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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Mosca pronta a riconoscere Abkhazia e Ossezia

di e h c a n cro

La cautela non basta L’Italia deve scegliere tra Usa e Russia

di Ferdinando Adornato

di Enrico Singer

COMINCIA LA CORSA VERSO WASHINGTON Mentre si apre a Denver la convention democratica con l’atteso intervento di Michelle Obama, una delle più “irregolari” scrittrici americane racconta tutti gli errori della ex First Lady e lancia un manifesto Obama ha aperto ieri la convention di svolta per il mondo delle donne Michelle

femminismo Vi spiego perché ha perso Hillary

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80826

Il nuovo

di Camille Paglia alle pagine 2, 3, 4 e 5

autela. Da quando è esplosa la crisi del Caucaso, la parolachiave di Franco Frattini è sempre la stessa. Anche ieri, dopo che il Parlamento di Mosca ha posto il suo sigillo al riconoscimento dell’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia - anticipando la nuova sfida che prepara il Cremlino - il nostro ministro degli Esteri ha telefonato al suo collega russo, Sergheij Lavrov, e lo ha inviato alla cautela. E c’è da scommettere che lo stesso leit motiv accompagnerà oggi la relazione di Frattini di fronte alle commissioni Esteri di Camera e Senato convocate in seduta congiunta proprio per discutere la risposta dell’Italia alle ultime mosse di Vladimir Putin. Che, a dire il vero, finora non ha dato alcuna prova di cautela. Né l’8 agosto, quando ha invaso la Georgia, né ieri quando ha fatto dire al suo presidentereggente, Dmitrij Medvedev, che la Russia potrebbe anche rompere le relazioni con la Nato. Di fronte a questa escalation di azioni e di minacce, putroppo, la cautela di Frattini non basta più. L’equidistanza tra Putin e Bush di quello che Liberal giorni fa definì ”il governo Putish”, si è dimostrata una linea perdente. E lunedì prossimo, nel vertice straordinario della Ue, dovremo scegliere con quale Europa stare.

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s eg ue a pa gi na 23

Addio ai Giochi delle contraddizioni

Non si prevede alcuna modifica

I “giochini” estivi della politica

Il nodo della legge Marzano blocca la nuova Alitalia

Federalismo, dialogo per finta

di Alessandro D’Amato

di Susanna Turco

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

di Bruno Cortona

Quasi quattro ore di incontro, e all’uscita bocche cucite e sorrisi di circostanza. In attesa delle mosse del governo. La prima riunione della cordata si è svolta ieri alla Ca’ de’ Sass.

Una volta l’ultimo scampolo di agosto era il momento giusto per ragionare di terzi poli, balene bianche di ritorno, riunificazioni tra moderati dispersi nella successione delle Repubbliche.

Una suora bruciata viva ed un’altra violentata. Entrambe sono vittime dell’odio anti-cristiano che sta infiammando in questi giorni lo Stato orientale dell’Orissa, che si ispira ad Hitler.

È finita. Le immagini di questi Giochi saranno molte. L’incredibile design del Villaggio Olimpico, troppo spesso avvolto dalla foschia. Degna del down town più moderno e occidentalizzato.

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MARTEDÌ 26 AGOSTO 2008 • EURO 1,00 (10,00

Una suora indiana bruciata viva

Record & Sponsor per i protagonisti di Pechino 2008

Riparte l’odio anti-cristiano

CON I QUADERNI)

• ANNO XIII •

NUMERO

161 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 26 agosto 2008

Le primarie Usa riportano in prima pagina il femminismo, confinato dentro libri e siti web. La battaglia dei sessi riparte dalle donne

Andare oltre Hillary Le donne non puntino più sul “noi“ del genere ma sull’“io“ della propria forza individuale di Camille Paglia l femminismo torna a fare notizia. Dopo un lungo periodo, durante il quale il dibattito femminista è stato confinato su libri e siti web (che

che la seguiranno. Se la questione del sesso (inteso come genere sessuale), abbia più o meno ostacolato la campagna di Hillary, è una controversia

anche se ben affrontato non trovava altro pubblico se non quello femminista), la campagna presidenziale in corso ha riportato la lotta tra i generi al centro del ring. C’è stata un’esplosione di pubblicità internazionale e di avversione verso la candidatura di Hillary Clinton. Hillary non è stata, come spesso supposto, la prima donna a correre per la presidenza: c’è una lunga fila di precorritrici dalla volontà di ferro, a cominciare da Vittoria Woodhull nel 1872 e Belva Lockwood nel 1884, fino a Margaret Chase Smith, Patsy Mink, Bella Abzug, Shirley Chisholm, Patricia Schroeder, Leonora Fulani e Elizabeth Dole.

Le prime suffragette americane, che lottavano contro la violenza domestica. A fianco, Clara Luce e, in alto a destra, Amelia Earhart: la prima donna a volare sola

I

Comunque, Hillary (che ha collezionato alle primarie Stati come fossero trofei) ha certamente fatto più strada di qualsiasi altra donna mai candidata prima di lei. Pur non avendo vinto, ha aperto una nuova strada per le donne ambiziose

comunicato stampa su Hillary intitolato “Ignoranza e veleno: il sessismo radicato dei media”, che «la misoginia dei mezzi di comunicazione ha raggiunto il

mente perchè donna.

che continuerà a lungo. È vero che i media hanno trattato più severamente lei rispetto al suo rivale maschio? Ha giocato lei stessa, opportunisticamente, la carta del genere? Non c’è dubbio che Hillary abbia attratto su di sé, per complesse ragioni, stereotipi mitici e arcaici: la strega, la vecchia maligna, la

Pur non avendo vinto, Hillary Clinton ha aperto una nuova strada, piena di Stati e trofei, per le donne ambiziose che la seguiranno

prostituta, la bisbetica, la rompiscatole. L’Organizzazione nazionale per le donne, che è rimasta nell’ombra per oltre dieci anni, ha recentemente sfruttato l’occasione per dire, in un

to di Gloria Steinem, decana del femminismo americano per quasi quarant’anni, che su un articolo incendiario del New York Times difende Hillary dichiarando: «Il genere è forse la forza più restrittiva nella vita americana». Un’altra generalizzazione altamente opinabile. Steinem ha dipinto Hillary come una nobile vittima del sessismo e in effetti ha invitato tutte le donne a votare per lei sola-

suo livello massimo». Una frase che, come insegnante di scienze umanistiche e comunicazione, trovo francamente alquanto ridicola. Già quest’anno c’è stato un più largo interven-

Sui blog e sulle lettere dei lettori di siti news, donne democratiche come me che sostengono Barack Obama sono state chiamate “traditrici” che vogliono scardinare il femminismo. Io mi difendo rispondendo che le donne sono avanzate così velocemente in politica - abbiamo sindaci femmina, senatrici, governatrici e anche presidenti della Camera - che non c’è più bisogno, se mai ce ne sia stato, di marce di solidarietà di genere. Le donne sono creature razionali che possono votare in ogni elezione in base al programma del candidato che preferiscono. In ogni caso, si potrebbe sostenere che Hillary sia una candidata femminista imperfetta, dato che la sua intera vita pubblica è stata legata alla carriera del marito; le sue passate performance, inoltre, con uno sguardo particolare alla riforma sanitaria, sono state incoe-

renti. Gli States sono rimasti indietro in maniera imbarazzante rispetto ad altre nazioni nel non avere mai avuto una donna presidente, ma questo è parzialmente dovuto a particolari esigenze della presidenza in sé. È stato molto più facile per le donne diventare primo ministro, leader di un partito, che vincere un’elezione. Il presidente degli Stati Uniti simboleggia e unifica una vasta nazione e deve anche rivestire il ruolo di Comandante in capo delle forze armate, fatto che mette una speciale pressione addosso alle donne che vogliono ricoprire questo ruolo. L’istruzione, frattudall’identità rata politica, non ha preparato adeguatamente le donne per aspirare alla presidenza, che è il motivo per cui da quasi venti anni richiamo le giovani femministe allo studio della storia militare. La candidatura di Hillary Clinton ha risvegliato e ridato energia al femminismo più di qualsiasi altra cosa, sin dall’enorme controversia su Anita Hill che depose contro la nomina alla Corte Suprema nel 1991 di Clarence Thomas. Quindi è tempo di una nuova valutazione. Dove è stato il femminismo e dove sta andando? E perché è scomparso dopo la sua grande visibilità durante le battaglie culturali degli anni Ottanta e primi Novanta – quando leader femministe venivano abitualmente consultate dai media su ogni questione riguardante le donne? Ironia vuole che è stato durante le due presidenze Clinton che le femministe hanno cominciato a perdere il loro ruolo chiave nella pubblica arena. Durante gli anni Novanta, le notizie sottolineavano regolarmente come poche giovani donne avessero il desiderio di identificarsi come femministe. Due innovazioni tecnologiche - la televisione via cavo e Internet – hanno messo un fre-


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A fianco Dorothy Thompson, una delle prime pioniere della libertà sessuale. In basso Dorothy Parker: oltre alla lotta femminista fu tra le più argute e caustiche commentatrici dei fenomeni di costume americano dell’epoca del XX secolo vesimo secolo, ispirato da un movimento abolizionista della schiavitù, così come il risorgere del femminismo negli anni Sessanta fu stimolato dal movimento per i diritti civili, che prendeva di mira la segregazione razziale e la negazione del diritto di voto agli afroamericani nel sud più repressivo. Pertanto il femminismo fu connesso all’espansione della libertà ai gruppi oppressi. E fu sempre legato alla democrazia: non è una coincidenza che il femminismo sia nato in America e che sia diventato un primo modello per il femminismo inglese.

In generale, la teoria femminista ha mancato di riconoscere quanto debba alla tradizione occidentale delle libertà civili concesse nell’antica Grecia, non solo nell’imperfetta democrazia dell’antica Atene (con la sua economia basata sulla schiavitù e la sua severa circoscrizione della vita delle don-

Dopo l’11 settembre, le problematiche legate al genere sessuale sono state accantonate. È rinato l’interesse per la mascolinità

no al controllo sul discorso del genere nei media che per vent’anni avevano avuto le leader femministe americane. All’improvviso sono emersi punti di vista alternativi. Negli anni Novanta entrò in scena del tutto inaspettatamente un nuovo gruppo di conservatrici molto schiette – Laura Ingraham, Barbara Olsen, Monica Crowley, Ann Coulter, Michelle Malkin che annebbiò le convenzionali aspettative sulla capacità di auto-affermazione delle donne.

Queste donne, che avevano frequentato università d’elite e in alcuni casi avevano lavorato nell’amministrazione repubblicana di Richard Nixon e Ronald Reagan, erano aggressive, eloquenti, divertenti e sorprendentemente più sexy e glamour delle loro austere avversarie femministe. Il vecchio stereotipo della donna conservatrice trasandata, repressa, taciturna e rispettosa alla Pat Nixon era stato annientato. Le femministe

vecchio stile, che si sono mostrate prive di senso dell’umorismo e dogmatiche, stavano perdendo le battaglie televisive contro una nuova razza di donne decise e impegnate. Barbara Olson, che è morta nell’attacco al Pentagono dell’11 settembre del 2001, era co-fondatrice dell’Indipendent Women’s Forum, un’Associazione di donne libertarie e conservatrici che fu fondato all’inizio come risposta alla tendenza liberale dei media nel riportare notizie durante il caso di Anita Hill, in cui le donne giornaliste del nordest furono coinvolte in maniera forse inappropriata.

Dopo l’11 settembre e l’invasione dell’Iraq, le problematiche legate al genere sessuale sono state ancora più accantonate per l’incombere di problemi di vita e morte e dello scontro di civiltà in un epoca di terrorismo. C’è stata una rinascita dell’interesse popolare verso i distintivi, la storia militare e la

mascolinità tradizionale, palese anche nei giocattoli dei bambini. Il commento femminista sulla situazione – che era prevedibilmente etichettato “reazionario” - è sembrato fuori dal tempo. Probabilmente, quando è in gioco la sopravvivenza, dovremmo unirci come esseri umani più che discutere sulle questioni sessuali. Il lascito dell’11 settembre ha certamente presentato un problema per le aspirazioni politiche di Hillary Clinton.

La necessità per una donna candidata di apparire forte e di mostrare padronanza sulle questioni militari ha certamente portato Hillary a votare per la fatale risoluzione sulla guerra che autorizzò il presidente Bush ad usare la forza militare in Iraq – una decisione che le si è rivoltata contro e che l’ha resa un costante obiettivo dell’audace ed ingegnoso gruppo di militanti donne. Cos’è per l’esattezza il femminismo? È una teoria,

un’ideologia o una pratica (che è un programma d’azione)? È forse così occidentale che da non poter essere esportato in altre culture senza distorcerle? Quando troviamo il femminismo negli scrittori medioevali o rinascimentali, stiamo esportando indietro le idee moderne? Chi è, o non è, una persona femminista? Chi la definisce? Chi le conferisce autorità e legittimità? Una persona femminista deve forse essere membro di un gruppo o conformarsi a un’ideologia dominante e ai suoi sottoinsiemi? Chi dichiara, e a che titolo, cosa è permesso o non permesso pensare o dire sulle questioni di genere? E il femminismo è, nella sua anima più intrinseca, un movimento di sinistra, o può esserci un femminismo basato su principi religiosi e conservatori?

Mentre ci sono testi sparsi, sia in prosa che in poesia, che protestano contro la mancanza di diritti delle donne e il loro stato sociale - da Christine de Pisan ad Anne Bradstreet e Mary Wollstonecraft - il femminismo come movimento organizzato cominciò a metà del dicianno-

ne), ma già da molto prima: nella prima apparizione della voce individuale nella poesia arcaica, una dei più raffinati praticanti fu la prima scrittrice donna del mondo, Saffo di Lesbo. Inoltre, ha mancato di riconoscere quanto l’emergere del femminismo moderno debba al capitalismo e alla rivoluzione industriale, che ha trasformato l’economia, allargato le professioni e dato alle donne per la prima volta nella storia la possibilità di mantenersi da sole e smettere di dipendere dai padri e dai mariti. L’emancipazione capitalista delle donne è chiara in quei magici apparecchi risparmia-lavoro quali le lavatrici e le asciugatrici, che la maggior parte della classe media dà ora per scontate. La storia femminista non ha poi sufficientemente riconosciuto fino a che punto le fondatrici del movimento per il suffragio universale - la strada per guadagnare i voti delle donne – erano formate e influenzate dalle religione. Segue. La seconda parte del saggio di Camille Paglia sarà pubblicata domani


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Sul palco della convention democratica si gioca una partita inedita: quella tra due modelli femminili opposti

La guerra delle First Lady di Roselina Salemi

na è stata first lady, l’altra lo diventerà (forse). Non si piacciono, e si vede. Non si somigliano, tranne che nella laurea (Legge), nell’ambizione e nel fatto che alcuni le considerano più in gamba dei loro mariti. Ma Barack Obama ha bisogno di tutte e due.

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Hillary Clinton, 61 anni in ottobre, avvocato spietato, ha sempre avuto problemi di look, ha spesso sbagliato tailleur, pettinatura (ricordate il cerchietto adolescenziale?) e colori. La giacca gialla della battaglia per la nomination è ancora lì a ricordarle la sconfitta. Invece Michelle Obama, 44 anni, le azzecca tutte. A fine giugno, è andata in tivù a

dollari l’anno, si concede la frivolezza di Sex and the City. È la donna postmoderna, una multitask di nuovo tipo. Hillary, poverina, è già un po’ passata di moda, e non perché Vogue gliel’ha giurata, ma perché è arrivista in maniera troppo evidente, dura, maschile (Camille Paglia l’ha definita, con poca sorellanza, “un barracuda”), un format da ritoccare, se esistesse la chirurgia sociale. Ha avuto il picco di simpatie soltanto quando ha pianto in New Hampshire, dimostrando di essere umana. Le manca il calore, è chiaro che non cucina, la figlia Chelsea è già grande, il suo matrimonio con Bill sa tanto di alleanza e basta, mentre Barack e Michelle forse non hanno recitato per l’af-

Look , storie personali e caratteri contrastanti: Hillary è diventata famosa per la sua pazienza, Michelle per la sua grinta The View con un vestituccio low cost da 148 dollari (95 euro), bianco e nero, di Donna Ricco, una ex signora nessuno. Madri e figlie d’America si sono riversate da White House Black Market per comprarlo. E un mese dopo, Vanity Fair l’ha messa tra le dieci donne più eleganti del mondo (c’è anche Carla Bruni).

La paragonano a Jackie Kennedy, per lo stile chic ma grintoso, gli abiti senza maniche, gli atteggiamenti, il carisma, ma Michelle è altro, è l’incarnazione del Tutto: la mamma-moglie-avvocato-consigliere-personal trainer. E scommettiamo che sa anche cucinare. Una dea Kalì buona. Fa la spesa da Target, un discount retailer come Wal-Mart, pensa per prima cosa “al benessere delle figlie” Malia, dieci anni, e Sasha, sette, (durante la campagna elettorale nell’Iowa, ha voluto un albero di Natale in ogni stanza d’albergo destinata a loro), è l’orologio esistenziale del marito, gli ricorda i tempi, i doveri, le necessità, (ma lo rimprovera: russa!, lascia i calzini in giro!, non mette il burro in frigorifero!) e, pur vantando un curriculum da donna in carriera, laurea ad Harvard e a Princeton, stipendio da 270mila

fettuosa cover di US.Weekly.

Però Hillary ha la pazienza. Ha resistito agli intrighi della Casa Bianca, al tentato Hillarygate (favori ad amici e finanziatori),

al Monicagate (nessuna ne sarebbe uscita viva) all’impatto della biografia, cattiva, di Carl Bernstein, alla progressiva riduzione delle ambizioni (candidata alla presidenza prima, poi alla

vicepresidenza e chissà se avrà un incarico, in caso di vittoria). Per la Convention di Denver, Michelle ha dato una prudente intervista a People. Hillary invece, sostiene il Daily News, si è

fatta ritoccare: niente rughe davanti alle telecamere (non è un paese per vecchi). Dovrebbe scrivere un manuale di sopravvivenza. Michelle lo leggerebbe di sicuro.

Retroscena. Le manovre sotterranee che agitano la kermesse di Denver

È Bill, non la moglie, il vero ostacolo per Obama di Andrea Mancia n fantasma - anzi, due - si aggirano per i corridoi del Pepsi Center di Denver, dove ieri pomeriggio (nella notte, per noi italiani) Howard Dean ha aperto i lavori della convention democratica. I due fantasmi, niente affatto incorporei, rispondono al nome di Hillary Rodham Clinton e William Jefferson Clinton, per gli amici Bill. La scelta di Joe Biden come candidato alla vicepresidenza, con la conseguente esclusione dell’ex First Lady, sembra infatti aver riportato il partito dell’asinello ai difficilissimi giorni in cui Hillary e Obama combattevano, sul filo dei delegati, per assicurarsi la nomination. Giorni in cui i due avversari non si risparmiavano accuse pesantissime e colpi al di sotto della cintura, pur di prevalere nel complicato wargame delle primarie. Oggi quei giorni, con la conquista da parte

U

di Obama della maggioranza dei delegati e la concession da parte di Hillary, dovrebbero - in teoria - essere un lontano ricordo del passato. Con il partito chiamato a dare una prova di “unità” per battere il candidato repubblicano, John McCain, considerato (almeno pubblicamente) come una sorta di continuatore del doppio mandato di George W. Bush, forse addirittura più guerrafondaio del suo collega - si fa per dire - di partito.

La realtà, invece, è tutta un’altra storia. Ieri il sito Internet della Cnn pubblicava, a caratteri cubitali, la notizia secondo cui Hillary avrebbe deposto le armi,“cedendo” i propri delegati (1896, di cui 1640 ottenuti con le primarie) a Obama, che ne ha 2201, di cui “solo”1763 se si escludono i cosiddetti “superdelegati”. Qualche ora più tardi, però, al titolo della Cnn è stato aggiunto

l’avverbio «probabilmente» e la notizia è scivolata nelle parti basse della home page. Si tratta di una correzione indicativa delle manovre in corso, ancora in queste ore, nel Democratic National Committee. Obama sta disperatamente cercando di impedire al clan Clinton di far emergere alla luce del sole (e proprio durante il prime-time televisivo) uno scontro rimasto per ora sotterraneo. I democratici ricordano benissimo la brokered convention del 1968, come ricordano la clamorosa vittoria di Richard Nixon nelle elezioni di quel novembre. E sanno che soltanto con una dimostrazione di unità d’intenti possono restare i favoriti per la corsa alla Casa Bianca. Come gesto di “buona volontà”, Obama ha costretto il Dnc a cambiare ancora una volta idea sui delegati degli stati “ribelli” di Florida e Michigan, accogliendo la vecchia richiesta di Hillary di garantire loro la pie-


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Come i muslim vedono Barack

La religione di Obama è un’arma a doppio taglio di Daniel Pipes osa pensano i musulmani di Barack Hussein Obama? Hanno tre opzioni a seconda di come egli si presenta: qualcuno che “non è mai stato musulmano” e che è “sempre stato cristiano”; come un musulmano; come un apostata dell’Islam. Le notizie dei media mostrano che se gli americani ritengono, in genere, che il candidato democratico non professava alcuna religione prima della conversione avvenuta all’età di 27 anni, ad opera del reverendo Jeremiah Wright, i musulmani di tutto il mondo, invece, raramente lo considerano cristiano, ma generalmente ritengono che sia o musulmano o un ex-musulmano. Lee Smith dello Hudson Institute ne spiega il motivo: «Il padre di Barack Obama era musulmano e pertanto, in base alla legge islamica, lo è anche il candidato. Malgrado i versetti coranici spieghino che non si è affatto obbligati a professare la religione, un bambino o una bambina musulmani assumono la religione del proprio padre.

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Nella pagina a fianco, Hillary Clinton; qui sopra destra, Michelle Obama. In basso, l’ex-presidente Bill Clinton. L’andamento della convention democratica e la capacità persuasiva del nuovo candidato alle presidenziali di novembre dipenderanno molto dai rapporti di forza che si creeranno tra di loro.

na partecipazione ai lavori della convention. Fosse accaduto prima di aprile, probabilmente la lotta per la nomination democratica sarebbe ancora aperta. Adesso, invece, questa decisione rischia di far crescere ancora di più la rabbia dei clintoniani.

Anche perché, assicurano i bene informati, il più scatenato del clan sarebbe proprio Bill, ancora furioso per le accuse di razzismo che gli obamiani gli hanno fatto piovere addosso durante le fasi cruciali delle primarie. E mentre Hillary, magari in cambio di un posto di prestigio nell’amministrazione, sarebbe disposta a seppellire l’ascia di guerra, Bill non sembra intenzionato a fare altrettanto. Il problema, per Obama, non è di poco conto. Visto anche che i fedelissimi dei Clinton continuano a diffidare della sua candidatura. Secondo l’ultimo sondaggio di Nbc News e Wall Street Journal, soltanto il 52 per cento degli elettori di Hillary nelle primarie ha deciso di appoggiare Barack. E l’altra metà è divisa perfettamente in due, tra chi vuole votare McCain e chi è ancora indeciso. Tutti gli sforzi di questa convention saranno dedicati proprio a loro.

I musulmani di tutto il mondo, e ad ogni modo i musulmani che non sono americani, non possono far altro che considerare Barack Hussein Obama un musulmano». Inoltre, dagli archivi scolastici indonesiani egli risulta essere un musulmano. Così, un quotidiano egiziano fa riferimento alle sue “origini musulmane”. Il presidente libico Mu’ammar al-Qaddafi definisce Obama “un musulmano” e una persona con “un’identità africana e islamica”. Un’analisi di Al-Jazeera ne parla come “un non-cristiano”, e una seconda allude al padre “keniota musulmano” e una terza, a firma di Naseem Jamali, osserva che «Obama potrebbe non voler essere considerato musulmano, ma i musulmani fanno di tutto per considerarlo come uno di loro». Una conversazione avvenuta a Beirut, riportata da Christian Science Monitor, cattura le perplessità. Secondo un droghiere «per gli arabi è una brava persona perché è musulmano», mentre un cliente replica: «Non è un musulmano, è cristiano». Le discussioni in arabo su Obama talvolta fanno riferimento al suo secondo nome come se fosse un’etichetta, che non necessita di ulteriori commenti. Come riportato da Tamara Cofman Wittes del Brookings Institution, che ha

partecipato in Qatar al 5o Annual U.S.-Islamic World Forum: «Il simbolismo di uno dei candidati chiave alle presidenziali americane che ha come secondo nome Hussein, che ha frequentato le elementari in Indonesia, trasmette indubbiamente qualcosa ai musulmani che non vivono negli Stati Uniti».Thomas L. Friedman del New York Times ha rilevato che gli egiziani «non comprendono di fatto l’albero genealogico di Obama, ma si rendono conto che se l’America – malgrado sia stata attaccata l’11 settembre da militanti musulmani – eleggesse come suo presidente un certo ragazzo che fa di secondo nome Hussein imprimerebbe una svolta radicale nei rapporti tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo». Alcuni leader dei musulmani d’America considerano altresì Obama musulmano.

Sayyid M. Syeed, presidente dell’Islamic Society of North America, nel corso di un congresso tenutosi a Houston ha detto che, a prescindere dalla vittoria o dalla sconfitta di Obama, la sua candidatura ravviverà la speranza che i bambini musulmani possano “diventare presidenti di questo paese”. Louis Farrakhan, leader della Nation of Islam, ha definito Obama “la speranza del mondo intero” e lo ha paragonato a Fard Muhammad, il fondatore della sua religione. Ma questo fervore ha altresì un lato oscuro: i sospetti che Obama abbia tradito la religione di nascita e che sia un apostata (murtadd) dell’Islam. Al-Qaeda ha dato enorme risalto alla dichiarazione di Obama: «Non sono un musulmano». Shireen K. Burki della University of Mary Washington ritiene che Obama sia “il candidato ideale di bin Laden”. Se egli dovesse diventare comandante in capo degli Stati Uniti, la Burki ritiene che Al-Qaeda probabilmente «sfrutterebbe il suo background per sostenere che un apostata è a capo della guerra al terrorismo per incitare i simpatizzanti all’azione». I musulmani della principale corrente tendono a camminare in punta di piedi intorno a questo argomento.Yasser Kkalil, un egiziano sostenitore di Obama, osserva che sono innumerevoli i musulmani che reagiscono“con perplessità e curiosità”quando Obama viene descritto come un apostata musulmano; Josie Delap e Robert Lane Greene dell’Economist asseriscono perfino che la teoria di Obama apostata è “per lo più assente” tra i columnist e gli editorialisti di lingua araba. Quest’ultima affermazione è inesatta, poiché l’argomento è stato invece oggetto di discussione. Almeno un quotidiano di lingua araba ha pubblicato l’articolo della Burki. Il kuwaitiano Al-Watan definisce Obama “un musulmano di nascita, un apostata e un convertito al cristianesimo”.Tra le pagine di Arab Times, il progressista siriano Nidal Na‘isa ha più volte chiamato Obama “un apostata dell’Islam”. In breve, i musulmani si scervellano sull’attuale condizione religiosa di Obama. Essi si oppongono alla sua auto-identificazione come cristiano, mentre presumono che sia nato da padre musulmano e che sia stato chiamato Hussein, iniziando la sua vita da musulmano. Se Obama dovesse diventare presidente, le divergenze esistenti nelle opinioni musulmane e americane in merito alle affiliazioni religiose creeranno dei problemi.

Se il candidato democratico dovesse diventare presidente degli Stati Uniti, le divergenze esistenti nelle opinioni musulmane e americane in merito alle sue affiliazioni religiose creeranno problemi


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economia Alla riunione di ieri c’erano Roberto Colaninno, in pole position per la presidenza della compagnia, Gianluigi Aponte, Marco Fossati, Fausto Marchionni del gruppo Ligresti, Salvatore Mancuso del fondo Equinox ed ex presidente del Banco di Sicilia, con il private equity Clessidra di Claudio Sposito e Carlo Toto

Per il Consiglio dei ministri di giovedì non si prevede alcuna modifica alla norma

Il nodo della legge Marzano blocca la nuova Alitalia di Alessandro D’Amato

ROMA. Quasi quattro ore di incontro, e all’uscita bocche cucite e sorrisi di circostanza. In attesa delle mosse del governo. La prima riunione formale degli imprenditori della cordata per Alitalia si è svolta ieri alla Ca’de’Sass, dove è stato l’Ad in pectore, Rocco Sabelli, insieme al “padrone di casa” Corrado Passera a illustrare i particolari del Piano Fenice messo a punto dall’advisor Intesa-San Paolo. Qualche novità nell’appello: presenti Roberto Colaninno, in pole position per la presidenza della compagnia (“sgattaiolato” da un’entrata secondaria, prima di essere avvistato con Sabelli al Caffè Trussardi), l’armatore Gianluigi Aponte, Marco Fossati, della famiglia brianzola che ha creato la Star e ora azionista di Telecom, Fausto Marchionni del gruppo Ligresti, Salvatore Mancuso del fondo Equinox ed ex presidente del Banco di Sicilia, con il private equity Clessidra di Claudio Sposito, e anche Carlo Toto, che però ancora non ha deciso se vendere Air One e uscire dal settore oppure entrare nel capitale della Nuova Alitalia.

È arrivato anche Giovanni Castellucci, Ad di Atlantia ed Autostrade, a sorpresa non tanto perché non si sapesse dell’intenzione dei Benetton di parte-

cipare alla cordata, ma perché potrebbero aver deciso di entrare nell’affare non con le società familiari, ma attraverso l’azienda quotata in Borsa. E questo potrebbe portare ripercussioni sia sul titolo che per l’Antitrust. Presente anche Bruno Ermolli, presidente della Promos e già consulente per conto di Silvio Berlusconi. All’aumento di capitale dovrebbero partecipare anche Nomura e Morgan Stanley.

che pasta è fatta la proposta, e aspetto di sapere le cifre sugli esuberi». Mentre sul fronte della maggioranza il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, dice che le sue competenze entreranno in gioco solo quando arriverà il piano industriale, e Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia, va oltre, professando ottimismo e auspicando l’arrivo di un partner internazionale per rilanciare Malpensa.

Il pacchetto messo a punto da Intesa prevede un’offerta per la parte sana di Alitalia e per Air One (valutata intorno ai 300 milioni), e un piano che va

Ma i nodi da sciogliere, per la cordata, sembrano essere, a tutt’oggi, ancora molti. Soprattutto sul fronte istituzionale. Gli sherpa erano stati espliciti:

Gli esuberi preoccupano i sindacati, ma Raffaele Bonanni ha dichiarato: «Non condivido tutto questo pessimismo, senza sapere di che pasta è fatta la proposta, e aspetto di sapere le cifre» dai 5000 ai 7000 esuberi, molti più rispetto a quelli previsti da Air France. Numeri non ancora definitivi, perché comunque gli imprenditori aspettano prima di tutto le mosse del governo. Ma c’è da registrare già ora l’apertura di Raffaele Bonanni che pur dicendosi “ansioso” di conoscere i dettagli, aggiunge «non condivido tutto questo pessimismo senza sapere di

prima di investire, è necessario che il quadro normativo sia chiaro. Ovvero che si metta mano alle modifiche necessarie per la legge Marzano. L’esigenza nasce dal fatto che i nuovi soci che dovrebbero entrare in Alitalia devono poter esser messi al riparo dai debiti accumulati dalla compagnia, per poter ricominciare da zero. Ma questo è possibile soltanto se si

inserisce un nuovo comma il quale preveda che l’acquirente si faccia carico anche dei bond e dei debiti, liberando il cedente anche senza il consenso dei creditori, che oggi la Marzano stabilisce necessario.

E invece, dopo il rinvio di fine luglio, anche il Consiglio dei ministri in programma giovedì prossimo non sembra avere, per ora, all’ordine del giorno la modifica. Secondo l’Adn Kronos la partita non è ancora chiara dal punto di vista normativo, e i tecnici dell’esecutivo avrebbero chiesto quindi altro tempo per definire meglio i termini della questione, anche per non rischiare di incorrere in un comunque probabile richiamo del commissario alla concorrenza dell’Unione Europea. In sostanza, dicono al ministero dello Sviluppo Economico, sarà deciso sono in extremis se inserire la modifica. Ma ci sono buone possibilità che il Cdm, in assenza di tutti gli elementi giuridici necessari, possa semplicemente limitarsi ad una prima ricognizione sul tema. Per poi tornare a riunirsi non appena il quadro si sarà chiarito. E sul tema della Marzano è intervenuto ieri anche Mario Resca, uno dei massimi esperti di salvataggi d’impresa e artefi-

ce, tra l’altro, della ristrutturazione di Cirio, che era stato indicato in passato tra i papabili a prendere un ruolo direttivo nella Nuova Alitalia: «Mi limito a ricordare che la Marzano subentra dopo una dichiarazione insolvenza: gli azionisti, incluso ovviamente il Tesoro, perdono capitale e i creditori portano a casa ben poco», ha detto Resca. Piuttosto, ha ricordato, «l’alleanza internazionale è una priorità assoluta, perché va creata massa critica». Ma proprio su questo punto la situazione è ancora in alto mare.

A lc u ni giornali davano Lufthansa ormai in pole position, ma in realtà tutto dipende da quello che accadrà ad Austrian Airlines: proprio ieri i tedeschi hanno invece presentato una manifestazione d’interesse per la linea austriaca in via di privatizzazione. Si profila quindi per il vettore una battaglia con Air France, che aveva dato il mandato di advisoring nei giorni scorsi alla Lazard (anche se da Parigi alcuni si mostrano dubbiosi sulla mossa). E a questo punto, è facile immaginare che sarà la compagnia che finirà sconfitta ad essere in pole position per Alitalia. Che si conferma comunque, rispetto ad affari più appetibili, una irredimibile seconda scelta.


politica

26 agosto 2008 • pagina 7

La Lega tende la mano al Pd, ma l’obiettivo è portare a casa la riforma prima delle elezioni, sganciandola dal capitolo giustizia

Federalismo, dialogo per finta d i a r i o

di Susanna Turco

d e l

g i o r n o

Di Pietro: «Pm eletti, un’americanata»

I sostenitori della Lega sventolano le loro bandiere alla Festa del Partito democratico di Firenze, dove era ospite, Umberto Bossi tra le proteste dei militanti di centrosinistra

«L’idea lanciata dal capogruppo della Lega alla Camera Roberto Cota di far eleggere i pm direttamente dai cittadini è semplicemente un’americanata...». Il leader dell’Italia dei valori, Antonio Di Pietro, commenta così la proposta del Carroccio di far eleggere i pm dai cittadini come avviene negli Stati Uniti. «Questa soluzione infatti - aggiunge - può andar bene per gli Usa, ma non per un Paese come l’Italia che ha 2000 anni di storia giuridica alle spalle. Mi sembra proprio un’idea che non ha né capo né coda».

Calderoli: «Europee, sbarramento al 5%» «Spero di parlarne con Berlusconi in settimana». Il ministro Roberto Calderoli, fa il punto sulla legge per le Europee. Secondo l’esponente leghista il premier ha in mente «uno sbarramento del 5 per cento. Per lui sarebbe meglio. Porterebbe ad avere 4 partiti nel Parlamento europeo. Mentre io preferirei la soglia al 4 per cento. I partiti rappresentati salirebbero a 5. Rispetto agli 11 attuali, ne resterebbero comunque meno della metà» e il vantaggio sarebbero quello di «avere sostanzialmente lo stesso sbarramento in Europa e alle Politiche. Un sistema più omogeneo».

Dal Pdl un paracadute per la Santanchè ROMA. Una volta l’ultimo scampolo di agosto era il momento giusto per ragionare di terzi poli, balene bianche di ritorno, riunificazioni tra moderati dispersi nella successione delle Repubbliche. Stavolta, complice la distribuzione delle forze in Parlamento e probabilmente anche l’assenza dalle scene di un agitatore di centrismi con la storia di Clemente Mastella, nella politica italiana che si appresta a rientrare nei Palazzi domina il mezzo dialogo aperto con «gli altri» al principale scopo di mettere sul chi vive i propri alleati, i parenti più prossimi. Vale per i trasversalismi leghisti, come per i dibattiti su eventuali allargamenti del Pdl.

Non che il giochino estivo - in maniera non dissimile a ciò che accadeva con le elucubrazioni su ipotetiche Dc del Terzo millennio - abbia grandi possibilità di approdare a qualcosa di concreto nel breve periodo. Però intanto lo si manda avanti, tra una festa, un dibattito e una piadina di periferia. Si prenda per esempio l’ampiamente pubblicizzata serata alla Fortezza da Basso, nella quale non solo l’annunciato Umberto Bossi, ma pure Roberto Calderoli e Giulio Tremonti hanno fatto la loro incursione tra gli «oohh» nel pieno della festa del Partito democratico. A parte i fischi e le freddezze che comunque già dicono molto sul bottino della serata, è nell’interpretazione che, ex post, ne danno il ministro alla Semplificazione e il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto che si arguisce come, più che aprire una nuova stagione di dialogo, quella sera di fine estate incarni più semplicemente la fuga in avanti di una Lega desiderosa di far presto. Federalismo, über alles.

non si va da nessuna parte, neanche sul terreno del federalismo fiscale», aveva sentenziato l’azzurro. Così, curiosamente, da un lato il ministro della Semplificazione assicura dialogo anche con l’opposizione, si dice «a disposizione per qualunque richiesta di confronto, con qualunque gruppo parlamentare, con qualunque forza politica o con qualunque soggetto istituzionale» e rinnova l’appello: «Scontriamoci sulla politica del Governo, ma partecipiamo tutti insieme alla realizzazione delle riforme necessarie per il Paese». Dall’altro, Cicchitto invita la Lega a fare quadrato: «Sul federalismo è bene che il ministro Calderoli e il ministro Fitto proseguano nel loro positivo lavoro, definiscano soluzioni insieme avanzate ed equilibrate nelle quali si riconosca tutto il centrodestra». Solo dopo, forse, sarà possibile «trovare un’intesa con l’area federalista e regionalista del centrosinistra che c’è, ma è del tutto minoritaria».

Interpretazioni opposte che vanno lette avendo in mano l’agenda dei prossimi mesi. L’obiettivo della Lega, infatti, è di portare a casa il federalismo, con l’assenso più ampio possibile, certo, ma soprattutto entro l’anno. In questo modo, la riforma potrà essere sbandierata dal Carroccio in occasione di amministrative che in casa Pdl al momento non si prevedono - stanti le difficoltà di fusione tra Forza Italia e An - come l’occasione per un risultato particolarmente scintillante. Nel quartier generale del Cavaliere, invece, soprattutto per mano di Gianni Letta e Raffaele Fitto (che infatti domenica non s’è visto alla Fortezza da Basso) si punta a rallentare i tempi e far in modo che federalismo e giustizia procedano a braccetto. In modo che nulla di ciò che interessa i principali attori del Popolo delle Libertà resti indietro. «Le riforme vanno fatte - sostiene non a caso il vice di Cicchitto Osvaldo Napoli - facendo procedere sullo stesso binario il federalismo fiscale e la riforma della giustizia, unitamente a una conferma dell’alleanza e della scelta dei candidati alle future elezioni amministrative del 2009». La partita insomma ha da essere unica: e in quest’ottica, il dialogo con l’opposizione sul federalismo diventa un elemento, perfino controverso, di un puzzle ancora da comporre.

Mentre il leghista Calderoli loda gli applausi del Pd a Bossi, il forzista Cicchito chiude le porte all’opposizione

«È stata una tappa importante quella di domenica, alla festa del Partito Democratico, dove sono arrivati ben più applausi e consensi, rispetto alla nostra proposta di federalismo, in confronto ai brevissimi fischi poi tanto mediaticamente reclamizzati», sbotta Calderoli a metà pomeriggio, assicurando pacatamente che il dialogo prosegue. Peccato che poche ore prima il capogruppo Pdl Cicchitto abbia, da parte sua, messo una lapide sul dialogo con l’opposizione. «Anche dal dibattito di Firenze emerge che con Bersani e i suoi amici

Candidare Daniela Santanchè nelle liste del Popolo della libertà alle prossime elezioni europee del 2009. Ecco la mossa segreta di Silvio Berlusconi per far rientrare nel centrodestra l’ex candidata premier della Destra alle Politiche stando a quanto avrebbe confidato al quotidiano online Affaritaliani.it uno degli uomini più vicini al Cavaliere. La missione però non è semplice. Una parte di Forza Italia - ad esempio Fabrizio Cicchitto - non è del tutto convinto. Mentre da quasi tutta Alleanza nazionale è arrivata una vera e propria levata di scudi. Il capogruppo del Pdl a Palazzo Madama Maurizio Gasparri ha parlato di ”veto”. Senza dimenticare il no del reggente di via della Scrofa Ignazio La Russa. A novembre c’e’ il congresso della Destra in cui la Santanchè tenterà di strappare la fetta più grande possibile a Francesco Storace.

Bagnasco: «Il federalismo? È un bene» Se il federalismo ”aiuta la giustizia dello Stato è un bene”. Lo sottolinea il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, intervistato dalla Radio Vaticana al secondo giorno del Meeting di Rimini. «Perchè‚ un popolo sia tale e quindi ogni persona si possa sentire parte di un popolo, con il desiderio anche di sacrificarsi per questo popolo, per questa comunità – perché la sente come la sua casa, la sua famiglia - sottolinea il presidente dei vescovi - è necessario avere un senso di appartenenza, di unità, senza il quale non vi è possibilità di creare storia. Se ognuno va per se stesso, per la propria strada, evidentemente non trova la ragione per spendersi per la cosa comune, per la cosa pubblica». Per il porporato, «se il federalismo viene ad essere un modo per servire meglio dentro a questa unità di popolo che è il nostro Paese, ma come per qualunque altro Paese, certamente è una cosa buona. È a completamento e a traduzione di quello che è il compito dello Stato, che è la giustizia», conclude Bagnasco.

Scommesse, Milano batte Roma Con 3,5 miliardi nel 2007puntati lo scorso anno in Lotto e Superenalotto, Bingo, Lotterie tradizionali e istantanee, New Slot, giochi a base sportiva ed ippica Milano supera Roma, prima nel Lotto e nel ”Gratta e vinci” con 3,4 miliardi, e terzo posto per Napoli che ha sfiorato i 2,4 miliardi.. Nella classifica delle puntate pro capite Como è la numero uno. È questo l’andamento nel 2007 in Italia del mercato delle scommesse che vede nella classifica generale prevalere il Nord, seguito dal Centro e dal Sud.


mondo

pagina 8 • 26 agosto 2008

Nello Stato orientale dell’Orissa una nuova ondata di attacchi colpisce la piccola comunità religiosa

India: riparte il massacro dei cristiani di Vincenzo Faccioli Pintozzi opo la strage di Natale, il fondamentalismo indù dell’Orissa (India orientale) continua a mietere vittime. Ieri, una volontaria cattolica è stata bruciata viva da un gruppo composto da nazionalisti indiani, che hanno assalito l’orfanotrofio del distretto di Bargarh di cui era responsabile. Una religiosa, del Centro sociale di Bubaneshwar (la capitale dello Stato), è stata poi violentata da un altro gruppo di estremisti indù, che hanno in un secondo momento dato fuoco a tutto l’edificio. Tuttavia, la lista delle violenze anticattoliche è molto più lunga: secondo fonti locali, un sacerdote è stato ferito e altri due sono stati rapiti. La furia dei nazionalisti nasce dall’uccisione di un leader radicale indù, Swami Laxanananda Saraswati, avvenuta il 23 agosto scorso e imputata senza alcuna prova alla presenza dei cristiani sul territorio dell’Orissa. Chiese, centri sociali, centri pastorali, conventi e orfanotrofi sono stati assaliti nei giorni scorsi al grido di «Uccidete i cristiani e distruggete le loro istituzioni». Già lo scorso Natale uno scontro fra estremisti indù e commercianti del luogo era sfociata in una feroce “caccia al cristiano”, che aveva provocato oltre venti vittime e decine di migliaia di euro di danni. Tristemente noto anche il feroce omicidio del pastore protestante Graham Staines, che nel 1999 venne bruciato vivo insieme ai

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due figli piccoli da una folla inferocita. Il fondamentalismo indù radicato nel territorio di questo Stato – uno dei più ricchi dell’Unione indiana – nasce dal nazismo. Rifacendosi alle teorie della “Grande Germania” di Hitler, i nazionalisti indiani rifiutano la presenza di ogni gruppo etnico o religioso che non si rifaccia all’arianesimo induista. Per fermare quello che viene definito “l’inquinamento dell’India”, sono nati nel tempo diversi gruppi organizzati, paramilitari, che non esitano ad usare la violenza contro cattolici e musulmani. Fra questi, il più famigerato è senza alcun dubbio l’Rss (Rashtriya Swayamsevak Sangh) Organizzazione dei volontari nazionalisti considerata il braccio armato del Bjp (Bharatiya Janata Party) Partito al governo nello Stato dell’Orissa ed in molte altre zone del sub-continente governato da Delhi.

Il riferimento al nazismo non viene negato dai membri dell’Rss, che anzi lo considerano un paragone “lusinghiero”. Secondo Golwalkar - membro fondatore dell’Organizzazione - l’idea di nazione «deve essere presa in prestito dal nazismo di Hitler. La mia ammirazione per il Furer è nota. Io rifiuto l’idea che vuole l’India un Paese laico: dobbiamo anzi dare sempre più influenza all’Hindu Rashtra, il sistema indù. E nell’Hindu Rashtra non vi è spazio per le altre confessioni religiose».

Una volontaria bruciata viva ed una suora violentata. Sacerdoti malmenati e rapiti. Centri di aiuto cattolici dati alle fiamme Sono i risultati dell’odio anti-cristiano

Fra le violenze più frequenti vi sono pestaggi e devastazioni di lebbrosari e orfanotrofi. I fondamentalisti si fanno “giustizia“ da soli

In tre anni,oltre 700 attacchi contro le minoranze li attacchi alla minoranza cristiana dell’India sono stati oltre 700 negli ultimi tre anni. Un numero enorme, se si pensa che i cristiani – cattolici e confessioni protestanti – non superano il 2,3 % della popolazione globale. La denuncia viene dall’All India Catholic Union, organizzazione non governativa che monitora la situazione dei cattolici nel Paese ed ha condotto un’approfondita inchiesta insieme alla Commissione nazionale per le minoranze. Le violenze sono concentrate in quegli Stati dove è al potere il Bharatiya Janata Party (Bjp), che porta avanti una dura politica fondamentalista e nazionalista. Nonostante abbia perso la guida dell’Unio-

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ne, ora in mano al Congress di Sonia Gandhi, il Bjp conta su diversi gruppi paramilitari come l’Rss ( il Rashtriya Swayamsewak Sanged) e il Sangh Parivar, che mettono in pratica le politiche naziste del Partito.

In Orissa, come in altri cinque Stati dell’Unione, è inoltre in vigore una legge nota come “decreto anti-conversione”, che punisce con la galera «chiunque allontani la popolazione dall’induismo, la vera fede». Nonostante il carattere discriminatorio del testo, e la libertà di religione garantita dalla Costituzione indiana, sono sempre più frequenti i casi in cui le sanzioni per questi “crimini” vengono di

fatto comminate dai gruppi fondamentalisti con l’omertà delle forze dell’ordine e della magistratura, che non intervengono neanche davanti a denunce cicrostanziate. Fra le violenze più comuni vi sono la devastazione di lebbrosari e orfanotrofi – considerati luoghi in cui vengono messe in pratica le conversioni – ed il rogo delle vittime. In questo modo, secondo la religione indù, si purifica il corpo da ogni peccato commesso in terra. Frequenti però anche pestaggi, furti ed intimidazioni continue, che rendono di fatto impossibile per la minoranza cristiana compiere un qualunque tipo di proselitismo in alcune zone del Paese.

In Orissa oltre il 94% della popolazione è indù. Il cristianesimo è praticato dal 2,4% degli abitanti, ma si registrano molte conversioni fra i tribali (i “fuori casta”) che spesso vengono trattati come animali dagli industriali che vivono nelle città. E questo, spiegano alcuni analisti, sarebbe il vero problema alla base dell’odio anti-cristiano.

Lo Stato è uno dei motori della crescita economica dell’India: alla base di questo boom, però, c’è una crescita industriale che poggia le sue fondamenta sullo sfruttamento proprio dei tribali, considerati esseri inferiori proprio dall’Hindu Rashtra. L’aumento delle conversioni al cristianesimo – che al contrario predica l’uguaglianza sociale e condanna lo sfruttamento dei lavoratori – è visto con paura dalle classi sociali più agiate, che cercano di squalificare come eretici e stranieri persino i cristiani indiani di più generazioni. E non hanno remore a usare la violenza per far sentire la propria voce.


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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

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agosto 55 a. C.

Le navi hanno lasciato il porto di Itius, in Gallia, di notte

Cesare alla conquista della Britannia, impegnate 2 legioni e 80 imbarcazioni di Pier Mario Fasanotti l grande condottiero mancava un’impresa ai confini del mistero. Giulio Cesare, conquistata la Gallia, regione mai del tutto domata, sapeva che al di là del mare nordico c’era una terra. Quella dei Britanni. Ma ignorava, così pure i suoi ufficiali e i cartografi cui chiedeva lumi, a quanta distanza si trovasse dalle coste galliche. Si sapeva, a quei tempi, che oltre l’Oceano la notte durava tre mesi. Nient’altro. Nemmeno se le nuove terre fossero un continente o soltanto un’isola. Da quello sconosciuto universo erano già venuti alcuni suoi abitanti e avevano dato man forte ai Galli. Roma faceva paura, si stava allargando troppo, inghiottendo un territorio dietro l’altro. Lo stato repubblicano era un impero de facto. Sia pure senza un imperatore. Nell’agosto del 55 avanti Cristo Cesare prese la decisione: quella terra, comunque fosse fatta, andava esplorata e naturalmente conquistata. Era dal nord, d’altronde, che venivano i pericoli maggiori per l’Urbe. Non poteva lasciar passare troppo tempo: il nemico, almeno quello noto a tutti, era la stagione fredda, con le sue tempeste marine. Ovviamente Cesare prima si informò. Gli unici che si erano spinti fin su erano alcuni mercanti, ma servì poco interrogarli. Non seppero riferire notizie essenziali, ossia: l’estensione del territorio, i costumi di quelle genti, se fossero di natura bellica o prevalentemente pastorale, l’eventuale esistenza di porti, naturali o artificiali. Orgoglioso d’essere stato il primo a varcare il Reno, ora s’apprestava a solcare un mare che s’intuiva solo che fosse pericoloso. La sua brama di gloria lo spinse verso l’Oceano, verso un nuovo mondo. La stessa decisione l’avrebbe presa Cristoforo Colombo continua a PAGINA II 1500 anni dopo, all’Ovest.

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SCRITTORI E LUOGHI

I VIGLIACCHI DELLA STORIA

I SENTIMENTI DELL’ARTE

La Turchia di Pamuk

La follia secondo Bosch

di Filippo Maria Battaglia

di Olga Melasecchi

Lord Sackville di Massimo Tosti

a pagina IV

a pagina VI

a pagina VII pagina I - liberal estate - 26 agosto 2008


Le zone romanizzate della Britannia con le fortificazioni. La cartina mostra i confini dell’Impero in terra britannica Nella pagina accanto una testa in bronzo con elmo cerimoniale, rinvenuta nei pressi di Londra

segue da PAGINA I Ordinò alla flotta di scendere lungo il Reno. La notte tra il 26 e il 27 agosto le navi lasciarono il porto di Itius (che oggi si chiama Boulogne-sur-Mer, Francia). Ottanta imbarcazioni leggere, le cosiddette actuariae, più diciotto vascelli carichi di cavalli e per questo chiamati Hippogogae. Due legioni, con le aquile romane e gli stendardi al vento, si apprestavano a incontrare i Britanni. Questi avvistarono i nuovi conquistatori. In qualche modo si dettero da fare per ostacolare lo sbarco. Uno sbarco per nulla facile visto che le coste erano rocciose e scoscese. Giunti nel punto in cui potevano scendere dalle navi, i Romani esitarono perchè ignoravano di quale profondità fosse il mare. Un aquilifero della Decima legione - la stessa legione che passerà alla storia per coraggio, fama ed esperienza - rischiò e si gettò in acqua. Poco dopo rise ed esortò i commilitoni a fare altrettanto: «Ma come? Vogliamo portare l’aquila romana in questa terra o desideriamo che il nemico ce la strappi subito di mano?». Scesero nel punto in cui oggi c’è la cittadina di Dover. Già: le bianche scogliere furono viste per la prima volta dai soldati dell’Europa conti-

nentale, che avevano navigato per sole trenta miglia, con grande sorpresa di chi temeva una traversata che poteva essere rischiosamente infinita. aturalmente i locali si opposero ai legionari. Ma ebbero la peggio e si ritirarono all’interno. Cesare avrebbe voluto, sbrigativo com’era, inseguirli. Ma non poteva: le navi con i

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mento, era soprattutto il clima. A corto di vettovagliamento, i legionari trovarono campi di frumento e cominciarono a rifornirsi armati di falci. Scattarono però diverse trappole: i Britanni li assaltarono di sorpresa. Ed ecco la prima sorpresa militare: Cesare vide il modo di combattere dei nemici. Arrivavano di corsa su carri a due ruote, portando lo scompiglio. Ogni carro era in grado di portare più soldati, alcuni dei quali scendevano, assalivano a piedi con lance, spade e dardi per poi risalire su quelle strane bighe di grande robustezza. Primo inconveniente per il condottiero di Roma: affrontare e arginare l’estrema mobilità delle forze nemiche. Cesare annotò sui suoi taccuini che i Britanni, con quel sistema di attacco, univano la velocità della cavalleria alla stabilità della fanteria. Per quella tattica, novitate pugnae come scrisse Cesare, e anche per l’insolito aspetto delle genti dell’estremo nord, i Romani furono presi in contropiede. Non erano come i Galli o i

Sorpresa militare da parte dei Britanni: i nemici usano un sistema di attacco che mette insieme la velocità della cavalleria e la stabilità della fanteria cavalieri erano rimaste troppo indietro. I Britanni mandarono dei messaggeri e chiesero di trattare. Ovviamente si accorsero che i Romani erano in difficoltà dopo che una fortissima tempesta s’era abbattuta sulle coste e aveva danneggiato un numero considerevole di imbarcazioni. Alcune, addirittura, erano state spinti indietro, fino alla costa gallica. Il nemico di Cesare, almeno fino a quel mo-

pagina II - liberal estate - 26 agosto 2008

Germani o gli Asiatici e nemmeno come gli Africani, erano horridiores adspectu: avevano il viso, il petto e le braccia colorati di azzurro. Le guance erano rasate (una rarità a quei tempi), i capelli molto lunghi e i baffi spioventi. Erano esseri terrificanti gli uomini blu oltre quel tratto di mare che venne poi chiamato stretto della Manica. saltati dai primi massacri, i Britanni osarono un altro assalto. Ma stavolta furono respinti con forza. Gli invasori cominciavano ad abituarsi a quei mostri colorati e a modellare la loro strategia militare a quel tipo di combattimento, mai visto in nessun angolo del mondo prima di allora. I Britanni chiesero di nuovo che si aprisse una trattativa. Al che, le legioni, come aveva ordinato il proconsole di Roma, catturarono molti ostaggi. Era una normale garanzia diplomatico-militare. Intanto Cesare nel suo ruolo di storico continuava a osservare le usanze di quel popolo, e prendeva appunti. I Britanni avevano mogli in comune, vivendo in comunità di dieci-dodici persone, in gran parte imparentate. I nati dai connubi più svariati venivano considerati figli di colui che per primo aveva pos-

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seduto la donna che li aveva partoriti. Si nutrivano soprattutto di latte, rifiutavano di mangiare lepri, galline e oche. E questo per i dettami della loro religione. Il tempo volgeva al peggio. L’autunno da quelle parti era rigido. Cesare fece un’ampia ricognizione dell’isola, poi decise di farvi ritorno con forze militari assai più numerose e potenti. I Romani rimasero in terra britanna quindici giorni. Il 12 settembre il vento gonfiò le vele alla volta della Gallia. Quella, malgrado le continue sommosse e gli atti di ribellione, era sicuramente una terra più familiare. Soprattutto era presidiata. A Roma giunse la notizia della spedizione in Britannia. Alcuni, per la verità pochi, parlarono di disfatta, di fuga. La maggior parte però esultò. A poco a poco i cives romani conobbero vari particolari dell’impresa, e questo perché circolarono gli appunti e le lettere del proconsole ancora una volta vittorioso (anche se, a dire il vero, solo a metà). Quell’ambiguo senatore e avvocato che rispondeva al nome di Cicerone, così svelto a cambiare parere e alleanze politiche, sfoderò la sua consueta enfasi: «Al cospetto di questa impresa, impallidisce anche la figura di Caio Mario». Un’esagerazione,


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o stesso giorno... nel 1978

Albino Luciani viene eletto Papa e sceglie il nome di Giovanni Paolo I di Filippo Maria Battaglia

che però serviva ai suoi giochetti parlamentari. In ogni caso il verboso Cicer si diceva abbagliato dal coraggio di Cesare, a tal punto da accantonare per il momento il suo timore che il generale procedesse a tappe forzate verso la dittatura. Questa era la sua ossessione di repubblicano convinto e di membro di un Senato che sempre aveva avuto il timore di perdere potere, privilegi e prestigio. ra Cesare e Cicerone non era corso mai buon sangue. Il primo era un uomo d’azione, il secondo un politico non immune dall’intrigo e dall’inciucio. Ma tra i due era forte anche la rivalità letteraria. Cesare, sia pure al comando di legioni, trovava il tempo (dormiva pochissimo) opere come il De Bello Gallico e poi il De Bello Civili, Cicerone aspirava al ruolo del filosofo moralista pubblicando diversi scritti credendosi l’erede dei pensatori della Grecia. Il senatore-avvocato provò stizza quando il rivale invase in un certo senso il suo campo con De Analogia, che era un trattato linguistico, elogiato dai suoi primi lettori come il poeta Quinto Cicerone (che non era parente del senatore) e lo storico Aulo Irzio. Lo spunto era la polemica che serpeggiava tra le classi colte della capitale su diverse correnti linguistiche. De Analogia di Cesare era la risposta al De Oratore di Cicerone. Il generale era convinto che si dovesse seguire la via della ratio per dare basi solide e certe alla lingua latina, mentre il senatore propendeva per la consuetudo, ossia per la generosa accoglienza di certe anomalie lessicali, in nome del primato della retorica. Rimane famoso il precetto di Cesare: «Ricordalo sempre e imparalo a memoria: evita le parole strane e inusitate colme il navigante sfugge gli scogli». Insomma, tra i due c’era, anche, un duello culturale. Tornando al sogno britannico, Cesare ben sapeva che l’opera era incompiuta. Cercò un pre-

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Il suo pontificato (durato appena trentatre giorni) è stato uno dei più brevi della storia. Eppure, è ancora oggi uno dei più rievocati. Il 26 agosto 1978 Albino Luciani è eletto vescovo di Roma e pontefice della Chiesa Cattolica con il nome di Giovanni Paolo I. Al primo Angelus, il giorno dopo la sua elezione, racconta così i momenti del Conclave, dando tra l’altro un’implicita spiegazione alla scelta di quel nome: «Ieri mattina, sono andato alla Sistina a votare, tranquillamente: mai avrei immaginato quello che stava per succedere! Appena è cominciato il pericolo per me, i due colleghi che mi erano vicini mi hanno sussurrato parole di coraggio. Uno ha detto: “Coraggio, se il Signore dà un peso, darà anche l’aiuto per portarlo”. E l’altro collega: “Non abbia paura, in tutto il mondo c’è tanta gente che prega per il papa nuovo”. Venuto il momento, ho così accettato». «Io – aggiunge quasi scusandosi - non ho né la sapientia cordis di Papa Giovanni, e neanche la preparazione e la cultura di Papa Paolo. Però sono al loro posto. Devo cercare di servire la Chiesa. Spero che mi aiuterete con le vostre preghiere». Parole semplici e molta umanità: è così che

testo per invadere per la seconda volta l’isola. E lo trovò: soltanto due tribù della nuova terra avevano inviato gli ostaggi concordati, mentre le altre non avevano ottemperato all’ordine di Roma. Scattava in questa maniera la punizione. Ecco dunque il casus belli. Si era al 20 luglio del 54 a.C. Stavolta i Britanni, guardando il mare, si spaventarono: stavano arrivando ottocento navi. Cesare aveva modificato la struttura delle imbarcazioni, rendendole più basse e larghe, quindi più adatte al mare del nord e alle difficili coste. Cinque legioni e duemila cavalieri (in gran parte Galli) apparvero all’orizzonte, come fantasmi. All’armata di Cesare si erano aggregati un certo numero di commercianti che avevano annusato odore di affari. Nuove terre, ma anche nuovi mercati. Legionari e cavalieri sbarcarono senza trovare impedimenti. Durante la notte, dopo aver costruito un vasto accampamento, s’inoltrarono nell’interno. Cercavano i soldati nemici. Grazie all’abilità della cavalle-

Così racconta il vescovo di Roma “Ieri mattina, sono andato alla Sistina a votare, tranquillamente: mai avrei immaginato quello che stava per succedere”. Il suo pontificato (33 giorni) è stato uno dei più brevi della storia

Luciani diventa da subito il «papa del sorriso». Ma Giovanni Paolo è anche un pontefice che fa presto discutere. Come quando, il 10 settembre, sempre all’Angelus, dice: «Dio è papà, più ancora è madre», rifacendosi a una frase dell’Antico Testamento e scatenando diverse perplessità tra i teologi. Nato nel 1912 a Forno di Canale, nei pressi di Belluno, è figlio di Giovanni Luciani e Bortola Tancon. A undici anni, entra nel seminario minore di Feltre. È ordinato sacerdote il 7 luglio di dodici anni dopo. Si laurea in sacra teologia nella Pontificia Università Gregoriana di Roma con una tesi su Antonio Rosmini. È una scelta coraggiosa: il filosofo italiano non è ancora stato del tutto riabilitato dalla Chiesa e due delle sue opere sono ancora all’Indice dei libri proibiti. Luciani scala con rapidità – e con una certa ritrosia – le gerarchie vaticane, anche se la nomina di vescovo è più volte rimandata per la sua debole condizione fisica. È Giovanni XXIII a superare quelle perplessità. A chi gli obietta la salute malferma, il papa risponde: «vorrà dire che morirà vescovo». Le cose non vanno così: nominato patriarca di Venezia nel 1969, il 16 set-

ria, Roma registrò i primi successi. I Britanni indietreggiarono e si nascosero nei boschi.

esperienza, Cassivelluano. Tra agguati, imboscate repentine e disorientamento dovuto alla scarsa o nulla conoscenza del terreno, i legionari bruciarono paesi e campi di grano. Cesare lo stratega insegnava ai suoi come non farsi sorprendere dai “guerriglieri” che, nel frattempo, avevano trovato rifugio in una zona che successivamente venne battezzata Londinium. Gli uomini di Cassivelluano non si persero d’animo e sfoderarono la loro vera arma segreta: quattromila carri da guerra. La diplomazia romana non era rimasta però inerte. Col risultato che alcune genti britanniche si unirono agli invasori, sbilanciando così le forze in campo. Cesare assediò e alla fine prese la fortezza chiamata poi Verulamium (oggi Saint Albans) e dette l’ordine dell’assalto fina-

Cicerone è entusiasta dell’impresa compiuta da Cesare: «Al cospetto di questa azione, impallidisce anche la figura di Caio Mario»

Cominciava così la guerriglia, cosa cui i Romani erano poco abituati. Nel frattempo Cesare venne informato che una violenta tempesta aveva distrutto quaranta navi. Ancora una volta le condizioni climatiche peggioravano la situazione. In ogni caso l’avanzata dei Romani non ebbe soste. Trovando però un nemico più compatto: il terrore degli invasori aveva fatto sì che molte tribù isolane si fossero coalizzate al comando di un uomo di notevole coraggio ed

tembre 1972 riceve Papa Paolo VI in visita pastorale sulla Laguna. Al termine della messa in Piazza San Marco, il pontefice si toglie la stola papale, la mostra alla folla, poi la poggia a Luciani. È una sorta di preannuncio all’elezione dell’agosto del 1978, cinque anni dopo la creazione di cardinale. Muore la notte del 28 settembre 1978 per un infarto miocardico. La sua scomparsa, e il fermo diniego opposto dai familiari per un’autopsia, genererà una ridda di voci e di ipotesi di complotto, che vedranno coinvolti a vario titolo, la finanza, Cosa Nostra e la P2. Ma aldilà delle polemiche e delle singole circostanze, il suo pontificato resterà alla storia come uno dei più ispirati a «parole semplici e umane».

le. Un grande massacro tra gli abitanti della terra oltre l’Oceano. Ennesima e sofferta vittoria di Roma. Cassivelluano inviò ambasciatori e chiese la resa. Cesare accettò l’atto di sottomissione. Dopo aver imposto tributi e dettato nuove regole agli isolani, tornò in Gallia da dove arrivavano notizie su varie turbolenze. Il generale aveva sempre considerato i Galli come esseri volubili, instabili e sostanzialmente ostili. In Britannia non lasciò alcun presidio militare. Tornò con un buon bottino, anche se le terre degli uomini blu erano prive d’argento. Usò i soldi per ampliare il Foro, erigere la Basilica Giulia, restaurare la Basilica Emilia, e in genere abbellire e ampliare una città che dominava su mezzo mondo, dalla Gallia transalpina alla Siria. Molte persone notoriamente critiche verso il futuro dittatore, lo elogiarono per la nuova conquista. Lo stesso Catullo, che non era mai stato tenero verso il proconsole, cantava la sua vittoria sugli horribilesque ultimosque britannos. Più barbari dei barbari.

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SCRITTORI E LUOGHI

Una foto in bianco e nero

LA TURCHIA di Pamuk

«A Istanbul, mi è sempre piaciuto di più l’inverno che l’estate» di Filippo Maria Battaglia

Istanbul sotto la neve

A

ppartenenza, Stato, identità, nazione. Parole utili a condire un discorso, a scivolare nel rischio retorica, a scrivere un romanzo o un saggio letterario. Velleità e buoni sentimenti che si sciolgono come neve al sole quando sai che se le usi in un certo modo corri persino il rischio di finire in galera. Ecco perché, almeno nel caso di Ohran Pamuk, il rapporto scrittore – territorio non ha nulla di scontato. La sua Istanbul è «una fotografia in bianco e nero, un mondo semibuio e grigio, almeno io me la ricordo così, anche perché da sempre mi hanno attratto gli interni delle abitazioni, nonostante sia cresciuto nell’oscurità di una deprimente casa-museo. Le strade, i viali e i quartieri lontani mi sembravano luoghi pericolosi, usciti dai film di gangster in bianco e nero.

A Istanbul, mi è sempre piaciuto di più l’inverno che l’estate: ancora oggi rimango a osservare i pomeriggi che arrivano presto, gli alberi senza foglie che tremano nel vento, gli uomini con giacche e cappotti neri sulle strade semibuie, che tornano a casa in fretta, nelle giornate di fine autunno o inizio inverno. Anche i muri dei palazzi antichi e delle vecchie case signorili di legno ormai crollate, che adesso hanno preso il colore speciale di Istanbul, fatto di trascuratezza e desolazione, mi risvegliano dentro una dolce tristezza e un desiderio di contemplazione. Le sfumature in bianco e nero delle persone che tornano a casa di corsa nelle giornate invernali, quando il buio arriva presto, mi spingono a pensare che anch’io appartengo a questa città, e condiviso qualcosa con

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la sua gente. Mi sembra che il buio della notte sia davvero in grado di coprire la miseria della vita, delle strade e degli oggetti, mentre respiriamo dentro le case, nelle stanze e nei letti, impegnati con i sogni e le fantasie costruite sulla ricchezza della vecchia Istanbul, avvolta nelle sue leggende ormai smarrite. Mi piace il buio delle fredde sere invernali, la notte che scende ad ammantare di poesia i quartieri periferici deserti e i pallidi lampioni, anche perché ci tiene lontani dagli sguardi degli occhi stranieri, occidentali, e copre la miseria della città che noi vogliamo nascondere imbarazzati». a descrizione di Pamuk passa persino da uno degli elementi centrali della sua produzione, che è insieme il titolo di uno dei suoi più celebri e contro-

L

«La neve era una parte essenziale della città della mia infanzia. Come alcuni bambini che non vedono l’ora che arrivi l’estate per poter viaggiare, anch’io non vedevo l’ora che nevicasse… perché la città mi pareva più “bella” ammantata di bianco» versi romanzi: «La neve era una parte essenziale dell’Istanbul della mia infanzia. Come alcuni bambini che non vedono l’ora che arrivi l’estate per poter viaggiare, anch’io non vedevo l’ora che nevicasse. Non per andare in strada a giocare con la neve, ma perché la città mi pareva più “bella” ammantata di bianco; e non per la novità o la sorpresa che portava coprendo il fango, la sporcizia, le crepe e gli angoli dimenticati della città, ma per l’atmosfera di emergenza, anzi

di calamità che vi creava. Nonostante nevicasse tre o quattro gironi ogni anno e la città rimanesse imbiancata una settimana o poco più, la neve coglieva sempre di sorpresa gli abitanti di Istanbul, che si trovavano impreparati quasi fosse la prima volta; come avveniva in tempi di guerra o di catastrofi, si formavano subito code davanti alle panetterie e, fatto ancora più importante, tutta ala città si trovava riunita intorno allo stesso argomento, la neve, in uno sforzo di condivisione.


La moschea di Süleymaniye è preziosa per «la raffinata eleganza dei suoi volumi, l’apertura delle piccole cupole laterali, il contrappunto, come in un brano musicale, dei suoi minareti e dei suoi piccoli archi, la sua collocazione sulla collina, il suo candore e la lucentezza del piombo delle cupole» In alto a sinistra: lo stretto dei Dardanelli con un particolare della città vecchia, a destra la moschea blu (Suleymanie), la più grande di Istanbul, fatta costruire dal sultano Ahmet I. Il nome è dovuto al colore turchese dominante nel tempio A sinistra la chiesa di Santa Sofia dedicata alla Divina Sapienza costruita dall’imperatore Giustiniano nel 500 d. C. e trasformata nel 1453 in una moschea, a destra un particolare dell’abside

E siccome la città e i suoi abitanti, staccandosi completamente dal resto del mondo, si chiudevano in se stessi, Istanbul, nei giorni invernali di neve, mi pareva più deserta, più vicina ai suoi vecchi giorni di favola». on si può poi non soffermarsi sul Bosforo, lo stretto che divide due continenti (Europa ed Asia) e unisce due mari (Mar Nero e Mar di Mamara): «a partire dal XVIII secolo, quando l’elite ottomana cominciò ad andare in villeggiatura sullo stretto, un posto dove vivevano soltanto alcuni pescatori greci con le loro famiglie, soprattutto intorno a Göksü, Kücüksu, Bebek, Kandilli, Rumelihisari e Kanlica, si è sviluppata una cultura specifica di Istanbul e della civiltà ottomana chiusa al mondo esterno. Le ville di legno costruite successivamente dai pascià, dall’elite ottomana e dai ricchi, nel xx secolo, con l’entusiasmo della Repubblica e le esaltazioni del nazionalismo turco, costituirono un modello per l’identità e l’architettura turco-ottomana». E qui l’entusiasmo del giovane Orhan è senza tempo, quasi metastorico. Appare dunque immediata la contiguità con quello di tanti altri scrittori continentali che nelle calli veneziane come nei laghi lombardi hanno lasciato buona parte dei loro ricordi d’infan-

N

zia: «quando andavamo tutti insieme sul Bosforo con la macchina, uno dei miei piaceri era vedere le testimonianze di un periodo molto ricco in cui la civiltà e la cultura ottomane, pur sotto l’influenza occidentale, tuttavia non persero mai la loro libertà e la loro forza. Intuivo le impronte di quella tradizione ormai finita e sepolta nel passato dalla solenne porta di ferro senza tinta di una grande casa di legno sul amare, dalla solidità dei muri spessi, ma ormai coperti di muschio di un’altra, dalle persiane di legno e dalle particolari rifiniture di una terza non incendiata, oppure dai giardini che si estendevano fino alla fine delle colline dietro ad alcune ville, scuri e coperti di siliquastri, pini del Bosforo e platani secolari, e sentivo che una volta, qui, alcune persone simili a noi conducevano una vita completamente differente, ma ormai questi tempi facevano parte del passato e noi eravamo diversi, più poveri, più tristi, più oppressi e provinciali di loro». Ma la modernità incalza. E perfino per la più grande città turca quegli anni non sono di certo tra i più facili: «mentre il vecchio centro di Istanbul, la penisola storica, veniva evidentemente colpito e umiliato, a partire dalla metà del XIX secolo, dai grandi palazzi della burocrazia ottomana moderna – si era ormai sotto l’influs-

so della miseria, del degrado, della sconfitta, della crescita demografica, delle guerre perse una dopo l’altra e della occidentalizzazione -, gli stessi burocrati, i ricchi e i pascià crearono una cultura chiusa e assolutamente impermeabile intorno alle loro ville di legno costruite sulle rive dello stretto, dove fuggivano d’estate». Una mutazione che rivolta Istanbul come un calzino, ma che crea paradossalmente – è questa l’opinione del premio Nobel per la letteratura – un altro tipo di bellezza, per così dire “involontaria”, innestata a grandi monumenti dei secoli precedenti, come la moschea di Süleymaniye, «la raffinata eleganza dei suoi volumi, l’apertura delle piccole cupole laterali, la proporzione dei suoi muri e dei suoi spazi vuoti, il contrappunto, come in un brano musicale, dei suoi minareti e dei suoi piccoli archi, la sua collocazione sulla collina, il suo candore e la lucentezza del piombo delle cupole». Un panorama decisamente diverso da quello, arcadico e perfetto, di un olio su tela del Settecento. A spiegarne la diversità è proprio lo scrittore: «perché anche quattrocento anni dopo la sua costruzione, quando guardo la moschea di Süleymaniye , la osservo nella sua integrità e nel suo proposito iniziale, e come si vuole che sia vista. Del resto la forza di Istanbul, della sua silhouette, e anche

del suo panorama, dipende dalla bellezza e dalla radiosità, ancora intonse, di molte opere antiche e imponenti, quali Santa Sofia, la moschea di Süleymaniye, le altre moschee che hanno nomi di sultani e si trovano nel cuore della città come quella diYavuz Sultan Selim e Beyazit. otrebbe essere pittoresco il sapore che proviamo vedendo uno scorcio di queste opere da una strada, o da una rampa coperta di fichi, o attraverso i giochi di luce del mare. Invece la bellezza regalata dai sobborghi agli abitanti di Istanbul appare in tutto il suo splendore quando crescono erbe, piante, edere, addirittura alberi sulla muraglia e sopra i merli e le torri delle fortezze di Rumelihisari e Anadoluhisari. Questa bellezza compare casualmente, spesso nelle combinazioni particolari delle edere e dei platani con i muri di legno vecchi e anneriti, o con la parete crollata di una moschea, o con i ruderi di una secolare officina del gas, oppure con una vecchia casa signorile ormai senza tinta e con la fontana malmessa di un sobborgo. Nelle passeggiate della mia infanzia, in queste bellezze dette “pittoresche” ci si imbatteva così spesso da risvegliare il desiderio di contemplarle come in un quadro, e dopo un certo punto definirle casuali era sbagliato: tutte

P

queste rovine tristi che oggi non esistono quasi più, quando ero piccolo formavano l’anima della città. a la “scoperta”, dopo tanti anni, di quello che mi sento di definire l’anima della città, “una sua proprietà bella e fondamentale”, è avvenuta tramite un percorso tortuoso pieno di coincidenze e reazioni. Prima di tutto, per poter gustare questa bellezza casuale dei sobborghi o delle rovine e degli alberi, delle erbe e della natura, è necessario essere “estraneo” a quel quartiere, a quel posto misero e pieno di ruderi. Un muro demolito, l’edificio di un convento evacuato e malridotto dopo i divieti, una fontana senz’acqua, un’officina di ottant’anni, inattiva, le case vuote dopo la cacciata dei greci, degli armeni e degli ebrei in seguito alle pressioni nazionalistiche, gli edifici malmessi, le case leggermente inclinate (oppure appoggiate una contro l’altra, come piace molto ai caricaturisti), sfidando la prospettiva, le costruzioni con tetti sbalzi e cornicioni deformati provoca, in coloro che ci vivono, non un sentimento di resistenza e bellezza, ma di povertà e di impotenza, disperazione e abbandono». Nevica di nuovo, nella Turchia di Pamuk, ma stavolta il bianco e nero - che domina in tutta l’opera dello scrittore turco - si infrange. Come una lastra di ghiaccio, si incrina, entra in una irreversibile decomposizione, fa emergere le urla e le ferite più intime di un’identità non ancora condivisa. Il bianco della neve si tinge così del rosso dell’integralismo musulmano e del nero dell’estremismo nazionalista. È un viaggio lungo, disperato e appassionato, di cui, a oggi, non si conosce né l’esito né la destinazione finale.

M

Bibliografia Orhan Pamuk, Istanbul, traduzione di S. Gezgin, Einaudi, pp. 384, euro 13 Orhan Pamuk, Neve, traduzione di S. Gezgin e di M. Bertolini, Einaudi, pp. 468, euro 12,80

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I VIGLIACCHI DELLA STORIA Il marchio della codardia non precluse al militare una brillante carriera politica nel parlamento inglese e in quello irlandese. Re Giorgio III lo nominò Pari d’Inghilterra con il titolo di Visconte i sono casi limite, nei quali la vigliaccheria degenera in sfacciataggine. Un codardo impudente fu Lord George Sackville, comandante della cavalleria inglese nella battaglia di Minden, combattuta nel 1759. Si fronteggiavano allora – nella Guerra dei Sette anni – gli eserciti dell’Inghilterra e della Prussia, coalizzate fra di loro, e quelli della Francia e dell’Austria. A Minden, in Westfalia, lo scontro volgeva a favore degli angloprussiani. Ma quando il comandante dell’esercito alleato, il principe Ferdinando di Brunswick, diede ordine alla cavalleria di caricare i francesi, Sackville rimase immobile. L’ordine fu ripetuto tre volte (affidato a tre diversi messaggeri), ma Sackville non mosse un dito. Quando il marchese di Granby, suo sostituto, cercò di obbedire all’ordine del Brunswick e di condurre avanti la seconda linea della cavalleria, Sackville lo fermò, permettendo così la fuga ai francesi. Re Giorgio II – quando fu messo a conoscenza del comportamento sleale dell’uomo al quale aveva affidato il comando supremo dell’esercito inglese (una carica che era stata ricoperta, in anni ancora recenti, dal leggendario Duca di Marlborough – decise di affidarne la sorte alla Corte Marziale. L’accusa era di codardia. Sackville rifiutò altezzosamente di riconoscere una qualunque responsabilità per aver disubbidito agli ordini. Subì una condanna molto dura, con l’allontanamento dall’esercito e l’interdizione da

Lord Sackville

C

Il comandante che non mosse un dito nella battaglia in Westfalia di Massimo Tosti

Nella Guerra dei Sette anni si fronteggiarono gli eserciti dell’Inghilterra e della Prussia, coalizzate fra di loro, e quelli della Francia e dell’Austria

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ogni incarico al servizio del sovrano. La motivazione della sentenza non lasciava margini di dubbio, dichiarando l’imputato “incapace di servire Sua Maestà in qualunque mansione militare” (“unfit to serve His Majesty in any military capacity whatsoever”). Ma gli fu risparmiata la pena di morte, che era stata comminata a ufficiali di grado inferiore per il medesimo reato. Forse si tenne conto proprio del fatto che si trattava dell’uomo che aveva sostituito John Chur-

chill, primo Duca di Marlborough, eroe di tante battaglie, che aveva condotto i suoi uomini alla vittoria a Blenheim, a Oudenarde e a Malplaquet (nella Guerra di Successione spagnola), dando l’esempio con il suo eroismo (a Blenheim, sorprese uno dei suoi generali che si ritirava con i suoi cavalleggeri. “Signore”, lo apostrofò con flemma britannica,“state commettendo un errore: il nemico è dall’altra parte”). E si tenne conto anche del fatto che Sackville non ave-

va offerto prove eclatanti di valore nelle precedenti battaglie. A Fontenoy, nel 1745, era stato ferito e catturato dai francesi (che poi lo avevano rilasciato). Ed era stato anche molto chiacchierato per la sua presunta omosessualità (che in quei tempi non era un titolo d’onore per un militare). Il marchio della codardia non precluse a Sackville una brillante carriera politica (sia nel parlamento inglese che in quello irlandese). Alla morte di Giorgio II, il successore Giorgio III lo riabilitò, chiamandolo a far parte del Consiglio di Gabinetto. Nel 1775 fu nominato Segretario di Stato per il Dipartimento Americano proprio nella fase più calda della ribellione degli ex coloni contro l’Inghilterra. Le sconfitte subite a Saratoga e poi a Yorktown (che legittimarono l’Indipendenza americana dichiarata in precedenza) furono attribuite anche agli errori politici del governo inglese, e quindi a Lord Sackville. Per tutta risposa, il re lo nominò Pari d’Inghilterra con il titolo di Visconte. Un esito che vale a dimostrare come la viltà sia un’infamia per chi la vive come una colpa. La vigliaccheria, unita all’incompetenza e ad una buona dose di arroganza, può – viceversa – fare la fortuna di un uomo. Ancora oggi (a due secoli e mezzo di distanza) nelle accademie militari britanniche il comportamento di Sackville a Minden è oggetto di studio e di riprovazione, perché contravviene a tutte le regole di disciplina che sono alla base della vita militare. Ma l’uomo che se ne rese responsabile finì per pagare un prezzo irrisorio per i suoi errori. Fu oggetto di scherno nei giornali satirici dell’epoca; il suo ingresso alla Camera dei Lord fu contestato (dentro e fuori il parlamento), ma il disonore non ostacolò più di tanto la sua carriera. Manzoni diceva che “il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare”. A meno che non sia assistito dalla fortuna e dalle protezioni indispensabili. Che è una lezione valida ancora oggi. Le raccomandazioni non sono un’invenzione del XXI o del XX secolo. Chi ama “Il Signore degli Anelli” (e lo conosce più o meno a memoria: ce ne sono fra gli appassionati) può ricordare che nel distretto meridionale della Contea (il Decumano Sud) c’è una famiglia Sackville-Baggins, nata dall’unione fra Longo Baggins e Camelia Sackville, e anche questa è foriera di sventure, perché durante la Guerra dell’Anello si verifica la mancanza di erba-pipa perché Lotho Sackville-Baggins la vende all’estero. Chissà se Tolkien scelse quel cognome a caso.


I SENTIMENTI DELL’ ARTE l pittore fiammingo Hieronymus Bosch rappresenta una delle personalità più enigmatiche di tutta la storia dell’arte occidentale, la sua fama è vasta quanto il mistero delle immagini da lui dipinte. Jeroen Anthoniszoon van Aken, vissuto tra il 1450 e il 1516, prese il nome Bosch, che in olandese vuol dire Bosco, dalla sua città natale ‘s-Hertogenbosch, ossia Boscoducale, nella regione del Brabante, ora Paesi Bassi, e da quello che si conosce della vita di questa cittadina alla fine del Quattrocento, è lecito pensare che Bosch sia stato il cantore del suo mondo e del suo tempo. Figlio di artisti, è cresciuto in un tipico ambiente dell’Europa settentrionale, in cui la cultura popolare mescolava tradizioni e personaggi della mitologia nordica con i dogmi della religione ebraico-cristiana, immergendo il comune sentire degli abitanti di quelle regioni in un magma di superstizione, devozione, senso del peccato. Il tutto accentuato dalle paure millenaristiche tipiche dei passaggi di secolo, quando nell’immaginario collettivo l’avvicinarsi della fine del secolo poteva coincidere con la fine del mondo e l’avvento del giudizio universale veniva visto dai peccatori impenitenti come la dannazione eterna. Il giovane Hieronymus aveva una sensibilità particolarmente recettiva agli umori dell’ambiente circostante, accentuata sembra da un evento fortemente catastrofico, un terribile incendio che nel 1463 distrusse gran parte della sua città. Possiamo immaginare quanto la forza distruttrice del fuoco, il più misterioso tra gli elementi, le scene di morte e di dolore possano avere impressionato la fantasia dell’artista allora tredicenne. Mentre è certa la sua affiliazione alla Confraternita di Nostra Signora, una congregazione dedita alle opere di carità e all’allestimento di spettacoli religiosi, è stata ipotizzata una sua adesione a una delle tante sette esoteriche che in quella fine del secolo avevano sede proprio nella sua città, in particolare a quella del Libero Spirito, in cui si riconoscevano le teorie adamitiche secondo le quali il corpo, in quanto opera di Dio, non doveva essere coperto e la sua nudità non era peccato. Si spiegherebbero in tal modo le allusioni a simboli alchemici di molti suoi dipinti, scienza sicuramente praticata all’interno di queste sette, e anche la presenza di nudi nelle sue opere, come nel famoso Giardino delle Delizie del Prado, dove il peccato è soprattutto nelle azioni degli uomini e non nella sua originaria purezza.Tuttavia, la maggior parte dei dipinti di Bosch è ancora un rebus irrisolto. È pittura crittografica dove possiamo

I

LA FOLLIA Il quadro: la ”Nave dei Folli” di Hieronymus Bosch

Quel segno della vita nuova di Olga Melasecchi

nel 1490, la Nave dei folli, ora al Louvre, e Sebastian Brandt pubblicava il poema La Nave dei pazzi. Un tema ricorrente nell’immaginario popolare fiammingo, già cantata nel primo decennio del Quattrocento dal poeta Jacob van Oestvoren, la “nave blu”, la Stultifera Navis, la barca dei gaudenti era una delle maggiori attrattive del carnevale brabantino, grottesco e sfrenato viaggio dei matti verso il naufragio finale del Carnevale. Bosch riprende l’anatema dell’intellettuale contro la degenerazione dei costumi, raffigurando una barca battente l’insegna dei lunatici, occupata da un’allegra brigata di gaudenti, una navicella “in balia di tutti i piaceri dei sensi” (Tolnay) in un mare che non sembra fatto di acqua tanto è denso e fermo. Protagonisti sono un francescano segaligno e una suora che suona il liuto, simbolo erotico come le ciliegie sparse sulla tavola. I due, insieme ad altri compagni, cercano di addentare una focaccia che pende, mentre ad un primo sguardo sembrano cantare in allegria. A prua un’altra monaca con in mano una brocca, allusiva al suo sesso, infastidisce un uomo che tiene sospeso sull’acqua un serbatoio dal simbolo fallico. A pop-

Forse il pittore era un affiliato della setta esoterica “Libero Spirito”, che seguiva le teorie adamitiche secondo le quali il corpo, opera di Dio, non doveva essere coperto

Sulla barca dei gaudenti i protagonisti sono un francescano smilzo e una suora che suona il liuto

riconoscere i singoli elementi, ma non ne comprendiamo totalmente il vero significato. Pittura visionaria, fantastica, realizzata forse sotto l’effetto di droghe, è stato anche detto, forse immagini grottesche e in qualche modo alterate, e quindi non riconoscibili, delle idee circolanti in queste sette e che l’affiliato non poteva far minimamente trapelare. Colui che sa ma non può parlare è sicuramente un diverso, un saggio nascosto dietro un’apparenza stravagante, un folle. La follia di credere in cose che la ragione non capisce, come, per il vero cristiano, cre-

dere in Cristo risorto. Il mondo interiore di Bosch era dunque profondamente influenzato dalla saggezza popolare, secondo la quale il folle è più sapiente di chi è savio E’ questo anche il senso dell’Elogio della Follia scritto nel 1509 da Erasmo da Rotterdam, anch’egli affiliato a una setta di ‘s-Hertogenbosch, quella dei Fratelli della Vita Comune: “noi erriamo alla ricerca di porti e di rive e non possiamo mai toccar terra i nostri viaggi non hanno fine perché nessuno sa dove approdare e così il riposo ci sfugge giorno e notte”, scriveva Erasmo quando anche Bosch dipingeva,

pa un uomo vomita, particolare diabolico della disgregazione dell’essere. In alto tra le fronde un altro con un coltello è intento a segare il laccio che tiene il pollo, o il cigno, arrostito, mentre in acqua sono due ignudi forse per un bagno di purificazione in un mare che sarebbe allora mare mercuriale. Sono dunque forse due adamiti con la coppa rituale, figure di messaggeri che servono il folle “saggio”, quello appollaiato sul tronco triforcuto mentre beve dalla coppa, il matto del ventiduesimo arcano maggiore dei tarocchi che indica la fine del gioco e il grado supremo di iniziazione: negli otto personaggi sulla barca si compie la morte iniziatica, che ha nel “nove”, cioè nel folle, il nono personaggio: il segno della vita nuova.

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Cruciverba d’agosto

“Il nomignolo di Lincoln”

di Pier Francesco Paolini ORIZZONTALI

1) Personaggio di Troilo e Cressida • 10) Film con Ingrid Bergman (1956) • 19) Film di Daniele Luchetti (1990) • 20) Scrisse La scoperta dell’America in versi romaneschi • 22) ...qual con un vago ...... / girando parea dir: - Qui regna amore (Petrarca) • 23) La vocale Blu e la Rossa per Rimbaud • 24) Antica regione dell’Asia Minore • 25) Hugo ......, autore di Corto Maltese • 26) Romanzo di Chateaubriand • 27) ...e qual ...... vol tener la dritta via... (Cecco Angiolieri, sonetto LXII) • 28) Questi è ...... / che sotto il sasso di Momte Aventino... (Inf. XXV) • 29) Bevanda • 31) Un ...... del nostro tempo di Lermontov • 32) Miss ...... tenutaria di un bordello in Santuario di Faulkner • 33) Micidiale nel gallo da combattimento • 35) Opera di Rossini • 37) Jamaica ...... di Hitchcock (“La taverna della Giamaica”) • 38) Sappia qualunque il mio nome dimanda / ch’io mi son ...... (Purg. XVII) • 39) Certi fiammiferi • 40) Lo era Sandokan • 42) Iniz. di Aleardi • 43) Protestanti • 45) Romano..., autore di Il bottone di Stalingrado • 47) A noi • 49) Film di Guido Brignone con Tito Schipa (1937) • 50) ...e altra volta fui a tal ...... (Inf. XII) • 51) ...... Pinkerton • 54) Un professionista (abbr.) • 56) ...la terra dei ......, una razza indomabile in guerra (Eneide, Libro I) • 57) ...e strimpellan ...... (Andrea Chenier) • 58) Neri, cupi • 59) Stato francese • 61) ...... pair • 62) Umberto..., poeta di Trieste • 63) Enki, divinità del pantheon mesopoptamico • 64) Detto di chiome bionde-oro • 65) Pallidi e giallognoli • 67) Lungi dal proprio ramo, povera foglia ...... (Leopardi) • 69) Idem • 70) ...ed al festivo il giorno / ...... succede (Leopardi) • 71) Scrisse Gli uccelli • 73) Dipinse La Primavera • 75) Tornaconto • 76) Conifere originarie dell’America

VERTICALI

1) Sfilano per le vie • 2) Fernando, drammaturgo spagnolo (Il labirinto) • 3) Fa parte dei paramenti sacerdotali • 4) Moglie di Abramo • 5) Nomignolo di Lincoln • 6) Romanzo di Alfredo Oriani • 7) Cugini dei cammelli • 8) La Repubblica di Salò • 9) Iniz. dello scrittore Elkann • 10) Sommità • 11) “Il ......” di Gogol • 12) Odino ne era il capo • 13) Equivalente italiano di Korobočka: soprannome di un personaggio delle Anime Morte di Gogol • 14) Taranto • 15) Pittore tedesco dadà (1887-1966) • 16) “Tutte le xxxx al placido...” (Luisa Miller) • 17) Allegri • 18) I sequestrati di ...... di Sartre • 19) ...... S. Buck, autrice di La buona terra • 21) Minerva • 24) “Oh dolci ......, mansuete e pure...” (Tosca) • 27) La serva padrona e Il barbiere di Siviglia • 28) ...... fan tutte di Mozart • 30) Dispensato • 33) Corradino di ...... • 34) Romanzo “autobiografico” di Chateaubriand • 35) ...cui regnarono Guidi e ...... (Pascoli) • 36) L’xxxx film di Tavernier (1995) • 39) Dolce Xxxx Novo • 40) Joan, pittore spagnolo • 41) “Che te ne pare?” • 44) Ultravioletto • 45) Cola dalla bocca • 46) Fregi, in ebanisteria • 47) “La xxxxx di Sorrento” • 48) Sani • 50) ...... maialino coraggioso film del 1995 • 52) Donatella, personaggio del Fuoco di D’Annunzio • 53) Aroldo, attore caratterista • 55) Eugenio, storico della filosofia (n.1909) • 57) Antiche navi • 58) Affluente del Weber • 60) Esame, collaudo • 62) Madame ......-Gêne di Moreau e Sardou • 64) Imperatore bizantino (602-610) • 66) come son ...... e come se ne vanno / diretro ad esse Chiusi e Sinigaglia (Parad. XVI) 68) Potentato abissino • 69) a ...... dell’acqua della novella piova (Leopardi) • 70) Old ......, teatro londinese • 72) ...... non è più quel tempo e quell’età (Carducci) • 73) Bari • 74 “...... che di gel sei cinta...” (Turandot)

L’Almanacco Hanno detto di… computer

D&R

L’origine di… mafia e cosa nostra

La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta. Isaac Asimov

Qual è la più grande enciclopedia realizzata finora al mondo? L’enciclopedia più grande di tutti i tempi fu quella di Yunglo ta, redatta in Cina tra il 1403 e il 1408 da duemila studenti: era composta da 22.937 capitoli manoscritti di cui solo trecento sono giunti a noi. Attualmente la più grande enciclopedia del mondo è la spagnola Enciclopedia universal ilustrada europeo-americana, nota anche come Enciclopedia Espasa, dal nome dell’editore. Nacque tra il 1908 e il 1930, come somma di tutte le enciclopedie conosciute, originariamente era composta da 72 volumi che divennero poi 104 con i successivi aggiornamenti, per un totale di 105 mila pagine.

Il primo documento in cui si allude a una “cosca mafiosa”, per descrivere le fratellanze coinvolte in attività criminali risale al 1837 ed è firmato dal procuratore della Gran corte criminale di Trapani. Il termine mafia è però diventato espressione corrente solo dopo la rappresentazione del dramma popolare I mafiusi di la Vicaria, del 1863. Le origini di Cosa Nostra, termine entrato nell’uso giornalistico per definire la mafia americana, sono invece legate al latifondo: fra la nobiltà terriera, erede di uno degli ultimi sistemi feudali d’Europa, e i contadini si forma un ceto organizzato in confraternite, che svolge funzioni di controllo e repressione.

LA POESIA STRADA Di luglio, al lungo sole della sera le case stanno appese in un silenzio d’arnia

a cura di Maria Pia Franco

dopo il volo. Ragazzi se ne vanno alti leggeri giù per la via. Farfalle svolano le ragazze. All’ombra delle tende azzurre gialle approda il vecchio. Siede, guarda intorno la scena: mitemente nel suo castello d’ossa si consola di farne ancora parte. Ma l’anima – è in disparte.

DI

FERNANDA ROMAGNOLI

LA SOLUZIONE DI IERI

“Alla ricerca dello Sconsigliato”


NOVITÀ IN LIBRERIA

edizioni

LUCIO COLLETTI

LEZIONI TEDESCHE Con Kant, alla ricerca dell’etica laica Questo libro raccoglie un ciclo inedito di 19 lezioni di Lucio Colletti, a cura di Luciano Albanese, sulla Dialettica trascendentale di Kant (la terza e ultima parte della Critica della ragion pura) che appartiene all’ultimo anno del suo insegnamento presso l’Università di Roma (1994-’95), l’ultimo prima dell’ingresso in Parlamento nelle file di Forza Italia. Colletti non è più marxista da tempo, e da queste lezioni traspare molto scetticismo e disincanto, in particolare sulle «magnifiche sorti e progressive» che lo stesso Marx assegnava di diritto al corso storico dell’umanità. Il Kant esaminato in queste lezioni è molto vicino a Hume e a tutti i teorici del «pensiero debole». Tuttavia Colletti è rimasto materialista e antihegeliano, anzi, molto più materialista di prima, avendo scoperto che anche in Marx si annida un fondo di fede religiosa. Da questo punto di vista le lezioni del 1994-’95 rappresentano la vittoria definitiva di un ideale che Colletti aveva perseguito da sempre: quello di un’etica laica, e precisamente di un’etica della ricerca scientifica.

180

pagine

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euro

14,00


pagina 18 • 26 agosto 2008

musica Più di centomila a Melpignano ”rapiti” dal ritmo della pizzica

uomo della Notte della Taranta grida il suo non essere razionale. Fango e grazia per chi crede oppure ragione trascendenza per il pensatore laico, è questa la cifra per capire cosa corre nel sottosuolo di Melpignano, in terra di Puglia e poi esplode sul palco sulle note della danza. È la notte della pìzzica, celebrata nell’undicesima edizione della kermesse salentina nata nel 1998. È il gorgo travolgente della musica popolare che spezza le catene dell’inibizione. È il ritmo delle tammorre che spingono, con forza, fuori dal corpo l’altra dimensione della persona. Quella per quasi due secoli dimenticata, reietta, cancellata da un razionalismo, cieco di fronte alla verità dell’uomo e sordo al suono dell’anima, dell’istinto che spesso anticipa la ragione. La Grecìa salentina, figlia legittima della civiltà mediterranea che si lascia condurre dalle forze della dimensione trascendente, magica, notturna chiama i suoi fratelli delle altre sponde del mare. Tra questi c’è anche Rokia Traorè, cantante cresciuta nel Beledougou, regione del Sud del Mali, considerata una delle stelle del panorama musicale africano, vincitrice del Radio France Internationale Prize nel 1998. Canta quei ritmi, nello spartito della sua lingua, ma le sue parole presto si sovrappongono a quelle del grico - un dialetto salentino più incomprensibile del leccese - il ritmo si fonde con melodie e contrappunti pugliesi.

L’

Ma non è tutto perché le sorprese di questa fantastica serata regalano un’altra tessera del mosaico. Il bandoneon - o la sua versione francese, l’accordeon - di Richard Galliano, allievo del grande Astor Piazzola, vuole compiere il miracolo. Francese della Costa Azzurra porta le atmosfere sudamericane del tango, i fervor latini di Baires che ben s’accompagnano con la ballata della scherma salentina, dove i coltelli sono sostituiti dalle mani nude a palmo aperto, che sabato scorso

La Notte della Taranta tra ragione e trascendenza di Pierre Chiartano Caparezza, a sinistra, Vinicio Capossela, a lato, e i Sud Sound System, sotto, si sono solo lasciati trascinare dai suoni travolgenti della pizzica, la cui musica si fonde con la world music, il jazz e il rock, come ha spiegato Mauro Pagani, “maestro concertatore” e animatore del palcoscenico musicale della Notte della Taranta

hanno dato il via allo spettacolo in terra d’Otranto. Palmo aperto come i confini di una cultura che si fa mondo, rivendicando l’origine e la tradizione. La pizzica è la chiave di come coniugare il piccolo col grande, il recinto a secco murgiano con un mondo che non vuole più confini, cerca dialogo e non deve omologare ma distinguere. Ci spiega come la cultura popolare può essere apertura e confronto, invece che chiusura e isolamento. È la formula vincente per avere un ruolo in un pianeta che sembra essere sempre più complicato e difficile da capire.

La tradizione declinata secondo certi standard è come l’oro per il Sud della terra e per i loro tramite. La Puglia parla

questa lingua e può diventare messaggera di ricchezza per sé e per gli altri.

La magia della notte salentina è chiusa nella semplicità del

De Martino ne leggeva la versione pagana, rispondendo alla cultura cristiana che ne rivendicava il binomio fango e grazia binomio fango e grazia, realtà e sogno. Bello è l’ammore chi lo sape fa canta Tirisina, richiamando un linguaggio crudo,“la poesia dei fatti” che vola sulle

armonie di violino, flauto e tammorra in un crescendo che è la natura della pìzzica. Le grida dei Radiodervish – sodalizio barese formato da Nabil Salameh e Michele Lobaccaro aprono invece i varchi fra Oriente ed Occidente. Il canto Yara, tradotto dal grico all’arabo, raccoglie il filo lasciato in Puglia dagli abbasidi di Bagdad dell’emiro Sawdan. È l’ennesima contaminazione, del resto è su questo concetto d’innesto che è nata l’Europa e con essa l’Occidente.

Quando san Paolo sbarcò in Grecia, sulle spiagge di Listri, ci fu la sintesi fra ethos ebraico-cristiano e logos greco, così i frutti della sofia orientale possono fecondare l’apparente pazzia delle danze delle caruse

(ragazze) salentine. Diversi anche gli omaggi a Pino Zimba, al secolo Giuseppe Mighali, icona della rinascita del genere musicale pugliese, recentemente scomparso. Protagonista assieme ai componenti di Officina Zoé della “nuova ideologia popolare della Taranta”, come l’ha definita Sergio Torsello, direttore artistico della manifestazione. Zimba interprete di se stesso nel film Sangue Vivo del regista pugliese Edoardo Winspeare.

Battono i sonagli dei tamburi quasi avvertissero i danzatori della vicinanza delle tarantole, simbolo del festival e immagine demartiniana di una cultura che legge l’uomo a più dimensioni. Come se anche i mentori della cultura strutturalista avessero capito, già nel passato, quanto la visione monodimensionale dell’uomo non rispondesse alla verità della persona, molto più ricca, sfaccettata, incline alla trascendenza. Ernesto De Martino ne leggeva la versione pagana, popolare, rispondendo implicitamente alla cultura cristiana che ne rivendicava il binomio fango e grazia. I protagonisti della notte di Melpignano forse non ne sono consapevoli e insieme agli artisti sul palco, fra i quali, Vinicio Capossela, i Sud Sound System e Caparezza, si sono solo lasciati trascinare dai suoni travolgenti della pizzica. La cui musica si fonde con la world music, il jazz e il rock, come spiega Mauro Pagani, “maestro concertatore” e animatore del palcoscenico musicale. Batte la cassa della batteria e sale il “raschiato”del mandolino di Mimmo Epifani: “sentite, sentite, sentite…”, martella il tamburo e pizzica la corda. Mentre sale l’emozione dei centomila che ascoltano e ballano la danza della taranta, che gira, gira e fa girare nella tiepida notte dell’estate salentina, dove il libeccio attraversa le foglie dell’ulivo e accarezza l’euforbia, portando con sè le emozioni e i sogni dei danzatori.


letture

26 agosto 2008 • pagina 19

Qui accanto, una veduta di Taormina. Sopra, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Qui sotto, Leonardo Sciascia

Matteo Collura ha scritto il ritratto di una Sicilia continuamente in bilico tra letteratura e natura

L’isola dove il mare è un castigo di Filippo Maria Battaglia nventare un libro è già di per sé difficile. Inventare un genere è praticamente difficilissimo. Con Sicilia sconosciuta (Rizzoli, pp. 367, euro 38), Matteo Collura ha centrato i due obiettivi in un colpo solo. Pur raccontando di «itinerari insoliti e curiosi», la sua infatti non può essere di certo definita una guida tradizionale. Le suggestioni letterarie la farebbero avvicinare alla memoria e alla cronaca da Grand Tour che, dal viaggio in Italia di Goethe alla Praga Magica di Ripellino, ha contribuito a creare un genere fortunatissimo in Europa, se non fosse che in questo caso il legame coi luoghi di cui racconta lo scrittore è troppo stringente ed incalzante da permettergli la divagazione filosofica o, peggio, la narrazione solipsistica. Un nuovo genere dunque, adeguato ad un canone, quello siciliano, di cui si è forse sin troppo detto e scritto, e che pure ancora oggi resta fuggevole e poco determinato.

I

E proprio a questo canone, così eterodosso, fa da pariglia, come spiega Collura, anche il profilo paesaggistico: «Se si va per la prima volta in Sicilia, è certamente utile portare con sé la tipica guida turistica che descrive i luoghi più celebri, a cominciare da Taormina, da Segesta e dalla valle dei Templi. Ma, se si è curiosi e se si vuole evadere dal so-

lito cliché che ha contributo a creare l’immagine di un’Isola da cartolina, si può fare anche una piccola deviazione, e scoprire così paesaggi di cui si parla poco o punto».

Ma dire Sicilia con il discepolo prediletto di Sciascia - autore tra l’altro della più bella biografia dello scrittore di Racalmuto (Il maestro di Regalpetra, Tea, pp. 290, euro 9,00) - comporta anche tracciare un’altra geografia, stavolta letteraria, e di certo non meno prolifica di quella morfologica. Ecco dunque quattro scrittori, suggeriti quali preziosi vademecum all’iniziazione iso-

marginale». Infine, «Tomasi di Lampedusa, uno specchio perfetto per capire meglio questa regione: nel suo Gattopardo ci sono vezzi e atteggiamenti che sembrano folkloristici e che tuttavia restano ancora oggi in gran parte veri».

E per restare al principe più amato della letteratura isolana, non si può chiedere un commento alle polemiche seguite all’attribuzione del premio Lampedusa a Edoardo Sanguineti: «È vero, quel riconoscimento assegnato al poeta ligure è una sciocchezza. E per comprendere l’errore basta ricordare che Sanguineti stesso ha più volte scritto e

premesso ciò va aggiunto che come scrittore vale pochissimo. Ed infatti, nella veste di editor e di supervisore dei Gettoni einuadiani, ha vessato molti degli scrittori che pubblicava, tentando di fare scrivere loro il libro che lui non era riuscito a scrivere. Prova ne sia Le città del mondo, rimasto incompiuto non per la morte improvvisa dell’autore ma perché lui non era in grado di finirlo. Se piace dunque Vittorini è chiaro che Tomasi di Lampedusa non può piacere».

Spostandoci ai giorni nostri, Collura commenta l’ansia di definirsi postmoderni da parte di una nuova generazione di scrittori isolani, definendola «una forma di stanchezza, che non è altro poi che la stessa insofferenza di certi giovani narratori del Sud America, stufi di essere etichettati come nipotini di Garcìa Marquez e cantori del realismo magico». L’ultima battuta è però di nuovo sulla sua Sicilia sconosciuta e sul rapporto che isolani hanno con il mare: «Difficile, problematico, solo di recente valorizzato. Questa regione è un’isola, ma non a caso molti scrittori non hanno quasi mai parlato di mare. A parte Ercole Patti, Stefano D’Arrigo e l’eccezione della Lighea di Tomasi di Lampedusa, il mare non “esiste” se non come castigo. Basta vedere lo sviluppo di città come Agrigento e Palermo, che pur essendo sulla costa hanno letteralmente dato le spalle al litorale». La Sicilia sconosciuta è anche in questa, imprevedibile, immagine.

Nel paesaggio siciliano meno conosciuto si ritrova il carattere dei grandi scrittori, da Pirandello a Sciascia, da Bonaviri a Tomasi di Lampedusa lana. Si parte dalla Trinakria arcaica. Qui Collura fa il nome di Giuseppe Bonaviri, cantore di una «Sicilia favolistica, che ha a che fare un po’ con quella di Pirandello dei Giganti della montagna. Un mondo parallelo, onirico, anche truce». Si passa poi a «Sciascia, per capire come la Sicilia è rappresentata nella testa dei siciliani e soprattutto per capire come l’isola si sia fatta contagiosa, soprattutto al Nord». Dunque spazio alla «Sicilia di provincia di Antonio Russello, uno scrittore che con le sue opere è riuscito a dare un’immagine esattissima di una colonia rimasta

detto che ama molto Elio Vittorini. Ecco: un poeta e uno scrittore che dichiara di amare molto Vittorini e che considera un capolavoro Conversazione in Sicilia non può amare il Gattopardo. Dal mio punto di vista, il libro di Vittorini è sbagliato, artefatto, assolutamente insincero, una caricatura della letteratura americana». Più duro ancora il giudizio sul suo autore: «lo scrittore siracusano ha pubblicato un libro oggi improponibile, Uomini e no, che già dal titolo è sbagliato: gli uomini sono tutti uomini, anche quelli che nel 43’ hanno combattuto dall’altra parte. Certo: Vittorini va ricordato come brillante “operatore culturale”, ma


pagina 20 • 26 agosto 2008

focus

Puma che veste Bolt, Omega che cronometra i successi di Phelps, Pechino a targhe alterne: tutto quello che non è stato raccontato sulle Olimpiadi

Record & Sponsor di Bruno Cortona

PECHINO. È finita. Si è chiusa la ventinovesima Olimpiade ed è già tempo di bilanci. Sportivi, certo, ma non soltanto. Le immagini di questi Giochi saranno molte. L’incredibile design del Villaggio Olimpico, troppo spesso avvolto dalla foschia, ma scintillante nelle poche giornate di sole, o nella notte pechinese, degna del down town più moderno e occidentalizzato. Gli scatti ai limiti del sospetto di Usain Bolt, ragazzo giamaicano troppo veloce per non suscitare in molti il pensiero maligno di aiuti chimici sempre più sofisticati. Accuse leggere come una brezza di fine estate, che raccontano, al di là delle verità, come lo sport-business abbia ormai definitivamente assorbito tutti i malanni della cultura moderna, dove conta chi appare, ma se appare troppo diventa una minaccia. Certo, la doppietta sulla distanza più affascinante e veloce, i due record del mondo e soprattutto l’assoluta facilità di battere i migliori della terra, spingono Bolt sul banco dei sospettati. Lui balla il reggae, fa spallucce di tutto fino a prova contraria e si gode i dollari che la Puma, l’azienda di abbigliamento sportivo, gli ha garantito con un contratto da star.

Per la casa tedesca, decisamente meno potente di Adidas, Nike, Mizuno e Asics, una vittoria importantissima in una Olimpiade dominata da Li Ning, vale a dire l’uomo che la notte dell’8 agosto ha acceso la torcia Olimpica in mondo visione passeggiando sospeso sullo stadio noto come il Bird Nest, il nido d’uccello, nonché proprietario di una linea di abbigliamento sportivo dai numeri imbarazzanti: se diventi famoso in un paese di 1 miliardo e 300 milioni di persone, fai presto a diventare una vera potenza economica. Così la sua immagine si sdoppia: quella dell’ex atleta, olimpionico di Los Angeles nella ginnastica, ma anche quella del nuovo uomo d’affari cinese, sufficientemente spregiudicato da mettere all’angolo l’Adidas, il colosso te-

desco, quello delle tre strisce, partner ufficiale del Cio, il Comitato Olimpico Internazionale. Tanti soldi, tante divise (500.000 solo per i volontari) per poi vedere un ex atleta vestito non con il marchio ufficiale. Dicono che il belga Rogge, capo del mondo sportivo e finanziario a cinque cerchi, abbia allargato le braccia davanti alle proteste ufficiose dell’Adidas: questioni cinesi. Affari, affari e ancora affari. C’è poi l’altra icona dello sport

sospetti. La sua vittoria nei 200 farfalla contro il serbo Cavic non ha convinto. Arrivo contemporaneo, dopo clamorosa rimonta. Questione di millimetri, di millesimi di secondi. E a sancire la vittoria ci ha pensato l’Omega, la casa d’orologi svizzera, altro grandissimo partner economico del Cio. Niente da dire sull’efficacia dei sofisticatissimi sistemi di rilevamento elettronico,

Dai sospetti di doping alla certezza degli affari: ormai nei Giochi trionfano dubbi e apparenze. Purché ci sia lo spettacolo

Da sinistra, in senso orario: il trionfo di Usain Bolt nei 100 metri; lo stadio di Pechino; Valentina Vezzali; il pugile Roberto Cammarelle; il recordman Phelps; Kobe Briant, oro nel basket; Francesca Pellegrini

atleta come Phelps, questi cortocircuiti economici-finanziari conducono sulla via del sospetti, del: mi devo fidare, ma forse sbaglio? È l’altra faccia dei Giochi, contraddizione perfettamente inserita in un Paese come la Cina, che adesso, soprattutto adesso, di contraddizioni vive, si nutre, cresce e progredisce. Del resto, come spiegare che dei 500.000 volontari costretti a fare poliziotti, accompagnatori, badanti e tutto quanto ruota intorno ad una Olimpiade, solo un 10% - stima generosa – parlava correttamente l’inglese?

Grande apparenza, mol-

olimpico in questo 2008: Michael Phelps, da Baltimora. L’uomo pesce, quello delle 14 medaglie d’oro, 6 ad Atene (con due bronzi) e 8 qui a Pechino, con il nuovo record strappato a Mark Spitz, il nuotatore statunitense che nel ’72 a Monaco stupì tutti vincendo 7 ori in piscina. Anche Phelps, tuttavia, non è immune da

anche in piscina. Solo un particolare: Phelps è uomo immagine proprio dell’azienda di orologi svizzeri, che con la storia del record e delle 8 medaglie d’oro, porta in giro per il mondo il nuotatore di Baltimora come un santo pagano. Cattiverie, certo, ma la domanda sorge spontanea: perché questo conflitto d’interesse non viene bandito dal Cio? Perché, di fronte ad uno straordinario

ta sostanza economica, poca coerenza e modernità di pensiero: Cina e Cio si sono abbracciati amorevolmente in questa ventinovesima edizione dei Giochi. Il governo dei cinque cerchi ha vietato il lutto alla Spagna dopo la tragedia dell’aeroporto di Barajas, dimostrando una miopia che solo le nomenclature più paludate conservano sen-


focus

za dubbi e senza angosce. Quello della Repubblica Popolare è andato giù con il machete per cancellare i dubbi e i sospetti sull’efficienza e la bravura dei cinesi. Targhe alterne per non paralizzare Pechino. Bombardamenti chimici alle nuvole, per fare o non far piovere e rinfrescare così l’aria. E soprattutto la marcia trionfale del medagliere: una cascata di ori che non ha eguali.

televisivi, i giornali. È Cina, ma nelle sue trasformazioni più intese e riuscite, diventa America, Stati Uniti. Come se il passato, anche recente, fosse un maci-

Come sarà Pechino tra un mese? Continuerà a essere soltanto un ”palcoscenico” allestito per i turisti occidentali?

Un trionfo programmato, studiato a tavolino, non perfettamente riuscito – qualcuno s’è perso, altri di sono infortunati – ma realizzato così in grande stile, da garantire – al netto degli imprevisti agonistici – una vittoria schiacciante sull’odiata armata sportiva americana. Contrasti: la Cina nemica degli States, salvo poi assorbire e realizzare tutto come si fa al di là del Pacifico: i centri commerciali, i colori delle macchine della polizia, i locali notturni, l’abbigliamento dei più giovani, gli studi

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gno da rimuovere con le ruspe che spianano la strada a nuovi insediamenti urbanistici, benedetti dai soldi versati copiosamente ai migliori architetti del mondo. Eppure, adesso che la torcia s’è spenta e che il grande circo dei Giochi fa le valigie, andando in letargo per 4 anni in attesa della rinascita a Londra nel 2012, sorge forte, potente, quasi inarrestabile la voglia di vedere come sarà Pechino tra qualche ora.

O come diventerà il 20 settembre, quando finalmente

tutti potranno riprendere la macchina senza guardare l’ultimo numero della targa. O, fatto ancora più importante, a che cosa penserà ora che i Giochi sono arrivati e soprattutto sono passati. Storie che potranno scoprire solo quelli che a Pechino torneranno presto. Tra questi, di certo, non i potenti del Cio. Loro hanno già la barra del loro vascello dorato

verso le sponde del Tamigi. In attesa di scoprire se Bolt sia un bravo ragazzo, un campione assoluto o un baro; se Phelps meriti o meno quel record di 8 ori;

se le vittorie cinesi siano state tutte sportivamente «assolute»; si va avanFati. cendo di conto sui soldi incassati, sugli affari conclusi, su un mondo che di sportivo ha soltanto il nome e la passione – quella sì, assoluta - della stragrande maggioranza degli atleti. Romantica pattuglia di lavoratori dei Giochi, pupi nelle mani sapienti e spregiudicate di un ristretto gruppo di dirigenti assai poco inclini agli scrupoli.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Franzoni fuori dal carcere per i figli.Giusto o sbagliato? NIENTE RISARCIMENTI: O DENTRO O FUORI Il fatto che Annamaria Franzoni accampi pretese personalistiche del tutto comprensibili su un piano emozionale non autorizza affatto deroghe di alcun tipo. L’enorme presa mediatica esercitata dalla donna, prima dark lady dalla psiche algida e contorta, poi madre disperata dalle pose tragiche degne della migliore produzione religiosa di Iacopone da Todi, non deve assolutamente influire o generare parziali eccezioni assai pericolose negli equilibri già di per sè precari della giustizia. Il fatto che la Franzoni sia ormai parte dell’immaginario femminile nazionale, o per molti l’emblema della mala giustizia, non deve dare adito a pratiche innocentiste o parzialmente escusatorie. Se i gradi di processo hanno stabilito la sua colpevolezza si tiri diritto e si lasci che l’imputata sconti la pena prevista. Se invece si reputa, come in realtà è emerso nel lungo iter giudiziario che non esiste la prova schiacciante che Annamaria abbia assassinato il figlio, allora la si scarceri. Non ha alcun senso trattare la donna come una vittima o come un’eroina sfortunata incastrata dal fato crudele. Nè è plausibile concederle prebende o benefici per via degli oscuri casi che l’hanno condotta allaa carcerazione. I figli sono

LA DOMANDA DI DOMANI

Il ministro dell’Istruzione lancia corsi speciali per gli insegnanti del Sud:siete d’accordo?

pezzi di cuore, per carità. Ma chi sbaglia paga, e chi non lo fa se li gode e se li cresce liberamente.

Giacomo Graditi Mantova

LASCIATELE FARE LA MAMMA PART TIME Francamente non vedo il motivo di tutto questo clamore. Una donna come Annamaria, ammesso e concesso che abbia davvero ucciso Samuele, sta subendo il carcere nonostante non esistano prove schiaccianti a suo carico. Il minimo che si possa fare è allora permetterle di vedere i suoi due figli. Non appena i periti psichiatrici avranno dato il loro placet sulle condizioni di salute mentale della donna, non vedo nessuna buona ragione perchè si possa proibirle di incontrare i suoi bambini. Ci pensate? Se davvero la Franzoni fosse innocente, e un giorno venisse fuori la verità provata che la scagionasse definitivamente dalle accuse, la donna avrebbe sprecato la sua esistenza in carcere e saremmo tutti a batterci il petto cercando di resituirle con parole smozzicate e imbarazzanti retrofront quello che nessuno potrebbe più ridarle. Le si lasci fare la mamma part time, che senso potrebbe mai più avere la sua vita ora che marcisce in prigione?

Giuditta Damiani Arezzo

PERCHÈ NON DECIDERE CON UN TELEVOTO? Che altro dobbiamo attenderci ancora dall’inesauribile vena creativa dell’istrionica Annamaria? Che il suo prossimo messaggio alla nazione venga trasmesso a reti unificate prima del tg? Con la perizia di un navigato ideatore di format, la donna ha intriso della sua vicenda spettacoli e salotti del palinsesto televisivo e tutte le volte che intende guadagnare qualcosa per sè sfrutta l’enorme credito di ascolti e share maturato nel corso degli anni. È lei il vero precursore del reality italiano ed è ora che il pubblico torni a casa e smetta di applaudire i suoi spettacolini. La realtà dura e nuda è che la Franzoni è stata giudicata colpevole, e nessuno può pensare di salvarla a colpi di televoto.

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

COSTITUENTE DI CENTRO: UTOPIA O REALTÀ? Quando fa particolarmente caldo, come in questa estate, mi capita, durante la notte, di sedermi nel terrazzo di casa mia in attesa di un alito di vento, di un filo d’aria fresca. Spesso attendo senza che accada nulla, e allora cerco conforto, quasi un refrigerio mentale, nella bellezza del cielo stellato. Ho davanti a me il Grande Carro e la vicina – si fa per dire – Stella Polare. Di fronte a quella immensità, sempre nuova e bella, mi perdo in pensieri di vario genere. Ieri sera, ad esempio, ripensavo alla campagna elettorale dello scorso aprile e al vigore e all’intensità con cui l’ho vissuta, alla convinzione ferma con cui proponevo l’Unione di Centro, all’entusiasmo che mai, anche nella stanchezza, mi abbandonava. Poi mi tornavano alla mente i contenuti, alti e nobili, del manifesto appello per la Costituente di Centro. Da lì è stato un attimo rivolgere il pensiero al seminario di Todi: quanti applausi

Riccardo Bastiani Catania

L’ULTIMO DEGLI SCIAMANI Uno sciamano esegue una purificazione rituale per Margarita Mbywangui, nativa del gruppo etnico degli Ache, nel corso di una cerimonia ad Asuncion. Mbywangui è stata nominata direttrice dell’Istituto nazionale per le popolazioni indigene (Indi), dal presidente del Paraguay Fernando Lugo.

REGIONE LAZIO: SENZA STIPENDIO DA DUE MESI Gentile redazione, siamo un gruppo di circa cinquecento dipendenti che lavora con differenti qualifiche (fisioterapisti, logopedisti, assistenti, psicologi, psicomotricisti, medici…) nel settore della riabilitazione ed assistenza ai disabili per il Consorzio Ri. Rei. (ex Associazione “Anni Verdi”) convenzionata con la Regione Lazio nei diversi presidi del territorio laziale. Come avvenne con la precedente Associazione, dopo un lungo periodo di difficoltà amministrative ed organizzative relative all’erogazione dei servizi, anche ora assistiamo ad un ritardo dei pagamenti, avendo percepito in data 22 agosto 2008 soltanto un anticipo dello stipendio di luglio 2008 con evidenti indizi di difficoltà

dai circoli liberal

scroscianti a quanti proponevano l’urgenza di andare oltre il cartello elettorale dell’Unione di Centro, aprendo quanto prima la fase della Costituente. Pensavo a tutto questo e mi compiacevo di aver trovato, dopo tanto peregrinare, la strada giusta. Poi, tutto ad un tratto, sono stato assalito da una afosa inquietudine, quasi che l’aria ferma che respiravo stesse prevalendo sul refrigerio che quel cielo stellato e quei pensieri riuscivano a procurarmi. Mi sono venute in mente le tante peripezie che si stanno alternando da qualche mese a questa parte. Guardo all’Umbria e vedo la diffidenza di una parte dell’Unione Democratici Cristiani a lavorare insieme per costruire questa nuova bellissima casa: appaiono sui giornali articoli in cui alcuni organismi dell’Unione Democratici Cristiani dettano una propria linea politica, infischiandosi di condividerla con le altre componenti dell’Unione di Centro; si affannano a creare nuove sovrastrutture di partito, anziché darsi da fare

economiche, da parte del Consorzio, che sembrano non avranno soluzioni prossime. Già nel 2006, in occasione della crisi della precedente Associazione, esitata poi in licenziamento in tronco di tutti i dipendenti, abbiamo lavorato quattro mesi senza percepire stipendio, prima che, dopo un lungo periodo di lotta, intervenisse la Regione Lazio, per cercare quella che poi ci è stata presentata come “la soluzione migliore”. A tutt’oggi rimaniamo creditori di più di due mensilità e liquidazione nei confronti dell’amministrazione precedente. Pertanto siamo sinceramente preoccupati per il futuro di tutti i dipendenti e di numerosi utenti che usufruiscono del nostro servizio.

Un gruppo di lavoratori del Consorzio Ri.

per aprire con sollecitudine i lavori della Costituente (nonostante l’apertura, la pazienza e le disponibilità mostrate in più occasioni dalla Rosa Bianca e dai Circoli liberal umbri). Va beh! Mi scuoto un attimo e mi scrollo di dosso tutte le angustie e le peripezie. Mi ridesto, rialzo gli occhi al cielo e immagino: forse Chianciano sarà il luogo dove verranno superate le ambiguità, qualcuno indicherà nella Costituente di Centro la Stella Polare e così potremo costruire il partito che verrà, che sarà un po’ come il Grande Carro. Qualcun altro ci dirà che bisogna partire subito perché la Stella Polare sembra vicina, ma per raggiungere il grande Carro Bisogna fare molta strada e, per non correre il rischio di perdersi, bisognerà farla in maniera accorta e intelligente. Se così non sarà, probabilmente continuerò respirare l’aria afosa e soffocante di una politica senza sbocchi per il futuro. Mauro Cozzari COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL DELL’UMBRIA


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Posso sentirti in ogni piccola cosa Cara, bella, lontana Caitlin amore mio, stai meglio e Dio volendo non sei troppo giù di corda in quell’orribile ospedale? Dimmi tutto, quando uscirai di nuovo, dove sarai a Natale, e che mi pensi e mi ami. E quando sarai di nuovo fuori, saremo tutt’e due operosi, se vuoi, trotteremo in giro, faremo cose, verremo a compromessi con quei Loro, troveremo a Bloomsbury un posto con un bagno e senza cimici, e là saremo felici. Ti amo così tanto che non sarò mai capace di dirtelo; mi spaventa dirtelo. Posso sempre sentire il tuo cuore. Le canzonette hanno sempre ragione: ti amo corpo e anima, e immagino che corpo voglia dire che voglio toccarti e stare a letto con te, e immagino che anima voglia dire che posso sentirti e vederti e amarti in ogni singola, minima cosa, in tutto il mondo nel sonno e da sveglio. Dylan Thomas a Caitlin Macnamara

TRENT’ANNI FA LA PREMATURA MORTE DI PAPA GIOVANNI PAOLO I Egregio direttore, trent’anni fa, il 26 agosto 1978, a Paolo VI subentrò il patriarca di Venezia Albino Luciani (Canale d’Agordo 1912- Roma 1978). Prese il nome di Giovanni Paolo I. Papa Luciani fu un pastore che non ha potuto andare oltre i primi passi del rinnovamento, della modernizzazione e della semplificazione voluti dal Concilio vaticano II voluto da Giovanni XXIII e portato avanti da Paolo VI. È stata drammatica la vicenda pontificale di questo papa: bonario, nemico del cerimoniale, abituato più ai fioretti, ai libri di devozione e al contatto coi suoi parrocchiani che a confrontarsi con una visione mondiale della cattolicità. Aveva, Luciani, scelto di darsi il nome dei suoi predecessori, li aveva eletti a modello del suo Regno, certo non nascondendosi che Giovanni e Paolo sono stati due papi, due sacerdoti e due uomini profondamente diversi tra loro, e comunque dotati di requisiti che non erano i suoi (”Absit iniuria verbis”). Forse, se il suo pontificato fosse stato più lungo di appena 33 giorni di distanza dalla sua rapida elezione, il ruolo stesso avrebbe fatto di Luciani un personaggio diverso, o forse no. Ma il papa che abbiamo fuggevolmente conosciuto

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

26 agosto 1789 - La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino viene approvata dall’Assemblea Costituente a Versailles 1839 - L’Amistad viene catturata al largo di Long Island 1920 - Il XIX emendamento della Costituzione Statunitense concede alle donne il diritto di voto 1939 - Roosevelt invia un messaggio ad Hitler proponendogli di intavolare trattative dirette con la Polonia 1880 - Guillaume Apollinaire, poeta francese († 1918) 1898 - Peggy Guggenheim, collezionista d’arte statunitense († 1979) 1903 - Peppino De Filippo, attore, comico e drammaturgo italiano († 1980) 1910 - Madre Teresa di Calcutta, religiosa albanese († 1997) 1974 - Junio Valerio Borghese, militare e politico italiano (n. 1906)

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

dai suoi discorsi, dal suo sorriso, dalle sue battute improvvisate, da quel suo stare semplicemente in mezzo alla gente, restarà nella memoria dei più come un intervallo. Giovanni Paolo I non ha lasciato eredità, nè avrebbe potuto.Tutto ricominciò, per la Chiesa, dalla morte di Paolo VI. Subito dopo venne, il 16 ottobre 1978, la ”fumata bianca” in piazza San Pietro, e alle 18 e 42 il cardinale protodiacono Pericle Felici, affacciato alla loggia della Basilica, annunciò il ”gaudium magnum”: e quindi sillabò il nome dell’eletto, Carolus Wojtyla, papa Giovanni Paolo II, che cambiò la faccia del mondo.

Angelo Simonazzi Poviglio (RE)

BASTA GIOCHI, A PECHINO SI PARLI DI DIRITTI UMANI Terminate le Olimpiadi di Pechino, si potrà nuovamente parlare solo ed esclusivamente delle incessanti violazioni dei diritti umani, che la cortina fumogena di una manifestazione sportiva, mai come quella di quest’anno improponibile ed ipocrita, sono state circonfuse di un alone mediatico volto ad occultarne la gravità con la retorica dei record e dei popoli amici. Basta sport. Adesso si parli di diritti.

Aldo Buscemi R e g g i o C a l a b r ia

PUNTURE Caro direttore, Bersani rivolto a Tremonti e con Bossi a fianco dice: «Lasciatela fare a noi la sinistra…». Ma la Lega è una costola della sinistra, o no?

Giancristiano Desiderio

La vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente ALBERT CAMUS

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

SEGUE DALLA PRIMA

La cautela non basta Con chi sta l’Italia? di Enrico Singer e la cautela è l’alternativa all’avventurismo, ben venga la cautela. Ma se non è altro che la copertura di una sostanziale debolezza dettata dalla paura del ricatto energetico che Mosca esercita su tutta l’Europa e sull’Italia in particolare, allora è il caso di uscire dagli schemi classici di chi - e Frattini è uno di questi - è convinto che la diplomazia sia soltanto e comunque arte della mediazione e del compromesso. Anche perché i primi a non seguire questo schema sono i russi che, anzi, considerano il soft power inseguito da una parte dell’Europa come il migliore alleato della loro politica di ricostruzione del potere perso dopo il crollo del Muro di Berlino e la disgregazione dell’impero sovietico. A Mosca la cautela dell’Italia e di altri Paesi della cosiddetta “vecchia Europa” è accolta come la manna dal cielo. È la prova che la politica di Putin ha margini di manovra. Oggi in Ossezia, domani in Abkhazia. Dopodomani, magari, in Ucraina.

S

Illudersi di convincere la Russia a rispettare le regole del diritto internazionale con gli inviti alla cautela, significa ignorare - o far finta d’ignorare - che il leader indipendentista dell’Ossezia del Sud, Eduard Kokoity, ha detto appena ieri che Tskhinvali, capitale della regione separatista, sarà «la Stalingrado del Caucaso». E che il presidente del Senato russo, Sergheij Mironov, ha detto che Ossezia e Abkhazia «hanno più diritto all’indipendenza di quanta non ne avesse il Kosovo». Il rico-

noscimento, nell’aprile scorso, dell’indipendenza del Kosovo da parte della Ue - Italia compresa - è stata per Mosca un affronto nei Balcani da vendicare nel Caucaso. Con l’obiettivo, tra gli altri, anche di riaprire le divisioni nel fronte europeo.

Il vertice straordinario che Nicolas Sarkozy ha convocato per lunedì prossimo a Bruxelles, è stato chiesto dalla Gran Bretagna, dalla Polonia e dalle tre Repubbliche baltiche (ed ex sovietiche) di Lituania, Estonia e Lettonia: la pattuglia di punta della ”nuova Europa” alla quale si è aggiunta la Germania, che è il Paese più dipendente dai rubinetti del gas russo, ma che è anche il più irritato dalle bugie di Putin sul ritiro delle truppe russe dalla Georgia. Questi Paesi stanno già spingendo perché dal vertice esca una posizione più forte di quella seguita finora. Non per «isolare la Russia» - che è il pericolo denunciato dai teorici della cautela per giustificare la linea morbida ma per far capire al Cremlino che il crollo dell’Urss ha disegnato confini che non si possono rimettere in discussione con la forza. E che le dispute vanno affrontate con i negoziati. Qualunque esito avrà la corsa alla Casa Bianca, gli Stati Uniti non cambieranno l’asse portante della loro politica estera. E se Putin adesso sta sfruttando l’oggettiva debolezza del clima elettorale, questa svanirà il giorno dopo il voto. La debolezza dell’Europa rischia di durare più a lungo. Ma, intanto, dobbiamo scegliere da quale parte stare.

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PAGINAVENTIQUATTRO Domani comincia la Mostra al Lido con quattro italiani in concorso

La rinascita del nostro cinema passa per

Qui accanto, il manifesto di ”Burn After Reading”, il film dei Fratelli Cohen che apre la Mostra del cinema di Venezia. In basso, una parata di Leoni d’oro

di Francesco Ruggeri arco Muller, direttore artistico della Mostra di Venezia dal 2004, è stato chiaro. L’edizione n. 65 del Festival ( da domani fino al 6 settembre) avrà una parola chiave sola: nomadismo. Ergo, cinema nomade, sfuggente e mutevole. Insomma, dovremmo armarci di buona volontà e metterci sulle tracce di sguardi in fuga dal centro: la gestione mulleriana non ha mai fatto mistero di prediligere il cinema partorito lontano dall’Occidente. Ad aprire le danze dopo la cerimonia d’apertura saranno i fratelli Coen di Burn After Reading, presentato fuori concorso e interpretato da due star che scateneranno flash fotografici e resse a non finire. Parliamo di Brad Pitt e George Clooney, attesi sulla passerella del Lido come apripista d’eccezione.

M

Per quanto riguarda il concorso, anche quest’anno le attese si concentrano sull’attesa rinascita del cinema italiano che, ripartito alla grande con gli exploit di Gomorra e Il divo, si affida ora alle mani dei quattro registi in gara. Si comincia con l’instancabile Pupi Avati de Il papà di Giovanna che torna nella natia Bologna degli anni Trenta, mettendo però da parte nostalgie a fior di pelle e dolcezze malinconiche. Stavolta il regista bolognese racconterà un terribile fatto di sangue nato fra le mure domestiche. Fra gli interpreti segnaliamo Alba Rohrwacher (nuova promessa del cinema italiano, vista di recente in “Riprendimi”), Francesca Neri e un anomalo Ezio Greggio per la prima volta lontano dalla commedia. È poi la volta di un graditissimo ritorno, quello di Pappi Corsicato. Dopo essere stato negli anni Novanta uno dei maggiori rappresentanti della scuola napoletana insieme a Mario Martone e Antonio Capuano, Corsicato era sparito. Ora torna con Il seme della discordia, divertente e bizzarra riflessione sui rapporti di coppia e sul tradimento. Il cast? Alessandro Gassman, Caterina Murino (per intenderci, la Bond Girl di Casino Royale) e Isabella Ferrari. Uno dei film più attesi, senza dubbio. Arriviamo poi a Marco Bechis, applauditissimo dalla critica ai tempi di Garage Olimpo e Figli. Con La terra degli uomini rossi – Birdwatchers il cineasta italo-cileno adotta il punto di vista degli indios e racconta il lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero. Gli attori? Tutti rigorosamente non professionisti. Quarto e ultimo film italiano inserito nel concorso principale, Un giorno perfetto. A dirigerlo è il turco Ferzan Ozpetek i cui crediti dopo il successo di Saturno contro sono saliti alle stelle. Le prime indiscrezioni parlano di un film to-

VENEZIA? talmente diverso dai suoi precedenti. Ci sono un padre di famiglia (Valerio Mastandrea), una moglie infelice (Isabella Ferrari) e due figli. Le assi familiari cominciano a scricchiolare e la tragedia si fa inarrestabile.

Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia, di spunti più che interessanti pure. Chissà che in quest’edizione il nostro cinema non faccia il colpaccio. Incrociamo le dita… Veniamo allora ai restanti film in gara. Ci aspettiamo moltissimo dall’esordio alla regia di Guillermo Arriaga (celebrato sceneggiatore di Le tre sepolture e Babel) che con The Burning Plan racconta il riavvicinamento fra madre (Kim Basinger) e figlia (Charlize Theron). Un duetto al femminile che promette scintille. Attesissimo poi il ritorno di Kathrin Bigelow, ex moglie di James Came-

anche stavolta, stando almeno a quello che si vede sulla carta. Segnaliamo in primis la presenza in concorso di Hayao Miyazaki (La Principessa Mononoke, La città incantata), maestro dell’animazione nipponica già vincitore del Leone d’Oro alla carriera. Il film che porterà al Lido sarà Pony on Cliff by the Sea interamente ambientato in acqua. Una scommessa proibitiva anche per un maestro come lui. Ma siamo sicuri che la spunterà. È poi la volta di Takeshi Kitano che da qualche anno a questa parte non manca più un appuntamento con la Mostra veneziana. Il suo Achilles and the Tortoise - riflessione anomala e pungente sulle contraddizioni dell’ispirazione artistica - promette ancora una volta grandi cose. Il concorso (rimpolpato da altre opere attese come Inju, la Bête dans l’ombre di Barbet Schroeder e Vegas: Based on a True Story diretto dall’iraniano/ newyorkese Amir Naderi) è più o meno questo. Il biglietto da visita ci pare degno di nota, soprattuto nella capacità di bilanciare con intelligenza narrazione classica e arditezza sperimentale, azzardo ribelle e compostezza di largo respiro.

C’é grande attesa per i nuovi film di Pupi Avati, Pappi Corsicato, Marco Bechis e Ferzan Ozpetek. Ma domani sarà la giornata delle star, con George Clooney e Brad Pitt in passerella ron, che dopo una pausa durata sei anni torna con The Hurt Locker, storia di un team di soldati impegnati in una missione a dir poco rischiosa in Iraq. Altro asso calato da Muller è il Jonathan Demme di Rachel Getting Married, psicodramma a forti tinte vissuto da un’intensa Anne Hathaway nei panni di una modella tossicomane. Il Lido si tingerà poi di rosso (sangue) con le imprese del Mickey Rourke di The Wresler, lottatore alle prese con la violenza di uno sport proibitivo. Il regista, Darren Aronofsky, aveva fatto ben sperare con Requiem for a Dream, per poi deludere terribilmente con l’hollywoodiano The Fountain. Lo aspettiamo al varco.

Diamo infine un’occhiata agli asiatici in gara. Qualità e quantità


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