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ISSN 1827-8817 81101

Una persona ragionevole adatta se

he di c a n o r c

stessa al mondo esterno. Una persona irragionevole adatta il mondo esterno a se stessa. Sono gli irragionevoli che fanno il progresso. George Bernard Shaw

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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

Il testo integrale del discorso tenuto ieri dal Papa su fede e scienza

Io, Ratzinger, vado d’accordo con Galileo di Benedetto XVI ccellenti signore e signori. Sono felice di incontrarvi, membri della Pontificia Accademia delle Scienze, in occasione della vostra Assemblea plenaria. Ringrazio il professore Nicola Cabibbo per le parole che mi ha gentilmente rivolto a vostro nome. Scegliendo il tema Approcci scientifici sull’evoluzione dell’universo e della vita, voi cercate di concentrarvi su un’area di inchiesta che suscita molto interesse. Infatti, molti dei nostri contemporanei oggi riflettono sull’origine ultima degli esseri viventi, sulla loro causa e la loro fine, e sul significato della storia umana e dell’universo. In questo contesto, sorgono naturalmente le questioni riguardanti il rapporto tra la lettura scientifica del mondo e della lettura offerta dalla Rivelazione cristiana.

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di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Forte discorso del Governatore alla Giornata del risparmio mentre il governo è fermo

La verità di Draghi

«Subito interventi a difesa di famiglie e consumatori» di Enrico Cisnetto uanto durerà la crisi globale? Fino monstre che costituisce un’ulteriore tassa a metà 2009, come ha pronosticato occulta sullo sviluppo. Così, francamente, è ieri il governatore Draghi, o fino a inessenziale sapere fino a quando durerà la tutto l’anno prossimo, come ha crisi. Come inessenziali sono le misure che detto Nouriel Roubini, uno dei poil governo si è impegnato a presentare per chi che ha azzeccato la previsione sulla ridare fiato ai consumi e agli investimenti. bolla finanziaria già dai tempi non sospetCerto, in tempi di magra anche la detassati? Sinceramente, la cosa è poco intereszione delle tredicesime o gli interventi a faIl governatore di Bankitalia ha sante. Non perché non sia utile sapere di vore delle banche sono certamente di aiuto. detto: «Lo Stato può entrare che morte dovremo morire: quanto perMa sono marginali. Oltretutto, si tratta di nelle banche, ma solo per poco» ché malgrado la crisi riguardi tutti, non due strade che al momento sembrano tutte siamo tutti uguali nello stesso frangente. in salita. Da una parte, infatti, è chiaro che L’Italia, di fronte alla recessione, è più uguale degli altri. Si nonostante i proclami di ottimismo che il premier mirerebporta infatti dietro il duplice bagaglio di un declino struttu- be ad imporre a tutta la compagine governativa, il reperirale che da almeno un quindicennio ci ha fatto accumulare mento dei fondi necessari per attuare un qualche sgravio fiun “buco”di crescita di 15 punti di pil rispetto ai paesi di Eu- scale è sempre più difficoltoso. se g ue a p ag i na 2 rolandia e di 35 con gli Stati Uniti, e un debito pubblico-

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ALITALIA SUL FILO DEL RASOIO Colaninno non presenta l’offerta, poi Berlusconi lo chiama e ci ripensa. Serata di marasma a palazzo Chigi. Comunque andrà a finire, sarà una storia iniziata male e conclusa peggio

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Il terrorismo e le Presidenziali Usa di Renzo Foa • pagina 9

Dalla recessione al federalismo

Berlusconi e Tremonti Arriva il grande gelo di Franco Insardà ario Draghi sarà un devoto di san Francesco. Era infatti la notte fra il 3 e il 4 marzo quando il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, partì lancia in resta contro il governatore di Bankitalia. Sul tavolo c’era la vicenda Unicredit che il ministro avrebbe voluto risolvere diversamente. Da via XX settembre amici fidatissimi allertarono subito Draghi che era in procinto di prendere un aereo perché si attivasse per scongiurare il blitz tremontiano della notte di san Francesco. Ma il governatore per tutta risposta spense il telefono e prese l’aereo. Secondo alcuni prima di farlo fece alcune telefonate che arrivarono alla persona giusta: Silvio Berlusconi.

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Era meglio Air France? alle pagine 4 e 5

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SABATO 1 NOVEMBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

210 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 1 novembre 2008

Povertà. Non è più tempo di divisioni sulle ricette contro la crisi: Draghi e Tremonti in realtà hanno lo stesso obiettivo

L’Italia da rifare

Prima un’operazione-verità per capire le ragioni della recessione Poi una nuova politica bipartisan per sostenere imprese e mercato di Enrico Cisnetto

segue dalla prima La situazione dei conti pubblici, infatti, non consente regalie. Non tutti se ne sono accorti, ma qualche giorno fa il differenziale tra il rendimento dei buoni del Tesoro italiano e i corrispettivi tedeschi (i bund) ha sfiorato un nuovo record storico, ormai ben al di sopra del punto percentuale. Questo, in soldoni, significa tre cose. Primo, che si stanno verificando importanti vendite dei nostri titoli di Stato da parte dei grandi investitori istituzionali, i quali preferiscono passare a titoli considerati più sicuri come quelli tedeschi. Secondo, è la percezione che il rischio-Italia viene percepito in aumento. Terzo, la conseguenza è che il Tesoro sarà costretto a pagare interessi ancora più salati sul debito pubblico.

Le parole del Governatore di Bankitalia

«Attenzione, durerà fino al 2009» ROMA. Sì all’intervento dello Stato a sostegno degli istituti di credito, a patto che sia temporaneo e non invasivo. Il governo, intanto, reagisca alla crisi con politiche in grado di contrastare il rischio recessione. E le banche, che devono essere attente alle famiglie e pragmatiche nelle ricapitalizzazioni. È la ricetta del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, esposta dal palco della Ottantaquattresima Giornata mondiale del risparmio. Draghi è partito dalla constatazione che «sulla base dell’evoluzione della domanda mondiale oggi prevista dai principali organismi internazionali, la stagnazione in atto proseguirà almeno fino a metà del prossimo anno». E per questo, sono il sistema bancario, da una parte, e il go-

verno, dall’altra, che devono reagire. «Occorre innanzitutto evitare che la crisi si traduca in una severa contrazione dei flussi di credito all’economia reale; in secondo luogo, è necessario attivare efficaci politiche di sostegno che contrastino le tendenze recessive in atto. A questa esigenza potrà rispondere una politica di bilancio che faccia uso della flessibilità permessa dal Trattato e dal Patto di stabilità e crescita». In questo quadro, secondo il Governatore «l’emergenza richiede che le autorità adottino politiche più interventiste che in passato, assumendo anche ove occorra temporanee responsabilità patrimoniali nelle istituzioni finanziarie. L’intervento dello Stato, però, deve essere temporaneo e non intrusivo».

Ma se, da una parte, il problema dei conti pubblici è certamente alla base della rigidità di un Tremonti in versione iper-realista («la Finanziaria non si tocca»), anche sugli annunciati interventi a favore delle banche si registra un sostanziale stop. Ieri il governatore Draghi è stato molto chiaro: «Tutti gli strumenti perché il nostro sisteagenda politica ci ricorda che tra pochi giorni il Governo approverà un pacchetto di misure anti-crisi e di sostegno alle banche ed alle imprese. Il Ministro Tremonti, è notizia che rimbalza su tutti i giornali, sembrerebbe concentrare la sua attenzione in maniera particolare su banche ed imprese. È giusto prevedere misure a sostegno delle imprese e delle banche. Ma è oltre modo miope, ancora una volta, non riconoscere che coloro i quali subiranno maggiormente la crisi, la probabile forte recessione e la conseguente contrazione dei consumi essenziali saranno i consumatori e le famiglie. Perché, dunque, non dare priorità a questi soggetti? Su questo l’Unione di Centro ha messo a punto una serie di proposte.

L’

Proposte. Contributi per i figli e detassazione per le aziende

zione dell’Iva allo Stato solo nel momento in cui le aziende effettivamente incassano i crediti. Sarebbe opportuno, infine, sottolineare l’importanza di estendere la Cassa Integrazione alle aziende non coperte e attivare percorsi di riqualificazione e reimpiego delle donne e dei lavoratori anziani che hanno perso il posto di lavoro. Infine, il problema che abbiamo in Italia concerne la brusca frenata degli investimenti per il rilancio delle infrastrutture. In tale contesto, è fondamentale attivare un piano di rilancio delle Grandi Opere che, sulla scia di quanto avvenne a suo tempo nell’America nel post crisi del ’29 per opera di Roosvelt, dia ossigeno allo sviluppo e una spinta oltre modo necessaria all’aumento dell’occupazione. Nel nostro Paese esiste uno strumento forse poco utilizzato, la Cassa Depositi e Prestiti. Perché non sfruttare i fondi di cui dispone al servizio del rilancio del credito sia alle piccole e medie imprese che agli enti locali?

Settemila euro per le famiglie Questa è la prima emergenza

Cominciamo con le famiglie, per le quali si dovrebbe reintrodurre, sia pure con modi e tempi differenti dai progetti passati il “Quoziente Familiare”, su cui finalmente il Governo sembra disposto

di Gian Luca Galletti a discutere. L’idea è quella di corrispondere in via transitoria da dicembre 2008 e per tutto il 2009, alle famiglie con redditi inferiori ai 50.000 euro annui e con minori a carico e/o figli disabili, di un bonus mensile pari 100 euro per il primo figlio e 50 euro per i successivi figli. Il costo sarebbe di circa 7 miliardi di euro, ben poca cosa rispetto ai 20 miliardi messi in conto dal Governo per le misure anti-crisi. Con la differenza che si offre un contributo immediato e sicuro alla spesa per consumi. Altro capitolo, il problema della sostenibilità dei mutui contratti dalle famiglie per l’acquisto della prima casa. La nostra idea è quella di introdurre un meccanismo che

permetta di dedurre dalle imposte sui redditi delle persone fisiche l’intero ammontare degli interessi passivi, anziché detrarli per una quota solo parziale come accade oggi.

Quanto alle imprese, si dovrebbe introdurre la detassazione degli utili aziendali, purché gli stessi siano reinvestiti in innovazione, risparmio energetico ed incremento dell’occupazione. In aggiunta, è opportuno promuovere in via definitiva il meccanismo del credito di imposta per le imprese del mezzogiorno, magari sostituendolo ai contributo a fondo perduto. Altra proposta, introdurre il meccanismo della liquida-

ma bancario torni alla normalità sono stati approntati. Non nell’interesse delle banche, ma in quello, generale, delle famiglie, delle imprese». E a fargli eco, in una insolita armonia di intenti, è stato lo stesso Tremonti. Il quale ha ribadito che «l’intervento pubblico deve essere transitorio, strumentale, di finanziamento e patrimonializzazione del sistema, ma solo se è necessario. Non se è inutile o non è richiesto». E poi, addirittura, che «allo Stato possedere una sola azione di una banca nuoce gravemente». Basterebbe questo per smontare chi, nonostante l’evidenza, ambisce a tornare agli anni d’oro delle partecipazioni statali e della finanza allegra, sfruttando la crisi internazionale e lo “stato di calamità” che psicologicamente è percepito. Mentre quello che servirebbe, semmai, è ben altro. La situazione pesante andrebbe utilizzata per tentare finalmente una diagnosi condivisa: una grande “operazione verità” nei confronti del Paese, dicendo cioè che la nostra recessione viene da lontano, che la crisi internazionale la accentua ma non ne è all’origine, e che dunque essa si rivelerà per noi molto


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L’intervista. Ettore Gotti Tedeschi, banchiere e docente di etica della finanza

«Ma adesso Tremonti punti tutto sulle aziende» colloquio con Ettore Gotti Tedeschi di Franco Insardà

ROMA. «Sono d’accordo con il ministro Tre-

Non ci sono margini di spesa per interventi a pioggia, in stile “partecipazioni statali”, o per iniziative sul genere della “rottamazione” più intensa e lunga rispetto agli altri paesi occidentali. E infine, che per fronteggiarla occorre rimuovere le cause strutturali che l’hanno determinata. Anche perché non si può continuamente oscillare tra sane pulsioni di riduzione e riqualificazione della spesa pubblica – seppure purtroppo mai accompagnate da strategie riformiste a tutto tondo – e l’eterna tentazione di distribuire a pioggia le risorse, tanto più che la situazione dei conti pubblici oggi non lo consente assolutamente.

Inoltre, sarebbe il caso di chiarirsi le idee una volta per tutte su cosa significa essere keynesiani. Cercando di evitare un clamoroso equivoco relativo al concetto di politica economica e industriale. Essa non significa entrare nel capitale della Fiat o “rottamare” per sovvenzionare questa o quest’altra impresa, bensì vuol dire da parte della politica assumersi la responsabilità di dare un indirizzo strategico allo sviluppo del Paese, individuando le linee guida lungo le quali far camminare l’economia. In concreto? Politica dei settori oltre che quella dei fat-

tori della produzione; con l’utilizzo della leva fiscale come incentivi e disincentivi che indirizzino gli imprenditori verso scelte di utilità generale (aziende più grandi e più capitalizzate, comparti produttivi a maggiore valore aggiunto e intensità di innovazione e know how). E bene anche il progetto di un grande piano di investimenti pubblici, che permetterebbe al Paese oltretutto di colmare quelle secolari lacune infrastrutturali che si porta dietro.

È in questo senso che va inteso l’appello lanciato ieri da Draghi, secondo cui «le politiche nazionali contano», utilizzate nel rispetto dei parametri di Maastricht e del Patto di Stabilità. Il ministro Tremonti ha compreso perfettamente, ne siamo sicuri. Altri, in seno alla maggioranza, dovrebbero chiarirsi le idee su cosa si può e non si può fare data l’attuale situazione dei conti pubblici. E sul fatto che essere keynesiani non significa poter tornare agli anni ruggenti del deficit incontrollato. Ci dispiace molto per loro, ma è così. (www.enricocisnetto.it)

monti. Anzi sono più pessimista di lui». Ettore Gotti Tedeschi, banchiere e docente di etica della finanza all’Università Cattolica di Milano, non ha dubbi sulla situazione economica mondiale. Allora professore, siamo in recessione? Purtroppo sì. La mia opinione è che sui mercati borsistici stiamo assistendo a un fenomeno che non riusciamo a quantificare. Il crollo delle Borse non ha una correlazione matematica tra la patrimonializzazione delle società e le scelte degli investitori. Abbiamo assistito a veri e propri crolli delle quotazioni dei titoli al di sotto del patrimonio netto delle società. Come lo spiega? Le quotazioni si fanno avendo come riferimento il Pil stimato dei vari Paesi. Quando si è scoperto che questa stima era legata a una crescita fittizia, il sistema è crollato e c’è stato il conseguente ridimensionamento dei valori aziendali. Il fenomeno più significativo è l’inconsistenza del Pil perché legato a una stima gonfiata dai mutui subprime. Quale sarà, quindi, il valore reale del Pil? Purtroppo dobbiamo parlare di Pil negativo. Ecco perché tutti, per primo il governatore della Banca d’Italia, parlano di effetto recessione. Nei prossimi anni la crescita non ci sarà ed è questa la cosa che fa più paura. Che cosa possono fare ora i governi? Gli Stati oltre a soccorrere il sistema finanziario dovranno sostenere le imprese, come si fece in Italia negli anni ’30 con l’Iri. Sul tavolo, però, c’è il piano banche. Il ministro Tremonti fa benissimo a sostenere il risparmio, diversamente da quanto hanno fatto Germania e Gran Bretagna che, invece, hanno nazionalizzato le banche in difficoltà. I nostri istituti di credito hanno dichiarato di potercela fare da soli, lei cosa ne pensa? Se l’hanno detto ritengo che sia vero. Bisogna comunque tener presente che viviamo in Europa e avendo una moneta unica occorrono manovre coerenti perché il sistema è integrato. Voglio dire che se altri Stati adottano iniziative per capitalizzare le banche, ci saranno necessariamente influenze sul nostro mercato interno. Comunque il nostro sistema bancario finora ha retto. Sì. Le nostre banche hanno amministrato capitali principalmente sul nostro territorio, qualche rischio in più lo potrebbero correre quegli istituti che hanno avuto maggiori esposizioni sui mercati esteri. Ritengo che il piano che il governo sta mettendo a punto sia opportuno.

Oltre ai mutui subprime c’è qualche altro elemento che ha influito sulla crisi? Sicuramente l’inflazione delle materie prime dovuta alla crescita imprevedibile dei mercati asiatici. L’impennata dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime con i conseguenti effetti speculativi hanno disegnato scenari nuovi che non si erano previsti. Ora i mercati asiatici come stanno influenzando l’economia globale? Se in questo periodo il dollaro negli Stati Uniti sta dando dei segnali di ripresa questo non è da attribuire all’economia americana che va forte, ma probabilmente all’Asia che tiene su la moneta Usa. Professore, torniamo all’Italia. Da più parti si chiede di ridurre le tasse, secondo lei è possibile? Assolutamente no. Sono sulla stessa linea del ministro dell’Economia: non si può ridurre la pressione fiscale. Perché? Se si considera che nel 1975 il peso fiscale rispetto al prodotto interno lordo era del 25 per cento e nel 2005 questa percentuale era salita al 45 per cento, ci sarà un motivo. Quale? Un Paese come l’Italia, con crescita zero, in questi anni ha visto aumentare vertiginosamente i costi fissi per le pensioni e per il sostegno per le politiche sociali. Queste risorse si recuperano soltanto con le tasse. Non c’è alternativa. Il sistema ora avrà più problemi. Infatti. Se diminuisce il Pil, come si sostengono queste strutture sociali? Pensare a una diminuzione delle tasse è assolutamente da escludere. E allora? Se il Pil diminuisce in termini assoluti perché si produce meno reddito le tasse aumenteranno percentualmente. Cioè: chi produrrà reddito sarà costretto a pagare più tasse che serviranno per la spesa sociale. La riforma dei contratti e la detassazione dell’aumento della produttività possono essere delle misure idonee per far crescere il Pil? C’è un solo sistema: aumentare la produttività. Il Paese deve diventare più competitivo, altrimenti non c’è speranza. È inutile sostenere costi per strutture che non creano ricchezza, ma soltanto spese. È questa la sua ricetta per combattere la recessione? Sì. Occorre sostenere la domanda e la capacità produttiva. Se diminuisce la produzione buona parte delle imprese saranno costrette a far ricorso alla cassaintegrazione per i loro dipendenti con il conseguente crollo dei consumi e della domanda. Si entrerebbe in un vero e proprio circolo vizioso.

I dati sui crolli delle Borse non ci danno l’immagine precisa della gravità della situazione: un conto preciso è ancora impossibile


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Crolli. Dopo i colpi di scena dell’ultimo minuto, solo i confederali firmano l’accordo Ma nella serata di ieri Colaninno è stato convocato a Palazzo Chigi

Tre passi nel fallimento Piloti e assistenti di volo denunciano il tradimento dei patti Cai prima si ritira poi risponde al grido d’aiuto di Berlusconi di Alessandro D’Amato

ROMA. Mentre scriviamo mancano quatto ore alla mezzanotte del 31 ottobre, termine ultimo per la soluzione e Alitalia va verso il fallimento. Dopo l’ennesimo ridicolo tira-e-molla, la trattativa infinita Cai-governo-sindacati si conclude con l’ultimo scontro: l’accordo che viene firmato da Cgil, Cisl, Uil e Ugl ma non da Sdl, Avia, Anpav, Anpac, Up, e il conseguente mancato via libera del cda dell’azienda presieduta da Roberto Colaninno per la presentazione dell’offerta vincolante al commissario straordinario Augusto Fantozzi. Al capezzale di Alitalia rimane quindi ufficialmente solo il governo, con Berlusconi che in extremis chiama al telefono Colaninno per cercare di ricucire. Intanto, dopo l’annuncio della rottura della trattativa dell’altroieri, in mattinata erano arrivate le dichiarazioni distensive di Raffaele Bonanni che auspicava una chiusura positiva della trattativa. Poi alle 13 era cominciata la riunione tra governo, Cai e sindacati, nella quale Gianni Letta aveva fatto sapere: «I margini per la trattativa non ci sono più», mentre Colaninno aveva dichiarato l’assoluta indisponibilità di Cai a presentare l’offerta senza il sì dei sindacati. Subito dopo il tavolo è stato sospeso. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha proposto la firma di un documento di premessa su contratti e criteri di assunzione, facendosi garante per le controversie. La proposta era quella di firmare un documento di premessa in cui le eventuali controversie sull’interpretazione non risolte in sede aziendale sarebbero state sottoposte a giudizio insindacabile dello stesso Letta.

Una specie di “lodo”ad personam, che aveva convinto dopo qualche titubanze i confederali e l’Ugl. Ma dopo una rapida riunione, i sindacati autonomi hanno detto no: «i criteri di assunzione previsti da Cai producono mostri sociali, con una discrezionalità assoluta nelle scelte dell’azienda, con il sindacato relegato al ruolo di notaio. Tutto questo, non era previsto negli accordi di Palazzo

Una storia cominciata male e finita come era prevedibile

Ora bisogna venderla. All’estero di Carlo Lottieri ochi l’avevano previsto, e quasi nessuno lo sperava. Ma certo il fallimento della trattativa tra la Cai di Roberto Colaninno e la vecchia Alitalia apre uno scenario nuovo, che rappresenta comunque un’opportunità da sfruttare al meglio. D’altro canto, se questa è la realtà, anche chi oggi se ne dispiace deve fare buon viso a cattivo gioco.

P

Fino ad ora il copione era ben noto: con i soliti “capitani coraggiosi”interessati ad assorbire un pezzo di Stato (non tanto i dipendenti e nemmeno gli aerei, quanto semmai i ben più appetibili diritti di voto), con un governo determinato a gestire in maniera diretta la situazione, grazie al coinvolgimento di banche e altri poteri forti, con sindacati e burocrazie riottosi dinanzi ad ogni novità, ma in fondo persuasi di poter ricostruire in forme nuove i vecchi privilegi di sempre. Ora il banco è però saltato, le ragioni sono molteplici: dall’ottusità della Cgil alla crisi finanziaria, che ha sconvolto lo sfondo generale su cui si collocava l’intera operazione. Ma anche se il governo, l’opposizione più ideologizzata, le forze sociali e il Paese intero escono con le ossa rotte dalla vicenda (rimediando una figuraccia epocale e planetaria), non è detto che questo esito sia necessariamente il peggiore. Come tutti i commentatori più avvertiti avevano rilevato, quella firmata dalla Cai era davvero una soluzione sbagliata. Quasi settimanalmente abbiamo letto, ad esempio, le accurate analisi dell’economista Andrea Giuricin sui mille punti deboli dell’operazione, soprattutto per chi ha a cuore gli interessi dell’economia italiana nel suo insieme. Non soltanto il salvataggio operato da Cai era il risultato di una separazione della “polpa” da tutto il resto (con la Good Compa-

ny in mano alla cordata degli imprenditori, e la Bad Company sulle spalle dei contribuenti), ma esso finiva per delineare un mercato dei trasporti aerei ingessato. Non è un caso che a Malpensa vi fossero molti mal di pancia di fronte al costituirsi di un nuovo monopolio di troppe rotte interne, a partire dalla più interessante, la Roma-Milano. La speranza, a questo punto della tragicommedia, è che la si smetta di accanirsi su un moribondo che già da tempo è un cadavere. Piloti, hostess e altre maestranze troveranno, presto o un po’ più in là, un’altra collocazione presso i molti vettori italiani e stranieri che certo si daranno da fare per occupare gli spazi lasciati liberi da Alitalia. A dispetto perfino della crisi imminente, le proiezioni sul trasporto aereo parlano di un settore che resta sostanzialmente in crescita, e che è quindi destinato ad assorbire i vecchi addetti e cercarne di nuovi. Per giunta, il ruolo (pessimo) giocato dalle rappresentanze sindacali in questa vicenda è tale che gli ultimi che possono avere voce in tutto ciò sono proprio i delegati dei lavoratori.

La speranza, arrivati a questo punto della situazione, è che la si smetta di accanirsi su un progetto già fallito

Chigi», ha spiegato il coordinatore nazionale di Sdl Fabrizio Tomaselli. «È stata abbandonata una linea condivisa da tutti», ha dichiarato invece Fabio Berti dell’Anpac, mentre ancora più duro è stato l’altro rappresentante dei piloti, Massimo Notaro: «Quello di Cai è un progetto nano, che disegna un’Alitalia nana, in un paese socialmente e moralmente na-

A questo punto, si ricominci da zero: investendo sul mercato. L’idea che per spostarsi in aereo da un posto all’altro ci voglia un “campione nazionale” è un mito senza fondamento, come ben sanno le molte migliaia di italiani che da anni utilizzano Ryan Air. Tolta di mezzo la soluzione tutta politica di Cai (perseguita da Berlusconi fin dai tempi della campagna elettorale), ora si deve dare spazio ad ogni soggetto italiano e straniero che voglia farsi avanti per utilizzare i nostri aeroporti. Questo è il momento di liberalizzare le rotte e garantire a tutti la facoltà di servire al meglio i viaggiatori. Per il bene delle famiglie e delle imprese, a cui poco importa la nazionalità delle compagnie.

no». E nella conferenza stampa Berti ha anche attaccato i confederali, chiedendosi «chi oggi ha dato l’ok abbia mai potuto farlo a causa delle condizioni troppo restrittive che sono state poste dall’azienda. Si era detto che per tutto ciò che non era stabilito dall’intesa occorreva fare riferimento al contratto di Air One (sapendo che è uno dei meno vantaggio-

si per le aziende in assoluto). Ma non è stato così, si è fatto un lavoro diverso». In mattinata, infatti, i piloti avevano fatto sapere che la decurtazione del 6-7% rispetto al contratto della compagnia di Toro era stata accettata a malincuore, con l’impegno che questo fosse l’ultimo sforzo richiesto alla categoria. Ma Cai aveva invece scelto di utilizzare alcune parti

del vecchio contratto Alitalia per la stesura definitiva. Suscitando così la reazione di piloti e hostess.

Il consiglio di amministrazione di Cai, dopo qualche ora di riunione, alle 17 faceva sapere che non avrebbe presentato l’offerta vincolante, mentre i confederali continuavano a chiedere un ripensamento agli autonomi. Duro il segretario della Filt Cisl Claudio Claudiani: «Poteva nascere la nuova Alitalia e non capisco chi non ha firmato. Non c’è più spazio per giocare ai rilanci». Franco Nasso della Filt Cgil ha ricordato i punti di criticità, chiedendo poi però di riflettere e “dormirci su” per arrivare a un accordo condiviso. Ma anche sull’atteggiamento di Cai, da parte dei sindacati, permangono molti dubbi. «È vero che gli accordi erano diversi, e per questo ci sembrava positivo che Letta accettasse il ruolo di arbitro - riferiscono - ma lo stop era arrivato anche a causa dell’improvvisazione e dell’impreparazione della Compagnia Aerea Italiana, che alla ripresa delle trattative non aveva nem-


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Cronistoria. L’ultimo capitolo comincia con il no ad Air France

Le radici lontanissime di una tragicommedia ROMA. Quella di Alitalia è prima di tutto la storia di un fallimento industriale dello Stato imprenditore, e ha radici ben solide e storicamente determinate: politiche, manageriali e sindacali. Siamo nel dicembre 1993 quando l’Iri di Romano Prodi, all’epoca azionista al 100%, lamenta che la compagnia ha accumulato 300 miliardi di lire di perdite. È in crisi nerissima, Luigi Bisignani, l’a.d. non sa più che pesci pigliare. Il cda dell’Iri però sembra pensare all’espansione e non al risanamento: «Il consiglio raccomanda di avviare tutte le azioni per realizzare a Milano Malpensa un polo di traffico internazionale», si scrive nei verbali delle riunioni. Bisignani si dimette nel febbraio dell’anno successivo, e sulle poltrone di via della Magliana si siedono Renato Riverso e Roberto Schisano. Dopo otto mesi a Schisano vengono tolte le deleghe («Mi cacciano perché non ho padrini, rischio fallimento», dirà anche lui), e Riverso sale alla direzione.

Roberto Colaninno, presidente della Cordata aerea italiana Nel 1996 è stato nominato amministratore delegato di Olivetti. In quegli anni ha trasformato l’azienda da una società leader di computer in una holding di telecomunicazioni creando Infostrada e Omnitel. Attualmente è presidente del Gruppo Piaggio e di Immsi S.p.A., società quotata alla Borsa di Milano, che ha il 31,25% del capitale e il controllo della gestione di Piaggio. A destra, l’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa

meno il contratto di Air One». E da più parti si sussurra che forse dietro il no di Colaninno c’è qualcosa dietro: «Nonostante Colaninno abbia ribadito durante gli incontri la disponibilità ad investire oltre un miliardo, forse la crisi economica li ha convinti che non era il caso di rischiare, altrimenti sarebbe stato possibile presentare lo stesso l’offerta vincolante, rinviando il confronto con gli autonomi a una fase successiva». Secondo i confederali, insomma, il tavolo è stato fatto saltare di proposito, e in seguito ai problemi interni tra i soci, tra i quali molti non erano disposti a uno sforzo economico così grande in tempi grami.

E ora? Il fallimento comporta la messa a terra degli aerei, il licenziamento di tutto il personale e i libri in tribunale. Dal fallimento, ovviamente, un altro soggetto (Air FranceKlm o Lufthansa) potrà rilevare la compagnia a prezzo stracciato e decidere in piena autonomia, quanto dell’attuale personale riassumere e a quali condizioni.

Anche lui dura poco: tenta con Daniele De Giovanni, ancora un prodiano, una riorganizzazione e un accordo con British Airwas , prova a tagliare il personale. Via anche Riverso, nel marzo del 1996 diventa a.d. Domenico Cempella. «In mancanza d’ interventi decisi la società potrebbe non sopravvivere oltre il 1996». Il rimedio è una cura di cavallo: ci vogliono «Circa 3.200 dipendenti in meno nei prossimi tre anni, riduzione di costi per oltre 500 miliardi, altri 3 mila miliardi di ricapitalizzazione». Intanto, il bilancio 1998 chiude in attivo, con 80 lire di dividendo ad azione. Un evento che nei precedenti e nei successivi dieci anni non si ripeterà più. Si danno le azioni ai dipendenti, e alla fine dell’anno apre Malpensa tra le polemiche. La rivalità che nasce subito con Fiumicino, oltre agli aspetti politici, ha conseguenze gestionali ed economiche. Per il matrimonio con Klm arriva persino l’ok dell’Unione Europea, ed è storico: è la prima volta che l’esecutivo di Bruxelles approva un’alleanza nel settore del trasporto aereo. Il nuovo millennio si apre con un ritorno ai problemi. In programma c’è la privatizzazione entro giugno 2000, anche perché l’Iri deve finalmente andare in pensione dopo 60 anni di capitalismo di Stato. Alla fine di aprile quando Van Wijk dice basta e se ne va sbattendo la porta prima della prima notte di nozze. «Responsabile del fallimento è chiaramente il governo italiano, incapace di assicurare un futuro a Malpensa», dichiarano all’Ansa i vertici olandesi. È il 2001 l’anno cruciale. E inizia con le voci di dimissioni di Cempella. E’ Francesco Mengozzi il nuovo ad: ex Iri, Rai e Fs, il curriculum dice che è una scelta di continuità, men-

tre si insedia l’esecutivo Berlusconi. L’azienda è in rosso di 600 miliardi, e come mazzata finale arriva anche l’11 settembre, che fa strage delle compagnie aeree. Un’altra ricapitalizzazione arriva nel 2002 – 1,4 miliardi di euro, per metà di Mengozzi-bond – mentre la perdita dell’anno precedente ammonta a 900 milioni. Intanto, alla presidenza arriva un avvocato varesino leghista doc, Giuseppe Bonomi, che nelle intenzioni di Bossi e compagnia dovrebbe spingere Malpensa.

Invece arriva l’addio di Mengozzi, dopo che viene bocciato il suo piano industriale. Arriva Marco Zanichelli, appoggiato da An ma di origini prodiane. Tre mesi ed è giù fuori, e si porta dietro anche Bonomi. Al suo posto arriva Giancarlo Cimoli: “Accordo o fallimento”, “Rischio liquidazione” tuona nel tra giugno e settembre 2004: altro prestito-ponte, altro aumento di capitale, altra riorganizzazione societaria, altro piano-monstre di esuberi. Alla fine del 2005 sono 167 i milioni di rosso, mentre la compagnia è devastata dagli scioperi. Cambia il governo Cimoli, nel frattempo finisce nelle polemiche perché guadagna il doppio del suo pari grado in Lufthansa. Il governo Prodi decide per la privatizzazione, mentre all’inizio del 2007 decade il cda. A febbraio si presentano le cinque cordate in gara per le offerte non vincolanti: AirOne di Carlo Toto con IntesaSanpaolo; il fondo salva-imprese di Carlo De Benedetti M&C; Matlin Patterson Global Advisers; Texas Pacific Europe; Unicredit Banca Mobiliare. Mollano tutti, l’ultimo a farlo è Air One a luglio, mentre Libonati, nominato per gestire la privatizzazione, lascia, e Maurizio Prato diventa presidente e vara un piano di sopravvivenza con esuberi, tagli di voli e ridimensionamento di Malpensa. A dicembre il cda sceglie Air France-Klm per la trattativa in esclusiva per la cessione del 49,9% del Tesoro. La trattativa con i sindacati fallisce in piena campagna elettorale, mentre Berlusconi chiede che Alitalia resti italiana e promuove il progetto di una cordata tricolore. A fine aprile il governo uscente concede un prestito ponte da 300 milioni di euro per mantenere in vita la compagnia, mentre la Ue apre un’indagine e Intesa San Paolo viene nominata adviser. Ad agosto nasce la newco con i primi 16 soci, per dare vita alla Compagnia Aerea Italiana. Rocco Sabelli è l’a.d. Il Cdm vara modifica la legge Marzano e arriva il commissario Augusto Fantozzi. Inizia la trattativa con i sindacati, che si ferma a metà settembre. Alla fine i sindacati firmano il nuovo accordo quadro, e a metà ottobre arriva l’ok dalla Camera al decreto per il salvataggio. Nel frattempo però scoppiano nuove liti tra (a.d’a.) Cai e sindacati. Ieri l’epilogo.

Dalla modifica della legge Marzano al prestito ponte di 300 milioni di euro: non sono serviti a nulla


politica

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Istruzione. Il governo vuole tagliare 133 milioni alle paritarie. I cattolici: «Dov’è finita la libertà di educare?»

L’altro colpo di Stato sulla scuola di Francesco Rositano n colpo di forbici. E le scuole paritarie si sono ritrovate con 133 milioni di euro in meno per il prossimo anno e con le spalle al muro. Il quadro dunque è buio: infatti o aumentano ancora le rette agli studenti o sono costrette a chiudere. Il disegno di legge di Bilancio attualmente all’esame della Commissione Bilancio della Camera in coppia con il ddl finanziaria, infatti, riduce i fondi previsti per questa voce di spesa da 535 milioni del 2008 a 401,9 per il 2009. E nei due anni successivi, essi sono ancora destinati a diminuire: nel 2010 sono pari a 406 e nel 2011 a 312 milioni.

U

Il mondo cattolico,storica fucina di scuole e istituti di formazione, che ora rischiano di chiudere, chiede al governo di ripensarci. Al loro fianco i deputati Udc - Antonio De Poli, Amedeo Ciccanti e Gian Luca

minimi. Le scuole non statali sono da sempre impegnate a promuovere l’educazione del bambino, secondo una visione cristiana dell’uomo, del mondo e della vita. Ma siamo convinti che per rendere la scuola cattolica strumento educativo nel

Cominelli: «Assistiamo a un drammatico paradosso: un esecutivo di centrodestra fa politiche stataliste, mentre l’unico ad approvare una legge sulla parità scolastica è stato il comunista Luigi Berlinguer» Galletti - che hanno presentato un emendamento alla Finanziaria chiedendo un aumento dei fondi destinati alle scuole paritarie. «L’Udc è da sempre attenta - hanno spiegato - alla rete dei servizi all’infanzia. Una rete che però oggi sta vivendo una crisi profonda, perché i contributi pubblici sono

mondo di oggi occorra rafforzare alcune sue caratteristiche fondamentali e sostenerla anche con contributi economici». Preoccupazione per questa manovra del governo è stata espressa anche da monsignor Rino Fisichella, rettore dell’Università Lateranense che, inaugurando l’anno accademi-

co, si è soffermato sul ruolo di questi istituti che - ha sottolineato - «sono una ricchezza e non un peso per lo Stato». Una ricchezza, anche in senso letterale, secondo Giovanni Cominelli, responsabile del Dipartimento Sistemi educativi della Fondazione per la Sussidiarità, realtà legata al movimento di Comunione e Liberazione, che ha definito i tagli alle paritarie sbagliate sia da punto di vista contabile («le scuole paritarie fanno risparmiare al governo miliari di euro») che da quello dei principi che vengono violati: primo fra tutti la libertà d’educazione. E ha aggiunto: «Assistiamo, infatti, a uno strano paradosso: quello che un governo liberale stia di fatto favorendo il monopolio dello Stato sulla gestione degli istituti scolastici. Questo proprio non lo capisco. Avrebbe senso infatti

se una tale scelta di stampo evidentestatalista mente fosse stata fatta dalla sinistra o del centro-sinistra. Ma dal centro-destra proprio non mi sembra logico. Ma c’è un’altra cosa che dovrebbe far riflettere: possibile che l’unico a pensare ad una legge sulla parità scolastica sia stato Luigi Berlinguer, ministro comunista? Ed è assurdo che due governi di centro-destra, quello del 2001-2006 e quello odierno non siano riusciti a far diventare la parità giuridica anche parità economica».

Don Bruno Bordignon, sacerdote salesiano, e coordinatore delle Scuole Salesiane d’Italia, grande difensore della libertà educativa, questa riforma proprio non l’approva. «Essa dimostra - afferma - che nel nostro Paese vige lo statalismo. Possibile che le famiglie non abbiano il diritto di scegliere la scuola che ritengono più opportuna per i propri figli, senza doverle pagarla due volte? Infatti, su di loro non solo grava il peso delle tasse ma anche quello delle rette che, allo stato attuale, rischiano ancora di aumentare». Quale dunque la via d’uscita: «Una sola: la trasformazione delle scuole in Fondazioni».

Polemiche. L’esponente del Pdl Mario Mauro contro i tagli agli istituti pubblici non statali

«Caro Silvio, abbiamo fatto un autogol» ROMA. «Nessuna delle persone che nei

di Riccardo Paradisi

giorni scorsi hanno partecipato alle manifestazioni anti-governo e anti-Gelmini intonando slogan in favore della non libertà di educazione sa di aver manifestato contro tagli che colpiscono esattamente il loro bersaglio preferito: la scuola libera». Parole di Mario Mauro, esponente del Pdl e vicepresidente del Parlamento europeo, da sempre attento ai temi della libertà di insegnamento e a diritti delle scuole pubbliche non statali. Parole già scritte sulla rivista online Sussidiario.it due giorni fa: «È da questo mio allarme che la Cei e il quotidiano Avvenire hanno raccolto e rilanciato l’allarme sul taglio alle scuole non statali». Dunque presidente Mauro le forbici del governo vanno a tagliare anche i fondi alle scuole non statali. Lo stanziamento previsto per il 2009 per

le scuole paritarie viene ridotto di oltre 133 milioni di euro, con un taglio del 25%. Nei due anni successivi la cifra viene tagliata ancora drasticamente di altri 94 milioni di euro. Un ulteriore taglio di quasi il 25%. In quattro anni dal (2008 al 2011) la cifra investita dallo stato per le scuole paritarie viene dunque tagliata in totale di oltre il 40%. Un errore. Perché? Perché è un taglio che ricadrà esclusivamente sulle famiglie che scelgono la scuola paritaria, indebolendo fortemente la libertà di educazione nel nostro Paese. E appare tanto più paradossale e preoccupante di fronte al fatto che nel “Bilancio di previsione dello Stato per il 2009” la spesa complessiva riguardo il funzionamento dell’istruzione viene aumentata

di 656milioni di euro, con un forte aumento delle spese per l’istruzione primaria, secondaria di primo e di secondo grado. Ma dopo le sue osservazioni quali sono state le reazioni all’interno della maggioranza? Berlusconi stesso è rimasto stupito di quello che è avvenuto. Però ha già detto che all’interno della Finanziaria ci sono “margini di correzione”. Quali? Il modo per correggere l’errore c’è. Anzi, ce ne sono due: o approvando l’emendamento dell’onorevole Toccafondi che è stato firmato anche da altri trenta deputati della maggioranza, nel quale si prevede il reintegro dei fondi tagliati, o con un maxiemendamento del governo che appone fiducia alla legge finanziaria e alla legge di bilancio di previsione.

in breve Scontri a piazza Navona avviati dai collettivi Per il governo, l’operato delle forze dell’ordine in quel frangente è stato «ispirato a criteri di equilibrio e prudenza, cercando di tutelare la libertà di espressione e la sicurezza e l’incolumità pubblica». Il sottosegretario all’Interno, Francesco Nitto Palma, ha voluto precisare che gli «scontri più duri a piazza Navona sono stati avviati da un gruppo di circa 400-500 giovani dei collettivi universitari e della sinistra antagonista» e che gli agenti non sono intervenuti direttamente a piazza Navona durante i primi momenti di tensione tra «rossi» e «neri» per evitare di acuire le ostilità.

Napolitano riceverà gli studenti Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano interviene nella protesta che da settimane vede protagonisti gli studenti e gli insegnanti: all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, Napolitano ha detto che riceverà «una rappresentanza degli studenti che mi esporrà più ampiamente le loro posizioni».

Strage di Bologna: i Pm sentono Cossiga Il senatore a vita Francesco Cossiga, è stato ascoltato dalla Procura di Roma, dai pm di Bologna che indagano sull strage avvenuta nel capoluogo emiliano il 2 agosto del 1980. Secondo quanto si è appreso, l’audizione è dovuta ad alcune dichiarazioni rese di recente dal presidente emerito della Repubblica. Cossiga era presidente del Consiglio all’epoca dei fatti.

Gasparri, necessario difendere i redditi «Difendere il potere d’acquisto delle famiglie è in questa fase una priorità. Il centrodestra lo ha già fatto con l’abolizione dell’Ici, con la detassazione degli straordinari. Ora la necessità è varare altre misure reali che abbiano copertura economica e che servano a difendere il reddito degli italiani e fronteggiare una crisi economica». Lo ha dichiarato il presidente del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri.


politica

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Dietro le quinte. Il premier e il ministro divisi sul controllo delle banche e sul federalismo

Gelo tra Berlusconi e Tremonti di Franco Insardà segue dalla prima A quel punto sembra che sia sceso in campo il Cavaliere mugugnando: «Ma ce l’ha sempre con quelli che stanno a Palazzo Koch». L’attacco di Tremonti a Draghi fallì, ma il ministro dopo qualche giorno, giovedì 9 ottobre, alla Camera nel corso dell’informativa del governo sulla crisi dei mercati finanziari si toglie un sassolino dalla scarpa: «Via la norma salvamanager o via io». Un’uscita che costrinse Berlusconi a dire che di quell’emendamento inserto nel decreto Alitalia: «non ero assolutamente a conoscenza, non l’ho visto, è una cosa che non esiste e comunque Tremonti mi ha assicurato di averla tolta».

La lotta di Giulio Tremonti contro i governatori di Bankitalia ha origini antiche. Iniziò quando a via Nazionale c’era Antonio Fazio. In quella vicenda il ministro fu costretto alle dimissioni, salvo poi prendersi la soddisfazione che il Gover-

Tutto è cominciato quando il Cavaliere ha bloccato la preparazione di un decreto con il quale il titolare di via XX settembre voleva imbrigliare il governatore di Bankitalia

natore fu costretto ad andare via e lui è ritornato di nuovo in sella in via XX settembre. Ma questa è un’altra storia. Con Mario Draghi, nominato dal centrodestra, Tremonti ha ini-

ziato un vero e proprio braccio di ferro. Alla base del contendere c’è chi dei due debba rappresentare l’Italia a livello internazionale. L’ultimo scontro sulle misure per arginare la cri-

Terza Repubblica? Torna Licio Gelli (anche in tv) e spara a tutto campo

«Dopo di me? Solo Berlusconi può proseguire il Piano»

si bancaria: il ministro ha tentato di far contare di più lo Stato nelle banche con il governatore impegnato a difendere il sistema e il suo potere. La versione originaria, preparata da Tremonti, è stata via via smantellata da via Nazionale. Il Tesoro ha dovuto fare marcia indietro sull’ingresso dello Stato nei cda delle banche, sulla possibilità di rimuovere i manager poco rigorosi e - a quanto pare sull’obbligo di portare il Tier1 e ratio sulla patrimonializzazione sopra l’8 per cento. Non a caso ieri l’inquilino di via XX settembre ha detto che gli interventi statali ci saranno solo «se richiesto dalle banche». Una marcia indietro non da poco. La cosa ufficialmente è passata come voler tutelare l’indipendenza delle banche, in pratica si è trattato di conservare da parte di Bankitalia il potere di controllo su tutto il sistema. Draghi è diventato ancora più determinante nel sistema bancario perché sarà quello che dovrà trattare per evitare che queste diventino ostaggio del potere politico. Insomma questa volta ”l’aggrottar di ciglie del Governatore” non si è rivolto contro le banche, ma contro il ministro dell’Economia. Ieri, comunque, Mario Draghi alla 84esima Giornata mondiale del risparmio si è ritrovato sulla stessa linea del ministro Tremonti sulla gestione della crisi: «In base alle previsioni ha detto il governatore - la stagnazione in atto proseguirà almeno fino a metà del prossimo anno».

di Susanna Turco

ROMA. La crisi è profonda, l’Onda della protesta è liquida, e così, tra il lusco e il brusco di un Paese appena appena smarrito tra crolli di Borsa e di certezze ricompare la Prima Repubblica. La sua ombra più profonda. Come fosse sempre restata lì. Oplà. Licio Gelli, per esempio. Il Gran Maestro della loggia P2. Che oggi rimpiange di non aver mai potuto registrare alla Siae il piano di Rinascita democratica («non fu possibile depositare i diritti»). Che domani sarà interpretato per il grande schermo da George Clooney. Che ieri pomeriggio a Firenze, durante la conferenza stampa di presentazione di “Venerabile Italia”, trasmissione di Odeon Tv dedicata alla sua vita (e già sulla circostanza ci sarebbe da riflettere), nello sbigottimento generale ha spiegato un paio di cose davvero interessanti. La prima è che, senza dubbio alcuno, per l’attuazione del Piano di Rinascita della P2, oggi, «l’unico che può andare avanti è Berlusconi». Gianfranco Fini no, una

delusione: «Avevo molta fiducia in lui perché aveva avuto un grande maestro, Giorgio Almirante: oggi non sono più dello stesso avviso, perché ha cambiato». In cosa non lo dice, ma si intuisce. E non ci resta che Silvio: «È l’unico: non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare». Anche se certo, non si sa di quale Berlusconi parli. Spiega infatti Gelli che il lodo Alfano è sbagliato, perché dovrebbe essere superfluo: «L’immunità andrebbe esclusa, al governo dovrebbero andare persone senza macchia, e che non si macchiano mai». Ma non è certo questo che si rimprovera al Cavaliere. L’essere un sincero democratico, invece, sì: «Non condivido il governo perché se uno ha la maggioranza deve usarla, senza interessarsi della minoranza. Bisogna affondare il bisturi, o non si può guarire il malato». E quindi bene la riforma Gelmini, col maestro unico e i grembiulini: «Ripristina un po’di ordine». Male, invece, la protesta di piazza: «Le manifestazioni non ci dovrebbero essere, gli studenti dovrebbero stare in aula a studiare». Ci dovrebbe stare pure l’opposizione: «La minoranza non deve scendere in piazza, non deve fare assenteismo». E i poteri forti? «Se oggi ce n’è uno è la magistratura, perché quando sbaglia non è previsto il risarcimento del danno». Ma in realtà, «in Italia poteri forti non ce ne sono e non ce ne sono mai stati». E se lo dice Licio Gelli puoi crederci, no?

L’altra partita che si sta giocando in questi giorni sempre intorno al pacchetto di aiuti alle banche è il reperimento dei fondi, probabilmente a discapito dei fondi previsti per il federalismo fscale. In un momento di difficoltà e di tagli Tremonti ha dovuto ingoiare un rospo non da poco. Il regalo glielo ha portato Silvio Berlusconi dopo aver partecipato al G4 di Parigi. Il capitolo federalismo fiscale sta molto a cuore al ministro dell’Economia che ha tra i leghisti i suoi principali sostenitori. Ulteriori slittamenti della riforma non sono assolutamente graditi dal popolo padano e dai suoi leader, come hanno esplicitamente dichiarato nelle scorse settimane. Giulio Tremonti, quindi, non vuole scontentare Umberto Bossi e gli altri del Carroccio, perché li ritiene alleati preziosi per il suo futuro politico, come successore di Silvio Berlusconi alla guida del centrodestra.


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Fan scomodi. Quello di Osama è un bacio avvelenato, quasi ignorato dalla grande stampa Usa. Anche da quella repubblicana

Per chi vota al Qaeda? L’appoggio espresso dal gruppo terroristico a Obama è solo un tentativo di recuperare credibilità di Justo Lacunza Balda on solo bombe. Al Qaeda cerca di entrare anche nella battaglia politica americana. Con il video di Abu Yahya al-Libi, uno dei caporoni dell’organizzazione terrorista di Osama bin Laden, chiede ad Allah la “condanna” del Presidente Bush e del partito repubblicano. In altre parole, si schiera – anche se il suo nome non è mai pronunciato – con Barack Obama contro John McCain. È un bacio avvelenato, naturalmente. Tanto che in America l’ultima uscita mediatica qaedista non ha trovato molto spazio sui media e, tantomeno, è stata sfruttata dai due sfidanti perché sulla lotta al terrorismo tutti sono d’accordo. Ma al Qaeda non lo sperava nemmeno. Il suo obiettivo è un altro: è la scena mondiale, e quella islamica prima di tutto. La guerra contro il terrorismo islamico non è stata ancora vinta e non lo sarà certamente prima della scadenza del mandato presidenziale di Geroge W. Bush. Mentre i talebani continuano a guadagnare terreno in Afghanistan, l’influenza dei nuovi leader qaedisti penetra in molti Paesi del mondo musulmano. Con una particolarità: la sottolineatura della componente antiamericana come ingrediente fondamentale nella diffusione dell’islam politico e integralista.

N

che il sentimento antiamericano non è stato inventato dallo sceiccco del terrore. La storia dell’Afghanistan ci mostra che l’islamismo radicale di Khomeini non piaceva ai sovietici che cercarono di impedire la sua influenza. Alla fine i sovietici decisero di invadere il terri-

torio afgano perché temevano che la rivoluzione khomeinista s’infiltrasse in tutta l’Asia centrale che faceva parte, all’epoca, dell’Urss.

È allora che nacque al Qaeda per reclutare e addestrare i combattenti della guerriglia afgana. Fu l’inizio del movimento antisovietico trasformato in formazione antiamericana dopo la Seconda Guerra

Sulla lotta al terrorismo sono tutti d’accordo e la “dichiarazione di voto” è rivolta al mondo islamico, non agli Usa

Per questo al Qaeda non poteva mancare l’appuntamento alla conclusione della campagna presidenziale americana. Al Qaeda doveva condannare Bush e i repubblicani per avere credibilità presso le cellule islamiste sparse in tutto il mondo. In questo al-Qaeda si comporta come i sostenitori della rivoluzione islamica mondiale tante volte proclamata dall’ayatollah Khomeini. Definire e presentare il potere americano como il piano di azione del Grande Satana è parte essenziale del discorso islamista. Se è vero che il movimento di Bin Laden ha rafforzato il suo marchio con le bombe, gli attentati e le minacce agli americani, ai cristiani e agli ebrei, è vero ugualmente

L’attacco alle Torri Gemelle effettuato da al Qaeda l’11 settembre del 2001, che ha scatenato la guerra al terrore da parte degli Stati Uniti. In basso, Osama bin Laden

Nella terra in cui Bush fu governatore trionfa McCain. È in vantaggio di 11 punti

E i texani bocciano Barack: è musulmano C’è una convinzione che li terrorizza: il fatto che Barack Obama sia musulmano. Così il Texas si tuffa in massa sul candidato repubblicano John McCain, che secondo un recente sondaggio sarebbe avanti ad Obama di ben 11 punti. Il Texas comuque è per tradizione un feudo dei repubblicani. Non è un caso che tra i suoi governatori annoveri l’attuale presidente degli Stati Uniti George Bush, che a suo tempo fu eletto con una valanga di voti: il 70% delle preferenze. Nel frattempo continua la guerra dei sondaggi. Per ora l’unica cosa certa è che gli indecisi siano uno su sette: tradotto in percentuali vuol dire che il 14% degli americani non ha ancora deciso per chi votare. Il favorito comunque resta Barack. A tranquillizzare il candidato democratico sono gli altri rilevamenti di giornata. Secondo l’ultimo sondaggio New York Times/Cbs, Obama mantiene un vantaggio a livello nazionale del 51 %: undici punti in più rispetto al candidato repubblicano John McCain, fermo al 40 %. Quest’ultimo è penalizzato dal fatto che il 59 % degli ameri-

cani sono convinti che la sua vice Sarah Palin - oggi impegnata in Pennsylvania - non è preparata a fare la numero due degli Usa. Un terzo degli elettori afferma che la scelta del vice sarà un fattore importante al momento del voto: questi elettori sono in grande maggioranza per Obama. Il candidato democratico è avvantaggiato anche dalla crisi finanziaria e dalla percezione avvertita dall’85% degli americani che il Paese «sta andando nella direzione sbagliata». Per rovesciare i pronostici McCain farà campagna elettorale in Ohio insieme al governatore della California, Arnold Schwarzenegger: l’unica star a scendere in campo per lui, oltre alla mascotte ”Joe l’idraulico”, costretto dall’improvvisa fama ad assoldare un pierre. McCain appare sempre più oscurato da Obama e dal suo entourage stellare di Vip che percorrono in lungo e in largo l’America per farlo eleggere. Da Hillary e Bill Clinton a Caroline Kennedy e da Sarah Jessica Parker (mobilitatasi in una «caccia ai voti» telefonica) al premio Nobel Al Gore.

del Golfo nel 1990, cioè dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Da allora, Osama bin Laden si è fatto il portavoce dell’antiamericanismo nel nome dell’islam. E questo per due ragioni: la prima per raccogliere l’eredità di Khomeini, morto nel 1989, che aveva dichiarato in numerose occasioni “morte al Grande Satana” e la seconda perché le truppe americane si sono posizionate con loro basi anche in territorio saudita che è considerato la terra dell’Islam vietata ad ogni forma di culto che non sia quello musulmano.

Il resto della storia di al Qaeda lo conosciamo già fino al suo acme di violenza e di odio antiamericano con l’eccidio delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. E, non dimentichiamolo, con gli attentati di Madrid (alla vigilia di un altro appuntamento elettorale) e di Londra. Adesso i qaedisti hanno voluto dare a loro modo il “ben servito” al


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Candidati. Chi occupa la Casa Bianca è mosso da interessi nazionali, non personali

Esteri: decide il Paese, non il presidente di Renzo Foa i fronte al video con cui l’ideologo della rete di Bin Laden, Abu Yahya Al Libi, ha espresso implicitamente l’auspicio di un successo di Barack Obama nelle elezioni presidenziali di martedì prossimo, invocando Dio di umiliare «Bush e i suoi», non è certo difficile pensare che l’esito di questo intervento sia assai diverso da quello dichiarato dallo stretto collaboratore di Osama bin Laden. Del resto non è una novità. È un meccanismo che si è sempre ripetuto in passato, anche all’epoca del rapporto bipolare Usa-Urss: ogni volta che si trattava di eleggere un presidente c’erano prese di posizione più o meno ufficiali a favore di questo o quel candidato, prese di posizione che però non solo non avevano alcuna incidenza sulle scelte della pubblica opinione, ma spesso venivano poi smentite dal comportamento dell’eletto. Basti pensare a un caso per tutti, quello del democratico Jimmy Carter, che affrontò a viso aperto l’Unione sovietica brezneviana, esat-

D

tamente come avrebbe fatto il suo avversario Gerald Ford. L’errore dei «nemici dell’America» - una volta si trattava del blocco orientale, oggi degli Stati canaglia e della rete del terrore - consiste infatti nel pensare che le scelte di un inquilino della Casa Bianca siano determinate da convinzioni personali - o dalle prese di posizione politiche espresse durante la campagna - e non dalla difesa degli interessi nazionali del Paese. Queste scelte possono certamente variare per intensità o per tempestività, ma è difficile pensare che possano essere molto diverse. Ad esempio, se ci si chiede come avrebbe reagito Bill Clinton all’attacco dell’11 settembre, non è sbagliata la risposta di chi ritiene che si sarebbe mosso, sia verso l’Afghanistan che poi verso l’Iraq, nello stesso modo in cui si è effettivamente mosso George W. Bush.

Carter affrontò a viso aperto l’Unione sovietica di Breznev. Esattamente come avrebbe fatto il suo avversario Ford

Se ci si deve poi occupare di Barack Obama e di John McCain non è davvero facile trovare differenze abissali nel loro approccio verso le grandi scelte di politica

internazionale. Sul ritiro dall’Iraq le differenze non sono consistenti, come non lo sono di fronte alla spinosa partita afghana, mentre se c’è una caratteristica comune di entrambi i candidati come osservava su queste colonne proprio ieri Mario Arpino - è quella di sottovalutare la minaccia della rete fondamentalista di al Qaeda.

Credo quindi che le preferenze espresse nelle ultime settimane da tutti i «nemici dell’America» nei confronti di Obama siano frutto di un vero abbaglio: cioè la speranza che una svolta rispetto all’era di George W. Bush rappresenti un capovolgimento radicale della politica estera degli Stati Uniti. Si tratta di un errore in cui molti sono già incorsi in passato e da cui si stenta a trarre delle vere e proprie lezioni. Le scelte della grande potenza americana, la massima ancora esistente sul pianeta, seguono ormai da decenni una vera e propria linea di continuità che non dipende solo dalle scelte dei singoli presidenti, prima di Ronald Reagan, poi di Bush padre, poi ancora di Bill Clinton e infine di Bush figlio, ma dalle condizioni in cui si trovano gli Stati Uniti nel loro rapporto con il mondo.

Accuse. Il candidato democratico avrebbe beneficiato di fondi provenienti dal regime di Hussein

Villa di Obama, soldi di Saddam di Daniel Pipes

presidente Bush che ha lanciato la campagna mondiale per dare la caccia a Bin Laden. E vogliono far sapere che la guerra, anzi la jihad islamica, continua senza sosta. Così viene rinnovata la “dichiarazione di guerra” contro gli americani, i crociati e gli ebrei, firmata da Osama il 23 febbraio 1998. Un testo che è diventato la bussola di tutte le cellule islamiste che, dall’Africa all’Asia, dall’America all’Europa, sono sintonizzate con le onde della jihad e con i suoi programmi di combatiere gli infedeli. La condanna dei repubblicani non significa, però, che Abu Yahya al-Libi e compagni siano disposti a dialogare con Barack Obama. Anzi, è un avvertimento anche per lui. Perché nella visione di al Qaeda, come in quella della rivoluzione islamica, alimentare la guerra contro l’Occidente è compito intrinseco e neccessario alla propagazione dell’Islam nel mondo. Chiunque ci sia dall’altra parte.

arack Obama sembra aver personalmente beneficiato dei fondi provenienti dal regime di Saddam Hussein. È un nesso complicato, ma che merita attenzione. Due personaggi simili, Nadhmi Auchi e Antoin S.“Tony”Rezko, hanno agito da intermediari. Entrambi sono due mediorientali di origine cristiano-cattolica che hanno abbandonato i regimi baathisti per delle città occidentali (Auchi ha lasciato l’Iraq per trasferirsi a Londra e Rezko ha lasciato la Siria per Chicago). Entrambi sono diventati uomini d’affari di successo che hanno frequentato politici e promosso gli interessi arabi.Tutti e due sono stati giudicati colpevoli di aver preso tangenti e ambedue accusati di altri affari loschi. Auchi, nato nel 1937, è il più brillante. Da giovane, si unì a Saddam nel Partito Baath. Nel 1979, fondò il suo principale strumento finanziario, il General Mediterranean Holding, oggi un gruppo eterogeneo costituito da 120 società commerciali con un consolidato patrimonio di oltre 4,2 miliardi di dollari. Per il Sunday Times è il 27° uomo più ricco della Gran Bretagna. Passiamo al lato oscuro. Nel 2003, un tribunale francese giudicò Auchi colpevole di aver preso tangenti nell’affare Elf e lo condannò alla reclusione con sospensione

B

della pena e al pagamento di un’ammenda. Sempre nel 2003, una delle imprese di Auchi fu accusata di aver preso parte a un cartello per influenzare la determinazione dei prezzi dei farmaci. Nel 2004, un rapporto del Pentagono rinvenne “significative e credibili prove” che Auchi organizzò un complotto volto a offrire bustarelle al fine di ottenere licenze per la telefonia mobile in Iraq. Nel 2005, gli fu impedito di entrare negli Stati Uniti. Rezko, nato nel 1955, arrivò negli Usa nel 1974. Con l’aiuto di Auchi si è lanciato nel settore alimentare dei fast-food e poi in quello immobiliare. Anche Rezko ha avuto notevoli problemi legali, e contrariamente alla ricchezza di Auchi, pare che abbia oltre 50 milioni di dollari di debiti.

for-Food. 2. Auchi ha utilizzato Rezko per rientrare negli Usa. Il 23 maggio 2005, la Fintrade Service Inc., una consociata del GMHSA, gli ha “prestato” 3,5 milioni di dollari. 3. Rezko è amico di Obama. E nel 2003, dopo averlo assunto per una consulenza giuridica, si occupò di una raccolta fondi che, come scrive David Mendell in Obama: From Promise to Power, si rivelò essere “un contributo decisivo per la sua campagna elettorale al Senato. Poi, il 15 giugno 2005, ventitré giorni dopo aver ricevuto i 3,5 milioni di dollari di Auchi, Rezko divenne socio di Obama in un contratto immobiliare: se la moglie di Rezko pagò al prezzo intero di domanda di 625mila dollari un lotto vuoto di terreno confinante che in seguito fu bonificato, suddiviso e venduto in parte ad Obama, quest’ultimo acquistò una villa per 1,65 milioni di dollari, 300mila dollari al di sotto del prezzo originario di domanda.Ricapitolando, l’acquisto della casa di Obama è dipeso dai favori di Rezko, prodigo di un “prestito” ottenuto da Auchi, la cui fortuna proveniva in parte dai favori di Saddam Hussein.

Gli intermediari dello strano passaggio di denaro sarebbero Nadhmi Auchi e Rezko. Entrambi condannati per corruzione

In tre passi, questi uomini d’affari corrotti collegano il candidato presidenziale del Partito democratico al tiranno iracheno giustiziato: 1. Saddam Hussein ha utilizzato Auchi e la fortuna di quest’ultimo è cresciuta grazie ai suoi legami con il governo iracheno. Auchi è altresì un importante azionista di BNP Paribas, la banca francese strettamente implicata nel corrotto Programma delle Nazioni Uniti per l’Iraq Oil-


panorama

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Celebrazioni. Perché il 4 novembre del 1918 è la data fondativa per il nostro Paese

L’Italia ritrovata. Novant’anni dopo di Aldo G. Ricci n un Paese, stando alle dichiarazioni ufficiali, alla ricerca di una memoria ‘condivisa’, espressione ambigua che spesso nasconde l’intenzione di optare per una memoria cancellata, dove le differenze finiscono per sparire in nome di una visione ecumenica e buonista, il 4 novembre, data della fine della Prima guerra mondiale sul fronte italiano, rappresenta un’occasione unica e irripetibile per recuperare nella sua integrità una festa nella quale tutti possono riconoscersi, nonostante le differenze ideali e ideologiche, e il tempo trascorso.

I

L’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale avviene in modo confuso e contraddittorio. Il carteggio Sonnino-Salandra (ministro degli Esteri e Capo del governo nel 1915), più volte pubblicato, conferma le oscillazioni che precedono il Patto di Londra, della primavera del 1915, con cui l’Italia s’impegna a entrare in guerra. La contrarietà della maggioranza del Parlamento e del suo massimo espo-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

nente, Giovanni Giolitti, alla guerra è nota, così come è noto il suo passo indietro per non compromettere la Corona, che si era impegnata nel Patto di Londra. Al di là delle minoranze interventiste, anche la maggioranza del paese è schierata per la pace, e non potrebbe essere diversamente: altri sono i popoli

vece la caratteristica del conflitto: una caratteristica frutto largamente di necessità e di cogenza, ma destinata con il tempo a perdere queste caratteristiche coercitive a favore di una partecipazione prevalentemente attiva e volontaria. Nella breve vita dello Stato unitario la Prima guerra mondiale rappresenta il

La Prima guerra mondiale è stata davvero l’ultimo atto dell’Indipendenza: lo dimostra la grande partecipazione popolare ai destini del conflitto radicalmente nazionalisti che sfilano per la guerra. Inoltre, l’Italia, secondo un copione già noto e destinato a ripetersi, si presenta all’appuntamento in uno stato di profonda impreparazione. Ma… Ma, nonostante tutto questo, il conflitto cambia di segno nel corso degli anni che seguiranno e con esso il Paese. Con il passare dei mesi la guerra diventa per davvero la quarta guerra d’Indipendenza, come verrà poi definita. Quella componente di massa che era mancata in molti passaggi del processo di unificazione diventa in-

momento di massima coesione nazionale, sotto il profilo morale, politico e pratico.

Una coesione che coinvolge per la prima ( e forse ultima volta) trasversalmente tutti gli strati sociali e tutte le regioni del Paese, a un livello che non ha paragone con nessun altro momento precedente e successivo della vita nazionale. Non bastano certo i mezzi coercitivi a spiegare come sia stato possibile tenere per quattro anni milioni di uomini in quelle trincee e altri milioni di donne e uomini impe-

gnati nelle nuove catene di montaggio e nei campi in un gigantesco sforzo per sostenere l’impegno militare del Paese. Era necessario un forte e inequivocabile senso di identità nazionale, la coscienza dell’importanza vitale della battaglia in corso, il senso preciso dell’ora drammatica che il Paese stava vivendo, impegnato in un conflitto epocale con il nemico che tradizionalmente si era opposto al processo unitario. Caporetto, da questo punto di vista, rappresenta una linea di confine, dalla quale si poteva precipitare nel baratro, come avvenne per la Russia negli stessi mesi, o riemergere con una reazione corale, quale quella che si determinò in Italia. Dunque, la Prima guerra mondiale segna la fine della vecchia Europa e l’inizio di quella lunga guerra civile europea (per dirla con Nolte) che si conclude (forse) con l’89 e il crollo del comunismo, ma che ancora non si configura come un nuovo assetto sovranazionale coeso e vitale. Di qui la necessità di recuperare nel suo significato identitario una festa legata al momento di massima coesione nazionale.

Il dramma di una città derubata dalla politica e che non trova pace

Così Bassolino s’è venduto il Vesuvio i può rubare anche il Vesuvio. Basta un po’ di organizzazione, una ditta di estrazioni, un amico che chiude un occhio, magari due, e vi portate a casa lo “sterminator Vesevo”. In due anni, due fratelli ben affiatati che hanno una ditta con sei autocarri, due pale meccaniche, un martellone oleopneumatico che veniva usato dagli operai per provocare le frane, sono riusciti nell’impresa di distruggere diecimila metri quadrati di territorio del Parco nazionale del Vesuvio. Pezzo dopo pezzo, hanno portato via l’intoccabile pietra lavica che è finita a Castellamare di Stabia dove è stato costruito un molo del porto. Il Vesuvio è stato utilizzato per costruire una parte del moderno porto di Castellamare. Tutti credevano o facevano finta di credere, per ben due anni, che la pietra lavica venisse dalla Sicilia, estratta legalmente dall’altro vulcano: l’Etna. Invece, era il Vesuvio che, a sua insaputa, forniva la preziosa pietra: centocinquantamila metri cubi. Quando due ditte che fornivano la pietra lavica etnea si sono insospettite, hanno verificato e hanno scoperto la truffa vesuviana, allora, la Procura della Repubblica di Nola è intervenuta evitando che tutto il Vesuvio si spostasse a valle.

S

La truffa, l’inganno, il pacco a Napoli sono all’ordine del giorno. La vendita delle vere false pietre del Vulcano non è una novità. Roba da Tototruffa con connessa vendita della Fontana di Trevi. Ma nessuno aveva pensato di provocare frane al costone vulcanico e trasportare pezzo pezzo la pietra lavica. La rivoluzione immaginata da Antonio Bassolino - non a caso celebrata nei suoi anni migliori nel film I vesuviani è finita in una pulcinellata. «Insegnerò ai napoletani a rispettare il rosso ai semafori» proclamava Bassolino dopo aver inventato con la sua corte di intellettuali il Rinascimento napoletano mettendo il divieto di sosta in Piazza del Plebiscito. A quel tempo il sindaco non era sotto processo e non aveva ancora l’abitudine di ritirarsi ogni tanto nella tenuta di Farneta, frazione di Cortona, nel bel casale messogli a

disposizione dal suo amico e compagno di partito Giuseppe Petrella. Altri tempi. Napoli rinasceva e nessuno poteva immaginare che qualcuno avrebbe mai potuto rubare il Vesuvio. Che “scuorno” - vergogna - sento dire a Francesco Durante, autore dell’omonimo libro Scuorno (Mondadori). Sempre che ci sia questo sentimento di pudore. Forse hanno rubato anche la vergogna. I napoletani non arrossiscono perché sono il popolo della tarantella e «chillo ‘o fatt’ è niro niro». Ma la borghesia? La borghesia napoletana è in vacanza. Che cosa sarà mai, poi, questa strana cosa che si chiama “borghesia napoletana”? Prendo in prestito la definizione da Durante: «Con buona approssimazione, è un Suv parcheggiato in terza fila, con l’autoradio a tutto volume che diffonde una canzone di Gianluca Capozzi». Ognuno cerca di

rubare qualche cosa alla città - mi sembra di sentire Domenico Rea - invece di darle qualche cosa perché sia la patria comune. Così anche il Vesuvio si può rubare. Ma non è mica una storia nuova.

Gesù, fate luce, direbbe Domenico Rea. In una delle sue tante descrizioni di Napoli e dintorni, l’autore di Spaccanapoli parla di una Napoli come di una «metropoli in cui ciascun abitante si sentiva straniero rispetto a tutti gli altri». Napoli accoglie tutti e ti fa sentire a casa, ma sa anche essere inospitale: è la città di tutti, ma anche la città di nessuno. «La cosa più straordinaria da cui sono stato colpito è stata questa», diceva Rea nel lontano 1960 in una raccolta di suoi scritti giornalistici, «mi è sembrato di scorgere che ciascuno cercasse di rubare qualche cosa alla città invece di darle qualche cosa perché divenisse la funzionale patria comune». In mancanza di “patria comune” ci si arrangia, ognuno porta via qualcosa, tanto niente è di nessuno. Ma finora nessuno aveva ancora pensato di portarsi via nientemeno che il Vesuvio. La classica cartolina napoletana: il mare, il Vesuvio e il pino. A pensarci bene, è da un po’ che non se ne vedono. Non è rimasta neanche la cartolina.


panorama

1 novembre 2008 • pagina 11

Ritorni. Berlusconi “perdona” l’ex ministro dell’Interno e lo recupera alla presidenza della commissione parlamentare

L’Antimafia per la “riabilitazione” di Pisanu di Francesco Capozza durato due anni e mezzo il gelo tra Silvio Berlusconi e Beppe Pisanu. Da quel lunedì 10 aprile del 2006 quando, da ministro dell’Interno incaricato di gestire le elezioni politiche, aveva più volte rassicurato l’allora premier uscente sulla vittoria della coalizione di centrodestra. È noto, invece, come andò a finire. La versione più accreditata dei fatti di quella notte elettorale vuole che Pisanu abbia avuto in realtà un ruolo da pompiere. Che sia stato lui a dissuadere Berlusconi dalla tentazione di rovesciare il tavolo, che sia stato ancora lui a mantenere fermo il timone sul rispetto delle regole. Che abbia deciso di tacere perché preso tra l’incudine del ruolo che ricopriva e il martello Berlusconi. Questa versione, riferita anche da una delle persone presenti ai ripetuti vertici di quei giorni a palazzo Grazioli, ricostruisce i fatti così. Lunedì notte a scrutinio in corso Pisanu dichiarò al Tg2 che le «operazioni di voto sono state regolari». Berlusconi lo convocò subito. Pisanu rispose che non pote-

È

Dopo la sconfitta, il premier cercò inutilmente di costringere il titolare del Viminale a invalidare la consultazione. Da allora cominciò l’ostracismo va lasciare il Viminale e quindi si presentò solo a mezzanotte a palazzo Grazioli. La richiesta di Berlusconi fu categorica: invalidare il voto. Con il premier c’erano Fini, Pera, Letta e Cesa. Pisanu rispose di non poter far nulla di simile, che bisognava

aspettare la fine delle operazioni di scrutinio e contestare, semmai dopo, le schede nulle.

Fu una riunione molto tesa, che finì all’una e un quarto. La mattina dopo, martedì, il presidente Ciampi chiamò il ministro

dell’Interno, chiedendogli una parola definitiva sul voto, la ottenne. La nota del Quirinale disse che Ciampi «si compiace per lo svolgimento ordinato e regolare delle operazioni di voto». Quello era il sigillo di legittimità. E coinvolgeva Pisanu: «Ho seguito le giornate elettorali in costante contatto col ministro dell’Interno», sottolineava la nota di Ciampi. Da quel momento di due anni e mezzo fa, tra Beppe Pisanu e Silvio Berlusconi è calato un assordante silenzio. Nella legislatura governata dal centrosinistra, Pisanu è rimasto nell’ombra, sempre che un seggio al Senato della Repubblica possa essere considerato una punizione. Il suo nome non è stato mai citato tra quelli in corsa per un posto di spettanza all’opposizione, nemmeno per la presidenza del Copaco (ora Copasir), cui infatti venne eletto l’altro ex ministro dell’Interno forzista, Claudio Scajola. Con le elezioni del 2008 e la vittoria a valanga del fronte berlusconiano la fetta di potere da dividersi è ben più ampia, ma anche stavolta il nome dell’ex numero uno del Viminale viene tenuto a

Rimpasti. Il “vice” di Cicchitto spera in un effetto domino per salire di grado

Bocchino, aspirante capogruppo di Marco Palombi hi avesse la ventura di ascoltare i discorsi che i parlamentari scontenti del centrodestra affidano - in vari corridoi, su diversi divanetti - alle orecchie più disparate, avrebbe l’impressione di trovarsi nei giardini di Versailles piuttosto che nel Parlamento della Repubblica. D’altronde, Costituzione cartacea a parte, un Re c’è e governa a suo uzzolo come meglio non potrebbe.

C

imbarazzante cazziatone ad altissimo volume che Bocchino ha voluto amministrare coram populo al portavoce di Cicchitto, Ernesto Irmici: «Lei è un dipendente infedele – gridava il deputato campano –. Non si permetta mai più, io la faccio cacciare». La colpa del nostro consisteva in una telefonata mattutina effettuata all’indirizzo di un caporedattore del Tg1, nella quale Irmici chiedeva, si spera con garbo, di far comparire nel

“nemico”Cicchitto. Bocchino affida le sue speranze ad un“domino”al momento non prevedibile. Il nostro sa che Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato, sarebbe assai contento di tornare al governo, anche per via del modo assai sbrigativo con cui ne venne estromesso da Gianfranco Fini nel 2005, e spera in un allargamento/rimpasto prossimo venturo. Se ciò avvenisse, a palazzo Madama regnerebbe Gaetano Quagliariello, ex radicale, poi ultrà dell’occidentalismo vicino a Marcello Pera e, negli ultimi tempi, assai in ascesa tra i satelliti che fanno corona all’unica luce. Costui però, a differenza di Gasparri (almeno formalmente), è uomo di Forza Italia e quindi, per pareggiare i conti, An avrebbe diritto al capogruppo a Montecitorio. Bocchino appunto. Niente che abbia a che fare con la politica, va da sé, in un Parlamento che ha l’implicito divieto di praticare questa antica arte, ma nei vialetti di Versailles si continua a camminare, a chiacchierare, a sognare strade per la gloria che tengano nel giusto conto gli umori e le simpatie del Re.

Nell’ipotesi di un “lifting”, Gasparri tornerebbe al governo e al suo posto andrebbe il forzista Quagliariello. Così ad An toccherebbe la Camera

Così, è nei rumori di fondo che accompagnano le asce e le cadute a corte che potremmo incasellare l’oramai annoso bisticciare tra il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto - il cui astro a corte è assai indebolito dalle continue defezioni in aula dei deputati che dovrebbe controllare - e il suo vice Italo Bocchino, discreto uomo macchina, divenuto in questi tempi difficili una sorta di carnale astrazione del dirigente di An confuso da riti e stili di vita del partito-calderone in cui si trova a vivere. Il conflitto tra i due, sfociato a suo tempo anche in pubbliche dichiarazioni, si arricchisce ogni settimana che passa di nuovi capitoli. Qualche giorno fa, ad esempio, la sala stampa di Montecitorio è stata teatro di un

telegiornale della sera i soli capigruppo del Pdl, ovvero Cicchitto e Gasparri, tagliando fuori tutti gli altri. Bocchino, però, aveva tosto scoperto l’inghippo grazie alle imbarazzate ammissioni di altri dipendenti di viale Mazzini. Da qui la pubblica intemerata. Niente di grave, comunque: Irmici, il caporedattore, gli spioni, Bocchino e Cicchitto sono tutti ancora al loro posto. Ed è proprio questa situazione, si dice a Montecitorio, che l’uomo di Alleanza nazionale vorrebbe cambiare, conquistando il ruolo di capogruppo ai danni del

debita distanza dal nuovo premier, quasi fosse paragonabile al detestato aglio nelle pietanze. Ancora una volta senatore, ancora una volta senza nessun incarico. Tutte le caselle di spettanza alla maggioranza sono state occupate.Tutte tranne una: la presidenza della commissione Antimafia. Un ruolo importante per cui il profilo di Pisanu sembra essere perfetto. Voci si rincorrono sulla tentazione di Berlusconi di mandarci l’ex ministro prodiano Arturo Parisi. Voci che si dissolvono, però, con l’inasprirsi del clima tra maggioranza e opposizione. In corsa rimane solo lui: Giuseppe Pisanu. Una fonte vicinissima al premier, che ci tiene a rimanere nell’anonimato, ci conferma che sarà eletto lui e che questo è stato deciso direttamente da Berlusconi. «C’è anche una consuetudine che vede il presidente dell’Antimafia spettare una volta ad un deputato ed una volta ad un senatore. Questa volta tocca ad un senatore della maggioranza. Chi meglio di Pisanu tra i senatori forzisti? Ne ha preso atto anche Berlusconi».


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il paginone

Nel discorso alla Pontificia Accademia per le Scienze, il pontefice cita la frase non è caos e che l’intervento del Creatore «non finisce nella genesi». Una lode pe notevolmente aumentato la nostra comprensione della unicità del posto ch

La natura? È u libro scritto di Benedetto XVI segue dalla prima I miei predecessori, Pio XII e Giovanni Paolo II, hanno osservato che non vi è alcuna opposizione tra la comprensione della creazione data dalla fede e la prova offerta dalle scienze empiriche. Nella sua fase iniziale, la filosofia ha proposto delle immagini per spiegare l’origine del cosmo sulla base di uno o più elementi del mondo materiale. Questa genesi non è stata vista come una creazione, ma come una mutazione o trasformazione; essa coinvolge un’interpretazione per così dire “orizzontale” dell’origine del mondo. Un decisivo avanzamento nel capire l’origine del cosmo è stata la considerazione dell’essere in quanto tale.

Per svilupparsi ed evolvere, il mondo deve prima esistere, cioè deve essere creato dal primo

essere, che è tale per sua stessa essenza. Deve essere creato, in altre parole, dal primo Essere, che è proprio questa essenza.

Dire che la fondazione del cosmo e i suoi sviluppi sono la testimonianza del Creatore non vuole dire che la creazione ha a che fare soltanto con l’inizio della storia del mondo e della vita. Anzi, essa implica che il Creatore fonda questi

luzione del mondo in toni puramente naturalistici. Tommaso osservò la creazione non è né un movimento né una mutazione. Essa è data invece dal fondamentale e continuo rapporto che lega la

Questa straordinaria immagine ha le sue radici nel cristianesimo ed è stato un concetto caro a molti scienziati. È un libro che leggiamo a seconda dei diversi approcci sviluppi e li supporta, li puntella e li sostiene continuamente. Tommaso d’Aquino pensava che la nozione della creazione debba trascendere l’origine orizzontale della distensione degli eventi, che è la storia, e di conseguenza tutti i nostri modi di pensare e di parlare dell’evo-

creatura al Creatore, perché egli è la causa di ogni essere e di ogni divenire (cfr. Summa Theologiae, I, q.45, a.3).

“Evolvere” significa letteralmente “dispiegare un rotolo”, che vuol dire leggere un libro. La figura retorica che vede la

Fra gli scienziati riuniti in Vaticano c’era Hawking, che nega il creazionismo

Anche l’erede di Einstein ascolta il Papa ra gli scienziati riuniti ieri mattina nella Sala Clementina del Palazzo apostolico ad ascoltare Benedetto XVI, c’era anche Stephen Hawking, padre di teorie che escludono in linea di principio l’intervento di un Creatore del cielo e della terra. Non si è trattato di una prima assoluta: lo scienziato – definito l’erede di Einstein che siede sulla cattedra di Newton – era stato già ricevuto nella roccaforte del cattolicesimo 30 anni fa. Ma ha fatto comunque una certa impressione vederlo ascoltare il discorso del pontefice, che ha ribadito l’imprescindibilità del Dio creatore. Grande interesse anche per il discorso con cui il presidente della Pontificia accademia delle scienze, lo scienziato Nicola Cabibbo, ha aperto l’Assemblea plenaria convocata per discutere su Teorie scientifiche sull’evoluzione dell’universo e della vita.

F

Un tema che, secondo Cabibbo, «è meno astruso di quanto possa apparire. Il sapere scientifico costituisce, insieme alla saggezza tradizionale, alla fede religiosa e ai valori dell’educazione, una parte essenziale delle conoscenze orientative che ci servono a prendere decisioni individuali e sociopolitiche, decisioni sulla vita e sulla morte, sui cambiamenti climatici, sull’uso delle risorse del pianeta».

Lo scienziato, professore ordinario di fisica delle particelle elementari all’Università la Sapienza di Roma, ha ammesso inoltre che – nonostante gli enormi progressi compiuti dalla ricerca in questi ultimi anni - « molti interrogativi sono ancora aperti. Anzi, se ne sono aperti di nuovi. Le ricerche sulle particelle generatrici di ogni tipo di materia e le migliorate tecniche di osservazione hanno esteso enormemente negli anni recenti la nostra comprensione dell’universo, e i cosmologi stanno iniziando ad indagare oltre i limiti posti dal Big Bang. I risultati


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e cara a Galileo per spiegare che l’universo er le scienze naturali, grazie alle quali «abbiamo he occupa l’umanità all’interno del cosmo»

un grande o da Dio natura come un libro affonda le sue radici nel cristianesimo ed è stata cara a molti scienziati. Galileo vedeva la natura come un libro il cui autore è Dio, allo stesso modo delle Scritture.

È un libro la cui storia, la cui evoluzione, il cui “essere scritto” ed il cui significato, noi “leggiamo” in base ai diversi approcci delle scienze, accompagnando il tutto con il presupposto della fondamentale presenza dell’autore, che ha desiderato rivelarsi tramite esso. Questa immagine ci aiuta inoltre a capire che il mondo, lungi dall’essere originato da un caos, somiglia ad un libro ordinato: è un cosmo. Nonostante gli elementi irrazionali, caotici e distruttivi rilevabili nel lungo processo di cambiamento nel cosmo, la materia in

quanto tale è “leggibile”. È una costruzione interna “matematica”. La mente umana può pertanto impegnarsi non solo in una “cosmografia”, studiando i fenomeni misurabili, ma anche in una “cosmologia”, cioè discernendo la logica interna visibile del cosmo. Potremmo non essere all’inizio in grado di cogliere sia l’armonia nel suo complesso sia nelle relazioni delle singole parti, o il loro rapporto rispetto a tutto l’insieme.

Eppure, i rapporti che l’uomo nel corso dei secoli ha saputo cogliere e descrivere - ad esempio, tra microstruttura e macrostruttura nel mondo inorganico, o tra struttura e funzione in quello organico e animale - e tra conoscenza della verità e l’aspirazione alla libertà nel mondo spirituale – dimostrano che la ricerca sperimentale e filosofica sa scoprire gradualmente questi ordini, li percepisce lavorando per mantenerli

di questi studi, largamente interdisciplinari, arricchiscono considerevolmente la nostra conoscenza circa la realtà naturale e sollevano anche nuove domande. Tra queste, per esempio, l’individuazione di un ’multiverso’, o la natura dei buchi neri, o l’energia oscura che causa l’accelerazione recentemente scoperta nell’espansione dell’universo». «Aspettiamo – ha aggiunto - i futuri risultati del Lhc del Cern di Ginevra [che in questi mesi è impegnato per ricreare le condizioni precedenti al Big Bang ndr] che potrà chiarire alcune di queste questioni. Anche nelle scienze umane recenti scoperte hanno aumentato la nostra comprensione dei processi sottostanti all’evoluzione della vita, ma anche in questo caso molte domande restano aperte».

Parlando alla Radio Vaticana, il fisico - attualmente focalizzato sullo studio della Qcd su reticolo e sulla progettazione di array di computer, nell’ambito del progetto APEnext – ha affrontato anche la questione che contrappone creazionismo e evoluzionismo: « Sicuramente Benedetto XVI si riferisce al creazionismo nel

Non c’è opposizione tra la comprensione della creazione data dalla fede e la prova offerta dalle scienze empiriche. La verità scientifica è di per sé una partecipazione alla verità divina in essere, per difendersi dagli squilibri e superare gli ostacoli.

E proprio grazie alle scienze naturali abbiamo notevolmente senso in cui lo comprendiamo noi cattolici, cioè l’idea che il mondo è creato da Dio, in parole molto semplici. Questo, naturalmente, non è un fatto scientificamente accertabile».

La teoria dell’evoluzione, ha spiegato subito dopo, «è parte della conoscenza scientifica, e la Creazione divina è parte della fede. Quindi si muovono su piani diversi.Tanto per dirne una, la scienza non è mai completa: quindi, anche se attualmente abbiamo raggiunto un notevole livello di certezza sulla realtà dell’evoluzione biologica, sicuramente ci saranno ulteriori passi avanti in futuro che chiariranno meglio le idee». E sulle polemiche in merito alle posizioni vaticane su temi legati al mondo scientifico, fra cui alcune accuse riguardo a un presunto “ritorno all’oscurantismo”da parte della Santa Sede, ha sottolineato: «Non posso non essere d’accordo con il fatto che la ricerca è importante ed è importante che la Chiesa dia un suo apporto alla ricerca scientifica perché il futuro dell’umanità dipende dalla ricerca ».

aumentato la nostra comprensione della unicità del posto che occupa l’umanità all’interno del cosmo. La distinzione fra un semplice essere vivente ed un essere spirituale che sia capax Dei indica l’esistenza di un’anima intellettiva in un soggetto.

Allo stesso modo il Magistero della Chiesa ha costantemente affermato che “ogni anima spirituale è creata immediatamente da Dio – non

è “prodotta” dai genitori – ed è immortale”. (Catechismo della Chiesa cattolica, 366).

Eccellenti professori, vorrei concludere ricordando le parole che vi rivolse il mio predecessore, Giovanni Paolo II, nel 2003: “La verità scientifica, che è di per sé una partecipazione alla verità divina, può aiutare la filosofia e la teologia a comprendere ancor più pienamente la persona umana e la Rivelazione di Dio sull’uomo, una rivelazione che è stata completata e perfezionata in Gesù Cristo”. (traduzione dall’inglese a cura di liberal)


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Storie. Nawal Al Saadawi, scrittrice, potrà tornare in Egitto dopo l’esilio forzato deciso da un imam

Vivere con una fatwa Arresti, minacce e infine la condanna a morte Ecco come vive chi sfida il fondamentalismo colloquio con Nawal Al Saadawi di Marta Allevato ra i fondamentalisti islamici è «il demonio bianco». Per via del colore dei suoi capelli e della sua pluridecennale lotta contro ogni estremismo religioso che reprima le libertà individuali e i diritti delle donne. Nawal Al Saadawi ha 78 anni. Ad aprile tornerà in Egitto, dopo un esilio forzato per presunta apostasia. È una dissidente invisa al fanatismo islamico e scomoda per il potere. Nawal è una delle più famose e premiate scrittrici egiziane. Laureata in medicina e psichiatria, ha pubblicato oltre 45 tra saggi e romanzi. È stata in prigione per ragioni politiche e compare nella lista nera di numerosi gruppi radicali. Nel 1982 fonda la Arab Women’s Solidarity Association (Awsa), presto messa al bando in Egitto. Sono i primi anni ’90, quando dopo l’assassinio di un suo collega per mano di fanatici islamici, inizia la vita sotto scorta. Nawal ha vissuto da “apostata”, alla mercè del fanatismo. Ma ogni volta ha vinto la sua causa. Nel 2001 viene denunciata perché i suoi scritti «trasgrediscono la legge islamica».

T

Il rischio era che il suo matrimonio venisse annullato, perché un infedele non può essere sposata con un credente musulmano. Nel 2007 un altro processo la vede imputata per la sua opera teatrale God Resigns at Summit L’accusa Meeting. chiede che le venga

tolta la nazionalità e sia espulsa. A maggio scorso il verdetto la assolve, permettendole di rientrare in Egitto. Il suo ultimo libro edito in Italia, Dissidenza e scrittura (Ed. Spirali) è il racconto del suo percorso intellettuale e di quello di una nazione, l’Egitto, dai poteri coloniali alle riforme di Nasser, dal ritorno alla povertà di massa con l’ascesa dell’integralismo religioso sotto i governi Sadat e Mubarak, fino ai giorni nostri. Signora Saadawi, lei ha sentito urlare la sua condanna a morte dai minareti di una moschea, è sull’elenco degli “eretici” da eliminare. Come si vive nel mirino del fondamentalismo? Vorrei prima di tutto specificare che la mia critica è verso ogni fondamentalismo religioso, che sia islamico, cristiano o ebraico. Per questo ricevo intimidazioni da diversi gruppi. Si tratta di minacce di morte telefoniche, lettere. Su internet poi è pieno di attacchi alla mia persona. Quando è iniziata la sua vita blindata? Nel 1992 il mio collega Faraj Fouda viene ucciso dai gruppi islamici al Cairo. Era membro della nostra associazione Awsa, scrittore contrario agli estremisti. Sulla loro lista di morte il mio nome veniva dopo il suo. Dopo di lui sarebbe stato il mio turno. Così il governo Mubarak mise guardie di sicurezza intorno a casa mia. Avevo anche una guardia del corpo personale assegnatami dallo Stato. Ma lei aveva contro anche il governo. Infatti non mi fidavo. Alcuni intellettuali erano stati uccisi dalle loro stesse guardie. Passavo il tempo a cercare di scappare dalla mia guardia del corpo! Ero come agli arresti domiciliari, schiacciata tra governo e fanatici islamici. Fu allora che mio marito Sherif mi disse «Nawal, dovremmo partire, perché qui sei in pericolo».

Non ho paura, sono arrabbiata. Con la dittatura di Sadat che mi ha incarcerata perché scrivevo e con quella di Mubarak, che incarcera i giornalisti scomodi

In quegli stessi anni veniva dichiarata illegale anche la sua associazione Awsa per i diritti delle donne. Come era nata? La Awsa e la rivista a lei collegata si erano schierate contro la guerra del Golfo e nel 1991 vengono entrambe bandite. È stato un duro colpo. L’associazione era nata nel 1982 con lo scopo di dare potere e offrire solidarietà alle donne. Oggi è diventata una rete universale. Solo in Egitto rimane illegale, ma ne hanno raccolto l’eredità altre Ong. Qual è stata la vittoria più importante? Le racconto la più recente: l’anno scorso il governo egiziano ha finalmente vietato la circoncisione femminile, una pratica terribile contro cui mi battevo da 50 anni. E i momenti più drammatici? Quando mi hanno arrestata (1981), quando ho dovuto lasciare il mio Paese (1972) e sentivo che non sarei potuta

più tornare, e tutte le volte che mettono al bando o bruciano i miei libri. Ha mai avuto paura? Non ho paura, ma sono arrabbiata: con il colonialismo inglese che ci ha oppresso; con la dittatura di Sadat, che mi ha incarcerata perché scrivevo; e poi con quella attuale di Mubarak, che arresta i giornalisti. Nel 2005 ho osato sfidarlo alle elezioni presidenziali: autorità e media mi hanno talmente ostacolato, che ho dovuto ritirarmi. L’uso del velo tra le donne in Egitto aumenta. Qual è la condizione femminile oggi nel suo Paese? Le donne e gli uomini sono velati mentalmente in tutto il mondo. Questo è il pericolo maggiore. Subiamo ogni giorno un lavaggio del cervello da parte dei media. In Egitto solo la metà delle donne si può dire progredita, l’altra è tornata al velo. Ma non per motivi religiosi, bensì politici. In che senso? Quando io studiavo al College medicina, negli anni ’50, non c’era nemmeno una studentessa con il velo. Oggi invece sono l’80%. È l’uso della religione per fini politici, che ci ha portato a questo punto. È Sadat che ha soffiato sul fanatismo religioso per combattere il comunismo, il socialismo e le donne.


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1 novembre 2008 • pagina 15

Islam. Da Rusdhie a Topolino, l’estremismo islamico condanna tutto e tutti

La Top Ten delle condanne

Giovani ragazze musulmane in Iran. A destra, Topolino: uno sceicco ha invitato i fedeli a uccidere il cartone animato «strumento di Satana». Nella pagina a fianco, Salman Rushdie: condannato a morte per i Versetti satanici, vive in esilio in Inghilterra

i preoccupano di regolare i comportamenti più banali della vita quotidiana come fare il tifo allo stadio o leggere Topolino - fino a decretare condanne a morte per atei e apostati. Sono le fatwa, una sorta di editti religiosi, di cui il mondo islamico vive una vera e propria inflazione. Gli stessi governi indicano questa invasione come un male delle società musulmane e un indice della profonda crisi dell’islam. Le fatwa sono dei giudizi di personalità più o meno colte che cercano di indicare la via islamica da seguire nelle più svariate situazioni. All’inizio erano dei pronunciamenti eccezionali, fatte da personale specializzato: essendo delle decisioni politiche, non erano a discrezione di ogni imam, né di ogni giurista islamico. Oggi invece si sono moltiplicate, invadendo ogni aspetto della vita dei credenti. Quelle che preoccupano di più le autorità politiche sono le fatwa a favore della violenza; quelle che avvalorano l’equazione islam = terrorismo. Ne è un esempio la fatwa lanciata dal più famoso imam del mondo musulmano contemporaneo, l’egiziano Youssef Al-Qaradawi, con la quale si giustificano gli attacchi terroristici palestinesi contro i civili israeliani. Ma l’elenco potrebbe essere infinito. Conviene però ricordare quelle che hanno fatto più clamore in Occidente, per diversi motivi.

S

la morte, sono anche le opere della scrittrice bengalese Taslima Nasreen. La donna, 46 anni e una laurea in medicina, ha abbandonato il suo Paese negli anni ’90 dopo la fatwa contro il suo libro Vergogna.

Nel 1989 il Grande Ayatollah Ruhollah Khomeini lancia una fatwa di condanna a morte contro l’apostata Salman Rushdie. Il romanzo dello scrittore anglo-indiano, Versetti satanici, è considerato blasfemo. Sulla sua testa, una taglia di 5,2 milioni di dollari. La sentenza capitale era rivolta anche agli editori del libro. «Chiedo a tutti i musulmani zelanti della fede di giustiziarli in fretta, ovunque si trovino. Chiunque morirà per fare ciò sarà considerato martire». Queste le parole della fatwa diffusa dalla Radio Teheran. Rushdie fu costretto a rifugiarsi in Gran Bretagna e da allora vive sotto scorta. La condanna di Khomeini è stata ribadita anche nel 2005 dal suo successore, l’ayatollah Ali Khamenei. Dal 2004 Ayaan Hirsi Alì - nata a Mogadiscio ed ex-deputata olandese - è nel mirino dell’integralismo islamico. Il suo ruolo di sceneggiatrice nel film Submission di Teo Van Gogh, l’ha resa oggetto di una fatwa di condanna a morte. Il regista è stato ucciso lo stesso anno. Oggi vive negli Stati Uniti sotto scorta armata. “Blasfeme”, e quindi punibili con

Le sue opere sono bandite in Bangladesh. Da tre anni ha ottenuto ospitalità e protezione dell’India a cui ha chiesto cittadinanza. Nel 2006 impazzano le violenze per le vignette satiriche su Maometto pubblicate in Danimarca. Da una moschea di Doha, il predicatore egiziano Youssef Al-Qaradawi, lancia la sua fatwa di morte contro i vignettisti, i direttori di giornali, e tutti coloro che si rendono complici dell’offesa al profeta dell’islam. Sia che siano cristiani, ebrei o musulmani. Nel 2006 dalla città santa di Qom, in Iran, l’ayatollah Morteza Bani-Fazl condanna a morte Rafik Taghi, giornalista in Azerbaijan. Avrebbe insultato il profeta Maometto in un articolo pubblicato dal giornale azero Sanat, che sarebbe sotto l’influenza dei “poteri occidentali”. Per incoraggiare gli assassini, ha pure offerto in ricompensa una casa ereditata dal suo padre. Nel 2003 lo sceicco saudita Abdallah Al-Najdi emana una fatwa contenente un codice di giustizia sportiva. Alla base c’ è un principio tratto dai testi sacri che proibisce ai musulmani di imitare cristiani ed ebrei. Devono essere ignorate tutte le regole del calcio internazionale: guai a chi pronuncia le parole “goal”, “corner”, “rigore”, tutte invenzioni dei non-credenti. Se il calciatore commette una scorrettezza viene sanzionato secondo la sharia, la legge islamica. A settembre Mohammed al-Munajid lancia una fatwa contro Topolino, il famoso fumetto e cartone animato della Disney. Secondo il religioso saudita,“il topo è un soldato di Satana ed è guidato da lui”. Questa estate la scure della fatwa islamica si è scagliata contro la troppo occidentale e immorale telenovela turca Noor, seguita in tutto il mondo arabo. Il massimo esponente del clero in Arabia Saudita, il mufti Abdelaziz AlSheikh emana un editto. Poco dopo, un nuovo editto vieterà gadget e magliette con il volto dei protagonisti della soap. Mohammad Hegazi, 26 anni egiziano, si è convertito al cristianesimo circa nove anni fa e si è sposato con una convertita cristiana. Nel 2007 chiede al governo il riconoscimento della sua religione, che gli viene negato. Per l’islam diventa un apostata. Una fatwa dell’autorevole Università di Al Azhar, al Cairo, lo condanna di fatto a morte. Nel 2001 l’editto di 400 religiosi islamici in Afghanistan, sostenuto dal mullah Omar - guida dei talebani - decreta la distruzione di tutte le statue preislamiche.Tra le vittime ci saranno i (m.a.) famosi Buddha di Bamiyan.

Per i governi, anche musulmani, l’invasione delle fatwe è un male della società e un indice della profonda crisi dell’islam


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mondo

Israele. Aumentano gli attentati privi di una struttura armata alle spalle e frutto dell’odio dei singoli

Micro-jihad, maxi effetto di Antonio Picasso n fatto di cronaca nera, di solito, non fa politica estera. Tuttavia, quando la vittima è israeliana, l’aggressore è palestinese e la scena del crimine è una strada di Gerusalemme est, gli osservatori si mettono in allarme. L’innata tensione che circola in Medio Oriente può portare a parlare forse troppo in fretta di attentato terroristico. Una settimana fa, un cittadino israeliano di 86 anni è stato accoltellato e ucciso da un palestinese, proprio in una strada della Città Santa. Il colpevole è stato poi ferito e arrestato dalla Polizia israeliana. L’episodio non nasce dal nulla. Anzi, si potrebbe ricollegare a quei casi di palestinesi che, già nell’estate appena finita, si sono impossessati di ruspe e bulldozer e hanno suscitato il panico tra i passanti israeliani, uccidendone tre e ferendone una trentina. Oppure alle aggressioni perpetrate da alcune donne palestinesi che, snervate dai tempi di attesa ai posti di controlli, hanno aggredito alcuni soldati israeliani gettando loro in faccia dell’acido.Tutti questi casi sono avvenuti a Gerusalemme est e sono stati classificati come attentati terroristici.

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Tuttavia, la modalità dei fatti, le coincidenze tra le singole circostanze e i punti poco chiari fanno pensare che quella terroristica possa essere un’interpretazione affrettata. Gli avvenimenti costituiscono, infatti, episodi isolati di violenza, ma la sequenza spazio-temporale di ognuno segue sempre lo stesso canovaccio. Un comune cittadino palestinese tenta di fare una strage utilizzando armi improprie: una ruspa, come una bottiglia di acido; il caso della scuola rabbinica sta a sé. Il luogo è sempre la Città Santa, o gli insediamenti che la circondano. Quello che manca a tutti, infine, è un’effettiva rivendicazione, come attentato, da parte di un qualsiasi gruppo terroristico palestinese. Perché è vero che le “Aquile di Galilea”, nuovo gruppo armato nato per rivendicare la morte di Imad Mughniyeh, hanno dichiarato la paternità dell’attacco effettuato da un giovane al volante di una ruspa a luglio. Ciononostante, è più facile far proprio un attentato già avvenuto, rispetto a organizzarne uno di questo tipo,

Le immagini degli ultimi attentati compiuti in Israele: sopra, gli effetti dell’attacco compiuto da un palestinese a bordo di un bulldozer in mezzo al traffico di Gerusalemme. Sotto, l’arresto del terrorista che ha ucciso a coltellate un israeliano la settimana scorsa nella sua semplicità. Ma concentriamoci sulla morte dell’israeliano pugnalato l’altro giorno. Le autorità di Gerusalemme hanno evidenziato subito la mancanza di una rivendicazione. Ponendo in essere così, a priori, che l’omicidio abbia un valore politico israelo-palestinese e, quindi, una finalità terroristica. C’è da chiedersi, però, quale ri-

sti a farsi saltare in aria in luoghi pubblici molto affollati, per esempio ristoranti e autobus, con l’intenzione di provocare il numero maggiore di vittime e di suscitare il più alto livello di emozione. In questi tre mesi, simili attentati terroristici non sono accaduti. Fortunatamente. Per molti aspetti, è merito del processo di pace, per altri la griglia di controlli da parte di Israele si è infittita e le possibilità di attacchi suicidi si sono significativamente ridotte.

Una settimana fa, un cittadino israeliano di 86 anni è stato accoltellato e ucciso da un palestinese; a luglio ruspe e bulldozer hanno suscitato il panico torno propagandistico e quale messaggio di resistenza armata potrebbero risiedere dietro all’accoltellamento di un uomo di 86 anni per le strade di Gerusalemme. Insomma, è un attentato, questo, oppure è un caso di criminalità comune, fenomeno dal quale nemmeno Gerusalemme non può essere immune? Finora eravamo abituati agli shahid. Giovani armati di esplosivo dispo-

Restano, d’altra parte, questi episodi di violenza isolati e saltuari, i quali meritano forse una riflessione alternativa e di tipo sociale, piuttosto che essere ricondotti alla dicotomia classica dello scontro fra israeliani e palestinesi. La situazione della popolazione in Cisgiordania – da questo discorso va esclusa la Striscia di Gaza – è quella di una comunità soggetta ogni giorno a un minuzioso regime di controlli, perquisizioni e restrizioni. Certo, le autorità israeliane fanno il loro mestiere.Tuttavia, gli impedimenti collettivi – difficoltà negli spostamenti, separazione delle famiglie, mancanza di lavoro – si riversano sulla vita quotidiana del singolo. Questa condizione di tensione globale, da una parte e dall’altra, si traduce in una potenziale fonte dell’esasperazione e della frustrazione psicologica per tutti, anche per coloro che non sono votati al martirio come gli shahid. Perché non vedere, allora, nel ragazzo palestinese che investe i passanti israeliani con la sua macchina, o nella donna che sfregia il volto di un soldato, una conseguenza microcosmica di uno status di tensione macrocosmica? Se così fosse, saremmo di fronte a una preoccupante trasformazione del conflitto, in cui il fenomeno “terrorismo” tenderebbe a scomporsi in particelle di odio spontaneo, disorganizzato e privo di una struttura armata alle spalle. Quindi molto più ingestibile dagli stessi palestinesi e molto meno prevedibile dagli israeliani. *Analista Ce.S.I.

in breve Russia, oggi incontro Medvedev - Gheddafi Il leader libico Muammar Gheddafi è arrivato a Mosca per una visita di tre giorni, la prima da 23 anni a questa parte. Oggi il colonnello vedrà il presidente Dmitri Medvedev e il premier Vladimir Putin. Fonti del Cremlino riferiscono che al centro della visita vi saranno la cooperazione energetica, l’uso pacifico del nucleare, la cooperazione militare. Tema del vertice bilaterale anche la possibile apertura di una base navale russa a Tripoli o quantomeno di un punto di rifornimento per le navi russe in territorio libico. Già i vascelli della Flotta del Nord che parteciperanno in novembre alle esercitazioni congiunte con il Venezuela nel Mar dei Caraibi hanno fatto tappa a Tripoli per rifornimento.

Camerun, pirati sequestrano 10 ostaggi Dieci tecnici del gruppo francese Bourbon - di cui sette francesi, due camerunensi e un tunisino - sono stati sequestrati ieri da un commando di pirati denominato Bakassi Freedom Fighters nelle acque territoriali del Camerun, al largo di Bakassi, al confine con la Nigeria. Secondo le prime informazioni, i pirati hanno assaltato la nave “Bourbon Sagitta”, affittata dalla Total, a bordo della quale si trovavano 15 persone. Il gruppo ha minacciato di «ucciderle tutti gli ostaggi» nel giro di tre giorni se il governo del Camerun non dovesse negoziare con la loro formazione.

Corea del Nord: dove sta Kim Jong il? Aumentano le indiscrezioni sullo stato di salute di Kim Jong Il, dopo che il leader nordocoreano non ha assistito ai funerali di un importante membro del partito, Pak Song Chol, ex stretto consigliere del defunto padre Kim Il Sung. L’assenza di Kim, 66 anni, non fa altro che infittire il mistero intorno alla presunta operazione subita a metà agosto e dalla quale si starebbe ancora riprendendo, secondo quanto affermato dalle autorità della Corea del Sud e degli Stati Uniti. Pyongyang continua a smentire che il“caro leader” sia malato.


mondo

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in breve Congo, appello di Ban Ki-moon

Crack. Visa, American Express e JP Morgan: allarme insolvenza

Se le carte di credito fanno sboom di Maurizio Stefanini rima la New Economy, poi le ipoteche, poi il petrolio. Saranno le carte di credito la nuova bolla speculativa che esploderà con fragore sull’economia mondiale? La settimana scorsa un rapporto di Innovest Advisors, in questa un articolo del New York Times hanno lanciato l’allarme. Che non è al momento italiano, ma essenzialmente statunitense. Con conseguenze indirette, però, che possono ricadere anche su di noi. Il nocciolo del guaio è nel sistema di carta di credito chiamato revolving, che da noi è poco usato. Le nostre carte, normalmente, si limitano a pagare nel mese successivo quello che è stato acquistato nel mese precedente. Insomma, è un semplice differimento che ti permette di anticipare i guadagni del mese prossimo, liberandoti nel contempo dalla scocciatura e dal rischio di tenere gli spicci in tasca. Ma questo schema negli Usa è da tempo considerato out e demodée, mentre la maggior parte della gente usa un tipo di linea di credito molto diluita nel tempo: un po’ si paga il mese prossimo, un po’ tra due mesi, un po’ tra tre, e così via. Comodo: salvo che, a

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parte il fatto che poi è più facile smarrirsi nei conti, ci stanno interessi salatissimi, fino al 19 percento.

Come le ipoteche, anche le carte revolving sono state concesse praticamente a tutti: più il cliente era squattrinato; più diluiva il pagamento; più forniva interessi, rimanendo comunque nel gran giro del consumo a tutto spiano. Insomma, tutti contenti: un po’ come quel personaggio del fumetto Alan Ford che da un rifugio alla Diabolik scavato nella roccia ricattava il mon-

la tempia nel bagno (per non sporcare il tappeto nuovo). Un fumetto grottesco? Sì. Non era però fumetto ma pratica diffusa, quella di rifinanziare una carta di credito attraverso l’emissione di una nuova e ulteriore carta per coprire il debito contratto in precedenza, oppure operare una rivalutazione dell’immobile su cui grava un mutuo ed effettuare una compensazione con parte dell’ammontare dovuto per le carte revolving: le piramidi finanziarie del debito, e spesso semplicemente per finanziare i consumi correnti. Non dicia-

le società emittenti hanno cartolarizzato in cambio di liquidità, e di cui si sono imbottiti senza ritegno hedge funds e fondi pensione. Nella sola prima metà del 2008 l’ammontare delle carte di credito ”tossiche”, ormai insolvibili, è stato valutato in 21 miliardi. E le perdite delle carte di credito rappresentano il 5,5 percento delle perdite totali del settore bancario Usa: sembra dunque imminente il sorpasso rispetto al 7,9 percento che arrivò a pesare lo scoppio della bolla tecnologica del 2001. E da notare che, a differenza dei subprime tossici, le carte di credito non sono appoggiate su beni tangibili su cui potersi rivalere.

Il piano Paulson, dite? Non contempla le carte di credito. E società come American Express, Bank of America e Citigroup stanno dunque già stringendo i freni: via le opzioni più rischiose; limiti di impiego più bassi e condizioni più severe per disoccupati e gente a rischio in genere. Ma con la disoccupazione che continua ad aumentare, l’effetto è da moltiplicatore keynesiano alla rovescia. Con 55 miliardi di dollari che più in generale saranno persi dal settore bancario nel corso del prossimo anno e mezzo, spiegano gli esperti, un colpo potenzialmente esiziale è prevedibile. Soprattutto per gli americani, certo. Ma i grandi circuiti, da American Express a Visa, sono gli stessi che funzionano anche da noi. Comunque, anche se loro reggono, è prevedibile un crollo secco dei consumi destinato a riverberarsi sull’economia Usa. E dall’economia Usa, poi, anche su quelle del resto del mondo.

Nella sola prima metà del 2008 l’ammontare delle carte ormai insolvibili è stato valutato in 21 miliardi di dollari. Le perdite rappresentano il 5,5% di quelle totali del settore bancario Usa do semplicemente per ricevere una pensione arretrata. E alla domanda del numero uno «ma se non ha un soldo, come ha fatto a costruire un rifugio del genere» rispondeva: «Lei ha idea di quante cose si possono fare con una carta di credito?».

Solo che, appunto, in quel momento arrivavano gli esattori a sequestrare tutto, perché le scadenze del colossale debito non erano state mai pagate. E il malcapitato sergente si andava a sparare un colpo al-

mo dunque che nelle famiglie Usa ci sarà necessariamente una catena di suicidi alla Sergente Gruber, però il dato è che dai 4mila miliardi di dollari del 1990 il debito delle famiglie Usa è arrivato oggi a 13mila miliardi, e il solo revolving è cresciuto da 239 a 950 miliardi: più altri 350 miliardi di debiti rifinanziati tramite la rivalutazione degli immobili. E il crollo del valore di questi ultimi rischia ora di creare una situazione di insolvenza di massa. Inoltre ci sono 365 miliardi di debiti revolving che

Il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha lanciato un appello ai ribelli congolesi guidati da Laurent Nkunda perchè mantengano il cessate il fuoco proclamato tre giorni fa, quando erano ormai giunte alle porte della città di Goma, nella provincia orientale del Nord-Kivu nella Repubblica democratica del Congo, dopo aver sconfitto le truppe congolesi. Il Segretario generale dell’Onu ha definito «spaventosa» la situazione sul terreno, invitando i leader africani ad adottare «misure concrete» per risolvere la crisi. Le forze di Nkunda stanno costringendo migliaia di persone alla fuga e facendo temere una crisi umanitaria di «dimensioni catastrofiche».

Usa, Petraeus Capo di Centcom Il generale americano David Petraeus ha assunto ieri ufficialmente la responsabilità delle guerre in Iraq e Afghanistan nel suo nuovo ruolo di responsabile del Central Command (CENTCOM) in Florida. Petraeus, l’ideatore del surge, ha diretto per 20 mesi le truppe Usa in Iraq (ora sotto il controllo del generale Odierno). La nuova carica alla testa del CENTCOM vede Petraeus assumere la responsabilità dell’intero scacchiere del Medio Oriente, con due guerre in corso e situazioni di tensione in numerosi altri Paesi (dall’Iran al Pakistan).

Turchia, violentata a 14 anni ma per i medici é tutto ok Sta suscitando una marea di proteste da parte delle donne turche la decisione delle autorità di scarcerare uno scrittore radicale musulmano in prigione per ripetuti atti di violenza sessuale ai danni di una ragazzina di 14 anni. A far esplodere la protesta è stato il fatto che l’uomo - Huseyin Uzmez, 78 anni, noto editorialista del giornale fondamentalista “Vakit” e sostenitore della sharia, sia stato rilasciato grazie a un referto medico in cui si afferma che «le condizioni fisiche e mentali della ragazza sono intatte», come a dire che le violenze sessuali subite non l’hanno minimamente toccata.


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Tv. I nuovi episodi, come sempre tratti dall’inconfondibile penna di Andrea Camilleri, andranno in onda a partire da domani

Il ritorno “hot”di Montalbano Il commissario siciliano, più malinconico del solito, stavolta cederà alla passione e al fascino delle donne di Francesca Parisella e lacrime di Livia Burlando versate su una lettera dove il commissario Montalbano le scrive la sua proposta di matrimonio. Questa l’ultima scena che chiude “Il ladro di merendine”, il primo episodio della lunga serie televisiva de Il Commissario Montalbano, dove il fortunatissimo personaggio - prima letterario e successivamente televisivo - nato dalla prolifica penna di Andrea Camilleri e interpretato dall’attore Luca Zingaretti, indaga sulla morte del ragioniere Lapecora, a cui riesce a collegare la scomparsa di una donna marocchina e di suo figlio, il piccolo François, quel ladro di merendine che, a seguito della morte della madre, il commissario deciderà di ospitare a casa sua. A tre anni da quello che doveva essere un addio di Zingaretti al personaggio di Salvo Montalbano, l’attore romano è tornato sui suoi passi e, dopo le esperienze teatrali e cinematografiche – tra cui Sangue pazzo di Marco Tullio Giordana con Monica Bellocci e Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti - sarà nuovamente sul piccolo schermo nei panni del siculo commissario tanto amato dagli italiani.

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Un addio che lo stesso Zingaretti ha definito una stupidaggine, quel commissario a volte burbero ma in fondo tanto tenero gli mancava perché «Montalbano è un personaggio in continuo divenire, visto che Camilleri prosegue a scrivere romanzi, e interpretarlo è come avere a che fare con un amico che vive lontano e si va a trovare una volta l’anno». E così tutto sembrerebbe tornato a essere ciò che era prima dell’ultimo ciak de “Il gioco delle tre carte”. Il commissario Montalba-

no tornerà ad abitare la Sicilia dei paesini bianchi, i quartieri arabi, i palazzi storici, le chiese barocche e i templi antichi, dove da anni conduce le sue indagini. E così Porto Empedocle sarà ancora una volta la fantasiosa Vigata, quella «località a geometrie variabile» (Camilleri), Sciacca si celerà dietro Fiac-

ca, Gela verrà chiamata Fela, Menfi sar9 Merfi e Ragusa nei suoi scenari reali sarà l’ideale Montelusa. Il cast vedrà ancora una volta confermati l’amicoconfidente Mimì Augello (Cesare Bocci), l’infaticabile Catarella (Angelo Russo) con i suoi colpi di genio, il fidato Fazio (Peppino Mazzotta) e Livia (Katharina Bohm) la storica fidanzata.

In realtà, però, qualcosa è cambiato, un mutamento profondo è in atto nel commissario Montalbano che ora, riscoprendosi alla soglia dei 60 anni, è tormentato, malinconico e in crisi. Un nuovo stato d’animo che nei quattro episodi in onda su Rai Uno, domenica 2 e lunedì 3, 10 e 17 novembre, lo porteranno a rivalutare anche il suo rapporto con le donne e a cedere a femmes fatales che incontrerà nel corso di queste nuove indagini, donne affascinanti che sapranno fare breccia nel cuore del commissario, tanto che a riprenderlo sarà l’amico Fazio con un «ci pensasse buono, in tutti i sensi». La prima a far capitolare il brusco Montalbano sarà Serena Rossi, che userà le armi del suo fascino per placare il suo desiderio di vendetta ne “La vampa d’agosto”. Isabell Sollman, sarà la ragazza dell’est che turberà i sonni del commissario ne “Le ali della sfinge”, poi sarà la volta di Mandala Tayde che ne “La pista di sabbia” interpreta una donna bellissima e infine Pia Panciotti e Francesca Chillemi in “La luna di carta”, due possibili assassine che inganneranno Montalbano portandolo a

Un nuovo e inaspettato stato d’animo lo porterà a rivalutare anche il suo rapporto con l’altro sesso e a cedere a “femmes fatales” che incontrerà nel corso delle indagini confrontarsi con la loro misteriosa psicologia.

Un prodotto ben costruito in ogni suo aspetto. La sceneggiatura di Andrea Camilleri, Francesco Bruni e Salvatore De Mola, la regia di Alberto Sironi capace di raccontare anche la bellezza selvaggia della Sicilia e l’interpretazione di Luca Zingaretti che ha sempre portato sulla scena il commissario Montalbano in tutte le sue peculiarità: l’essere testardo, diretto, brusco, spigoloso, con quello sguardo sempre cupo ma affascinante e quel senso particolare per l’indagine. Un

successo che ha messo d’accordo critica e pubblico tanto da meritare, al pari dei romanzi di Camilleri, sempre in testa alle classifiche dei libri venduti, numerosi riconoscimenti internazionali come una nomination agli Emmy Awards per il miglior prodotto della fiction internazionale nel 1999. Utilizzando il linguaggio tra italiano e dialetto, in parte attinto dalla tradizione in parte reinventato ad arte da renderlo comprensibile anche al nord, il celebre Salvo tornerà a tuonare «Montalbano sono», la frase che, se possibile, lo ha reso ancora più famoso. E così il commissario


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Miti italici. Come e perché vorremmo tutti essere Luca Zingaretti

Lo avevamo tanto amato (sì, anche noi maschietti) di Pier Mario Fasanotti rieccolo. Ci mancava da tre anni, se non si considerano le repliche che gli appassionati vanno a cercare (e trovano) ovunque, pure in un sito internet dove ci sono anche giochini mnemonico-polizieschi ispirati a lui. Domenica alle 21 su Rai Uno Luca Zingaretti dirà al telefono «Montalbano sono». Non siamo sicuri che ciò avvenga, ma ci scommettiamo. La frase è un marchio di identità. E ha una valenza ormai collettiva vista l’immedesimazione del maschio italiano in quella figura di sbirro onesto, iroso, simpatico, dotato di pìetas. Dovremmo dire: «Montalbano siamo tutti noi». O vorremmo essere. E ci credo: vive a due passi dal mare, si alza, sgambetta e si tuffa nell’acqua limpidissima della Sicilia, le «femmine» lo adorano, ha il fascino del comando anche senza divisa, se la deve vedere con tormenti interiori che lo sottraggono alla banalità del ruolo, allo stereotipo, allo stucchevole. Mica è sempre prevedibile: s’arrabbia anche quando non dovrebbe, geloso del lavoro della sua squadra ma non carrierista, capace di dirgliene quattro al questore, normalmente sornione ma con perimetri di pazienza non così ampi. Lo dice anche Zingaretti: «Lui piace ai maschietti, oltreché alle donne».Vorremmo essere lui. Stamane una mia amica mi ha confessato di non seguirlo più di tanto per il timore che il personaggio diventi un’ossessione. Ha paura di innamorarsene perdutamente. Per evitare crisi di astinenza, ha optato per una freddezza di principio.

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Domenica prossima ci saranno scene conturbanti. E così in controtendenza da farci dire “ohh… era ora!”. Sì perché Montalbano dimentica per qualche ora quella rompiballe di fidanzata Livia, genovese di Boccadasse, che quando sbarca a Punta Raisi mette in agitazione il poliziotto, spintonandolo verso una situazione infantile, universalmente conosciuta dagli uomini che per il loro lavoro non hanno la comprensione delle donne che li aspettano e li rimproverano, petulanti e richiedenti attenzione costante, allora dicono piccole bugie, s’arrampicano su sotterfugi da liceali, insomma non si sentono liberi. Tratto dal romanzo Vampa d’agosto (Sellerio editore, come tutti della serie), l’episodio televisivo è un inno liberatorio. La molto mediterranea Serena Rossi seduce lo sbirro, e lui ci sta. La vampata di passione inizia di notte, al mare. Si accarezzano in acqua, il resto si deve immaginare come è giusto che sia. Prendendo in prestito l’espressionismo gergale di Camilleri, si potrebbe tradurre così: «Ma che ci accucchia con noi?». La seduttrice di Montalbano non è «una povirazza» cui «le bisogna qualcosa». E’ solo una donna bruna e procace, frutto di Sicilia che accende il sangue. E con una tale tentazione di carne, in una sera di solitudine e con il cielo che fa da manto scuro al mare e alla terra, l’homo eticus (et etiam fidelis) cede e fa di quello smarrimento di sensi una passione (temporaneamente) sincera. Adriana, una delle corteggiatrici, gli fa notare che in casa sua non ci sono foto di Livia. Poi va alla carica, ridacchiando gli dice che è una scemenza pensare sempre alla differenza di età o alla cosiddetta età giusta: «Un venticinquenne? Un trentenne? Ma li hai visti? Li hai sentiti parlare? Quelli non sanno nemmeno com’è fatta una donna!». Ci rimarranno forse male quelli che non hanno superato i quaranta. I meno tonti rifletteranno su questa verità: ce lo auguriamo visto che Camilleri ripete ciò che molte donne oggi pensano e dicono.

Vive sul mare, le «femmine» lo adorano, è sempre imprevedibile e ha l’appeal del comando anche senza divisa

con il senso della giustizia che va oltre la legge tornerà nelle case degli italiani che, in questi lunghi dieci anni, lo hanno fedelmente seguito, come conferma Carlo Degli Esposti, presidente Palomar Endemol, la società che realizza la serie tv de Il Commissario Montalbano per Rai Fiction.

Negli anni gli episodi della serie, tra prime visioni e repliche, sono stati trasmessi 64 volte per un totale di oltre 350 milioni di spettatori e ogni episodio, seguitissimo anche nelle sue repliche, è stato visto in media da circa 32 milioni di spettatori con uno share del 32%. Numeri che fanno di questo prodotto il candidato ideale della rete ammiraglia per confrontarsi con Zelig (Canale 5), padrone incontrastato del lunedì sera.

oltre dieci anni più di Zingaretti. E poi non ha la testa rasata. Se all’inizio Camilleri ebbe uno «scanto» (spavento, in dialetto siciliano) nel sentire un quarantenne, e non un «cinquantino», presentarsi come il commissario Montalbano, poi si è abituato. Anzi, affezionato. A Zingaretti un giorno confessò: «Ormai io scrivo e penso a te». E Luca, che è attore ottimo sia al cinema che a teatro (qui cominciò la sua ascesa), ha avuto la tentazione di staccarsi definitivamente dall’ identificazione persona-personaggio. Poi ci ha ripensato: «Ma sì, ho fatto una stupidaggine». Sospiro di sollievo della casa di produzione, della Rai, di tutti noi: che reazione avremmo se vedessimo il poliziotto con un’altra faccia? Sarebbe un disastroso spaesamento. Zingaretti s’è fatto di nuovo sbirro anche per ragioni sentimentali: «In questi tre anni, mentre ero impegnato in altri progetti, il commissario mi è mancato, e così pure la troupe, i racconti di Camilleri, il ristorante che apriva anche se era chiuso durante l’inverno, il contadino che veniva sul set alle 10,30 a portarci la ricotta calda, a Ragusa».

Da domani, su Rai Uno, i nuovi episodi del “Commissario Montalbano”, come sempre interpretato da Luca Zingaretti (in questa e nella pagina a fianco, alcune immagini della serie tv)

Andrea Camilleri, il suo papà letterario, riscuote una simile simpatia. Anzi, ammirazione. Lo dicono in molti, chiaro e tondo: tanto di cappello - o meglio “baciamo le mani”- a un uomo che si è affermato nell’editoria a 69 anni. Successo tardivo, ma questo va imputato alla macchina libraria italiana che troppo spesso non sa intuire quel che un autore scrive e può scrivere domani, dopodomani. Non mancano gli scettici, ovviamente, quelli che dicono che quell’angolo del Ragusano è falso come una cartolina, che Vigata, paese immaginario che però dovrebbe assomigliare a Porto Empedocle (terra natia di Camilleri), è geografia astratta. Come non mancano coloro che vorrebbero il commissario meno critico verso il potere, che scambiano i suoi sussulti etici con il ribellissimo di sinistra. Il poliziotto s’avvilisce sovente per la pessima politica e per la pessima società: «Possibile» si chiede «che le cose non cangino mai?». Domanda che ogni italiano si pone, da mane a sera, a meno d’essere un allegrone militante di qualche partito, all’untuoso servizio di questo o di quello. La regia di Alberto Sironi è in linea con l’atmosfera dei romanzi. Ha firmato la serie televisiva gialla più lunga che l’Italia abbia mai avuto. Con le nuove quattro puntate si arriva a 18 episodi. Inevitabile un reciproco contagio. Ha detto Sironi:«In qualche modo è lecito parlare di osmosi creativa. I romanzi di Camilleri, dopo i film, si sono ispirati all’interpretazione di Zingaretti». E lo scrittore non smentisce, del resto adora come ogni “girgentino”gli specchi pirandelliani. Se si fa attenzione, nei libri il commissario ha


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SN&Y-Déjà Vu, nelle sale italiane da venerdì 24 ottobre, non assomiglia affatto a Shine A Light, lo scintillante ritratto confezionato da Martin Scorsese per celebrare l’animalesca vitalità dei Rolling Stones in azione sul palco. Piuttosto, è «un film politico nascosto dentro a un film concerto»: parola del regista e coprotagonista Bernard Shakey, alias Neil Young. Una matrioska che usa la musica per innescare un dibattito pubblico. Senza nessun intento nostalgico o celebrativo, come il titolo potrebbe far supporre.

C

A ricordare un passato che ciclicamente ritorna, qui, non sono tanto le facce invecchiate e le corporature appesantite di Young e dei suoi compagni di avventura, Stephen Stills, David Crosby e Graham Nash, né le loro canzoni che l’America si è tramandata di generazione in generazione. Sono piuttosto il clima di tensione sociale, la cappa funerea, le lacerazioni interne di un paese in guerra. Gli Stati Uniti di oggi come quelli del 1969, l’Iraq come il Vietnam, i quattro di nuovo insieme come a Woodstock. Si sono ritrovati nel 2006, dopo essersi infinitamente lasciati e ripresi, per un tour in Nord America esplicitamente dedicato alla Freedom Of Speech, la libertà di parola sancita dalla Costituzione americana.Young ha messo subito le cose in chiaro: nessuna tentazione consolatoria, la scaletta sarebbe stata costruita addosso alle canzoni nuove di Living With War, l’instant record da lui stesso scritto, registrato e sfornato in un battito di ciglia per protestare contro l’invio di truppe a Baghdad e l’operato del presidente George W. Bush. Poco altro, giusto le canzoni in sintonia con il tema e il “messaggio”dello show. What Are Their Names, che nel 1970 invocava esplicitamente nomi e cognomi dei responsabili dell’escalation militare nel Sud Est asiatico. Ohio, che Young scrisse quello stesso anno commentando a caldo l’uccisione di quattro studenti da parte della Guardia Nazionale, durante le manifestazioni di protesta contro l’invasione della Cambogia annunciata da Richard Nixon in tv. For What It’s Worth, nata do-

Polemiche. Continua a far discutere il film “anti-imperialista“ di Neil Young

Un «dittatore benigno» efficace come Michael Moore di Alfredo Marziano po uno scontro tra polizia e teenager sul Sunset Strip di Hollywood e di lì diventata colonna sonora dell’inquietudine giovanile. Wooden Ships, che nel 1969 proiettava i timori della guerra

zioni con la canzone di protesta non sono cosa di questi ultimi anni. CSN&Y le reinterpretano con la consueta, immutabile energia e levità, e per chi non li aveva persi di vista non è una

President, dove esorta i concittadini a mettere il bavaglio al capo dello stato accusandolo di falsità, abuso di potere, capriccio guerrafondaio e sperpero di denaro pubblico. Ad Atlanta, capi-

“CSN&Y-Déjà Vu”, nelle sale italiane dalla scorsa settimana, a detta del regista è «un film politico nascosto dentro a un film-concerto». Che critica senza troppi giri di parole le guerre intraprese nel tempo dagli Stati Uniti nucleare su uno scenario apocalittico da science fiction, ipotizzando come unica soluzione l’utopia hippie. E poi Military Madness, Teach Your Children, Find The Cost Of Freedom («scopri il prezzo della libertà/sepolto nel terreno») e Dèjà Vu, ovviamente, a ricordare che l’impegno civile dei quattro e le loro frequenta-

sorpresa. Più sorprendente, e rivelatore, è l’atteggiamento del pubblico, che non sempre mostra di condividere le parole e i messaggi che provengono dal palco. Soprattutto quando i quattro si spingono a Sud nelle roccaforti del partito repubblicano e Young intona il suo brano più controverso, Let’s Impeach The

tale della Georgia, sono fischi di disapprovazione, abbandoni repentini della sala, minacce esplicite («Sapete cosa mi piacerebbe fargli, a NeilYoung? Buttargli giù i denti a calci» sbotta uno spettatore imbufalito), mentre il reporter di guerra Mike Cerre indaga tra i volti e le parole dei reduci e dell’americano medio e la regìa Arriva in Italia il film di Neil Young (a destra) che tanto ha fatto discutere negli Stati Uniti d’America “CSN&Y-Déjà Vu”. Il “regista” ha riunito i suoi vecchi compagni di vita, Stephen Stills, David Crosby e Graham Nash (a sinistra) dando vita a una vera e propria pellicola-concerto di denuncia attaccando senza peli sulla lingua la politica imperialista Usa

intervalla canzoni e interviste con immagini brutali di guerra e notiziari televisivi che non rinunciano ad attaccare il gruppo per le sue prese di posizione. «Sarebbe stata una sciocchezza non includere l’altra campana, quelli che non la pensano come noi», ha spiegato Young. «Il tutto si sarebbe risolto in un gruppo di vecchi hippie che dal palco dicono quel che gli passa per la mente. A chi poteva interessare? Io stesso, da spettatore, mi sarei alzato dalla sedia». Invece, dice il canadese, «dall’inizio il film ha avuto un obiettivo: raccontare le reazioni della gente alla nostra musica. Presentare un nostro concerto filmato è un’esca per attirare il pubblico. Poi, di colpo, cambiamo registro». C’è voluto un attimo, a convincere gli altri. «Mi chiedevano di inserire una canzone sulle balene, o cose del genere, e io rispondevo che non se ne parlava proprio. Non dobbiamo dare modo allo spettatore di sganciarsi dall’amo, non dobbiamo lasciargli respiro. Come se stesse guardando la televisione». Alla fine,Young “il dittatore benigno”(la definizione è di Crosby) l’ha avuta vinta. E così CSNY-Déjà Vu vale quanto un film di Michael Moore o un reportage della Cnn, nel fotografare l’umore di una nazione divisa in due dalla guerra.

Anche la critica si è divisa, negli Usa: «Nel tentativo di tracciare paralleli con l’atmosfera degli anni ’60 e ’70», ha scritto Neil Genzlinger sul New York Times, «il film finisce soprattutto per sottolineare quanto tempo è passato da quando la musica aveva il potere di modellare e indirizzare il pubblico dibattito». Che Young sia un illuso, un vecchio hippie perso nella sua utopia d’altri tempi? Mica tanto, se lui stesso ultimamente se ne va in giro cantando che non basta una canzone a cambiare il mondo (Just Singing A Song Won’t Change The World). E allora, a quale scopo? «Volevo solo stimolare una discussione, spingere la gente a parlare di queste cose mentre torna a casa in macchina dal concerto. Qualcuno potrà pensare che sono tutte sciocchezze, qualcun altro ripenserà ai parenti morti in guerra e si chiederà se ne è valsa davvero la pena».


cinema

1 novembre 2008 • pagina 21

Festival del Cinema. Il vampiro buono di “Twilight” si chiama Robert Pattinson e sta già facendo impazzire migliaia di teenager

Così Dracula rimpiazza Harry Potter di Alessandro Boschi

na volta a Roma si vedevano al massimo i fantasmi, ed erano quelli simpatici e rassicuranti di Antonio Pietrangeli. Oggi le cose sono molto cambiate, e se vuoi avere successo devi attaccarti alla giugulare del (o della) partner. O almeno provarci, ad essere un vampiro, come fa il protagonista di Twilight Edward Cullen, il film diretto da Catherine Hardwicke in uscita il 21 novembre. Ciò che abbiamo visto ieri sul red carpet dell’Auditorium ha davvero del sorprendente. Mentre la nostra unica preoccupazione era di infilare una pausa durante il solito temporale pomeridiano per raggiungere lo scooter e darcela a gambe, centinaia di ragazzine incuranti del diluvio si assiepavano a ridosso della rossa promenade dei divi.

U

Incuranti e tremanti, ve lo assicuriamo, perché ne abbiamo viste alcune sorridenti ma al limite dell’assideramento. Il rosso del tappeto fradicio di gelida acqua sarebbe stato da lì a poco calpestato dai piedi di Robert Pattinson. Robert Pattinson, mica Colin Farrell o George Clooney. No, questa non andava detta, questa è una considerazione da non fare, perché rivela tutta la nostra inadeguatezza nel trattare i miti adolescenziali. E sì, perché il nostro Robert in pochissimo tempo, e grazie soprattutto al successo dei libri di Stephenie Meyer da cui il film è tratto, ha piantato la sua bandierina di leader che adolesce (questa è di Fiorello o per lo meno dei suoi autori) sul cuore di milioni di ragazzine. È lui l’incarnazione di Edward Cullen, protagonista dei quattro volumi che hanno venduto circa sei milioni di libri. Ed è lui che sembra destinato a rimpiazzare, o almeno a provarci, Harry Potter, che peraltro proprio Robert Pattinson ha frequentato avendo recitato in uno degli episodi sebbene in un ruolo minore. Il diluvio nulla ha potuto contro il delirio, dicevamo, e le ragazzine venute non solo da tutta Italia ma anche dall’estero, erano lì per vedere il loro divo in questi appena quindici minuti di film (più un po’ di backstage) che sono sul web tra i più cliccati della storia. Quando succedono queste cose, quando questi miti nascono in così poco tempo ci sovviene sempre la caducità delle cose terrene, e anche una battuta di Beppe Grillo quando faceva solo il Beppe Grillo: raccontava di un tizio che

ché non capita sempre di imbattersi in un vampiro di 108 anni che ha la mentalità di un adolescente (un po’ la storia di tutti). Ma se i divi cambiano i vampiri restano, e restano i mostri e resta un pubblico vastissimo che li adora. Certo, ogni epoca ha la sua declinazione cinematografica, ma non c’è dubbio che “il diverso”, perché di questo si tratta, funziona. Ciò spiega anche il successo non solo di serie di culto come Buffy l’ammazzavampiri o Vampire High, ma anche di tutte quelle costellate da mostri vari e, per gradire, extraterrestri di ogni specie. Il meccanismo funziona perché l’adole-

Il film, diretto da Catherine Hardwicke, uscirà in tutte le sale cinematografiche italiane a partire dal prossimo 21 novembre

entra in un negozio di computer per acquistare gli ultimi ritrovati della tecnologia: «Mi dia l’ultimo modello di calcolatore, l’ultimo modello di processore, l’ultimo modello di schermo», e via così di novità in novità. Felicissimo fa per uscire dal negozio con il suo formidabile computer quando incrocia un altro avventore che sta entrano nello stesso negozio. Questi dà un’occhiata ai suoi acquisti e fa: «Ah, vedo che ha preso il modello vecchio…». Questo per dire che oramai anche i ROMA. Dopo il Marc’Aurelio alla Carriera asmiti sono diventati usa segnato a una strepitosa Gina Lollobrigida e getta. Nel caso del («Tornare al cinema, perché no?»), il nostro Robert PattinMarc’Aurelio d’Oro del pubblico al miglior son c’è da sperare che film del Festival di Roma è arrivato alle 19.10 duri un po’ di più, perdi ieri ed è andato dritto a Resolution 819 di Giacomo Battiato, che si è in questo modo aggiudicato i 75mila euro offerti per il premio da

scente al quale è rivolto il prodotto si identifica con il protagonista, essendo anch’egli un diverso, un abitante di quella terra di mezzo in cui non si è più bambini e non si è ancora uomini.

Un adolescente è un mostro perché non ha ancora una identità sociale ben definita. Questi telefilm, e anche film come appunto Twilight, funzionano alla perfezione perché divertono e abilmente creano empatia con il pubblico. Non perché tutti sono mostri e quindi anche chi, come spesso capita ad un adolescente, un mostro si sente, ma perché si prende coscienza che anche la normalità socialmente riconosciuta e accettata non è altro che una categoria prestabilita, esattamente come quella alla quale i mostri appartengono.

La Finocchiaro miglior interprete. “Opium war” riceve il Premio dei critici

Va a Battiato il Marc’Aurelio d’Oro Bnl. La giuria dei critici, composta da Edoardo Bruno, Michel Ciment, Tahar Ben Jelloun, Emanuel Levy e Roman Gutek, ha invece assegnato il suo Marc’Aurelio d’Oro al miglior film a Opium War di Siddiq Barmak. Il Premio Marc’Aurelio d’Argento alla migliore interprete femminile l’ha acciuffato Donatella Finocchiaro per Galantuomini di Edoardo Winspeare, mentre il Marc’Aurelio d’Argento al miglior interprete maschile è stato assegnato a Bohdan Stupka per With a Warm Heart, di Krzysztof Zanussi. Menzioni speciali della giuria sono poi andate alle pellicole A Corte Do Norte (La tenuta al nord) di Joao Botelho e a Aide Toi, Le Ciel T’Aidera, di François Dupeyron.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

dal “Los Angeles Times” del 29/10/2008

Lo scandalo dei “blast wall” a Baghdad di Jeffrey Fleishman ono le cupe architetture del surge, grigi eserciti che interrompono la linea dell’orizzonte. Baghdad è la città dei muri antikamikaze - blast wall – che si ergono partendo dal fiume Tigri e proseguono verso le rovine, nei quartieri pieni di rabbia di Shula e Sadr city. Come sentinelle di cemento, costruite di recente dall’esercito, sigillano e sequestrano. Sono capaci di assorbire qualsiasi impatto esplosivo, rendendo inutili le azioni dei folli dinamitardi. Color cielo in collera, non sono così belli da vedere. Ma gli artisti mandati in giro dal Baghdad University college di Belle arti, che ha avuto incarico dal governo di dare dignità artistica a quei muri, sono riusciti, negli ultimi venti mesi, a trasformarli in enormi tele dove raffigurare paesaggi, ritratti, forme astratte e immagini dall’antica Babilonia. A Sadr city, uno di questi nastri di cemento arriva a misurare quasi un miglio di lunghezza.

S

antichi monarchi, paludi al sud, catene montuose a nord, il Tigri e l’Eufrate avvinghiati, e poi i colori vivi dei Caraibi che sorgono da spazzatura e discariche: prendono la forma di creature alate, cigni e delfini che saltano fuori dal mare.

Un risciò su tre ruote apre e chiude il muro da entrambi i lati. Moschee, donne che mietono il grano, falchi che si librano in cielo in cerca di prede, ma anche improbabili scene tratte da film sono il segno di questo passaggio artistico. «Non importa il nostro lavoro, se non per il popolo iracheno», afferma Asad Sagheer uno dei professori universitari che al suo intervento ha dato una svolta caratteristica, da un lato impressionista, dall’altra di realismo storico. «Vorremmo creare una sensazione di bellezza in mezzo a tutta questa violenza. Ogni muro produce sensazioni profonde, legate all’agonia della città. Così devi creare un’armonia che superi questa sensazione e puoi farlo solo dipingendo qualcosa che ami veramente». Guidando attraverso la città puoi vedere le diverse tonalità cambiare. Color seppia per gli

In questo modo i muri hanno una loro tranquillizzante narrativa che si staglia nella vita quotidiana delle persone: ragazzini che giocano con pistole giocattolo, donne avvolte dalle tuniche nere e appena dietro quei muri, ci sono invece i soldati, che hanno armi vere e che mettono benzina nei loro gipponi. «Dipingere questi muri è l’unica cosa che ci è rimasta. L’Iraq dei semplici non può fare altro, perchè è abituato a subire tutto. Siamo come i prigionieri che accettano tutto dai loro carcerieri», continua Wisam Rahdi, un uomo dagli occhi stanchi e le maniere gentili, parlando della parete di cemento che sta dipingendo. «Così accettiamo anche i muri, come siamo abituati a fare con tutto. Ma dipingendoli cerco di rendere bello qualcosa che ho intorno» continua, raccontando di come scappò da Saddam Hussein rifugiandosi a Malta. Questi recinti hanno portato l’arte e anche il commercio a Sadr city.Hanno tenuto alla larga le auto da alcune zone, ma costeggiano strade percorse dai motorisciò, con fino a sei persone abbarbicate dentro e fuori. Uno degli autisti di questi mezzi è fermo in attesa di clienti: «Cercano di renderli guardabili, più belli, ma sono sempre una barriera», si lamenta Abu Baqr. «Temiamo restino per sempre. Se li dipingono sarà così. Meglio che vederli di quel grigio, ma il danno è lo stesso». «Li potrebbero anche dipingere con oro vero, ma rimangono sempre dei guinzagli stretti

intorno al collo che ci soffocano». In fondo ad un’altra strada a ridosso del muro c’è il banco di mele di Zahra Abed. Le mosche svolazzano intorno e Zahra fa quello che può per tenerle lontano, senza grande successo. La frutta è matura e cominciano a marcire. Compratori se ne vedono meno e lei appoggiata al muro pensa alla sua sfortuna.

Un marito morto, sette bambine e nessun figlio maschio che possa aiutarla. «Gli affari sono diminuiti di un terzo a causa del muro», confessa. «L’altro giorno ho dovuto buttare frutta per 70 dollari». Qual’è allora il colore dell’Iraq? Color della sabbia e bianco delle ossa. Ma le immagini della storia dell’antica Babilonia sono lì a spiegare chi sono gli iracheni. Un giorno probabilmente i muri saranno abbattuti. «Spero non tutti - dice Sagheer - mi spiacerebbe fosse dimenticato tutto ciò che abbiamo dipinto».

L’IMMAGINE

Il decreto Gelmini è solo un taglio nella Finanziaria, non una riforma scolastica Sono un semplice studente della facoltà di lettere e filosofia di Arezzo. Quello che stiamo vivendo in questi giorni si presenta con un carattere ambiguo ed è difficile prendere una posizione precisa. Se da una parte si pensa che questa pseudo riforma universitaria potrebbe eliminare dagli atenei casi di nepotismi e di “baronati”, dall’altra parte, esiste il forte timore che il sistema universitario continuerà con lo stesso e identico metodo che conosciamo avendo però a disposizione minori risorse finanziarie. Se qualcuno mi chiedesse per chi parteggio ci terrei a dire che innanzi tutto non credo che questo sia un fatto da giudicare secondo partiti presi.Tutto ciò non deve essere uno scontro politico, ma uno scontro di principi e di “logica” e di ragionamento: capire di cosa ha bisogno la nostra Italia. Se dovessi scegliere, risponderei che mi sento contro il decreto Tremonti-Gelmini. Non perché non ne rispetto l’impianto, ma solo perché non è una riforma ma solo un taglio di bilancio.

Stefano Duranti - Arezzo

IL VALORE DELL’AGRICOLTORE È SOTTOSTIMATO Fra i finti tonti - mistificatori e imbroglioni consapevoli - vi può essere colui che sbandieri il suo titolo di studio (spesso pezzo di carta di scarso valore) come fattore di gran superiorità rispetto al lavoratore manuale e soprattutto all’agricoltore. Questi è talvolta degradato - dall’insulsaggine - a semplice “zappatore” e “vangatore”. L’agricoltura - soggetta a competizione internazionale - ha conseguito enormi incrementi produttivistici; produce e cede ottime derrate a prezzi bassi; contrasta il carovita e l’inflazione; e, quindi, avvantaggia il consumatore e il sistema economico generale. L’agricoltura è ormai industrializzata e richiede al coltivatore moderno, specializzato e qualificato,

«capacità uguali e forse superiori a quelle richieste dalla massa delle operazioni industriali». Il lavoro agricolo è basilare trasformazione economica materiale; contribuisce al benessere comune in modo reale, diretto, rilevante e silente; comporta fatica, responsabilità e rischio elevato d’infortunio. Al merito agricolo corrisponde l’inadeguatezza del compenso e della considerazione sociale.

Gianfranco Nìbale Padova

LO STUDIOSO VERO È PIÙ FRANCESCANO CHE VENALE Alcuni addetti alla pubblica istruzione facciano autocritica. Si palesano: alto costo del servizio; baronie; personale soprannumerario (non tutto egregio per didattica e ricerca); limitata eccellenza delle

La notte delle carogne Un avvoltoio di Rueppell (Gyps rueppellii) ”festeggia” Halloween con qualche ora d’anticipo, sbirciando incuriosito all’interno di una zucca. Altro che ”dolcetto o scherzetto”, stanotte il rapace avrà impegni ben più urgenti nostre università nei confronti internazionali; mediocre preparazione d’alcuni laureati e diplomati italiani. Alcune rilevanti scoperte si devono a ricercatori autonomi, non a stipendiati pubblici. Guglielmo Marconi inventò la radiotelegrafia, senza aver seguito corsi regolari di studio. Il grande filosofo razionalista Baruch Spinoza – pensatore libero e inflessibile, ge-

loso della sua indipendenza – rifiutò l’offerta della cattedra di filosofia presso l’università di Heidelberg. Egli si garantì l’autosufficienza economica, esercitando l’arte della molatura delle lenti per strumenti ottici. Da Marconi e Spinoza scaturiscono moniti esemplari per quei baroni e stipendiati pubblici che pretendano dallo Stato soldi e soldi; ignorando la neces-

sità di razionalizzare la spesa e ridurre disavanzo e debito pubblico. Il denaro può essere l’obiettivo del mercante , non dello studioso autentico. Questi mira al sapere, alla preparazione, alla scoperta e all’innovazione scientifica; inoltre, non patisce frustrazioni e complessi d’inferiorità se guadagna meno di taluni mercanti.

Lettera firmata


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dai circoli liberal

Il mio credo è l’amore e tu sei il mio unico dogma Mia cara ragazza, in questo momento mi sono messo a copiare dei bei versi. Non riesco a proseguire con una certa soddisfazione. Ti devo dunque scrivere una riga o due per vedere se questo mi assiste nell’allontanarti dalla mia mente anche per un breve momento. Sulla mia anima non riesco a pensare a nient’altro. È passato il tempo in cui avevo il potere di ammonirti contro la poco promettente mattina della mia vita. Il mio amore mi ha reso egoista. Non posso esistere senza di te. Mi scordo di tutto salvo che di vederti ancora – la mia vita sembra fermarsi lì – non vedo oltre. Mi hai assorbito. In questo preciso momento ho la sensazione di essermi dissolto – sarei profondamente infelice senza la speranza di vederti presto. Sarei spaventato di dovermi allontanare da te. Mia dolce Fanny, cambierà mai il tuo cuore? Amore mio cambierà? Non ho limiti ora al mio amore… Il tuo biglietto è arrivato proprio qui. Non posso essere felice lontano da te. È più ricco di una nave di perle. Non mi trattate male neanche per scherzo. Mi sono meravigliato che gli uomini possano morire martiri per la loro Religione – Ho avuto un brivido. Ora non rabbrividisco più. Potrei essere un martire per la mia religione – la mia religione è l’amore – potrei morire per questo. Potrei morire per te. Il mio credo è l’amore e tu sei il mio unico dogma. Non posso farlo più – il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te. John Keats a Fanny Brawne

ACCADDE OGGI

LA SCUOLA IN REALTÀ NON È UN COVO DI COMUNISTI I cittadini vi votano e se vergognano al tempo stesso. Non è raro. Non è un caso. Dite che, a sostenervi, sia una maggioranza silenziosa e fingete di non capire perché. Per contro, in piazza va la minoranza manipolata dall’opposizione. Davvero strano. I vostri elettori sono nel “giusto”e se ne vergognano, hanno “ragione” e tacciono. Vi attribuite un consenso in crescita “miracolosa” ma siete sempre più animati da spirito di vendetta. E non sapete neanche dissimularlo. Basta vedere la ministra Gelmini al Senato durante l’approvazione del decreto che porta il suo nome: è livida di rabbia. Chissà con chi ce l’ha. Se con i milioni di studenti e docenti in piazza o con Tremonti che s’è presa gioco di lei, penalizzando il ministero dell’Istruzione più di qualunque altro. Quelle “vecchie volpi” dei suoi colleghi di governo hanno cercato di proteggerla nascondendo i provvedimenti che penalizzano la scuola in decreti sull’economia (112/08) e sulla sanità (154/08). Nel decreto sulla scuola (137/08 o Gelmini) ci sono pochi tagli e tanti specchietti per le allodole. Ma non è bastato. Non perché la scuola sia un covo di comunisti. A frequentarla sono solo persone istruite. Capaci d’informarsi e valutare. Di capire e reagire. Persone che non hanno ma sanno. Sono donne e uomini che non hanno rendite di posizione da difendere ma obiettivi da raggiungere. È gente che, all’astuzia, preferisce la perizia. Alla sup-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

1 novembre 1512 Il soffitto della Cappella Sistina, dipinto da Michelangelo, viene mostrato al pubblico per la prima volta. 1604 Al Whitehall Palace di Londra, prima dell’Otello di William Shakespeare. 1611 Al Whitehall Palace di Londra, prima de La Tempesta di William Shakespeare. 1800 John Adams diventa il primo Presidente degli Stati Uniti ad abitare la Casa Bianca. 1885 Papa Leone XIII pubblica la Lettera Enciclica Misericors Dei Filius, sulla natura soprannaturale della Chiesa, sul potere ecclesiastico e sul potere civile, sulla iniquità delle ideologie moderne. 1897 Un gruppo di studenti del Liceo Classico ”Massimo D’Azeglio”di Torino fonda la Juventus. 1952 Operazione Ivy - Gli Stati Uniti detonano con successo la prima bomba all’idrogeno. 1960 Durante la campagna elettorale per le presidenziali USA, John F. Kennedy annuncia l’idea dei Corpi della pace.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Francesco Rositano, Enrico Singer, Susanna Turco Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio,

ponenza la sapienza. Sono per la competitività leale ed il merito reale. Nella scuola italiana ci sono persone che rigettano il privilegio di casta, censo e razza. Vogliono regole certe e chiare, meglio se condivise. Regole, spazi ed opportunità che siano per tutti e non siano calibrate su pochi individui e singoli ceti.

Gianfranco Pignatelli - Roma

BISOGNA INVESTIRE NELL’IMPRENDITORIA D’ECCELLENZA Di fronte a comportamenti fraudolenti le autorità gestori dei mercati finanziari e la magistratura devono duramente reprimere ed efficacemente prevenire. Di fronte a violenti cali di fiducia dei risparmiatori è giusto che i governi e le banche centrali intervengano e gestiscano l’emergenza. Ma che fare di fronte ai fondi sovrani? L’Occidente deve estendere e migliorare i modelli di capitale diffuso e popolare: public companies; banche popolari; consorzi agricoli e industrie alimentari oltre che reti ristorative di alta qualità; catene del lusso e soprattutto venture capitalist che finanziano efficientemente ricerca e innovazione. È soltanto investendo in un’analoga imprenditoria d’eccellenza diffusa tra le basi sociali (in primis reti territoriali, famigliari, meritocratiche e telecomunicative) che anche vicino e lontano Oriente potranno coniugare finanza statale e incremento, per i rispettivi popoli, di libertà, crescita economica, ambiente vivibile e integrazione globale.

SAVIANO, PUNTO E A CAPO Al punto in cui siamo giunti, questa storia rischia di diventare infinita, di superare la realtà e francamente tutto quello che è troppo finisce per guastare. Saviano oramai imperversa dalle Filippine al Messico, facendo sembrare tutto non più la lotta di un “simbolo” contro la camorra, ma uno spot pubblicitario “in progress” a favore di uno scrittore e la sua produzione editoriale. La Campania, (è chi scrive è Campano), il Sud è l’Italia tutta, e piena di uomini e donne, dentro e fuori dalle istituzioni che, da sempre in varie forme e con vari contenuti combattono la Camorra e il malaffare. Uomini e donne che per la loro scelta coraggiosa vivono in condizioni difficili e quotidianamente pagano un prezzo altissimo senza per questo diventare “eroi” nazionali nei simboli assoluti. Capiamoci, nessuno è contro Saviano, piena solidarietà e vicinanza allo scrittore di “camorra”, ma non tutto può essere ridotto solo ad uno spot ne tanto meno bisogna caricare troppo di responsabilità e significato un libro e il suo autore che, come tanti altri tentano di dimostrare l’intreccio malefico tra camorra, politica e società civile e non a Napoli e in Campania. Personalmente avverto la esigenza di un po’ di silenzio “stampa”. Non contro e nella lotta alla camorra, non nella denuncia quotidiana del malaffare e dei suoi molteplici aspetti, ma per ricondurre nella giusta dimensione un uomo e la sua opera. Saviano, come tanti altri, è riuscito a dare il suo contributo alla causa contro le mafie, come dovremmo fare un po’ di più tutti noi, uomini impegnati a (Ri)costruire una società migliore, ma non può diventare lo “stereotipo” dello scrittore impegnato che diventa bello, ricco e famoso, solo perché si autoalimenta mediaticamente, altrimenti avremo smarrito il senso della battaglia e confuso la realtà con la finzione con il rischio che qualcuno invece di guardare alla luna vede solo il dito. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO CIRCOLI LIBERAL

APPUNTAMENTI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 2008, ALLE ORE 11, PRESSO PALAZZO FERRAJOLI A ROMA Riunione Nazionale con i coordinatori regionali, provinciali e comunali dei Circoli liberal

Matteo Maria Martinoli - Milano

Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato,Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

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e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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