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ISSN 1827-8817 81115

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di e h c a n cro

a giustizia senza forza è inerme, la forza senza giustizia è tirannica. Incapaci di fare forte ciò che è giusto, abbiamo fatto giusto ciò che è forte

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Blaise Pascal

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Duecentomila studenti invadono Roma: difendono la scuola pubblica o quella di Stato?

L’Europa cerca un’altra Maastricht

Sulla cresta dell’Onda c’è un inganno di Giuseppe Baiocchi accontano gli storici che hanno indagato le prime università medioevali di aver notato con meraviglia la giovanissima età dei rettori di quegli antichi atenei. Giungendo poi alla logica conclusione che si trattava sempre di uno studente. E cioè che era la comunità degli utenti che, desiderosa di camminare sulla via della conoscenza, organizzava i corsi e le discipline, chiamando i migliori maestri a comunicare e trasmettere la loro scienza. Non solo: ma la competizione faceva sì che, attirati dal compenso e dai benefit di allora, i più ricercati professori si spostassero per tutta l’Europa. Segno che perfino nel tanto vituperato Medioevo, l’investimento sulla conoscenza si sviluppava all’insegna della concorrenza positiva e addirittura del libero mercato del sapere. se g ue a p ag i na 7

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Si è aperto ieri a Washingthon il G20, vertice mondiale straordinario che dovrà affrontare la crisi economica. Oggi i leader cominceranno a discutere di nuove regole.

di Enrico Singer a pagina 8

Come Berlusconi può superare il calo di consensi e l’impatto della crisi

Tre consigli a un premier in recessione

La politica morbida di Barack Obama

di Enrico Cisnetto uando il premier si occupa a tempo pieno di politica estera è sempre un gran brutto segno. E non tanto per le boutade su Obama, e neppure per le molto più azzardate e pericolose dichiarazioni sulla Russia e lo scudo stellare, quanto piuttosto per il fatto che – ancora una volta, incassata la vittoria elettorale – il presidente del Consiglio sembra annoiarsi di fronte alla necessità di sporcarsi le mani con la gestione degli affari correnti. Affari che questa volta, peraltro, sono di una gravità assoluta. Da un lato, infatti, assistiamo impotenti all’acuirsi di un declino economico e industriale italiano che continua imperterrito il suo cammino. Non bastavano gli ultimi dati della Banca d’Italia e dell’Istat per dimostrare che la crisi ha già iniziato a contagiare le imprese per effetto della contrazione del credito, e che queste continuano a registrare un trend declinante per quanto riguarda gli investimenti. Ora è arrivato anche l’Eurostat a certificare che ormai per l’Italia è recessione tecnica. Ed è una recessione più profonda di quella che ha colpito la Germania (e che per ora ha di fatto risparmiato la Francia e la Spagna): ennesima dimostrazione che la tesi del «siamo tutti uguali di fronte alla crisi» ha le gambe molto, molto corte. Dall’altro lato, anche «l’uomo della strada» percepisce che il Paese è di fatto «non governato».

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MOBYDICK Oggi il supplemento

SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA

Che cosa cambia per l’Unione Europea dopo l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti? Davvero dobbiamo aspettarci una ”rivoluzione”?

di Stefano Silvestri a pagina 12

Analisi e supposizioni sul potere italiano

LA LEGGE E LA VITA Polemiche, riflessioni e sentimenti sul triste epilogo della vicenda Englaro

Parlando con Eluana

SABATO 15 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

alle pagine 2 e 3

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

220 •

WWW.LIBERAL.IT

L’Era tremontiana colpirà anche la Banca d’Italia? di Giancarlo Galli he aveva in mente il superministro Tremonti quando al Senato s’è lasciato scappare un «se una banca fallisce si opera un salvataggio e i banchieri vanno a casa o in galera»? Immediatamente rimbalzate ai piani alti delle Istituzioni creditizie, quelle parole hanno provocato lunghi brividi. E mille interrogativi: contentino verbale dai risvolti populisti a placare un’opinione pubblica che ha perso fiducia negli gnomi “intoccabili”, o messaggio cifrato per dire che siamo alla vigilia di grosse novità, con più di una testa in bilico? Non bastasse, la battuta acida, inconsueta in un personaggio solitamente compassato: «Ne ho piene le scatole di queste invenzioni sulla finanza creativa. Le cartolarizzazioni le ha inventate il signor Ciampi nel 1998, il copyright è suo. Io non c’entro un tubo. Le ho trovate nel 2001». s e gu e a pa gi n a 1 1

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Caso Englaro. La sentenza della Cassazione: parla Francesco D’Agostino, presidente emerito del Comitato di bioetica

I due magistrali errori Di fatto, dà il via libera all’eutanasia senza nominarla Confonde la qualità della vita con la dignità di Francesco Rositano

ROMA. Anche L’Osservatore Romano è sceso in campo contro la sentenza della Corte di Cassazione che autorizza la sospensione dell’alimentazione artificiale per Eluana Englaro.

Il cuore di un padre e il cuore della democrazia: un cortocircuito

Perché abbiamo perso tutti di Ferdinando Adornato

Lo ha fatto con un editoriale affidato alla storica Lucetta Scaraffia. «La sentenza per Eluana Englaro - si legge sul giornale vaticano - non fa altro che introdurre di fatto l’eutanasia in Italia». E questo, continua l’editorialista «è una sconfitta che interessa non solo il mondo cattolico». È dunque tempo di autocritica un po’per tutti. Anche se, nel mondo cattolico in particolare si avverte una priorità assoluta: evitare che si verifichino altri casi come quello della ragazza di Lecco. La strada, ha sostenuto anche la Conferenza episcopale nel comunicato diramato dopo la sentenza, a questo punto è una sola: «Quella di chiedere con forza una riflessione sulla convenienza di una legge sul fine della vita, dai contenuti inequivocabili nella salvaguardia della vita stessa, da elaborare con il più ampio consenso possibile da parte di tutti gli uomini di buona volontà». Una posizione sottoscritta anche da Francesco D’Agostino - ordinario di Filosofia del Diritto all’università romana di Tor Vergata e presidente emerito del Comitato di Bioetica che a liberal afferma come l’introduzione di una legge ad hoc sia l’unica via possibile. «In realtà - precisa il giurista - non ce ne sarebbe stato bisogno se la Cassazione non avesse forzato la giusta verità delle cose. Ma visto che questa volta la Suprema Corte non ha colto le reali esigenze di giustizia, non c’è alternativa. Ma anche si arrivasse ad approvare una norma ci sarebbe bisogno di assoluta saggezza. Sul Parlamento quindi pende una grande responsabilità». Per D’Agostino quindi l’errore non si trova nel metodo, ma nel fatto che abbia deciso male: «Con la sentenza di ieri, infatti, la Cassazione ha affermato che esiste un diritto di rilevanza costituzionale di autodeterminazione terapeutica dei pazienti. Questo non è vero: la Costituzione non parla di un diritto di autodeterminazione: è un’interpretazione a mio avviso arbitrariamente estensiva dell’articolo 32 secondo comma della Costituzione». Secondo il giurista ora bisogna correre ai ri-

n padre può maledire la vita che gli ha sottratto il fiore di una figlia. Un tribunale no. Un padre può pensare che sia meglio dar definitivamente corso alla fine spaventosa che ha davanti da troppi anni, piuttosto che affrontare ogni giorno uno spavento senza fine. Un tribunale no. Il cuore ha le sue ragioni che un tribunale non può e non deve conoscere.

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Scriveremo ancora, parleremo ancora, ci divideremo ancora sulla sorte di Eluana. Useremo magari, come tutti abbiamo già fatto, parole gravi, parole ultimative, anzi parole ultime. Ma il fatto è che quando i sentimenti arrivano in un’aula di giustizia, perché su di loro sia fatta giustizia, abbiamo già perso tutti. Favorevoli, contrari, pro eutanasia, anti eutanasia: perché in quel momento la vita della legge ha già sconfitto la legge della vita. Certo che è eutanasia. Comunque la si voglia leggere, la sentenza della Cassazione autorizza a porre fine a un vita ancora viva. Silente, inafferrabile, ma ancora viva. In Italia non c’è una legge che ciò autorizzi. Se ne sta discutendo ma non c’è. Introdurre l’eutanasia extra legem è un’ulteriore ferita prodotta sul corpo della società da questa tormentosa vicenda. Un padre può pensare di liberare sua figlia dal peso di una vita incompiuta. Un padre ha il diritto di disperare. Se il suo cuore gli dice che il miracolo della resurrezione non potrà mai coinvolgere sua figlia, può pensare che l’amore consista nel lasciarla andare. Nel pregarla ogni pari per evitare che ci siano altri casi come quello della ragazza di Lecco. Quello che è accaduto, a suo avviso è di una gravità senza precedenti due motivi. «Il primo - afferma - è che introduce nel nostro ordinamento la disponibilità della vita e di fatto dà il via libera all’eutanasia, anche se i magistrati non hanno avuto il coraggio di usare questa parola tuttora problematica se non malfamata. Il secondo motivo per cui è devastante è legato al fatto che avalla nell’opinione pubblica l’idea che una vita malata come quella di Eluana sia una vita che abbia perduto dignità. Questo va contro il principio etico fondamentale se-

giorno guardando il cielo piuttosto che un letto d’ospedale, i tubi, la meccanica artificiale di un’alimentazione senza cibo.

Ma quello stesso padre non può pretendere che il suo cuore, che il suo amore diventino legge universale. Uno Stato non può elevare a principio il diritto di interrompere una vita viva. Ciò che il singolo essere umano ritiene giusto per sé stesso, altri singoli esseri umani possono ritenere sbagliato per loro stessi. E quando le ragioni divergono, uno Stato democratico non può che attenersi ai principi universali morali che hanno fondato la civiltà liberale, primo fra tutti quello che stabilisce che nessun potere può dare morte. Che la difesa della vita della persona, della sua libertà, dell’inviolabilità del suo corpo è dovere assoluto. L’angoscia di questa vicenda è tutta qui. E lo dico nel modo più crudo: un padre può pensare per amore di attraversare il confine della legge. Ma deve farlo in silenzio, trovando la responsabilità solo e soltanto nel suo cuore. Non può pretendere di essere autorizzato dalla società. Non può pretendere il timbro della Cassazione. Perciò abbiamo già perso tutti: Beppino Englaro che porrà fine alla vita di Eluana grazie ad un tribunale come si trattasse di una controversia condominiale. Lo Stato italiano che si trova a elevare a principio un’eutanasia che non appartiene alla nostra morale comune. Il cuore di Eluana smetterà di battere. Il cuore di un padre e quello di un’intera società resteranno per sempre scalfiti.

condo cui la dignità umana non si perde mai, neanche da parte di coloro che abbiano compiuto terribili delitti. Meno che mai i malati

Secondo il giurista, una legge ad hoc è l’unica via possibile: «Non esiste altra alternativa» perdono la dignità della loro vita. Affermare che la vita di un malato in coma persistente sia carente di dignità è veramente sconvolgente per tutti quelli che vivono la stessa si-

tuazione di Eluana e per i parenti e i medici che li accudiscono».

Motivi che fanno indignare D’Agostino che a questo punto spera in una dimostrazione di responsabilità da parte del mondo politico. «So bene - sostiene - che l’introduzione di una norma su questi fatti dividerà il mondo politico, ma auspico che il tutto avvenga nel quadro di un dibattito che tenga conto della delicatezza della questione. In Italia ci sono 2.500 persone in stato vegetativo permanente e, in mancanza di altre direttive ( a questo punto soltanto di una legge del Parlamento, ndr), è quasi scontato aspettarsi altre sentenze sulla stessa lunghezza d’onda di quella di Eluana. La Corte di Cassazione, d’altra parte esiste proprio per questo: per dare delle precise indicazioni su come va interpretata la legge. E nel caso Englaro, la Suprema Corte ha seguito dei criteri a mio avviso discutibilissimi come quello della legittimità di dichiarazioni, siano esse semplicemente orali, della volontà del paziente di avere un’eutanasia passiva tramite la sospensione dell’alimentazione». Criteri assolutamente criticabili per il mondo cattolico. Come ha affermato anche il cardinal Angelo Scola, patriarca di Venezia, infatti, «alimentazione e idratazione non sono terapie ma bisogni naturali, primari, elementari che vanno dati a tutti fino al termine naturale della loro vita». Poi il porporato ha raccontato la sua esperienza personale:«Sono lecchese di origine e la Provvidenza ha voluto che circa un anno e mezzo fa un mio carissimo amico sia entrato nella stessa situazione di Eluana e sia ricoverato nella stanza vicino alla sua. Rispetto la sofferenza dei suoi familiari, però provo un sentimento acuto di sofferenza nel pensare a questa scelta che giudico profondamente e intimamente sbagliata. Ho in mente lo sguardo del mio amico Gianni ed è difficile dire che uno così non vive, anche se certamente vive in un modo assai misterioso».


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Fulvio de Nigris, padre di un ragazzo morto dopo un lungo coma

«Ma io mio figlio l’ho fatto vivere» colloquio con Fulvio de Nigris di Rossano Salini

BOLOGNA. La sentenza della Cassazione sul

In primo piano, Eluana Englaro. Sotto, il papà Beppino che ha intrapreso una lunga battaglia giudiziaria per ottenere l’interruzione dell’alimentazione artificiale. Qui sopra, le bottiglie d’acqua depositate in piazza Duomo a Milano in segno di solidarietà

La politica si divide ma nel segno del dolore ROMA. La sentenza degli Ermellini è destinata a far discutere a lungo il mondo politico che in qualche modo appare spaccato, pur con delle sfumature, in due parti: da un lato c’è chi accoglie la sentenza come un triondo del principio dell’essere umano alla sua autoderminazione (ad esempio il presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro) e chi invece la interpreta nella direzione di una sentenza di morte data ad un’innocente. Un atto barbaro che, a loro avviso, ha l’aggravante della crudeltà: quella di uccidere Eluana facendola morire di fame. Al primo filone di pensiero appartiene il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, che ha affermato: «Bloccare la sentenza della Cassazione sul caso di Eluana sarebbe stato possibile dal punto di vista formale con un decreto legge, anche se è mio avviso che non si possa seguire questa strada per motivi politico-giuridici e anche politici». Maurizio Lupi (Pdl), vicepresidente della Camera, si ap-

pella invece al papà della ragazza: «Ci ripensi e decida di non staccare il sondino dell’alimentazione. Sappiamo che questo naturalmente non accadrà e per questa ragione ci rammarichiamo per non essere riusciti a fare di più per salvarla. Questo, però, non significa che rinunceremo alla nostra battaglia per evitare che questa gravissima sentenza della Cassazione introduca nella nostra società l’eutanasia. È chiaro che esiste un vuoto legislativo che ora più, che mai va colmato». Per Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc, invece non esiste alcun vuoto perché, spiega, «come conferma il decano dei penalisti italiani professor Giuliano Vassalli, la fattispecie che riguarda il caso Englaro ha un nome ben preciso:omicidio del consenziente». I cosiddetti ”Teodem” del Pd (Paola Binetti, Luigi Bobba e Marco Calgaro) invocano la necessità di una legge che metta nero su bianco «il no all’eutanasia» e «non lasci adito a indebite interpretazioni e applicazioni».

caso Eluana Englaro chiude (a suo modo) un dramma che ci ha tenuti sospesi per diversi mesi. Un caso estremo, che ha indubbiamente attratto l’attenzione di tutti. Anche troppo, col rischio cioè di dimenticare le tante avventure umane e i drammi simili a quello della famiglia di Eluana, ma dall’esito diverso: la fatica delle tante persone che vivono quotidianamente la lotta per l’affermazione della vita, ad ogni costo. Fulvio De Nigris è una di queste persone. Non lotta più per la vita di suo figlio, Luca, scomparso a soli 15 anni nel 1998, dopo il calvario di una malattia che l’ha segnato dalla nascita, fino all’aggravarsi della sua condizione, al coma, alla speranza data dal risveglio, e infine alla morte. Ora Fulvio lotta per la vita degli altri: per coloro che hanno la vita “sospesa”, come l’ha avuta il suo Luca per 240 giorni, ma che da quel sonno apparente potrebbero risvegliarsi. La sua esperienza ha al centro un dramma personale, da cui però è nata una grande opera che è un bene per tutti: com’è successo? La nostra è appunto un’esperienza che nasce innanzitutto dal dolore di una perdita, la morte di Luca, e che da qui si è sviluppata per orientarsi verso gli altri, in particolare per la cura dei soggetti che sono in coma e in stato vegetativo. Il nostro obiettivo è quello di occuparci innanzitutto di coloro che si trovano nella fase postacuta, quando è possibile fare molto per il risveglio. Questa attività si svolge nella “Casa dei Risvegli Luca De Nigris”, che molti conoscono come modello sperimentale e all’avanguardia in questo tipo di cure. Accanto a questo, c’è l’associazione “Amici di Luca”, che si occupa a tutto campo di questi casi. Dal continuo contatto con queste situazioni, che idea vi siete fatti sul dibattito intorno al caso Englaro? Ci sono due effetti negativi in questo dibattito. Il primo è che partendo dal caso di Eluana si è diffusa l’errata convinzione che per soggetti come questi non sia possibile fare nulla; e questa è una cosa non vera. Inoltre, l’altra cosa che ci preoccupa, è che, a partire dalla pur rispettabile posizione di Peppino Englaro, si trasmetta all’opinione pubblica una sorta di disaffezione verso la cura e le strutture per l’accoglienza di persone in situazioni croniche. Tutto questo crea grande confusione, e la battaglia – che rispetto ma non condivido – di un solo genitore, rischia di monopolizzare l’attenzione, facendo dimenticare le tante persone che vivono gravi disabilità, verso le quali lo Stato deve garantire la libertà di cura. Noi continuiamo a parlare della libertà di fine vita, ma è la libertà di cura la prima cosa che lo

Stato deve garantire. Chi ne parla? Potremmo dire che concentrandoci tutti sul caso Englaro ci siamo dimenticati delle tante famiglie che continuano a lottare per la vita? Non solo: ci siamo anche dimenticati del fatto che la situazione al centro di questo dibattito è del tutto atipica all’interno del panorama delle famiglie che vivono un dramma simile. Queste famiglie, soprattutto quando sono le madri ad accudire i figli, vogliono andare avanti fino alla fine, e i genitori vogliono morire prima dei loro figli. La grande maggioranza delle famiglie la pensano diversamente, e agiscono diversamente da quanto accade nel caso ora più discusso: nutrono la speranza di accompagnare, di essere sostenute, di condividere, di creare intorno a questi pazienti un clima umano molto forte, e di avere un ruolo nella società. È questo impegno che va sostenuto, e su cui la società dovrebbe concentrare la propria attenzione. L’altro aspetto negativo è che il dibattito viene ridotto a uno scontro tra clericali e anticlericali. Lei invece è per la difesa della vita, senza essere un “clericale”… Sì, in effetti la mia posizione è assolutamente laica; ed è proprio per questo che trovo molto sbagliata questa contrapposizione. La vera domanda che bisogna porsi è: la dignità della vita è rapportata alla qualità della vita? Secondo me la dignità della vita è una cosa che prescinde dalla qualità, dalle situazioni contingenti. Molte famiglie, pur vivendo in situazioni di grande dolore e disagio, non smettono di riaffermare continuamente questa dignità, faticando per il raggiungimento della salute e del benessere della persona malata. E anche se non si cerca primariamente la guarigione, perché magari è impossibile, ciononostante non si abbandona l’impegno: ciò che è inguaribile, infatti, non è incurabile. L’impegno dunque è sempre doveroso, e non si giustifica solo nell’imminenza della possibilità del risveglio? Certo, il problema non è legato solo alla possibilità di risveglio. A volte si dice che se non c’è possibilità di risveglio non vale la pena, ma non è assolutamente così. Rimane comunque il fatto che è assai difficile porre dei limiti assoluti. Dal punto di vista della fede, c’è chi crede nella possibilità del miracolo, e nessuno deve togliere a costoro questa speranza. Ma anche dal punto di vista scientifico, dobbiamo dire, anche alla luce degli studi più avanzati, che non si può parlare di stato vegetativo “permanente”, bensì “persistente”, che è cosa ben diversa. È una condizione di vita che può cambiare nel tempo, anche positivamente. (dal quotidiano online www.ilsussidiario.net)

C’è un’altra conseguenza grave della sentenza: ora chi si occuperà di tutte le altre Eluana? E che effetto avrà sulle famiglie?


politica

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Luna di miele. Tra una battuta infelice e una pericolosa, il Capo del governo fa fatica a conservare i suoi consensi in tempi di difficoltà

Tre consigli a Berlusconi Verità sulla crisi, concretezza e una nuova politica economica Ecco che cosa serve al premier per recuperare popolarità di Enrico Cisnetto segue dalla prima È un Paese «non governato» nei fatti: la Borsa continua a perdere punti giorno dopo giorno, le aziende si mettono in fila per chiedere la cassa integrazione, 130 tra piloti e assistenti di volo in spregio a qualunque senso di responsabilità riescono a mettere in ginocchio il trasporto aereo nazionale. E, come se non bastasse, un manipolo di studenti reazionari si allea con i più corporativi tra i docenti e con la stampa più ideologica per scimmiottare il Sessantotto, mentre le tossine del vecchio non sono per nulla espulse dal corpo della società. La più grande azienda culturale del Paese, la Rai, non riesce a darsi un vertice e persino la legge elettorale per le europee che Berlusconi e Veltroni vorrebbero cambiare senza riuscirci (per fortuna) nonostante l’apparente forza parlamentare.

In questo scenario da deserto dei tartari, il contrasto tra un Potere mai così forte, concentrato e dotato di consenso – tanto da indurre qualcuno a denunciare un deficit di democrazia – e i mille frammenti e le indecisioni di un Paese allo sbando, soffocato dalla paura del

presente e soprattutto del futuro, Berlusconi dovrebbe avere il coraggio di fare tre cose.

Primo: visto che s’interessa di politica estera, si legga qualche libro che gli racconti il pensiero e l’azione dei grandi statisti del passato. Magari ispirandosi al Winston Churchill che nel 1940, appena eletto premier, fece un famoso discorso: «Dico al

Sempre di più, l’uomo della strada percepisce che il Paese è di fatto «non governato»: ora serve affrontare i problemi Parlamento come ho detto ai ministri di questo governo, che non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalìe. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza». Allora, la «terribile ordalia» era la guerra mondiale, adesso è la crisi. Berlusconi, infatti, non deve avere paura di fare una grande “operazione verità”. Spiegando al Paese come stan-

no davvero le cose, quali idee forti ha in testa per uscire dal tunnel, qual è la direzione di marcia che s’intende imboccare, quali interessi in conflitto con altri si è in grado di mobilitare in modo che il consenso non si riveli un’inutile delega in bianco che s’infrange di fronte al blocco conservator-corporativo di minoranze organizzate.

Secondo: il premier deve avere il coraggio di affermare la propria leadership sul campo, perché essere campioni di incassi elettorali è condizione necessaria ma non sufficiente. La legittimazione popolare va conquistata giorno per giorno, evitando la spiacevole percezione di «nessun conducente alla guida». Così, per esempio, la statura di un Tremonti pur in versione apocalittica vede rafforzarsi la sua autorevolezza perché capace di utilizzare toni anche gravi, di resistere all’ottimismo un po’ becero di Palazzo Chigi e di affermare che la situazione questa volta è seria e anche grave. Nei momenti di crisi, del resto, gli elettori preferiscono un leader preoccupato ma presente piuttosto di uno assente e spensierato.

La popolarità di Silvio Berlusconi è calata in seguito all’aggravarsi della crisi economica. Ma hanno influito anche le sortite su Barack e in difesa della Russia

Terzo: scelga, il premier – e questo è il punto più arduo – una sua personale interpretazione di cosa significa “politica economica”. Berlusconi adotti una sua cifra personale nella grande diatriba di questi mesi che ha visto, dopo la damnatio memoriae trentennale, il ritorno in grande stile dell’interesse nazionale e

del ruolo dello Stato, adesso anche in versione esagerata di statalismo di ritorno. Lo faccia, questo sforzo intellettuale, rifacendosi a grandi esempi del passato – mi riferisco in particolare a De Gasperi e a Ugo La Malfa – che una “terza via” tra Stato e mercato l’avevano già trovata. E abbia il coraggio di osare. Maga-

Nel terzo trimestre del 2008 il Pil scende dello 0,5 per cento

Per una volta l’Italia raggiunge la Germania: è recessione di Francesco Pacifico

ROMA. Accompagnata da colossi come la Germania e la Gran Bretagna, anche l’Italia entra in recessione tecnica. Ieri l’Istat ha fatto sapere che nel terzo trimestre del 2008 il prodotto interno lordo è calato dello 0,5 per cento. Un anno fa, nello stesso lasso di tempo, era cresciuto dello 0,9. La diminuzione dello 0,5 per cento è per ora una stima preliminare, ma sono in pochi a

scommettere in un dato migliore. Anche perché segue il calo congiunturale del secondo trimestre (-0,4 per cento).

A ben guardare il dato di ieri sul Pil è stato anticipato da altri indicatori: si è registrato un aumento del ricorso alla cassa integrazione, come dimostra quanto sta avvenendo negli stabilimenti Fiat di Mirafiori, Termini Imerese o Pomigliano.

E se i consumi languono (secondo Confcommercio per quantità sono calati a settembre dello 0,4 per cento), la produzione industriale si è ridotta del 2 per cento nei primi 9 mesi dell’anno in corso. L’ultima volta che l’Italia era entrata in recessione tecnica, è stato nel 2005, nella coda della crisi internazionale che ha accompagnato il mondo dall’11 settembre in poi. Una situazio-


politica

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Nuovo polo. Vannino Chiti fa il tifo dai tempi del governo Prodi

«Pd e Udc insieme Lo dicono gli elettori» colloquio con Vannino Chiti di Susanna Turco

ROMA. Nessuno scetticismo, ma anche nessuna sorpresa. Per Vannino Chiti, il successo dell’alleanza trentina tra Pd e Udc, è più che altro una conferma. Addirittura? Sì, perché a questa soluzione io penso da mesi e mesi. Dalla scorsa legislatura, si può dire. A cosa si deve tanta lungimiranza? Parto anche da un’esperienza diretta. Alle regionali del 1995, dove io ero alla seconda legislatura, costruimmo in Toscana il centrosinistra. E non essendoci un accordo sulle priorità programmatiche andammo separati da Rifondazione. Bene, sulla carta noi - ossia ex Pci, ex Dc e socialisti - partivamo da un quattro per cento di scarto, e vincemmo con oltre il 50 per cento dei voti e 16 punti in più del centrodestra. Morale? Ho sempre riflettuto su che cosa aveva determinato questo successo. E la soluzione è: le priorità programmatiche individuate, ossia le quattro o cinque cose che andavano fatte, l’affidabilità delle persone che le portavano avanti. E, infine, il fatto che spesso i cittadini sono più avanti degli stati maggiori della politica: guardano a quello di cui c’è bisogno, e si pronunciano su questo. Così è accaduto a Trento? Precisamente. L’alleanza Pd-Udc è stata la più credibile. Ed è la stessa strada da seguire, sia al livello locale che nazionale. Priorità programmatiche, obiettivi chiari, persone credibili. Penso che l’Italia abbia bisogno, per affrontare i tutti i campi un’innovazione di cui c’è bisogno, di una stabilità che dia fiducia, dopo anni di contrapposizioni e di coalizioni eterogenee. E penso che questo nuovo centrosinistra, che ha nel Pd e nell’Udc i soggetti fondamentali, possa dare questa risposta al Paese. Pier Ferdinando Casini dice che di alleanza si potrà discutere a patto che la sinistra estrema ne resti fuori. Lei è d’accordo? Alla sinistra del Pd c’è al momento una situazione abbastanza confusa. La maggioranza di Rifondazione non sembra disponibile a spendersi in una coalizione riformista di governo, ma cosa succederà all’area vendoliana e di Sinistra democratica non è dato sapere. E se Vendola e Fava volessero partecipare? A quel punto parleranno i contenuti. La compatibilità va verificata nel merito, e deve essere rigorosa. Perché non è detto che all’intenzione corrisponda la sostanza. Voglio dire che nel ’95 in Toscana, Rifondazione voleva sì svolgere un ruolo di governo, ma non era d’accordo sullo smaltimento dei rifiuti, sull’alta ve-

locità, sul welfare... insomma, non c’era coerenza programmatica, non c’era compatibilità. Uno schema fisso, nell’Unione prodiana. Sì, ma guardi che nessuno di noi oggi pensa che sia ripresentabile una nuova Unione. Pensiamo a un nuovo centrosinistra, e non è un fatto terminologico. È giusto, per esempio, che ci sia uno sbarramento alle politiche e quindi un pluralismo fondato sulla consistenza dei vari gruppi. Così come è necessario che il nuovo centrosinistra abbia una condivisione non equivoca delle priorità. Su questo, con l’Udc già oggi ci sono molti aspetti su cui segnalare una convergenza. Per esempio? Ci sono delle condivisioni culturali, ancor prima che politiche, sulla crisi economica, sulla volontà di azione di governo, sul tipo di legge elettorale, sul cambiamento delle istituzioni e anche sul no al populismo, il quale secondo me è la minaccia più grande che c’è per l’Europa di oggi. Tuttavia proprio il Pd, alle ultime elezioni, si è alleato con il populista Di Pietro. Guardi, io penso che la stessa Italia dei Valori non sia quel blocco monolitico che appare. Al suo interno ci sono istanze serie come quella della legalità, e invece altre volte acritiche indulgenze o la voglia di cavalcare il populismo. E lei pensa di separare l’Italia dei Valori “buona”da quella “cattiva”? Penso che quando si sta all’opposizione è giusto trovare delle soluzioni convergenti, mentre quando si tratta di stabilire una piattaforma programmatica di governo non possono esserci incertezze. Per cui, certamente, per partecipare a un’azione di governo, l’Italia dei valori dovrebbe mettere rigorosamente fuori pista ogni indulgenza verso il populismo. E anzi, dovrebbe impegnarsi a combatterlo. Nel Pd il tema delle alleanze suscita reazioni talvolta scomposte. Beh, è normale che ci siano posizioni diverse. Ma rispetto alla necessità di una condivisione delle priorità di governo e alla lotta senza incertezze contro il populismo, penso che ci sia una uniformità nel partito. Ritiene anche lei, come D’Alema, che i democratici non siano autosufficienti? L’errore grave che sta facendo l’attuale maggioranza di destra è proprio quello di ritenere, per via dei numeri in Parlamento, di essere autosufficiente. Ma nessuno lo è, neanche quando vince. Il confronto serve, ora abbiamo il tempo di costruire un nuovo centrosinistra: e, senza giurare al matrimonio, bisogna non aver paura, sia nel Pd che nell’Udc, di verificare nel merito una convergenza possibile. E, se c’è, avere il coraggio di sperimentarla.

Senza giurare sul matrimonio, bisogna non aver paura di verificare la convergenza. E poi occorre il coraggio di sperimentarla

ri facendosi promotore in prima persona di un grande piano di investimenti pubblici che serva a rilanciare consumi e investimenti privati. Copiando, semplicemente, ciò che in Cina e negli Stati Uniti è stato appena fatto o si ha in programma di fare. Agisca, in definitiva. Perché se il ritorno all’economia reale è

ne che spinse Giulio Tremonti a concordare con la Ue un piano di sforamento del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, come potrebbe avvenire anche quest’anno. Ma i paralleli finiscono qui perché, come ha sottolineato l’Istat, i due trimestri in calo nel 2005 registrarono rispettivamente un -0,2 e un 0,1 per cento del Pil.Tra l’altro il terzo trimestre del 2008, quello che ha segnato il ritorno dell’Italia in recessione, ha anche goduto di tre giornate lavorative in più rispetto al trimestre precedente e una giornata lavorativa in più rispetto al terzo trimestre del 2007. Intanto la situazione attuale e il timore di entrare in depressione rinfocolano le polemiche per l’assenza di un piano consistente a favore dell’economia reale. E richiami al go-

la parola d’ordine di questi giorni, anche un ritorno alla politica reale, e al suo ruolo di grande decisore degli scenari, è di impellente necessità. E, effetto non secondario, è in grado di rafforzare anche leadership numericamente forti ma politicamente appannate. (www.enricocisnetto.it)

verno non arrivano soltanto dall’opposizione. Così si legge la battuta del presidente della commissione Bilancio della Camera, il leghista Giancarlo Giorgetti: «Servono idee geniali. Confido molto nel ministro Tremonti». Dal Pd, e con termini più duri, commenta Pier Luigi Bersani: «In manovra non c’è nulla per far ripartire i consumi, per le famiglie e per le piccole imprese.Il governo si dia una mossa».

Più in generale rallenta e va in recessione anche Eurolandia. L’Eurostat ha registrato che tra i Paesi in regresso per il secondo trimestre consecutivo c’è anche la Spagna (-0,2 per cento). Solo la Francia, con un timido +0,1 , va in controtendenza. Ma la recessione è soltanto rimandata al 2009.


politica

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Dispute. Parla Francesco Storace, già presidente della vigilanza Rai: «Pd e Pdl giocano una partita spregiudicata»

Io, da ex, dico: è una farsa colloquio con Francesco Storace di Pierre Chiartano

ROMA. Con un blitz, il Pdl ha fatto eleggere l’ex-Cdu, l’exUdeur, l’ex petalo della Margherita, oggi Pd, il demitiano Riccardo Villari, epatologo napoletano. E il mal di fegato sarà sicuramente venuto a Walter Veltroni che ha gridato al «regime». Abbiamo chiesto a Francesco Storace, che anni fa è passato negli stessi campi minati della Vigilanza Rai, come da “uomo di confine”ha vissuto quell’esperienza e come giudica l’attuale querelle. Lei che è stato eletto alla stessa carica di Villari e poteva considerasi un uomo di “confine”, come analizza l’intera vicenda? È una farsa e spero sia finita. Un organo di vigilanza in sé è molto più importante del nome del suo presidente, perché esercita un controllo sul servizio d’informazione pubblica e televisiva. Sono sei mesi che un dovere istituzionale non

Gli equilibri interni al Parlamento non giustificano il fatto che 55 milioni di italiani e le forze politiche minori debbano rinunciare a una garanzia sull’imparzialità dell’informazione radiotelevisiva

viene messo in pratica. Pdl e Pd hanno giocato una partita spregiudicata. Gli equilibri politici interni al Parlamento non giustificano il fatto che 55 milioni di italiani debbano rinunciare a una garanzia sull’informazione Rai. Credo che il nuovo presidente debba assolutamente fare l suo dovere. Qui c’è un problema concreto di pluralismo dell’informazione, di controllo sul servizio pubblico. Non condivide le affermazioni di Walter Veltroni quando grida al “regime”? Veltroni dimentica cosa è successo in precedenza e cita a

sproposito il mio nome.Tra l’altro senza un minimo di stile, in maniera piuttosto sgarbata, dipingendomi come chissà quale mostro. Non è in grado di citare un solo episodio in cui la commissione non si sia espressa con correttezza sotto la mia presidenza. In realtà in commissione non votavo. Proprio pere essere una garanzia ed essere percepito come elemento super partes. Come uscì il suo nome? La mia elezione fu determinata da un veto dell’allora maggioranza di governo, guidata dal centrosinistra, contro la candidatura del centrodestra, che al-

lora era la Fumagalli Carulli. È talmente vero e riscontrabile che il Ccd non mi votò, perché contestò a Fi e An di aver subito il veto. Non pensa che Villari possa dimettersi? Ciò che farà Villari non lo posso immaginare. Spero però che finisca questa sceneggiata… E come potrebbe finire la «sceneggiata»? Che il nuovo presidente convochi la commissione e cominci a chiedere conto alla Rai di ciò che sta succedendo. Magari che riceva le forze che stanno in Parlamento, grazie alla nuova legge elettorale. Mi fa molto piacere che Lombardo sieda alla Camera, avendo preso lo 0.8 per cento dei voti. Può esserci solo perché ha scelto di stare dentro una coalizione. Noi che abbiamo fatto scelte diverse, per un maggiore autonomia e

indipendenza, non ci siamo. Non è possibile che un milione di persone possano essere cancellate, rimanere senza voce, né rappresentanza. Cos’ha Orlando di così indigeribile per il Pdl?Negli ultimi tempi aveva assunto un profilo basso, quasi “rasoterra”, per non creare problemi alla sua candidatura. Non rilasciava neanche più dichiarazioni che non fossero d’equilibrio istituzionale. Bisognerebbe chiederlo a Pdl, non a me. Non mi sembra molto sensato mettere veti però non è la prima volta che succede. Può esserci stato un asse Pdl-D’Alema? Non ho idea, spero solo che finisca presto, anche perché fu proprio Veltroni che qualche tempo fa dichiarò che la Vigilanza Rai non era in testa ai problemi degli italiani. Scatenando le ire di Pannella. Adesso ha cambiato idea: è il primo dei problemi. Ma la Vigilanza Rai è ancora uno strumento di controllo istituzionale valido? Su questo le riserve ci possono essere. Se non se ne costituiscono altri almeno però è un presidio. Faccia qualche esempio di buona pratica e di comportamenti inutili se non dannosi? Credo che il presidente della Vigilanza Rai abbia sempre avuto due scelte di fronte a se. O fa il suo dovere, senza guardare in faccia nessuno pretendendo il rispetto del pluralismo, oppure si mette a fare il lottizzatore, trasformandosi nell’ultimo ingranaggio della catena. Non conta così tanto, però può dire la sua nella nomina di qualche usciere o di un caporedattore. La mia scelta fu la prima.

Il deputato Pd vedrà mercoledì prossimo il presidente della Camera. Per ora niente dimissioni

L’attendismo del signor Villari i dimette, non si dimette? Riccardo Villari, il deputato del Pd balzato alle luci della ribalta politica per essere stato eletto a presidente della Vigilanza Rai non ha ancora deciso sul suo destino prossimo venturo. Il suo partito preme, Veltroni garantisce che si dimetterà, Rosy Bindi chiede per lui un ultimatum ed eventuali sanzioni disciplinari da parte sua Villari prende tempo: ha telefonato al presidente della Camera Gianfranco Fini, chiedendogli un incontro e Fini si è detto disponibile a riceverlo mercoledì della prossima settimana. Non ha dimo-

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strato la stessa disponibilità invece il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che in risposta alla richiesta di udienza avanzata dal senatore democratico per valutare eventuali rilievi formali sulla procedura istituzionale che ha portato alla sua elezione ha fatto sapere di non avere titolo per pronunciarsi in merito. Alla fine insomma spetterà allo stesso Villari – su cui la pressione del Pd è ogni ora più forte – la decisione sul rassegnare o no le sue dimissioni. Per ora, a lume di naso, sembra non ne abbia nessuna voglia.

in breve Flick presidente della Consulta È Giovanni Maria Flick il nuovo presidente della Corte Costituzionale. Succede a Franco Bile, il cui mandato è scaduto lo scorso 8 novembre. Ad eleggerlo sono stati, a scrutinio segreto, i quindici della Consulta. Sessantotto anni, nato a Cirié (Torino), Flick è il trentaduesimo presidente della Corte Costituzionale e resterà in carica fino al 18 febbraio 2009. In tutto novantasei giorni, un giorno in più rispetto alla presidenza di Giuliano Vassalli e quasi il doppio rispetto a quella “lampo” di Vincenzo Caianiello (45 giorni, un record). Noto avvocato penalista ed ex ministro della Giustizia durante il primo governo Prodi, Flick é stato nominato giudice costituzionale nel febbraio del 2000 dall’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. Primo atto del neo presidente è stato nominare Francesco Amirante vicepresidente, rispettando il criterio dell’anzianità: Amirante è infatti, dopo Flick, il giudice costituzionale più anni di anzianità di carica.

Cai: accordo con i sindacati La Cai, la nuova Alitalia, ha firmato con Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti e Ugl Trasporti l’accordo in applicazione delle intese sottoscritte a settembre e di quelle firmate a Palazzo Chigi il 31 ottobre scorso. È un’intesa sull’applicazione delle regole per procedere ora con l’assunzione dei dipendenti della “vecchia” Alitalia. L’accordo prevede tra i criteri di scelta la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori attualmente beneficiari della temporanea sospensione dell’obbligo di lavoro per gravidanza o puerperio sino al compimento di un anno di età del bambino, personale di terra in gravidanza o puerperio allo scadere del periodo di astensione obbligatoria, dipendenti temporaneamente inidonei al servizio fino allo scadere dell’inidoneità entro un anno dalla comunicazione di avvenuta selezione. Mentre il periodo di temporanea sospensione sarà valido ai fini dell’anzianità aziendale.


società

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segue dalla prima Certo, non è più il tempo dei «clerici vagantes»: e tuttavia, se una università autorevole come la Bocconi di Milano ha più di due terzi degli allievi che provengono da fuori Lombardia, ciò dimostra che la tensione all’eccellenza della preparazione è una leva che ancora coinvolge i giovani e le loro famiglie, disposte a sacrifici non indifferenti per affrontare persino la migrazione educativa.

Segnali come questi (e la Bocconi non è un caso isolato, a Milano vale anche per il Politecnico) dimostrano che autonomamente la società cerca le strade possibili per evadere dall’involucro soffocante di burocrazie e statalismi che per loro natura e struttura abbassano fatalmente la qualità di un bene primario come l’istruzione. E non si sono visti molti studenti di questi atenei “virtuosi”(gli stessi che sono in grado di far pagare tasse molto ridotte agli allievi, sia secondo il reddito sia secondo il merito) partecipare agli happening di piazza (molto coccolati dal circuito mediatico) che protestano contro i provvedimenti del titolare della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini. E anche questo elemento avvalora il sospetto che a soffiare sul fuoco della rivolta siano proprio insegnanti e “baroni” accademici, terrorizzati dalla pro-

Piazze. Gli studenti contestano un decreto “tecnico“ che non risolve il nodo di fondo dell’istruzione

Davvero «scuola pubblica» vuol dire «scuola di Stato»? di Giuseppe Baiocchi

La gestione della formazione deve essere lasciata alle ”comunità”, che siano esse locali, di vocazione oppure di cultura. Solo in questo modo, gli insegnamenti saranno liberi e di tutti spettiva di dovere prima o poi giustificare la bontà del loro “lavoro”. D’altronde i decreti in proposito appaiono, grembiule a parte, nient’altro che una applicazione anti-spreco delle misure già individuate dalle riforme Bassanini sulla pubblica amministrazione e di Luigi Berlinguer, entrambi ministri di lontani governi di sinistra. (Non

è un caso che entrambi abbiano pubblicamente chiesto di lasciar lavorare la Gelmini che sta semplicemente rendendo esecutivi i loro provvedimenti). Piuttosto la protesta così conservatrice di un mediocre “statu quo” contribuisce a nascondere la vera questione che la modernità fa emergere in tutta la sua drammaticità, ovvero la dimen-

sione irrimediabilmente antiquata e inefficiente della “scuola di Stato”.

Già lo scriveva in tempi non sospetti proprio Antonio Gramsci, il teorico dell’”egemonia” culturale: «Noi dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dallo Stato…». Una lezione apertamente contraddetta proprio dai suoi mediocri epigoni che hanno sequestrato la scuola in nome di uno statalismo burocratico e sin-

dacalese, sottraendola ai legittimi “proprietari”: gli scolari, le famiglie, le comunità. Ovvero lo Stato ci sia, ma stia lontano: si limiti a funzioni indispensabili di controllo e di generalissimo indirizzo, lasciando che la scuola sia gestita e governata dalle “comunità”: ovvero comunità locali e di territorio, comunità di vocazione e di cultura, che liberamente si confrontino in forme di virtuosalasciando che sia la scuola competizione verso il “meglio”. Perché alle comunità di qualsiasi tipo “conviene” attrezzare scuole di qualità, come pure ai giovani e alle famiglie “conviene” avere a

In 200mila da tutt’Italia (ma l’Onda si stacca e va a Montecitorio). Epifani attacca Bonanni: «Chi non c’è, sbaglia»

A Roma fila liscio il corteo dei sindacati i è conclusa nel tardo pomeriggio di ieri la manifestazione nazionale di Cgil e Uil che ha sfilato lungo le strade del centro di Roma per protestare contro il ministro Gelmini. Due differenti manifestazioni, in realtà: centinaia di studenti dell’Onda, che inizialmente sfilava nel corteo delle sigle sindacali, si è infatti staccato per dirigersi verso il Parlamento, dove ha improvvisato un sit-in non autorizzato dalla Questura e scandito slogan contro il governo («Vergogna», «Chi non salta Berlusconi è», «Circondiamo i palazzi del potere»). Nessun incidente o disordine, questa volta. I manifestanti si sono mossi con circa un’ora e mezza di ritardo rispetto all’ora-

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rio previsto, le 9 e 30, per aspettare i delegati in arrivo da tutta Italia: dieci pullman da Firenze, 13 dall’Emilia Romagna, 10 dalla Calabria, 7 dalla Puglia, 17 da Napoli (ai quali si sono aggiunte circa 200 persone che hanno scelto il treno per arrivare nella Capitale), 250 delegati dalla Sicilia e dalle Marche. «Siamo oltre 200mila», hanno riferito gli organizzatori (ma per la questura, a sfilare in piazza erano in 30mila). Ad ogni modo, la grande assente della giornata sembra esser stata la Cisl di Raffaele Bonanni, cui il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, ha riservato una stoccata dal palco allestito a piazza Navona. «Chi non c’è sbaglia ha detto - Ogni volta che provano a iso-

larci gli va male. Però persistono. E perseverare è diabolico». Ma a Roma ieri c’è stato anche chi ha voluto far sentire il proprio sostegno al ministro Gelmini. Circa 300 ragazzi di Air (Area identitaria romana), sigla vicina alla destra, e di Azione giovani si sono riuniti sotto al ministero dell’Istruzione esibendo lo striscione “Daje Gelmini” e consegnando al ministro una lettera con su scritto: «Ci auguriamo davvero che quella che lei ha chiamato la “quarta I”, quella di “Identità”, possa davvero essere il locomotore socio-politico-culturale di tutto il sistema educazionale, scolastico e universitario della nuova Italia che lei e tutto il governo siete a chiamati a costruire». (g.m.)

disposizione scuole diverse, di differente orientamento, ma tutte in tensione verso l’eccellenza.

In questa prospettiva tutte le scuole sarebbero per loro natura “pubbliche e libere”: e la qualità della preparazione e della formazione dei giovani non sarebbe solo l’ennesimo proclama di carta dei programmi ministeriali ma una logica e benedetta necessità, perché sarebbero gli stessi “utenti”, con la loro scelta di iscrizione, a decretarne il successo e il fallimento. E organizzate in autonomia gestionale e finanziaria, potrebbero “strapparsi”l’una all’altra i docenti più validi, anche sotto il profilo umano ed educativo, pagandoli quanto meritano. Sarebbe una applicazione reale del tanto declamato (e mai praticato) “principio di sussidiarietà”: una pacifica rivoluzione che dispiace molto a sinistra, ma anche a destra (vedi i tagli indiscriminati alle scuole paritarie). Chissà se, prima o poi, qualcuno si deciderà, da utente, a trascinare in giudizio il carrozzone scolastico-accademico perché “manifestamente anticostituzionale”. Pur avendo il record mondiale del numero di dipendenti pubblici (appena al disotto dell’esercito degli Stati Uniti) non pare proprio che, dal più prestigioso dei professori all’ultimo degli scolari, corrisponda al vincolante dettato costituzionale di premiare e promuovere i “capaci e meritevoli”.


economia

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Globalizzazione. Dopo la tempesta sulle banche e la caduta delle Borse, il mondo prova a darsi nuove norme

Una nuova Maastricht Si apre il G20 straordinario sulla crisi Ma l’Europa deve riscrivere le sue regole di Enrico Singer ra l’undicesimo e il dodicesimo piano di Palais Berlaimont si vive ormai in un’atmosfera irreale. Negli uffici dei tre commissari europei che, nello stato maggiore della Ue a Bruxelles, si occupano di Affari economici, Concorrenza e Mercato interno, tutti oggi guardano a Washington, a quella riunione del G20 che dovrebbe realizzare un primo argine alla tempesta finanziaria mondiale. Ma il sentimento prevalente è lo scetticismo. Non tanto perché nessuno degli esperti europei si attende risultati miracolosi, e soprattutto rapidi, da questo vertice, quanto perché è sempre più forte la sensazione di muo-

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stato possibile il piano di salvataggio delle banche minacciate dal collasso. Nell’ultimo vertice dei Ventisette è stato reso ”flessibile”anche il fatidico tetto del 3 per cento nel rapporto deficitPil fissato dal Patto di stabilità sottoscritto per consentire la nascita dell’euro. Ma le misure adottate finora sono comunque delle eccezioni a regole che pochi hanno il coraggio di mettere in discussione. La verità è che, più che inseguire una seconda Bretton Woods, sarebbe il caso di ragionare senza tabù sull’opportunità di arrivare a una nuova Maastricht. Non per distruggere tutto, ma per aggiornare un Patto che era stato pensato in un momento di svi-

Se la Cina avesse sottoposto a Bruxelles il suo piano da 460 miliardi per sostenere la crescita economica, sarebbe stata sanzionata per avere concesso aiuti di Stato. E la Ue entra in recessione versi una realtà molto diversa rispetto agli altri centri dell’economia mondiale - dagli Usa alla Cina, alla stessa Russia o alle nuove tigri dell’Asia - e di essere costretti ad applicare regole e vincoli che altrove non esistono. Se la Cina facesse parte della Ue e il governo di Pechino avesse sottoposto agli uffici di Bruxelles il piano da 460 miliardi che ha appena approvato per sostenere la sua crescita economica, si sarebbe trovata di fronte a una bocciatura: aiuti di Stato.Vietati come quei 300 milioni di euro del ”prestito ponte”che Alitalia dovrà restituire.

luppo e che sta mostrando la corda - tanto che è necessario emendarlo a colpi di eccezioni in un momento di crisi come è quello che abbiamo cominciato ad attraversare. Anche perché il governo mondiale dell’economia è un sogno che né il G8, né il G20 sono in grado di realizzare, mentre il governo dell’economia europea

- pur con tutti i suoi limiti - ha le sue leggi e i suoi controllori. Che rischiano, però, di diventare un handicap nel confronto globale. Con il cambio alla Casa Bianca tra George W. Bush e Barack H. Obama in corso, è difficile prevedere che fine farà il piano Paulson e come si muoverà la nuova amministrazione. Ma se, per esempio, dovessero arrivare aiuti alla General Motors in difficoltà, il confronto Ue-Usa sarebbe analogo a quello Ue-Cina: da noi il sostegno a una singola casa automobilistica andrebbe contro le regole del Trattato.

Si dirà che i correttivi ci sono già stati per consentire gli aiuti alle banche e che è stato ammesso lo sforamento - temporaneo e nell’ordine dei decimali - del tetto del 3 per cento nel rapporto deficit-Pil. Ma la maggiore flessibilità introdotta nel Patto di stabilità è giustificata con la recessione economica e non come strumento per autorizzare misure in disavanzo per sostenere l’economia. L’amministratore delegato di IntesaSanpaolo, Corrado Passera, sul Sole24Ore, ha proposto per l’I-

talia un piano d’investimenti da 50 miliardi e ha detto che «Maastricht non può essere un dogma». Ma soltanto un intervento da dieci miliardi farebbe balzare il rapporto deficit-Pil italiano al 3,5 per cento. E questo - al di là della giustezza o meno della proposta di Passera - dimostra che, anche con gli aggiustamenti e la dichiarata flessibilità - i margini di manovra sono angusti. Non solo. Anche in questa crisi i comportamenti delle diverse capitali europee hanno riproposto la tentazione, sempre in agguato, degli egoismi nazionali. È vero che, alla fine, almeno i quindici Paesi dell’euro hanno concordato un piano comune per quanto riguarda la difesa delle banche e dei risparmiatori, ma il ”fondo comune” che era stato proposto da Nicolas Sarkozy e che era sponsorizzato dall’Ita-

lia non ha visto la luce per il no deciso della Germania di Angela Merkel.

Anche Berlino è entrata in recessione, ma la Germania ha i conti molto più a posto in termini sia di deficit che di debito pubblico e non ha voluto correre il rischio di dover pagare nell’ipotesi di un ”fondo comune” antricrisi - con i suoi soldi i problemi di altri Paesi. Non è un bell’esempio di solidarietà europea. Ma il problema non è soltanto morale: è molto più concreto, come sempre avviene quando si parla di economia. La

Si attendono pochi risultati concreti dall’incontro tra grandi ed emergenti

Un vertice con troppe ambizioni e poche speranze di Francesco Pacifico

La Cina è fuori dalla Ue. Ma è dentro il sistema economico globale. Anzi, ne è uno degli attori più intraprendenti. Con il risultato che può permettersi di iniettare dosi massicce di yuan nelle sue industrie - che già contribuiscono a un Pil che viaggia oltre l’8 per cento - per renderle ancora più competitive. Mentre da noi, gli articoli 87, 88 e 89 del Trattato europeo fissano gli stretti margini di manovra dell’intervnto pubblico a favore delle imprese. Certo, da quando è esplosa la crisi alcuni vincoli sono stati allentati. Altrimenti non sarebbe

Difficilmente si parlerà di regole comuni come chiesto da Nicolas Sarkozy e da Silvio Berlusconi. O arriveranno provvedimenti o si decideranno nuove iniezioni di liquidità nelle quantità auspicate dai mercati. Mentre tutte le economie mature entrano in recessione – e sfiorano la recessione – oggi a Washington si apre sotto i peggiori auspici il G20 dedicato a “mercati finanziari ed economia mondiale”. Le delegazioni – europei in testa – guardano già al vertice previ-

sto a febbraio, quando sarà presente il nuovo presidente degli Usa, Barack Obama.

Il ministro tedesco delle Finanze, Peer Steinbrück, ha spiegato: «Sarebbe esagerato attendersi delle misure concrete» dal G20. Così l’appuntamento rischia – vista la presenza di grandi e degli emergenti della Terra – di ridursi alla cerimonia di commiato di George W. Bush. Proprio il presidente uscente degli Stati Uniti ha finito per

segnare gli esiti del vertice. La volontà di uscire di scena difendendo mercato e laisse faire, è bastata per bloccare la nascita di una supervigilanza bancaria mondiale. Così – ha anticipato ieri il Washington Post – le delegazioni delle economie presenti, e che gestiscono il 90 per cento della ricchezza della Terra, dovranno accontentarsi di annunciare la nascita entro l’anno di un “collegio dei supervisori”. Composto da membri di autorità di regolamentazione e di

sorveglianza dei maggiori Paesi al mondo, dovrebbe garantire sulla carta un ulteriore livello di controllo sulla gestione delle più grandi banche e sul livello di liquidità in circolazione. Ma al momento è difficile capire se l’organismo avrà anche poteri effettivi. Sempre il quotidiano americano ha spiegato che Stati Uniti, Europa, Giappone e i principali Paesi emergenti studiano un «sistema di allarme preventivo» per denunciare le debolezze del sistema finanziario glo-


economia

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Sull’incontro pesano le scelte del “grande assente”: Barack Obama

Ma qui qualcuno ha già vinto, la Cina di Gianfranco Polillo ono cominciati in sordina i lavori dei grandi della Terra e, con ogni probabilità, rimarranno tali per tutta la loro durata. A Washington, i leader del G20 scrutano l’orizzonte della crisi, ma difficilmente enunceranno proposte operative per farvi fronte. All’incontro manca il personaggio più importante: Barack Obama, che giurerà, come presidente degli Stati Uniti, solo il 20 gennaio. Chi si aspettava che, nel recente vertice alla Casa bianca tra Bush e lo stesso Obama, fosse emersa una posizione comune, in grado di anticipare una qualche soluzione, resterà deluso. E delusa è rimasta Angela Merkel che non ha fatto mistero della sua contrarietà. Il mondo – ha detto in una conferenza stampa – non può aspettare tanto. Nei prossimi cento giorni bisognerà già essere in grado di prendere le necessarie misure.

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Qui sopra, Sarkozy e Bush. Accanto, il premier britannico Gordon Brown. Più a sinistra, il Cancelliere tedesco Angela Merkel e Silvio Berlusconi. A destra, Barack Obama, grande assente al vertice strategia finora adottata è quella di fissare a livello europeo delle linee-guida, dei confini entro i quali consentire gli interventi che sono poi affidati ai governi nazionali in base alle condizioni economiche e di bilancio dei singoli Paesi. E non è un caso che la Germania sia fredda anche sull’unica misura davvero comunitaria fin qui annunciata: il maggiore ruolo della Bei, la Banca europea degli investimenti, che dovrebbe raddoppiare l’impegno verso le piccole e medie imprese. Ma perché la Bei possa giocare questo nuovo e più incisivo ruolo, è ne-

bale prima che esse raggiungano proporzioni preoccupanti. Quindi uno strumento di comunicazione che nell’attuale crisi è mancato. Al riguardo il Fondo monetario internazionale guidato da Domenique Strauss Kahn e il Financial stability forum presieduto da Mario Draghi hanno annunciato di rafforzare la loro collaborazione.

Di conseguenza dovrebbe ritornare a casa con non poche frustrazioni la delegazione tedesca, dopo che ieri la cancelliera Angela ha presentato un pacchetto di proposte per un “nuovo ordine finanziario mondiale.Tra le altre, controlli sugli hedge funds, riforma dei premi ai leader d’a-

cessario anticipare l’aumento di capitale che era previsto soltanto per il 2010 e su questo Berlino non è d’accordo. L’elenco delle gelosie e delle incomprensioni tra le capitali potrebbe essere molto più lungo. Proprio per questo, invece di procedere sulla strada degli aggiustamenti e delle eccezioni alle regole, potrebbe essere più utile ritrovarsi tutti attorno a un tavolo, magari proprio a Maastricth, la cittadina olandese dove undici anni fa, nel 1997, fu raggiunto l’accordo sul Patto di stabilità e di crescita. Senza aspettare il miracolo di una nuova Bretton Woods.

zienda e una “carta mondiale dei rischi finanziari”. Non da meno sarà il bilancio del premier britannico Gordon Brown, che ha auspicato sgravi fiscali per allontanare la depressione. Certo, di questi temi si discuterà, e allo stesso modo non mancheranno lunghe discussioni sulla richiesta rilanciata 48 ore da Bush di riformare Fmi o Banca mondiale. Così come si farà il punto sugli interventi a sostegno di banche e consumi decisi dai singoli Stati o sulla richiesta della Ue di aumentare gli aiuti ai Paesi poveri. Ma in assenza di colpi di mano, per interventi decisi bisognerà attendere il vertice di febbraio. E l’insediamento di Obama alla Casa Bianca.

soluzioni tampone. Stringere i controlli pubblici sulle 30 principali banche, nella speranza di evitare altre brutte sorprese. Impostare un sistema di allarme preventivo che avverta in tempo le autorità politiche dei pericoli maggiori. Non è molto, visto la dimensione della crisi, ma purtroppo ci si deve accontentare. In questo momento congiuntura politica e cattiva congiuntura economica giocano a rimpiattino. Le recenti elezioni americane hanno introdotto una variabile che ha sconvolto i precedenti equilibri. Paradossalmente la sconfitta bruciante del Partito repubblicano ha dimostrato la necessità di un grande cambiamento di pas-

Ma se il leader tedesco insiste, una ragione c’è. Sul tavolo della trattativa la lady getterà il peso delle sue proposte, elaborate con l’accordo di Otmar Issing, ex presidente della Bce. Punti fermi: una regolamentazione dei premi aziendali. Il tema dell’avidità dei manager che costituisce uno dei cavalli di battaglia del suo Ministro delle finanze. Quindi la necessità di regole certe, dopo il fallimento delle società di rating, per una corretta valutazione del rischio. La proposta non dispiace a Mario Draghi. In un comunicato congiunto con Dominique Strauss-Khan, presidente del Fmi, entrambi hanno convenuto sulla necessita di rafforzare quest’ultima istituzione e di individuare i migliori standard di controllo. L’ultima proposta tedesca è, infine, quella di un registro internazionale dei crediti i sofferenza. Anche in questo caso la memoria rimanda ad episodi lontani. Il crack Parmalat colpì le tasche di tanti italiani. Ma furono soprattutto le banche estere a subirne le più pesanti conseguenze.

so.Verso quale direzione è difficile dire. I programmi dei due candidati erano troppo calibrati sulla necessità di portare a casa un risultato, per essere credibili ai fini di un governo della crisi. Occorrerà, quindi, del tempo per capire le reali intenzioni del giovane Obama.

Come hanno reagito gli altri convenuti? Non troppo bene, almeno sembrerebbe. George Bush, ormai con la valigia in mano e pronto al trasloco, si è pronunciato contro le ipotesi di una diversa regolazione. Il pericolo paventato? Un attacco alle sorti del libero mercato. Analoga freddezza da parte di Sarkozy, da tempo in disaccordo con quanto avviene al di là del Reno. Nodo del contendere proprio i 100 giorni. D’intesa con Medvedev ritiene che sia indispensabile convocare un nuovo vertice all’indomani dell’insediamento di Obama. E mentre i risparmiatori di mezzo mondo incrociano le dita, sperando che il peggio sia passato, si cerca di individuare, per lo meno, alcune

Nel frattempo, l’Europa dovrebbe parlare con una voce sola. Ma nemmeno questo sta avvenendo. Francia e Germania continuano a beccarsi, nella ricerca competitiva di una leadership. La Russia di Putin guarda sorniona. Medvedev ha capito di poter giocare da una posizione di forza. Senza il suo appoggio, il Vecchio Continente rischia di soccombere nel braccio di ferro con gli Stati Uniti, sempre più tentati dalla carte di un accordo privilegiato ed esclusivo con la Cina. È il pericolo maggiore. Se questo fosse il risultato finale, grazie anche al sostegno della Gran Bretagna, sempre in bilico tra le due sponde dell’Atlantico, sarebbe un disastro nel disastro.

George Bush, ormai con la valigia in mano e pronto al trasloco, si è già pronunciato contro qualunque ipotesi di nuove regolazioni: le vere soluzioni arriveranno solo dopo il 20 gennaio


panorama

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Polemiche. La sentenza sul pestaggio alla scuola Diaz nel 2001 alimenta la teoria del doppio Stato

Genova, il complottismo e la verità di Riccardo Paradisi a sentenza emessa dal tribunale di Genova di assoluzione per i vertici della polizia, che un teorema accusatorio ritiene i responsabili e i mandanti diretti del pestaggio avvenuto alla scuola Diaz durante il G8 del 2001, non chiude né archivia il caso. Anzi lo consegna fatalmente al lungo rosario di sentenze “ingiuste”, “vergognose”, “equivoche”, “di regime” di cui si alimenta da decenni l’immaginario dell’antagonismo politico italiano. Uno schema ideologico che in virtù di una reiterazione automatica, di una coazione spontanea ha finito per depositarsi nel senso comune di una parte dell’opinione pubblica italiana che in

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IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

buona fede crede nell’esistenza di un doppio Stato e di una regìa politica occulta del Paese. La cui storia potrebbe tranquillamente ridursi a una teoria di scheletri negli armadi, intrighi internazionali, verità inconfessate e inconfessabili, grandi vecchi, orditi criminali, servizi segreti deviati.

ma del pestaggio alla scuola Diaz non serve il pregiudizio complottistico che emerge dalle dichiarazioni di queste ore anche di attori istituzionali della politica italiana. Alfio Nicotra, uno dei portavoce del Genoa Social Forum durante i giorni del G8 e ora responsabile per i movimenti di

È grave che dei poliziotti abbiano abusato del proprio potere ma è assurdo parlare di tribunali speciali e sentenze di regime Certo, le oscurità su Genova permangono: è grave che decine di poliziotti si siano potute muovere in autonomia per abusare selvaggiamente del proprio potere.

Su questo dovrebbe essere fatta chiarezza, si dovrebbe chiarire in quale punto della catena di comando si è prodotta la deviazione, come sia possibile che ci sia stato chi ha lasciato scatenare degli agenti in divisa. Però per far luce su quanto di ancora oscuro è accaduto pri-

Rifondazione comunista esprime «Vergogna per una sentenza non degna di uno Stato democratico. Che questi teppisti in divisa agissero di propria testa non sta nè in cielo nè in terra». Per cui, sempre secondo Nicotra «questa sentenza è un colpo mortale, una ferita profonda alla credibilità della Repubblica italiana. I giudici hanno legittimato uno scempio che ora potrà ripetersi di nuovo, garantendo ai responsabili impunità per nuove macellerie messicane contro i movimenti. È una sentenza politica una

sentenza di regime che ci farà vergognare nel mondo». Insomma secondo l’esponente di Rifondazione comunista, partito di governo fino alla scorsa legislatura, la sentenza del tribunale di Genova che ha mandato assolti i vertici della polizia è di fatto la sentenza di un di un tribunale speciale.

Affermazioni gravi, non solo perché in questo caso il rispetto verso la magistratura – sempre evocato quando Berlusconi parla di un doppio Stato e di strategie persecutorie ordite dalle toghe rosse – cessa di esistere e anzi si trasforma in aggressione politica ma soprattutto perché se si afferma che in Italia ci sono dei tribunali di regime allora, di conseguenza, l’Italia non è uno Stato di diritto, non è uno Stato democratico. Una tesi che a qualcuno potrebbe far venire in mente che gli strumenti legali della dialettica democratica siano insufficienti in un contesto che appunto non rientra nella legalità democratica. Un equivoco che in Italia ha già prodotto sufficienti sciagure

Tra tv e rilevazioni, da noi il fine della politica non è il buongoverno, ma il consenso

Solo Confalonieri ha capito il Pdl e potessi dare, ma non posso, un consiglio non richiesto al presidente del Consiglio gli direi: «Lascia perdere i sondaggi e fa ciò che ritieni giusto». Le lune di miele dei governi con gli elettori, infatti, sono sempre limitate nel tempo: nessun governo può contare su un consenso senza fine. Solo nei regimi totalitari c’è un consenso perenne perché obbligato. Nei paesi liberi, invece, le cose e le opinioni cambiano. Ma i governi sono chiamati a governare o a mutare pelle con i cambiamenti di vento? Oggi il IV governo Berlusconi - che pure gode di una buona fiducia, anche se le cose sono diverse rispetto a qualche settimana fa - è davanti a questo bivio: può girare di qua e imboccare “via dei sondaggi” oppure svoltare di là e incamminarsi su “via del governo”. A Silvio Berlusconi la scelta.

S

La prima strada conduce in un luogo in cui le scelte del governo sono fatte per avere e generare consenso. La distinzione classica della politica bene/male, utile/nocivo - conta poco perché regna la massima «il fine giustifica i mezzi». Il fine è il consenso e ogni mezzo (mediatico) è buono per avere il favore degli italiani che sono divisi in elettori di destra e di sinistra,

in categorie che stanno con il governo o con l’opposizione. Una volta proprio Berlusconi ha raccontato ciò che disse Margaret Thatcher: «Io non leggo i giornali, leggo solo gli articoli che parlano bene del governo». Anche il nostro capo del governo vorrebbe adottare lo stesso metodo della storica “lady di ferro” e probabilmente lo ha adottato, ma con una differenza sostanziale: che Berlusconi non è la Thatcher e l’Italia non è l’Inghilterra. Il premier del governo degli inglesi e di Sua Maestà la regina d’Inghilterra poteva leggere solo i giornali che condividevano la sua politica perché il fine di quella politica non era il consenso, ma il buongoverno. Il premier del governo degli italiani e di Sua Maestà la regina Opinione Pubblica legge solo i giornali che condividono la sua politica e guarda solo le trasmissione televisive che ne parlano bene perché il fi-

ne di quella politica non è il buongoverno, ma il consenso.

La seconda strada conduce in un luogo in cui le scelte del governo sono fatte per risolvere problemi e amministrare in maniera decente quel grande condominio che si chiama Italia. La distinzione classica della politica - quella indicata sopra a cui va aggiunta la coppia reale/irreale - è praticamente tutto e la massima giusta è quella di J.F. Kennedy: «Non chiedere che cosa il tuo paese può fare per te, ma che cosa tu puoi fare per il tuo paese». Il fine è quello che il pensiero classico chiama “bene comune” e, soprattutto, il mezzo giusto per affermarlo non è il racconto mediatico della politica ma il giudizio sui fatti. Gli italiani non sono divisi in elettori di destra e di sinistra e in categorie che stanno di qua o di là. Il consenso è uti-

lizzato per risolvere problemi e i problemi non sono agitati per ottenere consenso. Purtroppo, in Italia i governi imboccano la prima strada: via dei sondaggi. Una strada pericolosa per tutti: paese e governo. Perché è la strada che produce un inganno nazionale: ciò che conta non è la realtà dei fatti, bensì l’immagine che se ne suscita. Un inganno pericolosissimo perché il governo che adotta come criterio delle sue scelte non i fatti ma l’immagine è un governo che non solo inganna il paese, ma si autoinganna. Gli stessi italiani non sono estranei a questo autoinganno e dividono i governi in due categorie: “il mio governo” e “il tuo governo” escludendo la terza categoria che invece - come ha insegnato a tutti noi il repubblicano McCain - è l’unica categoria che dovrebbe valere in una democrazia seria: il governo del paese. Ieri Mussolini diceva: «Governare gli italiani non è difficile, è inutile». Oggi questa massima è ripetuta da un amico e collaboratore di Berlusconi, Fedele Confalonieri: «L’Italia non si governa». Tuttavia, questa posizione oggi sa di alibi. Chi governa, arrivato al primo giro di boa della fine della luna di miele, ha un dovere: uscire da “via dei sondaggi” e camminare su “via del governo”. Poche storie.


panorama

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Controluce. Qual era il vero obiettivo del superministro quando ha minacciato i «banchieri cattivi»?

Draghi-Tremonti, comincia l’ultimo duello di Giancarlo Galli segue dalla prima Proviamo a decriptare, sia pure (ci mancherebbe!) con beneficio d’inventario, trovandoci su un terreno minato. Partendo dalla chiamata in causa del signor Ciampi, considerato il salvatore della lira negli anni Novanta, quand’era governatore della Banca d’Italia, premier nel 93-94, per 873 giorni (dal maggio 96 all’ottobre 98) ministro del Bilancio, Tesoro e Programmazione Economica con Romano Prodi. Percorso coronato dal settennato al Quirinale conclusosi nel 2006.

Nell’attesa che Ciampi replichi, va diffondendosi un convincimento: Tremonti, giocando di sponda, avrebbe lanciato un segnale alla Banca d’Italia, dove regna Mario Draghi, pupillo di Ciampi. Nell’inverno 2005, alle dimissioni di Antonio Fazio, Ciampi lo accolse al Quirinale, pubblicamente abbracciandolo. Il ministro Tremonti, irriducibile avversario di Fazio, avrebbe preferito per la successione qualcun altro, da scegliere in una terna comprendente Mario Monti, Tommaso Padoa Schioppa ed Alberto Quadrio

Curzio. Ora la poltrona di Mario Draghi sembra meno granitica, nel senso che lo stesso interessato, cresciuto nel vivaio della finanza internazionale, insoddisfatto delle italiche vicende creditizie, in scarsa sintonia con il montante “tremontismo”, starebbe esaminando l’opportunità di un prossimo trasloco nell’amata Londra o a Bruxelles. Illazioni? Probabile. Eppure ha destato sensazione la comparsa in prima pagina del Corriere della Sera di venerdì 7 novembre un articolo di fondo del Quadrio Curzio.Valtellinese al pa-

Tutto il panorama bancario italiano, da Unicredit a BancaIntesa, sta passando sotto le insegne del titolare dell’Economia: resiste solo Bankitalia ri di Tremonti, rettore di facoltà all’Università Cattolica, presidente della società italiana degli Economisti, cattolicissimo, ha sempre spiccato per prudenza, evitando di politicamente sbilanciarsi. Con l’amico Tremonti avrebbe potuto diventare ministro, ma si ritrasse. Tuttavia, arrivato alla vigilia del 71° compleanno (festeggerà il giorno di Natale), come sottrarsi

alle lusinghe del conterraneo Giulio, se all’orizzonte si profila la Banca d’Italia? Firmare sul Corrierone può diventare un interessante biglietto da visita, considerato che l’organo della borghesia nordista sembra quanto mai sensibile al fascino tremontiano.

Passiamo ad un altro capitoletto: i segnali di fumo nei confronti

dei banchieri in difficoltà. Tremonti può ormai contare su un patto d’acciaio con Cesare Geronzi di Mediobanca; il che gli consente di dominare l’intero scenario delle guerre bancarie. Quelli che erano i potenziali competitori di Geronzi navigano al momento in acque perigliose. Alessandro Profumo di Unicredit, che sino a poche settimane fa faceva la fronda a Geronzi, è in un angolo. Le ginocchia molli. Ha respinto con sdegno le voci di possibili dimissioni, ma la banca resta nell’occhio del ciclone e la stella di Profumo s’è appannata, obbligata ad accettare il sostegno di Geronzi per la ricapitalizzazione.

Intesa-Sanpaolo, con al vertice Giovanni Bazoli da Brescia, autentica roccaforte prodiana, costituiva una spina nel fianco del tremontismo. Tutti prodiani doc: da Bazoli al torinese Enrica Salza, agli azionisti di spicco quali Romain Zalesky e la Fondazione Cariplo di Giuseppe Guzzetti. L’amministratore delegato Corrado Passera, cresciuto alla scuola di Carlo De Benedetti fu il primo a sfilarsi. Presagendo, dopo un rude braccio di ferro col presidente Ba-

zoli, si schierò con i berluscones che stavano impostando la cordata Cai per il salvataggio Alitalia, facendo naufragare il matrimonio con Air France.Tornato il Cavaliere a Palazzo Chigi, Corrado è sulla cresta dell’onda. Nel frattempo: Bazoli ha visto passare dagli altari alla polvere l’amico carissimo Zalesky, che da asso pigliatutto s’è quasi ridotto a questuante (sia pure di miliardi) per non venire soffocato dai debiti. E dire che voleva comperarsi Generali! Il Beppe Guzzetti, dominus delle Fondazioni bancarie, intanto, nasconde a fatica l’amarezza: come potrà, senza dividendi, elargire? E da navigato ex democristiano sta accarezzando il pelo a Tremonti. Stiamo dunque entrando a vele spiegate in Era Tremontiana. Difficile, se non impossibile impostare alternative. Crisi, recessione, trovano pressoché tutte le banche col fiato corto. Ed il superministro è l’unico a poter offrire zattere di salvataggio consistenti in speciali, miracolose, obbligazioni del Tesoro, in grado di rinsanguare gli esangui capitali. Quanto alla Banca d’Italia, che non ha certo brillato in vigilanza, anche lì potrebbe giungere l’ondata.

Conti. Londra e Parigi varano obbligazioni per sostenere le economie, ma nessuno vuole quelle italiane

Il governo nella giungla dei titoli di Alessandro D’Amato

ROMA. L’attesa si fa spasmodica, eppure sembra che Giulio Tremonti non se ne preoccupi più di tanto. A distanza di ormai quasi un mese dai due decreti legge, ancora non hanno fatto la loro comparsa i regolamenti attuativi – o le correzioni necessarie – per utilizzare il piano salvabanche. Nei giorni scorsi dovevano essere presentati gli emendamenti in commissione Finanze alla Camera, ma Gianfranco Conte, il presidente, ha spiegato che il governo ha deciso di soprassedere, rimandando il tutto a un “decreto sviluppo” che sarà varato dopo il G20 che si apre oggi. Solo un paio le correzioni che verranno apportate: l’accorpamento già preannunciato dei due decreti e “un provvedimento sui conti dormienti”.

anche l’Intesa San Paolo di Nanni Bazoli, Corrado Passera e (forse non più) Pietro Modiano ha annunciato di aver congelato il dividendo, anche se la sua posizione netta interbancaria è in attivo per 11 miliardi. Ma il piano – che secondo indiscrezioni circolate sulla stampa estera dovrebbe essere da 20 miliardi di euro – è ancora in stand by, mentre oltre alla Gran Bretagna, anche la Francia ha cominciato a darsi da fare, approntando

lo – non è stato intaccato come gli altri dalla crisi dei mutui subprime. Eppure noi non possiamo emettere a cuor leggero debito per aiutare le banche come hanno fatto i francesi, proprio perché i nostri conti sono peggiori dei loro. E l’aumento del differenziale tra Btp e Bund fa capire che ai mercati le obbligazioni italiane non piacciono poi tanto. Ecco perché il governo italiano spingeva per un “piano europeo”, e Francia e Germania l’hanno stoppato: perché non volevano “regalare”all’Italia un bonus per salvare sé stessa, visto che non lo meritava per la politica economica suicida di questi anni. Ciò nonostante, Tremonti ha detto: «Se ci saranno emissioni obbligazionarie non avranno impatto sul debito netto, saranno coerenti con gli schemi europei, e non saranno solo soldi alle banche ma all’economia».Tutto giusto, ma visto che la situazione mondiale è quella che è, e l’avversione al rischio dei mercati pure, dove si andranno a pescare gli acquirenti?

Per la finanza mondiale non siamo un paese AAA: il debito pubblico troppo alto impedisce il varo di nuovi strumenti per sostenere il bilancio

Eppure, che le banche siano in difficoltà è un fatto. Proprio Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit, ha appena confermato che l’utile netto della trimestrale è sceso del 54%, portando il risultato di gestione a calare dell’8%. L’assemblea dovrà parlare dell’aumento di capitale, ma già oggi il mercato ha sottoscritto soltanto la metà dei 2,3 miliardi necessari (ma non sufficienti) per risollevare i coefficienti. E

la prima “obbligazione” di un programma da 260 miliardi di euro per il salvataggio del sistema finanziario d’oltralpe. E, particolare non indifferente, il rating accordato dalle agenzie è la tripla A, che corrisponde alla massima sicurezza per il risparmiatore: è facile quindi che Nicolas Sarkozy e Cristine Lagardére non non avranno alcun problema nei confronti del mercato.

La stessa cosa non si può dire per l’Italia. Sarà anche vero che il nostro sistema è solido e – così come quello spagno-


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il paginone

Cosa cambia per l’Unione Europea e Nel Vecchio Continente quasi tutti sono convin

Barack, palad Dall’ultimo numero del bimestrale Risk, in edicola da ieri e interamente dedicato all’elezione di Barack Obama, pubblichiamo il saggio d’apertura scritto da Stefano Silvestri. li europei sono convinti che l’elezione di Obama farà tutta la differenza. Certo, Barack Obama è popolare un po’ ovunque nel mondo, soprattutto perché sembra promettere una rottura netta con l’era di Gorge W. Bush e con l’azzardata ideologia unilateralista dei neoconservatori americani. Tuttavia in Cina, India o Russia non c’è una maggioranza assoluta della popolazione che pensa che Obama sia così importante per il loro Paese. Secondo un sondaggio Gallup arrivano al 65% gli europei convinti dell’importanza cruciale dell’elezione di Obama, mentre nel resto del mondo le opinioni di

G

Ma soprattutto l’Europa non ha perdonato a Bush di averla obbligata a toccare con mano la realtà della sua debolezza di fronte agli Stati Uniti. Nello stesso momento in cui la maggioranza degli europei si schierava contro le decisioni americane, ad esempio sull’Iraq, i loro governi si dimostravano incapaci di esprimere una linea comune, si dividevano, ed in ultima analisi risultavano sostanzialmente irrilevanti.. Oppositori e sostenitori delle scelte americane esprimevano le loro opinioni, avanzavano i loro suggerimenti, ma in realtà non erano seriamente consultati, né soprattutto ascoltati da Washington. E anche quando veniva espressa una preferenza precisa, ad esempio all’interno della Nato, quando l’Alleanza chiese il rinvio dell’istallazione di sistemi antimissile americani sul Vecchio Continente, anche questa posizione veniva fa-

Sarebbe un errore condizionare la politica Ue a una sorta di immagine mitica e speculare del nuovo presidente americano come ”politico europeo”. Pur nella parziale rottura con la linea Bush, la collocazione Usa resta distante da Bruxelles questo genere si attestano sul 31%. Ma è realistico questo atteggiamento? O non ci esporrà a duri disinganni?

Tutti vogliono il mutamento, e in particolare gli europei, tra cui il presidente Bush ha toccato livelli di impopolarità mai visti prima, anche tra i cittadini di quei Paesi che politicamente hanno più appoggiato la politica della sua Amministrazione, quali il Regno Unito e la Polonia. Non è stato soltanto l’Iraq a pesare sul piatto della bilancia, ma una serie successiva di scelte, a cominciare da quelle relative al controllo degli armamenti (il trattato sui missili antimissili gettato alle ortiche, l’atteggiamento sprezzante nei confronti della Russia, il rifiuto della Corte Penale Internazionale, lo svilimento delle Convenzioni di Ginevra, e così via), per continuare con le polemiche anti-europee e naturalmente anche il rifiuto di ogni accordo internazionale per la riduzione delle emissioni di CO2 (Bush venne soprannominato “il tossico”, da una larga parte dell’opinione pubblica europea).

cilmente scavalcata da accordi bilaterali diretti con Paesi più malleabili, come la Repubblica Ceca o la Polonia. Un’ulteriore dimostrazione? Poco dopo la spaccatura drammatica sull’Iraq, un gruppo di Paesi europei, guidati dalla Francia, decideva di cominciare a dare corpo ad una difesa collettiva europea vagamente più credibile, decidendo semplicemente di dare vita ad uno stato maggiore permanente congiunto… Apriti cielo e spalancati terra: il rappresentante permanente americano alla Nato parlò persino (senza ridere) di “minaccia mortale” per l’Alleanza, ed i reprobi furono costretti a chiudere rapidamente bottega.

Ma al bullo non si perdona facilmente, specialmente quando si scopre che è poco più di un miles gloriosus, quando cioè egli si dimostra incapace di assicurare in tempi brevi la vittoria promessa. E l’amministrazione Bush, malgrado una sua più accorta correzione di rotta durante il secondo quadriennio di presidenza, è stata particolarmente carente su questo piano: tra la


il paginone

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l’Italia dopo l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca nti che tutto sia destinato a trasformarsi in meglio. È proprio così?

dino del soft power di Stefano Silvestri tragedia dell’11 settembre 2001 e la crisi economica e finanziaria scoppiata nel settembre 2008, un cerchio infernale ha visto l’avvitarsi su sé stessa della politica americana, sino alla crisi più profonda degli ultimi mesi, e alla prospettiva di possibili disastri futuri, incluso sui campi di battaglia dell’Iraq e dell’Afghanistan, che pure erano ormai stati dati per acquisiti.

Come mai questo disastro? In gran parte, probabilmente, perché l’ideologia dei neo-conservatori e la pratica dell’amministrazione Bush, che ha puntato gran parte delle sue carte sulla sua enorme preminenza militare, hanno finito per sottovalutare e mettere in crisi un altro necessario fattore di potenza, quello che ormai viene chiamato soft power: la capacità di convincere, di coagulare consenso, di ispirare solidarietà, di indirizzare le scelte e i comportamenti altrui senza necessariamente puntare loro una pistola alla testa. Non si può pretendere di guidare il mondo solo o prevalentemente con la forza: è necessario avere anche la capacità di prevenire opposizioni e resistenze e di indirizzare le scelte altrui attraverso la politica. Le vittorie più grandi spesso si ottengono senza ricorrere al combattimento, risparmiando le proprie forze. Una politica di scontro continuo non è solo estremamente costosa, ma è anche molto pericolosa, e può rivelarsi inefficace nel più lungo periodo. Obama viene visto dagli europei come l’opposto esatto di Bush: è l’incarnazione del “sogno americano” degli europei, forse ancora prima e di più di quello degli stessi americani. È l’araldo del soft power, e soprattutto il vendicatore delle umiliazioni passate, poiché è quello che più ha osato dire che Bush aveva sbagliato tutto e che era tempo di cambiare. Per questo è stato anche il candidato preferito dagli europei. Ora però bisognerà vedere quanto tale immagine risponderà alla realtà. Non è molto probabile, ad esempio, che Obama inizi ad occuparsi in primo luogo di politica estera, né tanto meno di Europa. Normalmente ogni Presidente, alla sua prima elezione, si occupa in primo luogo di politica interna, e solo più tardi scopre realmente la sua dimensione e il suo ruolo inter-

nazionale (spesso solo dopo un paio d’anni, quando il suo carisma politico interno si è già un po’ appannato). Certo questo Presidente dovrà comunque affrontare subito alcuni gravosi dossier di politica estera e di difesa. In primo luogo quello dell’Iraq, dove ha promesso un ritiro relativamente rapido delle truppe americane, e poi naturalmente anche la crisi economica, con tutti i suoi grandi riflessi di governance internazionale. Ma è probabile che lo faccia ponendo attenzione più ai riflessi interni delle sue decisioni, che a quelli internazionali. Non sappiamo ancora come Obama affronterà questi impegni. È possibile che, per quel che riguarda il Medio Oriente e il Golfo, egli pensi in primo luogo ad un più stretto dialogo con l’Iran, ma la possibilità di seguire una tale strada dipenderà anche dalla risposta e dalla disponibilità di Teheran, che molto probabilmente dovrà aspettare quanto meno lo svolgimento delle nuove elezioni presidenziali iraniane, la prossima primavera, con il possibile (ma ancora tutt’altro che certo) allontanamento dal potere di Amadinejad (...).

Sarà però bene ricordarsi che, per molti versi, Obama resta comunque un politico americano, lontano, o comunque diverso, dalla sensibilità o dal modello culturale prevalente in Europa. Così è ad esempio per la pena di morte, che il nuovo Presidente non sembra avere intenzione di abolire. E il suo stesso impegno per la sicurezza sociale è ancora di stampo privatistico più che pubblico, ben lontano dal modello europeo. Per quel che ci riguarda più direttamente, il nuovo Presidente, in campagna elettorale, si è comunque lasciata aperta la possibilità di perseguire l’uso della forza militare in modo molto più ampio e decisivo di quanto è considerato accettabile dalla maggioranza dell’opinione pubblica europea (...). Comunque vada, è certamente positivo che il pendolo americano oscilli finalmente nella direzione opposta a quella delle decisioni unilaterali. La nuova amministrazione, quali che siano le scelte che deciderà infine di privilegiare, sembra comunque ferma nell’idea che sia necessario accettare un tasso maggiore di condivisione delle decisioni e delle

responsabilità, tornando a quella impostazione della governance multilaterale che aveva caratterizzato gli Stati Uniti alla fine della II Guerra Mondiale e che aveva permesso il varo di tante importanti istituzioni internazionali e un forte salto in avanti della governabilità e della legalità.

Una simile svolta tuttavia ha anche un suo risvolto, che non è di tutto riposo, in particolare per noi europei. Potremmo infatti trovarci di fronte a richieste difficili da soddisfare, di maggiore impegno e partecipazione al governo della stabilità e della sicurezza internazionale. Da un lato dovremmo esserne contenti. Il mondo sta attraversando un momento di grossa confusione e gli equilibri internazionali sono in piena ridefinizione. Aumenta il peso di Paesi come la Cina, l’India o il Brasile e diminuisce di conseguenza quello dell’Europa e delle altre potenze tradizionali. In ballo c’è la scrittura di nuove regole, dal campo economico a quello ambientale passando per il settore cruciale della sicurezza, dalla lotta al terrorismo a quella alla criminalità, alla gestione degli stati fallimentari e alla progressiva

ro attuali privilegi (l’Europa probabilmente prima e più ancora degli Usa, ma anche questi ultimi sarebbero costretti a venire a patti, prima o poi, con la nuova realtà). C’è quindi un chiaro ed evidente vantaggio ad agire assieme o comunque con uno stretto coordinamento e nella stessa direzione, e il Presidente Obama lo ha detto abbastanza chiaramente, anche se ha lasciato ancora molto nel vago la sostanza di un eventuale accordo. D’altro lato però una cosa è certa: sarà necessario affrontare costi importanti e l’Europa dovrà assumersi una parte rilevante dei costi e delle re-

La nuova amministrazione sembra voler tornare a quella impostazione della governance multilaterale che aveva caratterizzato la fine della Seconda Guerra Mondiale e che aveva permesso il varo di tante importanti istituzioni internazionali riduzione delle aree di anarchia e banditismo. Né si possono dimenticare altre problematiche, come ad esempio la gestione ottimale delle pandemie, una più efficace politica dello sviluppo, l’avvio di una crescente co-responsabilità nella gestione degli inevitabili flussi migratori, eccetera. Stati Uniti ed Europa hanno molto da perdere e nello stesso tempo hanno una minore capacità di imporre le loro preferenze. In compenso hanno grandi interessi comuni. Agendo insieme, oggi, hanno ancora grandi possibilità di scrivere essi stessi le nuove regole e di plasmare il nuovo sistema internazionale in modo consono ai loro interessi e alle loro preferenze. Divisi rischiano invece di essere costretti ad accettare compromessi difficili e di dover rinunciare ad una buona fetta dei lo-

sponsabilità di gestione che ne deriveranno. E non è detto che sia pronta a farlo. La mancata ratifica del Trattato di Lisbona (almeno sino ad oggi) e la difficoltà di individuare e perseguire politiche realmente unitarie, anche di fronte alla grave crisi economica, sono un segnale negativo. L’interesse europeo richiederebbe probabilmente, a questo punto, una maggiore capacità propositiva. Proprio perché il nuovo Presidente americano non ha ancora precisato la sua politica ed esplicitato le sue richieste, l’Europa potrebbe cominciare a delimitare il campo delle possibili iniziative e contribuire così a determinare la politica della futura amministrazione americana, che entrerà in funzione solo il prossimo gennaio. Sono tempi stretti, ma potrebbero rappresentare anche

la migliore “finestra di opportunità” per gli europei, ammesso che vogliano, possano e soprattutto sappiano sfruttarla.

Sarebbe invece un errore condizionare la politica europea a una sorta di immagine mitica e speculare di Obama come politico “europeo”, per le regioni che abbiamo prima elencato, ma anche e soprattutto perché, pur nella convergenza di tanti interessi fondamentali, e nella almeno parziale rottura con il precedente di Bush, la collocazione internazionale degli Stati Uniti, gli strumenti a loro disposizione e il loro stesso ruolo e rango internazionali restano comunque fondamentalmente diversi da quelli dell’Unione Europea, anche di un’Ue più propositiva e coraggiosa e più disponibile ad impegnarsi sul piano internazionale. Se quindi, da un lato, Obama rappresenta un’opportunità da non sprecare, dall’altro è anche necessario non abbandonarsi alla semplice speranza che, di colpo, tutto giri nel migliore dei modi e che le nostre aspettative vengano miracolosamente soddisfatte. Malgrado l’evidente convergenza di interessi, è probabile che la visione europea dei rapporti con la Russia, o l’analisi europea delle prospettive della situazione medio orientale, restino significativamente distinte e diverse da quelle di Washington, con la nuova Amministrazione così come con la vecchia. Ciò non impedisce certamente la possibilità di sviluppare quell’intesa che resta necessaria tra le due sponde dell’Atlantico e che Obama, forse, vede con occhio più aperto e disponibile di quanto non la abbia vista Bush, a condizione però che si mantengano i piedi ben saldi per terra.


mondo

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Russia. Un piano voluto dai clan che dominano la politica russa e che auspicano un’estensione del “regno” di Vladimir

Putin, ritorno al Cremlino Approvato il progetto di riforma costituzionale voluto dall’ex presidente di Francesca Mereu

MOSCA. Vladimir Putin potrebbe tornare al Cremlino. E questa volta per 12 anni. La Duma ha approvato in prima lettura il progetto di riforma costituzionale, mandatole martedì dal presidente Dmitry Medvedev per estendere il mandato presidenziale da quattro a sei anni. Medvedev aveva giustificato la scorsa settimana, nel suo primo discorso alla nazione, il cambiamento come necessario perché il governo potesse portare avanti le riforme in modo più effettivo. Ma il cambio costituzionale è visto da molti come parte di un piano per riportare il primo ministro Putin al potere. Fonti vicine al Cremlino sostengono che l’idea della riforma non appartenga a Medvedev, ma ai potenti clan che dominano la politica russa (per

Medvedev potrebbe cedere il posto già il prossimo anno e il potente primo ministro, che è ancora il politico più popolare del Paese, non smentisce le indiscrezioni che circolano molti sono loro i veri padroni del Cremlino). Questi, infatti, vorrebbero di nuovo Putin presidente. I clan (così vengono chiamati quei gruppi d’influenza composti per lo più dai cosiddetti siloviki, o persone che come Putin hanno lavorato nel Kgb e ora lavorano nelle agenzie di sicurezza) hanno molti interessi finanziari e hanno paura che Medvedev non sia in grado di garantirgli lo status quo. Putin ha sempre agito da mediatore tra i vari clan evitando che qualcuno di loro prevalesse sull’altro ed è intervenuto in caso di lotte intestine. «In

cambio Putin riceveva la sua fetta di torta: soldi e aiuto in caso di crisi politica», racconta a Liberal un ufficiale di sicurezza vicino al Cremlino. «I gruppi di potere del Cremlino erano nel panico quando Putin aveva rifiutato di ammendare la costituzione (che vieta tre mandati consecutivi ndr), per rimanere al potere.

Medvedev, che non è legato ai servizi segreti e quindi ritenuto non troppo pericoloso, è stato scelto come la persona che avrebbe tenuto il posto caldo a Putin», aggiunge l’ufficiale. La riforma costituzionale è nel

cassetto da diversi mesi ed i clan hanno fretta di vederla approvata. Già una settimana dopo il discorso di Medevedev alla nazione la riforma è stata presentata alla Duma e sarà approvata oggi in prima lettura e la prossima settimana in seconda e terza. La riforma prevede anche l’estensione del mandato della Duma da quattro a cinque anni. L’approvazione è garantita. Il partito del Cremlino Russia Unita controlla tre terzi della Duma. (La riforma dovrà poi essere approvata da due terzi dei parlamenti regionali, controllati dai governatori che vengono nominati dal Cremlino; dal Consiglio Federale, la camera alta, e firmata dal presidente). La riforma sarà approvata entro la fine dell’anno. La paura è infatti che se Medvedev rimanesse al Cremlino troppo a lungo, potrebbe consolidare il suo potere e impedire il ritorno di Putin. «La riforma che agli occhi dell’opinione pubblica è voluta da Medvedev dà a Putin la possibilità di tornare», spiega l’ufficiale. «I clan dovevano trovare il modo per estendere il regno di Putin eseguendo, però, la sua volontà di non rovinargli la reputazione», aggiunge.

Putin aveva ripetuto infinite volte d’esser contrario ad una riforma costituzionale per prolungare i due mandati consecutivi permessi. La costituzione del 1993 era sacra e non si toccava, aveva detto. In realtà l’ex presidente non voleva scendere al livello di despoti come Aleksander Lukashenka, presidente della Bielorussia, o di Nursultan Nazerbayev, del Kazachistan, che hanno ammendato le costituzioni dei loro paesi per estendere all’infinito il loro regno. Putin voleva sì rimanere

al potere, ma trovare un modo che gli permettesse d’esser considerato in occidente un presidente legittimo. E forse questo è stato trovato. Al Cremlino girano voci che Medvedev potrebbe cedere il posto già il prossimo anno e il potente primo ministro, che è ancora il politico più popolare del paese, non smentisce. «Appoggio la

proposta di Dmitry Medvedev», ha detto mercoledì in una conferenza stampa, riferendosi alla riforma, «Ma è ancora prematuro dire chi parteciperà -- e quando -- alle prossime elezioni». Il «Quando» sembra sia stata la parola di troppo sfuggita a Putin. «Da questa parola si può trarre la conclusione che il signor Putin non esclude


mondo Cremlino, o altri motivi», spiega a Liberal un alto ufficiale della Casa Bianca russa (sede del governo). L’ufficiale aggiunge però che Putin «è stanco sin dal primo giorno della routine di primo ministro». Se prima nel paese si cercava di rispondere alla domanda “come” - e non “se”- Putin sarebbe rimasto al potere, ora si cerca di capire ’quando’ tornerà. Negli ultimi due anni giornalisti e politologi hanno avanzato le teorie più strambe su come Putin si sarebbe ancorato alla sua poltrona. Le voci venivano alimentate da appelli giornalieri di deputati e cittadini che dagli angoli più disparati della Russia pregavano Putin di non abbandonarli.

che il mandato (di Medvedev) possa finire prima di quando previsto dalla costituzione», scrive giovedì l’autorevole Kommersant. «Qui non si capisce niente. Non si capisce se la riforma di Medevdev ha lo scopo di aiutare Putin a tornare al

La riforma prevede anche l’estensione del mandato della Duma da 4 a 5 anni. L’approvazione è garantita, visto che il partito Russia Unita controlla due terzi del Parlamento

La tessitrice di Ivanovo, Yelena Lapshina, che con finta ingenuità chiede ai delegati di un congresso di Russia Unita lo scorso dicembre di «pensare a un modo» per far rimanere «Vladimir Vladimirovich Putin», diventa una star televisiva. Ora lo scenario si ripete. Giovedì il deputato nazionalista Vladimir Zhirinovsky, che di solito viene usato dal potere per testare l’opinione pubblica su questioni controverse, ha detto che al prossimo congresso di Russia Unita (che si terrà il 20 novembre) Putin potrebbe annunciare di dimettersi dal ruolo di premier «per stare al di sopra della politica». «Ora, come allora, nessuno capisce niente», commenta l’ufficiale della Casa Bianca. «Viviamo in un paese dove tutto è possibile. La decisione verrà presa in segreto, all’ultimo momento. Come sempre. Spesso anche i ministri vengono a sapere di esser stati nominati a un nuovo posto dai mass media », spiega l’ufficiale. La riforma costituzionale ha colto la Duma di sorpresa, racconta il deputato comunista Viktor Ilyukhin. Medvedev, nota Ilyukhin, agisce «in vero stile putiniano». Nel 2004 quando dei terroristi assediarono una scuola a Beslan, in Ossezia del Nord, lasciandosi dietro 331 morti, di cui 186 bambini, Putin invece di annunciare un piano concreto di lotta contro il terrorismo, colse l’occasione per abolire le elezioni dirette dei governatori. Disse che questo avrebbe rafforzato lo stato. «Ora siamo nel mezzo di una seria crisi politica e il presidente tira fuori quest’inutile riforma costituzionale», commenta Ilyukhin.

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La strategia per tornare al potere è pronta. Ma quando?

Obiettivo 2012 o elezioni anticipate L’

approvazione in prima battuta alla Duma del provvedimento di Riforma costituzionale voluto dal presidente Medvedev (una riforma “giovane”, varata nel 1993 per sostituire la precedente costituzione di stampo sovietico e fino a pochi mesi fa ritenuta intoccabile) potrebbe celare il rientro di Putin al Cremlino. Ma i tempi sono tutt’altro che certi. Molti analisti sono concordi nel sostenere che, in ogni caso, il premier avrebbe intenzione di aspettare la fine del mandato del suo delfino, Medvedev, nel 2012, per ripresentarsi sulle scene e poi restare (nel caso di approvazione definitiva della legge) per 12 anni. Altri, invece, discutono sulla possibilità che l’attuale presidente già a fine 2009 possa indire elezioni anticipate. La verità è che al momento non è prevedibile sapere come andranno le cose. L’unica certezza è che gli scenari stanno mutando, che Putin ha dichiarato che si tratta di una misura per aumentare la democrazia in Russia e che l’estensione del mandato presidenziale, comunque, entrerà in vigore alla fine della presidenza Medvedev. Ma c’è dell’altro: l’emendamento presentato ieri prevede, oltre all’estensione del mandato presidenziale, anche l’investitura della Duma del potere di supervisione delle attività governative e l’ampliamento della legislatura della Camera bassa del Parlamento russo da quattro a cinque anni. L’emendamento è passato alla Duma con 388 voti favorevoli e 58 contrari, nella prima delle tre letture. La seconda e la terza lettura sono previste per mercoledì.

vece commentato la proposta come «un buon passo per incrementare la democrazia nel Paese. Stiamo cercando strumenti che ci garantiscano la sovranità e di implementare i nostri piani a lungo termine. E l’approvazione dell’estensione del mandato presidenziale non solo non ci danneggerà, ma aiuterà lo sviluppo della democrazia in questo Stato».

Infine, Putin ha ricordato che un incarico di sei anni non è così inusuale, visto che in altri Paesi, come la Francia, durava anche di più (sette anni, da poco ridotti a cinque, ndr). Per quanto riguarda le prossime elezioni del capo dello Stato, infine, il premier non ha voluto rilasciare commenti affermando che è troppo presto per parlare del voto del 2012. A questo proposito, il leader dell’opposizione Gennady Andreyevich Zyuganov (Partito comunista) ha commentato sarcasticamente che «l’estensione del mandato presidenziale consoliderà sempre più potere nelle mani di qualcuno che ha già maggiore autorità del segretario generale (all’epoca dell’ex Unione sovietica), dello zar e del faraone messi insieme». Tecnicamente, il presidente della Federazione russa viene eletto ogni 4 anni col voto diretto popolare. La carica, istituita nel 1991 dopo lo scioglimento dell’Urss, ha finora dato vita a due presidenze: il primo presidente è stato Boris Eltsin, eletto il 12 giugno 1991 per voto popolare diretto. Prese il potere il 7 luglio 1991 per un mandato di cinque anni, rinnovato per altri quattro secondo i dettami della costituzione russa; gli successe quindi Vladimir Putin, eletto nel 2000 e nel 2004. Le ultime elezioni si sono tenute il 2 marzo 2008 e si sono concluse con la vittoria di Dmitrij Medvedev, candi(f.m.) dato sostenuto da Putin.

Qualcuno crede che Putin voglia attendere la fine del mandato del suo delfino. Ma c’è anche chi pensa al 2009...

Putin, che ha lasciato la presidenza della Russia agli inizi dell’anno (era rimasto in carica per due mandati consecutivi), ha in-


mondo

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LONDRA. Bandire il termine “britannico” in Gran Bretagna? Perché no. A molti sembrerebbe un paradosso, ma in una piccola cittadina del Galles del sud gli amministratori comunali vogliono vietare negli uffici pubblici la parola “British”in quanto potrebbe offendere scozzesi, gallesi, irlandesi, oltre alle minorità etniche africane e asiatiche che vivono sul suolo britannico. Ossia tutti coloro che sono cittadini del Regno Unito ma che non sono nati in Inghilterra. I consiglieri del sindaco sostengono che l’uso indistinto del termine generico di “britannico” negli uffici del comune - sia una forma di discriminazione verso chi, per esempio, è di origine celtica o è nato in una delle colonie del Commonwealth in Asia o Africa. Insomma, in Galles la parola “British”viene messa sulla stesso livello di “negro”, un termine che in nome del politically correct dovrà essere

Divieti. Caerphilly, cittadina del Galles, bandisce dagli uffici pubblici l’uso della parola

Mai più “british” negli uffici comunali di Silvia Marchetti messo all’indice (almeno negli uffici amministrativi). Il comune in questione è quello di Caerphilly, con 9mila dipendenti comunali. Nei giorni scorsi i consiglieri del sindaco hanno realizzato e fatto distribuire negli uffici una sorta di manuale del “giusto parlare”, con i consigli adatti per trattare con il pubblico nel pieno rispetto delle differenze geografiche, etniche e razziali. Nella loro ottica, il termine“britannico”suggerirebbe «un finto sentimento di unità», quando invece si sa bene che le rivalità e i contrasti storico-etnici tra scozzesi e inglesi, o inglesi e irlandesi, sono una caA fianco Ron Davies, ex deputato laburista promotore dell’iniziativa. In alto, la regina Elisabetta e il castello della cittadina di Caerphilly

ratteristica della Gran Bretagna. Tra le altre parole tabù, oltre a “negro”i guru del Caerphilly hanno inserito anche “spastico” e “mezza casta”. Si tratta a tutti gli effetti di una guida pratica per il rispetto dell’uguaglianza più assoluta, ma negli uffici pubblici di Caerphilly i dipendenti storcono il naso e nel

Il termine è ritenuto offensivo per i cittadini scozzesi, irlandesi, gallesi, e per le minoranze etniche del Paese

Paese il manuale “anti-British” è già diventato un caso mediatico. I critici parlano di “un eccesso del politically correct”, “una pazzia” che invece di smussare gli attriti etnici finisce con l’evidenziarli. Il manuale di Caerphilly è stato realizzato dalla commissione per l’uguaglianza della razza diretta dall’ex deputato Ron Davies, un laburista eclettico che ha già fatto più volte parlare di sé nella politica inglese. Nel 1998 è stato costretto

a dimettersi dalla poltrona di segretario di Stato del Galles dopo essere stato visto passeggiare in un quartiere di Londra frequentato da gay. Ma Davies difende la sua creatura sostenendo che «è soltanto per corretta informazione, non c’è alcun consiglio o istruzione vincolante alla quale deve attenersi lo staff comunale».


mondo

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Due beduini discutono all’interno di un mercato nella zona di Neghev, al confine fra Israele, Striscia di Gaza ed Egitto. Foto piccola, Hosni Mubarak, presidente egiziano dal 1981. Ieri una guardia di frontiera egiziana è stata ferita a colpi d’arma da fuoco a Rafah, alla frontiera con Israele

Egitto. Stop alla guerriglia tra Il Cairo e le tribù, ma la tensione sale

L’assedio dei beduini fa tremare Mubarak dialogo nel Sinai. Nonostante l’incontro di giovedì - in cui una delegazione di polizia guidata dal vicecapo dei servizi segreti egiziani (che ha espresso le condoglianze del governo per i beduini uccisi), abbia portato ad un’intesa con il clan e fatto cessare le proteste in corso al confine con Israele nel nord del Sinai - ancora una volta i rapporti fra tribù beduine e governo centrale egiziano attraversano una fase di irrigidimento. Il già delicato equilibrio che regola le relazioni fra il Cairo e i clan della penisola è saltato del tutto all’inizio di questa settimana, quando un membro della qabila (in egiziano, tribù) dei Tarabin è stato ucciso dalla

nale e internazionale sospetto e ostilità, attribuendo sempre e soltanto ai beduini la responsabilità di qualsiasi attività illecita, come il contrabbando e il traffico di armi, droghe, esseri umani.

Ma il coinvolgimento beduino nelle azioni terroristiche che hanno insanguinato le spiagge del Mar Rosso dal 2004 al 2007 è ormai cosa certa. A questo proposito, è datato 10 novembre l’ennesimo arresto di cittadini egiziani di origine beduina ritenuti corresponsabili dell’attentato di Dahab, avvenuto il 24 aprile 2006. Attualmente sono 66 i beduini del Sinai coinvolti nell’indagine. I Tarabin non negano che alcuni mem-

Le popolazioni che abitano la penisola, e che per patrimonio culturale e storico guardano ad Est, non hanno niente a che vedere con quelle della Valle del Nilo e non ne riconoscono l’autorità politica polizia locale mentre fuggiva in auto a un posto di blocco. Da quel momento, l’incendio è divampato in tutto il governatorato, confinante con Striscia di Gaza, Israele e Giordania.

Ad oggi, secondo quanto riferito dalle fonti ufficiali, le vittime dei violenti scontri tra beduini e forze di sicurezza egiziane sarebbero cinque, quattro Tarabin e un poliziotto. Fra gli agenti di polizia ci sarebbero cinque feriti gravi: forse si tratta di alcuni degli agenti che sono stati sequestrati, da lunedì a questa parte, in svariate località del Sinai orientale. La qabila coinvolta, infatti, per dimostrare la propria autorità sul territorio – a ridosso dei circa 35 km di confine con Israele – ha “preso in ostaggio”decine di poliziotti, circondando alcuni posti di blocco e successivamente “rilasciando” gli ostaggi a distanza di alcune ore. Alle autorità del Cairo, le tribù del Sinai rimproverano di aver suscitato nell’opinione pubblica nazio-

bri del clan – composto peraltro da migliaia di persone - siano dediti a traffici illeciti, ma non tralasciano occasione per denunciare la corruzione della polizia e la sua implicazione nelle medesime attività. Insomma, le gallerie che collegano Gaza all’Egitto non potrebbero esistere se gli agenti non chiudessero entrambi gli occhi in cambio di laute retribuzioni. La verità è che le popolazioni che abitano la penisola – e che per patrimonio culturale e storico guardano ad Est - non hanno niente a che vedere con quelle della Valle del Nilo e non ne riconoscono l’autorità politico-amministrativa. Nel Sinai vivono circa 360mila persone – come riferisce il rapporto pubblicato dall’International Crisis Group del 30 gennaio 2007 – di cui una minoranza di circa un quarto beduina, le cui radici affondano in Arabia Saudita. Ma del nomadismo degli antenati ormai è rimasto solo il ricordo: poche famiglie vivono ancora nelle tende, per il resto popolano vaste

Salta la tregua, missili contro Israele La tregua fra Israele e Gaza appare sempre più fragile: oltre 10 missili Qassam sono stati sparati ieri mattina contro il sud d’Israele, ferendo leggermente una donna a Sderot e provocando un raid aereo da parte israeliana nel nord della Striscia che ha ferito due palestinesi. La tregua, in vigore dal 19 giugno scorso, appare in pericolo da martedì, quando forze israeliane sono penetrate nella Striscia di Gaza per distruggere un tunnel scavato in queste settimane sotto il confine. Il ministro della difesa israeliano Ehud Barak ha dichiarato che se gli attacchi dovessero proseguire, la reazione di Israele sarebbe molto dura. La tregua scade il 19 dicembre.

Ue-Russia, Barroso: in gennaio andremo da Putin

di Federica Zoja

IL CAIRO. Non c’è spazio per distensione e

in breve

aree suburbane ai margini dei principali centri. Si calcolano 10-13 clan differenti, di grandezza e influenza variabile: quelli dominanti sono i Tarabin, i Laheiwat e i Tiyaha. Per i beduini della penisola del Sinai, lo sviluppo turistico che ha investito le coste del Mar Rosso non ha portato significativi benefici: nei lavori di realizzazione di strutture e infrastrutture, infatti, hanno trovato lavoro egiziani e sudanesi; e nelle attività avviate dagli anni Ottanta ad oggi la discriminazione nei confronti dei beduini è stata costante. A loro, di fatto, è stato sottratto terreno, senza compensazioni.

Nel corso delle indagini sull’attentato di Dahab, è parso da subito evidente che nessuna organizzazione islamista era coinvolta nell’attacco. Dietro alle esplosioni che hanno provocato la morte di 24 persone – di cui 21 egiziani – c’era “gente del posto”, dicono apertamente gli abitanti della località del Mar Rosso. E i giudici stanno confermando la “pista” beduina: a passare i controlli della polizia all’ingresso dell’area turistica di Dahab il giorno prima della festa nazionale per la Liberazione del Sinai erano giovani beduini, decisi ad assestare un duro colpo al turismo. Anche i precedenti attacchi terroristici verificatisi sul Mar Rosso sono stati organizzati sempre in occasione di importanti festività nazionali: nel 2004, a Ras Shitan e Taba, in occasione dell’anniversario della guerra arabo-israeliana del 1973; nel 2005, il giorno dell’Indipendenza dell’Egitto dal protettorato inglese. Ma tipologie di esplosivo, modalità e tecniche non permettono ancora di collegare con certezza gli episodi fra di loro. È evidente, però, che Il Cairo non ha il controllo del Sinai e che le popolazioni beduine hanno libero accesso alle armi, da usare per le proprie rivendicazioni. O da vendere a terzi, insieme al proprio supporto “logistico” sul campo.

Il presidente della Commissione Ue, Manuel Barroso, ha annunciato al margine del Vertice UeRussia, che nel gennaio prossimo la Commissione europea, accogliendo un invito del premier Vladimir Putin, si recherà a Mosca «per ristabilire i contatti tra gli esecutivi e riprendere i negoziati sul partenariato strategico». «Abbiamo constatato la volontà di rapporti di interdipendenza reciproci», ha aggiunto Barroso, «ma non posso indicare ora una data e neppure dire quando lo potremo firmare». Sulla stessa linea il presidente russo Dmitri Medvedev.

Congo, Unchr sposta 60mila sfollati Nel timore del propagarsi degli scontri fino a Goma, l’Unchr porterà via «al più presto» circa 60mila persone sfollate da due campi profughi alla periferia della città. Lo ha annunciato l’Alto Commissariato Onu a Ginevra. Nel frattempo centinaia di donne si sono radunate ieri in uno stadio sportivo a Goma per chiedere pace e protezione nella provincia orientale del Nord-Kivu, dove da settimane sono ripresi gli scontri tra le truppe governative e i ribelli guidati dall’ex generale Laurent Nkunda.


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cultura

Scrittori rimossi. L’autore di Zampogna verde, Novale, Con gli occhi chiusi e Tre croci

Il «letterato fisiologico» Così Alberto Moravia definiva Federigo Tozzi Il convitato di pietra della letteratura italiana del Novecento di Filippo Maria Battaglia ul suo conto, tempo fa, l’inserto culturale del maggiore quotidiano torinese titolava: «Aspettando di essere letto è diventato un classico». Riuscendo così a racchiudere uno dei più clamorosi fraintendimenti della critica letteraria italiana (clamoroso per durata, ma anche per gli effetti imprevedibili). Dire infatti che Federigo Tozzi non abbia ricevuto attenzioni da studiosi e addetti ai lavori è decisamente sbagliato. Specie tra gli anni ’60 e gli anni 80, la bibliografia critica sulla sua opera è cresciuta a dismisura, anche grazie all’incoraggiamento di un intervento magistrale di Giacomo De Benedetti su AutAut del novembre 1963. Ma quella è rimasta, se così si può dire, una bibliografia di nicchia e non si è mai tradotta in un vero e proprio seguito, nemmeno dopo la pubblicazione di pressoché tutta l’opera da parte dell’editore Vallecchi,.

S

Tozzi nasce a Siena il 1 gennaio 1883. Il suo esordio non è sotto una buona stella: il nostro vede la luce dopo diversi fratelli tutti morti durante il parto. Come ricorda Ferdinando Giannessi, è «accolto dalla rassegnata indifferenza del padre – un contadino meridionale arricchitosi, e divenuto oste – e dal trepido sgomento della madre, che era donna gentile e malaticcia, umile accanto alle asprezze e all’egoismo brutale del marito». La signora non è l’unica a soffrire di salute: sin da giovane, Federigo è epilettico. Anche per questo, infanzia e adolescenza non sono di certo tra le più felici. La letteratura e la poesia arrivano dunque come via di sfogo quasi residuale: Tozzi non ha compiuto studi regolari, è attratto

dal misticismo di Santa Caterina, ma anche da forti al nazionalismo di D’Annunzio. Sono loro i totem letterari a cui lo scrittore toscano si ispira per i primi versi della Zampogna verde e della Città della Vergine. Ma quelli sono soprattutto gli anni di un fortissimo sodalizio intellettuale con Domenico Giuliotti, col quale fonderà un quindicinale cattolico, La Torre. A raccontare il primo colloquio è lo stesso Giuliotti: «Un giorno, con quell’aria che gli è ri-

ventata sua moglie. La raccolta di lettere che le scriverà saranno poi raccolte in un’edizione postuma del 1925, con un titolo, Novale, suggerito da un altro suo estimatore, Luigi Pirandello.

Per Tozzi, quegli anni coincidono con l’avvio della più sua riuscita produzione, quella che trova la prima prova nel diario, anche questo postumo. Ricordi di un impiegato è la prima presa di distanza dal mondo letterario e dai suoi riti. Nel frattempo, dopo una parentesi fuori mura, la morte del padre lo riporta a Siena. È uno shock emotivo, una sorta di ritorno al passato, alla vita di provincia e ai suoi elementi ancestrali, subito proposti in due tra i suoi maggiori romanzi, Con gli occhi chiusi e Il podere. Due storie di rovina e di fallimento, che gli varranno l’attenzione entusiastica di Giuseppe Antonio Borgese, anche se il successo arriverà con Tre croci, uscito proprio nei giorni della sua agonia, e da molti critici considerato come il suo capolavoro. L’impianto narrativo di tipo oggettivo, dominato da un rigorosissimo determinismo economico, fanno classificare il libro nello scaffale naturalista. In

Nato a Siena nel 1883, non ha mai compiuto studi regolari.Attratto dal misticismo di Santa Caterina, viene presto affascinato anche da forti al nazionalismo di D’Annunzio masta fra l’impacciato e il provocante, mi fermò improvvisamente in mezzo alla strada e mi disse, parlando a scatti: “Ho letto una sua poesia; mi è piaciuta; vorrei diventarle amico”».

È l’avvio di un’amicizia che ai suoi inizi si legherà anche ad un altro incontro destinato a incidere nella vita dello scrittore senese, quello con Emma, che sarebbe poi di-

Sopra, uno schizzo che raffigura Domenico Giuliotti; a sinistra, Santa Caterina; a destra, lo scrittore Federigo Tozzi nel disegno di Alex Di Gregorio e, a fianco, Gabriele D’Annunzio; In basso a destra, Giovanni Verga e Luigi Pirandello

realtà, come scriverà De Benedetti, «ora si dà che Tozzi giunse ad affermarsi con Tre croci e col Podere, vale a dire con due romanzi che sembrano della roba, ma viceversa negano il possesso, la feticizzazione capitalistica della roba. Cioè, sotto trame apparentemente conservatrici, egli rovescia i dispositivi e le motivazioni, spezza le molle del romanzo positivistico, deterministico e borghese».

Ecco perché uno scrittore come Carlo Cassola, nella prefazione ad un’altra sua opera ri-

Federigo Tozzi e Giovanni Verga tra affinità (e diversità) elettive

Quell’imprevedibile verismo corporeo no scrittore fisiologico. Così Alberto Moravia definiva Federigo Tozzi. Avvertendo subito però che il «sesso, in una fisiologia così repressa come quella di Tozzi, non ha alcun ruolo. Tozzi è fisiologico perché sente la vita come dolore del corpo prim’ancora che dell’anima. I personaggi di Tozzi, fanno continuamente delle cose col corpo: rabbrividiscono, svengono, vomitano, tremano, piangono, sudano, appetiscono, rigettano e così via. Il corpo per Tozzi, in mancanza di un’ideologia che ispiri e guidi l’azione, è la molla più frequente delle oscure e imprevedibili reazioni dei suoi personaggi. Eppure, alla fine, quando tutto è stato detto, bisogna sottolineare con enfasi che Tozzi, pur

U

così corporale e imprevedibile, è uno dei più esatti e acuti descrittori della società italiana in quegli anni». Quanto al rapporto con il verismo e in particolare con Verga, per l’autore degli Indifferenti, le diversità contavano di più delle affinità, e diventavano così utili a tracciare per converso la personalità dello scrittore: «Tozzi ha alcuni caratteri in comune con Verga. Come Verga, ci ha dato il ritratto autentico di una provincia italiana; la Toscana di Tozzi, come la Sicilia di Verga, è in qualche modo “magmatica”, grazie ad un analogo approccio linguistico alla realtà. Né Tozzi né Verga sono dialettali; attingono alla voce viva di un parlato che oltre che dialettale è anche psicologico al livello dell’inconscio. Ma i punti in


cultura

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masta incompiuta, L’Adele, scriverà di un Tozzi narratore fra Ottocento e Novecento. È vero, ricorda l’autore della Ragazza di Bube, lo scrittore senese aveva solo diciassette anni quando finiva il diciannovesimo secolo, ma un secolo è duro a morire, e «coloro che si sono formati in esso, si portano dietro i segni della loro formazione anche quando i tempi non vorrebbero più saperne».

Dunque Tozzi diviene lo scrittore inquieto nei confronti di una «società che l’attorniava; in particolare, della piccola borghesia, che era ancora il ceto preminente; e che stava per ottenere un successo effimero dei propri ideali e un’effimera tutela dei pro-

pri interessi con il fascismo». Un’ammirazione, quella di Cassola, così forte tanto da giustificare la scarsa attenzione di pubblico e di critica nei suoi confronti in quanto scrittore «poco abbordabile, poco facilmente definibile. Non si sa fino a che punto critichi e fino a che punto rappresenti con compiacimento». Per converso – afferma sempre Cassola Verga e Svevo sono «scrittori più semplici, e quindi più grossolani». Un’affermazione provocatoria, solo parzialmente giustificabile con gli «evidenti atteggiamenti di Verga e Svevo verso i personaggi messi al mondo e rappresentati».

comune tra Tozzi e Verga si fermano qui. Le differenze, in compenso, sono illuminanti.Tra Verga e i suoi “vinti”ci sono una distanza, un distacco che non sono soltanto dovuti all’oggettività propria del naturalismo ma anche alla differenza sociale tra Verga e i propri personaggi. Una distanza di classe, un distacco signorile anche nella pietà». Al contrario, Tozzi «sta in mezzo ai suoi personaggi, anch’essi “vinti”, come un simile tra i suoi simili. Non è una questione di autobiografia, benché Tozzi nei suoi libri parli spesso di sé stesso; e Verga nei suoi, mai. È una questione di identificazione, attraverso, una volta di più, la cattiveria». Lo scrittore senese condivide tutto con i suoi personaggi, acredine e livore compresi, mentre Verga – prosegue sempre Moravia - si limita a simpatizzare per loro. Per questo, «Tozzi è un moderno; mentre Verga non lo è».

Tozzi morirà a Roma il 21 marzo 1920. Il timido successo riscosso con le ultime opere lascerà spazio, specie nel secondo dopoguerra, ad una indefinita nebulosa, perlopiù costellata da pregiudizi infiniti: la sua produzione sarà definita tardo-verista, provinciale, os-

sessionata dal determinismo narrativo, perfino schematica e incerta tra il misticismo e il prefreudismo.

Decine di stereotipi che porteranno a dimenticare quasi del tutto le novelle e il teatro (che invece per tensione e ritmo narrativo restano fra le più moderne e apprezzabili cose che ha scritto) e a spingere a persuadere critici che lo scrittore sereno sia stata solo una scommessa dei suoi corregionali, quando, invece, come ricorda Luigi Baldacci, «fu scoperto da due siciliani, Borgese e Pirandello, e riscoperto da un piemontese, Debenedetti appunto, mentre da un toscano a diciotto carati, Pietro Pancrazi, fu subito e vistosamente non capito». Da allora, Federigo Tozzi ha aspettato di essere letto. E più che diventare un classico, è rimasto il più talentuoso convitato di pietra della letteratura italiana fra Otto e Novecento.


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cultura

15 novembre 2008 • pagina 21

Fondazioni. La liberalizzazione del settore appare oggi l’unica via percorribile

Una rivoluzione copernicana per salvare l’opera lirica di Angelo Crespi opera lirica e la musica sinfonica in generale sono forse l’espressione più genuina e popolare del nostro Paese. Molti storici dovendo trovare i simboli e i miti che contribuiscono a formare la nostra identità patria non possono che certificare l’importanza storica di questa arte (vedi il fondamentale Simboli e miti dell’Italia unita; curato da Mario Isnenghi, Laterza 1998). Per questo motivo appare sensato che lo Stato investa per mantenere in vita un patrimonio peculiare che genera identità all’interno dei confini e riconoscibilità all’estero. Un patrimonio immenso, invidiato, ancora ricco di energie.

L’

Dall’alto: La Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, il Teatro dell’Opera di Roma, quello di Genova, La Fenice di Venezia e il Teatro dell’Opera di Bari. A destra, un’immagine dell’Arena di Verona

Fatta la premessa, l’analisi dei costi/benefici è impietosa e mette in dubbio l’efficacia stessa dell’intervento pubblico che è sì necessario, ma non sufficiente, né può essere illimitato e che deve essere valutato criticamente da un governo che si professa liberale. I debiti delle Fondazioni lirico sinfoniche ammontano oggi a 290 milioni di euro. I dati forniti dal ministero dei Beni culturali dimostrano in maniera incontrovertibile che in Italia, in questo settore, abbiamo il più basso livello di produttività rispetto agli altri grandi teatri europei e il maggior costo degli addetti. Basti dire che il costo del solo personale nel 2007 ha superato i 320 milioni di euro incidendo circa per il 70% sul budget complessivo e con un aumento medio del 5% annuo nell’ultimo quinquennio. In questi anni buona parte del Fus (fondo unico dello spettacolo) è stato assegnato ai teatri lirici che dalla riforma del 1996 sono stati trasformati in fondazioni: il peso sul Fus di questo conferimento che riguarda, vale la pena ricordarlo, solo 13 enti, è di circa il 47% del budget complessivo, a scapito di altri settori di altrettanta rilevanza (pensiamo al cinema o al teatro). Oltre allo Stato, i 13 teatri beneficiano di forti stanziamenti degli enti locali, comuni e regioni. Mentre appaiono esigui i conferimenti dei privati i quali, per il vero, anche a fronte di ingenti investimenti non hanno la reale possibilità di incidere sulla governance. Questo però non è sufficiente a spiegare il baratro davanti al quale si trova la lirica in Italia. L’estrema sindacalizzazione degli operatori impedisce un sano confronto tra le

parti: oggi le 13 fondazioni sono diventati carrozzoni ingestibili che contano, complessivamente, circa 6.000 addetti, di cui una piccola parte è costituita da irriducibili del sindacato che hanno fatto dell’arma dello sciopero l’unico strumento di lotta.

Ovviamente a nessun sindaco piace veder vanificata la propria stagione lirico-sinfonica. Cosa sa-

L’Italia ha il più basso livello di produttività rispetto agli altri grandi teatri europei. I debiti delle Fondazioni ammontano oggi a 290 milioni di euro rebbe Milano senza la prima della Scala a Sant’Ambrogio? Me è ovvio che essere sottoposti a continuo ricatto non piace né ai sindaci di destra né

a quelli di sinistra, i quali due giorni fa si sono incontrati con il Ministro Sandro Bondi dimostrando sul tema una visione comune che va al di là degli schieramenti e delle peculiarità di ogni situazione. Il ministro d’accordo con i sindaci e i sovraintendenti si è detto disponibile a lavorare perché il quantum del Fus per il 2009 sia uguale a quello del 2008, cioè a non adoperare tagli che altrimenti avrebbero portato alla chiusura dei teatri.Tutto questo a fronte di un impegno di tutte le parti a rivedere la legge

delle Fondazioni, a ridiscutere i contratti in essere, a eliminare gli sprechi. Il nodo sta però nella capacità di fare blocco e trovare un accordo coi sindacati: il contratto di lavoro è ormai scaduto da anni e deve essere rivisto poiché i lavoratori del settore hanno privilegi insensati, stipendi fuori dalla norma, contratti integrativi che incidono sulla busta paga per il 50%, orari di impiego spesso inadeguati che permettono il doppio lavoro, e - come si è già detto - una produttività scarsissima. Nessuno in questi anni ha avuto il coraggio di mettere mano alla questione. Francesco Rutelli, il precedente ministro della cultura, si era limitato a reintegrare il Fus. Oggi però con 300 milioni di euro di debiti, ciò non basterebbe né sarebbe efficace. Sandro Bondi sembra deciso ad affrontare la questione con un Disegno di Legge da preparare e presentare al Parlamento nel più breve tempo possibile che permetterebbe una franca discussione alla Camera e al Senato. Sul tema ci sono alleati insospettabili. Recentemente dalla colonne di Repubblica il sindaco di Bologna ed ex leader della Cgil, Sergio Cofferati, ha chiaramente chiesto ai sindacati un passo indietro. Più in generale, l’unica via che sembra percorribile è quella di una rivoluzione copernicana nella cultura italiana. Per troppo tempo gli artisti, gli intellettuali, i registi, i musicisti sono stati abituati a vivere di sovvenzioni pubbliche, con tutti i pregi e i limiti del caso. Grandi sprechi, spesso grandi guadagni, ma anche una limitata libertà espressiva. E poco importa se questa diminutio di creatività ci è stata venduta come il pegno da pagare sull’altare di una battaglia politica che si stava combattendo con le armi della cultura.

L’idea di liberalizzare il settore cultura, passando dagli investimenti diretti a quelli indiretti, cioè dai contributi alla defiscalizzazione dell’investimento, appare vincente. Non solo perché libera le energie del privato fino ad ora dubbioso se investire o meno in cultura, ma perché introdurrà sane logiche di mercato anche nell’intervento pubblico. Non ci sono altre soluzioni, se non il fallimento delle 13 fondazioni e questa ultima ratio potrebbe indurre le forze politiche a lavorare insieme.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Asahi Shimbun” del 10/11/2008

Assaggiare l’arte, nel piatto di Y. Kawamura, C. Oka e L. Templado ei musei ci sono moltissime cose di cui poter godere oltre l’arte esposta sui muri e nelle sale. Per alcuni una chiacchierata con un amico sull’opera appena ammirata o sfogliare tranquillamente il catalogo appena acquista, sorseggiando una tazza di caffé potrebbe diventare un’esperienza artistica di per sé.Tokyo, la capitale del sol levante, potrebbe offrire molte sorprese. In quella città c’è un’ampia scelta di musei e in molti di quelli c’è proprio un posticino adatto per gustare quel tipo di piacere: il museum cafe. Se si è in cerca di tranquillità il Museo d’Arte moderna Hara, farà al caso nostro.

N

È situato nei pressi dell’elegante quartiere di Shinagawa. Al momento la mostra principale è dedicata a “TomokoYoneda: la fine è un inizio», una mostra fotografica che terminerà il 30 novembre. È impressionante, del resto lo è lo stesso museo. È un raro esempio di architettura modernista degli anni Trenta. Il museo Hara possiede un’incantevole giardino interno, che potrebbero essere una distrazione per chi, invece, volesse concentrarsi solo sull’arte. Di recente sono state aggiunte delle porte a vetri scorrevoli che danno su di un terrazzo che guarda il giardino. E dove un’accogliente locale da caffé aspetta i clienti che vogliano rilassarsi, dopo il giro completo del museo, o prendersi una pausa nel mezzo della visita fra arte e bellezza. Sul menù è messo in bella evidenza la «Image Cake» (735 yen, circa 6 euro) un piatto la cui confezione è stata ispirata all’artista in mostra, naturalmente con la sua approvazione. Un’interpretazione culinaria che il museo ripete per ogni nuova esibizione. Le fo-

to di Yoneda fanno vedere occhiali e altri manufatti appartenuti a famosi intellettuali del ventesimo secolo.

Come Sigmund Freud e Bertold Brecht. Così questa volta la «Image Cake» è fatta con una mousse di semi di sesamo neri e una gelatina di mandorle. Sormontata da un cerchio nero disegnato con crema di sesamo che prende la forma di una montatura d’occhiali. Se si va in due meglio la doppia ordinazione per avere un effetto artistico completo. Se vuoi l’imbarazzo della scelta nel ramo caffetterie, allora bisogna dirigersi verso Il National art center di Tokyo, nella zona di Roppongi. È il più grande e moderno contenitore d’arte del Giappone. Uno degli ultimi progetti realizzati su disegno di Kisho Kurokawa. Si tratta di un immenso bozzolo o alveare di vetro dentro cui ci sono non meno di quattro splendidi locali. Insieme formano un immenso specchio del panorama sociale di questo periodo post-crisi. Per la massa vociante al piano terra nel gigantesco atrio, c’è il caffè Coquille. Su di un palco circolare appena sopra, si trova invece The Rond. Più in alto al di sopra di entrambi quei locali svetta l’elegante Brasserie Paul Bocuse. Nella parte più bassa dell’edificio, frose vicino ai locali caldaie c’è ancora la Cafeteria Carre. Questo è il Giappone, i locali sono tutti gestiti dalla stessa azienda, per cui paghi e fai la tua scelta del poste che preferisci. Torta a e servizio al tavolo per meno di 1000 yen (circa 8 euro) può diventare un ottimo compromesso. Anche in questo caso ci si può dimenticare di essere andati in quel luogo per godere dell’arte. Passare la parte migliore di un po-

meriggio in questo alveare curiosando in giro, alla luce di un sole autunnale, è una parte essenziale di un’esperienza a Tokyo. Nel caso non si fosse troppo interessati all’arte c’è sempre il museo della scienza e dell’innovazione, consociuto come Miraikan, ovvero «Museo del Futuro» dove si possono vedre le nuovissime tecnologie disponibili.

È situato su di una grande isola artificiale nella baia di Tokyo, nelk distretto Obaida. lì accanto al museo c’è un ristorante in tema futuristico. Non ci si deve fare ingannare dall’aspetto un molto trendy del posto è un vero fast food di una cosnosciuta catena giapponese (Lotteria). È stato progettato da Lee Myeong Hee che ha definito il locale come «l’entrata nel mondo delle tecnologie spaziali». Il progetto è stato supervisionato da Takashi Ikehgami e dall’università di Tokio. Sul versante culinario si scende di livello, c’è solo lo «Zeppin», ovvero un cheesbruger e come dolce un muffin al tè verde.

L’IMMAGINE

Caso Englaro, ora serve una legge che risponda a tutte le domande Il destino di Eluana Englaro è segnato. E non da oggi e non per responsabilità della Cassazione. È segnato perché quella povera ragazza muore ininterrottamente da 17 anni e lo strazio del suo corpo e la strazio del cuore di suo padre è indicibile. Su quel corpo si è fatta e si continua a fare una lotta politica perché il nostro Parlamento non ha mai approvato una legge per mettere in chiaro alcune cose: quando si può staccare la spina, chi può staccare farlo, quando finisce la cura e inizia l’accanimento? Sono domande inevitabili oggi che viviamo in un’epoca in cui la tecnica e la scienza hanno una potenza e delle risorse inimmaginabili. Allora, il destino della povera Eluana non sia un destino inutile per tutti noi. Il Parlamento è chiamato a fare il proprio dovere per evitare che su altre Eluana si consumino altre lotte politiche tra cattolici e laici (sempre che questa distinzione abbia ancora un significato vero). Serve una legge che dica “chi” decide sulla fine delle cure e “come” e “quando” la decisione si deve manifestare.

Carlo Sarti - Roma

EUTANASIA LEGALIZZATA Il caso di Eluana è troppo tragico per essere commentato con faciltà., anche perché appartiene a quella sfera delle coscienze individuali che hanno il compito di decidere per altri. Si può capire la disperazione di un padre, ma non la semplicita con la quale la Cassazione si è comportata, invertendo la tendenza di ammissibilità sui ricorsi presentati alle Procure generali. Una decisione che per la sua unicità è stata definita come il primo caso di eutanasia legalizzata in Italia.

Bruno Russo - Napoli

ALLA RICERCA DELL’INSEGNANTE DI SOSTEGNO Mio figlio, minore con problemi di sordità, aveva per legge fino al ter-

zo anno della scuola media, l’insegnante di sostegno, grazie alla quale ha raggiunto buoni risultati, sia in ambito scolastico che sociale. Oggi che frequenta il primo anno di scuole superiori, nonostante sia stato nuovamente sottoposto a visite mediche specialistiche da parte dell’istituto, non gli è stato ancora assegnato il sostegno. Mi sono rivolto di persona al Provveditorato, esponendo la gravità dei fatti, ma mi hanno subito liquidato illustrandomi il taglio delle spese da parte del ministero.

Lello Brucio

IL GOVERNO DELLA PIAZZA Le proteste degli studenti non accennano ad arrestarsi; l’importante è che il governo non si lasci intimidire altrimenti dalla demo-

Fulmini e saette: punizioni divine Tre, quattro, cinque saette. Semplici scariche elettriche per noi. Messaggi divini per gli Etruschi, un tempo ritenuti i massimi esperti in fatto di fulmini. Ad ogni temporale sacerdoti e indovini studiavano forme e posizione di questi fenomeni naturali. Scagliati, a loro dire, dagli dei inviperiti con qualche mortale. La prima saetta era considerata un “avvertimento”. Se non si rigava dritto, scattava il secondo lampo, quello della “collera” crazia ci si ritrova alla piazzacrazia ossia al governo della piazza.

Pietro Branori

GLI STUDENTI E IL NEMICO UNICO Ci risiamo. Gli studenti manifestano di nuovo a Roma o almeno così vorrebbero far credere.Tutti sappiamo, infatti, che saltare la scuola è un grande piacere, specialmente quando si sta svolgen-

do ancora il primo quadrimestre nelle medie superiori. Gli universitari, invece, hanno tanto di quel tempo da perdere, soprattutto quelli delle facoltà umanistiche, che qualsiasi pretesto per gironzolare per le vie della città è buono. Per non parlare della strumentalizzazione che ci sta dietro, organizzata dalla solita sinistra, che da quando ha perso

le elezioni non si dà pace. Si tormenta e tormenta giovani, minori e addirittura i bambini, portando tutti a urlare in piazza contro il “nemico”. Un indottrinamento negativo che incide sulle menti di questi poveri ignari, giovani e giovanissimi. Al posto del maestro unico, propongono il nemico unico.

Cinzia Napoli


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LETTERA DALLA STORIA

Mi struggo di passione e desiderio Vi siete dunque resa conto, donna cara, fino a che punto la mia felicità dipenda da voi? Avete finalmente compreso quali catene mi uniscono a voi? Potete forse ancora dubitare che i miei sentimenti durino quanto la mia stessa vita? Quando giunsi al cospetto dei vostri convitati, ancora ero ricolmo della tenerezza che voi mi avete ispirato. Essa splendeva nel mio sguardo, riscaldava le mie parole, guidava i miei movimenti: era evidente in ogni cosa. Ai loro occhi, non potei che apparire straordinario, ispirato, divino... Era come un fuoco che mi ardeva in fondo all’anima, un fuoco che mi accendeva il petto, che si spandeva fino a loro e li infiammava a loro volta. Trascorremmo una serata ricolma di entusiasmo, e solo io ero la sorgente di calore. Non è certo senza rimpianto che si abbandona una situazione tanto piacevole; però era necessario, l’ora del mio appuntamento incalzava: vi andai. Parlai a D’Alembert come un angelo. Vi riferirò della nostra conversazione al Grandval. Addio, mia Sophie, addio donna amata! Ardo dal desiderio di rivedervi, anche se vi ho appena lasciata. Domani mi recherò dal barone. Ah, se solo potessi essere lì accanto a voi, come vi amerei ancora! Mi struggo di passione e desiderio. Denis Diderot a Sophie Volland

ACCADDE OGGI

MONSIGNOR SANDRO MAGGIOLINI, UN UOMO GENEROSO E IMPORTANTE Ho conosciuto personalmente monsignor Maggiolini nel 1994, a Rimini, al Meeting di Comunione e Liberazione, proprio in mezzo ai giovani che egli amava tantissimo, ai quali ha dedicato un’appassionante e profondissima conferenza sui temi della fede, della scienza, della ragione e dell’impegno dei giovani nella Chiesa e dei problemi etici del momento. Ne rimasi affascinato, e rientrai a Reggio animato da una gran voglia di mettere in pratica i suoi insegnamenti, ma trovai il vuoto e il disinteresse più assoluti. Lo andai a trovare a Como più di una volta, e gli scrissi diverse lettere di auguri e di carattere religioso, di vita sociale e politica, prendendo lo spunto dai suoi numerosi interventi, polemici e critici, sulla stampa cattolica e laica. Egli mi rispose sempre con grande puntualità ed amabilità, dandomi spesso consigli di vita che custodisco nel mio cuore. E in questi giorni di lutto per la sua scomparsa, alla quale egli ci aveva da tempo preparati, vado a rileggere le sue lettere, per sentirmi vicino alla sua parola e alla sua indimenticabile persona. La forza di monsignor Maggiolini e la sua determinazione nel prendere posizione su vari fatti e problemi, e di denunciare aperti verbis, senza compromessi o aggiustamenti di sorta, i pericoli e i rischi della modernità, lasciano un vuoto che si farà sentire vieppiù in questi anni di secolarizzazione, di relativismo e di grave e profonda crisi spirituale, morale e religiosa.

Angelo Simonazzi

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

15 novembre 1869 L’armatore genovese Rubattino, d’accordo con il governo italiano, acquista la baia di Assab nel corno d’Africa. È il primo possedimento coloniale italiano 1889 Il Brasile si trasforma pacificamente in repubblica 1914 Benito Mussolini fonda a Milano il quotidiano “Il Popolo d’Italia” 1921 Primo volo del dirigibile Roma fabbricato in Italia su progetto di Umberto Nobile e in dotazione all’esercito degli Stati Uniti 1933 Il ventunenne Giulio Einaudi, figlio del futuro presidente della repubblica Luigi, crea la Giulio Einaudi Editore 1956 Esce nelle sale cinematografiche statunitensi il primo film in cui compare Elvis Presley: “Love Me Tender” 1960 Dopo lo scandalo per la presunta oscenità dell’opera teatrale “L’Arialda”, venata di tematiche omosessuali, Luchino Visconti, Rina Morelli, Paolo Stoppa e Umberto Orsini si rivolgono a Giovanni Gronchi per protestare contro la censura e contro il divieto di rappresentazione dell’opera. Il Presidente si rifiuta di riceverli

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

GLI ITALIANI BRAVA GENTE Recentemente ho letto un articolo che mi ha colpito molto perché prende le distanze dal consueto catastrofismo propinato dalle solite testate. Questo evidenzia che ci sono tanti italiani che producono, lavorano, si sposano, fanno figli, amano, non fanno parte della camorra né della mafia. Rappresentano la maggioranza silenziosa che non appare né apparirà mai sui giornali.

Fernando Bianchi

PRENDIAMO ESEMPIO DALL’AMERICA: IMPARIAMO A RINNOVARCI L’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti testimonia la fortissima capacità di rinnovamento dei nostri amici. Tra 4 o 8 anni, Obama sarà un ex e a 51 o 55 anni sarà, come i suoi predecessori, un autorevole pensionato con una parabola politica che, nel complesso, sarà durata 16-20 anni. A differenza dei nostri politici che dopo 25-30 anni sono sempre lì pronti ad abbarbicarsi al potere per ulteriori decenni. Non sarà questa una delle cause della nostra incapacità di essere una democrazia efficiente e in definitiva della nostra “vecchiezza”?

dai circoli liberal

LIBERAL, LA CAMPANIA E LA COSTITUENTE DI CENTRO I circoli e il movimento Liberal, coordinato in Campania dall’ottimo avvocato Massimo Golino, hanno prodotto in questi ultimi quindici giorni un “movimentismo” eccezionale intorno all’adesione a Liberal verso la Costituente di centro. La campagna di manifesti (150 postazioni in tutta la regione) con il volto del nostro presidente Ferdinando Adornato e di quello del leader dell’Unione di centro, Pier Ferdinando Casini, si è rivelato di forte impatto sociale, culturale e politico, non solo ai fini dell’adesione al nostro progetto ma anche in termini di sondaggio d’opinione, anche se ristretto al solo ambito regionale. In quarantotto ore le oltre duecento telefonate al numero verde, istituito dal coordinamento regionale, hanno fatto registrare non solo l’adesione all’iniziativa di Liberal, ma soprattutto la volontà e la voglia, da parte del popolo dei moderati campani, di andare rapidamente alla costituzione di un unico solo grande partito dei moderati italiani. Un partito nuovo, capace di rompere gli schemi attuali, dando il giusto valore e la dovuta visibilità ad un sentire comune che nel Paese rappresenta la maggioranza degli italiani. Insomma gli elettori moderati italiani - anche quelli che, alle ultime elezioni, hanno votato per il Pdl o il Pd - avvertono la necessità di una sola casa comune al Centro. Indicano una strada, una prospettiva da seguire “senza indugio”, un percorso unitario verso l’Unione di centro, dimostrando di essere più avanti della propria classe dirigente. Come non ascoltarli allora? Come non assecondare un sentimento diffuso che gran parte dei responsabili nazionali ha compreso e perciò sono fortemente convinti e orientati nel costruire questa unica grande prospettiva per il Paese e per tutti i moderati italiani. In Campania, le cose vanno ancora meglio. Il coordinamento regionale dell’Unione di centro è stato gia costituito, con la volontà di condividerlo con tutti quelli che vogliono starci: dall’Udc a Liberal, dalla Rosa Bianca ai Popolari del presidente De Mita a cui è stato affidato unanimamente il coordinamento. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO CIRCOLI LIBERAL

Giuseppe Zucca

RIMBORSATI E SODDISFATTI? La Fininvest ha annunciato che si farà carico delle perdite subite dalla clientela di Mediolanum su polizze «index linked» garantite dalla fallita Lehman Brothers. Sarà vero? O succederà come per i «Cirio bond» datati 2002, per i quali ancora oggi non si sa come e quando i creditori saranno soddisfatti?

Carlo Dorelli

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

APPUNTAMENTI VENERDÌ 21 E SABATO 22 NOVEMBRE 2008 OTTAVA EDIZIONE COLLOQUI DI VENEZIA PALAZZO CAVALLI FRANCHETTI La nuova America. Come cambierà il mondo dopo l’era Bush. Gli amici dei Circoli liberal sono invitati a partecipare Vincenzo Inverso

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Marco Staderini Amministratore delegato: Angelo Maria Sanza Consiglio di aministrazione: Ferdinando Adornato, Lorenzo Cesa, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Emilio Lagrotta, Gennaro Moccia, Roberto Sergio Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

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Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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