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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Berlusconi non è autoritario, ma ha screditato partiti e Parlamento

di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

MALESSERE & POTERE Crack finanziari, impoverimento economico, diffidenza verso gli stranieri, impotenza di fronte alla criminalità, precarietà delle risorse mondiali. Viene voglia di nascondere la testa nella sabbia...

Basta parlare di regime, però la democrazia è “vuota” di Renzo Foa rmai non passa giorno senza che la questione del corretto funzionamento della nostra democrazia venga in qualche modo riproposta nel dibattito politico. Non erano ancora spenti gli echi dell’intervista di Walter Veltroni al Corriere della sera, e già l’argomento veniva riproposto in Parlamento da una discussione stimolata da Pier Ferdinando Casini, dopo le dichiarazoni di Silvio Berlusconi sul ricorso alla decretazione d’urgenza da parte del governo e con le conclusioni del presidente della Camera, Gianfranco Fini, che si è fatto carico del problema posto, che ne ha riconosciuta la fondatezza. s e gu e a pa gi n a 4

O

Le risposte che il governo ancora non dà

L’era della paura alle pagine 2 e 3 Crisi delle banche e delle Borse

Così Brunetta licenzierà 300mila precari

Il virus economico tra lo Stato e il Mercato

di Insider

di Gian Luca Galletti

di Errico Novi

Nella Finanziaria spunta a sorpresa una norma in base alla quale tutti i rapporti temporanei nella Pubblica amministrazione saranno chiusi a partire dal 1 gennaio 2009.

Siamo tornati alla realtà, dopo 20 anni passati a credere a strane teorie economiche che ci hanno fatto pensare che il mercato potesse assicurare benessere e produttività. Ma chi ha fallito?

Guglielmo Epifani. Ovvero il cantore del sindacalismo puro e ostinato. È un nostalgico della vecchia politica e resta asserragliato nel suo fortino munito di obiezioni. Tutto questo paga?

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VENERDÌ 3 OTTOBRE 2008 • EURO 1,00 (10,00

Veltroni incontri Marcegaglia e la Cgil rilancia sui contratti

Il ruggito di Epifani, l’ultimo antagonista

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he anche la scuola e l’università debbano contribuire a fare sacrifici per attraversare senza danni irreparabili la grave crisi economica e sociale del Paese sembra scontato. L’ha detto il presidente della Repubblica, lunedì 29 settembre, nella tradizionale inaugurazione dell’anno scolastico al Quirinale. Se davvero, dunque, in Italia, vigesse nella realtà solo quel minimo di «patriottismo costituzionale» che molti ostentano nella retorica politica, tutti, maggioranza e opposizioni, parti sociali e parti culturali, dovrebbero essere d’accordo almeno su questo. Considerarlo il punto di partenza non negoziabile. se gu e a p ag in a 8

pagina 7 CON I QUADERNI)

di Giuseppe Bertagna

C

Chi governa deve cavalcarla per guadagnare consenso o avere il coraggio di combatterla? Una norma nella Finanziaria

I tagli servono, ma per quale modello di scuola?

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Economisti, piscologi, scienziati della politica analizzano l’esito della grande crisi

La paura fa politica ei sa se qualcuno vende il proprio appartamamento in questo stabile?» chiede con cortesia l’impiegato della società immobiliare a chi gli apre la porta di casa. Poi, discreto, lascia un volantino che promette condizioni vantaggiose per chi voglia cedere il proprio appartamento velocemente. È una scena che in queste ore si ripete nei pianerottoli dei condomini di molte città italiane: a Roma a Milano a Firenze e ovunque mutui impazziti seminano panico da mesi.

«L

I professionisti della paura non hanno perso tempo. Sono già al lavoro e non solo nel campo della speculazione economica ed edilizia. La politica per esempio sul filone della paura scava già da tempo, ricavandone consenso peraltro. In fondo le ultime elezioni non l’ha vinte la destra proprio sulla sicurezza mentre la sinistra parlava di pulsioni securitarie? E non è forse la sinistra che ora soffia col mantice sul fuoco della paura per la crisi economica e per la presunta torsione autoritaria mentre la destra al governo tenta di fare economia di panico? La paura ha smesso di essere qualcosa di astratto. Certo questi ultimi sono stati gli anni delle nuove grandi paure – nuove malattie, microcriminalità metropolitana, degrado ambientale, esaurimento delle risorse, manipolazioni genetiche, immigrazione, crisi di identità culturali – ma erano incubi che stavano sullo sfondo, che si incarnavano episodicamente. Adesso la paura la respiri nell’aria, ha cominciato a mordere sulle vite di milioni di persone. Si pesa, si misura nelle statistiche che registrano una contrazione dei consumi impressionante nel nostro Paese, primo segnale, dicono gli esperti, di arroccamento psicologico e timore per il proprio futuro. Gli ultimi dati Istat registrano un crollo di consumi generalizzato. Le vendite dei beni non alimentari sono calate del 3,4 per cento e sono destinate a diminuire ma anche per i beni alimentari il calo è considerevole: meno 0,8 per cento che potrebbe diventare meno 1 per cento. Non c’è un solo bene all’acquisto che non fletta nelle vendite: resta quasi stabile solo la spesa per la sicurezza personale. Se a questo si aggiunge la sempre maggiore difficoltà

Crollo dei consumi, insicurezza economica, rischio recessione: come si governa l’angoscia? di Riccardo Paradisi delle aziende e dei singoli ad accedere al credito e il rischio percepito di inflazione e recessione le possibilità che la paura si trasformi in panico crescono. Come cresce il rischio che la crisi si avviti in un circolo vizioso contagiando tutti i settori della vita associata. Che fare? «Sappiamo da questo fine settimana che l’Europa, come era prevedibile, è pesantemente investita dallo tsunami finanziario – dice l’economista Tito Boeri, economista della Voce.Info

– negli Stati Uniti, nonostante il periodo elettorale, i due candidati alle presidenziali hanno trovato un accordo per un piano di emergenza. Criticabile per quanto sia è un piano. L’Europa deve dare prova di analoga determinazione nel bloccare l’estensione della crisi. La prima cosa da fare sarebbe quella di affidare a una agenzia indipendente, se non alla Bce, le responsabilità di vigilanza sul sistema bancario». La politica dunque. Chi si rivede, verrebbe da dire, dopo la lunga

eclisse che sembrava averla definitivamente archiviata. Che poi la politica si ripresenti in coppia con la paura non deve sorprendere. Da Machiavelli a Julien Freund, passando per tutto il realismo politico, ci è stato spiegato che angoscia, inquietudine e timore sono stati sempre indicati come l’ingrediente segreto della politica, la ragion d’esistere di ogni ordine civile. Ora è diventato più chiaro. «L’avevamo rimossa la paura in questi decenni di euforia generalizzata – ragiona Claudio Risè, psicoanalista e saggista – che ha generato la società degli eterni adolscenti. Senonché con

Avevamo creduto che sicurezza e stabilità fossero cose acquisite per sempre. Ora ci accorgiamo che tutto è cambiato. Se la politica non riuscirà a governare l’angoscia, il destino delle reti sociali sarà la loro corrosione ROMA. «È noto che la paura non solo esiste nell’opinione pubblica, ma come dimostrano i recenti casi di attualità, è anche motivata. In questo momento la sfida più grande è quindi quella di gestirla. E la responsabilità che incombe sulla politica è di rispondere in maniera razionale alle preoccupazione della gente, cercando di rassicurarla, realizzando risultati concreti senza farsi prendere dal panico». Ugo Volli, professore di Semiotica del testo e di Filosofia della Comunicazione all’Università di Torino, raccomanda la prudenza, come migliore strategia: «È il peggior nemico del panico». Poi invita la classe politica ad una maggiore responsabilità. «Finora - prosegue - la classe dirigente non lo è sempre stata: pensiamo alla pro-

l’arrivo di questa crisi, a lungo attesa da chi non aveva creduto nelle favole degli anni Novanta sull’economia iimmaginaria, la paura torna moltiplicata. Gli adolescenti ricchi non sono mai stati infatti particolarmente coraggiosi, figurarsi gli adolescenti finti che capiscono di essere adulti inetti di fronte agli impegni e ai drammi della maturità».

Insomma la crisi economica, dentro cui ci troviamo immersi e che come uno tsunami attraversa il mondo, avrebbe almeno la funzione di smascherare la retorica felicizzante della società occidentale. «Dove intere generazioni – continua Risè – sono state allevate all’idea che l’assunzione della posizione adulta potesse nella vita essere sempre rimandata, restando il più possibile nella condizione ovattata di consumatori perfetti ed elettori docili. Ora questa triste festa è finita. Torna il principio di realtà». Ed è dalla realtà che la paura trae origine. Per dirla con Julien Freund, politologo francese di scuola realista, «la paura è un’emozione spontanea e vitale dell’essere che, per sua stessa natura, reagisce alle condizioni ambientali è un aspetto elementare dell’esistenza da cui l’intellettualità spesso ci svia». Governare la paura è un compito appunto della politica: «La paura, comunque motivata, accresce il bisogno di sicurezza, ma quest’ultima, «è una neutralizzazione della paura, non con l’esclusione di ogni paura, ma con la riduzione, nella

Il semiologo Ugo Volli tranquillizza i catastrofisti: «Il problema si può risolvere»

«È qui che l’esecutivo si gioca la faccia» colloquio con Ugo Volli di Francesco Rositano posta di prendere le impronte digitali. Questa misura non solo è demagogica ma è il modo peggiore di rispondere alla paura». Professore, secondo lei questa è l’era della paura? Sicuramente i segnali che arrivano dal mondo non sono rassicuranti. E la paura ha quindi la sua ragion d’essere. Ci sono però modi e modi di affrontarla. Pensiamo alla crisi finanziaria negli Stati Uniti. Il presidente

americano George W. Bush ha dimostrato di saper gestire la situazione a costo di scontrarsi con il Congresso e con la destra più ideologica, rinunciando ad un liberismo assoluto. In questo caso c’è stata una gestione della crisi che forse riuscirà a scongiurare pericoli peggiori. L’importante è non farsi stravolgere dagli eventi. Ed è questa la sfida principale che la classe politica deve affrontare, realizzando cose positive e cercando di indirizzare questo stato d’animo dell’opinione pub-

blica. Le strade sono due: la prima è studiare soluzioni concrete facendo anche dei sacrifici; la seconda è cercare di rimuovere le cause del problema. A suo avviso, il rischio più grosso in questa fase non è quello di farsi trasportare dall’istinto nelle scelte politiche? In generale non si può pensare alla scelta politica come ad una scelta razionale. Inoltre, va aggiunto che in certi momen-


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Il saggio. Robin spazia dal nazismo ad al-Qaeda

È il vero motore del dominio mondiale D di Massimo Fazzi

Un operatore di borsa attonito di fronte al crack dei mercati. A destra un anziano che chiede la carità. Nella pagina accanto un immigrato che fronteggia la polizia. Sotto il sociologo Ugo Volli. misura possibile, di ciò che rischia di deteriorare l’ordine di una società». Ma la politica è all’altezza di questo compito nell’era della paura globale? «La politica non ha scelta – dice Paolo Pombeni, politologo dell’università di Bologna – o riesce a governare la crisi e la paura che ne consegue oppure il rischio è la corrosione della rete sociale. Occorre investire in servizi e soprattutto educazione, un settore su cui non scommette più nessuno. Non si possono lasciare le nuove generazioni in balìa di media che veicolano, ancora fuori tempo massimo, messaggi

elementari intonati al consumismo estremo e a una religione del successo mentre stiamo rientrando, dopo cinquant’anni di relativa stabilità, nella società del rischio e dell’angoscia». All’inizio della sua autobiografia in versi, Vita carmine expressa, Thomas Hobbes ricordava che la sua nascita prematura fu causata dal panico che si diffuse in Inghilterra, all’arrivo dell’Invencible Armada: «E fu così che la mia cara madre partorì a un tempo due gemelli, me e la paura». Anche chi nasce oggi sembra destinato ad avere con sè lo stesso gemello.

ti le decisioni dettate dalla paura possono essere giuste e razionali: si pensi a Eisenhower a Churchill, figure molto rassicuranti scelte in preda all’angoscia. Non si può non dire però che a volte un modo di procedere di questo tipo può essere sbagliato: in molti scelsero Mussolini per timore del biennio rosso, pentendosi subito dopo. Qual è il punto, quindi? Il problema è quanto la scelta maturata dalla paura rispetti certi criteri di competenza, di integrità personale, di equilibrio. C’è un esempio classico. Le ricerche mostrano che chi teme di essere ferito e rapinato e si dota di una pisto-

la corre molti più rischi rispetto al non essere armato. In questo caso la paura che induce, ad esempio, un tabaccaio a tenere la pistola nel cassetto è una cattiva scelta. Al di là dall’aspetto morale della faccenda, ci sono ragioni oggettive, per cui i danni possono essere maggiori dei benefici. La paura, invece, può avere risultati positivi solo se si accompagna alla razionalità. Tornando all’esempio precedente quindi la risposta non deve essere quella di dotarsi di un’arma ma di prendere misure di sicurezza aggiuntive, promuovendo una maggiore presenza di polizia o assumendo una guardia giurata di quartiere.

opo l’11 settembre la retorica americana tende a vedere la paura come una sensazione salvifica, che ha spinto gli Stati Uniti a fare la cosa giusta e la popolazione a vedere in una nuova e più corretta prospettiva i fatti della vita. Corey Robin, professore di Scienze politiche al Brooklyn College - University of New York traccia nel suo ultim libro - Paura, La politica del dominio Università Bocconi editore 336 pagine, 25 euro - la storia dell’uso politico della paura e ci fa riflettere sulle strumentalizzazioni che le élite ne fanno. Le testimonianze di alcuni dirigenti delle maggiori reti televisive americane, per esempio, fanno capire fino a che punto le loro paure e, di conseguenza, l’autocensura, abbiano contribuito a plasmare un’interpretazione omogenea degli attacchi di al-Qaeda e della reazione americana. La prima parte del volume di Robin analizza quattro sfudello mature stesso sentimento: la paura come concepita da Hobbes, che ne riconosce il potenziale utilizzo come strumento politico; il terrore secondo Montesquieu, che vede un despota brutale e sadico esercitarlo per pura soddisfazione personale e individua nelle istituzioni della società liberale gli strumenti attraverso i quali disfarsene; l’ansia che, secondo Tocqueville, serpeggia tra gli orfani dei legami gerarchici dell’Ancien Régime; il terrore totale esercitato dalle dittature del XX secolo al fine di annullare ogni traccia dell’io nelle proprie vittime e descritto dalla Arendt nelle Origini del totalitarismo. Troppi pensatori, secondo Robin, hanno avuto la colpa di descrivere la paura in forme che escludono il suo utilizzo politico.

gono il maggiore beneficio anche quando la paura è del genere fondato sulla contrapposizione tra la comunità e lo straniero. In quanto protettori ufficiali della sicurezza della comunità, decidono quali minacce siano più rilevanti ponendo, per esempio, l’accento sulla minaccia irachena rispetto a quella nordcoreana, su quella del terrorismo islamico rispetto a quella del terrorismo interno».

Altrettanto importanti risultano i collaborazionisti, ovvero tutti coloro che, sulla base di una scelta consapevole, decidono di farsi strumenti o complici della paura politica. È il caso del carrierista Eichmann come descritto dalla Arendt, ma è anche il caso dei medici che decisero di partecipare alle torture dei dissidenti sudamericani nella seconda metà del Novecento o di gran parte dell’industria cinematografica negli anni del maccartismo. Se molti dei materiali storici utilizzati da Robin riguardano proprio la lotta anticomunista di McCarthy e Hoover e la repressione del dissenso nell’Europa orientale, l’autore conclude con la descrizione di una paura politica più sottile e dagli esiti fortunatamente meno tragici, che Corey chiama Paura American Style, e che si annida, prima di tutto, nei luoghi di lavoro. Un genere di paura esercitata non tanto dallo stato, quanto dalla società civile e che trae linfa vitale da quegli stessi accorgimenti che dovrebbero garantire il buon funzionamento dello stato liberale. La separazione dei poteri, per esempio, comporta guerre di potere che possono spingere il presidente degli Stati Uniti, come è successo con Truman, a emanare ordini repressivi per evitare che il congresso indaghi sulle inclinazioni comuniste dei suoi collaboratori; il federalismo fa sì che il cittadino possa essere minacciato da più articolazioni dello stato; il principio della legalità consente a chi dispone di risorse economiche di allungare a dismisura i processi, provocando abbandoni e ritirate nel campo avverso. L’uso politico della paura è destinato a rimanere vivo, conclude Robin, fino a quando si continuerà a porre maggiore attenzione ai mali da evitare rispetto ai beni da conseguire. La paura è la risorsa politica di chi ha rinunciato a perseguire la giustizia, l’uguaglianza, la libertà.

Una storia dell’uso politico della paura, che ci fa riflettere sulle strumentalizzazioni che le élite ne fanno

E invece, prendendo l’avvio da una seconda fase del pensiero della Arendt, quella della Banalità del male, Robin fa vedere che la strumentalizzazione della paura presuppone una serie di attori che agiscono nel proprio interesse. Le élite «più di ogni altro gruppo cercano di introdurre la paura politica e ne raccolgono i benefici. Se la paura è del genere esercitato dai vertici verso il basso della società, le élite la creano attraverso una coercizione diretta e immediata, sostenendola nel corso del tempo per mezzo delle leggi e dell’ideologia. Le élite prendono l’iniziativa e trag-


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politica

Il limite più grave di Berlusconi non è l’autoritarismo, ma non aver fatto nulla (da 15 anni) per superare la crisi dei partiti

Il vero difetto di B. La sinistra non è credibile se grida al regime ma la nostra democrazia è ”vuota” di Renzo Foa segue dalla prima C’è dunque da tornare a chiedersi perché il nervo resti scoperto, perché il tema continui a dominare le varie fasi che la Repubblica sta vivendo. La risposta non è semplice, se si vuole sfuggire, come è meglio fare, alle semplificazioni in cui troppo spesso si fa ricorso. Anzi, è complicata perché l’Italia continua a rappresentare, in Occidente, un caso a sè, non paragonabile a nessuna altra esperienza. È il caso – se si può dire in sintesi – di una democrazia che non viene direttamente minacciata da nessuno, ma che nello stesso tempo nessuno cerca di rivitalizzare, di riproporre, di ricostruire.

Da quanto tempo è così? Se riflettiamo sul lungo periodo, bisogna risalire alla crisi del vecchio sistema dei partiti e quindi alla stagione di «mani pulite» per individuare l’inizio della crisi. Dunque ormai quasi un ventennio o poco meno. Da allora, dall’inizio degli anni novanta dello scorso secolo, la democrazia italiana ha cominciato non resistere più al suo logoramento. Fu lo smantellamento dei grandi partiti di massa ad aprire un vuoto che non è stato mai colmato. Perché in quel passaggio non sparirono solo la Dc, il Psi e i loro alleati di governo, ma a ben guardare si dissolse anche il vecchio Pci, se di deve storicamente pensare a quel partito come uno dei maggiori fattori di equilibrio del sistema, come ad una camera di compensazione della società, con tutti i suoi collateralismi, esattamente come lo era stato lo Scudo Crociato. I partiti furono, dopo il 1945, anche quando erano in aperta lotta fra di loro, il collante della democrazia. La loro mancata autoriforma – anche qui si può pensare ad una data, al decennio ottanta – fu all’origine dello spazio lasciato all’ondata distruttiva di «mani pulite» e alla prima ferita che si aprì, per infettarsi rapidamente. Basta guardare a ciò che c’è oggi e fare un confronto: è perfino difficile chiamarli partiti, è quasi impossibile vederli come una

sede di partecipazione dei cittadini, è perfino arduo considerarli come un «posto della politica». Cosa sono? Centri di potere, nelle mani di ristrette élites, in cui la selezione delle classi dirigenti avviene sulla base di criteri opachi e, soprattutto, di cui è difficile vedere uno scopo, se non appunto quello di impadonirsi delle amministrazioni e dei «centri di spesa». E se è vero che la crisi della forma di partecipazione partitica – formatasi nell’Ottocento – è un fenomeno che riguarda l’intero Occidente, è però anche vero che non c’è una crisi così grave da nessuna altra parte. Anzi, altrove i partiti, per quanto indeboliti rispetto al passato, hanno cercato di autoriformarsi e continuano a svolgere un ruolo egemonico nel dibattito politico e culturale. Basta guardare a quel che accade in tre dei maggiori paesi europei – il Regno Unito, la Germania e la Francia – dove la discussione tra i laburisti o tra i conservatori, tra i socialisti o tra i neo-gollisti, tra i socialdemocratici o tra i cristiano-sociali resta un motivo di attrazione e di ricerca del consenso. Nulla a che fare con quel che sono le due sigle che pretendono di interpretare compiutamente il nostro bipolari-

smo, cioè due costruzioni a freddo come il Partito democratico e il Popolo delle libertà, fondate essenzialmente sul leaderismo e per nulla sulla dialettica.

Ma nella nostra «transizione infinita» ad una Repubblica con nuove regole e quindi con una democrazia più forte, non pesa negativamente solo il vuoto lasciato dai partiti e, di conseguenza, da ciò che si definisce crisi di rappresentanza. C’è infatti da aggiungere tutto il peso negativo di culture politiche che non hanno saputo rinnovarsi e che sono rimaste ferme al palo. Lo ha già notato Pierluigi Battista, quando ha parlato di una «vecchia narra-

zione» nell’allarme sulla democrazia lanciato la settimana scorsa da Veltroni. Ma va comunque ripetuto che quella intervista rifletteva un pregiudizio destinato a rendere fastidioso il solo sentire quegli allarmi. Mi annovero tra coloro che ritengono che la sinistra italiana non abbia alcun titolo per accusare Silvio Berlusconi di minacciare la democrazia. Per troppi anni dalla sinistra è giunta solo la demonizzazione dell’avversario, troppo a lungo da quell’area dello schieramento si è rivendicata una ingiusticata superiorità morale e si è lavorato ad una divisione in due del paese «tra bene e male» per poter ancora ascoltare giudizi come quelli dati al Cor-

La denuncia di Pier Ferdinando Casini, ieri mattina alla Camera

Il Parlamento? Lo fate diventare un ente inutile Pubblichiamo il testo dell’intervento che l’onorevole Pier Ferdinando Casini ha tenuto ieri mattina alla Camera. Signor Presidente, scusi se le faccio perdere pochissimi secondi. Il mio gruppo ha molto apprezzato la sua iniziativa di ieri in ordine allo stallo in cui il Parlamento versa per la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi. Capiamo evidentemente che non dipende da lei, più di tanto, l’esito finale, ma abbiamo apprezzato la sensibilità istituzionale con cui ha posto ai presidenti di gruppo della maggioranza tale questione.\\\u2028Con la stessa franchezza, siamo rimasti sconcertati questa mattina dalle parole dell’onorevole Tremonti, per l’assoluta inutilità che attribuisce evidentemente al ruolo del Parlamento. Vorrei però dirle un’altra cosa: in tutti i giornali di oggi è enunciato un proposito del Presidente del Consiglio. Come lei sa, noi non lo demonizziamo affatto e non lo riteniamo affatto il male di questo Paese (come altri dell’opposizione), ma egli ha enunciato a più riprese, nella giornata di ieri, il suo proposito di ricorrere maggiormente rispetto a quanto fatto finora alla decretazione d’urgenza, in quanto questo deve diventare lo strumento ordinario del Gover-

no del nostro Paese. Con molta serenità credo che dobbiamo su questo fare un punto politico e istituzionale in Parlamento, perché la decretazione d’urgenza è stata usata come non mai all’inizio di questa legislatura.\\\u2028Sono state poste questioni di fiducia come non mai, anche espropriando il Parlamento di discussioni importanti. Ora, il nostro Paese - che ha un sistema parlamentare, finché la Costituzione non viene cambiata - si trova in una condizione paradossale. Nel presidenzialismo americano, in ore come queste, si ricerca il confronto tra repubblicani e democratici in Parlamento. Noi, dopo tutto quello che si è vissuto in questi mesi, in cui il Parlamento praticamente ha registrato il ruolo di passacarte, nella migliore delle ipotesi, ci sentiamo dire che bisogna andare ancora più avanti sulla strada della decretazione d’urgenza. Non si tratta di un problema di rapporto tra la maggioranza e opposizione: è un problema istituzionale di rapporto tra Parlamento e Governo, di cui lei, signor Presidente, è il primo depositario.Temo che la deriva che abbiamo assunto porterà probabilmente, nella prossima legge finanziaria, a presentare un emendamento per l’abolizione degli enti inutili, tra i quali si classificherà il Parlamento! Se non restituiamo un minimo di dignità al nostro ruolo, veramente diamo un grande colpo alla credibilità del Parlamento.


politica

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Doppio attacco al premier, da destra e da sinistra

Qui accanto, Silvio Berlusconi in Parlamento, luogo che di fatto la sua politica ha ”svuotato”. Sotto, a destra, Gianfranco Fini sulla poltrona di Presidente della Camera; più in basso, Walter Veltroni. Nella pagina a fianco, Pier Ferdinando Casini

riere della sera dal segretario del Pd. È dalla manifestazione milanese del 25 aprile del 1994 che si sente la stessa musica, con gli stessi autori e con le stesse note per non essere ancora convinti del danno provocato da quel tipo di mobilitazione pubblica e dagli argomenti con cui è stata sostenuta. Sarebbe stata più credibile una sinistra – sia all’opposizione che al governo – più decisa nel dire come avrebbe dovuto evolvere la democrazia italiana o come avrebbe dovuto essere ricostruita. Ma non lo è stata perché l’unico slogan che si è sentito in questa stagione è stato quello della «minaccia berlusconiana» e del pericolo provocato dal potere mediatico del premier quando è premier o del leader dell’opposizione quando è stato leader dell’opposizione.

Detto a chiare lettere, non sono tra coloro che ritengono che Berlusconi rappresenti «una minaccia alla democrazia».Anzi penso che non l’abbia mai minacciata e che, nel 1994, con la sua discesa in politica abbia invece contribuito a stabilizzare la crisi italiana. Aggiungo che è anche ingiusto e sbagliato muovergli accuse infondate, se non altro perché ha avuto il merito di proporre una rivoluzione liberale, certamente rimasta inattuata, ai cui contenuti, come la riduzione della pressione fiscale, si è spesso riferito anche Veltroni, da quando è leader del Pd. Aggiungo poi che egli ha senza dubbio meritato i successi elettorali che ha conseguito nel ’94, nel 2001 e nel 2008, pensando anche avrebbe meritato di vincere anche nel 2006. Però c’è una critica seria che gli si può muovere: è quella di non avere tra i suoi obiettivi la ricostruzione della democraza italiana, della riconoquista dei cittadini ad una partecipazione attiva e di un virtuoso rapporto tra i poteri dello Stato. Pensa, giustamente, all’efficienza dell’esecutivo, al funzio-

namento della pubblica amministrazione, ad una riforma costituzionale nella direzione del federalismo e di una maggiore responsabilità dei cittadini. Ma nelle sue visioni, almeno da quanto si legge e si ascolta, non sono troppo presenti quegli strumenti indispensabili per ricostruire una democrazia logorata come è quella in cui viviamo. Ad esempio la discussione e il confronto politico. Ad esempio la scelta delle rappresentanze. Ad esempio la dialettica parlamentare. Si tratta però di rimpoveri che la sinistra non ha titolo di muovergli. Perché essa, almeno dal 1994 ad oggi, ha avuto gli stessi difetti, fino alle ultime forzature con cui Veltroni ha pensato di fissare per legge un rigido bipolarismo, accordandosi direttamente con il leader della maggioranza. Un’opposizione forte e consapevole, invece di lancare strali, dovrebbe incalzare il capo del governo ad assumersi la responsabilità di pensare alla ricostruzione della democraza italiana. Sapendo oltretutto che tanto più il tempo passa quanto più questo ritardo diventa difficile da colmare. E allora i fondamenti della democrazia potrebbero davvero essere messi in pericolo.

Fini:«È vero,troppi decreti» Veltroni:«Silvio mai al Colle» di Francesco Capozza

ROMA. Aula semivuota, toni soporiferi ieri mattina a Montecitorio. La crisi internazionale non scuote la Camera, convocata di buon mattino per ascoltare il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Una comunicazione, quella del governo, in realtà incentrata più sulla finanziaria che sul crack dei mercati. Il superministro suscita poche reazioni tra i cento e poco più deputati che seguono i lavori iniziati alle 8.30.

Del resto, salvo Pier Ferdinando Casini e qualche ministro ombra (spicca Pierluigi Bersani, omologo di Tremonti nel Pd), i big hanno disertato l’appuntamento parlamentare. Un solo lampo nel corso della prima parte della seduta. È sul finire, quando Tremonti (come “nota finale”) finalmente accenna alla crisi internazionale. I banchi dell’opposizione si rianimano: brusio, qualche fischio, ironie. Parentesi brevissima. Tremonti liquida la crisi in poche battute. Solo il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini affonda il colpo: «Comunicazione burocratica, è un’occasione persa per il governo». Poche ore dopo, al termine di una mattinata iniziata sonnecchiando ma finita con diversi momenti di tensione, nello stesso emiciclo di Montecitorio i riflettori si sono puntati sullo scranno più alto per le dure parole di biasimo del presidente Gianfranco Fini nei confronti del governo e dell’abuso di decreti legge. «Il ricorso ai decreti legge rientra tra le prerogative del governo - ha precisato Fini - ma un eventuale abuso di questo strumento non solo determinerebbe valutazioni di tipo politico, ma anche il diritto della Camera di far sentire la propria voce». Di più, il presidente della Camera ha infierito precisando che c’è una Carta costituzionale che, evidentemente, il governo ha troppo spesso sottovalutato e talvolta perfino scavalcato. «È certo che fino a quando non sarà modificata la Costituzione, ed è mio auspicio che ciò possa avvenire entro questa legislatura, è evidente che il rapporto tra Governo e Parlamento è chiaramente indicato e nessuno può pensare di comportarsi diversamente» ha infatti aggiunto Fini rispondendo all’opposizione che gli chiedevano di intervenire in relazione all’annunciato incremento dell’uso dello strumento dei decreti legge da parte del presidente del Consiglio. Infatti, contro l’annuncio

del premier di un aumento del ricorso ai decreti era intervenuto in Aula anche Pier Ferdinando Casini con il discorso che pubblichiamo qui a fianco. Di tutt’altro parere il presidente del Senato Renato Schifani, che, intervenendo in Aula al termine delle dichiarazioni di voto sul decreto Alitalia, riferendosi anche alle affermazioni di Berlusconi, ha detto di essere «sereno» rispetto all’attività dell’assemblea e di non ravvisare «elementi di discrasia rispetto alla precedente attività legislativa», anzi «c’è un’accelerazione dell’attività parlamentare».

Una seconda doccia fredda per il governo è stata, nel primo pomeriggio di ieri, l’anticipazione dell’intervista che il leader del Partito democratico Walter Veltroni ha rilasciato a L’Espresso in edicola oggi. Secondo Veltroni, infatti, Silvio Berlusconi «non può andare al Colle e non può fare il capo dello Stato». La questione era stata aperta due giorni prima da Massimo D’Alema, il quale si era dichiarato senza «nulla in contrario» rispetto all’eventualità che l’attuale premier -in un sistema presidenziale- potesse correre per la presidenza della Repubblica. «Se mi si chiede se il presidenzialismo mi inquieta - si legge nell’intervista al leader del Pd - la mia risposta è no. Se, invece, mi si domanda se in questo momento in Italia è giusto passare a un sistema presidenziale, rispondo ancora no. Le istituzioni sono figlie della cultura del tempo e in Italia, in questo momento, è necessario rafforzare le istituzioni di controllo». La presidenza della Repubblica è tra queste?, domanda il giornalista del settimanale romano. «Oggi - replica Veltroni - al Quirinale c’è Giorgio Napolitano, in precedenza ci sono stati Carlo Azeglio Ciampi, Oscar Luigi Scalfaro, persone che hanno fatto il bene del Paese». Il Colle, spiega, il segretario dei Democratici, «è un luogo dove devono esserci figure che garantiscano la Costituzione, conoscano le regole del gioco, rispettino le opinioni di tutti, accettino il dissenso.Tutto ciò che Berlusconi non è. Ho visto che Bossi ha detto che per lui Berlusconi al Quirinale andrebbe bene. Per me no, non va bene avverte - per fortuna il problema non si pone: fino al 2013 al Quirinale ci sarà Napolitano, una garanzia per tutti».

Il segretario del Pd attacca: «Ho visto che Bossi ha detto che per lui il premier al Quirinale andrebbe bene. Per me no, non dà garanzie»


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politica

La compagnia low cost denuncia il salvataggio alla Ue: «È un aiuto di Stato illegale e ridicolo»

Ryan air scalpita contro Alitalia di Alessandro D’Amato

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Processo civile, Alfano: riforma non blindata Il testo della riforma sul processo civile, approvato ieri dalla Camera come collegato alla manovra, non sarà blindato al Senato. Ad assicurarlo è il ministro della Giustizia, Angelino Alfano (nella foto), che esprime la sua soddisfazione per il via libera dato alla riforma, nonostante l’approvazione di un emendamento del Pd, che il Guardasigilli ritiene «tecnico» e che dunque non snatura l’impianto del testo governativo. «La seconda lettura al Senato - assicura il ministro - sarà seria e non pro-forma». Secondo Alfano, «l’opposizione non è contraria all’introduzione di un filtro» per limitare l’elevato numero dei ricorsi, ma «il dissenso è su come realizzare questo filtro», perciò «ci confronteremo nel merito con l’opposizione e valuteremo di migliorare» il testo.

Alemanno: non alzeremo le tasse

ROMA. Non è il primo e non sarà neanche l’ultimo. Con un tempismo davvero da professionisti, nel giorno dell’assemblea di Cai e della votazione in Senato per le modifiche alla legge Marzano, Michael O’ Leary torna all’attacco contro Alitalia. Ryanair ha presentato un esposto alla Commissione Europea contro il piano di salvataggio, sostenendo che esso comporta «un aiuto di Stato non consentito». «È l’ultimo salvataggio finanziario. Il governo italiano - afferma in una nota Jim Callaghan, direttore legale degli irlandesi - ha cancellato fino a 2 miliardi di euro di debiti di Alitalia, garantisce gli investimenti dei componenti del consorzio e ha sottoscritto forti concessioni ai sindacati in cambio del loro accordo a questo piano ridicolo; è la seconda volta che lo fa». Anche se il vettore sinonimo di low cost sembra non farsi troppe illusioni su come finirà la partita: «Non abbiamo dubbi che la Commissione Ue metterà il timbro anche su questo farsesco salvataggio, come è stato fatto in altri casi negli anni precedenti, ad esempio nel caso di Olympic». Insomma, ‘O Leary colpisce ancora (con un occhio alla legge e un altro alla pubblicità), e i toni del comunicato di Ryanair, che usa anche la parola “ridicolo”, sembrano fatti apposta per finire nei titoli dei giornali, ma anche ad avere poca attenzione da parte di Bruxelles, dove, alla commissione Trasporti, hanno fatto sapere di non aver ancora ricevuto il ricorso. Più pregnanti sono invece i segnali man-

dati da Antonio Tajani al governo nei giorni scorsi, incentrati sulla necessità di “discontinuità” tra vecchia e nuova compagnia (anche per i contratti) e, soprattutto, sulla questione degli asset della vecchia Alitalia che devono essere acquistati “a prezzi di mercato”. Perché le maggiori insidie si concentrano proprio nella fase che sarà gestita dal commissario Augusto Fantozzi: è quello il punto di maggiore vulnerabilità, perché uno o più ricorsi in sede d’asta potrebbero complicare non di poco il cammino della Cai. E, dopo il primo provvedimento,

Intanto, la Sea conferma: «Non abbiamo alcuna intenzione di rinunciare alla causa da 1,2 miliardi contro la vecchia compagnia» anche i debitori potrebbero provare a farsi sentire. Intanto, Giuseppe Bonomi, presidente della Sea, ha fatto sapere, smentendo le voci circolate nei giorni scorsi, che Malpensa non ha alcuna intenzione di rinunciare alla causa da 1,2 miliardi di euro contro Alitalia. Probabile che la dichiarazione sia in qualche modo anche tattica, visto che arriva prima della scelta del partner straniero da parte della Cai, e i gestori dello scalo varesino non hanno mai nascosto la loro preferenza per Lufthansa. E sempre ieri è arri-

vato l’ok al ddl governativo sulla Marzano, con 149 sì e un no: l’opposizione (Udc e PD) ha deciso di non partecipare alla votazione.

Non preoccupa più di tanto nemmeno Roberto Colaninno il ricorso di Ryanair: il presidente di Cai si è trincerato dietro un «ne hanno il diritto» alla richiesta di commentare la scelta del vettore, dopo l’assemblea che ha ufficializzato il rientro della Compagnia Aerea Italiana nella partita. All’incontro hanno partecipato, oltre Colaninno, l’amministratore delegato Rocco Sabelli, Marco Fossati, Salvatore Mancuso (Equinox), l’Ad di Intesa San Paolo Corrado Passera insieme al responsabile del Corporate della banca Gaetano Miccichè, Fausto Marchionni (Fonsai) e il patron di Pirelli Marco Tronchetti Provera. All’uscita, Passera ha dichiarato che la scelta del partner straniero avverrà nelle prossime settimane: nonostante la tranquillità ostentata, Cai tirerà per le lunghe il balletto Air France-Lufthansa, almeno finché da Bruxelles arriverà il via libera al piano. E ai piani alti della Commissione Europea stanno ancora aspettando la risposta del governo ai rilievi sul prestito da 300 milioni trasformato in capitale; è prevedibile che anche su quel punto si arrivi a una censura del comportamento dell’esecutivo, ma senza troppe conseguenze su quanto avverrà nei prossimi mesi. La Cai è pronta al decollo. Il prezzo del biglietto sembra essere ormai solo un dettaglio.

«Non alzeremo le tasse e le tariffe e non taglieremo le spese sociali, perché aumenteremo gli introiti e ridurremo le uscite». Lo ha assicurato il sindaco di Roma Gianni Alemanno, ieri mattina in Campidoglio, durante l’incontro in aula Giulio Cesare con i presidenti dei Municipi fissato per illustrare loro il Piano di rientro e di sviluppo per la città. «Domani - ha aggiunto - il governo dovrebbe varare il decreto con cui il Comune riceverà 500 milioni e il debito sarà rateizzato fino al 2048. Così toglieremo quel debito dal bilancio annuale. Anche così, però, saremo sotto di 100-200 milioni. Negli anni scorsi Roma ha speso più di quanto incassava».

Indagato il leghista Gentilini La Procura di Venezia ha aperto un fascicolo sulle frasi contro gli islamici pronunciate dal vice sindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini (nella foto), durante la festa della Lega Nord a Venezia, il 14 settembre scorso. L’ipotesi di reato è di istigazione all’odio razziale. Dal palco, lo ”sceriffo” aveva tuonato «contro quelli che vogliono aprire le moschee e i centri islamici», scagliandosi contro «i phone center, i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri: che vadano a pisciare nelle loro moschee». Gentilini se l’era poi presa con «i bambini che vanno a rubare agli anziani» e aveva dichiarato di non volere vedere «neri, marroni o grigi che insegnano ai nostri bambini».

Sanità, accordo governo-regioni È una pagina con quattro punti, il documento che è stato firmato ieri mattina dal premier Silvio Berlusconi e dal presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, nella quale vengono assicurati i 434 milioni per i ticket sanitari del 2009 e si parla di avviare da subito il tavolo per la definizione del nuovo Patto per la salute 2010-2012.

Libia, Frattini: imprese italiane privilegiate Grazie all’Accordo italo-libico, siglato il 30 agosto scorso, «tutte le imprese italiane avranno sostanzialmente un diritto di accesso privilegiato alle gare d’appalto che serviranno proprio per spendere quei cinque miliardi di dollari che Roma si è impegnata a versare a Tripoli». Lo ha affermato, ieri, il ministro degli Esteri, Franco Frattini (nella foto), al termine del question time al Senato. Il ministro si dice «certo» che la Libia rispetterà il trattato bilaterale firmato il 30 agosto scorso per quel che riguarda la lotta all’immigrazione clandestina, che è «uno dei pilastri di questo accordo». Una frase finale è andata a sbollire la polemica su un punto caldo dell’intesa «nessuno si è mai sognato di mettere in discussione il trattato Nato».


politica

3 ottobre 2008 • pagina 7

Contratti. Mentre Veltroni incontra la Marcegaglia, il leader della Cgil lancia il suo manifesto ROMA. Cosa ha originato il cambio di rotta su Alitalia? Dove e quando nascono le perplessità dell’attuale maggioranza, Lega in testa, sull’accordo con Air France? In campagna elettorale. Può darsi che la scelta abbia avuto il suo peso sul risultato del 14 aprile. Certo il governo ha dato l’impressione, anche in quest’ultima fase della vicenda, di saper ben coniugare il piano strategico con quello dell’immagine. Evidentemente a Veltroni e al Pd il gioco è meno confacente. Le elezioni sono andate come si sa, il tentativo di conquistare uno spazio sulla scena è finito male – dicono i sondaggi – an-

che in quest’ultimo, decisivo passaggio su Alitalia. Resta l’impulso comune a maggioranza e opposizione di spostare il confronto politico nel campo mediatico. Se n’è avuta ulteriore conferma ieri, quando Veltroni ha prima presentato il suo incontro con la leader di Confindustria Emma Marcegaglia come un preziosissimo contributo alla riforma del modello contrattuale e poi ha annunciato un altro “vertice ombra”, per lunedì prossimo, con Cgil, Cisl e Uil. Va bene l’ispirazione anglosassone, ma iniziative del genere tradiscono piuttosto l’affannosa rincorsa all’immagine, per ora inattaccabile, di Silvio Berlusconi.

Il gioco paradossale cambia i rapporti tra maggioranza e opposizione. Introduce uno schema anomalo, in cui il conflitto reale è sempre schiacciato dal botta e risposta quotidiano. Eppure c’è almeno un attore che prersevera nel sottrarsi a questa liturgia: è appunto Guglielmo

Il ruggito di Epifani, l’ultimo antagonista di Errico Novi Epifani, rimasto cantore del sindacalismo puro, ostinato, estenuante. È un nostalgico della vecchia politica, resta asserragliato nel suo fortino munito di obiezioni e rifiuti. Tutto questo paga? Con Alitalia è andata meno peggio di quel che a un certo punto gli iscritti alla Cgil hanno

temuto. Con la riforma dei contratti si vedrà. Non basterà certo il tavolo a quattro convocato da Walter. Di sicuro la sfida sarà difficile, spinosissima, perché la storia si ripete a breve distanza: la Cisl di Raffaele Bonanni e la Uil di Luigi Angeletti sono disponibili a discutere sul modello proposto da Confindustria. Guglielmo si barrica ancora, resta solitario in trincea. Ieri Emma Marcegaglia ha ribadito che «non si accettano veti», tantomeno quelli di Epifani. Che bisognerà eventualmente valutare l’accordo separato con il sindacato rosso. E che in ogni caso lei sa benissimo cos’è la scala mobile e quali danni è in grado di produrre: «Ero una bambina, all’epoca, come dice Epifani: ma ho studiato».

E Guglielmo si è studiato a sua volta la proposta. La eccepisce nel metodo. «Dire sì a questo contratto di Confindustria porterebbe poi alla firma di accordi diversi con i commercianti, con

«Con il modello che propone, Confindustria ci porta nel far west», dice Guglielmo, che costringe di nuovo il Pd a scuotersi

Guglielmo Epifani chiede a Cisl e Uil di sedersi di nuovo attorno a un tavolo per trovare una linea comune sul modello contrattuale proposto da Confindustria, ma non sembra intenzionato a recedere dalle sue posizioni critiche. Lunedì prossimo parteciperà con Angeletti e Bonanni a un “tavolo ombra” convocato dal segretario del Pd Walter Veltroni, che ieri ha incontrato il numero uno di Viale dell’Astronomia Emma Marcegaglia

le imprese agricole, con lo Stato. E in ognuno di questi potrebbe essere proposto un calcolo dell’inflazione diverso: ne deriverebbe un danno irreparabile, un problema gigantesco che è esattamente il contrario di quanto proposto in piattaforma con le altre sigle. Questo si che è

far west». Lui fa il cow boy solitario. Sbuffa, sbatte la porta, non sta al gioco. Mette in crisi le altre organizzazioni, genera inevitabili risentimenti. Forse non si misura con il dato di realtà, quando protesta per il calcolo dell’inflazione depurato dal costo dell’energia. O forse fa semplicemente la sua parte di sindacalista. Con irriducibile simpatia per le vecchie maniere. Con un pizzico di paura della solitudine, certo.Tanto che in mattinata, dopo l’appello accorato e senza pretese rivolto alla Marcegaglia («decida secondo coscienza») ne ha subito trovato un altro per Bonanni e Angeletti: «Sediamoci attorno a un tavolo, dobbiamo sapere esattamente cosa andiamo a firmare».

Nel pomeriggio ha ritrovato la consueta riottosità. Ha messo sul tavolo i dati dello studio IresCgil: con la proposta di Viale dell’Astronomia i salari precipiterebbero del 2,7 per cento in 4 anni. Eppure questo è «il problema

grande come una casa», a cui si aggiunge, secondo il segretario confederale, «il metodo di una proposta che fa acqua dappertutto». Cosa spinge un leader sindacale a sbattere la testa con tanta pervicacia? Forse la sensazione che c’è ben poco da perdere, che sulla carta la partita è già chiusa in favore del nemico. Non foss’altro perché di fronte c’è un blocco assai più stabile di quello su cui contava il centrodestra del quinquennio 2001-2006. Adesso con la maggioranza s’intendono le banche, Confindustria, e poi è scomparsa la sinistra vera. Epifani non può più confrontarsi nella dialettica in-

terna alla sua parte politica. È costretto a esasperare la vocazione del suo sindacato a farsi partito, espressa in condizioni assai diverse nel biennio dell’ultimo governo Prodi. Stavolta è solo, e non sembra un vantaggio. Eppure la difesa della trincea si avvale in qualche modo di un principio di etica pubblica: se davvero l’ultimo, anomalo baluardo della sinistra in Italia è la Cgil, allora s’impone per Berlusconi il dovere di non schiacciarlo. È questione, questa sì, di democrazia. E poi a furia di restare soli si riesce pure a riconquistare alla causa qualche soldato renitente. Per esempio il Pd, il cui vertice ieri ha ripreso per un attimo gli abiti dell’antagonismo di classe e ha provato a mettere sull’avviso il presidente di Confindustria: «Attenti a dividere i sindacati, attenti al modello Sacconi, perché per quella strada non si va da nessuna parte». Sarà pure un magro bottino, per Epifani. Ma i cow boy sono abituati a vivere con poco.


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politica

Dalle discussioni sulla struttura e sulla strategia si è passati a quelle sui voti, sulla condotta e sul grembiule

La scuola ignorante Il tagli sono necessari, ma al governo manca una “visione” d’insieme di Giuseppe Bertagna segue dalla prima Del resto, come accettare senza indignazione che nel recente Piano programmatico triennale per i tagli nella scuola si confessi al Parlamento, nero su bianco, che ci sono migliaia di dirigenti scolastici, direttori amministrativi e, soprattutto, centinaia di migliaia di docenti che, se si fossero rispettate le leggi vigenti dal 1999, senza chiudere occhi per complicità e aggirarle per la teoria del doppio stato, quello formale delle leggi e quello materiale dell’apparato burosindacale, non ci sarebbero affatto dovuti essere? Chi paga adesso queste negligenze? Il solito Pantalone, o salterà, almeno per educazione civica, qualche alta testa ministeriale che c’era ieri e c’è oggi e che dice oggi ciò che doveva fare ieri?

Stesso discorso per le università. I rettori piangono miseria. È loro dovere. Ma sarebbero molto più credibili se in questi anni non avessero inventato veri e propri subprime formativi: centinaia e centinaia di corsi inutili, sedi improbabili, posti per discipline lunari, concorsi scandalosi, master inutili, e non avessero allegramente abbassato la qualità degli studi pur di aumentare il numero delle matricole. I tagli, perciò, si devono fare. Quantitativi e qualitativi. Il problema vero, però, è come farli e, soprattutto, perché, in vista di quali prospettive future. Se manca questa “visione” strategica, come motivare la società e la scuola ad attraversare il mare invece di continuare a bordeggiare, con il rischio di sfasciarsi su scogli imprevisti, con una ciurma tra l’altro litigiosa e risentita? Per semplificare (ma non troppo), per la risposta a questi interrogativi, assistiamo allo scontro di due “visioni” di pensiero e di azione. La prima si potrebbe chiamare della “razionalizzazione contabile”. Se ci sono due, anzi a volte tre e quattro insegnanti nella stessa ora vanno ridotti a uno solo. Se c’è un orario di insegnamento pari a 40 ore si riducono a 32. Se le ore sono 32 si riducono a 27, se ci sono quasi 1000 indirizzi o 4000 lauree si riducono alla metà e così via. In altri termini: potare vigorosamente

gli accidenti (o in termini marxiani le sovrastrutture), ma lasciare la sostanza (in termini marxiani la struttura) degli ordinamenti scolastici e universitari attuali. La scuola e l’università attuali non avrebbero, infatti, bisogno di profonde riforme, ma solo di buona manutenzione amministrativa e politica.

La differenza tra “conservatori” e “progressisti”, in questa strategia, è chiara. I primi difendono l’esistente, attribuendogli il carattere dell’intangibilità sostanziale (no ai tagli, no al docente unico, no a tutta la cura della riduzione di scala perché la scuola e l’università che ci sono sarebbero tutto sommato una grande conquista democratica). I secondi ritengono che proprio per salvare la struttura dell’esistente e ridarle la funzionalità perduta occorra potarla del superfluo e curarla con alcuni tradizionali correttivi ad alta carica simbolica (il voto di condotta, il ritorno dei voti, gli esami di settembre, la disciplina più severa). Conta poco che, oggi, all’interno di questa lettura, i “con-

Bisogna risparmiare, senza dubbio, ma all’interno di un progetto complessivo di ricostruzione delle forme istituzionali e ordinamentali che riguardi anche l’università servatori” siano, al di là della fraseologia rivoluzionaria, il Pd, la Cgil e i sindacati scuola, mentre i “progressisti” starebbero paradossalmente dalla parte opposta. Conta poco perché, continuando su questa strada, si può sopravvivere nel presente, ma di sicuro non si progetta nessun futuro. Fa tristezza perciò vedere che il dibattito sulla scuola e sull’università, ancorché spesso rabbioso, non esca da queste angustie. Sarebbe diverso, invece, se il dibattito nel paese si svolgesse sulla seconda “visione” di pensiero e di azione maturata in quest’ultimo decennio, visione che si potrebbe chiamare del “cambiamento strategico”. Tagliare e risparmiare, senza dubbio, ma dentro un progetto complessivo di ricostruzione delle forme istituzionali e ordinamentali della scuola e dell’università. Come è noto, le proposte in questa direzione a volta a volta succedutesi sono state tre. Tutte e tre rifiutate dai “con-

servatori dell’esistente”, ma non per questo meno “progressiste“ sul piano strutturale. La prima è stata formulata ancora all’interno dell’impianto istituzionale statalistico e centralistico. Si tratta dell’ipotesi del riordino dei cicli del ministro Berlinguer. Sette anni di scuola di base, accorpando e riducendo di un anno la scuola primaria e la scuola media. Cinque anni di liceo, di cui i primi due per tutti.

A 15 anni la scelta tra l’obbligo formativo di serie “B” che avviava al lavoro e l’obbligo di istruzione di serie “A” che avviava ai diplomi e all’università. La seconda è stata formulata dopo la svolta istituzionale disposta dalla riforma del Titolo V della Costituzione che aveva assegnato l’ordinamento dei corsi dell’istruzione allo Stato e quelli dell’istruzione e formazione professionale alle Regioni. Fu esposta agli Stati generali della scuola del 2001 dal Gruppo ristretto nominato dal ministro Moratti. Primo ciclo unitario di istruzione obbligatoria composto da cinque anni di primaria e tre di media, ma

Qui sopra, il presidente Napolitano all’apertura ufficiale dell’anno scolastico al Quirinale insieme ad alcuni bambini di scuole elementari. Da quest’anno, in seguito alle direttive del ministro Maria Stella Gelmini (nella foto a destra), gli scolari avranno un solo maestro


politica

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Conferenza stampa di Berlusconi e Gelmini

Il maestro unico diventa digitale di Francesco Capozza

ROMA. «Da oggi diamo il via alla scuola digitale in Italia. Una cosa importante e non un gesto simbolico. L’inizio di un cambiamento che porteremo avanti a tappe forzate per ovviare al grave ritardo in cui abbiamo trovato la scuola italiana». Lo ha detto il premier Silvio Berlusconi introducendo la conferenza stampa sulla scuola tenutasi nel tardo pomeriggio di ieri a Palazzo Chigi con il ministro dell’Istruzione e dell’Università Maria Stella Gelmini e con quello dell’Innovazione e della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, sostenendo, tra l’altro, che «rimane valido il progetto delle tre “I”che ha segnato il passo negli ultimi due anni a causa delle politiche sbagliate che la sinistra ha seguito». «Sinora la scuola, più che uno strumento essenziale per la formazione dei nostri giovani, è stato un ammortizzatore sociale: tanti insegnanti che costano tanto» ha affondato subito Berlusconi: «il prodotto finale – ha aggiunto – è stato inadeguato non solo alle esigenze della società moderna ma anche, e lo dico da imprenditore, a quelle delle imprese».

unico abbiamo voluto dare un segnale di cambiamento. Perchè i bambini avranno un maestro unico come punto di riferimento, ma poi avranno anche altri maestri, come quello di educazione fisica e di inglese». Lo stesso Berlusconi, dopo una breve pausa, è tornato sull’argomento aggiungendo che «in questo modo avremo maestri che si liberano e così potremo aumentare il tempo pieno fino al 50%. Credo- ha concluso il premier- che questa sia una conquista».

Alla fine, dopo aver ascoltato diligentemente ed in silenzio la lezione del premier-maestro, è intervenuta anche Maria Stella Gelmini che ha definito «la scuola del governo Berlusconi (non dovrebbe essere quella degli italiani?, ndr) riprende principi assolutamente attuali, l’impegno e la fatica nello studio che forse la sinistra ritiene vecchi». La Gelmini ha poi difeso la riforma della scuola avviata dal governo e «i 20milioni di euro di stanziamenti per distribuire 10mila lavagne interattive nelle scuole all’interno di un progetto di innovazione tecnologica che, come ha detto il presidente Berlusconi intende avviare la scuola digitale». Il ministro dell’istruzione ha infine replicato alle critiche mosse dall’opposizione sui tagli agli insegnanti nelle elementari e nelle medie. «La sinistra sta raccontando che con la finanziaria verrà ridotto l’insegnamento della lingua straniera. Niente di più falso, nella scuola primaria - ha sottolineato la Gelmini - passeremo dalle tre ore alle 5 ore , per colmare il gap dimostrando che è una priorità del nostro Paese».

Il premier e il ministro Maria Stella Gelmini annunciano la riconversione informatica degli insegnamenti

articolato in bienni che avrebbero assicurato una forte integrazione organizzativa e didattica tra la quinta elementare e la prima media. Secondo ciclo obbligatorio per tutti fino a 18 anni, composto rispettivamente da due percorsi di pari dignità: licei quadriennali ad ordinamento statale e istituti quadriennali di istruzione e formazione professionale ad ordinamento regionale (insieme di istituti tecnici e professionali). Dopo i 18 anni, esami di ammissione ad altri due percorsi di altrettanta pari dignità: università e alta formazione professionale. Chi non veniva ammesso all’una o all’altra aveva diritto a frequentare corsi di riallineamento della propria preparazione organizzati in collaborazione tra scuole del secondo ciclo e i due percorsi del terzo ciclo. La terza proposta è stata quella della legge Moratti, che nasce da una rivisitazione al ribasso delle ipotesi del 2001.

Primo ciclo di istruzione ad ordinamento statale con scuola primaria e scuola media distinte. Secondo ciclo con un unico sistema educativo, ma internamente articolato in due percorsi di pari dignità, i licei quinquennali ad ordinamento

statale e gli istituti dell’istruzione e formazione professionale quadriennali, ma con la possibilità di un quinto anno per l’esame di stato come quello dei licei, ad ordinamento regionale. Per pressione dei partiti e dei sindacati, si mantenne la conclusione del secondo ciclo liceale a 19 anni, pur fermando il diritto dovere di istruzione e di formazione a 18.

Caso unico al mondo, da quando anche la Germania ha abbassato l’abitur a 18. Terzo ciclo con la possibilità di istituire l’alta formazione professionale a fianco dell’università. Il paradosso è che nel 2006 e 2007 addirittura un ministro della Repubblica è andato in Parlamento a dichiarare che non condivideva il disposto del Titolo V, e che quindi si doveva ritornare all’impianto statalistico e centralistico esistente, che escludeva un ruolo importante delle Regioni nel sistema. Adesso non si sa più chi sostiene che cosa, e la discussione da queste questioni di struttura e di strategia è sui voti e sul maestro prevalente (che peraltro esiste in tutti i paesi del mondo). Per carità, va bene pure questo. Ma non c’è confronto tra lo spessore delle due possibili discussioni.

Alla domanda di una giornalista che ha chiesto direttamente al premier (lasciando da parte e silente il ministro Gelmini, competente in materia e rendendo, per così dire, “maestro unico” il presidente del Consiglio) una presa di posizione rispetto alle accuse rivolte al governo di «legalizzare migliaia di licenziamenti», Berlusconi ha risposto con la solita stpefacente serenità che lo contraddistingue: «Voglio dirlo con chiarezza: non ci sarà nessuna cacciata degli insegnanti. Il numero di 87 mila in meno da qui a tre anni sarà per effetto dei pensionamenti e del blocco del turn over». Un altro giornalista ha in seguito chiesto al premier un commento sul maestro unico, la cui reintroduzione come figura didattica ha innescato moltissime polemiche negli ultimi giorni e che sembra essere unanimemente riconosciuto come un provvedimento sgradito a studenti e genitori. «Con il maestro


economia

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Nella Finanziaria spunta a sorpresa una norma contro i lavoratori temporanei

Così Brunetta licenzierà trecentomila precari e Renato Brunetta, grande esperto di economia, lo fosse altrettanto in tema di pubblica amministrazione, si sarebbe comportato diversamente. Non avrebbe proposto un testo come quello che vorrebbe regolare la materia dei precari della pubblica amministrazione. È auspicabile, voto di fiducia permettendo, che il Parlamento, in extremis, ci ripensi. Che lo faccia il ministro è assai improbabile. Il suo piglio lo conosciamo: grande determinazione nell’affrontare i problemi; spezzo del pericolo e voglia di sperimentazione. Finché si è

S

trattato di prendersela con i “fannulloni”, gli è andata bene. Vittoria non scontata, ma una battaglia facile da vincere. In un contesto interno ed internazionale, segnato dai venti gelidi della crisi, non era più tollerabile giustificare zone franche dal normale impegno lavorativo e dalla fatica ch’esso, inevitabilmente, comporta. Ma questo è un caso diverso. Si può, infatti, a cuor leggero, ipotizzare il licenziamento collettivo in tronco di 339 mila persone? Stando almeno alle cifre da lui stesso fornite, in occasione della sua ultima conferenza stampa.

Il numero stesso dovrebbe far riflettere. Non sarebbe infatti uno stillicidio, ma una vera e propria pandemia, destinata a suscitare, specie in alcune zone del Paese, il massimo dell’allarme sociale. La proposta originaria era stata ancora più drastica. Il licenziamento era immediato: alla scadenza dei singoli contratti. A seguito di una faticosa mediazione parlamentare sono stati concessi sei mesi, dopo i quali scatterà la mannaia. Ma la sostanza non cambia. Dal 1 luglio 2009: tutti fuori. Sia i raccomandati che coloro che, di fronte al lungo blocco del turnover della pubblica amministrazione erano riusciti – si pensi al campo della ricerca – a

di Insider conquistare il loro piccolo spicchio di relativa serenità. Nel frattempo, nei pochi mesi che ci separano dalla scadenza, si farà un censimento. Strano modo di procedere. Forse il censimento andava fatto prima di far recapitare con legge la lettera di licenziamento collettivo, avviando un percorso graduale lungo il quale approntare le misure indispensabili. Nel testo, ad esempio, si dice che nel corso del prossimo triennio le Amministrazioni potranno bandire concorsi pubblici con posti riservati, nei li-

miti del 40 per cento, proprio per i vecchi precari. Più una foglia di fico che non un impegno cogente. Visto che nel frattempo quegli stessi precari, se non vorranno morire di fame, dovranno trovarsi, sempre che ciò sia possibile, una diversa occupazione.

Ma, prendendo per buone le indicazioni del Ministro, se

questo è un impegno serio, perché non raccordare queste scadenze con il termine della cessazione del contratto. Non sarebbe stato tutto più logico? Si sarebbe, almeno, offerta una piccola speranza, piuttosto che procedere con

l’accetta, rendendo, forse, tutto più gestibile. Questo è il pericolo maggiore della decisione assunta. La sua impraticabilità. Che ha profili diversi. La brutale interruzione del rapporto di lavoro rischia di mettere in ginocchio un gran numero di Amministrazioni dello Stato. Diciamo la verità: l’assenteismo, almeno stando alle cifre, è diminuito. Ma la crisi interna

di queste vetuste strutture pubbliche è rimasta. Appena mascherata dal fatto che a tirare la carretta erano soprattutto i precari. Venuti meno i quali si correrà il rischio di un crol-

Dal 1 gennaio del 2009 non saranno rinnovati i contratti a termine nella Pubblica amministrazione. Quanti riusciranno a farsi riassumere nel triennio successivo? Sicuramente la maggior parte dovrà cercare lavoro altrove Qui accanto, una coda in un ufficio postale. Nella foto grande, il ministro Renato Brunetta: un emendamento da lui proposto alla Finanziaria prevede l’interruzione del rapporto di lavoro per circa trecentomila lavoratori precari della Pubblica amministrazione

lo dell’intera impalcatura. Il secondo elemento di preoccupazione è l’apertura di troppi fronti sociali, con un comune denominatore. La riforma della scuola non sarà indolore. In prospettiva garantirà, forse, quel rinnovamento di cui, da molti anni, si sente la mancanza. Ma nell’immediato sarà lacrime e sangue. Ancora più difficile la situazione all’interno delle università. Per il 2009 le risorse, seppure scarse, sono ancora sufficienti. Ma dal 2010 si rischia il default. Se i due fronti si salderanno sarà dura per il Governo. Ecco allora che la vicenda dei “precari” rischia di divenire il collante di questa miscela più esplosiva, con effetti deflagranti.

A riemergere è, di nuovo, la questione giovanile. Maltrattati dall’egoismo dei padri sul fronte previdenziale, disorientati dai cambiamenti indotti dalle logiche della globalizzazione, costretti a vivere in una perenne situazione di incertezza: sono anche coloro che pagheranno il prezzo maggiore di questa crisi. Giulio Tremonti ha ragione quando, stringendosi nelle spalle, sostiene che è costretto a tagliare e risparmiare. Ma è giusto che queste contraddizioni si scarichino sui soggetti più deboli della società? È giusto proteggere quei “fannulloni” che ancora abitano tanti palazzi dell’Amministrazione e prendersela con i più indifesi? L’operazione presenta qualche rischio. Come reagiranno i sindacati di fronte all’allargarsi dell’area del disagio sociale e delle inevitabili reazioni? Azzardiamo qualche previsione. La bandiera della protesta tornerà saldamente nelle mani della Cgil. Ma gli altri sindacati non potranno rimanere alla finestra. Saranno, al contrario, costretti a seguirne le orme. Insomma la vicenda dei precari rischia di ricomporre ciò che Alitalia aveva disfatto, spingendo tutto il sindacato verso forme di contestazione di cui, francamente, non si sentiva e non si sente il bisogno.


economia

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Siamo tornati alla realtà, dopo vent’anni passati a credere a strane teorie economiche che ci hanno fatto pensare che il mercato potesse assicurare benessere e produttività. Invece, quello senza regole, quello senza etica e senza morale, ha aumentato il divario fra ricchi e poveri. Ma chi ha fallito veramente: il mercato, o chi lo ha usato?

i siamo svegliati. Sì, ci siamo svegliati. Siamo tornati alla realtà, dopo vent’anni passati a credere a strane teorie economiche che ci hanno fatto pensare che il mercato potesse assicurare benessere e produttività. Il mercato, quello esasperato e senza regole, che avrebbe regalato a tutti, ricchi e poveri, la felicità. Abbiamo fatto finta di non vedere, invece, che il divario fra ricchi e poveri, al contrario, andava aumentando negli Stati Uniti, ma anche in Italia, dove oggi ha raggiunto il livello massimo dell’ultimo secolo. Non era “di moda”, fino a pochi giorni fa, denunciare che le banche d’affari stessero vivendo in perenne conflitto d’interesse. Meglio non vedere.

C

Non ci siamo meravigliati, o abbiamo fatto finta di non meravigliarci, quando ragazzini, poco più che ventenni, guadagnavano cifre stratosferiche appena entrati in quella che definiamo la business community. Non ci siamo preoccupati se il mercato finanziario, nel frattempo, grazie ad un uso esasperato di prodotti derivati, era diventato una enorme catena di S. Antonio, dove coloro che sono in cima guadagnano, ma alla fine c’è sempre qualcuno che ci perde, guarda caso il più debole. Abbiamo applaudito quando gli Stati, il nostro Stato, i nostri Comuni facevano un uso “allegro” della cosiddetta finanza “creativa”. E chi si azzardava a dire che certe cartolarizzazioni, o l’uso di qualche strumento derivato strutturato, altro non fossero che un modo per sottrarre risorse alle generazioni future, veniva deriso. E adesso che siamo svegli, che fare? Noto che molti di coloro che hanno partecipato alla“festa”oggi diventano i più realisti, i più pronti a ricor-

Una grave malattia si aggira per le economie del mondo: la sfiducia

Tra Stato e Mercato In medio stat ”virus” di Gian Luca Galletti dare che il mercato ha fallito. Invocano un nuovo robusto intervento dello Stato. Guarda caso parte di coloro sono proprio quelli che fanno coincidere il loro periodo statalista con la loro presenza ai vertici delle Istituzioni. Ripropongono, insomma, una ormai desueta disputa tra Stato e Mercato. Ma ha fallito il mercato o invece ha fallito chi ha usato il mercato? Chi ha creduto che il mercato fosse il fine e non un mezzo al servizio del-

La trasparenza e il rispetto delle regole sono le uniche garanzie che oggi si possono dare ai risparmiatori italiani l’uomo. Insomma, chi l’ha utilizzato senza etica, chi ha dimenticato concetti come solidarietà, uguaglianza, povertà. Questi

giorni ci insegnano una cosa: il mercato senza etica, senza valori, è un mercato destinato al fallimento. Un mercato che non ha futuro, che non produce ricchezza, ma al contrario produce insicurezza e povertà, che non crea giustizia sociale. Bisogna comunque invocare ancora il mercato, non quello degenerato che ci ha governato in questi anni, ma un mercato con più regole, e che le sappia far rispettare, con più principi.

Giornata negativa per le Borse europee ROMA. Nonostante l’ok del Senato al piano Paulson arrivato di primo mattino (ma lo scoglio è il Congresso), per le Borse – e soprattutto per Milano - non è stata una grande giornata. Tokio chiude a -1.88%, e anche Wall Street perde (-0,18 il Dow Jones, -1,07% il Nasdaq). Prima dell’apertura il Tesoro assicura che la liquidità delle banche è adeguata, e questo influisce sull’apertura di Piazza Affari, che è positiva. Anche le altre Borse europee aprono con segni positivi. Il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Junker smentisce l’ipotesi di un piano di salvataggio anche per il Vecchio Continente, mentre a mezzogiorno virano tutte con segno più le Borse (Milano +2,4%). Prima delle due la Banca centrale europea comunica che lascerà i tassi invariati (decisione ampiamente scontata), e subito do-

po le parole di Trichet («Eurolandia si sta indebolendo») gelano le piazze continentali. Intanto, per l’Italia l’Istat comunica che il debito è passato al 2,6% del Pil nel primo semestre. Alle 15 e 30 l’apertura di Wally è negativa, mentre la Consob sospende le contrattazioni per molti titoli di società immobiliari. È il segnale che si aspettava: vira in negativo Milano, mentre il Fondo Monetario Internazionale pronostica la recessione per gli Usa e chiede l’intervento pubblico per l’economia. Le Borse europee peggiorano nel finale di seduta, con Francoforte che cede il 2,5%, mentre Milano va sotto dell’1,44%. L’«osservata speciale» Unicredit chiude a -2,4%. Anche il prezzo del petrolio è in calo. Ma non è una buona notizia, visto che la discesa è dovuta alla necessità di consumare di meno. (a. d’a.)

Un pericoloso virus si aggira per le economie del mondo. Un virus finanziario di cui nessuno conosce fino in fondo la diffusione e di cui nessuno possiede l’antidoto per sconfiggerlo. In Italia possiamo dire che il nostro sistema finanziario e bancario è più solido e sicuro di altri. Un sistema spesso criticato per essere troppo prudente nel concedere il credito, troppo opprimente nei controlli e nei vincoli, oggi ci premia, ci fa scudo. Ma esistono altri virus, forse pericolosi almeno quanto quello finanziario: la paura e la sfiducia. La paura, quella che porta le persone a chiedersi se i propri risparmi investiti in titoli di Stato siano sicuri. La sfiducia, che blocca i consumi, anche quelli di coloro che ancora se li potrebbero permettere, in attesa di chissà quale evento.

È fondamentale che ci sia trasparenza nell’informazione e garanzia nel rispetto delle regole. Trasparenza e regole sono le uniche garanzie che possiamo dare ai risparmiatori italiani. Mi chiedo dove ve ne sia stata, di trasparenza delle informazioni, se fino a qualche giorno fa l’Abi, l’Associazione Bancaria Italiana, attraverso Patti Chiari, uno strumento che dovrebbe garantire i risparmiatori, consigliava ancora di acquistare i titoli “Lehman Brothers”, classificandoli a basso rischio. E oggi consiglia ancora di acquistare titoli di banche americane. Tra la paura e la speranza, dunque, per riprendere un connubio di grande attualità, scelgo la speranza. Quella di un mercato più “sociale”, che mette al centro l’uomo e i suoi bisogni, che non dimentica i più deboli e che non usa la benevolenza dello Stato e dei suoi governanti, ma la sussidiarietà.


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il paginone

Come il Generale traghettò il Paese nella V Repubblica di Michele Marchi l 28 settembre del 1958 è una data chiave per la storia politica e costituzionale francese, ma anche un passaggio decisivo per l’evoluzione dei sistemi politico-istituzionali del Vecchio Continente. Oltre 22 milioni di francesi si presentano alle urne per il referendum sulla nuova Costituzione. Oltre 17 milioni e mezzo dicono “sì” alla V Repubblica e “sì” al suo inventore, il generale Charles de Gaulle. Di lì a pochi giorni, precisamente il 4 ottobre 1958, la Costituzione entra in vigore e il semipresidenzialismo francese diventa uno dei modelli istituzionali più studiati, dibattuti ed imitati d’Europa. A 50 anni di distanza e dopo la recente riforma voluta dal Presidente Sarkozy, pare quanto mai necessario abbozzare una ricostruzione degli eventi e delle elaborazioni costituzionali culminate nella storica consultazione referendaria.

I

La storia si diverte spesso a mescolare le carte e a disseminare di momenti ironici il suo drammatico e tortuoso corso. Ed è proprio un’ironia della storia quella che si realizza il 1 giugno 1958, quando il più feroce critico della IV Repubblica viene incaricato dall’Assemblea Nazionale a divenirne l’ultimo Presidente del Consiglio. Le condizioni nelle quali Charles de Gaulle accetta l’investitura a capo del governo sono però assolutamente eccezionali. Infatti, già due giorni dopo, l’Assemblea vota nelle sue mani i pieni poteri per

sei mesi e incarica il governo da lui presieduto di elaborare un progetto costituzionale che dovrà sostituire la Carta della IV Repubblica. Esauriti i suoi compiti l’Assemblée viene poi aggiornata sine die. Che una profonda rottura sia all’orizzonte lo si può cogliere da un dato fondamentale: per la prima volta nella storia repubblicana francese non è un’Assemblea designata dagli elettori, una Costituente o Convenzione, a redigere il testo costituzionale. Anche se l’investitura parlamentare permane, spetta al governo scrivere la Costituzione. Su questo punto era chiaro a de Gaulle il ricordo delle difficoltà incontrate dalle due Assemblee costituenti della IV Repubblica con i deputati che, richiamandosi alla loro legittimità derivante dall’elezione a suffragio universale, erano riusciti a bloccare qualsiasi proposta di razionalizzazione dello strapotere del legislativo. Memore degli insuccessi della IV Repubblica, ma anche delle fasi convulse e al limite della guerra civile che lo hanno condotto al potere, il Generale forma da un lato un governo il più possibile rappresentativo delle forze politiche repubblicane.

Eccetto i comunisti, tutti partiti della IV Repubblica sono rappresentati con loro personalità di primo piano (Mollet per i socialisti, Pflimlin per l’Mrp, Jacquinot per gli indipendenti e HouphouetBoigny per i radicali). I gollisti sono sotto-rappresentati, con soli tre ministri (Michelet, Malraux e Debré) e i tre ministeri chiave di difesa, esteri e interni sono affidati a tre tecnici, rispettivamente Guillaumat, Couve de Mourville e Pelletier. L’intenzione del Generale è chiara: mantenere nelle proprie mani i centri nevralgici del potere, perlomeno nella delicata fase di transizione. Dall’altro lato egli crea all’interno dell’alveo governativo una struttura snella, deputata a redigere la Costituzione. Sono quattro i vertici di tale struttura, diretta e coordinata dai giuristi Cassin e Janot.

E de Gaulle cre Il primo è naturalmente occupato da de Gaulle. Il secondo è quello politico, le cui figure principali sono il socialista Mollet e il centrista Pflimlin. Il terzo polo è quello dei giuristi, guidato dal fedelissimo del Generale, Michel Debrè. Infine il quarto vertice è quello dei rappresentanti del Parlamento, il Conseil Consultatif Constitutionnel. Presieduto dall’anziano Reynaud, ultimo Presidente del Consiglio nel 1940 prima dell’avvento di Pétain, il Conseil riunisce deputati, senatori e alcuni membri designati dal governo. Il suo sforzo è tutto rivolto a mantenere una, anche minima, centralità della logica parlamentare nella nuova architettura costituzionale. Se si ec-

Memore degli insuccessi della IV Repubblica, ma anche delle fasi convulse e al limite della guerra civile che lo hanno condotto al potere, il Generale forma da un lato un governo il più possibile rappresentativo delle forze politiche repubblicane. Con la sola eccezione dei comunisti

cettua una visita di cortesia dell’8 agosto, il Generale ignora il Conseil e gran parte delle sue richieste. Tre mesi esatti dopo aver ottenuto i pieni poteri, de Gaulle presenta il testo definitivo della Costituzione al Consiglio dei ministri. Il giorno successivo il Generale risponde alle accuse di bonapartismo che cominciano a giungere soprattutto dalla sinistra comunista con un grande discorso pubblico, nel corso del quale il richiamo ai simboli repubblicani è continuo. Innanzitutto la data del 4 settembre, anniversario della nascita della III Repubblica (4 settembre 1870). In secondo luogo l’apparato scenografico accuratamente studiato da André Malraux. E infine il luogo scelto, Place de la République. Ma a smontare le accuse di bonapartismo contribuisce soprattutto il sostegno pressoché unanime dei partiti della IV Repubblica.

Se queste sono dunque le basi su cui poggia il «compromesso

costituzionale» del 1958, è indispensabile anche sottolineare che tra il 3 giugno e il 28 settembre si svolge una vera e propria «rivoluzione copernicana» della cultura politica repubblicana. Quella che si dispiega è un’inversione della logica istituzionale tradizionale. Dal 16 maggio 1877 al giugno del 1958 l’esecutivo è stato costantemente subordinato al legislativo, il Presidente della Repubblica non ha mai avuto poteri reali e in definitiva «Repubblica» è sempre stato sinonimo di preminenza assoluta del Parlamento. Con la nuova Costituzione l’esecutivo, e in particolare il Presidente, diventa la chiave di volta del sistema. Non tanto e non solo per i poteri enunciati in Costituzione, che sono simili nella forma a quelli della III e della IV Repubblica. Le vere novità risiedono nel sistema di designazione e nei mezzi di cui dispone il Presidente della Repubblica per esercitare i suoi poteri. L’elezione da parte di un collegio di 80mila notabili significa per il Presidente sfuggire dalla


il paginone La riforma voluta da Sarkozy (e frutto del lavoro del Comité Balladur) risponde ad un duplice obiettivo. Da un lato rafforzare gli strumenti di garanzia e controllo sul potere esecutivo. Dall’altro ribadire la centralità di quest’ultimo all’interno dell’edificio costituzionale della V Repubblica. come in realtà il testo si presti almeno ad una doppia lettura. Regime presidenziale, se si considera il Presidente della Repubblica come colui che conduce la politica nazionale e soprattutto se la maggioranza parlamentare coincide con quella che ha eletto l’inquilino dell’Eliseo. Regime parlamentare, con un forte potere esecutivo rappresentato dal Primo ministro, se la maggioranza parlamentare non coincide con quella che ha eletto il Presidente della Repubblica. Per oltre 30 anni questa riflessione ha impegnato costituzionalisti e politologi e ha, al massimo, alimentato la competizione tra Presidenti e Primi ministri desiderosi di concorrere alla massima carica dello Stato. Dal 1986, con la prima coabitazione tra Mitterrand (Presidente socialista) e Chirac (Primo ministro gollista), il tema è divenuto di stringente attualità e nel 2000 si è trovata una prima soluzione al problema riducendo la durata dell’incarico presidenziale a cinque anni e facendo coincidere durata dell’incarico presidenziale e durata del Parlamento. Ma prima di affrontare il tema della

referendaria del 28 settembre i francesi fugano ogni dubbio. Il secondo angolo visuale dal quale guardare al trionfo referendario è quello più prettamente politico e di legittimazione del Generale. De Gaulle, nel corso della sua esperienza resistenziale, si è costruito una legittimità che da carismatico-militare è poi divenuta compiutamente politica. Il voto del 28 settembre è dunque anche, e soprattutto, un voto alla persona, al Generale, alla sua condotta nella transizione e nella nascita della nuova Repubblica. Terzo importante significato del referendum del 28 settembre è quello storico. Sul breve periodo la vittoria travolgente del “sì” implica una battuta d’arresto immediata per gli oppositori del progetto costituzionale. Le successive elezioni legislative del 23-30 novembre si concluderanno con una debacle per i comunisti e di alcuni strenui oppositori del Generale come Mitterrand e Mendès France. Sul lungo periodo poi la V Repubblica si è mo-

eò la Francia designazione soltanto parlamentare e dalle conseguenti pressioni provenienti dai soli titolari della sovranità popolare. Rispetto ai mezzi effettivi basta citare tre articoli chiave: l’11 che attribuisce al Presidente la possibilità di indire referendum, il 12 relativo al potere di scioglimento dell’Assemblea e il 16 sui poteri eccezionali in caso di grave rischio per la Nazione. Accanto alle nuove prerogative del Presidente si deve poi aggiungere la diminuzione dei poteri parlamentari. L’ordine del giorno dell’Assemblée è controllato dal governo, il quale può essere rovesciato solo mediante mozione di censura votata a maggioranza assoluta (l’astensione conta a favore del governo) e soprattutto con l’articolo 49.3 il governo stesso può imporre l’adozione di un suo progetto di legge senza il voto parlamentare.

Se la preminenza dell’esecutivo è il tratto distintivo della Costituzione del ’58, la sua applicazione concreta ha ben presto mostrato

riforma della Costituzione del 1958 è necessario tornare ad indagare più a fondo i molteplici significati della consultazione referendaria del 28 settembre.

Il referendum del 28 settembre ’58 assume innanzitutto una valenza giuridica decisiva. Da un punto di vista legale i fatti del 13 maggio e dei giorni seguenti, fino alla chiamata alla guida del governo di de Gaulle, presentano i tratti tipici del colpo di Stato. Pressioni delle forze armate sul governo, pressioni sui poteri costituiti affinché venga chiamato alla guida del Paese un leader carismatico, al momento non portatore di una legittimità democratica, adozione di una legislazione di circostanza per investire dei pieni poteri il nuovo capo del governo e infine chiusura dell’Assemblea Nazionale. Anche se lo scenario è molto differente non sono mancati paragoni storici con la legge del 10 luglio 1940, che aveva attribuito i pieni poteri a Pétain. Al di là di ogni richiamo alla storia passata, con la risposta

Nelle foto qui a fianco: Nicolas Sarkozy, Georges Pompidou e François Mitterrand, sotto a una statua del generale Charles de Gaulle. La vera novità della V Repubblica è nel sistema di designazione e nei mezzi di cui dispone il Presidente della Repubblica per esercitare i suoi poteri

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strata molto più solida di tutte le precedenti. Il sistema istituzionale voluto dal Generale nel 1958, pur rimanendo intatto nei suoi assi portanti, cioè centralità dell’esecutivo rappresentato dal Presidente della Repubblica e subordinazione ad esso del Parlamento, è stato sottoposto ad una serie di riforme nei suoi primi cinquant’anni di esistenza. Senza arrivare alla spesso invocata VI Repubblica tali modifiche ne hanno parzialmente cambiato il profilo fino a spingere alcuni costituzionalisti a parlare, dopo la recente riforma voluta da Sarkozy, di un sistema oramai presidenziale.

Quella culminata con il voto del Congresso del 21 luglio scorso è senza dubbio la riforma più articolata alla quale è stata sottoposta la Costituzione della V Repubblica. Frutto del lavoro del Comité Balladur, che ha consegnato nelle mani del Presidente il suo rapport de mission a fine ottobre del 2007, la riforma voluta da Sarkozy risponde ad un duplice obiettivo. Da un lato rafforzare gli strumenti di garanzia e controllo sul potere esecutivo. Dall’altro ribadire la centralità di quest’ultimo all’interno dell’edificio costituzionale della V Repubblica. La centralità del ruolo dell’esecutivo è confermata per quello che riguarda la figura del Presidente. Se il numero di mandati è limitato a due, il Presidente può convocare le Camere in seduta comune per rivolgervi una dichiarazione, prerogativa solitamente del potere monocratico nei sistemi presidenziali. A 50 anni dalla sua nascita la V Repubblica ha definitivamente sciolto il dilemma delle origini: lettura presidenziale versus lettura parlamentare? Probabilmente costituzionalisti e giuristi riempiranno ancora montagne di libri con le loro analisi ma, come spesso accaduto in questi primi 50 anni di vita della creatura voluta dal Generale, molto dipenderà da colui che rivestirà il ruolo di Presidente e dall’evoluzione contingente del sistema politico. Con buona pace degli esperti di diritto il caso francese è emblematico di come spesso la dottrina costituzionale segua l’evoluzione storico-politica e tenda ad adattarsi allo sviluppo di quest’ultima.


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mondo

Christopher Hill vola a Pyongyang per cercare di far recedere la Corea del Nord dal nucleare

Venti di guerra sulla penisola coreana di Vincenzo Faccioli Pintozzi

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Usa 2008, ieri il confronto Biden-Palin Novanta minuti di faccia a faccia, con regole e formato decisi dopo una lunga trattativa tra i due team. Ecco le caratteristiche del dibattito di ieri notte (3 del mattino ora italiana) tra i candidati vicepresidenti degli Stati Uniti, Sarah Palin (repubblicana) e Joe Biden (democratico. Il dibattito si è svolto nel campus della Washington University a St. Louis, in Missouri. I due candidati hanno risposto alle domande di una moderatrice, la giornalista Gwen Ifill della Tv pubblica Pbs, che ha già moderato il dibattito tra i vice del 2004, John Edwards e Dick Cheney. Palin e Biden hanno avuto 90 secondi a testa per rispondere alle domande. A differenza del dibattito tra John McCain e Barack Obama della settimana scorsa, l’interazione tra i due candidati è stata limitata al minimo: lo hanno chiesto ed ottenuto i negoziatori repubblicani, che però hanno dovuto cedere in cambio la concessione di far stare in piedi i due candidati, invece che seduti come avrebbe preferito la Palin. Il dibattito, come quelli tra i candidati presidenti, è organizzato dalla Commission on Presidential Debates (Cpd), un’organizzazione non-partisan e non-profit che dal 1987 gestisce i dibattiti presidenziali.

Chiesa: Ue fermi il massacro dell’Orissa a ripresa dell’attività nucleare, l’allontanamento dal tavolo negoziale, la successione a Kim Jong-il. Sono i temi caldi che vengono dibattuti in questi giorni in tre piazze differenti: Seoul, Pyongyang e Washington. Tre luoghi diversi, da qualunque angolazione li si voglia guardare, ma uniti dalla necessità di riportare i negoziati sulla questione atomica. In gioco, arrivati a questo punto, non c’è più soltanto la stabilità della penisola coreana, ma la credibilità della politica estera statunitense. Christopher Hill, capo negoziatore degli Stati Uniti per la questione nucleare, è volato nella capitale nordcoreana con l’intento di riportare il regime alla cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, i cui ispettori sono stati cacciati dal Paese una settimana fa. Secondo il governo guidato dal “Caro Leader”, infatti, il patto siglato due mesi fa – che prevede l’interruzione dell’attività di arricchimento dell’uranio in cambio della rimozione dalla lista dei Paesi canaglia – sarebbe troppo sbilanciato a favore americano. E per cercare uno sconto di pena, ha deciso di cercare l’aiuto del suo storico nemico-amico: la Corea del Sud, che da anni si contraddistingue per il balletto di reazioni con cui risponde allo scomodo vicino. E per trainare Seoul dalla propria parte, Pyongyang ha accettato un incontro bilaterale di tipo militare

L

che rifiutava da dieci mesi. Il faccia a faccia si è svolto ieri mattina a Panmujom, nella zona demilitarizzata al confine fra le due Coree: erano presenti i vertici militari dei due opposti schieramenti. Da segnalare che l’incontro è il primo che si verifica dalla nomina di Lee Myung-bak alla presidenza della Corea del Sud. Il politico, noto conservatore, ha sempre mantenuto un atteggiamento ostile a Pyongyang, che giudica «il peggior regime militare presente in Asia». L’incontro è durato circa 90 minuti e si è concluso poco prima di mezzogiorno. Fra

tale del Paese, dove sperimentare una versione elaborata del Taepodong-2 che, secondo alcuni esperti militari, sarebbe in grado di colpire obiettivi sensibili a 10mila chilometri di distanza.

Una potenziale minaccia per la stabilità della regione, perché un simile missile potrebbe arrivare non solo in Giappone, ma toccare – sulla carta – anche la costa occidentale degli Stati Uniti. Per tutta risposta, il presidente sudcoreano ha lanciato l’allerta fra gli apparati militari, chiedendo a tutti di «tenersi pronti ad affrontare nuove minacce, da qualunque parte esse provengano». In un discorso alla televisione di Stato, Lee ha sottolineato che «se il nemico tenterà di invaderci, il Paese è pronto a vincere la sfida, Ma per far questo è necessario un forte apparato militare». In risposta, Pyongyang ha accusato Lee di «atteggiamenti irresponsabili, che potrebbero portare ad una nuova guerra». Proprio in considerazione di questi venti di guerra, Hill ha deciso di prolungare di un giorno i colloqui con la leadership di Pyongyang. Ripartirà questa mattina alla volta di Pechino, prossima tappa del viaggio ufficiale. La speranza è che, dopo la crisi dei mercati, la Cina decida di aiutare gli Usa anche nella crisi coreana. Anche se questo significa, agli occhi della controparte orientale, perdere la faccia.

Il regime di Kim Jong-il definisce sbilanciato il patto di due mesi fa con gli Usa: sigilli alle centrali atomiche per non essere considerato Stato canaglia i temi affrontati, l’applicazione degli accordi presi in passato sui “sistemi di difesa”, quelle batterie missilistiche che da decenni si sfidano dai due lati del confine. Pur avendo ottenuto un esito positivo, secondo le prime indiscrezioni, nessuno dei due schieramenti ha voluto rilasciare dichiarazioni ufficiali sull’esito dei colloqui.

Nelle ultime settimane il clima di tensione nella penisola ha raggiunto il livello d’allerta: la Corea del Nord ha annunciato di voler riprendere il programma nucleare rompendo i sigilli al reattore di Yongbyon. Al contempo ha avviato il progetto di potenziamento della base missilistica nella costa orien-

Un forte appello ai governi e alle istituzioni del vecchio continente è venuto ieri dai presidenti delle conferenze episcopali d’Europa, affinchè s’intervenga rapidamente per fermare le violenze contro i cristiani nello stato indiano dell’Orissa, dove sono già 60 le vittime delle persecuzioni. In un comunicato diffuso dal Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee), si denunciano le aggressioni e le condizioni di vita sempre più difficili dei cristiani in varie parti del mondo, fra cui l’Iraq, alcuni Paesi africani e dell’America Latina. «Siamo preoccupati - si legge nel testo del comunicato per le notizie su quanto continua ad accadere in Orissa (India), dove martedì scorso un’altra donna cristiana e’ stata uccisa e altre 300 case sono state bruciate. Esprimiamo la nostra solidarietà ai cristiani del Paese e ai loro pastori, e chiediamo ai Governi e alle Istituzioni d’Europa di intervenire in ogni modo per far cessare queste violenze che, secondo le nostre informazioni, hanno causato, dal 23 agosto ad oggi, 60 morti, migliaia di feriti e decine di migliaia di persone in fuga».

Somalia, islamici: distruggete nave ucraina I militanti islamici somali hanno esortato i pirati che lo scorso 25 settembre hanno sequestrato la nave ucraina a distruggere il cargo carico di armi e tank russi nel caso in cui non venisse pagato alcun riscatto. Mentre le navi da guerra della marina statunitense sorvegliano a vista e tengono sempre sotto controllo la nave ucraina Mv Faina sequestrata al largo della Somalia, i pirati hanno finora più volte insistito sul pagamento di venti milioni di dollari in cambio del rilascio della nave e dei 21 membri dell’equipaggio. «Se non pagheranno la cifra che e’ stata chiesta, invitiamo i pirati a ridurre in cenere la nave e le armi oppure di affondarla», ha dichiarato in un intervista Sheikh Mukhtar Robow, portavoce del movimento islamico Shabab, gruppo che lo scorso anno era riuscito a reprimere la pirateria durante sei mesi al governo nella zona meridionale della Somalia. Il portavoce ha poi precisato che il suo movimento non ha nulla a che fare con il sequestro della nave-cargo ucraina e con i pirati. «È un crimine sequestrare navi commerciali, ma sabotare navi che trasportano armi per il nemico di Allah è una cosa diversa» ha aggiunto Robow.


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Saakashvili punta sulle riforme per far entrare il Paese nell’Alleanza TBILISI. Il presidente georgiano Mikheil Saakashvili intervenendo la scorsa settimana alla 63esima Sessione delle Nazioni Unite, ha detto ai capi di governo e agli ambasciatori dei 192 Paesi membri, che la Georgia «è stata invasa dai suoi vicini». Piuttosto che soffermarsi sulla guerra - tuttavia - il presidente ha lanciato due sfide per la pace: chiedendo alla comunità internazionale se riuscirà mai a definire una linea chiara, a difendere i principi che sostengono l’ordine internazionale e a proclamarli con fermezza; ricordando la volontà della Georgia di compiere ambiziose riforme democratiche, una “Seconda Rivoluzione delle Rose”. È stato un onesto richiamo all’azione su numerosi fronti. Per molti delegati riuniti a New York, la Georgia è un posto lontano, e le ragioni dell’aggressione russa di agosto non sono chiare. Per loro Saakashvili ha abilmente disegnato il quadro della guerra: «Abbiamo visto forze militari scatenarsi cinicamente nella pulizia etnica della popolazione del mio Paese… uomini e donne di 80 anni cacciati dalle proprie case… centinaia di migliaia di anime innocenti mettersi al riparo dalle bombe… una disgustosa campagna di distruzione dell’ambiente… centinaia di morti, circa 200mila dispersi… un piccolo Paese di meno di cinque milioni di abitanti calpestato da un vicino 300 volte più grande». Più importante è stata la lezione che Saakashvili ha tratto dalle macerie dell’aggressione russa. Ha detto a tutto il mondo che «Nonostante la nostra piccola dimensione, le implicazioni legali, morali, politiche e sul piano della sicurezza sollevate da que-

A dicembre la Nato aprirà le porte alla Georgia? di David J. Smith sta invasione non potevano provocare conseguenze maggiori. Infatti, queste azioni feriscono il cuore della carta fondante le Nazioni Unite», e ha concluso dicendo che «La comunità internazionale, riguardo l’invasione del mio Paese, ha manifestato una chiarezza veramente preziosa, ma con la chiarezza arriva la responsabilità».

Sul fronte internazionale, come minimo, il mondo dovrà accettare le posizioni che Saakashvili ha delineato a New York: l’eloquente opposizione all’aggressione, l’inequivocabile supporto all’integrità territoriale della Georgia - inclusa l’Abkhazia e l’Ossezia del sud - l’insistenza sulla piena attuazione del cessate il fuoco e un attivo impegno per un reale processo di pace, mentre sul fronte interno Saakashvili ha annunciato un notevole cambiamento; la Georgia «combatterà lo spettro dell’aggressione e dell’autoritarismo con la più potente arma del nostro arsenale. Mentre gli altri hanno combattuto questa guerra con le armi, noi la combatteremo con i valori». Per raggiungere questo obiettivo ha delineato quattro audaci riforme interne: maggiore indipendenza del Parlamento e della magistratura, più fondi ai partiti di

Dopo l’avvio della missione Ue, il governo di Tbilisi punta su una maggiore indipendenza del potere e trasparenza dei media

Nella foto grande: Mikheil Saakashvili mentre parla alla 63esima Assemblea Generale dell’Onu; sopra, un primo piano del presidente georgiano

opposizione e l’assicurazione di un maggior accesso ai mezzi di comunicazione, processi giusti, espansione e maggiore protezione della proprietà privata».

Saakashvili ha combinato la democrazia interna con i principi su cui sono state fondate le Nazioni Unite: “inviolabilità dei confini, sacralità dei diritti umani, supremazia del diritto internazionale e rifiuto generale delle aggressioni armate”. Le due cose sono connesse. Saakashvili ha correttamente detto che la Russia ha attaccato perché la Georgia è democratica. D’altronde, se la Russia fosse democratica, se lavorasse sulla sua vita post-sovietica, sarebbe improbabile che invierebbe teppisti in uniforme per attaccare il suo minuscolo vicino meridionale. Solo i russi possono attuare un cambiamento democratico nel loro Paese, così come solo i georgiani possono continuare il processo democratico in Georgia. Ha detto il noto letterato georgiano Archil Gegeshidze: «alle parole dovrebbero seguire i fatti». Giusto. I georgiani – i governanti e le persone – ci credono, e qui entra in campo un terzo attore: la Nato. Bruxelles ripete spesso due “luoghi comuni”: nessun veto da parte di Paesi terzi nei confronti dei can-

didati all’ingresso nella Nato è determinato da elementi di natura militare, ma quando la Nato si è tirata indietro sul Map per la Georgia al summit di Bucarest del 2-4 aprile scorso, c’è mancato poco che arrivasse il veto di un terzo Paese senza che Putin dovesse scomodarsi. La verità è che - al di là della retorica dell’Alleanza - appena i risultati della Georgia sull’attuale Piano di Associazione Individuale diventeranno più concreti - e di conseguenza Mosca diventerà più intransigente - il criterio dell’alleanza per il Map tornerà ad essere politico. Il pasticcio di Bucarest, alla fine, ha giocato la sua parte nell’incoraggiare Mosca ad attaccare la Georgia ma, ora che la fase televisiva della guerra è passata, la Nato ha cominciato a battere nuovamente il ferro sulle azioni militari, con particolare enfasi sulla gestione delle riforme giuridiche. Alla vigilia della sua recente visita in Georgia, il segretario generale della Nato Jaap de Hoop Sheffer ha detto al Financial Times che il suo messaggio al Paese sarebbe stato il seguente: «Voi siete una democrazia, comportatevi come tale». A New York Saakashvili ha accettato la sfida. E la Nato si aspetta nell’arco di settimane, non di mesi, un piano di attuazione e il primo passo verso le future riforme democratiche delineate alle Nazioni Unite. Bene. Dovrebbe però essere altrettanto chiaro che se la Georgia agisce, i ministri degli Esteri della Nato che si riuniranno a dicembre prossimo dovrebbero concederle il Map. Se i Paesi occidentali hanno imparato qualcosa da questa guerra, le cose dovrebbero andare proprio così.


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mondo

A Mosca dilagano i “reidery”, gang organizzate che, minacciando, espropriano imprenditori e singoli cittadini dei loro beni. Con la compiacenza delle “alte sfere”

Dammi casa tua. Ora! In Russia i ricatti sono diventati così comuni da costringere Medvedev a definirlo “una vergogna nazionale” di Francesca Mereu

MOSCA. Il bugigattolo nel seminterrato del palazzo periferico - odore di muffa e muri scrostati - è tutto quello che Andrei può permettersi con i prezzi degli affitti di Mosca. Ma le cose non sono sempre andate così. Tutto è cambiato una mattina di primavera di due anni fa, quando la milizia arrivò per perquisire il suo l’ufficio del centro. Una formalità, gli dissero. Ma poi un agente gli mostrò una bustina e lo informò che era la cocaina che aveva trovato nel cassetto di una scrivania. Andrei fu arrestato e sbattuto in cella d’isolamento. Non gli permisero d’avvisare la famiglia o un legale. «Non capivo cosa mi stesse succedendo», racconta. Il mistero si risolse quando un avvocato, sorridente, entrò nella cella e gli disse che l’accusa di detenzione illegale di stupefacenti sarebbe caduta se avesse firmato la cessione del suo ufficio ad una compagnia che questo rappresentava. «Ho firmato e loro si sono presi il mio ufficio», racconta.

di tutti i livelli sono nei loro libri paga. Attraverso queste persone, i reidery ordinano perquisizioni di ditte, raccolgono informazioni su imprenditori e falsificano qualsiasi documento necessario per appropriarsi dell’oggetto desiderato.

«I reidery sono persone che lavorano per il sistema e attraverso il sistema falsificano tutto quello che vogliono», spiega Gennady Gudkov, ex agente del Kgb e membro di una commissione parlamentare che monitorizza il problema. Gudkov ha registrato circa mille “attacchi” di reidery a Mosca lo scorso anno e altrettanti nella regione moscovita. Ma la vera cifra, spiega, è molto più alta. Molti non denunciano il fat-

sato d’evasione fiscale e l’edificio dichiarato inagibile. Come se non bastasse Konstantin fu picchiato da sconosciuti e sua figlia - astemia - trattenuta per guida in stato d’ebbrezza. «Capii che avevano legami così potenti che dovevo accettare la loro offerta», spiega l’uomo. Ci sono gruppi di reidery che lavorano in proprio e altri che invece accettano incarichi in cambio di dollari. Gli “indipendenti” individuano l’oggetto da prendere e architettano il piano d’azione. Questi di solito prendono di mira piccole proprietà (come quelle di Andrei e Konstantin), semplici da sottrarre. I mercenari accettano, invece, incarichi da grosse ditte e si specializzano in grandi imprese. Il cliente suggerisce al rei-

circa 50mila dollari per prendere gli immobili di Andrei e Konstantin, e si sono portati a casa beni che valgono milioni. Per appropriarsi delle proprietà di una compagnia di media grandezza, i reidery mandano alle autorità fiscali un protocollo falso di una riunione straordinaria di azionisti, dove si dichiara che la compagnia ha nominato un nuovo direttore generale. Questo vende gli immobili della compagnia ad un compratore fittizio che li rivende ad un terzo e così via. Se il proprietario reale volesse rivendicare i suoi diritti, dovrebbe sottoporsi ad una complicata procedura burocratica e difficilmente riavrebbe indietro la proprietà che nel frattempo è stata venduta e rivenduta varie volte. «Quando un imprenditore apriva un negozio all’inizio degli anni Novanta, i banditi gli offrivano protezione in cambio di denaro», spiega un ex agente dell’intelligence, «Ora i banditi sono stati rimpiazzati dalla milizia e dal Fsb». Le grosse compagnie che all’inizio dei Novanta erano il bersaglio principale dei reidery si sono ora organizzate in grosse holding e corporation statali (con dipartimenti giuridici e di sicurezza) diventando irraggiungibili anche per i più esperti predatori. L’attenzione dei reidery s’è così spostata sul piccolo e medio business. Perché “le bande”non sono interessate all’impresa in sé, ma agli immobili. Questi possono essere affittati a prezzi vertiginosi (soprattutto quelli del centro di Mosca) o demoliti per costruire edifici più alti. «È impossibile oggigiorno tenersi una proprietà a Mosca senza avere una protezione seria», spiega l’ufficiale di polizia. E così, per proteggersi, compagnie di piccolo e medio taglio danno ad ex (e operanti) ufficiali dell’intelligence, poliziotti e funzionari

I criminali operano in gruppi composti da ex ufficiali dell’intelligence, poliziotti, avvocati e chiunque abbia gli agganci giusti. Giudici, procuratori e impiegati di tutti i livelli sono sui loro libri paga

Sono centinaia le proprietà come quella di Andrei che ogni anno vengono sottratte illegalmente a Mosca e dintorni dai cosiddetti reidery (pronuncia alla russa della parola inglese raiders). Il fenomeno è diventato così comune che il presidente Dmitry Medvedev li ha definiti «la vergogna» del Paese. I reidery russi hanno poco a che vedere con i cosiddetti corporate raids, quando cioè una compagnia più forte ne ingloba una più debole a beneficio di entrambe. Qui i reidery usano gli agganci con ufficiali corrotti per appropriarsi di un’impresa o di immobili (le prede più ambite). Questi operano in gruppi composti da ex ufficiali dell’intelligence, poliziotti, avvocati e chiunque abbia gli agganci giusti nelle alte sfere di potere. Giudici, procuratori e impiegati

to (come gli imprenditori intervistati per questo articolo), perché pensano sia inutile farlo. I reidery hanno infatti legami con la polizia, la procura e il Servizio di sicurezza federale, l’Fsb (l’erede del Kgb). Secondo l’autorevole settimanale economico Ekspert sono circa 70mila le proprietà che ogni anno cadono nelle loro mani. Due giovani robusti sulla trentina entrarono nel negozio di Konstantin lo scorso anno. Il posto (800 metri quadri nel centro di Mosca) era perfetto, gli dissero. Konstantin spiegò che l’esercizio non era in vendita. Ma gli uomini gli spiegarono che non volevano comprare. «Se vuoi semplificare le cose, firma il contratto di vendita, altrimenti - ricorda Konstantin ce lo procuriamo da soli, ma allora dovremmo farti del male», disse uno di loro. Kostantin decise di resistere, ma due giorni dopo ricevette la visita degli ispettori fiscali e poi quella dei vigili del fuoco. L’uomo fu accu-

der il tipo di compagnia o proprietà desiderata e i qusti gli fanno il preventivo. Molti dei reidery sono ex ufficiali delle forze speciali create all’interno delle agenzie d’intelligence all’inizio degli anni Novanta per tenere d’occhio il business allora nascente. Questi avevano il compito di controllare che gli imprenditori operassero secondo la legge e non vendessero tecnologia topsecret all’estero.

Un prezziario contraddistingue i reidery: un giudice si corrompe con somme che vanno dai 5mila ai 9mila dollari, mentre ordinare l’arresto di una persona costa dai 5mila ai 70mila dollari. Attraverso le conoscenze con agenti dell’intelligence, i reidery possono ascoltare le conversazioni telefoniche delle vittime per alcune migliaia di dollari a settimana. Secondo un agente di polizia del dipartimento contro il crimine organizzato, la “gang” ha speso

statali ben ammanicati una parte del loro business.

Sergei ha passato varie notti insonni preoccupato che qualcuno mettesse gli occhi nella sua fabbrica situata a 10 chilometri da Mosca e gliela portasse via. Ha iniziato a dormire tranquillamente tre anni fa, quando ha dato ad un ex ufficiale dell’intelligence, con ottimi agganci, il 30% del business in cambio di sicurezza. «Se non hai qualcuno


mondo

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Nel 2006 la corruzione ha inghiottito 240 miliardi di dollari

La battaglia più importante è contro la mazzetta di Francesco Cannatà Vzjatka, mazzetta. Vero e proprio flagello che a differenza dell’economia ufficiale non conosce recessioni.Vero e proprio motivo di disperazione per tanti cittadini onesti che non sanno come evitarla.Vero e proprio rompicapo per la parte della pubblica amministrazione intenzionata a combatterlo. Per capire cosa significhi la parola corruzione in Russia o meglio per avere presente quello che potrebbe significare il suo contrario, l’onestà, bisognerebbe aver visto Nasha Rusha, Nostra Russia - l’aggettivo in russo e il nome in inglese danno vita a un suono bizzarro – tre minuti di trasmissione televisiva nella quale ogni sera gli aspetti più grotteschi della vita quotidiana della federazione venivano messi alla berlina. Spesso il posto d’onore andava alla corruzione. In uno di questi siparietti si vedeva un poliziotto onesto che, vestito di stracci, la sera torna nella sua casa in rovina, dove una moglie smunta e un bimbo affamato lo supplicano di abbandonare ogni chimera di legalità per vivere invece come gran parte dei suoi colleghi.

listi poco rispettosi del codice, fino ai milioni di dollari che secondo dati del Comitato nazionale anticorruzione, le aziende devono sborsare se vogliono avere in tempi decenti quanto serve per fare impresa nel grande Paese slavo e ortodosso. È stato Medvedev ha definire tale andazzo, «una grave malattia che corrode l’economia e sgretola l’intera società». Il presidente russo ha usato queste parole per ribadire a chi crede che la guerra in Ossezia del sud sarà la pietra tombale del corso liberale del governo, che la strada delle riforme non verrà abbandonata.

Le parole di Medvedev hanno per ora dato vita a una legge anticorruzione e a una serie di normative presentati ieri alla Duma russa. Misure che restano però all’interno del Piano elaborato dal Consiglio anticorruzione a capo del quale vi è Sergej Naryschkin. Il piano non si limita a dare forma razionale ai provvedimenti anticorruzione presenti nella legislazione russa, ma mette l’attenzione sul bisogno di decentralizzazione delle strutture amministrative federali, aumento dell’indipendenza dei media e controllo del parlamento da parte delle strutture della società civile. Il tutto riunito nel «principio dello sportello». Per l’esperto di Internet Dimitry Medvedev, l’e-government, con la sua capacità di evitare i meandri più contorti della pubblica amministrazione russa, dovrebbe essere l’arma in più nelle mani del cittadino. La legge più che attaccare alla radice le cause della corruzione, si limita alle conseguenze del malaffare. Soprattutto si punta sul controllo delle proprietà e dei redditi dei servitori dello Stato di ogni livello. Membri famigliari inclusi. Si cerca cosi di sgominare la prassi corrente di intestare ai parenti, bambini compresi, patrimoni provenienti da attività illegali. Per molti politici russi il sequestro di beni acquisiti grazie alla corruzione, è l’unico modo per contrastare questa forma di arricchimento. In Russia è forte però la convinzione che con la leva legislativa si possa inviare solo un segnale, nulla di più. Tutti i sondaggi mettono in evidenza come la corruzione sia ormai vista come un dato naturale della vita pubblica della federazione. Questo perché finora la politica non ha fatto nessun serio tentativo di creare ambienti sociali sani che solo possono contrastare la corruzione. Vera concorrenza politica, trasparenza nella pubblica amministrazione e nelle strutture del potere, pluralismo delle iniziative sociali, libertà dei media. Strumenti che in Russia i cittadini sono lontani dall’utilizzare e, peggio ancora, dal comprendere in tutta la loro portata.

Combattere l’illegalità con un provvedimento di legge: questo il nuovo progetto politico di Medvedev

Una locandina che ti protegge in questi giorni, pubblicitaria sei finito», dice Sergei. L’ufficiadell’ultimo libro le dell’intelligence è quello che tiene buoni gli ispettori fiscali, i di Robert I. Friedman sulla mafia russa, vigili del fuoco e paga le mazzeta cui comunque te ai burocrati, quando serve. il fenomeno «Negli anni Novanta c’erano i dei “reidery” banditi a proteggerci. Ora cononon sco ex banditi che hanno dato parte del loro business legaliz- è immediatamente ascrivibile. zato a ufficiali di polizia per diA lato, fendersi dai reidery», continua il presidente Sergei. L’affare, è diventato russo Medvedev un’emergenza sociale.

Dopo le elezioni dello scorso marzo, il sito della presidenza federale ha pubblicato le lettere inviate a Dimitry Medvedev, per invitarlo a realizzare quanto promesso in campagna elettorale. «I sobborghi di Vladivostock sono pieni di ville di campagna di amministratori cittadini e regionali…guidano auto da cui si potrebbe credere si tratti di alti manager della Mercedes», scrive A. Ivanov, studente della regione di Primorje. Cahiers des doleances furiosi e sconsolati da far tremare i polsi al giovane giurista pietroburghese convincendolo che per incidere questo bubbone purulento della vita del Paese, deriso da Gogol, negato dai sovietici e denunciato in maniera spesso impotente da Putin, più che il diritto potrebbe servire la spada. Korruptsija. Podkup. Corruzione, tangente. Due piaghe che secondo il centro Indem, dal 2001 al 2005 sono aumentate del 70 per cento. Due flagelli che ogni tanto straripano da impotenza e assuefazione per tornare sulle prime pagine dei media. Come a febbraio scorso quando a Saratov il procuratore locale è stato assassinato. Due labirinti burocratico-criminali che, secondo Alexander Buksman, vice procuratore generale del Paese, nel 2006 hanno inghiottito 240 miliardi di dollari. Nei primi mesi di quell’anno, i casi di corruzione ufficialmente denunciati sono stati 28mila e il loro costo medio era pari a 136mila dollari. Dalle poche decine di rubli che l’agente in servizio sulle strade chiede a tutti gli automobi-


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teatro

Il ”Libro dei Re” di Hakim Ferdowsi rivive a Roma con la compagnia di marionette iraniana dell’Aran Group

Le radici pre-islamiche di Zoroastro di Rossella Fabiani come fare un viaggio in un pezzo di Iran che non esiste più. Nelle marionette di Behrouz Gharibpour rivivono miti e leggende degli antichi persiani che gli arabi, con l’islamizzazione del Paese, hanno sempre cercato di far dimenticare. In questi giorni all’Argentina è andata in scena una rarità. Sul palco romano hanno debuttato le marionette iraniane dell’Aran Group cimentandosi con la storia di “Rostam e Sohrab” tratta dallo Shahnameh o Libro dei Re, di Hakim Ferdowsi, poeta epico del X secolo. Considerato il padre della letteratura persiana, Ferdowsi decise di mettere per iscritto in antico persiano le storie del passato e lo spettacolo è stato l’occasione per conoscere anche visivamente come venivano rappresentate queste antiche leggende, tramandate soltanto oralmente dai cantastorie.

È

La compagnia di marionette del regista Behrouz Gharibpour è la più importante oggi presente in Iran. Gharibpour, un trascorso da attore, l’ha messa su in quattro anni scegliendo i burattinai tra i diversi gruppi che aveva avuto in precedenza, mentre ha voluto far costruire le marionette dai mestri del Teatro delle Marionette di Vienna, che per la particolare tecnica adottata le rende dei veri oggetti d’arte. Il teatro tradizionale iraniano ha tre forme di espressione: le storie dei miracoli, la commedia dell’arte e il teatro delle marionette. Quest’ultimo era quello più critico, era contro gli uomini religiosi che predicano il Corano e poi non lo rispettano. Era un teatro contro i fanatici Con religiosi. l’arrivo della televisione e del cinema nel Paese, il teatro delle marionette ha cominciato a sparire: «Avevo 19 anni allora – dice il regista – amavo quel tipo di teatro e sono andato alla ricerca delle sue radici in Iran. Dopo 25 anni sono riuscito a ricreare quel mondo con la mia compagnia». Ma Gharibpour ha voluto fare di più: dimo«Volevo strare che le storie che venivano raccontate non

Gli attori della rappresentazione, scelti dal regista Behrouz Gharibpour, fanno rivivere le antiche leggende della Persia tramandate soltanto oralmente dai cantastorie

In alto, un’immagine che raffigura ”Rostam e Sohrab”, tratta dal ”Libro dei Re”. Sotto, una statua dell’autore, Ferdowsi e, a fianco, la sua tomba erano soltanto per i bambini o per criticare le cose superficiali, ma che il linguaggio corrispondeva a un antichissimo pensiero filosofico, allo stesso stempo le storie epiche e le mitologie dovevano essere conosciute da tutti, non soltanto dagli intellettuali. Per questo ho creato il teatro delle marionette affiancandogli l’elemento della lirica». La musica dello spettacolo è stata composta dall’armeno Loris Tjeknavorian e anche l’opera è stata in parte eseguita da concertisti armeni. La combinazione dei pupi con la lirica è stata una novità introdotta da Gharibpour, l’unico a usarla nel suo Paese. Il regista persiano ha raccolto dunque l’eredità dei cantastorie, e, grazie a Ferdowsi è stato possibile mantenere il passato, la tradizione culturale, anche linguistica. «Perché noi siamo musulmani, ma non siamo arabi» – sottolinea Gharibpour – e citando il poeta - «abbiamo preso l’Islam, ma non abbiamo cambiato razza, lingua e tradizione». Ferdowsi è il padre della lingua persiana e aveva nostalgia del passato che era stato grande filosoficamente «in nome di Dio, dell’anima e della scienza», era solito ripetere. «E quando non hai conoscenza puoi compiere tragedie», dice il regista.

Tutti i contadini persiani conoscevano il Libro dei Re di Ferdowsi a memoria. Grazie ai cantastorie che andavano in giro con le tele dipinte raccontando le antiche leggende e le gesta dei Re. Oggi in Iran c’è anche una donna che fa la cantastorie. Ferdowsi è nato nel Khorasan in un villaggio vici-

no a Tous, nel 935 dopo Cristo. Al suo capolavoro, Shahnameh , dedicò gran parte della sua vita. Originariamente era stato composto per i principi Samanidi del Khorasan, che furono i maggiori sostenitori della rinascita delle tradizioni culturali persiane dopo la conquista araba del settimo secolo. Durante la vita di Ferdowsi questa dinastia fu conquistata dai turchi Ghaznavid, e diverse storie tramandate nei testi medievali descrivono la mancanza di interesse del nuovo sovrano del Khorasan, Mahmoud di Ghaznavi, per Ferdowsi e la sua opera. Secondo la tradizione, Ferdowsi sarebbe morto intorno al 1020 dopo Cristo, povero e amareggiato per l’indifferenza mostratagli dal re, ma sicuro che la sua poesia sarebbe divenuta famosa. Considerato un classico della letteratura mondiale, lo Shahnameh racconta le storie di re e di eroi dell’antica Persia. Ferdowsi, forse un dehqan (proprietario terriero), lavorò oltre trent’anni per finire il Libro dei Re ed è considerato il padre dell’epica nazionale alla quale ha dato la sua forma definitiva e duratura. Per quasi mille anni i persiani hanno continuato a leggere e ad ascoltare le storie tratte dal suo capolavoro che racconta il glorioso passato

dell’Iran in Pahlavi originale, puro persiano. Lo Shahnameh è composto da quasi 60mila distici, ma il primo a mettere in versi la storia pre-islamica e leggendaria della Persia fu Daqiqi, un poeta della corte dei Samanidi, morto all’improvviso, dopo aver scritto soltanto mille versi. Questi versi, che raccontano la crescita del profeta Zoroastro, sono stati poi ripresi da Ferdowsi. Anche nell’allestimento messo su dal regista Gharibpour si possono riconoscere gli elementi pre-islamici della tradizione zoroastriana: gli angeli, il sole rosso (che ricorda la nascita di Mitra), la notte, le stelle e la luna. La caratteristica importante del Libro dei Re è che sebbene all’epoca l’arabo fosse la lingua principale della scienza e della letteratura, Ferdowsi stese il suo capolavoro in persiano: «La lingua persiana torna a vivere con questo lavoro», scrisse lui stesso.

«Ferdowsi ha tirato fuori questa lingua meravigliosa che oggi ci può far ricordare la dignità di essere persiani. Ferdowsi è vivo nella cultura persiana. Ancora oggi in Iran esistono i cantastorie, ma sono ai margini della città, nei villaggi e nelle locande. All’inizio gli arabi hanno cercato di reprimere questa tradizione perché a loro interessano soltanto i versi del Corano e il petrolio, e usano il terrorismo internazionale perché sono nostalgici dell’impero Ottomano. Sono diversi dai persiani-iraniani. E Ferdowsi è la nostra speranza, una scintilla che rimane sempre accesa come il fuoco di Zoroastro», dice un’artista iraniana. «L’epica di Ferdowsi ci ricorda che prima di tutto siamo persiani. Ci parla dei nostri re, ci ricorda chi eravamo e che cosa cercavamo nel passato – aggiunge l’artista – In epoca pre-islamica avevamo un nostro codice di comportamento, un codice civile, sociale, regole di buona educazione e valori, come quello di dire la verità e non fingere. È grazie a lui se oggi ancora si conosce l’antico persiano. Gli iraniani, nel nord-est del Paese per secoli hanno resistito alle preghiere e quelli del sud-est sono stati i primi a combattere gli arabi». Per anni il poeta persiano è rimasto vivo nella cultura popolare, nelle locande e nei villaggi. Poi sono arrivati i mass media. E chi li controlla. Anche il presidente Ahmadinejad riconosce che bisogna conservare la lingua persiana e gli stessi religiosi credono e rispettano i grandi poeti del passato come Hafez o Kayam. Ma entrambi non vogliono dire che i persiani non sono arabi. Perché in tutto il mondo orientale vale la definizione di musulmano uguale arabo. Anche se non è così.


cinema

e anche il pubblico della Feltrinelli si rompe le scatole per le polemiche dell’Anpi sul film di Spike Lee, qualcosa vorrà dire. «Questo è regime. La creatività non può essere limitata dai desideri di una lobby intellettuale o politica», Pierfrancesco Favino, nel cast di attori, abbandona l’iniziale diplomazia – pur rimanendo pacatissimo nei toni - dopo l’ennesima querelle del “partigiano” Franco Giustolisi, uno dei firmatari del manifesto contro il regista Spike Lee e il suo film Miracolo a Sant’anna, sulla strage nazista di Sant’Anna di Stazzena.

S

Lee, sempre più curvo sulla poltrona, aveva già risposto sulla polemica scatenata da un passaggio del film, dove c’è un partigiano traditore al soldo delle Schutzstaffel: «Non vorrei che si scatenasse una guerra fra me e i partigiani. Perché mai? Perché dovrei mostrare più simpatia per i nazisti che per i partigiani? Però ho cercato di essere onesto, ho tentato di mostrare che i buoni non stanno tutti da una parte e così vale anche per i cattivi. Il bene e il male non sono divisi in maniera così manichea. Fra i nazisti ne ho mostrati due che erano sicuramente delle persone per bene. I personaggi sono molto complessi e ho voluto rappresentarli in questa maniera. Guardate il film con la mente sgombra da queste polemiche, poi tirerete da soli le vostre conclusioni, senza pensare alle discussioni che l’hanno preceduto». L’altro ieri il pubblico della libreria di via Appia Nuova, a Roma, rumoreggiava all’ennesimo intervento di Giustolisi. Voleva sentire il regista di Malcom X e la 25ma Ora, il mito dell’america nera che sfonda ad Hollywood, parlare di cinema. Ne aveva abbastanza di queste storie. «Serve affermare

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Spike Lee alla presentazione di ”Miracolo a Sant’Anna”

«Rimarginate le ferite della Seconda guerra» di Pierre Chiartano la negazione dell’orrore, non dichiarare a che squadra si appartiene», affondava di fioretto Favino, in difesa del suo regista, che lo adora: «È una fortuna avere un attore come lui, che porta sullo schermo l’anima, che dà vita alle parole». Del resto c’era da aspettarselo, siamo in Italia, il Paese incompiuto, dalle mille ferite ancora aperte. E alcune sono più aperte di altre, perché attengono l’ortodossia ufficiale di una storia fatta per insegnare: sì, ad odiare chi non veste la maglia della tua squadra. Che sia stato una camicia nera, un fazzoletto rosso o che semplicemente abbia scelto la parte «sbagliata» del fronte. Non hai diritto ad essere una persona, sei solo il nemico. Soprattutto Lee ci insegna che non si deve dipingere il male con «le corna e la co-

In alto, il regista Spike Lee. A fianco, un particolare di una scena del suo ultimo discusso film ”Miracolo a Sant’Anna”

da», perchè è il sistema migliore per un suo ritorno.

E Favino, il cattivo delle Cronache di Narnia, ci ha ricordato il ruolo degli attori: «Non è il mio mestiere trattare di storia, ho un altro compito, che è capi-

Il regista, che non ha troppi peli sulla lingua, consiglia all’Italia la visione del film, ma «a mente sgombra: avete ancora dei tagli profondi»

re cosa si genera nell’animo umano. Il mio lavoro è creativo e mi permette di dare voce a ciò che sento. A mia figlia vorrei insegnare che è la guerra che fa orrore, che porta uomini, anche fratelli, a spararsi l’un l’altro. Grazie a chi ci ha liberato, oggi, che ho 40 anni, posso dire di poter ragionare senza faziosità. Non è revisionismo! È la guerra che fa orrore. È una condizione dove è facile sbagliare e ciò è umano. Se non fosse così non esisterebbero Dante, Macbeth o Guernica di Picasso. Serve affermare la negazione dell’orrore, non dichiarare a che squadra si appartiene. Se la lezione è che l’orrore è solo di una parte, allora non ci avete insegnato niente». Infatti per onorare i morti serve onestà, esser umili di fronte agli avvenimenti aiuta, avvicina alla verità.Verità che, in Italia, è purtroppo un concetto metafisico, cioè non appartiene al mondo reale. Anche il regista afroamericano si era difeso bene. «Non ho capito neanche la polemica che si è scatenata, non vorrei che si perdesse di vista quello che è per me il vero contenuto. Vale a dire l’incontro di due popoli diversi, in circostanze particolari. Uno formato da questi soldati di colore, i buffalo soldier, un battaglione composto esclusivamente da soldati di colo-

re. Uomini che in patria, nel 1944, erano ancora discriminati. Ma nonostante questo erano venuti a combattere sotto la bandiera di quel Paese che li emarginava, per liberare l’Italia dal fascismo e dal nazismo. Tanti incontri straordinari, fra questi soldati e gli abitanti dei villaggi e delle cittadine della Toscana, durante la guerra. Si incontrano senza badare alle differenza di colore, lingue, cultura. Un incontro tra esseri umani che superano tutte le barriere». Ma l’offensiva “partigiana” incalzava solitaria, spinta dall’autore dell’Armadio della Vergona, un testo sulla vicenda giudiziaria della strage. In risposta, l’autore di un’autobiografia che titola Questa è la mia storia e non ne cambio una virgola, teneva fede a se stesso. «Questo film è una fiction, nel disclaimer è scritto che è una storia liberamente tratta da un romanzo. È un’opera, visto ciò che si è scatenato, che serve ad aprire una discussione. Prima di girare ho fatto un’indagine informale, chiedendo alla gente per strada: sapete cosa è successo a Sant’Anna? Nove persone su dieci non ne erano a conoscenza. Nessuno sapeva. Se questo film farà di nuovo parlare di quegli eventi e di tante altre tragedie, sarebbe già un gran risultato. Ho imparato una lezione stando in Italia.

C’è un’enorme ferita ancora aperta sulle vicende che riguardano la Seconda guerra mondiale. Tagli profondi che fanno ancora male e non spetta a me chiuderli o guarirli, ma questo film potrebbe aiutare». Alla fine Lee rifiuta anche un’intervista alla Rai, mentre Favino si allontana, gli chiediamo come è stato l’addestramento militare che il regista ha richiesto a molti attori. «Non ho fatto il boot camp, però ho perso quindici chili durante le riprese... ‘na faticata».


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fumetti

60 anni fa, da un’idea di Gianluigi Bonelli, nasceva l’amatissimo eroe solitario che combatte il male, aiuta i deboli e scansa le donne. Anche se un tempo...

Non son degne di Tex di Pier Mario Fasanotti iao Tex. Buon compleanno. E stammi bene». Non è per scortesia o timidezza, ma altro davvero non si può dire a mister Willer, americano, di professione ranger. Sappiamo che odia le smancerie, le frasi fatte. È di pochissime parole. Lo è da sessant’anni. Immaginiamo un mezzo suo sorriso, forse un garbato e asciutto cenno della mano dopo i nostri auguri. Poi se ne va: ha sempre da fare. Nemmeno il giorno del suo compleanno se ne sta al saloon a «far flanella» con le donnine discinte e pittate in viso.

«C

Attenzione, non pensate a un bordello: lui certe cose non le fa, certi posti non li frequenta. Noi sappiamo che non è un uomo complessato, che non è gay, ma sulle questioni private ci tiene a chiudere la porta, a noi maliziosi europei immaginare in quale maniera possa star bene con una donna. Sappiamo solo che Tex, che fondamentalmente è un gentiluomo, non è un egoista e quindi la sua preoccupazione è quella di far star bene la donna che sta accanto a lui. Non tratta con volgarità da caserma o con supponenza nemmeno le prostitute, alle quali offre da bere e dice loro: «Io sono uno che paga sempre, tieniti il resto». Frase un po’ ambigua, ma sarebbe poco cortese indagare sull’intimità di un cow boy che nella sua vita si è tenuto sempre lontano dal dandismo, dalla gigioneria. Di latino ha poco. Pensate: non ha nemmeno i baffi, e la sua carnagione è molto “wasp”, anglosassone insomma. Questo non deve indurre a pensare a lui come a un bianco un po’ razzista. Manco per idea, oltretutto ha sposato una bellissima indiana. E per anni

l’ha corteggiata come un adolescente anche dopo la sua morte prematura.Visto che siamo in argomento, rimaniamoci. Tex e le donne. Pur avendo un passato non del tutto limpido, questo eroe di carta, uscito nel 1948 dall’immaginazione e dallo spirito imprenditoriale di Gianluigi Bonelli, parrebbe a prima vista un grande imbranato. O, visto che la matita che l’ha partorito è milanese, “un pirla”.

Non è così. Lui ha il suo mondo e non deve faticare per alimentarlo con la collezione delle conquiste amorose o sessuali, o tutte e due insieme. Occorre

dire che mister Tex si è tenuto rigorosamente alla larga dalle donne considerandole un bel guaio. Le guarda, questo sì, ma le considera una gioia e insieme una grande seccatura. Non stiamo elucubrando. Prendete per esempio l’episodio in cui si trova sulla cima di una collina insieme con sette magnifiche squaw con gambe lunghe, occhi da cerbiatto e tuniche striminzite, un po’ da Roma antica con peplum, profumi e triclinii. C’è pure quella luna “galeotta” che fa venire certe idee. Ma soprattutto c’è la riconoscenza delle fanciulle indiane: Tex le ha appena salvate da violenze, stupri e probabile morte. Forse noi corrotti e un po’ marci abitanti dell’Europa meridionale avremmo, per così dire, approfittato della situazione, una battuta, una carezza, insomma… Invece niente, Tex le mette a far da sentinelle visto che i pericoli sono sempre dietro l’angolo, i cattivi popolano le pianure e le montagne e i canyon spesso son colorati di sangue. Si sdraia con il suo immancabile cappello a tesa larga e s’addormenta come un bambino, sognando bistecche e patatine.

messicana. C’è pure la ballerina Marie Gold che, chiaramente innamorata di lui, lo salva estraendo una Derringer dalla sua implacabile e ardita scollatura: bang, bang, il nemico del ranger è stecchito (la scena sarà poi censurata successivamente, quelli erano tempi più

sto: album numero 7): la fortunata è l’indiana Lilyth. Non c’è corteggiamento, anzi si può ben dire che Tex si trova a non avere scelta.

È legato al palo della tortura e si può salvare solo unendosi in matrimonio con la squaw, che è

Americano, di professione ranger, odia le frasi fatte ed è di pochissime parole. Ma soprattutto a una cosa tiene ardentemente: salvaguardare il suo status di lupo solitario. E il ricordo di sua moglie Lilith Tutto vero, vedasi episodio numero 169.

Una cosa vuole ardentemente il ranger più famoso tra quelli creati dai “fumettari” italiani: salvaguardare il suo status e la sua fama di lupo solitario. Non è una maschera, è la sua essenza. Donne se ne vedono parecchie nelle strisce degli album della Bonelli editrice, e non sono tutte delle santerelline, anzi. C’è la pochissimo vestita Tesah, india, c’è la formosa Lupe Morena,

casti dei nostri). Le donne lo aiutano sovente. Come Joan Baker, giornalista. Tex è sobrio fino alla scontrosità, e la ringrazia così: «Siete una cara ragazza, Joan. Arrivederci». Sa che i suoi incontri potrebbero avere un seguito “caliente”, ma lascia perdere andando dritto per la sua strada. E la sua strada è quella all’aperto, senza camere da letto, alcove o fienili. Verso il matrimonio è idiosincratico. Ruvido e diffidente, preferisce rapporti camerateschi. Però si sposa (anche pre-

figlia del capo della tribù dei Navajos. Gli va comunque bene, anzi benissimo: Lilyth sarà un’amorevole compagna e per nulla rompiscatole. È anche una bellissima donna, che però muore presto rendendo Tex ricco e, soprattutto, capo della tribù di Freccia Rossa. Willer si farà chiamare Aquila della Notte.

Vedovo, quindi. Secondo la consumata tradizione di molti eroi americani, ondeggianti tra tentazioni e nostalgia, tra lutto e vita nuova. Eviterà incontri


fumetti

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no segreti per lui. Egli è in grado di dominarle, piegarle al suo volere, utilizzarle per punire malvagi. È nuotatore formidabile, speleologo provetto, conosce perfettamente la rosa dei venti e gioca col fuoco dei pastori sardi. Dove non arriva la sapienza, il ranger supplisce con la solita spudorata fortuna che gli permette di sfuggire a incendi neroniani, tempeste, tifoni, terremoti, crolli di dighe, eruzioni vulcaniche ed esplosioni apocalittiche». Non ha nemmeno paura dei bisonti, animali tipicamente americani. Lui devia il loro tumultuoso procedere, quello che fa tremare la prateria, spara in mezzo agli occhi dei primi giganti di carne e muscoli e dietro una montagna di cadaveri salva tutto e tutti.

facili e disastrosi, pronuncerà in silenzio frasi tenere in memoria della moglie, che gli ha dato un figlio, Kit Willer (esigenze dei fumettari, intenzionati ad accostarsi a un pubblico molto giovane). Certo, conosce la conturbante Ruth, ma si limiterà a tenerle la mano. Coppia da tredicenni di oggi. Un bacio sulla bocca lo dà, per essere onesti nel riferire le sue avventure. Alla bionda Teresa che lo ha salvato (e rieccoci con i salvataggi) dal morso di un serpente. Ma il casto kiss-kiss è il risultato di un vaneggiamento da veleno: Tex crede di trovarsi dinanzi a Lilyth.

Tex è l’eroe per eccellenza. Rassicurante, deciso, protettore dei deboli e dei “diversi”. Non sempre vince - e qui sta la sua umanità - anzi perde clamorosamente come quando non riesce a impedire il linciaggio di un nero. All’aria aperta è un mago. Riferisce bene Claudio Paglieri nel libro Non son degno di Tex (Marsilio editore): «Le forze della natura non han-

Compie sessant’anni il fumetto più amato, nato dall’immaginazione di Gianluigi Bonelli. In origine avrebbe dovuto chiamarsi ”Tex Killer” e essere un pistolero vendicatore senza se e senza ma. Invece è divenuto semplicemente ”Tex Willer”, l’eroe che in molti vorrebbero essere

Le sue avventure spaziano nel tempo. Sgomina la famigerata banda Dalton, sconfigge i vari “mucchi selvaggi” dei banditi dal grilletto facile, in banca e altrove, s’infila in vicende storicamente complesse come la guerra civile americana e la rivoluzione messicana. La sua figura si staglia all’età di 27-28 anni. Siamo attorno al 1840.Tex fa tutto, anche un po’ troppo e addio alla esattezza cronologica. Ma fa niente, la sua vivacità è anche temporale tanto è vero che pone fine alla carriera di Buth Cassidy e Sundance Kit, correndo fino alla Bolivia pur di scovarli. L’intera storia del West ha ben visibili le orme degli stivali di Tex Willer: la corsa all’oro, gli assalti dei primi pionieri contro gli indiani, il sanguinoso avvento della “civiltà” dei bianchi. In questo senso Tex anticipa il buonismo nei confronti degli autoctoni, è politicamente corretto in un’epoca tremendamente scorretta e brutale. Doveva chiamarsi Tex Killer, poi Tea Bonelli, moglie di Gianluigi, cambiò idea: non voleva un banale vendicatore, un pistolero senza se e senza ma, bensì un uomo vero, con tutti i dubbi del caso e una personalità più europea. Scelta vincente. Dopo 60 anni gli album di Tex continuano a inondare le edicole. Qual è il segreto di tanta longevità in un mondo (fantastico) che è un tritatutto di miti? È la personalità del protagonista, il suo senso di giustizia così radicato, il suo muoversi in un mondo reale quindi fatto male, la sua morale, il non comparire come un orribile pupazzo che spara come un cretino e palpeggia il sedere delle ballerine. Vince e talvolta perde, è sicuro di quel che fa, non perde di vista i suoi obiettivi di difensore. È l’uomo-eroe che molti vorrebbero essere.

Fino al 5 ottobre

La special guest più apprezzata del Romics 2008 di Antonella Giuli ottava edizione della famosa e seguitissima fiera del Fumetto, il Romics, si è ufficialmente aperto ieri alla Nuova Fiera di Roma. Tra i numerosi eventi speciali dell’edizione 2008, articolati con incontri e mostre che raccontano un secolo di latteratura disegnata, la celebrazione dei trent’anni di Ufo Robot-Goldrake, la serie mito dei cartoni animati giapponesi e il centenario della nascita del fumetto in Italia (il suo esordio fu nel 1908 sulle pagine del Corriere dei Piccoli).

L’

Ma, soprattutto, al Romics di Roma ci sono grandi festeggiamenti per il sessantesimo compleanno di Tex Willer, il personaggio di maggior successo del fumetto italiano, celebrato con i suoi autori e lettori alla presenza di Sergio Bonelli. A lui e al fumetto più amato, i curatori della rassegna consegneranno il «Romics d’oro 2008». L’incontro-evento avverrà il prossimo sabato 4 ottobre a partire dalle 14 e 30, presso la sala H dell’università del Fumetto a Roma. Parteciperanno all’incontro Giovanni Ticci, Fabio Civitelli, Corrado Mastantuono, Ugolino Cossu, Tito Faraci. A Romics partecipano ogni anno le più importanti aziende del settore in Italia. Il festival è caratterizzato da un programma culturale di livello internazionale, con prestigiosi ospiti, mostre, anteprime, eventi speciali, incontri con i responsabili dei più rilevanti festival internazionali. Tra gli ospiti d’onore della scorsa edizione ricordiamo Syd Mead, il maestro degli effetti visuali, che ha lavorato al fianco di Ridley Scott nella creazione dell’universo di Blade Runner, Sergio Staino, il grande autore satirico creatore di Bobo, Regis Loisel, una delle firme più importanti del fumetto francese, Gianfranco Manfredi, creatore di Magico Vento.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Granbassi ad Anno Zero: cosa ne pensate? UNA TEMPESTA IN UN BICCHER D’ACQUA Sinceramente non comprendo tutto questo casino intorno alla Grambassi. Lo sappiamo che questi campioni dello sport rimangono nei ranghi delle forze armate o di polizia per convenienza. Un rapporto d’interesse reciproco, in questo caso, fra l’Arma dei Carabinieri e l’atleta, che è anche una donna affascinante. Soldi da un lato e prestigio dall’altro. Non avrei scomodato l’onore dell’Arma, come ha fatto Francesco Cossiga, in fondo l’esordio in tv da Santoro non è stato dei più felici. Era impacciata e si vede che il mezzo la intimidisce. Secondo me, farebbe bene ad effettuare una onorevole ritirata. Una perdita che potremmo sopportare.

Franco Gigante - Taranto

DOVREBBE DIMETTERSI DALL’ARMA Non vedo niente di male. La Granbassi deve seguire la proposta che le è stata fatta da Santoro. La sua partecipazione ad Anno Zero la deve portare avanti. Credo però, che la sua presenza nella trasmissione televisiva, e la sua contemporanea appartenenza all’Arma dei Carabinieri siano incompatibili. Dovrebbe solo avere il buon gusto di dimettersi dall’Arma e realizzare i suoi obiettivi.

LA DOMANDA DI DOMANI

Non si possono tenere due piedi in una staffa. Il rispetto verso un’istituzione è qualcosa di molto importante, soprattutto, per una sportiva medagliata come la Granbassi. Se no, quale esempio diamo ai nostri figli?

Giovanni Radioso - Pescara

È SOLO PUBBLICITÀ POSITIVA PER LA BENEMERITA Siamo alle solite. Istituzioni vecchie e vetuste reclamamo il loro primato. L’Italia delle mille corporazioni dovrebbe un tantino ammorbidirsi su questi temi. Quale problema esiste se una bella ragazza, sportiva, medagliata olimpionica, partecipa ad una trasmissione televisiva, per di più importante e prestigiosa come quella diretta da Santoro? Perché l’Arma dei Carabinieri non guarda ai lati positivi della situazione? Quanto pubblicità riceve indirettamente da un’affascinante olimpionica come la Granbassi. Perché privarla della sua divisa e negargli questa possibilità? A volte mi viene da pensare. E se tutto questo non è stato fatto ad hoc per far parlare dell’Arma, dei Carabinieri e del suo prestigio? Basterebbe essere un tantino più flessibili e guardare fiduciosi ai propri figli, in questo caso alla Granbassi. In fin dei conti questa ragazza ha più che onorato i Carabinieri. Alla fine non sta partecipando ad una trasmissione brutta e sconcia o sta per presentarsi seminuda come una delle tante ”letterine” presenti in queste squallidi programmi televisivi che impazzano in ogni canale. Cari generali, datevi una calmata!

Francesca Pissone - Treviso

PRIMA I CARABINIERI, POI LA TV

Pensate che il piano Paulson salverà gli Usa dalla bufera finanziaria? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

La Granbassi? Bella, affascinante, ma dovrebbe dimettersi dai Carabinieri. Ci pensate se il maresciallo di una delle tante cittadine della nostra Penisola, comandante di stazione, contattato da Jerry Scotty si mettesse a fare il velino della situazione? Che squallore sarebbe. Quindi, sarà brava, bella e affascinante, ma dovrebbe rispettare coloro che gli hanno dato la possibilità di raggiungere determinati traguardi sportivi. Lascia la divisa e pensa alla Tv.

FEDE E LIBERTÀ Fede e libertà sono due valori fondamentali della vita umana che hanno incontrato negli ultimi anni una nuova caratterizzazione. Sotto la spinta degli eventi geopolitici mondiali, si è visto accentuare la polarizzazione fra un Occidente sostenitore della libertà e un Islam teocratico. Ma in realtà si tratta di una contrapposizione troppo facile e fittizia. Nell’etica sociale e nella coscienza individuale, fede e libertà sono stati occasione di approfondimento e di conflitto soprattutto all’interno alle diverse culture. Ferdinando Adornato, coautore di “Fede e libertà”, libro ragione del dibattito e gli ospiti Younis Tawfik e Khaled Fouad Allam, hanno affrontato insieme l’argomento sabato 20 settembre nella nuovissima e prestigiosa sede del Palazzo Della Provincia nell’ambito dei numerosi eventi della manifestazione “Pordenone legge” che anche quest’anno nelle tre giornate ha visto la partecipazione di circa 100.000 persone. Il pubblico presente in sala ha particolarmente apprezzato co-

PINGUINI REALI Un pinguino reale, che oltre al nome e alla camminata, ha anche il titolo: è colonnello in capo della Guardia Reale Norvegese. Era il 1972 quando un luogotenente di questo corpo militare propose di adottare un pinguino come mascotte.

SIRI, IL CARDINALE RIVALUTATO Che il clima sul cardinale Giuseppe Siri sia cambiato lo dimostra il tono dei giornali, che stanno titolando in modo alquanto trionfalistico. «Ed è subito Siri», si leggeva sul “Il Foglio” di ieri. Cosa sarà mai successo? Come mai una figura guardata con sospetto dentro e fuori i Sacri Palazzi, tutto d’un tratto - in un colpo di penna - è stata improvvisamente rivalutata? Tanto che adesso è partita la campagna per la sua beatificazione al ritmo martellante del “Siri, santo subito”. Le motivazioni vanno cercate nella ricerca giornalistica e in particolare nel grande lavoro compiuto dal decano dei vaticanisti Benny Lai, che per anni ha coltivato un rapporto segreto con il cardinale serbando un patto: quello di non dire una parola fino

dai circoli liberal Giorgio Samperi - Bologna

me nella pacatezza del dibattito siano emerse posizioni forti. Da una parte la necessità di dichiararsi orgogliosamente cristiani, anche se non si è praticanti, per ciò che anche Cristo simbolicamente rappresenta e cioè la fondazione dei diritti irrinunciabili dell’uomo in quanto tale quali la libertà, la vita e il diritto a praticare la propria fede purché nella tolleranza reciproca. Dall’altra una religione islamica che ha difficoltà nel riformarsi, perché essendo nata non nella logica di «dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio», ma come fattore di coagulo di popoli in una unica nazione, non può avere dentro di se fin dall’origine il germe della necessaria separatezza tra sacro e profano. Particolarmente pessimisti in questo senso e cioè verso una costruttiva e collaborazione tra sacro e profano in una società laica e tollerante sia Younis Tawfik che Khaled Fouad Allam. Tutti hanno però convenuto che le religioni in quanto tali sono fondamentali nel costruire fonti di comportamento etico e morale e energia vitali della so-

alla sua morte. E così è stato. Lai ha tenuto il segreto e poi, al momento giusto, ha cominciato a pubblicare libri su libri su questa figura controversa. Si è scoperto molto sui Conclavi e in particolare sul fatto che per ben 4 volte stava per essere eletto Papa. Si è saputo molto del suo carattere. La sua durezza umana è stata più volte messa in discussione. E si è approfondito il ruolo sociale di questo Porporato che aveva un rapporto davvero nuovo con la modernità: si è battuto in prima linea per far costruire uno stadio per il Genoa calcio. Esempi e storie che fanno capire come la ricerca puntuale e documentata abbia ancora la forza di smontare e mettere in discussione quelli che – per semplicismo – sono solo luoghi comuni.

Leonardo Tonni - Varese

cietà e che il problema di fondo è passare da una visione conflittuale a una competizione costruttiva in uno stato laico dove si esaltino i valori condivisi universali dell’uomo e si contengano le spinte dogmatiche se si riversano nell’ambito della convivenza. Da questo punto di vista nell’intervento di chiusura, Adornato ha con chiarezza evidenziato che l’occidente, se da un parte ha generato Hitler e Stalin, dall’altra è stato anche sorgente di idee, riferendosi esplicitamente a Locke, di diritti inviolabili universali come via di uscita prima di tutto dalle esperienze delle guerre di religione cristiane in Europa. Disprezzare o non diffondere queste idee, significa, prima ancora che privare il mondo di una prospettiva di pace e prosperità nella libertà e nella tolleranza, rifiutare il valore e la forza dell’ insegnamento, il più semplice per l’uomo, che non è quello di una complicata elaborazione filosofica o mistica, ma quello della storia. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog L’amore è felicità ma anche sofferenza Stremata dalla stanchezza, ho dormito quasi quattordici ore, svegliandomi solo una volta per pensare a te e piangere ancora. Nelson, tu sei stato così gentile, così tenero, così innamorato e tutto. Dovrei ringraziarti per i fiori, il whisky, la torta al rhum, i cioccolatini, per i tuoi sorrisi, i tuoi baci, le tue parole e i tuoi silenzi, per i giorni e per le notti, per l’amore che mi dai e per quello che ti do, per tutto. Ma non ci sono parole per ringraziare, quello che mi hai dato è troppo. Posso solo dire: ti amo. Era così dolce piangere sulla tua calda spalla mentre giravano i dischi, quando mi hai detto con quella voce che amo tanto: «Anch’io piango dentro». Nelson, amore mio, ora so fino a qual punto sei prezioso per me. Finché mi amerai e mi desidererai, farò di tutto per condividere con te quel che ho da condividere. Aspetto con fiducia e speranza e con una sofferenza che è anche felicità. Simone de Beauvoir a Nelson Algren

IL MONDO TREMA, MA L’ITALIA PENSA ALL’ISOLA DEI FAMOSI In questo periodo nulla di buono si legge nei giornali, nulla di buono si apprende dai Tg. Dalla crisi generale, che da oltre oceano si espande a macchia d’olio, al crollo dei colossi finanziari londinesi, al nostro piccolo paese ammalato, che da mesi gravita intorno al caso Alitalia. La disoccupazione, che pare non essere più solamente un ricordo legato alle manifestazioni dei sessantottini, torna ad incalzare, rientrando tra le tematiche più trattate, nella categoria socio-politica, e tra le preoccupazioni più nere degli italiani, quelle talmente scure, che impediscono di dormire di notte. Figli, mariti, lavoratori anziani e collaboratori a progetto, stagisti e banker qualificati: la crisi riguarda tutti. Nessuno ha il coraggio, ma soprattutto la certezza, di potersi sentire al riparo. Tutti in una stessa barca, con un numero di scialuppe di salvataggio nettamente inferiore a quello dei passeggeri. Tutti alla ricerca di un’isola felice. Eppure una dozzina di italiani in un’isola ci sono finiti davvero: sono i partecipanti alla trasmissione televisiva più seguita dell’autunno, L’Isola dei Famosi della istrionica Si-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

3 ottobre 42 A.C. Prima battaglia di Filippi: I Triumviri Marco Antonio e Ottaviano combattono una battaglia contro gli assassini di Cesare: Bruto e Cassio. Anche se Bruto sconfigge Ottaviano, Antonio sconfigge Cassio 1691 A Limerick, in Irlanda, viene firmato il trattato di Limerick, che pone fine alla guerra tra tra i Giacobiti ed i sostenitori di Guglielmo III d’Orange 1789 George Washington proclama il primo giorno del ringraziamento 1837 Samuel Morse brevetta il suo codice 1932 L’Iraq ottiene l’indipendenza 1942 La Germania testa le prime V2 1973 A Sofia Enrico Berlinguer ha un incidente automobilistico che ad oggi molti ritengono un attentato alla sua persona 1990 Germania: Con la riunificazione tedesca la Germania Est cessa di esistere

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

mona Ventura.Personalmente credo che anche gli eroi della Ventura abbiano deciso di partecipare al reality per salvare oltre alla propria faccia – e questo è tutto da vedere - anche il proprio portafoglio. L’unica cosa che mi domando ogni qual volta mi imbatto nel reality della Ventura, caro direttore, è come si possa chiedere agli italiani di esprimere la propria preferenza con il televoto, un servizio a pagamento, attraverso il quale si decide il destino dei naufraghi: dentro o fuori, nell’isola o a casa. Ma gli autori della trasmissione non pensano che nella vita reale gli italiani rischiano ogni giorno di andare a casa? E soprattutto, tutti gli italiani che seguono assiduamente un programma come questo, in cui, male che vada, chi partecipa ha diritto ad una serie di “ospitate” televisive in tutti i vagoni del lunghissimo treno della macchinista Ventura, non si sentono presi in giro? Ma io non capisco, caro Direttore, come si possa chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie e la bocca e far finta di nulla, lasciandosi trascinare da quattro riflettori e una soubrette, in un’isola di ipocrisia, popolata dafinti naufraghi.

Valentina Frattesi - Milano

PUNTURE Gorbaciov torna in politica. In Italia si attende il ritorno di Berlinguer.

Giancristiano Desiderio

Il vizio del capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù del socialismo è l’eguale condivisione della miseria WINSTON CHURCHILL

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani,Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Roselina Salemi, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di VELTRONI DOVREBBE GUARDARE ALLA SUA SINISTRA La gioiosa macchina da guerra rossa è all’opera: magistrati, sindacati, satira e demonizzazione da parte di politici incoscienti, che non hanno compreso, né accettato il risultato elettorale. Ancora fino a qualche giorno fa a Porta a Porta si è potuto assistere ad uno spettacolo indegno da parte di due “insigni” rappresentanti della sinistra: Di Pietro e Bindi. Il primo scatenato contro Berlusconi, la seconda ha ribadito che gli italiani non «capiscono» e continuano a votare Berlusconi. Ma chi non capisce è la sinistra. Non capisce e non si rassegna e messo da parte il tentativo di dialogo, si è lanciata nella crociata antigovernativa e nel solito antiberlusconismo d’accatto, sulle orme di Tonino. Veltroni al seminario di Frascati ha lanciato il terzo assalto ingiustificato e indecoroso al Governo in una settimana. Ha dimenticato Veltroni che il governo Prodi con 24.000 voti di differenza (e sotto di 250.000 al senato) ha fatto ben di peggio per due anni, imponendo le tre più alte cariche istituzionali all’opposizione, ed esautorando di fatto il parlamento, a botte continue di fiducia e decreti legge? Ma in questo caso Uoltér non paventò nessun pericolo alla democrazia, niente lettere al Corriere, anzi difese le scelte discutibili del governo Prodi che portarono direttamente alla débacle elettorale della sinistra. Memoria corta il buon Walter, ma lingua lunga e tagliente. Questo clima d’odio non risparmia nemmeno i ministri. Brunetta in primis, la vignetta su Emme, il settimanale satirico dell’Unità, rappresenta un’intimida-

zione di stampo terroristicomafioso, che nulla ha a che vedere con la satira, non fa ridere e nemmeno sorridere, ma provoca disagio e brutti presentimenti: «Una pistola puntata, pur se in una vignetta, non è un bel gioco, soprattutto In un paese in cui violenza e terrorismo hanno una drammatica storia». È un’intimidazione di chiara marca comunista. Ci fanno sapere state attenti un “forzista” morto, non è reato? Dobbiamo aspettarci l’eversione sanguinaria degli anni di piombo? La magistratura mette in discussione pesantemente una legge dello Stato approvata dalle camere e firmata dal presidente della Repubblica. Il perché è chiaro a tutti, si vuole provocare la caduta di un governo legittimamente votato dai cittadini, infischiandosene della democrazia, con cui tanto ci si riempie la bocca. Dulcis in fundo la Cgil dopo aver organizzato una resistenza inutile quanto dannosa alla rinascita di Alitalia, non paga, è nuovamente lanciata nel dichiarare guerra a Confindustria, il che può solo complicare la vita alle imprese cui è legata l’unica speranza di rimettere in piedi il Paese. Il tutto nel bel mezzo di una crisi mondiale senza precedenti, che cambierà faccia all’economia mondiale. C Baloccarsi con atteggiamenti molto vicini all’eversione, minare l’economia strumentalmente, armare il braccio “violento”della legge, lasciano intravedere un progetto che assomiglia molto ad un golpe, magari “dolce” (per usare un aggettivo che piace tanto a Di Pietro)ma che mira a privare gli italiani di un Governo democraticamente eletto, dalla maggioranza di essi.

Orpheus

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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