietro con gli anni, fino ad arrivare a quel 1924 in cui il rapimento dell’onorevole Matteotti fa capire al giovane don Battista Montini e ai suoi studenti della Fuci che il fascismo sta rubando loro la libertà. «Nell’elaborazione della sceneggiatura abbiamo ritrovato molti dei nomignoli con i quali veniva identificato Paolo VI, chiamato da molti anche Paolo Mesto o Papa Amletico perché malinconico, in realtà quello che mi ha

più sorpreso e che più lo contraddistingue è il suo essere amichevole perché rispettoso delle libertà altrui, amichevole nel rispettare i tempi e le scelte altrui, un uomo profondamente intelligente anche se meno comunicativo rispetto ai suoi successori», sottolinea Francesco Arlanch, rammaricato soltanto dall’esigenza di dover racchiudere la vita di questo Papa e i momenti importanti della storia italiana che l’attraversarono in tre ore, la durata della


spettacoli

28 novembre 2008 • pagina 21

Musica. Dopo 5 anni di silenzio, il grande ritorno di Dido con “Safe trip home” l suo viso acqua e sapone la fa sembrare molto più giovane dei suoi 36 anni. Lineamenti perfetti, occhi azzurri. Una bellezza semplice e raffinata. Potrebbe essere la ragazza della porta accanto. E invece Dido con due soli album alle spalle, con cui ha venduto più di 22 milioni di copie, oggi è considerata la regina del pop inglese. La nuova Seaned O’Connor. Un successo arrivato tardi a differenza di molte baby star di oggi. E sicuramente inaspettato. Arrivato anche grazie alla star bianca del rap Eminem che nel 2000 per il brano Stan prese in prestito un paio di versi della sua Thank you lanciandoli a livelli stratosferici. Sono passati cinque anni dall’uscita del suo ultimo lavoro, Life for rent ed eccola proporre al pubblico Safe trip home, uscito il 18 novembre. L’album è il risultato di una simbiosi musicale con Jon Brion, che nel 2005 la invita nel suo studio di Los Angeles e la incoraggia a suonare diversi strumenti nel nuovo disco.Dido ha la possibilità di collaborare con ottimi musicisti, come Brian

I

L’angelo biondo del pop inglese di Valentina Gerace Eno, Matt Dunkley, Questlove, Jim Keltner, Mick Fleetwood, James Gadson, Matt Chamberlain e il fratello Rollo Armstrong, con cui ha prodotto anche i suoi primi due album. Ma al centro dell’album c’è solo lei, che oltre a cantare, suona magnificamente le tastiere, la batteria e la chitarra in più tracce. Una raccolta di 11 canzoni meditative, riflessive, alcune autobiografiche dove il tema dell’amore romantico lascia il posto a temi più seri e spirituali come la perdita, l’assenza incolmabile e il conseguente vuoto dell’anima. Protagonista di ogni attimo è sempre la sua voce, tenera, languida ma anche sofisticata che

Una raccolta di undici canzoni meditative e malinconiche dove l’amore lascia il posto a temi più seri e spirituali come il vuoto dell’anima racconta vari momenti di vita, riuscendo a regalare fortissime emozioni. Un’onestà di sentimenti, una profondità che difficilmente lasciano indifferenti. Dal primo singolo dell’album, Dont Believe in Love (ai primissimi posti delle classifiche pop europee) alla celtica Grafton street, uno struggente inno di 6 minuti coprodotto con Brian Eno e col batterista preferito di Dido, Mick Fleetwood de-

dicato alla perdita del padre, avvenuta nel 2006. Fino ai ritmi irlandesi di Northern Skies, che concludono il disco. Nove minuti di pura poesia composti con la collaborazione del fratello Rollo. Il tema dell’addio caratterizza Let’s Do the Things We Normally Do. Notevole il contributo dato da Citizen Cope, chitarrista, dj e tastierista di Brooklyn (New York) che duetta con lei in Burnin love contrastando la sua tenera voce con un timbro più forte. Un disco profondamente diverso dal precedente perché diverso è l’impegno della sua creatrice: in questi anni Dido non solo ha raffinato il suo talento che coltiva da quando era allieva della Guidhall School of Music di Londra. Ma ha imparato a registrare musica direttamente da sé, e arrangiare i suoi brani, persino seguendo delle lezioni all’Università della Musica di Los Angeles durante le registrazioni dell’ultimo disco.

Dido, il cui vero nome è Florian Cloud de Bounevialle Armstrong, nasce a Londra da madre francese poetessa e padre irlandese. Il suo interesse per la musica non tarda a prevalere sugli altri. A 10 anni sa già suonare il pianoforte e il violino. Dopo qualche anno di Università decide di interrompere gli studi per dedicarsi alla composizione di canzoni. Che raccoglie poi in una collezione di demo intitolata Odds & Ends che cattura l’attenzione

di importanti case discografiche, l’Arista e la Cheeky records. Collabora alla produzione di due album della famosa band elettronica inglese Faithless come corista e seguendo la band in tour. Ma il vero successo arriva nel 1999 con il suo primo album No angel che diventa il numero uno in vari Paesi tra cui Inghilterra, Italia, Belgio, Grecia, Germania, Austria e negli Stati Uniti. E’ la consacrazione per la cantante pop inglese che lancia alcuni singoli che raggiungono il top delle classifiche del momento, tra cui Here with Me, Thank You, Hunter e All You Want. Ballate lente e malinconiche si alternano a brani dal ritmo ben scandito dalla batteria e dal piano. Oltre all’ottimo successo avuto con la diffusione del relativo video sulle emittenti musicali italiane, Here with me è nota anche come la colonna sonora della serie televisiva Roswell. ”Hunter” si caratterizza per la sua meravigliosa melodia prodotta dalla chitarra che accompagna la voce della cantante mentre Don’t Think Of Me si differenzia per un’atmosfera più solare delle altre e un ritmo più sostenuto. Dopo il primo successo Dido non

si allontana dalla musica. Nel 2003 con Life for rent ripropone la squisitezza di No angel nei temi e nello stile. La nuova Sade del pop intesse brani coinvolgenti, romantici, innocenti, con la sua chitarra acustica per ricordare amori perduti, dolori, sentimenti travolgenti. Ballate riflessive e melodiche che scelgono l’amore come tema centrale (Mary’s in India, See You When You’re 40, Who Makes You Feel) si alternano a brani più ritmati e allegri, come Don’t Leave Home in cui le percussioni duettano con la chitarra, e la voce di Dido si fa beffe di entrambi superando se stessa o la ballabile Sand in My Shoes che parla del tema del tempo, che non è mai abbastanza. Ricorda lo stile dei Coldplay la riflessiva This Land of Mine. Un’atmosfera intima, confidenziale, popfolk, creata da una voce affascinante, eterea proprio come la sua interprete. La canzone che colpisce di più per la bellezza e la romanticità dell’album, e sicuramente tra le più piacevoli, è di sicuro White Flag, il primo singolo del disco, che la proietta nell’Olimpo del pop inglese. Ma l’album contiene altri piccoli gioiellini a cominciare dalla title track Life For Rent, una chitarra e una voce, che potrebbe essere un secondo ottimo singolo, See You When You’re 40, Don’t Leave Home. Un album da ascoltare e riascoltare, certo non innovativo, ma estremamente piacevole.

Con questo terzo album Dido si consacra la diva del pop inglese. Un’artista che esprime i suoi turbamenti, la sua passione, i suoi dolori sempre con toni pacati, sereni. Una voce composta e dolce che racconta sensi di colpa, pentimenti, amori finiti. In un mix di creatività, poesia, buona musica e un elegante charme.


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da ”the Guardian” del 27/11/2008

Il compagno di merende di Mugabe uomo più ricco d’Inghilterra si è visto congelare beni e attività negli Stati Uniti da dipartimento del Tesoro. John Bredenkamp sta pagando i suoi tutt’altro che trasparenti rapporti col regime di Mugabe nello Zimbabwe. Diamanti, armi e corruzione condiscono la vita di questo tycoon molto chiaccherato, adatto per caratterizzare un film di Oliver Stone, piuttosto che le pagine del Wall Street Journal. L’accusa statunitense, contro il finanziere sessantottenne è di aver fornito, oltre al supporto finanziario e logistico, anche «la possibilità a Mugabe di perseguire politiche che hanno gravemente minato il processo democratico e le istituzione nello Zimbabwe».

L’

di David Pallister e Rob Evans fin da quando fu coinvolto in alcune violazioni dell’embargo alla Rhodesia negli anni Settanta. Ha sempre avuto il privilegio di viaggiare con molti passaporti, olandese, dello Zimbabwe e sudafricano, fino a quando non ha deciso di trasferirsi nel Regno Unito, dove ha fondato un fondo equity, il Breco, con uffici ad Ascott nel Berkshire. La Casalee è invece la società con cui commercia in foglie di tabacco, fondata nel 1976, e registrata ad Anversa. È diventata la quinta società mondiale per importanza in questo genere di commercio e dà lavoro a 2.500 persone. Ha sedi in mezzo mondo dagli Stati Uniti, all’Argentina,

Il rapporto degli agenti del Tesoro prosegue, definendo l’uomo d’affari come «ben introdotto negli affari del regime, come il commercio di tabacco, il commercio e traffico d’armi, l’equity investment, la vendita e distribuzione di idrocarburi, il turismo ed le estrazioni diamantifere. Attraverso una sofistica rete di società, Bredenkamp ha sostenuto il regime e fornito ogni genere d’aiuti a numerosi e importanti membri del governo». Allo stesso tempo è finito anche nel mirino della sezione anticorruzione della polizia sudafricana. Sono stati perquisiti e completamente svuotati i suoi uffici di Johannesburg. «Non è rimasto un solo documento o foglio di carta la dentro», ha dichiarato il suo legale in Sud Africa, Ian Small-Smith. È il Paese in cui Bredenkamp è nato e in cui mantiene ancora unarete di rapporti importanti. Ma le accuse più imbarazzanti, soprattutto per il governo inglese, sono quelle che coinvolgono anche il gigante inglese della difesa, British aerospace (Bae). Gli investigatori sudafricani hanno cercato anche negli uffici della Bae, a caccia di prove di un giro di tangenti col governo dello Zimbabwe. Comunque il personaggio è da anni sotto inchiesta,

al Brasile alla Bulgaria, Grecia, India, Indonesia, Italia, Portogallo, Russia, Tailandia, Spagna, Turchia, e Jugoslavia. Anche il Foreign Office ha da tempo sotto osservazione il regime di Mugabe e le sue relazioni con personaggio internazionali di vario genere, tra i quali il nostro. «Siamo contenti della decisione del dipartimento del Tesoro Usa. Stiamo studiando con i nostri partner europei una serie di misure nei confronti della situazione di impasse che vive lo Zimbabwe», ha dichiarato un rappresentante della diplomazia anglosassone. I rapporti con quel Paese si erano intensificati durante il periodo in cui si chiamava ancora Rhodesia. Poi nel 1980 dopo l’indipendenza, era stato lasciato a favore del più europeo Belgio, Paese ideale per i trafficanti d’armi, o commercianti che dir si voglia. È il Serious fraud office britannico sta indagando, da più di un anno, su Bredenkamp e i suoi traffici. E Bae dopo l’affaire saudita – sempre tangenti in cambio di megacontratti – è stata accusata di aver dato circa 70 milioni di sterline al controverso personaggio attraverso una controllata rhodesiana, per assicurarsi un contratto per forniture militari (velivoli da combattimento) per 1,6 miliardi di sterline.

Così Bae, alla ricerca una nuova immagine, dopo la vicenda saudita, si troverebbe di nuovo nei guai. Anche le Nazioni Unite si sono mosse sulle tracce dei traffici poco chiari del gestore di Breco, sempre per traffico d’armi e per sfruttamento illegale delle risorse diamantifere della Repubblica democratica del Congo. L’accusato ha risposto che non incontra Mugabe da ben 23 anni. Pur ammetendo di essere stato un mandatario per Bae Brederkamp ha rigettato ogni accusa di essere l’eminenza grigia dietro l’ultimo decennio di turbolenze di quella regione africana.

L’IMMAGINE

Obama non vuole esportare la democrazia. Speriamo che difenda almeno la nostra Cambiato Presidente in America, al Qaeda si è fatta subito viva. Con 100 morti. L’articolo di André Glucksmann pubblicato da liberal inquadra bene il mondo in cui viviamo: una violenza che riguarda gli individui, i gruppi terroristici, i civili. È un mondo davvero in preda ad una peste per la quale non sembra esserci una cura. La potenza della tecnica dovrebbe essere tenuta sotto controllo, ma l’Occidente non sembra in grado di controllare la volontà di potenza e la tecnologia. Speriamo che il nuovo Presidente americano non sottovaluti la forza criminale e ideologica del terrorismo islamico, il cui obiettivo è esportare la violenza tra i civili del mondo sia Occidentale sia Orientale. Ha ragione proprio Glucksmann quando dice che la Russia di Vladimir Putin mira a destabilizzare piuttosto che a lavorare con l’Occidente per arginare la violenza terrorista. Può darsi che Bush abbia fatto degli errori, certo è che il nemico da fronteggiare adotta una strategia non convenzionale come quella della guerra tradizionale.

Gianni Iadicicco

LA FATISCENZA DELLE NOSTRE SCUOLE Al momento, nelle scuole italiane, avvengono oltre centomila infortuni all’anno. L’incremento del 20%, negli ultimi otto anni, la dice lunga sull’accresciuta fatiscenza e pericolosità delle strutture e degli impianti dei nostri edifici scolastici. Tre su quattro sono fuori norma. Uno su due è sprovvisto di certificato d’agibilità statica. Più di un terzo non è fornito di impianti elettrici a norma. Mancano le agibilità sanitarie, i certificati di prevenzione degli incendi, le misure di evacuazione in caso di pericolo. Il personale, inoltre, non è formato per fronteggiare eventuali emergenze. Le strutture sono vecchie e inadeguate. Una scuola su dieci è

addirittura collocata in una costruzione edificata per altra destinazione d’uso. La metà ha ben oltre quaranta anni. Solo una su venti ne ha meno di venti. Quasi nessuna riceve i finanziamenti per la necessaria manutenzione. Intanto i tagli economici aumentano. Questo l’unico e solo fattore di continuità tra governi di destra e di sinistra. Su 41.862 edifici, appena un centinaio ha ricevuto i finanziamenti per i lavori. Di norma, però, li ottengono a scoppio ritardato. Dopo un calvario burocratico, che li rende insufficienti, fornendo alibi alla scarsa qualità dei lavori. Se invece di essere edifici pubblici, beneficiari delle proroghe sine die agli adeguamenti stabiliti per legge, fossero privati sarebbero stati chiusi per

Cercasi gigante per jeans extralarge Cosa non si farebbe per un posticino nel libro dei Guinness dei Primati! Questi ragazzi di Lima ci sono riusciti confezionando un paio di jeans di 40 metri di lunghezza e 30 di girovita. Per sollevare gli ingombranti braghettoni (oltre 7 tonnellate) ci sono volute due gru. Circa 3 mila, invece, i metri di tessuto impiegati. Con tutta questa stoffa si realizzeranno poi zaini e borse per i bimbi della zona

revoca dell’agibilità. Prendendo a prestito il ritornello: “meno male che Silvio c’è”. C’è da ben sperare. Di qui a qualche manciata di mesi il problema sarà risolto. Alla Silvio, naturalmente. Non facendo quel che serve. Ma riducendo le scuole - così come prevede la finanziaria - di 10.080 unità, pari a circa un quarto del totale. I giornali, le tv di famiglia e quelle lottizzate, all’unisono,

grideranno al miracolo. E magari in tanti ci crederanno pure.

Gianfranco Pignatelli

LA CULTURA NON SI «AQUISTA» Vorrei tornare un po’ indietro, alla manifestazione degli studenti a Roma. Le riprese televisive hanno chiaramente mostrato un grande striscione portato da studenti delle superiori (o universitari?) dove si proclamava, tra l’al-

tro, che «la cultura non si aquista». Evidentemente nemmeno i due (o più) maestri sono bastati a insegnare loro la grammatica. Forse questi bravi figlioli ritengono che non ci sia bisogno di conoscere l’esatta scrittura delle parole: tanto c’è il correttore automatico dei computer. Peccato che non funzioni anche con gli striscioni.

Ezio Torinese


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Siamo giovani e possiamo decidere della nostra vita Ciò che mi ha fatto più felice è il passo della tua lettera in cui scrivi che siamo ancora giovani e possiamo decidere della nostra vita. Amore mio, quanto desidero che tu possa mantenere questa promessa! Un piccolo appartamento tutto per noi, i nostri mobili, la nostra biblioteca, un lavoro tranquillo e regolare, le nostre passeggiate insieme, ogni tanto all’opera, una cerchia ristretta di amici intimi che qualche volta possiamo invitare a cena, ogni estate un mese di vacanza in campagna, o comunque lontano dal lavoro! E forse anche un piccolo, piccolissimo bambino? Potremo mai averlo? Mai? Tesoro, lo sai che cosa mi è successo ieri mentre passeggiavo al parco Tiergarten? Mi si è avvicinato un bimbo di tre o quattro anni, con un grazioso vestitino e i capelli biondi. Mi guardava fisso e all’improvviso ho sentito l’assoluto bisogno di afferrarlo e fuggire a casa con lui. Oh, caro, avrò mai un bambino mio? A casa non litigheremo mai più, vero? La calma e la serenità dovranno regnare fra noi, come nelle case degli altri. Tu lo sai bene cosa mi tormenta. Mi sento già vecchia e non sono affatto bella. Amore caro, ti getto le braccia al collo e ti bacio mille volte.Vorrei, spesso me ne viene la voglia, che mi prendessi in braccio. Ma tu mi rispondi sempre che peso troppo. Rosa Luxemburg a Leo Jogiches

ACCADDE OGGI

PRIVILEGIATI E SFRUTTATI NELLA GIUNGLA RETRIBUTIVA Il costo d’un dipendente pubblico varia molto, a seconda dell’ente d’appartenenza. In magistratura (10.627 addetti), il costo del singolo dipendente è di euro 151.444 annui: ossia due volte e mezzo in più del costo del dipendente di università; tre volte in più di quello della sanità e quattro del costo del dipendente della scuola (1.136.229 addetti). Risulta una “giungla retributiva”, secondo la felice espressione di Ermanno Gorrieri. Massimo rispetto va al delicato e difficile lavoro del magistrato. Dispiace però che la giustizia sia lenta, non sempre per scarsa dotazione di mezzi; inoltre, colpisce il ricorso di magistrati a stati di agitazione (e perfino a scioperi). In una società responsabile, nobile e disinteressata, lo sciopero – per la sua forza distruttrice di ricchezza – dovrebbe essere l’arma estrema di poveri operai, sottopagati e sottoposti a lunghi ed estenuanti orari di lavoro; non di privilegiati, beneficianti di: potere, prestigio, alta retribuzione, sostanziale illicenziabilità, orario lavorativo assai limitato, ferie e vacanze estese, assenza di veri controlli, nonché eventuale carriera automatica. Un verosimile impegno lavorativo annuo operaio sottoremunerato di 1.820 ore (35 settimanali) è pari a ben 7,28 volte quello di 250 ore annue d’un ipotetico barone universitario strapagato. L’aggiuntivo obbligo di ricerca di quest’ultimo – talvolta non viene adempiuto – talaltra dà risultati modesti.

28 novembre 1919 Lady Astor viene eletta come prima donna membro del Parlamento del Regno Unito 1943 Inizia la conferenza di Teheran sulla riorganizzazione dell’Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale 1944 L’Albania viene liberata dai partigiani albanesi 1958 Ciad, Repubblica del Congo e Gabon diventano repubbliche autonome all’interno della Comunità francese 1960 La Mauritania diventa indipendente dalla Francia 1969 I Rolling Stones pubblicano il classico Let It Bleed 1975 Timor Est dichiara l’indipendenza dal Portogallo 1982 Rappresentanti di 88 nazioni di riuniscono a Ginevra per discutere del commercio mondiale 1984 A oltre 250 anni dalla loro morte, William Penn e sua moglie Hannah Callowhill vengono nominati cittadini onorari degli Stati Uniti 1994 Norvegia: con un referendum il Paese nega l’adesione all’Unione europea

Lettera firmata

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

BONUS RETROATTIVI Fino ad adesso il promesso bonus bebé non è stato mantenuto. Poiché mia moglie aspettava il secondo bambino, eravamo contenti di riceverlo; visto il nostro monoreddito, avrebbe dato un po’ di ossigeno alla cassa di casa. Di recente ho sentito parlare degli 80 miliardi “scaccia crisi” per imprese e famiglie e hanno anche detto che sarà dato il bonus bebé. Spero che stavolta sia vero e che venga dato anche in maniera retroattiva, cioè a chi ha avuto figli durante il 2008 o comunque dal periodo di insediamento del nuovo governo.

Marco - Genova

CHI ASCOLTA E AIUTA I DISABILI? Sono stato elettore, con tutta la mia famiglia (13 voti) del Popolo della libertà e non riesco a mettermi in contatto con nessun Deputato per sapere con esattezza cosa fa o farà il Governo per noi disabili. Percepisco una pensione di invalidità di ben 257 euro al mese e con lo stipendio di mia moglie 900-1000 euro dobbiamo mantenere il nostro nucleo composto da 3 adulti ed un bambino di 11 anni. Sento sempre parlare di sgravi di qua e di là, ma per noi disabili, cosa si fa? Devo essere sincero, sono molto deluso da questa situazione e se dovesse continuare questo menefreghismo nei nostri confronti, dopo trentasei anni di voti dati al centrodestra, dovrò decidere, mio malgrado, di scegliere il centrosinistra.

dai circoli liberal

DALL’UNITÀ D’ITALIA AL FEDERALISMO 150 ANNI DI STORIA TRA CENTRALITÀ ED AUTONOMIA A quasi 150 anni dall’Unità d’Italia, ci è parso opportuno aprire la nostra attività con un convegno che affrontasse un argomento tanto importante quanto attuale come quello del’interessante dibattito tra la centralità istituzionale e le nuove istanze di federalismo territoriale. Lo Stato italiano dalla sua nascita e fino all’entrata in vigore dell’attuale Costituzione fu unitario e centralizzato. Questo modello, poi rafforzato durante il fascismo, con la Costituzione del 1948, ha configurato lo Stato italiano come “regionale”, Repubblica una e indivisibile ma che riconosce e promuove le autonomie locali ed attua il più ampio decentramento amministrativo (Regioni, Province e Comuni). Negli ultimi anni, tuttavia, l’organizzazione territoriale delineata dalla Costituzione è apparsa insufficiente. Nel 2001 il Parlamento ha modificato in modo integrale il contenuto degli articoli del titolo V della parte seconda della Costituzione, introducendo un nuovo ente territoriale (le città metropolitane) e modificando i rapporti fra Stato ed enti locali in senso federalista. Di conseguenza, anche se i poteri più rilevanti della sovranità sono sempre esercitati dallo Stato centrale, viene riconosciuta alle Regioni una notevole possibilità di decidere autonomamente rispetto ai problemi di carattere locale. In altri Paesi si è preferito dare origine ad uno Stato federale, dove ogni singolo Stato ha un proprio territorio su cui esercita una parte del potere sovrano, mentre si affida al governo federale l’esercizio del potere sovrano per quanto riguarda la difesa, la politica estera, la moneta. L’interrogativo che sorge, pressante, è quale modello, tra quello centralista o federalista, sia il più adeguanto alla luce della evoluzione dei rapporti tra le varie componenti della società pluralista nell’ambito di questi ordinamenti. Se l’esigenza di dare voce nelle scelte fondamentali della comunità politica al pluralismo territoriale debba o non debba soffocare le espressioni di un diverso tipo di pluralismo, non territoriale che riconosca alle Regioni strumenti di partecipazione più incisivi di quelli oggi previsti. Questi i temi del nostro convegno che si tiene oggi al palazzo “Coccia” di Cerignola con interventi del presidente Ferdinando Adornato, del professor Vincenzo Robles dell’Università di Foggia e dell’onorevole Angelo Sanza. Enzo Buttiglione PRESIDENTE CIRCOLO LIBERAL DI CERIGNOLA

APPUNTAMENTI OGGI - ORE 18 - A PALAZZO COCCIA DI CERIGNOLA (FG) “1861-2011 - DALL’UNITÀ D’ITALIA AL FEDERALISMO 150 ANNI DI STORIA TRA CENTRALITÀ E AUTONOMIA” All’incontro, tra gli altri, parteciperanno Ferdinando Adornato e Angelo Sanza

Valentino Cesari

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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