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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Testamento biologico, parla il presidente di “Scienza e vita”

e di h c a n o cr

Possono gli uomini decidere di anticipare la morte?

di Ferdinando Adornato

colloquio con Maria Luisa Di Pietro di Francesco Rositano l testamento biologico è un grande inganno travestito da libertà: ha l’unico effetto di accelerare la morte facendola passare come un’autonoma scelta dell’individuo. Ed espropria il medico della sua facoltà di spendersi per il bene dell’ammalato in virtù del suo dovere professionale. Non ha dubbi Maria Luisa Di Pietro, uno dei due presidenti di“Scienza e Vita” che ribadisce la contrarietà dell’associazione nei confronti di una legge sul testamento biologico. E smentisce l’idea filtrata nei giorni scorsi di un’eventuale apertura dell’organizzazione a questo strumento giuridico. Un’ipotesi che ha creato un vero e proprio terremoto interno, provocando le dimissioni di Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica. «Sono già due anni e mezzo – precisa la Di Pietro - che ribadiamo il nostro punto di vista e non intendiamo cambiare linea. Ci spiace che ne sia filtrato un altro». Dopo le precisazioni, afferma la disponibilità di “Scienza e Vita” a dibattere sull’eventualità di una legge sulla tutela della vita umana in condizioni di malattia inguaribile e di grande disabilità. Con una condizione precisa: «Deve essere un provvedimento che ribadisca il principio di indisponibilità della vita umana e sgombri il campo da qualsiasi equivoco. Soprattutto dal più pericoloso: un’apertura implicita a qualsiasi forma di eutanasia, attiva o passiva».

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9 771827 881004

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ISSN 1827-8817

L’ITALIA E PUTIN Diecimila morti e quarantamila profughi in Ossezia, mentre i russi sono alle porte di Tbilisi. Il nostro governo non può fare molto per fermare lo zar di Mosca, ma una cosa importante Berlusconi la può fare: dire pubblicamente di non considerare più un “amico” il nuovo Breznev che massacra i georgiani e mette a rischio il mondo

Ancora amici? alle pagine 2, 3, 4 e 5

se gu e a p ag in a 7

Spopolano gli alberghi diffusi

Il ballottaggio in Bolivia

I vigliacchi della storia

Un referendum senza vincitori

Badoglio e la morte della politica

di Massimo Ciullo

di Aldo G. Ricci

di Alessandro D’Amato

di Roselina Salemi

Non ha né vinti né vincitori il referendum revocativo di domenica scorsa in Bolivia. La spunta il presidente Evo Morales che, però, non indebolisce l’opposizione.

Il nome di Badoglio è legato a uno dei momenti più tragici della nostra storia, l’8 settembre del ’43, sinonimo del disfacimento dello Stato e dell’esercito. Da allora si parlò di ”morte della patria”.

In tempi di Olimpiadi l’inflazione batte un altro record. A luglio ha raggiunto il massimo da giugno 1996, con un incremento del 4,1% rispetto all’anno scorso e dello 0,5 su base mensile.

Non li trovate sulle guide. Gli “alberghi diffusi” si affidano al passaparola. E rappresentano un modo diverso di andare in vacanza, oggi molto in tendenza. Un po’ cheap, un po’ chic.

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nell’inserto liberal estate

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MARTEDÌ 12 AGOSTO 2008 • EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

Gli alimentari a + 6,1%, il pieno a + 16,6%

Pane e benzina, prezzi da record

• ANNO XIII •

NUMERO

152 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Tutti pazzi per le vacanze in ”low hotel”

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 12 agosto 2008

E’ l’unica cosa che può fare Berlusconi di fronte all’imperialismo di ritorno dello zar di Mosca

Rompere l’amicizia con il nuovo Breznev di Riccardo Paradisi ilvio Berlusconi è molto preoccupato per la guerra in Ossezia del Sud. Preoccupato per l’escalation del conflitto, per le sue implicazioni internazionali, per le complicazioni energetiche che genera, preoccupato del fatto che per lui, come ha sempre tenuto a far sapere, Vladimir Putin è un amico, ”l’amico Putin”. Ora c’è chi al Cavaliere chiede di far pesare questa sua amicizia, di ricordare all’amico Putin che certe cose non si fanno e soprattutto che non si fanno nel modo in cui le sta facendo l’autocrate russo.

e sproporzionata. Miope a sua volta, come fanno notare analisti e osservatori, perché il risultato della durissima rappresaglia putiniana sulla piccola Georgia non avrà come risultato che quello di compattare contro ”la Russia imperialista” Nato Ue e Stati Uniti. «L’obiettivo della Russia non è l’Ossezia del sud che è nulla di più di che un villaggio – dice il presidente georgiano Micheil Saakahvili – ma tutta la Georgia e la sua rotte energetiche e non si fermerà finchè non ci avrà conquistato». Un grido di allarme quello del presidente georgiano che ha l’obiettivo appunto di mobilitare Stati Uniti, Nato e Unione europea, alla causa georgiana.

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Che alla velleità e all’irresponsabilità politico militare della Georgia (penetrata incautamente nell’Ossezia del sud per ristabilire lo status quo antecedente al 1992 compromettendo così la possibilità di avvicinarsi in tempi brevi alla Nato e all’Unione europea)– sta rispondendo nello stile che fu dell’Unione sovietica. Con una proiezione di violenza inaudita

Ma in questo grande gioco internazionale, dove gli attori attivi nel dramma sanno ognuno quale ruolo vestire, l’Italia appare ancora una volta ondivaga e confusa. Il premier Silvio Berlusconi telefona al’amico Putin per dire che occorre una tregua e che meglio sarebbe

Il governo georgiano firma la tregua davanti al ministro Kouchner, ma la Russia entra nel Paese. Oltre 10mila vittime e 40mila sfollati

L’esercito ad un passo da Tbilisi di Vincenzo Faccioli Pintozzi a differenza è nei gesti, compiuti in quasi assoluta sincronia. Mentre il presidente della Georgia Mikhail Saakashvili firmava la tregua con la Russia sotto gli occhi del ministro francese degli Esteri Kouchner, il suo omologo russo Dmitri Medvedev dichiarava: «La maggior parte dell’operazione per costringere la Georgia alla pace è stata portata a termine». E a fine giornata rinnegava il patto siglato con la benedizione dell’Ue. Tregua o non tregua, i militari russi sono comunque entrati a Gori, città natale di Stalin e fuori dall’Ossezia, in pieno territorio georgiano ed a 90 chilometri dalla capitale Tbilisi. In risposta, il ministro degli Esteri della Georgia non sarà oggi all’incontro Nato. econdo Medvedev, «i peacekeeper russi continueranno a proteggere i loro concittadini. Faremo anche in futuro tutto il possibile per difendere la vita e la dignità dei cittadini russi». Alle dichiarazioni del leader del Cremlino ha risposto Saakashvili, che nel corso di una conferenza stampa ha

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sottolineato come il 90 % delle vittime di questo scontro è composto da civili.

«L’ho visto con i miei occhi - ha detto ed ora, in nome di Dio, imploro la comunità internazionale di fermare la Russia. L’obiettivo di Mosca non è l’Ossezia del Sud, ma tutta la Georgia e la sua rot-

della Difesa russo ha definito «il fuoco separatista». Il generale Alexander Novitsky, comandante del contingente d’interposizione russo, ha confermato lo schieramento in zona di un’intera sotto-divisione di paracadutisti, per un totale di oltre 9mila uomini, che conta sulla protezione di oltre 350 mezzi co-

Secondo lo storico Usa Robert Kagan, l’attacco alla Georgia è paragonabile alla caduta del Muro di Berlino. Putin vuole dimostrare che Mosca è tornata sulla scena ta energetica. Non si fermerà finché non ci avrà conquistato». Nel frattempo, sono già accertate 10mila vittime e 40mila profughi. Le operazioni militari sembrano lontane dall’essere risolte: truppe russe sono entrate in Georgia, ed hanno occupato una caserma nei pressi dei confini dell’Abkhazia, la provincia georgiana filo-russa. Questo per dimostrare che Mosca non ha intenzione di vedere spegnere quello che il ministro

razzati. Secondo lo storico americano Robert Kagan, alla luce di questa escalation militare, il mondo si trova davanti ad una situazione paragonabile alla caduta del Muro di Berlino. In un articolo apparso ieri sul Washington Post, il più eminente politologo Usa scrive infatti: « La crisi di questi giorni è stata voluta dal premier russo Vladimir Putin per segnalare il ritorno di Mosca sulla scena internazionale. L’8 agosto segna il

ritorno della storia a uno stile quasi da 19mo secolo di competizione tra grandi potenze, completo di nazionalismo virulento, battaglie per le risorse, lotta su territorio e sfere d’influenza e - anche se questo può scioccare le nostre sensibilità da 21mo secolo - l’uso di potere militare per ottenere obiettivi geopolitici». I leader della comunità internazionale sembrano pensarla allo stesso modo. Al di là degli avvertimenti lanciati dal presidente statunitense George W. Bush, si sono pronunciati contro l’uso eccessivo della forza la Cancelliera tedesca Angela Merkel, l’Unione europea, il Papa ed il Dalai Lama.

Tuttavia, Mosca non ha gradito quella che definisce «un’interferenza indebita». Secondo il vice presidente dello Stato maggiore russo Anatoli Logovitsin, le forze militari del Cremlino «terranno sotto controllo attentamente il trasporto di militari georgiani con aerei Usa. Siamo pronti a reagire in modo adeguato».


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Il presidente Bush: ripercussioni a lungo termine

Sovranità limitata e Guerra Fredda Il mondo torna indietro di Enrico Singer uattro giorni di combattimenti e di morte in un angolo sperduto - e da molti, finora, ignorato - del Caucaso, hanno riportato il mondo ai momenti più aspri della Guerra Fredda. Per ritrovare i toni dello scontro tra l’ambasciatore russo e quello americano all’Onu bisogna tornare ai giorni delle invasioni sovietiche dell’Ungheria, nel 1956, o della Cecoslovacchia, nel 1968. E l’avvertimento di Bush a Putin sulle «ripercussioni a lungo termine» che la crisi potrebbe avere sui rapporti tra Washington e Mosca è altrettanto significativo. Ma quanto sta succedendo tra le montagne dell’Ossezia del Sud e in Georgia - e che potrebbe ancora succedere in Abkazia o in altre regioni contese - riporta a un passato anche più lontano: alla costruzione dell’impero zarista che la rivoluzione del 1917 prima dissolse in nome della libertà dei popoli e poi immediatamente ricostruì anche con la forza della neonata Armata Rossa. Con tutte le differenze determinate dal nuovo contesto ideologico, economico e strategico, la strada imboccata da Vladimir Putin ha un percorso comune con le scelte di Lenin e di Stalin nei primi anni di vita dell’Urss. Allora, svanita l’illusione di uno spontaneo ingresso nella nuova “unione delle Repubbliche socialiste sovietiche”di tutti i Paesi che si erano ritrovati indipendenti grazie alla fine degli zar, l’impero fu riconcquistato con la forza fino ai suoi confini più estremi. Lenin affidò proprio al georgiano Josip Vissarionovic Dzhugashvili - Stalin, ”acciaio”, era il suo nome di battaglia - il compito di costruire lo Stato federale bolscevico e, nel caso della Georgia, la soluzione fu, come per molti altri ex Paesi dell’impero, l’invasione militare in appoggio ai leader comunisti locali. L’Armata Rossa entrò a Tbilisi il 25 febbraio del 1921. Quando si parla di colonialismo, il pensiero corre subito all’Africa o al Medio Oriente e alle frontiere tracciate con la riga sulla carta geografica, dividendo popoli ed etnie, che ancora oggi sono alla base di tanti conflitti. Ma pochi ricordano l’espansione della Russia zarista che, in meno di duecento anni, riuscì a costruire il Paese

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I soldati dell’Armata Rossa sfilano a Tblisi. È il 25 febbraio del 1921: l’indipendenza georgiana è durata meno di quattro anni

che le armi tacessero. Non va oltre. Non fa il necessario passo successivo e cioè dire chiaramente a Putin, con la chiarezza anche brutale che si usa tra amici, che le amicizie si possono anche rompere. Sarebbe un gesto molto forte in questo momento, con una valenza politica certamente superiore al peso minimo che l’Italia si trova ad avere in questa partita internazionale che la vede coinvolta senza essere protagonista. Per il suo peso specifico di media piccola potenza in primo luogo e perchè anche all’interno della maggioranza esistono analisi molto diverse della crisi tra Georgia e Russia. Divergenze che vedono da una parte il Pdl su posizioni attendiste e prudenti mentre la Lega schierata a fianco dell’indipendentismo georgiano. All’interno poi di queste divisioni esistono ulteriori sfumature: lo stesso neutralismo governativo appare infatti incerto e tentennante. Il ministro degli esteri Franco Frattini si rimette all’Unione europea («Se la presidenza francese dell’Ue dopo la missione del ministro Bernard Kouchner a Tblisi e a Mosca dovesse decidere di affiancare le forze di mosca che presidiano l’Ossezia del sud anche l’Italia manderà le sue truppe) dall’altra però raccomanda prudenza: una coalizione antirussa – dice infatti il titolare della Farnesina – sarebbe molto negativa per tutta l’Europa e sarebbe pericoloso se passasse la proposta polacca ceca, lituana ed estone di convocazione di un consiglio straordi-

nario dei capi di Stato e di governo europei che punti a una condanna della Russia. Ma se il ministro degli esteri ragiona così autorevoli esponenti di An sono invece convinti che la situazione in Ossezia imponga un intervento deciso dell’Unione europea affinchè si ponga fine agli scontri armati e si negozi lo status di una regione con caratteristiche particolari. Chissà se la decisione dei presidenti di Camera e Senato di convocare d’urgenza le commissioni esteri riunite sarà un’occasione per capire quale posizione ufficiale l’Italia intenda assumere sulla questione russo-georgiana.

La politica estera della pacca sulla spalla è ormai del tutto inadeguata di fronte allo scenario drammatico di oggi

Quello che è certo è che la diplomazia informale delle pacche sulle spalle, finora tenuta da Berlusconi con i premier internazionali e in particolar modo con Putin, se ieri ha avuto un suo senso oggi rischia di apparire patetica. E non basta una telefonata moderatamente dissuasiva per far cessare la controffensiva russa in Georgia. «La storia – avvertiva ieri l’analista americano Robert Kagan sul Washington Post – torna a uno stile da diciannovesimo secolo, di competizione tra grandi potenze, di nazionalismo virulento, di battaglie per le risorse, di lotta su territorio e di sfere d’influenza. Dell’uso di potere militare per ottenere obiettivi geopolitici». Una politica che non si fa al telefono nè sulla Costa Smeralda davanti a un barbecue mentre si cantano canzoni napoletane.

più grande del pianeta. Che Putin, adesso, cerca di riportare al rango di superpotenza nella sua visione del mondo che è, sostanzialmente, bipolare. Da una parte la Russia, dall’altra gli Usa. Non più opposti in nome del comunismo e del capitalismo, ma in competizione a colpi di sfere d’influenza e di forniture di petrolio e di gas. La Russia post-sovietica, dopo la caduta del muro di Berlino e il dissolvimento del regime, ha già perso pezzi importanti della ”fascia esterna” suo ex impero - dalla Polonia, all’Ungheria, alla Bulgaria, alla Romania ha dovuto rinunciare anche alle tre Repubbliche baltiche, ma considera ancora aperta la partita in Ucraina, in Georgia e in Azerbaigian. E il Caucaso è la chiave di volta di quest’area. Nella sua spietata logica del divide et impera, Stalin realizzò, anche attraverso deportazioni di intere popolazioni, una costruzione dell’Urss in cui ogni Repubblica aveva al suo interno delle disomogeneità etniche che ne minavano le possibili aspirazioni d’indipendenza moltiplicando i contrapposti nazionalismi e lasciando a Mosca il ruolo di unico padrone della grande madre Russia. L’esito finale dello scontro nel Caucaso non è ancora scontato. Ma il comportamento di Putin ha già definito alcuni punti importanti. Il primo è che l’unilateralismo di Mosca ha metodi assai più spicci dell’unilateralismo rimproverato a Bush che - per esempio nel caso dell’Iraq - ha deciso l’intervento dopo indagini e risoluzioni dell’Onu e non dopo una telefonata con Dmitri Medvedev. Il secondo è proprio il ruolo di assoluta subordinazione del presidente russo ufficiale che nel conflitto con la Georgia è letteralmente sparito di fronte a Putin. Il terzo è il disegno complessivo del recupero di potenza per la Russia. Dopo la liquidazione del regime da parte di Michail Gorbaciov e l’incerta innovazione di Boris Eltsin, Vladimir Putin sta giocando una partira che ricorda quella di Leonid Breznev dopo il ciclone della destalinizzazione di Krusciov. Non a caso la restaurazione brezneviana poggiava sulla dottrina della ”assistenza fraterna”ai Paesi comunisti che giustificò l’invasione della Cecoslavacchia.

La ricostruzione dell’impero, prima zarista, poi comunista, è l’obiettivo di Mosca Al prezzo di un nuovo scontro ideologico


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Il nuovo confronto fra Mosca e Washington non replica lo scontro ideologico, ma si gioca soprattutto in campo economico ed energetico

La guerra del gas di Antonio Picasso arlare di Guerra Fredda può essere utile per inquadrare gli scontri in Ossezia nel contesto internazionale. Tuttavia, le differenze con il confronto bipolare tra est e ovest della seconda metà del Novecento non vanno dimenticate. Il rischio altrimenti è che tutto si riduca a un déjà vu. I fatti del Caucaso, invece, vanno interpretati come l’ultima di una fase in cui la Russia si è impegnata a risollevarsi da un periodo di crisi e a restaurare la sua immagine di superpotenza mondiale. Di fronte a questo quadro, è interessante notare come l’Occidente si stia rendendo conto solo ora di quanto sia avanti il cammino del nuovo imperialismo russo. Dopo la battuta d’arresto in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica, negli anni Novanta, il Cremlino – guidato da un freddo e determinato presidente quale è stato Vladimir Putin – è tornato lentamente a ricostruire la propria rete di potere. Stavolta però, a differenza della Guerra Fredda, quando il confronto si dimostrò essenzialmente strategico-militare, i campi di intervento sono differenti tra loro e includono settori fondamentali dell’economia mondiale. Per esempio quello energetico. In nome di un nuovo imperialismo, Mosca ha avviato una politica estera spregiudicata e a 360 gradi. Mostrando muscoli del tutto nuovi per una potenza storicamente forte soprattutto sul piano territoriale e militare, ha calato l’asso delle risorse energetiche sul tavolo dell’economia internazionale e, di conseguenza, della diplomazia. Petrolio, gas e pipeline sono diventati oggetto di contrattazioni, ma anche strumenti di ricatto. È il caso dell’Ucraina. Nell’inverno 2005-2006, quando la Gazprom chiuse i rubinetti del gas a Kiev, la prima a temere di resta al buio e al freddo fu l’Europa, la quale assecondò le volontà provenienti dall’est.

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Contemporaneamente Mosca ha voluto confrontarsi con i giganti dell’Asia, Cina e India in particolare, percependo la loro crescita economica, militare e quindi geopolitica. Pur conservando la sua tradizionale visione eurocentrica, il Cremlino è tornato a interessarsi sensibilmente delle questioni asiatiche. E nel 2001, anno della fonda-

zione del “Gruppo di Shanghai”, è entrato a far parte della Sco, l’organizzazione che riunisce i maggiori Paesi dell’Asia centrale e meridionale per una politica di sicurezza comune. Infine, si aggiungono le rinnovate ambizioni in America centrale e meridionale. Straordinariamente rievocativo è il progetto di Mosca di riaprire una sua base aerea a Cuba. Ma altrettanto interessanti sono le nuove relazioni tra Mosca e il Venezuela. L’intero complesso di queste operazioni confermerebbe che la Russia intende riaprire lo scontro con gli Stati Uniti. Quel che è sorprendente, invece, è come, nel corso dei suoi otto anni

Il Cremlino ha avviato una nuova politica estera. Petrolio, gas e pipeline sono diventati oggetto di contrattazioni. E strumenti di ricatto di Presidenza, Putin si sia non solo confrontato ma anche ispirato agli Usa. Infatti, parallelamente alla lotta contro il terrorismo intrapresa da questi ultimi, Mosca ha portato avanti le sue guerre preventive. Sventolando anch’essa la bandiera del pericolo del fondamentalismo islamico, ha cercato di sedare e reprimere le derive centrifughe delle province caucasiche. L’esempio, questa volta, giunge dalla Cecenia. Così facendo, si è posta sapientemente al fianco dell’Occidente, evitando qualsiasi attrito. Oggi, il fatto che l’Onu non abbia raggiunto una risoluzione, dopo tre giorni dall’inizio degli scontri in Ossezia, dimostra come sul piano internazionale il Cremlino sia riuscito a sfruttare il disinteresse, o la disattenzione, praticamente di tutti i governi di fronte alla sua strategia. D’altra parte, non è un caso che da Washington sia giunta la condanna più ferma contro la nuova guerra nel Caucaso. Gli Usa sono gli unici davvero interessati affinché da questa crisi non nasca una seconda Guerra Fredda. Non possono dimenticarsi dei 2mila uomini inviati dalla Georgia in Iraq e del processo di integrazione del governo di T’bilisi nella Nato. Inoltre,

le tanto criticate basi missilistiche in Europa orientale oggi troverebbero una motivazione. Cosa di cui prima la Russia lamentava l’esistenza.

Le ripercussioni di lungo periodo, paventate dal Presidente Bush sull’iniziativa militare di Mosca, fanno pensare che la questione non si concluderà con l’auspicato cessate il fuoco. La prima superpotenza mondiale, infatti, non può permettere che un suo rivale possa agire in questo modo, anche se siamo a un passaggio di consegne della leadership. Ecco che allora potrebbero tornare a presentarsi gli scenari della Guerra Fredda. A tutt’oggi però, se c’è una verità che la crisi caucasica ha messo in luce non riguarda tanto la politica estera russa, bensì il suo artefice. Nonostante da cinque mesi, il Cremlino abbia un nuovo leader, Dimitri Medvedev, sembra che lo scettro a Mosca sia ancora nelle mani di zar Putin, veterano dello scontro fra blocchi. Analista Ce.S.I. Centro Studi Internazionali

Un Paese destabilizzato dalla fine dell’Urss roducendo beni di lusso per l’Urss: vini, agrumi, prodotti agricoli, la Georgia era una delle repubbliche più prospere dell’Unione. Merci facili da monetizzare nell’economia socialista davano vita ad un mercato parallelo caratterizzato, oltre che da domanda e offerta, da corruzione. Difficile definire il degrado del livello di vita seguito alla fine del comunismo. Oltre alla crisi economica, un’altra conseguenza del disfacimento sovietico è importante per capire lo stato attuale della Georgia. La disintegrazione delle sue strutture. Strade impercorribili, otto ore di macchina e 12 di treno per percorrere 300 chilometri. Telefonia fissa inesistente al punto da rendere impossibili chiamate tra quartieri. Energia elettrica distribuita a caso. In media 6 ore al giorno d’estate e 4 d’inverno. Uno sfascio accentuato da guerre civili, vandalismi criminali e corruzione amministrativa. Nel 1995 il ministero dei trasporti “vende” alla Turchia migliaia di vagoni ferroviari. Lo stesso avviene, nel ’94/95 con parte della flotta. Insieme al disprezzo totale verso la legge tipico dell’Urss, ciò fa si che i rapporti centro periferia siano sosti-

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tuiti da frazionamenti territoriali nei quali gli interessi familiari vengono prima di quelli dello Stato e di qualsiasi altra entità giuridica. Con il centro incapace di dare ai territori motivi sufficienti al ristabilimento della sovranità. A questa dinamica di dislocazione territoriale, avvenuta indipendentemente da ogni intervento di soggetti esterni, si sommano elementi – etnici, militari, zone frontaliere - peculiari alle altre regioni. Gli azeri – cittadini georgiani di nazionalità azera – pur volendo mantenere i propri particolarismi, non cercano la secessione. Stabilizzazione georgiana e cessate il fuoco nel Nagorno Karabach spingono alla lealtà.

Gli armeni invece preferiscono l’instabilità. Nel 1998 il capo dell’amministrazione locale favorevole alla chiusura della base militare russa di Akhalkalaki viene attaccato. Manifestazioni pro russe anche nel 2002: si teme che i soldati di Mosca siano sostituiti da militari turchi della Nato. Il governo centrale di Erevan non appoggia tali spinte preferendo buone relazioni con Tblisi. Abkhazia e Ossezia del sud, per l’Onu Stati


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Saakashvili sa che la sua unica speranza viene da Bruxelles

Ue ”vaso di coccio” fra Russia e Usa di Carlo G. Cereti opo i Balcani il Caucaso. Quanto sta accadendo in questi giorni in Georgia è un ulteriore frutto del disfacimento di quello che solo vent’anni fa era il secondo polo del mondo bipolare, avversario acerrimo dell’Occidente, ma al tempo stesso, garante dell’equilibrio globale. Sarebbe, però, un errore vedervi solo un ultimo sussulto del gigante ferito, al contrario sembra essere l’araldo di un nuovo atteggiamento del Cremlino, volto ad asserire la sua forza in un mondo multipolare, nel quale gli Stati Uniti sono destinati a giocare un ruolo importante, ma certo non egemone. L’Europa non può rimanere muta spettatrice, ma deve agire con determinazione per garantire l’indipendenza e l’integrità territoriale della Georgia e, con esse, i suoi interessi. La crisi di questi giorni ha riportato al centro dell’attenzione mondiale un piccolo popolo dalle antiche tradizioni. Gli osseti, una popolazione di stirpe iranica, eredi dei Saka delle steppe eurasiatiche sono una popolazione di grande interesse per lo storico delle religioni e per il linguista, guardiani di una ricca mitologia che, pur adattandosi alle nuova fede cristiana, ci conserva il ricordo delle saghe dei Narti, eroi d’ascendenza indoeuropea i cui miti suonano familiari a chiunque abbia dimestichezza con l’antichità classica o le saghe dei germani. Nel 1936 Josif Stalin, originario di Gori, creò dalla Transcaucasia tre distinte repubbliche: l’Armenia, l’Azerbaijan e la Georgia.

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di fatto, rappresentano un’altra questione. Due entità andate “più avanti” delle altre, per ragioni che non sono solo economiche o sociali. Come nei Balcani, anche nel Caucaso la memoria di massacri e deportazioni passate, vive ancora. L’identità abchaza è quella di un popolo strattonato tra gli interessi delle potenze vicine, Russia, impero Ottomano e, in seguito, Georgia. Il fatto di essere diventato protettorato russo è accettato dalla popolazione solo in quanto “male minore”. Lo sconvolgimento delle guerre mondiali, aumentando il miscuglio delle popolazioni, fa si che gli abkhazi si sentano più a loro agio nel modello federale russo con le sue differenti nazionalità che in una Georgia indipendente. Nonostante la guerra attuale l’Ossezia del sud è meno importante dell’Abkhazia. La “rotta militare caucasica”, da Tblisi a Vladikavkaz, è in disuso. Sukhumi, a differenza dell’Abkhazia sempre più integrata alla Russia, era vicina al polo economico regionale di Tblisi. Finora si riteneva che, anche in mancanza di soluzioni politiche, l’Ossezia del sud sarebbe rimasta legata a Tblisi. Una previsione che da venerdì non è più Francesco Cannatà valida.

se, e che hanno approfittato dell’orografia per evitare l’assimilazione. Una area culturalmente ricca e affascinante, che come l’area balcanica è a rischio di una devastante guerra interetnica tale da destabilizzare l’intero Medio Oriente.

Come per i Balcani, sono gli interessi dell’Europa, e non degli USA, ad essere in prima fila. Non è un caso che il presidente Saakashvili si faccia riprendere regolarmente sullo sfondo della bandiera georgiana e di quella dell’Unione Europea. Pur avendo studiato alla Columbia University, ed essendo un alleato di ferro degli Stati Uniti, Saakashvili sa bene che le uniche carte che può giocare per sottrarsi all’ingombrante influenza russa sono quelle della UE e della Nato. Militarmente la Georgia è un paese chiave per la presenza americana ed europea nell’area balcanica e dell’Asia Centrale, rappresentando un possibile baluardo contro l’espansionismo russo e l’imperialismo, per ora solo commerciale, della Cina. Tuttavia, la valenza strategica e politica che questa piccola nazione ha per l’economia europea e del Mediterraneo è ancora più importante. Infatti, il suo territorio, insieme a quello armeno, rappresenta l’unico corridoio attraverso il quale il petrolio ed il gas naturale dell’Azerbaijan e dei nuovi paesi dell’Asia Centrale può raggiungere il Mediterraneo senza passare per la Russia o per l’Iran. Come l’Armenia, la Georgia è una nazione cristiana di confine. A differenza dell’Armenia, in posizione più ambigua, e la cui politica estera è caratterizzata da forti legami diplomatici con l’Iran, la Georgia è da tutti considerata un solido alleato dell’ Europa e degli Stati Uniti. Tre sono le aree oggi più ricche di petrolio e gas naturale: il Golfo Persico, la Russia e il complesso dei tre mari (Mar Nero, Mar Caspio e Mare d’Aral). Considerata l’instabilità dell’area del Golfo e la necessità di diversificare i fornitori, ma soprattutto volendo evitare la dipendenza energetica dalla Russia, che limiterebbe la stessa libertà d’azione dell’Unione Europea in politica internazionale, è per noi assolutamente vitale mantenere aperto il corridoio georgiano e parallelamente rafforzare la nostra presenza nell’area. Questa non è una partita che si può lasciare agli Stati Uniti e alla Russia. Al contrario è, dev’essere, una partita che vede in prima fila il nostro Paese e l’intera Unione Europea.

L’Europa deve mantenere aperto il corridoio georgiano, se vuole un’alternativa al petrolio del Golfo

In alto: un soldato russo entra in Ossezia durante gli scontri I militari del Cremlino sono entrati ieri a Gori, città natale di Stalin, occupando di fatto il territorio georgiano A destra: Sarajevo nei primi anni ’90 Nel tondo: un sacerdote di etnia armena. Questi temono l’influenza turca

Fedele alla teoria del divide et impera, e perseguendo la stessa linea d’azione che in Asia Centrale lo portò a creare Repubbliche etnicamente disomogenee, il dittatore sovietico incluse nel territorio georgiano tre repubbliche autonome: l’Abkhazia, l’Ajaristan e l’Ossezia. Per rendere le cose ancora più confuse, divise l’Ossezia in due regioni, come due sono i principali dialetti osseti, l’una in territorio russo, l’altra in territorio georgiano; entrambe si sono dimostrate fedeli alleate di Mosca, se non altro per convenienza. Vicini dei Ceceni, gli Osseti sono una delle tante etnie presenti nel Caucaso, e più in generale in tutta quell’area mediorientale che dai monti Zagros sale verso Settentrione sino a raggiungere la catena del Caucaso. Una regione caratterizzata dalla sopravvivenza di molte e diverse minoranze, etniche e/o religiose, spesso in contrasto tra loro, che hanno trovato rifugio in queste terre aspre e montagno-


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politica

A luglio, e rispetto a un anno fa, fare la spesa costa il 6,1 per cento in più, mentre il pieno sale del 16,6

Pane e benzina, prezzi da record di Alessandro D’Amato

ROMA. In tempi di Olimpiadi l’inflazione si adegua e batte un altro record. A luglio il costo della vita ha raggiunto il massimo da giugno 1996, con un incremento del 4,1 per cento rispetto all’anno scorso e dello 0,5 su base mensile. Non solo: la spesa di tutti i giorni, ovvero i prezzi dei prodotti acquistati frequentemente, aumenta dello 0,4 rispetto a giugno (essenzialmente per i rincari dei prodotti alimentari e dei carburanti) e del 6,1 in un anno (in accelerazione rispetto al mese precedente, quando era risultata pari al 5,8). L’Istat ha comunicato anche un indice disaggregato per capoluoghi di regione: gli aumenti più elevati si sono verificati a Cagliari (4,7 per cento su base annua, e +0,7 rispetto a giugno 2008); a seguire c’è Napoli (+4,6 su base annua) e Torino (+4,5). I rincari minori si sono verificati invece a Roma, dove su base annua l’inflazione a luglio segna un +3,3, e su base mensile +0,1; seguono Trieste e Bologna.

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Casini: la Costituente di centro ha spazio «La costituente di centro può puntare ad uno spazio politico amplissimo». È questa la scommessa che Pier Ferdinando Casini metterà in campo alla ripresa del confronto dopo le ferie estive. L’ex presidente della Camera giudica questo dato coerente con la «fine del bipartitismo», anche perché «il governo ombra si è rivelato poco più che propaganda e lo schieramento di Berlusconi ha l’aria di essere più adatto ad una società per azioni che a un soggetto politico». Per Casini un vero «centrista» non è affatto tenuto a scegliere tra Walter e il Cavaliere: «verrà il tempo delle alleanze, ma le faremo con soggetti politici diversi da questo abbozzo informe di bipartitismo. Dobbiamo costruire le condizioni perché tante personalità politiche che oggi militano nel Pd come nel Pdl costruiscano con noi una nuova casa».

Famiglia Cristiana bacchetta il governo

L’inflazione si conferma al 4,1 per cento. Il Codacons annuncia «un settembre nero» e chiede dilazioni sui pagamenti

Impressionante la crescita dell’energia: +2per cento congiunturale e +16,6 su anno. E sugli aumenti del carburante Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust, proprio l’altroieri dal palco di Cortina InConTra, ha annunciato: «Stiamo monitorando il mercato, ma solo perché dobbiamo verificare che vengano rispettati gli impegni presi dalle ditte petrolifere con l’Autorità. Certo, se ci fossero meno pompe in esclusiva e più pompe bianche avremmo anche migliori risultati». Da segnalare anche la nuova accelerazione di pane e cereali, con un +12 per cento su base annua (dall’11,6 di giugno) e dello 0,7 congiunturale. Nel dettaglio, precisa l’Istat, il prezzo del pane risulta aumentato dello 0,1 congiunturale e del 12,9 rispetto al 2007 (in lieve decelerazione dal 13 di giugno) mentre quello della pasta è cresciuto del 2,1 rispetto al mese precedente e del 24,7 sul 2007 (22,3% a giugno). Aumenti anche per carne (+0,2 congiunturale e +4,2 tendenziale) e latte (+0,2 e +11,1). Crescite più lente per altri prodotti, con rincari a luglio inferiori al tasso medio di inflazione. Abbigliamento, bollette, medicinali, trasporti, cultura, pacchetti vacanze, libri, alberghi sono aumentati del 3,3 per cento rispetto a luglio 2007 e dello 0,7 rispetto al

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mese precedente. Elettrodomestici, mezzi di trasporto, apparecchi audiovisivi e informatici, articoli sportivi sono invece risultati in “lieve aumento” sia sul piano tendenziale (+1,7) sia su quello congiunturale (+0,1). Ma a bilanciare il tutto c’è il caro-vacanze: oltre alla crescita del carburante, da registrare gli aumenti tendenziali dei biglietti aerei (+11,7) e di quelli ferroviari (+8,3). Impennata anche per i trasporti marittimi (+8,1), con rincari sia per il trasporto dei passeggeri (+8,8) che per quello delle auto (+6,4). In forte rialzo anche il costo di una giornata in spiaggia con ombrellone e lettino (+8 gli stabilimenti balneari). Non è andata meglio ha chi ha scelto la montagna: impianti di risalita costano in un anno il 7,1 in più. In controtendenza autostrade, ristoranti e parchi di divertimento. Ma l’Istat aggiunge che i rincari sono diversificati anche a livello territoriale: maggior crescita dei prezzi sulla costa tirrenica, minore su quella adriatica. Scatenate le associazioni dei consumatori. Per Carlo Rienzi del Codacons «ci attende un settembre nero». E chiede di inserire nel disegno di legge sulla sicurezza «la possibilità di una sorta di “fallimento”anche per le famiglie eccessivamente indebitate per mutui e credito al consumo, come previsto per le aziende, in modo che si possano pagare i debiti pro quota ai veri creditori, dilazionandoli nel tempo». E inoltre «di bloccare le speculazioni, non solo nel settore alimentare ma anche in quello dei trasporti, aumentati del 7,1 per cento».

Adusbef e Federconsumatori prevedono per i cittadini un salasso di 2182 euro annui: «Servono misure straordinarie per rilanciare consumi ed economia», sostengono Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, che chiedono di «bloccare immediatamente tutti i carichi fiscali dei prodotti energetici per carburanti, luce e gas e di defiscalizzare i redditi fissi, lavoratori e pensionati di almeno cento euro al mese». Intanto, per lo Stato crescono le entrate tributarie: secondo Bankitalia l’incremento nei primi sei mesi del 2008 è stato del 4,1 per cento. L’incasso totale è stato di 187,3 miliardi rispetto ai 179,9 dello stesso periodo del 2007. In controtendenza, però, giugno: riscossi 47 miliardi, in lieve calo rispetto ai 47,7 di dodici mesi fa.

Attenzione al «rischio guerra tra poveri» nel «Paese marciapiede» con il «presidente spazzino». Così Famiglia Cristiana entra nel dibattito sulle misure di sicurezza, e non solo, varate dal governo Berlusconi, che hanno un impatto sulla vita sociale del Paese. In un editoriale, di cui è stata data un’anticipazione, il settimanale dei Paolini parla dei militari in strada («neanche fossimo in Angola»), dei sindaci sceriffi (luci e ombre, ma bene decoro e lotta prostituzione), nelle norme anti elemosina. La verità è che ”il Paese da marciapiede” i segni del disagio li offre da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ”Presidente spazzino”, l’inutile ”gioco dei soldatini” nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone (che, però, è meritoria, e Brunetta va incoraggiato)».

Pd: il Bus “Salva l’Italia” in Veneto Il bus Salva l’Italia del Partito Democratico, partito da Roma il 31 luglio scorso, sarà in Veneto oggi. Farà tappa a Feltre, Padova, Jesolo e Bibione. Nei luoghi dove si fermerà, si potrà naturalmente firmare per la petizione Salva l’Italia lanciata da Walter Veltroni. La petizione Salva l’Italia è già stata firmata da tutti i ’big’ del Partito Democratico veneto, a cominciare dai parlamentari e dai consiglieri regionali, dai dirigenti regionali e provinciali, da molti sindaci e amministratori locali. Anche il sindaco Flavio Zanonato, che non potrà essere presente oggi in piazza a Padova perché impegnato in un viaggio all’estero, dichiara il suo sostegno all’iniziativa.

Arresti domiciliari per Del Turco Ottaviano Del Turco è uscito dal carcere di Sulmona. Il gip del Tribunale di Pescara ha firmato ieri l’ordinanza con la quale ha disposto la scarcerazione per lui e per gli altri arrestati nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte tangenti nella sanità abruzzese. L’ex presidente della Regione Abruzzo sarà ora trasferito agli arresti domiciliari a Collelongo, suo paese natale. Del Turco era stato arrestato il 14 luglio scorso insieme a una decina di assessori e alti funzionari della Regione, con l’accusa di associazione per delinquere, corruzione e concussione. L’inchiesta a loro carico era stata avviata dalla Procura della Repubblica di Pescara. Qualche giorno dopo l’arresto Del Turco si era dimesso da governatore e autosospeso da membro della direzione nazionale del Pd.

43 le vittime sulle strade nel week end Gli scontri mortali che hanno provocato la morte di sette persone venerdì sulla A4 e sabato notte nel salento fanno suonare il campanello d’allarme sulla sicurezza stradale dopo il calo del 10 per cento di incidenti registrato da gennaio a oggi. Sono 43 le vittime di incidenti stradali nell’ultimo fine settimana, undici in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Sono ben 1.248 le patenti ritirate nel weekend da polizia stradale e carabinieri.


il caso segue dalla prima Adesso, dopo le precisazioni, la vostra linea è chiara. Il problema non è l’accanimento ma l’abbandono terapeutico. Cosa proponete dunque? In Italia si è, purtroppo, focalizzata tutta l’attenzione sul fatto che i medici si accanirebbero sistematicamente sui pazienti. Con un’immediata conseguenza: screditare una professione, esercitata invece da gente capace, preparata. E soprattutto onesta. Il dovere dei medici, infatti, non è quello di anticipare la morte dei loro assistiti. E neppure quello di mantenere i pazienti in vita ad oltranza. La loro missione è quella di supportare e tutelare ogni vita umana, mettendo al servizio delle persone la propria competenza e senza abbandonarle. Con un testamento biologico e il rifiuto anche delle terapie proporzionate, delle cure, dell’alimentazione e dell’idratazione, invece, l’unica cosa che si introduce è l’anticipazione della morte. Per cui, qualora un’ipotesi del genere trovasse spazio nell’ordinamento giuridico, molti medici si troveranno in condizione di fare obiezione di coscienza perché quello che viene richiesto sarebbe chiaramente in contrasto con la loro coscienza personale e professionale. Nel corso della vostra attività avete fatto diverse inchieste anche nel mondo sanitario. Cosa è emerso? Abbiamo realizzato ben cento interviste a medici di tutta Italia. E tutti hanno denunciato la mancanza di strutture assistenziali per i pazienti in stato vegetativo, per i malati oncologici o affetti da malattie inguaribili. C’è da lavorare su questo. E soprattutto è necessario rovesciare il pilastro che sottende al testamento biologico: il principio di autodeterminazione e di disponibilità della vita. La linea che ci anima è, invece, esattamente opposta: la vita umana è un bene personale e una ricchezza per la società. E dunque la società si deve impegnare a tutelarla e supportarla nelle condizioni di massima fragilità . Approntando strutture adeguate, ma soprattutto ribadendo che la vita è un bene indisponibile. È solo partendo da questo principio che si può sgombrare il campo da ogni equivoco e lavorare tutti insieme per incentivare ogni forma di assistenza e con una grande attenzione ai bisogni del malato e delle famiglie. Da questo ragionamento si deduce che per voi il testamento biologico è solo una trappola. Il testamento biologico è non solo pericoloso ma anche inutile. D’altra parte che affidabilità ha una dichiarazione redatta da una persona che è in completa

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Testamento biologico. Viaggio nel mondo cattolico/2. Parla il presidente di ”Scienza e Vita”

«È soltanto un inganno travestito da libertà» colloquio con Maria Luisa Di Pietro di Francesco Rositano modo per evitare l’accanimento terapeutico? L’accanimento terapeutico non è definito dal fatto che il paziente rifiuti o meno generici trattamenti e che lo lasci scritto. L’accanimento terapeutico va evitato perché non è eticamente accettabile: di volta in volta, nella singola situazione di malattia, bisognerà capire cosa è e cosa non è accanimento terapeutico; quali terapie sono proporzionate e quali terapie sono sproporzionate. Se sono sproporzionate le terapie vanno sospese, ma bisogna sempre continuare le cure. Ed è da precisare che in questa grandissima confusione di linguaggi non viene fatta differenza tra terapie e cure. Queste ultime riguardano tutti quegli interventi che vengono attuati per prendersi cura della persona – idratazio-

ma solo di prendersi cura della persona, cercando di palliare la condizione di disagio e di sofferenza in cui si trova, non potendo più intervenire sulla malattia di base per guarirla. Come giudicate poi l’introduzione del testamento biologico per regolamentare la donazione degli organi e l’assistenza spirituale? In Italia abbiamo già una legge sulla donazione degli organi: non vedo la necessità di fare un’altra legge per affrontare questo argomento. Gli altri due aspetti che sono all’attenzione del testamento biologico sono: il desiderio di avere o meno assistenza spirituale e di essere assistiti a casa o in ospedale. Ma non c’è bisogno di una legge per regolamentare questi aspetti. A suo avviso quindi tutti i

ne, alimentazione, ossigenazione, igiene, etc. –, ovvero tutto quell’insieme di cose che rendono meno penose le fasi più difficili della vita e il processo del morire. Ma non l’anticipano. Qual è la vostra posizione sulle cure palliative? Le cure palliative vengono messe in atto al fine di alleviare i sintomi del malato e sono un atto dovuto: non è certo il testamento biologico che può stabilire se fare o non fare le cure palliative. Se un medico si trova davanti ad un paziente che non è in grado di intendere e di volere e che ha bisogno di un analgesico perché sta soffrendo o di un antibiotico perché ha una infezione, egli è tenuto ad intervenire. Non si tratta di terapie sproporzionate,

motivi portati a favore di questa misura sono inutili? Certamente. Ricapitolando i cinque oggetti che sono al centro del testamento biologico: l’accanimento, le cure palliative, la donazione degli organi, l’assistenza religiosa, l’assistenza domiciliare o in ospedale. Non ha senso legiferare sui due primi oggetti (accanimento terapeutico e cure palliative); il terzo oggetto (donazione di organi) è già preso in considerazione da un’altra legge che aspetta solo di essere applicata al meglio; non è certo necessaria una legge per la scelta dell’assistenza religiosa o il luogo ove si vuole essere assistiti. Concludendo, quindi, il testamento biologico è inutile e molto pericoloso.

Maria Luisa Di Pietro A destra continua la solidarietà per Eluana Englaro con le bottiglie d’acqua depositate sul sagrato del Duomo di Milano buona salute e che quindi non sa di cosa si ammalerà, non sa cosa capiterà nella sua vita? E se quella persona cambiasse volontà? E soprattutto: come si fa a dare disposizioni sul trattamento medico da ricevere senza cono-

Ecco cosa si cela dietro l’idea di far passare questa norma: cercare di introdurre nell’ordinamento il principio di disponibilità della vita. E porre la base per una successiva apertura all’eutanasia scere il proprio quadro clinico dal momento che non si è ancora ammalati? Se dovessi fare un paragone potrei dire che sottoscrivere un documento del genere è come firmare una cambiale in bianco nella quale si dà l’autorizzazione ad altri di non fare cose che magari per il paziente in quel momento potrebbero avere un valore salva-vita. Ma oltre a queste ci sono altre ragioni per cui siete contrari al testamento biologico?

Come ho già detto, il testamento biologico ha un significato preciso: quello di introdurre nell’ordinamento il principio di disponibilità della propria vita. D’altra parte, in tutte le nazioni dove è stata introdotta una legge sul testamento biologico, a parte il fallimento stesso nell’applicazione della legge, si è posta la base per una successiva apertura all’eutanasia. Comunque i sostenitori del testamento biologico affermano che esso è l’unico


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mondo

Il referendum popolare era stato deciso per risolvere lo stallo politico in cui si trova il Paese

Bolivia, un voto senza vincitori di Massimo Ciullo

d i a r i o on ha né vinti né vincitori il referendum revocativo che si è svolto domenica in Bolivia. Doveva decidere la sorte del presidente Evo Morales, che la spunta, ma non indebolisce l’opposizione. Il leader indio del Mas (Movimento per il socialismo) è riuscito infatti ad allargare il consenso nei confronti del suo operato, superando di ben 10 punti il 53 per cento dei voti ottenuti nel 2005. Ma anche i suoi principali avversari, i governatori delle province economicamente più avanzate del Paese andino, hanno rafforzato le loro posizioni. La consultazione popolare era stata decisa per sbloccare la situazione di stallo istituzionale in cui si è ritrovata la Bolivia dopo la decisione dell’oppo-

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sa del popolo boliviano ha confermato la sua fiducia verso il progetto di riforma dello Stato avviato dall’ex-leader“cocalero”e racchiuso nella contestatissima costituzione“rivoluzionaria”. Allo stesso tempo, i leader autonomisti della parte orientale del Paese, che per primi hanno espresso le loro riserve sulla nuove norme fondamentali, hanno ricevuto un’ampia sanzione popolare sulla legittimità della loro protesta.

Degli otto prefetti in carica, i quattro principali oppositori di Morales - Ruben Costas (Santa Cruz), Ernesto Suarez (Beni), Leopoldo Fernandez (Pando) e Mario Cossio (Tarija) - conserveranno sicuramente la loro poltrona, qualunque sia

disposto a cedere: né Morales né i prefetti “ribelli”, che nelle dichiarazioni seguite alla chiusura delle urne hanno fatto intendere chiaramente di voler proseguire ognuno per la propria strada. Il presidente boliviano ha garantito ai suoi sostenitori che l’attuale esecutivo porterà a termine il progetto di riforma costituzionale. Inoltre, il leader indio ha toccato i tasti più sensibili del suo elettorato, promettendo che proseguirà il percorso avviato per il «recupero delle nostre risorse naturali e per portare altre imprese di settori strategici sotto il controllo statale». La risposta del fronte opposto è arrivato per bocca del prefetto di Santa Cruz, Costas, che ha annunciato che presto firmerà il decreto per la con-

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Il Dalai Lama arriva in Francia Il Dalai Lama è arrivato ieri in Francia per una visita di 12 giorni, durante i quali non incontrerà il presidente francese Nicolas Sarkozy. Il palazzo dell’Eliseo ha precisato che non è giunta nessuna richiesta in questo senso da parte del leader spirituale tibetano. Nessuna accoglienza ufficiale è stata dunque organizzata per il Dalai Lama, che avrà soltanto incontri di caratteri privato. La moglie di Sarkozy, Carla Bruni, sarà tuttavia presente oggi all’inaugurazione di un tempio buddista fuori Parigi, cui parteciperà il Premio Nobel per la pace. Il leader tibetano in esilio vedrà mercoledì un gruppo di deputati francesi. Tuttavia, l’opposizione non ha gradito la mossa: «Nicolas Sarkozy tenta di mascherare la grave sconfitta della sua visita a Pechino - ha detto il vicesegretario nazionale socialista Faouzi Lamdaoui - investendo sua moglie di una missione pseudo-diplomatica presso il Dalai Lama. Una mossa scioccante, che fa parte del grande imbroglio di Nicolas Sarkozy sulla questione cinese». Criticata anche la scelta di organizzare un incontro nell’ambito di una cerimonia religiosa, un «miscuglio deplorevole di pubblico e privato».

Mandato d’arresto per ex premier thai La Corte Suprema della Thailandia ha spiccato ieri due mandati di arresto nei confronti dell’ex primo ministro deposto Thaksin Shinawatra, incriminato per corruzione, e di sua moglie. Sempre ieri l’ex leader di Bangkok aveva annunciato che non avrebbe fatto ritorno al suo Paese, dove avrebbe dovuto presentarsi davanti ai giudici oggi per rispondere alle accuse insieme alla moglie, secondo gli obblighi della libertà su cauzione fissati in diversi procedimenti penali in cui e’ imputato. Qualche ora prima la decisione della Corte, infatti, Thaksin aveva fatto sapere che lui e la moglie Pojaman avevano optato per l’esilio in Gran Bretagna dopo aver denunciato ’interferenze’ politiche nel sistema giudiziario thailandese. Thaksin, potente uomo d’affari di 59 anni, primo ministro in Thailandia dal 2001 al 2006, fu deposto da un colpo di stato incruento dell’esercito. E’ accusato di aver influenzato una transazione immobiliare a favore della moglie ed è l’attuale proprietario del Manchester City, club della Premier League inglese.

sizione di ritirarsi dall’Assemblea costituente, che avrebbe dovuto approntare la nuova carta costituzionale. I rappresentanti dell’opposizione, alla fine del novembre 2007, hanno deciso di abbandonare i lavori a causa della decisione di Morales di cambiare le regole di approvazione delle nuove norme, passando da una maggioranza dei due terzi a una semplice. Una forzatura che ha originato la “sedizione” dei prefetti delle regioni orientali, che hanno deciso di dotarsi di nuovi statuti di autonomia, immediatamente tacciati d’incostituzionalità dalle autorità centrali. Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate le quattro regioni più ricche ed economicamente sviluppate del Paese avevano minacciato anche la secessione, optando poi per l’approvazione di nuovi statuti, confermati da referendum locali non riconosciuti dal governo nazionale. In questo clima si è arrivati al voto di domenica scorsa. Una parte sostanzio-

Morales rafforza la sua percentuale di voti, ma non elimina gli oppositori dalla lotta nella Costituente l’interpretazione della normativa referendaria approvata dal Parlamento. Secondo il testo licenziato dai deputati boliviani, per perdere il proprio incarico gli eletti avrebbero dovuto ottenere una percentuale di voti sfavorevoli superiore a quella dei consensi registrati nella precedente consultazione.

Non sono della stessa opinione i giudici della Corte nazionale, per i quali è sufficiente il superamento della soglia del 50 per cento più uno per conservare la propria carica. L’unica certezza per ora consiste nella evidente spaccatura del Paese, a causa della polarizzazione delle opposte posizioni. Nessuno sembra

Afghanistan: catturato leader talebano vocazione di elezioni per l’autonomia, sottolineando come la “libertà” abbia battuto il progetto del “fondamentalismo aymara” del presidente Morales. A rincarare la dose ci ha pensato il suo collega di Tarija, Cossio, che ha già dichiarato che darà subito il via all’applicazione dello statuto autonomista, ritenuto anticostituzionale dal governo di La Paz.

L’odierna crisi boliviana riflette tutte le contraddizioni irrisolte di un Paese complesso: le tensioni tra indios e discendenti ispanici; i sostenitori delle nazionalizzazioni e gli alfieri del libero mercato; i centralisti e i federalisti. L’elezione di Morales nel 2005 sembrava aver ridato quel minimo di serenità per poter affrontare i gravi problemi che affliggono il paese andino. Ma il mix di orgoglio indio e populismo di sinistra, incarnati alla perfezione da Evo Morales, rischiano di far precipitare nuovamente nel caos la Bolivia.

Forze speciali australiane in Afghanistan hanno conseguito un’importante vittoria con la cattura del comandante taleban Mullah Bari Ghul, a cui è attribuita l’organizzazione di un’ondata di letali attacchi suicidi, o con congegni esplosivi sulle strade, nella provincia meridionale di Oruzgan. Lo ha rivelato il dipartimento della Difesa australiano, precisando che la cattura risale alla settimana scorsa e che nessuno e’ rimasto ucciso, ma senza fornire dettagli dell’operazione. Secondo il portavoce brigadiere Brian Dawson, Ghul è stato trasferito nella capitale della provincia Tarin Kowt, e consegnato alle truppe olandesi. Ghul era conosciuto come governatore-ombra della regione, cioe’ responsabile dell’autorizzazione di attacchi esplosivi nella provincia, ha detto Dawson. Era una figura chiave nell’approvvigionamento di armi e attrezzature, denaro e combattenti stranieri, e nella fabbricazione di ordigni esplosivi.

Iran: amici anche di Israele Gli iraniani «sono amici di tutti i popoli del mondo, anche degli israeliani». In una rarissima manifestazione di non ostilità al “regime sionista”, come Israele viene definito a Teheran, il vice presidente iraniano Esfandiar Rahim Mashai ha sottolineato l’apertura nei confronti dello Stato ebraico che invece il presidente Mahmoud Ahmadinejad vorrebbe «cancellare dalla carta geografica». Già qualche tempo fa, Mashai si era espresso negli stessi termini nei confronti del popolo israeliano.


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otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

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agosto 1966

La band inglese approda nel nuovo continente, ora il successo è planetario

Il pop dei Beatles conquista gli States di Pier Mario Fasanotti

n critico musicale, non certo in vena d’ottimismo, aveva borbottato: «Noi inglesi non siamo più i padroni del mondo da un bel pezzo. Può darsi che i Beatles abbiano troppe aspettative andando in America. Quelli sono protezionisti in tutto, musica compresa». Errore madornale: la musica, prodotto che scavalca dazi e non ha il marchio della nazionalità, era già sbarcata sulle coste atlantiche e del Pacifico nel 1963. E aveva immediatamente sfondato. Gli americani aspettavano di vedere gli “scarafaggi” da vicino. Fu un trionfo, più volte ripetuto. L’ultimo tour dei Beatles negli States iniziò da Chicago, il 12 agosto del 1966. Folle immense, grida isteriche, non si parlava che di loro. Ma quell’estate i Beatles, stanchi di girare il mondo, interruppero il tour americano anche per ragioni private: Gorge Harrison, il terzo della band a sposarsi, voleva ovviamente tornare nell’isola, poi c’era Paul, ultimo scapolo rimasto, che non vedeva l’ora di starsene in pace con la sua ultima fiamma, l’attrice Jane Asher. In ogni caso durante il viaggio americano qualche brutta stonatura ci fu. Per colpa di John Lennon. Il quale, alla vigilia della partenza per New York, aveva dichiarato a un settimanale britannico: «Adesso siamo più popolari di Gesù Cristo. Non so se sia più importante il rock ’n’ roll o il Cristianesimo». Lennon cominciava le prove come fanatico. O come un essere infantile in preda all’esaltazione da successo. C’era già di mezzo la droga? Certamente sì. Molti americani la presero male, molto male. Alcuni gruppi religiosi bruciarono pubblicamente i dischi dei quattro cappelloni. Lennon a Chicago tentò di scusarsi della stupidaggine che aveva detto. Ma lo fece con una certa goffaggine. continua a PAGINA II

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SCRITTORI E LUOGHI

I VIGLIACCHI DELLA STORIA

I SENTIMENTI DELL’ARTE

La Patagonia di Chatwin

L’avarizia secondo Sam Raimi

di Filippo Maria Battaglia

di Francesco Ruggeri

Badoglio di Aldo G. Ricci

a pagina IV

a pagina VI

a pagina VII pagina I - liberal estate - 12 agosto 2008


Immagini del celebre gruppo di Liverpool Nella pagina accanto: due copertine dei vinili della band inglese

segue da PAGINA I E servì a poco visto che continuarono, anzi si moltiplicarono, le minacce di morte. Scossi anche per l’imprudenza o l’esaltazione di John, i quattro di Liverpool decisero di tornare in Europa, al termine del concerto di Candlestick Park, a San Francisco. Era il 29 agosto 1966. Come andò a finire con John Lennon, ucciso a New York da un fanatico (un altro) è ormai storia nota. a straordinaria avventura dei Beatles cominciò nel 1961. Quattro ragazzi di Liverpool, John Lennon, Paul McCartney, Gorge Harrison e Pete Best, il giorno di San Silvestro caricarono i loro strumenti musicali su un furgoncino e partirono per Londra. L’indomani avrebbero dovuto sostenere un’audizione negli studi della Decca Records, una delle più importanti case di registrazione e di produzione. Non ebbero alcuna fortuna. Quelli della Decca dissero: sì, la musica non è male, ma non ci sentiamo di investire soldi nel vostro gruppo. Due anni dopo,

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quando i Beatles erano diventati la band più famosa del mondo, i dirigenti della Decca fecero fatica a digerire l’errore. Era roba da mangiarsi le mani: avevano avuto davanti a loro una colossale fortuna, e l’avevano scartata senza pensarci due volte. Non a scusante della Decca, certo, ma bisogna precisare che la stessa Emi, che

incisioni dei Beatles. Il gruppo si formò per la verità quattro anni prima, esattamente il 6 luglio 1957 nella chiesa di Saint Peter a Liverpool. Il gruppo dell’allora diciassettenne John Lennon, che si chiamava “Quarry Men”, stava esibendosi in occasione della festa annuale della parrocchia. Un comune amico, Ivan Vaughan, che era stato compagno di classe di John, gli presentò Paul Mc Cartney. Qualche settimana più tardi Lennon, entusiasta della voce di Paul, lo invitò a unirsi al gruppetto. Poi fu la volta di Harrison e infine di Best. Si chiamarono Beatles. Era il 1960. La band partì per Amburgo. Qui suonarono nei vari locali notturni. Una gran fatica. Risale a quel periodo l’uso delle anfetamine. In Germania rimasero quattro mesi. Alloggiavano

Durante il viaggio americano ci fu qualche brutta stonatura. John Lennon alla vigilia della partenza per New York aveva dichiarato a un settimanale britannico: «Adesso siamo più popolari di Gesù Cristo» divenne poi l’editore dei quattro, all’inizio non ne voleva sapere di loro. Fu l’insistenza di Brian Epstein, che arrivò a formulare minacce commerciali, a indurre la Emi ad ascoltare le

pagina II - liberal estate - 12 agosto 2008

in uno scantinato di uno squallido cinematografo, il “Bambi Kino”. Alla fine ottennero un miglior contratto al “Top Ten”, locale nel quartiere a luci rosse di St. Paul. Harrison fu denunciato alla polizia in quanto minorenne. Risultato: rimpatrio in Inghilterra. I guai non finirono: Paul e Pete andarono a recuperare i loro zaini e le chitarre, ma mancava la luce, allora appesero quattro profilattici al muro e diedero fuoco per illuminare la stanza (che non aveva finestre). Il proprietario prese a pretesto le macchie nere di fumo e disse che i due volevano incendiare il cinema. E così anche per Paul e Pete ci fu il rimpatrio forzato. ornati in Inghilterra, il pubblico si accorse che la band aveva fatto notevoli progressi. In quel periodo si facevano concorrenza gruppi musicali niente male come “Gerry and The Pacemakers” guidata da Gerry Marsden. Una loro canzone diventò l’inno dei tifosi del Liverpool calcio. I Beatles decisero di tornare ad Amburgo nella primavera del 1961, e nel giugno diventarono il gruppo di accom-

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pagnamento del cantante Tony Sheridan in sei canzoni, incluso il 45 giri “My Bonnie”, motivetto che riscosse un qualche successo tra i giovani tedeschi. In quel periodo i due “cervelli” dei Beatles, Lennon e McCartney, scrivevano alcune canzoni e sognavano di entrare nelle top ten musicali. Successivamente furono adocchiati da Brian Epstein, un giovane ricco, eclettico e un po’ pasticcione. Intuì comunque che i Beatles erano una potenziale grossa fortuna. Si offrì loro come manager. Epstein aveva scommesso su di loro. Come supporter commerciale non era il massimo tanto è vero che all’inizio l’ingaggio dei Beatles da parte della Emi costituì un vantaggio notevole per la casa discografica, molto meno per i cantanti. Comunque fu Epstein, dopo la fallimentare audizione alla Decca Rcords, a mandare una cassetta a George Martin, a quei tempi responsabile per le audizioni della Parlophone, un etichetta controllata dalla Emi, gigante nel settore. Epstein insistette fino a infastidire Martin, il quale alla fine cedette per stanchezza e offrì un contratto al gruppo. Martin ave-


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o stesso giorno... nel 1946

Nasce la Sampdoria seconda squadra della “Superba”

I ragazzi di Vujadin Boskov: Vialli, Mancini, Pagliuca, Wierchowod, Mihjlovic, Cerezo e Lombardo vincono lo scudetto del 1990

di Filippo Maria Battaglia

va tuttavia qualche riserva sull’originalità della musica e delle parole di Lennon e McCartney, e nutriva dubbi sulla qualità di Pete Best come batterista. Questi venne messo in disparte da Epstein un mese dopo, e sostituito da un altro giovane di Liverpool, Richard Starkey J., conosciuto ad Amburgo. Aveva ventidue anni e il suo nome d’arte era Ringo Starr. a prima registrazione avvenne l’11 settembre del 1962 negli studi londinesi della Emi. Ringo Starr rimase un po’ male quando gli dissero che il suo ruolo, almeno per il momento, era del tutto laterale a vantaggio di un certo Andy White. Ringo abbozzò e suonò il tamburello e le maracas in due motivi del primo 45 giri. In poco tempo il disco, “Please, Please Me” balzò in testa alle classifiche. I maligni sostennero che Epstein comprò diecimila copie del disco così da farlo rientrare nei “Top 20”. Lui smentì sempre. In ogni caso il primo prodotto dei Beatles raggiunse il diciassettesimo posto dei più ascoltati. Niente male come esordio. Il primo febbraio del 1963 era in testa e ci rimase per trenta settimane finchè non fu sbalzato dal secondo album degli “scarafaggi”, “With The Beatles”. Alla fine dell’anno i quattro di Liverpool suonarono una serie di marce reali dinanzi alla regina madre e alla principessa Margareth. La solita acida battuta di John Lennon: «I signori seduti nei posti economici applaudano. Gli altri, cortesemente, scuotano i loro gioielli». In Gran Bretagna ormai si parlava di “Beatlemania”. Ma c’era da conquistare gli Stati Uni-

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La guerra, il fascismo, due squadre sull’orlo del fallimento. Poi, la svolta: il 12 agosto 1946 la Sampierdarenese e l’Andrea Doria si fondono. Nasce così la Sampdoria, seconda squadra della “Superba”. Il debutto ufficiale nella massima serie è datato 22 settembre. A presiederla, Piero Sanguineti (poi sostituito da Amedeo Rissotto), in panchina spazio all’allenatore Giuseppe Galluzzi. La maglia è un guazzabuglio di colori: il bianco e blu testimoniano il passato dell’Andrea Doria, il rosso e il nero sono il lascito della tradizione della Sampierdarnese, la «squadra operaia» nata nella coda della città ligure. Il risultato è una divisa piuttosto originale dominata dallo stemma di Genova, la croce di San Giorgio. Si gioca sul manto del “Cajenna”, nel quartiere Marassi, poi ribattezzato “Luigi Ferraris” in memoria dello storico centromediano genovese. Nei primi tempi sono dolori: l’esordio è un sonoro 3-1 per la Roma di Amadei che strapazza i blucerchiati dall’inizio alla fine. I primi campionati sono quelli della salvezza conquistata a fatica. Seguono una decina di alti e bassi dominati dalla coppia del gol Baldini e Bassetto, mentre gli anni Sessanta segnano un

ti, bacino immenso di ascoltatori e fonte di guadagni stratosferici. “Please, Please Me” non si piazzò bene nelle classifiche statunitensi. Invece nel gennaio 1964 il singolo “I Want To Hold Your Hand” impressionò favorevolmente gli americani. In due settimane il disco vendette più di due milioni di copie. Era fatta. I Beatles parteciparono al famosissimo Ed Sullivan Show: quella sera furono 73 milioni gli spettatori, con il 60 per cento di share. Nel giro di pochi mesi i quattro con i capelli a caschetto erano padroni della mitica classifica Billboard. Ci fu poi il tour mondiale. Furono conquistati i giapponesi, gli australiani, gli europei continentali (in Italia i sei concerti furono dati a Milano, a Genova e al Teatro Adriano di Roma). Poi i due film: “A Hard Day’s Night” e “Help”. Nei due anni successivi, i Beatles avvertirono il contagio della musica innovativa di Bob Dylan e dei Byrds e le loro canzoni si fecero più raffinate e introspettive. Fu il periodo del lancio di “Michelle”. Nella loro musica entrò uno strumento musicale inusuale come

quarto posto e - tra mille polemiche - la retrocessione. È l’inizio di una lunga crisi che continua in tutto il decennio successivo, quando vengono venduti persino le due bandiere della squadra, il bomber Magistrelli e il difensore Nicolini. Nei primi anni ‘80, l’inizio di un sogno: la Samp è acquistata da Paolo Mantovani. Se non è una rivoluzione, ci siamo quasi. In panchina c’è un giovanissimo Renzo Ulivieri, la squadra ritorna nella massima serie, arrivano i primi giocatori importanti. Tra tutti, l’inglese Travor Frencis, l’irlandese Liam Brady e l’ancora bebè Roberto Mancini. Seguono buoni campionati, ma per Mantovani non basta. Ecco quindi sbarcare sotto la lanterna, il ct Vujadin Boskov, rimasto ormai celebre per la frase: «Rigore c’è quando arbitro fischia». Adesso, la rosa di giocatori è una vera orchestra di primi violini: Gianluca Pagliuca fra i pali, in difesa il «russo di Bergamo» Pietro Wierchowod e il serbo Sinisa Mihajlovic, in mezzo al campo Toninho Cerezo e sulla fascia Attilio Lombardo. L’attacco è dominio incontrastato dei «gemelli del gol» Gianluca Vialli e Roberto Mancini. E insieme alle giocate arrivano pure i primi trofei: in poco meno di dieci anni, la Samp-

Nel ‘65 il primo ministro Harold Wilson fece pressioni sulla Corona inglese e alla fine la regina concesse ai quattro il titolo di Baronetti di Sua Maestà e l’onore di farsi chiamare “sir” per meriti artistici. Avevano contribuito alla fama della Gran Bretagna. Ma avevano anche dato ossigeno all’industria discografica il sitar. Nel 1965 il primo ministro Harold Wilson fece alcune pressioni sulla Corona inglese e alla fine la regina concesse ai quattro il titolo di Baronetti di Sua Maestà e l’onore di farsi chiamare “sir” per meriti artistici. Avevano contribuito alla fama della Gran Bretagna. Ma avevano anche dato ossigeno all’industria discografica dell’isola, che non

doria conquista quattro Coppe Italia e una Coppa delle Coppe. Bestia nera il Barcellona, con cui la squadra di Genova perde due finali internazionali. La più bruciante è datata 1992. Una punizione del difensore Koeman gela il tifo blucerchiato: a Wembley i ragazzi di Boskov perdono d’un soffio la Coppa dei Campioni. Resta lo scudetto del 1990, vera apoteosi del tifo genovese. Ma il trionfo è l’anticamera del declino: nel 1993 muore il patron Mantovani e l’argenteria viene quasi tutta ceduta: da Vialli a Mancini, passando per Boghossian, Chiesa e Mihajlovic. Il 1998 segna l’inizio del limbo: la Samp per quattro stagioni naviga a vista nella serie cadetta fino a quando il petroliere Riccardo Garrone non rilancia la squadra. Ma questa è già cronaca dei giorni odierni.

versava in floride condizioni.

Beatles, dopo il tour americano di cui abbiamo riferito, non vollero più quei bagni di folla dove le urla isteriche coprivano la musica. C’era poi in loro un cambio di stile. Ringo Starr dedicò più tempo alla famiglia, Paul s’immerse nella cultura underground di Londra, Gorge partì per l’India a completare gli studi con il sitar e poi in Spagna dove diresse il film “How I Won The War” (“Come vinsi la guerra”), dove interpretò un ruolo non di primo piano. Si riunirono alla fine dell’anno negli studi della Emi per registrare un nuovo album, che includeva il capolavoro “Strawberry Fields Forever”, scritta da

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Lennon sotto l’influsso delle droghe. John raccontava la sua tribolata infanzia da orfano di madre nella cittadina di Liverpool. Seguì nel ‘67 il famoso “Sgt. Pepper’s Lonely Club Band”. Si dava il via a certe follie psichedeliche sulla scia dell’ispirazione di Lennon. Ma i quattro si stavano inesorabilmente avviando verso il divorzio. Contribuì molto la morte, per overdose, di Brian Epstein. I Beatles ereditarono da lui la gestione economica del quartetto e fondarono la “Apple Records”, distribuita sempre dalla Emi. Seguì un periodo di confusione. Un loro film televisivo, “Magical Mistery Tour”, venne trasmesso dalla Bbc. Malgrado contenesse magnifici brani, l’insieme era pasticciato e deludente. Contrasti personali, anche per il sodalizio e poi matrimonio tra Paul e Linda Louise Eastman e per la soffocante presenza di Yoko Ono, amante di Lennon, accelerarono la fine dei Beatles come gruppo. Questo malgrado lo strabiliante successo di “Abbey Road”. Anni dopo si rividero e cantarono insieme. Ma mai fu come prima.

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SCRITTORI E LUOGHI

Con Chatwin IN

PATAGONIA

tra pampas e indios Il rio Nigro, scorre veloce, facendo frusciare le canne. Rondini rossastre danno la caccia agli insetti di Filippo Maria Battaglia

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Un luogo che è diventato un libro. Oltre a essere una regione dell’America meridionale - sterminata (quasi un milione di chilometri quadrati) ma quasi deserta (due abitanti ogni chilometri quadrati) – “Patagonia” è ormai un classico dell’editoria contemporanea. È a lei che Bruce Chatwin dedica il suo cahier più noto. Il viaggio (che è poi un tortuoso iter della nostalgia e quindi della memoria, come tutti i viaggi che si rispettano) inizia sul Rio Nigro. A dominare la scena, «piantagioni irrigate di mais e di zucche e frutteti di ciliegi e albicocchi. Lungo la riva del fiume i salici erano tutti germogliati e mostravano l’argento che brilla sotto le loro foglie. Gli indios avevano tagliato dei vincastri, lasciando sui tronchi delle bianche ferite e nell’aria l’odore della linfa. Il fiume, gonfio per lo scioglimento delle nevi sulle Ande, scorreva veloce, facendo frusciare le canne. Rondini rossastre davano la caccia agli insetti. Quan-

do volavano sopra la scogliera, il vento le afferrava e ne invertiva di colpo il volo finché calavano di nuovo basse sul fiume». Un panorama decisamente insolito, se lo si paragona ad altri luoghi desertici: «la scogliera si elevava a picco sull’approdo di un traghetto. Mi arrampicai su per un sentiero e dall’alto guardai controcorrente verso il Cile.Vedevo il fiume scorrere lucente fra le scogliere bianche come ossa, con strisce smeraldine di terra coltivata da ogni lato. Lontano dalle scogliere c’era il deserto. Nessun suono, tranne quello del vento, che sibilava fra i cespugli spinosi e l’erba morta, nessun altro segno di vita all’infuori di un falco e di uno scarafaggio immobile su una pietra bianca». ei mesi in quell’ambiente non si dimenticano e infatti Chatwin non li dimenticherà più. La scelta dello scrittore di Sheffield è quella di evitare le poche abitazioni confortevoli, preferen-

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“Rolf Mayer, un gaucho di sangue tedesco indio, era quello che macellava. Stendeva ogni pecora su un ripiano, poi faceva scorrere la punta del coltello sopra la pancia e il sangue sgorgava caldo sulle sue mani” do il viaggio in solitaria e accettando l’ospitalità dei poverissimi della zona. Ecco la descrizione di uno dei suoi pernottamenti: «Dormii negli alloggi dei peoni. La notte era fredda. Mi diedero una branda e un poncho invernale nero come copriletto. A parte il poncho, il necessario per il matè e i coltelli, i peoni non possedevano niente. La mattina un’abbondante rugiada ricopriva il trifoglio bianco. Mi incamminai a piedi verso il villaggio gallese di Trevelin, il Posto del Mulino. Giù in fondo alla valle, brillavano tetti di lamiera.Vidi il mulino, un normale mulino vit-

toriano, ma al margine del villaggio c’erano strani edifici di legno con tetti a padiglione. Avvicinandomi vidi che uno era un serbatoio d’acqua, da cui sventolava una bandiera con la scritta: “Instituto Bahai”». a la Patagonia è anche terra dalle mille storie, come quella che Chatwin racconta a metà del suo libro: «Nel gennaio del 1908 un uomo che cavalcava nella pampa del Castillo sorpassò quattro cavalieri, che si portavano appresso una fila di focosi cavalli. Erano tre gringos e un peone cileno, armati di Winche-

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ster col calcio di legno. Uno di loro era una donna vestita da uomo. L’uomo non ci fece caso.Tutti i gringos si vestivano in modo strano. Quella sera tre uomini a cavallo si fermarono all’albergo di Cruz Abeijòn, a La Mata. Con loro non c’era nessuna donna. Erano due norteamericanos e un cileno. Dissero che cercavano dei terreni. Il più piccolo era allegro e chiacchierone e si chiamava Bob Evans. Parlava bene lo spagnolo e si mise a giocare coi bambini di Abeijòn. L’altro era alto, biondo, silenzioso e di aspetto a sinistro. Si chiamava Willie Wilson. Dopo colazione i gringos chiesero ad Abeijòn il nome del miglior albergo di Comodoro Rivadavia. Lasciarono il cileno a custodire i cavalli e proseguirono fino alla città, che distava tre leghe. Commodoro, prima del boom del petrolio, era un posto minuscolo, stretto fra scogliera e mare. Lungo la sua unica strada c’erano la chiesa salesiana, l’Hotel Vascongada e la Casa Lahu-


A lato: Bruce Chatwin nello Hindu Kush in una foto di David Nash del 1964 Sotto: una stazione ferroviaria In basso: un fabbricato della regione

Gli uomini giocavano a taba con un osso del piede della vacca. Se cadeva sulla parte concava era “suarte” (fortuna) e segnava la vittoria; se cadeva sulla parte convessa era “culo” e la partita era persa mata in pendenza verso la fiamma. Nel pomeriggio il vento soffiava tagliente dalla Cordigliera con turbini di neve; un giovanotto dall’aria sognante, coi capelli stopposi, alimentava il fuoco, e gli uomini giocavano a taba. Chiamano taba un particolare osso (l’astragalo) del piede della vacca. Il giocatore lo getta su un bersaglio rotondo di fango o sabbia a dieci passi di distanza: se cade sulla parte concava è suarte (fortuna) e vince; se cade sulla parte convessa è culo e perde; se poi cade sull’orlo del bersaglio il gioco non vale. Un buon giocatore sa quanto effetto all’indietro deve dare per piazzare in suerte l’astragalo. Naturalmente ci sono una quantità di scherzi riguardo al culo. Io feci culo molte volte e persi un bel po’ di denaro». maro e asciutto, il commiato, con una venatura di machismo presente in tutto il libro e che qui, improvvisamente, diventa più marcata: «la nave era un tempo il vapore “Ville de Haiphong”. La terza classe aveva le caratteristiche di una prigione asiatica e le paratie sembravano fatte più tener indietro i facchini che l’irrompere dell’acqua. I chilotes si precipitarono giù nella grande cabina comune, che aveva il pavimento pieno di scarafaggi schiacciati e puzzava delle cozze in umido vomitate dai passeggeri precedenti. I ventilatori della prima classe erano stati disinseriti e nel salone a pannelli bevemmo un bicchiere col personale di una miniera di caolino, che la nave avrebbe sbarcato, a mezzanotte, sulla loro bianca isola senza donne in mezzo al mare. Mentre uscivamo lentamente dal porto un uomo d’affari cileno suonava “La Mer” su un pianoforte bianco, sbagliando spesso i tasti». Chatwin visita la Patagonia quando non ha ancora compiuto quarant’anni. È il 1977. Morirà a Nizza dodici anni dopo essersi ammalato di Aids. Insieme a Utz – in Italia pubblicato, come tutta l’opera, da Adelphi –“In Patagonia” resta il suo libro più bello e, in definitiva, il più vissuto.

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sen, un emporio che funzionava anche da banca. Gli americani bevvero un bicchiere coi cittadini più importanti e continuarono le loro ricerche sui terreni. Si fermarono una settimana. Una mattina un poliziotto li sorprese sulla spiaggia che stavano sparando. “Facciamo solo un po’di esercizio” dissero scherzando al commissario, Don Pedro Barros, che esaminò i loro Winchester e glieli rese sorridendo. Gli americani tornarono a La Mata. Bob Evans distribuì caramelle ai bambini di Abeijòn. Ripartirono di nuovo in mattinata, questa volta con tutti i cavalli e col peone. Abeijòn scoperse che i fili del suo telefono erano stati tagliati. All’una del pomeriggio del 3 febbraio faceva caldo e tirava vento e la gente di Comodoro stava pranzando. Wilson ed Evans legarono i loro cavalli di riserva a un palo al margine dell’abitato e andarono alla Casa Lahusen. Evans si fermò vicino alla porta principale.Wilson e il peone si diressero all’ingresso delle merci. Smontarono e il cileno prese in consegna entrambi i cavalli. Un passante sentì prima i due uomini litigare, poi vide il peone saltare qua e là e ripararsi dietro il suo cavallo, e Wilson sparargli, colpendolo alla mano. Il proiettile risalì lungo il braccio uscendo dalla spalla e il peone cadde in

mezzo a un mucchio di balle di lana. Il commissario Barros sentì lo sparo e trovo Wilson ripiegato su sé stesso con una mano sul petto.“Quel porco mi ha sparato”, disse. Barros gli ordinò di andare alla stazione di polizia a spiegarsi meglio. Wilson disse: “No” ed estrasse la pistola “mentre gli occhi gli brillavano diabolicamente”. Evans gridò: “Fermati pazzo!” e, spronando il cavallo fra i due, diede a Barros una spinta che fece cadere anche lui fra le balle di lana. Gli americani montarono a cavallo, slegarono i loro cavalli di riserva e trottarono fuori dalla città.Tutto si svolse in cinque minuti. Barros corse alla stazione di polizia e si mise a sparare selvaggiamente con un mitra. Quattro poliziotti a cavallo si buttarono all’inseguimento, ma poi rinunciarono. Quella notte un basco sentì i due nordamericani cantare. Stavano seduti intorno al fuoco del loro accampamento e si accompagnavano con la fisarmonica. A Comodoro, il peone era in prigione: all’ultimo momento aveva chiesto a Wilson una parte maggiore di bottino». però neppure il ritmo delle storie dell’estremo Sud distoglie Chatwin dalla contemplazione del paesaggio e, soprattutto, dall’analisi dei suoi abitanti.

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Siamo ora a Las Pampas, «venti miglia più avanti di Rìo Pico». «A nord, torreggiava El Cono, un vulcano spento, coperto di ghiaioni color bianco-osso e di nevai più chiari. Nella valle le acque verdi del fiume scorrevano rapide sopra pietre bianche. Ogni capanna di legno aveva un pezzo di terra coltivato a patate, difeso dal bestiame da pali e cespugli spinosi. C’erano due famiglie a Las Pampas, Patrocinio e Solìs. Ciascuna accusava l’altra di furto di bestiame, ma entrambe odiavano la compagnia governativa del legname e questo loro odio le univa. Era domenica. Dio aveva dato un figlio a Patrocinio, padrone del bar, e lui stava festeggiando l’avvenimento con un asado. Da due giorni arrivavano continuamente uomini a cavallo. I loro cavalli erano legati nella stalla col lazo e la boleadorias fissati al sottopancia. Gli uomini stavano sdraiati sul trifoglio bianco, bevendo vino degli otri e scaldandosi al fuoco. Il sole aveva di-

sperso la bruma lattiginosa che incombeva qua e là sulla valle. Rolf Mayer, un gaucho di sangue tedesco e indio, era quello che macellava. Magro, silenzioso, con grandi mani rosse, era vestito di un completo marrone-cioccolata e non si levava mai il cappello. Aveva un coltello ricavato da baionetta, con un pomolo di avorio giallastro. Stendeva ogni pecora su un ripiano e ne spogliava la carcassa finché rimaneva, rosa e rilucente e con le zampe all’aria, sulla bianca parte interna del vello. Poi faceva scorrere la punta del coltello sopra la pancia, dove la pelle è più tesa, e il sangue sgorgava caldo sulle sue mani. Ci provava gusto. Capivi che ci provava gusto dal modo in cui socchiudeva gli occhi, sporgendo il labbro inferiore e succhiando l’aria attraverso i denti. Tirò fuori gli intestini, tolse il fegato e i rognoni e buttò il resto ai cani. Portò le cinque carcasse vicino al fuoco e crocifisse ciascuna sulla sua croce di ferro, siste-

Bibliografia Bruce Chatwin, In Patagonia, traduzione di Marina Marchesi, Adelphi, pp. 264, euro 8,50

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I VIGLIACCHI DELLA STORIA Il nome del Maresciallo d’Italia è legato a uno dei momenti più tragici della nostra storia, l’8 settembre del 1943, sinonimo del disfacimento dello Stato e dell’esercito e di una tragedia che coinvolse tutto il popolo italiano. Dopo quel trauma, e le conseguenze che ne derivarono, si parlò di “morte della Patria” ella galassia dei generali italiani il nome di Pietro Badoglio occupa un posto del tutto particolare, perché legato a uno dei momenti più tragici della nostra storia, quell’8 settembre del 1943 divenuto sinonimo del disfacimento dello Stato e dell’esercito (con alcune nobili e per lo più drammatiche eccezioni), e di una tragedia che coinvolse tutto il popolo italiano, sollevando l’interrogativo se, dopo quel trauma e le conseguenze che ne derivarono, si dovesse addirittura parlare di “morte della Patria”. Eppure la carriera del generale era cominciata sotto ben diversi auspici. Dalla Prima Guerra Mondiale era uscito come “marchese del Sabotino”, dalla campagna d’Africa come duca di Addis Abeba. Sette promozioni per meriti di guerra ne avevano fatto uno dei più giovani generali pluristellati del nostro esercito. Il suo paese, Grazzano, in provincia di Asti, aveva voluto aggiungere il suo cognome al nome del comune. Ma per molti dei generali che gli erano stati al fianco il personaggio aveva sempre rivelato dei gravissimi limiti nella capacità di affrontare con coraggio e determinazione i momenti di emergenza e di crisi, proprio quei momenti nei quali devono emergere appieno le qualità decisionali del comandante di razza. Quello che è certo è che Badoglio fu un uomo personalmente fortunato, riuscendo a uscire indenne dalle situazioni più incresciose, anche se almeno in due casi (Caporetto e l’8 settembre) la sua fortuna personale si accompagnò a catastrofi nazionali. L’abilità del futuro Maresciallo d’Italia, secondo gran par-

Badoglio

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Il comandante che segnò la morte della politica di Aldo G. Ricci

Più di ogni altro seppe accumulare prebende, premi e onori con l’accortezza di mettersi alla finestra quando la Seconda Guerra Mondiale volgeva ormai al peggio, trovandosi così chiamato dal re a guidare il governo di emergenza varato dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943

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te dei critici, consisteva nel procurarsi estimatori e protettori potenti, ma anche nel trovarsi al momento giusto per concludere a proprio merito esclusivo operazioni preparate lungamente da altri. Così fu, per esempio, nel caso della conquista del Sabotino, che insieme al San Michele rappresentava uno dei capisaldi della difesa austriaca, contro il quale si erano infrante dieci brigate italiane, tanto da meritare a quella collina spelacchiata del Carso, intersecata da bunker, gallerie e trincee, il nome di “montagna della morte per gli italiani”. Il generale Capello ne aveva delegato la conquista al generale Montuori e questi al maggiore Nastasi, ma quando ormai l’operazione era quasi compiuta, un nuovo ordine aveva affidato la conclusione a Badoglio che la portò a termine, così come poi avrebbe fatto nella decima battaglia dell’Isonzo e poi nella presa del Vodice. Con una corsa appa-

rentemente senza ostacoli Badoglio si trovò quindi nell’ottobre del 1917, alla vigilia della disfatta nota con il nome di Caporetto, con le mostrine nuove di generale a tre stelle, al comando del ventisettesimo corpo d’Armata, a cui era affidato il presidio del tratto tra Plezzo e Tolmino, dove avvenne lo sfondamento austriaco che consentì alle armate imperiali di dilagare nella valle dell’Isonzo prendendo alle spalle, a Caporetto, il quarto corpo d’Armata del generale Cavaciocchi, che diverrà poi il principale imputato della commissione d’inchiesta incaricata d’indagare sulla catastrofe che aveva messo fuori gioco oltre un terzo dell’esercito italiano. Su quei giorni sono corsi fiumi d’inchiostro e le versioni sono tutt’altro che univoche. Ma è un fatto che nella notte tra il 23 e il 24 ottobre, le ore dell’attacco, gli ottocento cannoni di Badoglio, che avrebbero dovuto fermare l’avan-

zata, tacquero in mancanza di sue disposizioni, mentre le sue divisioni rimasero sulla riva sinistra del fiume. Nel frattempo il loro comandante dormiva saporitamente nelle retrovie e avrebbe ripreso i contatti soltanto dodici ore dopo, quando ormai la tragedia era compiuta e il generale Caviglia (da Badoglio in seguito sempre odiato) aveva preso il comando delle truppe superstiti portandole in salvo. Nonostante complesse opere di rimozione e cancellazione, quel buco nero rimarrà come una macchia e rappresenterà una delle carte nelle mani di Mussolini per condizionare il futuro Maresciallo. Sarebbe troppo lungo seguire tutte le scalate e le evoluzioni della carriera di questo generale che più di ogni altro seppe accumulare prebende, premi e onori con l’accortezza di mettersi alla finestra quando la Seconda Guerra Mondiale volgeva ormai al peggio, trovandosi così chiamato dal re a guidare il governo di emergenza varato dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943. Anche su quei famosi 45 giorni che precedettero l’8 settembre sono state scritte intere biblioteche con versioni contrastanti, che tuttavia non possono smentire alcuni punti essenziali. Le meschine vendette consumate dal Nostro contro vecchi nemici: per esempio il generale Cavallero lasciato a“Regina Coeli” in balia dei tedeschi con dossier compromettenti a suo carico “dimenticati” sul tavolo del capo del governo, e l’omicidio di Ettore Muti compiuto dai Servizi. L’ambiguità politica scambiata per furbizia, che tranquillizza i tedeschi fino alla vigilia dell’annuncio dell’armistizio, mentre tratta con gli americani chiedendo aiuti, poi rifiutati, e impossibili rinvii della notizia. La narrazione dell’incontro notturno a Roma di due generali americani incaricati di trattare lo sbarco nella capitale di una formazione aviotrasportata con un Badoglio insonnolito e contrariato dal risveglio inaspettato sarebbe comica se non fosse tragica. Le modalità del trasferimento del re e del governo da Roma a Brindisi, lasciando metà dei ministri senza informazioni su quanto stava succedendo, ma soprattutto i comandi delle Forze Armate senza ordini precisi, con la conseguenza di consegnare alla vendetta dei Tedeschi intere armate sparse sui vari teatri di guerra (oltre 600mila uomini finiranno in Germania e decine di migliaia verranno uccisi), mentre i pochi episodi di resistenza dovranno ascriversi a merito di singoli comandanti. Insomma una tragedia della Nazione, le cui ferite non sono ancora interamente sanate. Una catastrofe di cui il fascismo porta certo le responsabilità lontane, ma di cui il generale plurititolato e pluripensionato non può certo dichiararsi innocente.


I SENTIMENTI DELL’ ARTE ella carriera di ogni autore c’è sempre un oggetto misterioso. Vale a dire un film che non rientra in quasi nessun canone. Dando un’occhiata alla filmografia di Sam Raimi, di oggetti misteriosi ce ne sono più di uno, ma quello che fa veramente macchia nella sua carriera (almeno fino a questo momento) è il bellissimo “Soldi sporchi”, targato 1998. Dopo aver firmato alcune perle dell’horror moderno come “La casa”, “L’armata delle tenebre” e lo straordinario “Darkman”, “Soldi sporchi” (in originale un incisivo e ironico “A simple plan”) fu etichettato da molti (compreso qualche fan del regista) alla stregua di un errore di percorso. Come spiegarsi d’altronde un cambiamento di stile così netto e una durezza tanto radicale? Ad ogni modo Raimi dimostrò di non essere soltanto un cineasta camaleontico come pochi altri (lo avrebbe poi dimostrato anche con “Gioco d’amore” e con “The Gift”), ma anche un raffinatissimo autore capace di elaborare una riflessione precisa come poche altre su due personaggi in cerca d’autore. Due fratelli insoddisfatti, incapaci di imprimere alle loro vite una svolta, intorpiditi e fiaccati dalla sonnolenta provincia in cui sono nati e cresciuti. In realtà, due terribili cani di paglia. Di quelli che se provocati da qualcosa o da qualcuno, sarebbero capaci di tutto. La molla che li fa scattare è quella innescata dal ritrovamento casuale di una borsa piena di dollari. Sembra un giorno come un altro quello in cui i due si recano al cimitero della cittadina in cui vivono per portare i fiori sulla tomba dei genitori. Non sanno che la loro vita sta per cambiare. Trovata la valigia, la nascondono per bene e procedono al conteggio. Sono quattro milioni e mezzo di dollari. Una cifra del genere non l’hanno vista nemmeno nei loro sogni più arditi. Tanti soldi, troppi soldi. Già, ma dove vengono e, soprattutto, di chi sono? Domanda senza risposta. L’unica cosa certa è che sono lì, davanti a loro. E che possono cambiare loro la vita in un attimo. Non sfruttare la situazione sarebbe folle. E si mettono subito d’accordo: Hank (interpretato da Bill Paxton) nasconderà il malloppo a casa sua almeno per un anno, in attesa che arrivi il legittimo possessore della fortuna. Jacob (il fratello ritardato a cui dà vita un intenso Billy Bob Thornton, candidato all’Oscar

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L’AVARIZIA Il film “Soldi sporchi” di Sam Raimi

Perdere tutto per niente di Francesco Ruggieri

I protagonisti del movie: Bill Bob Thornton a sinistra e Bill Paxton a destra

Billy Bob Thornton è Jacob, il fratello di Hank interpretato da Bill Paxton. Per questo ruolo l’ex della Jolie fu candidato all’Oscar

per il ruolo) ci sta. Ma è a causa sua che la situazione degenera presto. Perché la tentazione di tenersi i soldi per sé e conservarli gelosamente, è troppo più forte di ogni altra cosa. Raimi è sempre stato grande amico dei fratelli Cohen. E il primo pensiero che viene in mente è “Fargo” (diretto per l’appunto dai due fratelli nel 1994). Somiglianze: lo sfondo

resto. Famiglia, lavoro, umanità. È una droga che entra in circolo. Lenta, inesorabile, fatale. Raimi non calca la mano, ma monitora e cesella in punta di piedi. Lontano dai calembour spericolati dei film precedenti, si sintonizza sul respiro quieto della provincia, indugia sul passo lento dei protagonisti e costruisce in pochi frammenti un micromondo di gelosie e piccole meschinità da brivido. Si parte dal minimalismo asfissiante dell’inizio e si comincia a scendere in una montagna russa virata sul biancore allucinato della neve. E quello che sembrava lo sfondo di un semplice racconto di provincia, esce allo scoperto come un lucidissimo pamphlet umanistico che assume poi le forme definitive di una tragedia che non fa prigionieri. Responsabile di tutto? Il denaro. Che non si limita solo a corrompere, ma che inquina, corrode, destabilizza, provocando l’inesorabile cancrena dell’anima. E alla fine non rimane che pietra su pietra. Non esistono più rapporti familiari, amicizie, legami di sangue. Nel crepusco-

Ogni sequenza della pellicola trasuda brama di denaro. All’apparizione della borsa zeppa di soldi spariscono famiglia, lavoro e umanità

innevato, un bel gruzzoletto di dollari in ballo, personaggi che affondano le radici nell’America profonda della provincia. Ma la differenza sostanziale è grande: al centro di “Fargo” campeggiava la classica tirata coeniana sulla stupidità umana, mentre ogni sequenza di “Soldi sporchi” trasuda brama di denaro. All’apparizione della valigia zeppa di soldi, sparisce tutto il

lo malinconico di ogni valore, c’è spazio per la sola distruzione. E quando l’ultimo sopravissuto (Hank) si accorge che i soldi erano segnati, dunque inutilizzabili (si trattava infatti di una somma di denaro che sarebbe servita a pagare un riscatto di persona), il dramma si trasforma in apologia dell’assurdo. E in una tragicommedia senza vincitori. Il film capitale della storia del cinema sulla cupidigia e la conseguente avarizia rimane “Greed” (diretto da Erich Von Stroheim nel lontanissimo 1924), non c’è dubbio. Ma “Soldi sporchi” fa la sua bella figura. Si è vista raramente una riflessione così pungente e dolorosa su quel dannato demone verde che abita da sempre la storia dell’uomo.

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Cruciverba d’agosto

“L’imperator del doloroso regno”

di Pier Francesco Paolini ORIZZONTALI

1) Romanziere inglese: Camera con vista (1908) Passaggio in India (1924) • 8) Lajos proclamò l’indipendenza dell’Ungheria nel 1849 • 15) Allegri • 20) Far uguale • 21) L’antica Lucania • 22) La battaglia in cui Napoleone III perse, per un gioco di parole, ses dents • 23) Scrisse Le avventure di Telemaco nel 1695 • 24) Cuocer a fuoco lento e, in Toscana, vale anche canzonar • 25) Un punto cardinale • 26) La lingua ufficiale della Nigeria • 27) ...... non è guari • 28) Non ...... : senza pari • 30) Società per Azioni • 31) Preposizione • 32) Un istinto medesmo, un’...... forza / sospingeva gli umani (Parini, Il giorno) • 35) Lo era Pipino • 36) In America, ma anche altrove, spesso vale “università” • 38) Nocchiero • 42) Il Piccolo ...... di Mascagni • 44) Quantità indeterminata • 46) Fango • 47) Frigg, Baldr, Nanna, Ran e altri—con il loro capo Odino • 48) Un professionista (abbr.) • 50) Produsse film in Italia dal 1906 • 52) ...... iudice • 54) Abbreviazione bibliografica • 55) Scuola fondata in Atene da Zenone di Cizio • 57) Tipica carrozzella inglese nell’Ottoceno—oggi vale “taxi” • 59) ...... s’arretra / che conosce i tuoi dritti (Parini, Il giorno) • 61) L’imperator del doloroso regno • 63) Il padre del Signor Bonaventura • 65) Iniz. di Prodi • 67) Stirpe • 69) Iniz. del regista teatrale Ronconi • 70) Adesso • 71) Dar noia, offendere • 74) La città dorica (sigla) • 75) Sede di una celebre reggia, nell’Italia meridionale • 80) Starr dei Beatles • 82) Emessi • 84) Allacciature ornamentali • 85) Attore inglese • 86) Una linea fortificata che non protesse la Francia dall’invasione tedesca • 87) Teiera russa • 88) Bruttissima • 89) Opera campestre • 90) Pagare

VERTICALI

1) Mademoiselle, racconto di Guy de Maupassant • 2) In nomen ...... • 3) Lardner, scrittore am. di racconti perlopiù umoristici: Il nido d’amore (1926) • 4) Effrena, protagonista del Fuoco di D’Annunzio • 5) Soggetto di una celebre parabola del Vangelo • 6) Il dio dell’Amore • 7) Figlia di Luigi XII, sposa di Ercole II d’Este • 8) Autore del romanzo Sulla strada • 9) Il “conto” dell’avvocato e di altri professionisti • 10) Segnale di soccorso • 11) Segnale stradale • 12) ...... li fa la pioggia come cani (Inferno, VI) • 13) Città algerina • 14) David, commediografo inglese: Slag (1970) • 15) L’...... del giorno prima, romanzo di Umberto Eco • 16) ...... Tolstoj • 17) Dicesi di oggetto senza proprietario o di libro del quale non si conosce l’autore • 18) Monaco “santone” alla Corte dell’ultimo Zar • 19) Ingombra • 29) Popolarmente detto “colpo” • 33) Fabbrica americana di automobili • 34) Dorothea, celebre fotografa americana • 37) Iniziali dell’autore di Poesie scritte col lapis • 38) American, romanzo di Philip Roth • 39) Degna di passare agli annali (variante) • 40) Pachidermi (nome arcaico) • 41) “...... sei vaga / di riandare i sempiterni calli?” chiede alla luna il Pastore Errante del Leopardi • 43) E alfine il ...... , nostro inimico, / gli suggerì comprare del veleno (Chaucer, Il racconto del Mercante di Indulgenze, trad. di Lorena Paladino) • 45) Bocca in latino • 49) Iniz. del poeta Artale di Catania (1628-79) • 51) Musulmano ortodosso • 53) Cagliostro all’anagrafe • 56) Iniz. del poeta Aleardi • 58) Fece il destrier, ch’avea intelletto umano, / Non per vizio, seguirsi tante miglia / Ma per guidar, dove la donna giva, / Il suo signor, da chi ...... l’udiva. (Orlando furioso, II-20) • 60) Il Nichelio • 62) Un assiduo ...... le membra assale / del cavalliero (La rotta di Roncisvalle) • 64) Proverbiale antagonista della suocera • 66) Una sinfonia di Mozart • 68) Democrito che il mondo ...... pone (Inferno, IV) • 72) sì che la ...... si volve in disio (Inferno, III) • 73) Ente per il Turismo • 76) Ladd, attore (Il cavaliere della valle solitaria, 1953) • 77) Foni e ...... leggendari terzini • 78) e ...... , come diciam, chiodo per chiodo (Don Alfonso in Così fan tutte) • 79) Spinta, avvio • 81) ......’s Little Acre, romanzo di Erskine Caldwell (tit. it. “Il piccolo campo”) • 83) Suprema divinità mesopotamica.

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L’Almanacco Hanno detto di… viaggiare

LA POESIA SESAZIONE

per una cifra aggiuntiva di 8 mila sterline. Prenotazione obbligatoria!

Viaggiare non è veramente piacevole, si va incontro all’ignoto e l’ignoto è qualche volta sgradevole e sempre traumatico; però, fa bene. Alberto Moravia

L’origine di… infinocchiare Si racconta che gli osti di una volta, prima di servire il vino a tavola, offrissero ai loro clienti del finocchio fresco. Dato che il sapore del vino risulta più gradevole con il gusto di questa verdura in bocca, l’oste poteva facilmente “infinocchiare” l’avventore, servendogli del vino poco buono o annacquato, senza che questo si lamentasse.

D&R Qual è il taglio di capelli più caro del pianeta? Il Salone Stuart Phillips di Londra è entrato a far parte del Guinnes dei Primati con un esclusivo taglio di capelli da ben 17 mila sterline (quasi 22 mila euro). Il salone infatti, arredato con oltre ventimila cristalli Swarovski oltre al taglio “mozzafiato” offre un pacchetto Comfort che comprende il viaggio in aereo, il trasferimento in limousine e lo champagne

Nelle sere d’estate andrò per i sentieri, pizzicato dal grano, pestando i fili d’erba; ne sentirò, sognante, il fresco sotto i piedi.

a cura di Maria Pia Franco

E al vento lascerò bagnare la mia testa. Non dirò più parole,

LA SOLUZIONE DI IERI 1

non farò più pensieri:

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mi salirà nel petto,

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e andrò molto lontano, sarò come

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edizioni Novità 180 pagine in libreria 14 euro

Questo libro raccoglie un ciclo inedito di 19 lezioni di Lucio Colletti, a cura di Luciano Albanese, sulla Dialettica trascendentale di Kant (la terza e ultima parte della Critica della ragion pura) che appartiene all’ultimo anno del suo insegnamento presso l’Università di Roma (1994’95), l’ultimo prima dell’ingresso in Parlamento nelle file di Forza Italia. Colletti non è più marxista da tempo, e da queste lezioni traspare molto scetticismo e disincanto, in particolare sulle «magnifiche sorti e progressive» che lo stesso Marx assegnava di diritto al corso storico dell’umanità. Il Kant esaminato in queste lezioni è molto vicino a Hume e a tutti i teorici del «pensiero debole». Tuttavia Colletti è rimasto materialista e antihegeliano, anzi, molto più materialista di prima, avendo scoperto che anche in Marx si annida un fondo di fede religiosa. Da questo punto di vista le lezioni del 1994-’95 rappresentano la vittoria definitiva di un ideale che Colletti aveva perseguito da sempre: quello di un’etica laica, e precisamente di un’etica della ricerca scientifica.

LUCIO COLLETTI LEZIONI TEDESCHE Con Kant, alla ricerca di un’etica laica

PREFAZIONE

DI

GIUSEPPE BEDESCHI


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letture Centocinquant’anni fa Ippolito Nievo finiva la stesura di ”Confessioni”

l 17 agosto 1858 - esattamente centocinquant’anni fa - Ippolito Nievo scrisse all’amico Arnaldo Fusinato: «Ieri alla fine ho terminato il mio romanzo, son proprio contento di riposarmi. Fu una confessione assai lunga». Giocava sul sostantivo del titolo - Le confessioni di un Italiano - dell’opera alla quale aveva cominciato a lavorare tre anni prima. L’aggettivo del titolo fu poi sostituito dall’editore (Felice Le Monnier, di Firenze) e il libro fu pubblicato con un titolo ritenuto meno compromettente: Le confessioni di un ottuagenario. Il riferimento è al protagonista, non certo all’autore che aveva appena ventisette anni nel 1858, e che morì prenel maturamente 1861, sei anni prima della pubblicazione del suo capolavoro. L’età di Carlo Altoviti è scritta nell’incipit del romanzo: «Io nacqui veneziano ai 18 ottobre 1775, giorno dell’Evangelista Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza Sotto, Ippolito Nievo. che governa misteSopra, il pronipote Stanis. riosamente il monA lato, tre quadri dell’epoca: do». CentocinquanGaribaldini, il giorno innanzi t’anni fa. la battaglia del Volturno di Filippo

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Nievo era poco più che un ragazzo, ma aveva già alle spalle un passato importante, come letterato e come patriota. «Aveva già fatto parlare di sé», ha scritto un suo pronipote, Stanis Nievo, rievocando le circostanze tragiche della sua scomparsa. «Più ancora ne avrebbe fatto in futuro, anche se lui non l’avrebbe saputo». La descrizione fisica è questa: «Elegante, distacviso cato,

L’archetipo dell’Italiano vissuto prima dell’Italia di Massimo Tosti

Palizzi; Ascoltando la notizia del giorno e Donne che preparano una bandiera tricolore di Gerolamo Induno. A destra il frontespizio e la copertina del romanzo Le confessioni di un italiano

Il grande scrittore e patriota fu nominato viceintendente generale dei Mille: era dotato di «buon senso, sveltezza e onestà»

morbido, occhi marroni, mobilissimi, aveva un carattere imprevedibile, ora caldo, ora gelido. Freddo coi superiori, proteggeva i suoi subalterni come una gatta i suoi piccoli, pur rimanendo riservato anche con loro».

Nel 1860, Ippolito prese parte alla spedizione dei Mille. Già l’anno prima si era arruolato fra i volontari di Garibaldi per combattere a fianco dell’eroe dei due mondi nella Seconda guerra d’indipendenza. In Sicilia gli fu assegnata un’incombenza civile, e non militare. Fu nominato viceintendente generale dei Mille, perché era dotato di «buon senso, sveltezza e onestà». Svolse l’incarico con il massimo dello scrupolo, «arrivando a

dormire fisicamente sul mucchio di denaro, mezzo milione di piastre, che gli era stato affidato a Palermo dopo la conquista, onde controllarlo meglio nel disordine della situazione».

Nonostante le sue capacità e il suo zelo, non mancarono le calunnie «volte a screditare la più libera e fortunata avventura del Risorgimento», che finirono per provocare un’inchiesta. Questa si rivelò fatale per Nievo, che ricevette l’incarico di tornare in Sicilia per raccogliere tutta la documentazione contabile sulla spedizione. Si imbarcò sul vapore Ercole che - nel viaggio di ritorno verso Napoli - naufragò nella notte fra il 4 e il 5 marzo 1861. dodici giorni più tardi - il 17 marzo - sarebbe nato ufficialmente il regno d’Italia, una creatura che Ippolito aveva cullato nella sua immaginazione di scrittore e nella sua passione di patriota. Il relitto del vascello non è stato mai ritrovato, anche

se alcune spedizioni compiute in anni abbastanza recenti (per volontà del pronipote Stanis) hanno consentito di accertare con una certa approssimazione il luogo del disastro, al largo delle bocche di Capri. Quanto alle ragioni, restano in piedi molte ipotesi contrastanti. «Il naufragio», ha scritto Gigi Di Fiore nella sua Controstoria dell’unità d’Italia, «legittimò le insinuazioni dei cavouriani contro gli amministratori garibaldini, ma anche le accuse delle camicie rosse che parlarono di misteriosi agenti del primo ministro piemontese in azione per paura della verità». Stanislao Nievo nel libro Il prato in fondo al mare (pubblicato una trentina di anni fa) cercò di dimostrare che l’Ercole calò a picco a causa di un attentato. Un’ipotesi che avvalora il sospetto che nelle casse di documenti recuperati da Ippolito Nievo ci fosse materiale compromettente.

Singolare destino morire in circostanze oscure per un giovane scrittore che aveva riversato tutto il suo ardore patriottico in un romanzo che molti critici (nell’Ottocento) giudicarono come il più bello che fosse stato scritto in quel secolo, secondo soltanto ai Promessi sposi di Manzoni. Adesso che anche Federico De Roberto (con i suoi Vicerè) è stato riabilitato come meritava quella medaglia d’argento per la narrativa italiana dell’Ottocento possono contendersela in due (o in tre, aggiungendo il mome di Verga, con I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo). È pur vero che il romanzo in Italia non viveva un’epoca paragonabile a quella francese (che poteva contare su Balzac, Hugo, Flaubert, Dumas, Zola, eccetera), ma è altrettanto vero che Ippolito Nievo meriterebbe oggi di essere riletto, anche se è troppo lungo e gli mancò (per la morte dell’autore) il lavoro di ripulitura che gli editori postumi non ebbero il coraggio di effettuare. Le Confessioni costituiscono una testimonianza importante sulle ansie di libertà che animarono le generazioni vissute fra la fine del Settecento e la prima metà del secolo successivo. Carlino Altoviti (il protagonista) è un archetipo dell’Italiano vissuto come tale, prima che l’Italia nascesse. E la Pisana, l’eroina del romanzo, è una protofemminista, coraggiosa e indipendente, persino troppo moderna nelle sue contraddizioni e nel suo coraggio. Ma, ormai, chi si ricorda di lei? Neppure gli anziani di oggi che la videro interpretata in televisione da Lidia Alfonsi in uno sceneggiato di Giacomo Vaccari andato in onda nell’ormai remoto 1960. Neppure quelli che ancora ricordano con nostalgia gli sceneggiati di una volta, quando la tv era in bianco e nero, il venerdì c’era il teatro, e non c’era tutta la spazzatura di oggi.


letture

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L’editrice San Raffaele pubblica in Italia una biografia di Gaiduk, che ribalta i dogmi sull’impegno civile dello scrittore

Dottor Cechov,specialista in compassione di Angelo Crespi a salma di Anton Cechov giunse a Pietroburgo da Badenweiler, Germania foresta nera, il 7 luglio 1904. Ironia della sorte viaggiava a bordo di un vagone frigo che trasportava ostriche per i ristoranti della città. Pochi giorni prima, la notte del 2 luglio, il dottor Schwoerer chiamato al capezzale dalla moglie Olga Knippern, come impone l’etichetta russa e quella tedesca a un medico che assiste alla morte di un collega, gli offrì un bicchiere di champagne. Cechov, medico lui stesso, che da anni aveva diagnosticato la propria malattia – tubercolosi polmonare – disse senza troppi fronzoli: «Ich sterbe» (“Io muoio, ndt”). Per poi aggiungere: «È da molto tempo che non bevo champagne». Furono le sue ultime parole. Ostriche e champagne segnano la fine di uno dei più grandi scrittori russi di tutti i tempi. Tolstòj che gli fu amico e, per breve tempo, maestro paragonava Cechov agli impressionisti. Vale a dire a quegli artisti che spalmano i colori come se non li scegliessero e li gettano sulla tela, così, come capitano, tra una pennellata e l’altra. Tuttavia basta allontanarsi un po’ e guardare: il quadro diventa chiaro e l’insieme assume forza.

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D’altro canto Ciajkovskij, con il quale Cechov strinse una breve e intensa relazione amicale, subito dopo averlo conosciuto appena ventottenne scrisse agli amici musicisti asserendo: «credo che sia la futura colonna della letteratura russa». Eppure Cechov, nato nel 1860 a Taganròg – la cittadina alla foce del Don dove Garibaldi incontrò “il credente”, un oscuro personaggio che farà conoscere al futuro eroe dei due mondi il pensiero di Mazzini – soste-

ti, accadimenti, addii, lutti. Da quel viaggio riportò oltre a una bianca mangusta “quasi addomesticata”, impressioni dettagliate sull’universo concentrazionario che traspose nel saggio L’Isola di Sakhalin e che in seguito furono fonte di ispirazione per il racconto La corsia n. 6. Una macabra novella che impressionò fin Lenin per la lucidità dell’analisi.

neva di aver sposato la medicina, mentre la letteratura era appena un’amante.

Poca cosa per un uomo belloccio, elegante, raffinato, perfino simpatico che di amanti ne ebbe troppe, mentre di mogli vere una sola, che gli restò devota anche dopo la morte. Ciò nonostante, Cechov non sarà ricordato come un medico. Sebbene, vale la pena sottolinearlo, non dimenticò mai la professione, tenendo sempre in esercizio martelletto, stetoscopio, abbassalingua, termometro e impegnandosi durante la vita talvolta perfino in surreali attività sanitarie, come quando partecipò da medico condotto al

Questa lucidità fu un tratto del tutto peculiare dell’opera dello scrittore. Ancora Tolstoj disse che Cechov «prendeva dalla vita ciò che vedeva, indipendentemente dal contenuto di ciò che vedeva». Ma – come arguisce Viktor Gaiduk in una intensa

Sopra Anton Pavlovic Cechov. A sinistra Pyotr Ilyich Ciajkovskij. A destra Lev Nikolaevic Tolstoj, entrambi estimatori dello scrittore. Sotto la copertina del libro Cechov, un impressionista di Viktor Gaiduk

In Cechov un impressionista il critico ha ricostruito gli anni passati dal romanziere come medico condotto, indispensabili per capire (e raccontare) le miserie umane primo censimento indetto dagli Zar. Oppure quando decise, contrariando famiglia e amici, di recarsi, mentre aveva da poco vinto il prestigioso premio Puskin, in visita per tre mesi alla remota colonia penale sull’isola di Sakhalin, da cui tornò

turbato per le atroci condizioni degli ergastolani e più malato di prima per via delle avverse condizioni meteorologiche.

Fu quel viaggio forse l’esperienza più drammatica della sua biografia, pur densa di fat-

biografia appena uscita per la nuova Editrice San Raffaele con la curatela di Armando Torno (Cechov un impressionista, 94 pagg, 14 euro) – chi si fermasse «all’obiettività dell’opera di Anton Pavlovic Cechov, alla sua precisione nei dettagli, che egli stesso riteneva essenziale in uno scrittore, all’apparente freddezza del medico che annota i sintomi della malattia senza intima partecipazione, rischierebbe di

comprendere ben poco di un autore che ha sempre saputo esprimere e filtrare attraverso la precisione del linguaggio la sua personale visione della condizione umana». Una condizione umana partecipata da Cechov con sofferta ironia e non – come tramandato dai critici – guardata con algido distacco, così almeno appare seguendo il contrappunto tra vita e opera condotto da Gaiduk, storico di vaglia, che bisogna ringraziare per essersi intestardito a raccogliere frammenti lontani dalla pomposa storiografia ufficiale, concentrandosi invece sulla “petite histoire”, ricca di aneddoti e sfumature, di uno scrittore alle prese coi suoi tempi. Ne esce un ritratto lontano da quell’agiografia che post mortem ha quasi imbalsamato l’opera cechoviana facendo dello scrittore un mito assoluto, profeta dell’impegno civile. E allo stesso tempo restituendone il carattere originale che non era, come criticato da molti dei contemporanei, neppure il disimpegno civile, il disinteresse alla battaglia sociale.

Cechov fu probabilmente un genio involontario. Scrisse da principio giovanissimo per soldi, giustificando il suo talento dietro la necessità di mantenere una famiglia squinternata e squattrinata. E quindi lo fece ogni giorno – e con la foga tipica di chi presagisce la fine imminente – dalle 5 di mattina alle 11, e poi dalle 3 del pomeriggio fino a sera. Nel frattempo prese la vita con antica sapienza, traendo ispirazione dalle persone che lo circondavano senza mai trasformarle in macchiette e anzi mettendo in campo una capacità di comprensione che in russo è detta “sochuvstvovanie”e che si può tradurre con “simpatia” nel senso etimologico di “compassione”, cioè di sofferta partecipazione al dolore altrui.


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La Sardegna dell’entroterra, l’Abruzzo di D’Annunzio, la Puglia dei trulli. Dal Friuli alla Basilicata spopola la mania degli ”alberghi diffusi”, strutture che assicurano straordinaria ospitalità a prezzi bassissimi

Tutti pazzi per il ”low hotel” di Roselina Salemi on li trovate nelle guide. Dovete avere un amico, che l’ha saputo da un amico, che c’è già stato. Gli “alberghi diffusi”si affidano al passaparola. E rappresentano un modo diverso di andare in vacanza, oggi molto in tendenza. Un po’ cheap, un po’ chic. Un modo per scoprire la Sardegna dell’entroterra, l’Abruzzo di D’Annunzio, la Puglia dei trulli. Dal Friuli alla Basilicata, dal Lazio alla Calabria, una cinquantina di strutture assicurano straordinaria ospitalità (si mangia sempre benissimo), luoghi incantevoli e prezzi bassi (a partire da 30/40 euro per la camera e da 25/30 per la cena).

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L’albergo diffuso (mediamente a tre stelle, ma le valutazioni sono difficili) può essere costituito da un gruppo di edifici storici, da ex fabbriche o da un intero borgo abbandonato e poi recuperato. Una casa fa da reception, un’altra da ristorante. E, almeno in teoria, devono essere abbastanza vicine da non far raffreddare un cappuccino. Le camere sono diverse per posizioni, colori, arredamento. Non c’è alta, né bassa stagione ed è sempre aperto. Chi sceglie questa sistemazione non è un cliente, ma un “residente temporaneo”.Vive la vita del paese, frequenta corsi per imparare a

Sopra una veduta di Santu Lussurgiu (Oristano), un piccolo paese che però ospita ben due “alberghi diffusi”. A destra il lago Volaia in Carnia (Friuli). A sinistra un panorama di Santo Stefano di Sessanio (Abruzzo), uno dei più bei borghi d’Italia, e un’immagine dei celebri Trulli pugliesi latore di grappe), hanno condiviso la stessa illuminazione. Restituire la vita ai paesi feriti dall’abbandono. E perché no, farne il loro piccolo regno. Per chi è ideologicamente in opposizione alla Sardegna del-

Mediamente a tre stelle, possono essere costituiti da un gruppo di edifici storici, da ex fabbriche o da un intero borgo abbandonato e poi recuperato. Il costo? A partire da 30/40 euro a camera fare la pasta, assaggia le specialità del territorio (notevoli), scopre la provincia profonda. Ci sono problemi burocratici, perché una situazione del genere è difficile da catalogare, ma questo non è solo un business, è anche un atto d’amore verso borghi spopolati, tradizioni e mestieri quasi perduti. Quasi. Alcune persone, che con l’hotellerie non avevano niente a che fare (una signora vagabonda, uno svedese con radici abruzzesi, un coltellinaio, un professore di musica, un distil-

la Costa Smeralda, tra l’altro in straziante crisi, A Santu Lussurgiu (Oristano) di alberghi diffusi ce ne sono due: “L’Antica dimora del Gruccione” (un minuscolo, colorato uccello tropicale), e “Sas Benas” (si chiamano così, in sardo, i flauti di canne). Quella del Gruccione è una casa del Settecento, un tempo abitata dai nonni della proprietaria, Gabriella Belloni. Pietra, legno, un grande spazio per chiacchierare e due ariose rampe di scale che portano alle affascinanti stanze tappezzate

di damasco, dipinte o affacciate sui tetti (60 euro la doppia). Sei camere in tutto, (più quattro all’“Antica dimora delle rondini”) e una cucina da dove spuntano delizie come la pasta fatta in casa, l’arrosto di bue rosso (un presidio slow food), le focacce con le erbe selvatiche e il “casizolu”, un formaggio da cuocere sulla piastra (altro presidio slow food).

“Sas Benas”, (18 camere), è nato in nome della musica. Diego Antonio Are, collezionista di strumenti musicali, ha chiamato la società “Nuova armonia” e si capisce subito come mai. In ogni sala, troneggia un prezioso clavicembalo, irresistibile quello color aragosta. Si mangia benissimo anche qui (menù fisso a 28 euro), le camere sono romantiche, con letti di ferro battuto dai lievi colori pastello, coperte e tappeti tessuti a mano. Attorno, la natura selvaggia del Montiferru da scoprire in jeep: boschi incantati, nuraghi, torrenti, inquinamento zero.

Nelle fattorie ti portano a vedere gli esemplari di bue rosso che non diventeranno mai bistecche, perché, spazzolati e bardati, devono essere esibiti alle feste (fanno status quanto una Ferrari). Il caso da manuale, però, è Bosa (sempre Oristano), borgo tagliato in due dal fiume Temo, che sfocia poco più in là: tre edifici (“Corte Fiorita”, “Le Palme”,“I Gerani”) che diventeranno cinque quando sarà completato il restauro delle concerie in rovina affacciate sull’acqua. Con il turismo, il paese è tornato alla vita: si gira a bordo di un’auto elettrica, si va in barca sul fiume, si fa conoscenza con le tessitrici e gli artigiani che lavorano la filigrana o la rossa pietra di Bosa. Peccato andarsene. Ma sarebbe un peccato anche perdersi l’impronunciabile “Omuaxiu”, a Orroli (Cagliari), travolto da insolita notorietà causa più alta percentuale di anziani in buona salute al mondo. Record, un nonno di 113 anni. Ogni 40 giorni, pattu-

glie di giapponesi che hanno visto in tv il servizio sul “paese della longevità”, si iscrivono ai corsi di cucina o di erboristeria. Bravi come sono, troveranno il segreto e lo copieranno. Intanto la signora Vargiu prepara la “fregola” e il figlio Agostino organizza gite sul Flumendosa con battelli ecologici a pale. Un trenino va su e giù in questo far west domestico. E la sera, anche se rifiuti, qualcuno ti trascina con garbo nel ballo tondo, che mima il gioco eterno dell’amore. Naturalmente, speri che nessuno ti fotografi come a Gardaland. Male che vada, puoi sempre dare la colpa allo shock da liquore al mirto (la ricetta è segreta).

Ma, attraverso il Patto del Matese, anche il Molise ha fatto rivivere i suoi paesi contadini, ricavando oltre seicento posti letto (bellissima la “Dimora del Castello”, a Sepino, Campobasso). E in Abruzzo, a Santo Stefano di Sessanio, Daniele Kihlgren, metà abruzzese,


costume

12 agosto 2008 • pagina 21

a un camino dove brucia legna profumata (pino, rami di rosmarino) si può camminare a piedi nudi su un pavimento medievale reso dolcemente tiepido da un sofisticato impianto nascosto di teleriscaldamento.

Le stanze sono diverse per posizioni, colori, arredamento. Non c’è alta né bassa stagione ed è sempre aperto. Chi sceglie questa sistemazione non è un cliente, ma un “residente temporaneo” metà svedese, ha trasformato il borgo in rovina in una residenza fascinosa, dove il tempo è sospeso, dove cambia anche il ritmo del respiro. Arrivato dieci anni fa a Santo Stefano di Sessanio, piccolo borgo fortificato nel Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga (una natura incantevole, un territorio ancora intatto) ha acquistato a prezzi d’occasione diversi edifici e li ha restaurati con pazienza per restituirli alla loro storia di vita contadina. Corti,

loggiati, archi e la bella torre medicea caratterizzano il paese. Le sei stanze del Palazzo delle Logge, più altre 32 in diverse strutture hanno mantenuto lo stile e l’architettura feudale. Sono state lasciate le vecchie serrature, le scale non perfettamente levigate, i muri “vissuti”. Le lenzuola di lino fatte a mano provengono da antichi corredi, le coperte sono tinte con colori naturali, si può fare il bagno caldo (in camera) in una bellissima vasca ovale davanti

Anche la cucina fa parte del “progetto autenticità”. La signora Emanuela prepara indimenticabili marmellate e sforna torte fragranti ogni mattina. Olio, lenticchie (tra le migliori d’Italia) e altri prodotti arrivano dal territorio. Un antropologo ha ricostruito dalla cultura delle donne le tradizionali ricette abruzzesi.Tra gli alberghi diffusi, Sextantio è quello con i prezzi più alti (120-140 euro per la doppia con la prima colazione), ma l’atmosfera è veramente speciale: tutti i comfort della modernità sono ben nascosti e l’accoglienza è familiare. Il progetto integra botteghe artigiane, una scuola di tessitura, un’erboristeria, un centro benessere e una locanda sotto gli archi, per vivere la vita del borgo. Un salto indietro nel tempo, lontano da tutto. Raccomandazione: spegnere il cellulare (se possibile). Ma il posto meno catalogabile di tutti non si trova in un paese e non è un borgo albergo. E’ indicato tra gli alberghi diffusi della Carnia, però si trova nelle Prealpi Giulie, più giù e più a est. Sembra un quiz,

ma trovarlo non è difficile (è anche tra i più famosi). Nato nel 2003, offre 19 soluzioni di ospitalità (da due a quattro stelle) che vanno dal centro di Forgaria (due, “Jem” e “Ca’ Cjastrin”) ad altri 17 sparsi sull’altopiano, isolati o inseriti nelle tipiche borgate friulane. Tutte hanno mobili in legno, camino, stufa per scaldare e cucinare. Per il resto si può scegliere tra una casa moderna con vista panoramica sulla valle del Tagliamento (“Panorama”e “Belvedere”), una tipica abitazione friulana dell’Ottocento circondata da un faggeto che somiglia a quella dei sette nani (“Vigilant”), lo chalet in mezzo a un prato (“Virginia”), il rifugio nel bosco “(Martar”). Un appartamento con 4 posti costa circa 100/200

euro per il weekend e 230/530 la settimana. Il tempo di annoiarsi non c’è. Ci sono 40 chilometri di sentieri Cai per le passeggiate, c’è la riserva del Lago di Cornino, e trovi sempre qualcuno che spiega come noleggiare un kayak o una moun-

tain bike. Dove chiedere la licenza di pesca, dove fare free climbing e tirare con l’arco.

Naturalmente non è vietato oziare, raccogliere verdure selvatiche, o provare e specialità di Forgaria: marmellate e sciroppi ai frutti di bosco per colazione, pranzi e cene a base di polenta e frico, goulash, spezzatino di capriolo, formaggi di malga e torte di mele della Carnia (buonissime). Poi si rotola giù a valle con qualche chilo in più. Ma a parte la scoperta, si incontra gente molto originale. Manuela Cozzi, di Anversa degli Abruzzi, (L’Aquila) è finita sul New York Times per il sito www.adottaunapecora.com. Ha pensato di far tornare i pastori su 1.100 ettari di terra. Ha chiesto al mondo intero di adottare una pecora. Entusiasmo internazionale. Ed ecco, “La porta dei parchi”. Se le chiedono: «Ma avete l’idromassaggio? E la palestra?», lei ride: «La palestra è che ognuno porta a spasso la sua pecora. La vasca con le bolle non c’è, ma si mettono le braccia dentro il latte per fare il formaggio, non è meglio?». Avrà ragione: per i suoi 30 posti letto bisogna mettersi in coda. Serissimi banchieri tedeschi, padri adottivi di pecorelle abruzzesi, vengono a marzo e novembre per il pascolo, spengono il computer e giurano, davvero, di non essere mai stati così felici.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO

IMMAGINI DAL MONDO

Giusto che lo Stato finanzi film sugli anni di piombo? NON È FACILE MANTENERE ALLO STESSO TEMPO DISTACCO OBIETTIVO E RISPETTO PER LE FAMIGLIE

HA RAGIONE IL MINISTRO SANDRO BONDI: NON È GIUSTO FINANZIARE FILM SUL TERRORISMO

Dopo le polemiche dei giorni scorsi, si riapre il discorso sui rapporti tra cinema e terrorismo, mentre con Scamarcio c’è il progetto di un film dal libro di Sergio Segio. Dunque la questione è? E’ giusto che lo Stato tiri fuori lauti finanziamenti per progetti cinematografici? E più propriamente: è giusto che lo Stato vada a finanziare quei particolari progetti cinematografici che vadano direttamente a trattare scottanti argomenti come gli anni di Piombo e il terrorismo dell’epoca? La mia risposta, mi rendo conto poco originale, è un secco: non lo so. Da una parte non sarebbe sbagliato godere di aiuti economici statali per realizzare un film che possa gettare luce su un periodo della storia italiana, sebbene triste e spiacevole, ma che comunque ha caratterizzato uno spaccato importante e dalle molteplici conseguenza sociali, politiche e internazionali. Dall’altra però, soprattutto quando si va a parlare di terrorismo rosso delle Br, comprendo che sia non solo poco semplice trattare l’argomento con obiettivo distacco, ma è anche difficile farlo senza ledere la dignità delle famiglie delle vittime di quegli anni.

Al ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, non è piaciuto il film sulle Br Il sol dell’avvenire, finanziato proprio dal suo dicastero, che è stato presentato al Festival di Locarno. Le motivazioni del ministro, che mi sento di condividere in tutto e per tutto, sono lucide, convinte, ma soprattutto convincenti: «L’ho visto su sollecitazione di Giovanni Berardi, dell’associazione vittime del terrorismo, e sono rimasto impressionato: i terroristi non mostrano né rivisitazione critica né pietà. E’ un amarcord alla Fellini. Ci si rivede in trattoria, si ride, si scherza e si ricorda con nostalgia. Si dice persino: ”Noi non eravamo terroristi. Terrorista era lo Stato”. Film come questo, finanziato dal precedente governo, non verranno più sovvenzionati perché feriscono le vittime. Ma sono allarmato che venga presentato in una platea internazionale». E infatti, se io fossi anche per un solo giorno il ministro dei Beni culturali Bondi, lo ritirerei immediatamente. Certamente prima di una giusta ”ribellione”da parte delle famiglie di chi, in quegli anni, ha perso la vita anche per difendere proprio questo Stato.

Marco Valensise - Milano

LA DOMANDA DI DOMANI

”Stelle” cadenti: quali sono i vostri desideri?

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Greta Gatti - Napoli

SI PUÒ ANCHE SOVVENZIONARE SIMILI PELLICOLE, MA CHE PRIMA ALMENO CI SI DOCUMENTI A DOVERE Non è mai semplice farsi un’idea chiara circa tematiche delicate come questa. Però ho letto qualche giorno fa un’intervista sul Corriere della Sera al regista Marco Bellocchio (autore del già tanto discusso Buongiorno, notte) e devo dire che, su tutte, una frase in particolare è importante per capire se lo Stato debba o meno finanziare pellicole sulle Brigate rosse e sui loro delitti degli anni passati. «La cosa importante - ha spiegato all’inizio dell’intervista Bellocchio - è sapere quante più cose possibili su quegli anni, rifiutare i cliché, capire il contesto... C’è ancora insufficienza di approfondimento sul fattore umano». Bene, allora ben vengano anche i finanziamenti statali, ma che almeno prima ci si sia documentati a dovere. Cordialità.

DE MAGISTRIS, I LUCANI, LA POLITICA E LA QUESTIONE MORALE La notizia della conclusione dell’inchiesta del bravo e, forse, per questo “defenestrato” pm Luigi De Magistris su Toghe Lucane, con 33 indagati eccellenti tra politici, magistrati, funzionari dello Stato, autorevoli rappresentanti delle forze dell’ordine, imprenditori, ha colto di sorpresa tanti che ormai con il caldo afoso di questi giorni avevano preferito “rifugiarsi”per trascorrere qualche giorno di rilassante vacanza. De Magistris ha colto quasi tutti di sorpresa, probabilmente, anche quei tanti che speravano che l’inchiesta su Toghe Lucane non fosse completata prima del suo trasferimento a Napoli. Molti dei nomi che sono stati pubblicati erano già noti alle cronache regionali e nazionali, ma non sono mancate le sorprese dell’ultima ora con il coinvolgimento anche di altri. Al sindaco di Matera si è aggiunto anche quello di Potenza, pronto a richiamare “su commissione” gli agenti della polizia municipale da anni in servizio presso il palazzo di Giusti-

NON TIRATE LA CATENA All’interno del Cafe du Tresor a Parigi sono state inserite vasche dove sguazzano indisturbati dei pesci rossi. Tutto ciò ha contribuito a trasformare un anonimo locale in uno dei posti più trendy della città dove adesso per andare al bagno bisogna fare la fila

IN ABRUZZO IL PDL NON DIA I NUMERI Ferrero, neo segretario di Rifondazione comunista, intervistato sulle prossime elezioni in Abruzzo, anticipate per l’arresto del governatore del Pd Del Turco, è possibilista per un’alleanza con il partito di Veltroni, a patto che i democratici cambino linea. Per Di Pietro, come candidato a governatore, è anche possibilista: «Se ne può parlare». Però sia chiaro, dice, il Pd ha fallito, non può esprimere un candidato. Detto questo, speriamo che i miei conterranei del PdL non diano i numeri e scelgano un candidato forte, senza spartizioni di territorio e di poteri, speriamo, ma ho i miei dubbi. Sugli avversari, che dire, se il Pd è ridotto a subire le condizioni di Ferrero, non venga a dirci poi che le scelte si fanno collegiali, sul programma, sugli uomini. Ora, di fronte ad una marcia indietro, se corre Di Pietro, la faccia o la

dai circoli liberal Gaia Miani - Roma

zia di Potenza, ma distratto, invece, a lasciare in dotazione i cellulari ai magistrati dello stesso palazzo, considerato l’uso distorto che alcuni ne fanno e le cui spese, come le tante altre esose che vengono sostenute all’interno del Tribunale, vengono anticipate dai soldi della comunità potentina, in attesa del rimborso del ministero di Grazia e Giustizia che come risulta dai bilanci comunali è mal pagatore o debitore persistente già da diversi anni. Sono perfettamente d’accordo con l’astuto segretario regionale del Pd Piero La corazza, l’unico tra l’altro, pronto ad alzare gli scudi e ad evitare processi anticipati nelle piazze o su gli organi di informazione, che ha posto una serie di interrogativi. Credo che mai come in questo momento, anche alla luce di tutta una serie di episodi che sono accaduti in questi anni, occorra rilanciare seriamente all’interno delle diverse forze politiche, magari con un dibattito franco e aperto allargato anche alla società civile “la questione morale”. Sarà anche una decisione difficile e sofferta ma una comunità seria e

perde Veltroni o Ferrero o anche Di Pietro, il che non guasta!

L. C. Guerrieri - Teramo

VIVA TREMONTI, VIVA BRUNETTA Non sono i più grandi e nemmeno i più potenti. Ma ormai sono diventati un simbolo di ciò che non va bene alle opposizioni. L’avversione per il primo poi è più emotiva che razionale. Se invece si guarda all’operato dei Nostri per quello che è, si scopre che esso è ineccepibile, opportuno e necessario. Per volare alti occorre essere veloci e leggeri. Più lo Stato è leggero ed efficiente e prima la nazione può sperare di cogliere le opportunità di crescita. Sì al rientro della finanza pubblica col taglio delle spese. Basta con le mediazioni e i compromessi. Basta con gli assalti alla diligenza della legge finanziaria, con lo statalismo e coi fannulloni. Viva Giulio Tremonti e Renato Brunetta.

Pierpaolo Vezzani

laboriosa come quella lucana non può essere offuscata per colpa di quei pochi, guarda caso sempre gli stessi, che purtroppo emergono nelle diverse vicende giudiziarie di questi ultimi anni. Così come non possiamo consentire a “quattro politicanti di passaggio” di offuscare chi come Lacorazza e tanti altri si battono per un rinnovamento serio della Politica e del modo di gestire le Istituzioni, cosa ridotta in questi ultimi anni ad un uso fin troppo personale, che ha finito per riservare troppo spesso privilegi e benefici in tutte le realtà,“agli amici degli amici”, costringendo così tante intelligenze ad intraprendere la strada della fuga dai nostri territori. Non possiamo e né vorremmo essere tifosi di questo o di quell’altro magistrato, né tanto meno possiamo ritenere bravi solo quei magistrati che si scagliano a turno contro il Presidente Berlusconi o altri avversari politici, ma vorremmo da onesti cittadini che la “Legge sia uguale per tutti”. Gianluigi Laguardia COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL BASILICATA


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Amore, donami una ciocca dei tuoi capelli Solo una parola stasera, amore mio, perché mi duole un poco la testa - ho dovuto scrivere una lunga lettera a un mio amico in Nuova Zelanda, e ora ho voglia di sedermi e pensare a te e di star bene. E ora ti dirò che cosa (il mio rispetto per te) si merita, e otterrà. Donami, cara oltre ogni dire, ciò che ho sempre osato pensare di chiederti... un giorno! Donami... aspetta - per il tuo bene, non il mio, ché mai, mai mi sogno di esser degno di un tale dono... ma per il tuo stesso senso di giustizia, e per dire, in modo che il mio cuore senta, che avevi torto e ora non più, donami di te - preziosa come sei - ciò che si può donare in una ciocca dei tuoi capelli. Vivrò e morrò con essa, e con il ricordo di te - questo nella peggiore delle ipotesi! Perdonami, carissima, per ciò che è scritto... ciò che non posso cancellare, per l’amore da cui proviene. Altro non chiedo, baciandoti la mano. Robert Browning a Elizabeth B. Barrett

GLI ESITI ESIZIALI DEL MORALISMO PROGRESSISTA Francesco Merlo è la prova vivente degli esiti esiziali del moralismo progressista. Non è dato comprendere, infatti, con quali titoli e benemerenze accenni - su Repubblica dell’otto di agosto «all’Italia del vuoto morale» e «alla dissoluzione di qualsiasi tensione etica». Proprio lui che disinvoltamente scrive su un giornale che dà ospitalità quotidiana al mandante di un assassinio, e a chi fabbrica filosofia scopiazzando qua e là. In passato mi era toccato leggere l’incredibile affermazione sull’essere umano che diventerebbe tale solo dopo la nascita, l’improbabile difesa del fumo, e l’impossibile – per lui – confronto con un vescovo sulle coppie omosessuali. Ma questa volta, con il pezzo sul Tibet d’Italia, è riuscito a fare ancora peggio. Secondo lui, l’attuale governo «picchia i deboli, sputacchia e sbava sugli emarginati, insolentisce i donatori di sangue, si accanisce sui sofferenti e si inventa i fannulloni». Quante formidabili corbellerie in una sola volta. I fannulloni esistono e, oltre a questa becera destra, l’ha rilevato anche il professor Ichino che di

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

12 agosto

destra certamente non è. E Tiziano Treu, che di destra certamente non è, riconosce che Brunetta sta ottenendo i primi risultati contro di loro. Si tratta solo di trascurabili dettagli? I governanti italiani sono contro i bambini rom. Ma dove lo ha letto, sull’edizione francese di Topolino? Il dato reale rimane ineludibile: la persona può essere identificata solo mediante il Dna, o attraverso le impronte digitali, ogni ulteriore valutazione è frutto del peggior “politicamente corretto”. Merlo rappresenta - al meglio - la distanza siderale che separa la sinistra dalla realtà. In tale contesto, l’ostentata cultura delle mille citazioni - napoletane e tedesche, pertinenti e non - e la fin troppo facile ironia, appaiono solo aria fritta. E’auspicabile che la prossima volta, prima di sproloquiare, Merlo assuma qualche informazione in più sulla nuda e cruda realtà, con la quale, chi è troppo dotto e lontano dall’Italia vera, come lui, continua a bisticciare. Cordialità.

E n r i c o P a g a n o - M i l a no

1845 Al teatro San Carlo avviene la prima dell’Alzira di Giuseppe Verdi 1912 Nasce Samuel Fuller, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense 1914 Il Regno Unito dichiara guerra all’Austria-Ungheria. Le nazioni dell’Impero Britannico sono automaticamente incluse 1953 Test nucleari: L’Unione Sovietica detona la sua prima bomba all’idrogeno 1960 Viene lanciato Echo I, il primo satellite per telecomunicazione 1964 Muore Ian Fleming, giornalista e scrittore britannico 1985 Un Boeing 747 della Japan Airlines, il Volo 123, si schianta sul Monte Ogura, in Giappone, uccidendo 520 persone, nel più grande disastro aereo della storia in cui è rimasto coinvolto un solo aeroplano 1992 Canada, Messico e Stati Uniti completano i negoziati del Nafta 2000 Il sottomarino nucleare russo Kursk affonda nel Mare di Barents

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

PUNTURE Veronica Lario ha detto: «Abbiamo deluso tanti perché non abbiamo divorziato». In realtà, tutti sperano in un altro divorzio: quello tra Berlusconi e Bossi.

Giancristiano Desiderio

Solo i saggi posseggono delle idee; la maggior parte dell’umanità ne è posseduta SAMUEL COLERIDGE

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di COSACCHI D’OCCIDENTE L’operazione militare lanciata dalla Russia nei confronti della Georgia si trova, nel momento in cui scriviamo, in una fase evolutiva che impedisce di trarre conclusioni sull’assetto “definitivo” dell’area. Un’asserita (dai russi) provocazione georgiana nella repubblica separatista dell’Ossezia del Sud, un intervento russo talmente massivo e concentrato in spazio e tempo da essere definito la versione caucasica dell’operazione Shock and Awe. Come finirà? La Georgia dovrà riporre le proprie aspirazioni occidentali nel cassetto della storia? Forse sì. E la Russia, è realmente quell’Impero del Male di cui favoleggiano i soliti neocon? Noi pensiamo che la Russia resti una potenza di stabilizzazione dell’area eurasiatica, anche se affermarlo in un momento come questo può apparire piuttosto stravagante. Per stabilizzare, la Russia deve preliminarmente stabilizzarsi. La bonanza dell’andamento di prezzo delle materie prime, negli ultimi anni, ha consentito a Mosca di evitare un’implosione economica, sociale e civile dalle conseguenze devastanti per l’intero pianeta. Il Cremlino sta ora cercando di spendere il surplus delle commodities, tra le altre cose, per ammodernare le proprie forze armate ed il proprio modello di difesa. Ma la Russia si trova anche a dover gestire una formidabile debolezza strategica: la demografia. La minaccia demografica viene portata alla Russia dall’esterno, nella “cintura islamica”che cinge la Federazione sul suo fianco Sud, ma anche dall’interno, con i drammatici differenziali nei tassi di natalità dei ceppi etnici che oggi vivono in Russia. (...) Queste dinamiche si svolgono peraltro in un quadro di declino assoluto della popolazione della Federazione Russa, cau-

sato dalla ridotta aspettativa di vita in età adulta, soprattutto nei maschi in età lavorativa, per effetto di alcolismo, malattie e povertà diffusa. Secondo proiezioni Onu del 2005, la popolazione russa potrebbe ridursi di un terzo entro il 2050, circostanza che provocherebbe l’implosione della Federazione, con conseguenze che pensiamo non sfuggano neppure ai nostri baldi analisti idealisti. Non a caso l’ex presidente (e unico dominus del paese) Vladimir Putin, ha lanciato un programma di welfare pro-natalista che prevede anche l’aumento della spesa sanitaria. Oggi la Russia affronta quindi una molteplicità di minacce, tutte mirate a indebolirne la capacità di sopravvivenza di lungo periodo. Tra le quali vi è naturalmente l’espansionismo ad oriente della Nato. Qualcuno si aspetterebbe, realisticamente, una Russia arrendevole nei confronti di queste spinte disgregatrici? Noi sinceramente no. Ed allo stesso modo, vista l’entità della minaccia etno-demografica che pende sulla Russia come una spada di Damocle, è difficile attendersi che al Cremlino siano ansiosi di replicare il “modello Westminster” di democrazia tanto caro a noi occidentali. Oggi la Russia si sente minacciata da Ovest e reagisce, economicamente (con il sapientemente dosato e mai autolesionistico controllo delle fonti energetiche) e militarmente, come in questa “campagna di Ossezia”. (...) All’Occidente spetta ora valutare se la continua penetrazione a Est delle proprie strutture politico-militari offra benefici di lungo periodo superiori ai costi derivanti dall’accelerazione del declino della Russia, e dalla sua implosione finale, in un teatro come quello asiatico.

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PAGINAVENTIQUATTRO Istantanee dalla Cina. Ai margini del furore olimpico, la capitale cinese non presta attenzione ai Giochi

La Pechino che non vede le

OLIMPIADI di Bruno Cortona

PECHINO. Immaginate una città come un enorme orologio. Immaginate che da ore 12 a ore 6 ci siano quasi 100 chilometri. Immaginate che sia popolato da quasi 18 milioni di persone. Ecco: se siete riusciti a fare questo sforzo di fantasia spericolatissimo, potrete avere una pallida idea di come i Giochi olimpici per la città di Pechino e per i suoi abitanti non siano una sola cosa. Le emozioni forti ed intercontinentali della cerimonia d’apertura, qui hanno avuto una vasta eco soltanto nelle strade intorno al Villaggio Olimpico, situato nella parte nord della capitale. Ma l’effetto anche propagandistico di questi Giochi – il governo cinese ne ha fatto una ragione politica fondamentale – non ha attecchito in modo uniforme. Capita così che ci siano oltre 500mila volontari – il Cio, il comitato olimpico internazionale che organizza le Olimpiadi esulta: mai vista tanta gente lavorare gratis – pronti a vivere per i Giochi, ma anche che una gran parte dei pechinesi non si ecciti affatto per la corsa alle medaglie. Lo percepisci per strada, quando la sciame di taxi che fa scorrazzare gli inviati di tutto il mondo in lungo e in largo, da un sito olimpico all’altro, da una medaglia all’altra, incontra le altre vetture. Nessuna targa straniera, solo cinesi, e già questo fa effetto. Ma c’è chi ostenta il proprio nazionalismo, esponendo la bandierina rossa con le stelle gialle che sventola dal finestrino. In proporzione, delle quasi 2 milioni di vettu-

re che possono circolare (le altre due sono ferme per non produrre smog durante i Giochi, le targhe alterne, appunto) sono una vera minoranza. Nei quartieri periferici l’effetto coreografico termina. Niente più striscioni, niente più fiori, nessun poliziotto o volontario. E qui, in questa Pechino forse più vera, i Giochi sono lontani. E non solo un’ora di macchina del Villaggio Olimpico. La vita scorre come sempre. Le canottiere degli uomini, i bambini che giocano per strade, le donne che combattono il caldo opprimente sfoderando gli ombrelli ri-

ni che si dilettano con bellissimi aquiloni, fossati ad enormi mulinelli. Solcano questo cielo grigio, gonfio di umidità, che attende la pioggia ristoratrice. Tempi che scorrono lenti, in contrasto col quartiere delle ambasciate, o le grande arterie dove gli hotel a cinque stelle lusso ospitano i vertici politici dell’Olimpiade e non solo. Giù, i contrasti: di qua i Giochi, di là Pechino che cresce, cambia, si trasforma, non sta mai ferma. Scheletri di grattacieli e voglia di far soldi. Le medaglie dello squadrone cinese non sono una priorità. Anche se la televisione cinese, con più di dieci canali, dall’8 agosto, parla incessantemente solo di questo.

Non si può pretendere di capire il fenomeno rappresentato da questa megalopoli, che vive in maniera distante la grande manifestazione sportiva. Eppure, lontano dagli stadi, vive una capitale forse più affascinante di quella sotto le luci della ribalta gorosamente occidentali. Qui non c’è – o almeno non si percepisce – quella corsa sfrenata alla vittoria, quel voler battere assolutamente gli Stati Uniti nel medagliere e sfondare il muro delle 40 medaglie d’oro. Non ci sono pagode illuminate, i fari accecanti che regalano a Piazza Tiananmen un’immagine impressionante. C’è una vita che scorre con le consuete contraddizioni. I McDonalds aperti 24 ore su 24, le biciclette rigorosamente senza luci – la notte sono quasi invisibili – gli anzia-

Appare comunque difficile fotografare a pieno questo continente. Sì, perché Pechino è davvero un continente, e pensare di capirla al primo colpo d’occhio sarebbe una presunzione che forse solo un occidentale un pò sciocco potrebbe immaginare. Meglio lasciarsi andare, farsi affascinare dai sapori di una cucina straordinaria – i cinesi d’Italia, pessimi ambasciatori di questo mondo del gusto assolutamente impedibile – e vedere, con occhi ingenui, che qui i Giochi non valgono per tutti, che la vita ha varie velocità, che la ricchezza attecchisce a macchia di leopardo e soprattutto che, fuori da questa megalopoli, il resto del miliardo e trecento milioni di cinesi rimangono ai più, ancora, un enorme mistero.

le medaglie degli azzurri Storico tris per Valentina Vezzali

Beffa nel tiro con l’arco: è argento

Oro alla Quintavalle

«Ho vinto ballando». Dopo Sidney e Atene, Valentina Vezzali ha centrato ieri a Pechino il suo terzo olimpico: Nella finale del fioretto femminile ha battuto la piccola e velocissima mancina coreana Nam Hyunhee. Sempre nella giornata di ieri Margherita Granbassi ha battuto l’eterna Giovanna Trillini conquistando il bronzo. La Vezzali, partita alla grande con tre stoccate consecutive, si è vista recuperare dalla Nam. Ne è una nata una contesa all’ultimo colpo, con l’italiana che è riuscita ad avere la meglio a venti secondi dalla fine.

Per due punti sfuma per l’Italia il sogno dell’oro olimpico nel tiro con l’arco a squadre. Gli azzurri, dopo aver battuto in semifinale l’Ucraina, sono stati sconfitti 227-225 in finale dalla Corea del Sud. Così Ilario Di Buò, Marco Galiazzo e Mauro Nespoli hanno dovuto accontentarsi di un argento. Decisiva l’ultima serie, quando le due squadre erano appaiate 199 punti pari. Se Galliazzo ha fatto 9 punti e Di Buò 10, Nespoli non è andato oltre i 7. E tanto è bastato per pregiudicare un’impresa che sembrava ormai a portata di mano. Così è stato facile per la Corea del Sud – e per i suoi tre arcieri Im Dong-hyun, Lee Chang-hwan e Park Kyung-mo – accaparrarsi l’oro raggiungendo quota 227 punti. Bronzo alla Cina, che ha vinto la finale per il terzo posto con l’Ucraina.

Giulia Quintavalle ha vinto la medaglia d’oro nel judo donne categoria 57 chilogrammi alle Olimpiadi di Pechino. In finale la finanziera 25enne livornese, esordiente ai Giochi, ha battuto nettamente l’olandese Deborah Gravenstijn 11-1. A caldo l’atleta ha commentato: «Avevo molta paura, però credevo in me stessa perché tutto è possibile e alla fine si è visto». Più entusiasta il suo allenatore, Felice Mariani: «Mi diceva sempre che non vince mai. Ma io le ho risposto che sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe vinto e anche tanto. Tra la semifinale e la finale mi ha detto che era stanca, e io le ho risposto di pensare solo all’oro».


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