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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

intervista di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

Pezzotta: «Non si specula su Alitalia» pagina 3

Susanna Turco

diritti umani LA PARTITA A SCACCHI TRA IL VATICANO E IL DRAGONE pagina 7

Francesco Rositano

italia al voto MARTELLI: STANNO SEQUESTRANDO POLITICA E DEMOCRAZIA pagina 9

Errico Novi

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

ESCLUSIVO

iraq

Il testo integrale del discorso di Obama sulle razze da tutti considerato in America come una svolta nella campagna per la Casa Bianca

liberali e cattolici come Biondi, Gargani e Iannuzzi. In attesa del Popolo, dove sta la Libertà?

Tutti gli errori di una guerra giusta pagina 10

Richard Perle

Stavolta siamo uguali alle pagine 12, 13, 14, 15 e 16 VENERDÌ 21 MARZO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

musica MCCOY TYNER, L’ETERNO RITORNO DI UN MITO

80321

alle pagine 2, 3, 4 e 5 NUMERO

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Adriano Mazzoletti

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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alitalia

Si rafforza l’ipotesi del fallimento se non ci sarà accordo con Air France entro il 31 marzo

Prato richiama all’ordine i sindacati: la cassa è vuota. Servono subito soldi di Francesco Pacifico

ROMA. È corsa contro il tempo per salvare l’Alitalia dal fallimento. Di fronte ai sindacati Maurizio Prato è stato franco e diretto. «Serve che l’operazione con Air France, l’unica ipotesi veramente sul tavolo, si concluda entro il 31 marzo», avrebbe detto il presidente della compagnia di bandiera, «Altrimenti avremo grandi problemi di liquidità». E sentendo queste poche parole i rappresentanti dei lavoratori hanno compreso che la cassa dell’azienda – che a gennaio poteva contare su 280 milioni di euro – è vicinissima all’esaurimento. E, contemporaneamente, hanno capito perché Jean-Cyril Spinetta ha posto proprio la stessa data come termine di accettazione dell’offerta transalpina. A dimostrazione che i richiami di Prato vanno ben oltre l’allarmismo, anche quanto dichiarato ieri da Tommaso Padoa-Schioppa: «I tempi ormai strettissimi sono dettati dalla condizione della compagnia e non possono dipendere dal calendario politico». Non a caso Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, sintetizza: «L’unica alternativa alle nozze tra Alitalia e Air France è il fallimento della compagnia aerea italiana. Il materializzarsi improvviso di una cordata italiana è, inve-

ce, il primo diktat della Lega a Berlusconi». Ma Maurizio Prato avrebbe fatto un’altra richiesta ai sindacati: spingere sul governo per chiedere all’Europa il via libera per un prestito ponte, così da immettere velocemente liquidità nelle casse dell’azienda. Al riguardo l’Unione europea è stata molto chiara con Palazzo Chigi: avrebbe garantito il suo assenso a patto che il

adeguata. Eppoi, vedendo al termine la sua carriera politica – ma non quella di civil servant – sarebbe poco propenso a spendere il suo buon nome, il prestigio di cui gode a Bruxelles, per un’operazione quasi sicuramente destinata al fallimento.

A via XX settembre valutano soltanto la chiusura dell’accordo con Air France, tra l’altro prima della scadenza elet-

Dal presidente della compagnia pressioni sul governo per un prestito ponte. Ma Padoa-Schioppa dubita dell’operazione. Svanita la cordata annunciata da Berlusconi? Anche Toto si dilegua finanziamento sia restituito a tassi di interesse di mercato e in tempi stretti. E che soprattutto sia vincolato a un progetto ben preciso di risanamento. Proprio queste condizioni avrebbero spinto Padoa-Schioppa a non seguire questa strada. Il ministro del Tesoro teme che di fronte a questi termini – lo spaventa soprattutto la restituzione in tempi brevi – gli attori interessati nella partita non sappiamo dare una risposta

torale.Tanto che viene preferita l’ipotesi del commissariamento, quindi del fallimento pilotato, rispetto a una nuova iniezione di denaro pubblico. Uno scenario questo, che a quanto pare spaventa molto il centrodestra.Il ragionamento che si fa è che Romano Prodi, applicando la legge Marzano, avrebbe il potere di nominare il commissario liquidatore, che a sua volta ha la facoltà di non rispondere al nuovo governo. Ed è diffici-

le che il Professore scelga un manager contrario a chiudere l’operazione con i francesi. La situazione resta nell’impasse più totale. Anche perché i sindacati alle richieste di Prato – a quelle che uno dei partecipanti ha chiamato la «mozione degli affetti» – avrebbero risposto picche. Il loro scopo resta quello di prendere tempo. Martedì prossimo, quando rivedranno il numero di Air France, il primo obiettivo sarà quello di costringere Spinetta a non considerare più vincolante per l’operazione la scadenza del 31 marzo. Spiegato il leader dell’Unione piloti, Massimo Notato: «Non accettiamo la strozzatura di questo termine. Deve esserci il tempo necessario ed è responsabilità precisa di Prodi allungare i tempi per una trattativa seria». Di ammorbidire le posizioni non c’è alcuna voglia. Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, parla di «ricatto» da parte dei francesi «e non di trattativa. Piuttosto l’operazione venga rinviata al nuovo governo». Ancora più duro il suo omologo della Cisl, Raffaele Bonanni: «In questa fase sarebbe opportuno aspettare che si insedi il nuovo governo e vedere se escono offerte migliori per salvare Malpensa, cuore pulsante dell’Italia che produce». E non si

A sinistra, il leader del Popolo della Libertà, Silvio Berlusconi: anche ieri non ha voluto svelare l’identità dei pretendenti ad Alitalia. Accanto, il presidente di Air France, Jean-Ciryl Spinetta: vedrà di nuovo i sindacati martedì prossimo, ma è difficile che annunci miglioramenti alla sua offerta per il vettore italiano


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mostra conciliante neppure chi come Fabio Berti, il leader dei piloti dell’Anpac, ha da sempre difeso l’opzione francese: «A fronte di un ricatto», afferma, «siamo disponibili anche ad affrontare l’ipotesi del commissariamento. Riapriamo la discussione».

Riaprire il dialogo, perché al momento non si vedono alternative a Parigi. Certo, la bocciatura dei francesi da parte di Silvio Berlusconi, ha fatto uscire dall’angolo i sindacati, in cui li aveva infilati la trattativa in esclusiva, e senza rilanci, garantita da Prodi ai francesi. Ma nulla di più, perché cordate alternative auspicate dal Cavaliere non se ne vedono all’orizzonte. Non a caso ieri Gianfranco Fini ha preferito glissare sull’argomento: «Non soffermatevi», ha detto ai giornalisti, «soltanto su una battuta a una domanda insidiosa. Eppoi, probabilmente, i suoi figli non sono nemmeno interessati». In verità, ieri il leader del Pdl, ha confermato il suo attivismo: «Né io né Mediaset abbiamo interessi nell’operazione. Ma ho già avuto contatti: non posso dire chi sono, devo mantenere il riserbo, eppure ho fiducia e conto che si possa fare». E parlando con Prodi al telefono che gli chiedeva lumi, ha fatto comprendere che per la materializzazione di una cordata alternativa è necessario un prestito ponte. Intanto, nelle maggiori banche d’affari, il giudizio che si raccoglie è univoco: «Se ci sarà un pretendente per Alitalia, questo non uscirà allo scoperto prima che decada l’esclusiva ad Air France. Eppoi perché palesarsi, rischiando di far impennare il valore del titolo?». In verità di concreto qualcosa c’è, anche se poco: sono le tante telefonate che avrebbe ricevuto il patron di Air One, Carlo Toto, soprattutto dal fronte sindacale. A tutti avrebbe risposto che non sarebbero ancora maturi i tempi di una sua discesa. Ufficialmente il perché l’ha spiegato Corrado Passera, consigliere delegato di IntesaSanpaolo e suo maggiore finanziatore: «Probabilmente è un peccato per il venditore, ma non c’è niente sul tavolo. Non abbiamo potuto effettuare la due diligence. E su queste basi è impensabile, impossibile fare una qualsiasi offerta». Eppure c’è chi pensa che l’imprenditore non abbia desistito del tutto. Si vocifera che aspetta il naufragio delle trattative con Air France. O che al Tesoro ci si accorga che la sua offerta, dopo i 10 centesimi ad azione di Spinetta, sia la più vantaggiosa in termini economici. Torna a guardare all’Italia Lufthansa, ma soltanto per le attività di cargo che Air France vuole abbandonare a Malpensa entro il 2010. Lo ha annunciato all’Air Press Carsten Spohr, amministratore delegato e presidente della divisione Cargo dei tedeschi: «Se Alitalia», ha dichiarato, «dovesse lasciare libero il mercato noi saremmo pronti ad entrare al loro posto». Non possono che gioirne i francesi, che off records spiegano: «Non possiamo tenere in piedi un’attività dove lavorano 125 piloti anziani e costosi e 500 addetti alla manutenzione, nonostante siano operativi soltanto 4 o 5 cinque equipaggi. È un obolo ai sindacati che non possiamo più permetterci».

Pezzotta: non nascondiamoci dietro l’italianità. Monito a Berlusconi

Non si specula su Alitalia colloquio con Savino Pezzotta di Susanna Turco

ROMA. Berlusconi a parte, la trattativa Alitalia sembra giunta all’impasse. Spinetta dice che l’offerta Air France-Klm non è modificabile, i sindacati dicono che senza modifiche, avanti non si va. Quale è la soluzione di Savino Pezzotta, presidente della Rosa bianca ed ex segretario della Cisl? La mia ricetta è quella di salvare Alitalia. Lo dico così, altrimenti non ci capiamo. Stabilito che la trattativa è stata condotta, non dico dal sindacato, in modo non lineare, con ultimatum e rigidità eccessive da parte di Air France, ora il problema è capire se a quella proposta ci siano alternative. Berlusconi ha fatto baluginare la possibilità di una cordata di imprenditori italiani, magari sotto la regia di Air One, magari con la partecipazione dei suoi figli. Serve a poco che Berlusconi lo dica. Se c’è un’altra proposta la metta sul tavolo. In fretta. Con un piano industriale preciso. Non possiamo tenere questa azienda in stand by. In gioco ci sono i destini di migliaia di famiglie. Air France o pinco pallino per lei pari sono. Non credo che ci sia nulla di male nell’avanzare altre proposte. Ma i tempi sono quelli che sono, e al di là del generoso tentativo di Toto non vedo per il momento altro all’orizzonte. La rigità di Air france mi turba, ma il problema vero è trovare alternative che evitino il commissariamento. A meno che non si pensi che il crack è una soluzione, come pare che faccia qualcuno. Alla strada ipotizzata da Berlusconi lei quanto credito dà?

Quello che non è possibile fare è utilizzare una vicenda del genere per fare campagna elettorale. Quindi Berlusconi mi deve dire quale è la proposta alternativa. Il tempo passa. E mi chiedo quale sia l’alternativa in campo, chi la costruisce. Perché, vede, non è che il problema Alitalia nasca oggi, e nei mesi scorsi non mi pare che ci sia stato un affollamento di offerte italiane. Lei mette il dito sulla rigidità di

«Non si può usare questa vicenda per fare campagna elettorale. Se il Cavaliere ha un’altra proposta la metta sul tavolo, in fretta»

Air France, ma il sindacato non ha qualche responsabilità? Ne ha sempre molte meno di chi ha in mano la gestione dell’azienda. Non voglio nascondere che abbia responsabilità, ma fa il suo mestiere. E peraltro in questa trattativa non si lascia nemmeno che lo faccia, il suo mestiere. E in questi anni quali sono state le responsabilità del sindacato nella vicenda Alitalia? Siamo sempre alla ricerca delle colpe del sindacato: un gioco inutile perché, come dicevo, fa il suo mestiere. Può aver sbagliato, e parlo di me e della mia esperienza: poteva avere più coraggio anni fa, affrontare la situazione in modo più determinato. Ma, appunto, si parla del passato. E se alla fine non ci fossero alternative al piano di Spinetta? Bisognerà capire se si è in grado di contrattare con Air france misure meno pesanti. E cosa succederà invece se Alitalia fallisce? Dipende. Per mia reminiscenza sindacale ho sempre avuto timore dei fallimenti. Se dovesse esserci vuol dire che l’azionista di maggioranza, il Tesoro, deve assumersi la responsabilità di trovare una soluzione in tempi brevi. Quanto la convince l’argomento dell’italianità? Mah, abbiamo banche che diventano europee e diciamo che bello, poi ogni tanto scopriamo l’italianità. Il problema non è tanto la bandiera in sé, ma se riusciamo a giocare in Europa un ruolo diverso. Gli interessi nazionali vanno tutelati, ma collocati in una dimensione europea: è lì che l’Italia deve essere competitiva.


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politica

Il voto cattolico. Le chance della Lega al Nord

La Padania non è anarchica nei valori di Irene Trentin

MILANO. Caccia al voto cattolico, quel trenta per cento e passa di elettorato di “praticanti”, in grado di pesare, eccome, sull’esito del voto. Eppure, accanto all’operazione immagine dei cattolici in lista, contesi da Pdl e Pd, il trattamento riservato ai più battaglieri della scorsa legislatura - dai teodem del Pd trasferiti alla Camera, alla bocciatura nel Pd dei responsabili Famiglia Maria Burani Procaccini di Forza Italia e Riccardo Pedrizzi di An sembra un indice rivelatore di quanto ai due partitischieramento interessi davvero vincolarsi a certe priorità programmatiche. Silvio Berlusconi l’ha ammesso, d’altronde, definendo «anarchico sui valori» il suo nuovo partito. Ma per la Lega è un boomerang. «Così ci fa perdere voti e rischia di fare un regalo all’Udc - va giù duro il senatore Giuseppe Leoni, ex democristiano, presidente dei Cattolici padani e cofondatore del Carroccio - Per fortuna ci siamo noi, un partito popolare, ancorato proprio a quei valori». A guardare i sondaggi, i fatti sembrano dargli ragione.

tori in generale - dimostrando di apprezzarne l’esplicito richiamo all’identità cristiana. Un dato significativo se confrontato con i quattro punti che guadagna il partito di Berlusconi tra i cattolici praticanti - dal 40 per cento tra tutti gli elettori al 44 per cento -, e i tre che addirittura perde quello di Veltroni - dal 40 al 37 per cento -. Determinante, a questo punto, l’apporto dei praticanti orientati per la Lega, stimata al 7,9 per cento dall’Ipsos, all’8 per cento anche secondo l’Ispo di Renato Mannheimer, che porterebbe la coalizione del Cavaliere al 49,4 per cento. E proprio il Carroccio potrebbe tentare di approfittare del vuoto creatosi per

Il Carroccio marca sempre di più la sua identità cristiana. E su scuola libera, aborto e famiglia naturale il movimento di Bossi tiene la barra al centro

Non è una novità che la preferenza dei cattolici praticanti – che sono il 33 per cento dell’elettorato secondo indagine Ipsos – potrebbe andare in gran parte al Pd, dato al 42 per cento, 14 punti in più rispetto al Pd, al 27,6 per cento, al 32,2 per cento con Di Pietro. Ma in termini proporzionali quello che ci guadagna di più è Pier Ferdinando Casini: la percentuale dei cattolici praticanti che potrebbe scegliere la lista Unione di centro, il 10 per cento, alla domanda esplicita “Voterebbe per Casini?”, sale addirittura al 28 per cento - 21 per cento tra gli elet-

l’uscita dell’Udc dal centrodestra, candidandosi a raccogliere i voti dell’elettorato cattolico del Pdl. «La Lega si trova in una situazione interessante - spiega Nando Pagnoncelli dell’Ipso anche se non si registrano ancora, al momento, flussi di voto dei cattolici da Forza Italia o da An, perché i suoi sono elettori fedeli e ben connotati. Semmai, la mobilità di voto potrebbe avvantaggiare l’Udc». Anche la frequenza alla messa è superiore tra il popolo leghista e raggiunge il 39 per cento, secondo i dati Ispo, ben oltre la media nazionale, contro il 36 del Pdl e il 26 del Pd. D’altra parte, il partito di Casini continua a crescere, gli esperti non ricordano mai sondaggi così favorevoli, intorno al 7 per cento. Neanche alle Politiche del 2006, quando sfiorò effettivamente il 7 per cento c’erano in giro sondaggi così. Solo il 30 per cento dei praticanti d’altra parte giudica positivamente la scelta di Berlusconi di esclu-

dere l’Udc dalle sue liste, contro un 41 per cento dei praticanti favorevole a Veltroni senza la sinistra radicale.

In caso di vittoria del Pdl, quindi, il 37 per cento preferirebbe proprio un’alleanza con l’Unione di centro, rispetto alla grande coalizione col Pd, data al 35 per cento. Ma il notevole bacino dei cattolici ancora indecisi aumenta le speranze del cosiddetto voto potenziale. E qui si gioca la battaglia tra chi intende fare dei valori cattolici la sua bandiera. Non a caso Berlusconi ieri mattina ha corretto il tiro con la Confcooperative, assicurando alle coop cattoliche il suo ancoraggio ai valori cristiani. «Ho chiesto a Bossi di ripartire dalla dottrina sociale della Chiesa - continua Leoni - e lui si è detto d’accordo con me. La malattia lo ha completamente cambiato. Mi ha riportato a Roma proprio come portabandiera dei valori cristiani, che come Cattolici padani vogliamo continuare a rappresentare dentro il centrodestra». Sembrano passati anni luce dalle polemiche contro i “vescovoni” e la Caritas sugli immigrati. A favore del senatùr sono arrivate poi le battaglie contro la fecondazione assisti-

ta, la difesa della libertà scolastica. Lo spartiacque, l’11 marzo del 2004, quando fu colpito dall’improvvisa malattia. «Feci un appello per far dire un rosario per la sua guarigione - racconta ancora Leoni – aderirono a migliaia. Lì capii la vera anima del nostro popolo. L’abbazia di Pontida era stracolma quando dedicammo la nostra

messa a lui, come ogni anno, a metà novembre, quando preghiamo per i nostri morti. E anche a radio Padania, la trasmissione dei Cattolici padani, il martedì mattina, fa registrare il picco di ascolti. Altro che anarchici sui valori, anche Bossi l’ha capito, è sui valori che si gioca la sua partita la Lega». E non solo.

La sfida elettorale sarà decisa dalla Dunque la questione del voto cattolico e moderato non si fa liquidare così facilmente come avrebbero voluto Pd e Pdl. Che per evitarsi l’imbarazzo di spiegare le loro enormi contraddizioni interne su questo fronte, avevano, con un patto dichiarato, volutamente oscurato e rimosso i temi eticamente sensibili dal dibattito politico. È sconveniente si dissero parlare di aborto o di embrioni in campagna elettorale. Sono questi temi che è bene lasciar fuori dalla competizione politica. È stato però un calcolo miope, perché in un Paese con un forte radicamento popolare nei valori cristiani e cattolici le rimozioni sui temi dell’identità e dei principi non negoziabili, che afferiscono alle questioni della vita e della morte, non pagano politicamente. Un calcolo miope soprattutto da parte del Popolo delle Libertà. In primo luogo perché l’esclusione dell’Udc dall’alleanza tra Forza Italia Alleanza nazionale ha evidentemente sbilanciato a destra quella coali-

zione alienandosi già per questo molte simpatie nell’elettorato moderato. In secondo luogo perché la leadership del Pdl non è certamente incarnata da campioni dell’identità cattolica. Silvio Berlusconi ha sempre evitato di entrare nel merito delle questioni eticamente sensibili, dichiarando che Forza Italia è un partito a conduzione monarchica ma eticamente anarchico. Gianfranco Fini, in questo, ha superato addirittura a sinistra il Cavaliere, votando a favore dei referendum sulla fecondazione artificiale e inanellando una serie di dichiarazioni a tinte addirittura laiciste che hanno messo in serio imbarazzo sia il partito che l’elettorato di Alleanza nazionale. I riflessi sul voto di questi atteggiamenti da parte del Pdl sulla questione cattolica e moderata sono significativi. Nel complesso il voto cattolico sposta tra nord e sud il 13-14 per cento di consensi. Al nord il flusso di consenso cattolico che scivola prevalentemente verso la


politica

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Il voto cattolico. Il peso dell’Udc al Sud

Il Pdl va a destra e il Centro si rafforza di Riccardo Paradisi

ROMA. «Se non mi preoccupo di Berlusconi non vorrete che mi preoccupi di Francesco Piccolo». Pier Ferdinando Casini è sbrigativo sulla defezione del segretario regionale Veneto dell’Udc passato in questi giorni al Pdl. In Veneto, spiega Casini, i sondaggi accreditano l’Udc sopra l’8 per cento, sicchè agli abbandoni annunciati di alcuni esponenti locali non corrisponderebbe insomma un calo di consenso nei sondaggi. Ma se nel nord-est Casini si dice tranquillo qual è la situazione del suo partito nel meridione? I sondaggi che girano nell’Udc sembrano essere incoraggianti. In Campania il centro viene dato sopra l’8 per cento in Sicilia al 10,5. Nelle altre regioni del meridione si va dall’8 al 9 per cento. Insomma, sempre considerando che di sondaggi si tratta, si profilerebbe per l’Udc una tenuta e un avanzamento. Ma quali sono i fattori politici che determinano questa condizione? Calogero Mannino, senatore dell’Udc di lungo corso, fa un’analisi complessiva della situazione politica meridionale e siciliana in particolare. «In Sicilia abbiamo ancora qualche problema di comunicazione – così lo chiama Mannino– con i media nazionali, ma la situazione che registriamo sul territorio è estremamente positiva. Qui una parte cospicua dell’elettorato di Forza Italia è in libera uscita dalla Pdl. Il motivo è semplice, prosegue il senatore, in Sicilia il consenso che prendeva Berlusconi proveniva soprattutto da chi votava Democrazia cristiana o Partito socialista. Con la saldatura tra Forza Italia e Alleanza nazionale e con l’esclusione del Centro dal partito unitario questo elettorato ha percepito uno slittamento a destra di Berlusconi».

con il Pdl l’ha trovata nel resto del Meridione le cose stanno molto diversamente. In Puglia, dove il partito di Casini si attesterebbe, sempre secondo i sondaggi, all’8,5 percento il conflitto è durissimo. La strategia del centrodestra in questa regione infatti sembra essere quella di indebolire l’Udc sottraendogli quadri e dirigenti. Svuotandolo dall’interno. Il caso di Cosimo Mele, il deputato dell’Udc finito lo scorso anno al centro di uno scandalo a sfondo sessuale, è a suo modo significativo del fatto che in questa guerra di trincea non si guardi troppo per il sottile. Ma la corazzata Pdl ha le sue falle. Tanto che una delle armi polemiche del centro è quella di puntare i riflettori sul conflitto permanente tra l’ex presidente della Regione Raffaele Fitto (Forza Italia) e il sindaco di Lecce di An Adriana Poli Bortone. In una recente assemblea organizzata da An all’hotel Tiziano di Lecce Fitto, chera seduto in prima fila, non è stato neppure citato. A destra del resto nei confronti di Fitto c’è molto risentimento: lo si accusa di aver subito l’imposizione di una serie di paracadutati da altre regioni nelle liste in Puglia, tra cui candidature leggere. Ma in Puglia l’Udc confida anche sulle contraddizioni interne alla sinistra. Sul fatto che il sindaco di Bari Michele Emiliano, sponsorizzato da D’Alema, non vada giù a mezza Margherita, sul fatto che Pino Pisicchio, dell’Italia dei Valori, è stato sacrificato in lista ed è a rischio elezione. Per dire due casi.

Lo spostamento al Nord del baricentro politico e l’esclusione dei temi eticamente sensibili potrebbe penalizzare la coalizione di Berlusconi

questione cattolica Lega comincia a farsi considerevole, intorno a percentuali dell’8 per cento. Evidentemente a innescare questo fenomeno è il fatto che la Lega sull’identità e sui valori cristiani non ha abbracciato la via della rimozione. Anzi, in una logica di alleanza competitiva con il Pdl, li ha, se possibile, accentuati, nella consapevolezza che molti dei voti che oggi vanno alla Lega erano voti che quindici anni fa andavano soprattutto nel Sopra nordest alla Dc. Nel centrosud e nel meridione è una bella invece prevalentemente l’Udc a intercettare i immagine voti in uscita dal Pdl. Perché l’Udc sui temi eticamente sensibili ha lanciato il guanto di sfida del Family day; in alto ai due golia del neo bipolarismo italiano – «è sui valori che giochiamo la nostra partita» continua Benedetto XVI; a sinistra a dire Casini – e perché slittando a destra e spostando il suo baricentro politico al nord (An non Giuseppe Leoni e a destra c’è più come partito) Berlusconi ha rinunciato a Calogero garantire quell’equilibrio e quello spirito di soliMannino darietà che fa di un Paese una nazione.

Ma non c’è solo questo.C’è anche il fatto che il baricentro politico del Pdl s’è spostato al nord e che l’esclusione dal dibattito politico delle questioni eticamente sensibili porterà i cattolici, soprattutto nel Meridione, a premiare chi ancora questi valori li difenderebbe. A favorire l’Udc in Sicilia c’è però anche dell’altro. Soprattutto Il patto con il leader del fortissimo movimento per le autonomie Raffaele Lombardo candidato alla presidenza della Regione. Patto che prevede che Lombardo non figurerà come capolista al Senato nel Movimento per le autonomie, lista collegata al Pdl, lasciando più margine all’Udc. Ma se in Sicilia l’Udc una pur difficile composizione

Anche in Basilicata la sinistra è in difficoltà verso il centro. L’ex deputato della Margherita Giuseppe Molinari è diventato capolista Udc, i consiglieri regionali Prospero de Franci e Giovanni Carelli dell?italia dei Valori sono passati all’Udc e così il verde Mollica, ex consigliere regionale. Motivo di questa piccola disapora il modo in cui è nato il Pd in Calabria. Un processo gestito col pugno di ferro dai Ds che ha umiliato la margherita e messo in un angolo il resto della sinistra. In Campania l’Udc, sicuro di un apporto elettorale significativo di De Mita, confida sul fatto che gli elettori di centrosinistra delusi dall’esito disastroso del ventennio bassoliniano finiranno con l’incanalare la protesta al centro.


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politica d i a r i o

d e l

g i o r n o

Scontro Bonino - Franceschini «Ho letto con qualche sgomento le dichiarazioni rilasciate a Repubblica.it da Dario Franceschini circa il mio ingresso nelle liste del Pd insieme ad altri 8 radicali. Non stanno nè in cielo, nè in terra». Emma Bonino attacca a testa bassa il numero 2 del Pd che ieri ha spiegato come l’esponente radicale avesse chiesto l’ingresso nelle liste del Pd anche di altri colleghi di partito. «La sua ricostruzione è così fantasiosa - aggiunge il ministro - e rimane francamente da capire a chi giovano queste uscite senza capo nè coda».

Pdl: centri commerciali al posto delle caserme Silvio Berlusconi ha ribadito uno dei punti del programma del Pdl: vendere i beni immobili pubblici. «Lo Stato ha un patrimonio superiore al debito pubblico - ha detto - il debito publico è di 1.500 miliardi, il patrimonio dello Stato lo si valuta in 1.800». La ricetta per sanarlo? «Ci sono molti beni che non sono sfruttati dallo Stato - è stata la risposta del Cavaliere - pensate a quelle caserme nel centro delle città dove ci sono pochi militari: possono essere vendute, possono essere utilizzate come centri commerciali».

Appello di Napolitano contro il dilagare dell’anti-politica

«Il voto è sempre utile» di Susanna Turco

Casini: Veltroni ormai è berlusconiano Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ha detto di non avere mai visto «una campagna elettorale più berlusconiana di quella di Veltroni». «Peggio di così non si può - ha sottolineato Casini - Evidentemente Veltroni soffre della sindrome di Stoccolma».

Papa: no alla libertà senza limiti ROMA. Basta con l’antipolitica. Stop al qualunquismo. Perché «è chiaro che il voto non è mai inutile». Così, prima di lasciare il Cile, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha voluto lanciare segnali sulla campagna elettorale italiana. Pronunciando parole che non possono non suonare come una stroncatura dei ripetuti appelli di Silvio Berlusconi a scegliere il Pdl o il Pd, evitando il «voto inutile», il capo dello Stato ha sottolineato che «ciascuno saprà valutare» e «darà il suo voto secondo il suo giudizio al partito a cui è più vicino, affine, oppure più importante al fine del rinnovamento della politica».

Così, in un giorno qualunque di campagna elettorale, mentre la politica tutta è impegnata a dibattere dell’impasse sulla vicenda Alitalia, mentre Gianfranco Fini dichiara pubblicamente che se dovesse perdere le elezioni si dimetterà all’istante, mentre Berlusconi ricomincia la solfa dei «comunisti», Napolitano con un certo coraggio si scaglia contro il «qualunquismo».Tale è, spiega, l’atteggiamento di chi definisce il Parlamento «una corporazione di avidi fannulloni». È una cosa che si legge «ogni tanto», denuncia, ed è una cosa che «inocula nelle menti il distacco dalla politica». Così, ha proseguito, «prima o poi ci sarà chi penserà che tanto vale chiuderlo». «Bisogna reagire a questo atteggiamento e da parte della politica ci vuole uno sforzo per lanciare un ponte di dialogo e di comunicazione». Un impegno che quindi deve partire anzitutto da

chi «fa politica concretamente», a «sforzarsi per comprendere le ragioni della disaffezione, del disincanto verso la politica» e gettare un «ponte di comunicazione e di dialogo con le nuove generazioni».

Il timore che, come già segnalano i sondaggi, l’area del non voto si allarghi a dismisura, questa la ragione profonda dell’appello. Il capo dello Stato non ha infatti nascosto che le sue parole nascono anche dalla preoccupazione che le elezioni del 13 e 14 aprile possano far registrare il record dell’astensionismo, sulla scia di quanto accaduto domenica sera, in Francia, per le comunali. «Si è toccato - ha detto -

Dal Cile il capo dello Stato boccia i ripetuti appelli del Pdl-Pd: «Il voto inutile non esiste, ogni elettore sceglierà secondo il suo giudizio» il livello storico più basso. Nessuno è in grado di prevedere quel che succederà in Italia. Sentiamo però che nei confronti della politica, c’è una difficoltà di comprensione, un distacco e anche un elemento di pregiudizio abbondantemente inoculato da cose che si leggono qua e là». Colpa, insomma, anche dei giornalisti. «I mezzi di informazione italiani e stranieri spesso mettono in risalto quel che c’è di più negativo in Italia. Ciò reca grave dan-

no all’Italia e alla sua immagine, anche se so benissimo quali siano i gravi problemi rimasti irrisolti, i nostri ritardi, i nostri limiti, e le dure prove da superare».

Le parole di Napolitano, come è ovvio, raccolgono l’applauso convinto dei piccoli partiti e la reazione fredda degli esponenti di Pd e Pdl. Silvio Berlusconi ribadisce di «aver espresso una opinione» di cui è «convinto», ovvero che dare un voto ai piccoli favorisce l’avversario. Stesso ragionamento sul fronte Pd: il numero due, Dario Franceschini, spiega di aver «solo fatto una constatazione rispetto alla legge elettorale. Gli italiani devono sapere chi può vincere» e che «si può dare un voto sentimentale oppure determinare chi governa Paese». Accoglienza assai più festosa a sinistra e al centro. Secondo Franco Giordano, segretario del Prc, «Napolitano ha saputo farsi interprete e garante dei valori costituzionali. Il suo messaggio fa giustizia delle chiacchiere propagandistiche sull’inutilità del voto se non per i due partiti maggiori». «L’unico voto utile è quello libero aggiunge Pier Ferdinando Casini ho visto che è già stato pubblicato su qualche quotidiano il Parlamento eletto con il Pdl. Allora non andiamo neppure a votare...». Commenta con ironia Francesco Storace: «Finalmente posso dichiarare di essere d’accordo col presidente Napolitano - dice il leader de La Destra - ora posso andare tranquillamente in galera e so già a chi chiedere la grazia».

«La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma». Lo ha ricordato Benedetto XVI nell’omelia della messa concelebrata ieri con il cardinale vicario Camillo Ruini e 1600 sacerdoti della diocesi di Roma. Per il Papa è un errore ricorrente nella storia quello commesso da chi vuole «seguire soltanto la propria volontà», ritenendo che «solo grazie ad una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino». Assumendo questa posizione e illudendoci così di essere «veramente liberi», ha spiegato, in realtà «ci poniamo contro la verità».

Vaticano replica a bin Laden «È del tutto infondata l’accusa specifica di coinvolgimento in una campagna di derisione dell’Islam per la vicenda delle vignette satiriche contro Maometto». Lo ha affermato il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. «Il Papa e il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso - ha ricordato padre Lombardi - hanno biasimato la campagna satirica contro l’Islam in piu’ di una occasione». In ogni caso, ha concluso, le minacce di bin Laden contro il Papa «non sono una novità e non stupiscono»

Discarica di Cerro, Paolo Berlusconi nei guai Paolo, fratello del candidato premier del pdl sarà di nuovo sottoposto a processo d’appello per l’accusa di false fatturazioni nell’ambito del procedimento sulla gestione della discarica di Cerro Maggiore. La Corte di appello di Milano aveva escluso la sussistenza del vincolo della continuazione ravvisato dal primo giudice tra i fatti oggetto del giudizio e quelli per i quali, il 12 luglio del 2002, l’imputato aveva patteggiato la pena di 1 anno e 9 mesi davanti al gip di Milano per concorso in corruzione e reati societari sempre inerenti la gestione della discarica.

Duro colpo alla mafia Ergastolo per Joseph Focoso e Vincenzo Licata, condanne con rito abbreviato per 12 imputati al termine del processo di mafia scaturito dall’operazione «Domino 2» della Questura di Agrigento nel luglio dell’anno scorso. Due le assoluzioni. Tutti gli imputati erano accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso e undici omicidi e tre tentati omicidi commessi nell’ambito della guerra tra «Stidda» e Cosa Nostra, che ha insanguinato la provincia di Agrigento tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.


diritti umani

21 marzo 2008 • pagina 7

Le relazioni tra Chiesa e Cina mediate dal Cardinale Zen cui il Papa ha affidato le meditazioni della Via Crucis ROMA. Nonostante il lavoro della diplomazia continui silenzioso, in questa fase, il nuovo corso dei rapporti tra Cina e Vaticano passa anche dalla preghiera. Benedetto XVI ha deciso di lanciare un segnale forte a Pechino, affidando la stesura delle meditazioni della tradizionale Via Crucis di stasera al Colosseo al cardinale Joseph Zen Ze-Kiun. Come ha affermato lo stesso porporato, dietro questa scelta c’è una volontà precisa: «Il Papa ha voluto che io portassi al Colosseo la voce di questi fratelli lontani». Questo perché in tante parti del mondo, continua Zen, «la Sposa di Cristo (cioè la Chiesa) sta attraversando l’ora tenebrosa della persecuzione, come un tempo Ester, minacciata da Aman, come la Donna dell’Apocalisse minacciata dal drago». Ecco quindi un preciso appello alle autorità politiche: «Cristo dia loro il coraggio di rispettare la libertà religiosa». Procedere con cautela, dunque, ma non facendo finta di nulla, e sensibilizzando l’opinione pubblica al dramma vissuto da chi è stato perseguitato per la propria fede: ecco la linea del Vaticano. Così si spiega perché oltre a Roma anche a Prato, dove vive la comunità più numerosa di cinesi d’Italia, le meditazioni del venerdì santo saranno tenute da un sacerdote con gli occhi a mandorla. L’altra questione che sta a cuore al Papa è l’unità tra la Chiesa di Roma e quella di Pechino. Un’unità supplicata in un’altra preghiera, quella della domenica delle Palme, giornata in cui la Chiesa commemora l’entrata di Gesù a Gerusalemme. Haifeng Xing, un giovane cinese, in mandarino ha invocato unità tra il successone di Pietro (cioè il Papa) e i vescovi della Chiesa, con l’auspicio che «proclamino con franchezza il Vangelo». Un chiaro riferimento al fatto che in Cina esistono due chiese, quella patriottica riconosciuta dal governo di Pechino e quella clandestina, che rifiuta di essere indipendente da Roma. Di fatto un’unica Chiesa, se si considera anche i recenti passi in avanti raggiunti: poco tempo fa il vescovo di Pechino e quello di Canton sono stati nominati con il placet della Santa Sede.

La partita a scacchi tra il Vaticano e il Dragone

Per quanto riguarda aspetti afferenti di più alla diplomazia, non è affatto un caso che Benedetto XVI, due anni fa, abbia concesso la berretta cardinalizia proprio a Zen, quando il presule aveva già 75 anni, e di fatto era alla soglia della pensione. Quasi una mossa azzardata secondo il protocollo. Ma il Papa ha puntato sul suo temperamento e sulla sua grande esperienza per farne l’uomo chiave della nuova fase di normalizzazione dei rapporti tra Cina e Vaticano. Come vescovo di Hong Kong, quando essa era ancora indipendente da Pechino, Zen ha fatto molto per stabilire ponti simbolici con i sacerdoti che operavano clandestinamente in Cina, inviando libri sacri tradotti in cinese oppure aiuti economici e finanziari. Poi si è sempre distinto per un grande atteggiamento di realismo nei confronti del governo di Pechino: non hai mai risparmiato critiche al governo per la sofferenza dei cat-

Joseph Zen Ze-Kiun è vescovo di Hong Kong dal 23 settembre 2002 ed è stato creato cardinale dal Papa nel Concistoro del 24 marzo 2006

di Francesco Rositano

tolici cosiddetti sotterranei. Già in passato aveva dato prova del suo carattere. Nel 1999, infatti, quando vennero arrestati diversi esponenti del movimento per il “diritto di residenza” dei figli nati in Cina di residenti di Hong Kong, Zen prese posizione pubblicamente contro questi arresti e addirittura arrivò a incoraggiare scioperi della fame, sit-in e dimostrazioni. Un passo quasi azzardato per il leader religioso di una minoranza come quella cattolica. Più recentemente, invece, il porporato si è più volte espresso in modo positivo nei confronti della

lettera inviata dal Papa ai cattolici cinesi. In particolare, ha visto come positiva la volontà di Benedetto XVI di accogliere, dopo lunghi anni di separazione forzata, la stragrande maggioranza dei vescovi della Chiesa ufficiale all’interno dell’unica Chiesa cattolica. «La Chiesa in Cina - disse in occasione del sinodo dei vescovi del 2005 apparentemente divisa in due, una ufficiale riconosciuta dal governo e una clandestina che rifiuta di essere indipendente da Roma, è in realtà una Chiesa sola, perché tutti vogliono stare uniti al Papa». L’auspi-

Benedetto XVI guarda a Oriente per archiviare uno stallo diplomatico che dura dal 1951. Ma la strada resta ancora in salita

cio, dunque, è che anche Pechino accetti questa volontà di unità «anche se disse - gli elementi “conservatori”interni alla Chiesa ufficiale vi pongono resistenza, per ovvi motivi di interesse». Naturalmente un simile atteggiamento non gli è valsa la stima delle autorità locali che da sempre lo hanno accusato di eccessiva ingerenza nella vita del Paese.

Che Ratzinger guardasse all’Oriente e volesse archiviare lo stallo diplomatico tra i due Stati (Cina e Vaticano non hanno rapporti diplomatici dal 1951) lo ha dimostrato scrivendo nel maggio scorso la lettera ai cattolici cinesi. Ed è proprio da questo documento che sta ripartendo il dialogo. Dal 10 al 12 marzo, a Roma, infatti si è riunita la Commissione sulla Cina, istituita dal Papa «per studiare le questioni di maggior importanza relative alla vita della Chiesa in Cina». Al tavolo hanno partecipato i superiori dei dicasteri della Curia competenti e alcuni rappresentanti dell’episcopato cinese e di congregazioni religiose. Non potevano mancare il cardinale Zen e il cardinal Paul Shan Kuo-hsi, l’arcivescovo emerito di Kaoshiung, città a sud dell’isola di Taiwan. Questa piccola isola, per estensione di poco superiore alla Sardegna, ha un ruolo chiave per porre fine al gelo tra Santa Sede e Cina. Sono due, infatti, le condizioni poste da Pechino alla Santa Sede: rompere con Taiwan e impegnarsi a «non interferire negli affari interni» cinesi con il «pretesto» della religione. Per diverso tempo, infatti, la Santa Sede non ha potuto dire nulla sulla nomina dei vescovi sulla quale il governo aveva una grande influenza. Inoltre, dal 1951, la Santa Sede ha stabilito la propria Nunziatura Apostolica, di fatto un’ambasciata, a Taiwan, che si proclama indipendente ma che Pechino rivendica come una sua provincia. Per il Vaticano - uno dei pochissimi Stati ad avere rapporti diplomatici con quest’isola - spostare la Nunziatura è il problema minore: il più rilevante è quello riguardante il diritto minoranze a professare la propria fede. Negli ultimi due anni i rapporti sono stati altalenanti. Nel 2006 e 2007 si erano improvvisamente raffreddati dopo che Pechino aveva nominato unilateralmente tre vescovi. Dopo la lettera del Vaticano due vescovi - quelli di Pechino e di Guangzhou (Canton) - sono stati nominati col consenso del Papa. In dicembre, in quello che viene considerato un segnale positivo, il presidente Hu Jintao ha diretto una riunione del comitato centrale del Partito Comunista Cinese dedicato alla religione. In gennaio Ye Xiaowen, direttore dell’Ufficio statale per gli Affari religiosi, ha dichiarato che «Cina e Vaticano si stanno avvicinando». La strada da percorrere rimane, comunque, molta. Ma come ha affermato lo stesso Zen quella di stasera «sarà una Via Crucis di speranza». Nel suo cuore rimane, infatti, forte l’attesa di «tempi migliori». D’altra parte la settimana santa non finisce il venerdì, con la crocifissione di Cristo. C’è la domenica di Pasqua. Anche per i rapporti tra Cina e Vaticano.


pagina 8 • 21 marzo 2008

L’ITALIA AL VOTO

La comunicazione politica sotto esame

lessico e nuvole

Indecisi tra le caricature

Una moratoria per tutte le moratorie di Giancristiano Desiderio

di Arcangelo Pezza Secondo un sondaggio condotto nei giorni scorsi dall’Istituto Tiepoli, lo slogan di Silvio Berlusconi «Rialzati Italia, daiiiiiiiii» (rigorosamente da leggersi con voce nasale alla Sabina Guzzanti) è il più conosciuto (con il 61% di notorietà), ma il veltroniano «Si può dare di più» lo batterebbe in gradimento (con un indice di notorietà del 52% e di gradimento del 38%). Quindi seguono a ruota il casiniano «I veri malori non sono in vendita» (29%), e quello arcobaleno «Fai una scelta di carte» (26%). Gli intervistati sembrano aver apprezzato molto anche il claim di An, «Più sicurezza, c’è la paranza», quello della Lega «O Roma o Orte» e quello dei Comunisti italiani «Adotta un nonno: adotta Stalin». Decisamente meno sentiti quelli della Destra storaciana «Non disturbate il cretino che lavora», e di Forza Nuova «Il Caso ha sempre ragione». Siignificativa la percentuale di coloro che, alla domanda su quanto sia «efficace» la campagna del Pdl o del Pd, rispondono «ma va in mona». Dati che si sovrappongono a quelli sul coinvolgimento (molto basso) dei cittadini, segno che nessuna delle varie strategie di comunicazione, neppure quella ottima della Lista “Io non voto”, è finora riuscita ad abbattere il muro di indifferenza di gran parte dell’elettora-

Sabina Guzzanti nell’imitazione di Silvio Berlusconi

to. Solo il 35% del campione si dice infatti «molto» o «abbastanza» coinvolto in questa campagna elettorale, contro un 63% che risponde «chissenefrega», a cui va aggiunto un 2% di «senza opinione, ma comunque incazzati». Insomma, per quanti sforzi abbiano fatto, né Berlusconi né Veltroni, né Casini o Bertinotti, sono stati capaci di mobilitare più di un terzo degli italiani. I restanti due terzi ormai impotenti di fronte allo sfacelo, sono potenziali votanti del “Partito impotenti esistenziali”il cui leader, l’esimio dr. Cirillo, cerca proseliti al grido «Noi non ce lo abbiamo duro».

Sapete qual è la soluzione a tutti i problemi nazionali? La moratoria. S’iniziò con la battaglia dei Radicali per la moratoria internazionale sulla pena di morte. Poi Giuliano Ferrara lanciò l’idea della moratoria nazionale sull’aborto (anche se non si capisce bene come si potrebbe applicare). Adesso Antonio Di Pietro ha proposto la «moratoria per Malpensa». Il ministro delle Infrastrutture ha anche delle buone ragioni e «non me ne importa niente se nel mio governo qualcuno la pensa in modo diverso». Governo? Quale governo? Ah, sì, quello che «se si era deciso di abbandonare Malpensa non c’era bisogno di buttarci via sei miliardi di investimenti». Quindi? «E’ stato un grave errore non imporre come clausola alla vendita la moratoria sullo scalo». Ecco fatto: la soluzione è la moratoria. E’ così semplice. La scuola fa schifo? Moratoria. La sanità è malata? Moratoria. Il Mezzogiorno è in mano alla criminalità organizzata? Moratoria. Conti pubblici in rosso? Moratoria. La Campania è sommersa dai rifiuti? Moratoria. Arriva la recessione? Moratoria. Chissà perché nessuno ci aveva pensato prima. Per risolvere i problemi basta sospenderli. In fondo, l’Italia non è forse un Paese sospeso? Siamo «tra color che sono sospesi».

Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la ”media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda

Il sondaggio dei sondaggi la media di oggi Crespi Agron Ipsos Demosk. Digis Ipr Quaeris 19 marzo

18 marzo

17 marzo

17 marzo

16 marzo

14 marzo

13 marzo

Pdl+Lega

Centro

Pd+Idv

Sin-Arc

Destra

Socialisti

44,4

6,3

36,7

6,9

2,5

1,3

(+0,3)

(-0,5)

(+0,2)

(-0,2)

(-0,1)

(+0,1)

43,9 44,7 44,6 46,0 44,7 43,5 44,0

6,0 6,4 5,9 6,0 6,9 6,5 7,0

36,4 35,3 38,1 37,0 38,2 36,5 36,0

6,5 7,6 6,7 7,5 6,7 7,0 6,5

4,0 2,1 1,9 2,5 1,6 2,5 3,5

2,0 1,6 0,9 0,5 1,5 1,5 1,5

La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.

di Andrea Mancia Pubblicati i dati ufficiali di tre nuovi sondaggi sulle intenzioni di voto. Il primo è quella di Ipsos per Ballarò (17 marzo). Rispetto alla scorsa settimana, la coalizione guidata da Berlusconi (44,6%) perde lo 0,7%, mentre quella guidata da Veltroni guadagna lo 0,3%. Il distacco di PdL+Lega nei confronti di Pd+Idv, dunque, passa dal 7,5% al 6,5%. Stabili, o quasi, gli altri partiti e coalizioni. Il secondo sondaggio è di Agron sulle intenzioni di voto del 1718 marzo. Non essendo disponibili sondaggi precedenti dello stesso istituto di ricerca non è possibile fare un confronto sul trend dei singoli partiti o coalizioni. Preso a sé, comunque, il sondaggio Agron è sfavorevole al Pd, che ottiene il 35,3%, mentre il dato del PdL (44,7%) è più

o meno in linea con la nostra media. Abbastanza ”normali” anche il risultato della Sinistra Arcobaleno (7,6%), dell’Udc (6,4%) e della Destra (2,1%). Al di sopra della media, invece, il dato dei Socialisti (1,6%). Ultimo arrivato, il sondaggio di Crespi Ricerche (18-19 marzo). Rispetto al 14 marzo, crescono sia la coalizione guidata da Berlusconi (+0,9%) che quella guidata da Veltroni (+1,4%). Il vantaggio di PdL+Lega su Pd+Idv, dunque, si riduce dall’8% al 7,5%. Questa polarizzazione si riverbera sulla performance di Sinistra Arcobaleno e Udc, che perdono rispettivamente lo 0,7% e l’1,4%. Stabili la Destra (4%) e i Socialisti (2%), che viaggiano su percentuali più alte di quelle degli altri sondaggisti.


L’ITALIA AL VOTO

21 marzo 2008 • pagina 9

I saggi della Repubblica. Viaggio tra passato e presente/Claudio Martelli

«Stanno sequestrando la politica e la democrazia» colloquio con Claudio Martelli di Errico Novi ROMA. Ha trovato un modo per occuparsi dell’Italia senza soffrire: starne fisicamente lontano. Claudio Martelli spiega che ormai trascorre «la maggior parte dell’anno a Berlino anziché a Roma», quando gli si chiede se gli fa impressione un Paese come il nostro, disgregato al punto da rendere sempre più ristretta la partecipazione alla politica. Lo preoccupa «il sequestro della democrazia avvenuto con le liste bloccate» e la corrispondente «incapacità delle persone di ribellarsi persino alla tragedia dei rifiuti a Napoli: se davvero si arriva al punto che i cittadini si rassegnano a un disastro simile perché convinti di non poter più incidere sulla vita pubblica, allora vuol dire che siamo veramente a rischio». Parliamo del rischio di scivolare nell’oligarchia? «Berlusconi nella sua spontaneità l’ha detto: siamo un partito monarchico dal punto di vista della leadership e anarchico su molte scelte. Avete bisogno di un altro esempio?». Guardiamo in faccia alla realtà, fino in fondo. «Veltroni si disegna il partito su misura. Certo, fa cose a cui il Partito comunista ci aveva sempre abituati, come la scelta dei cosiddetti indipendenti, dei nomi appetitosi con cui irrobustire la lista. Ma questo lascia irrisolto, anzi ingigantisce il problema di fondo, il nodo che isola l’Italia rispetto agli altri Paesi europei, dove la democrazia non è finita sotto sequestro». Perché da noi la situazione precipita? «Basta tornare ad Aristotele, che indica nell’aristocrazia lo strumento di difesa dell’ordine democratico. Si può eleggere un capo senza correre rischi se ci sono gli eletti del popolo che controllano il suo operato. Da noi non è più così. Esiste solo il leader, circondato da una platea di anonimi. Anche nei collegi uninominali vedevamo persone catapultate dal vertice, ma almeno c’erano facce riconoscibili. Qui invece siamo nella situazione più pericolosa, in cui il Parlamento è letteralmente nominato dai capi partito». Non è un bel finale, per il nostro bipolarismo. «Non che l’inizio sia stato granché. La sintesi migliore proviene dai suoi stessi protagonisti, che parlano di bipolarismo primitivo, selvaggio, costruito su un’accozzaglia di partiti piuttosto che su vere coalizioni. Adesso dovremmo

trovarci con due pilastri più solidi, capaci di garantire l’alternanza al potere. Dovremmo». Sempre che la congiuntura così difficile non induca una condivisione delle responsabilità. «Bisognerebbe stare attenti a mutuare con tanta disinvoltura la grande coalizione. In Germania i socialdemocratici hanno pagato un prezzo altissimo, sono passati da un patrimonio elettorale del 40 per cento a sondaggi che li danno sotto il 25. Al punto che da settori del partito viene rimessa in dubbio la definitiva archiviazione dell’alleanza con i comunisti. Uno dei due grandi partiti finisce sempre per rimetterci molto, da questo tipo di soluzione, come è successo al leader della Cdu Kiesinger quando formò per la prima volta un governo allargato alla Spd di Brandt». Se davvero si arrivasse a un grande blocco tra i due maggiori partiti la tentazione oligarchica finirebbe per rafforzarsi e si limiterebbe ancora di più la partecipazione alla politica.

tolo, credo che oscillare tra l’indignazione e la rassegnazione come facciamo noi italiani sia il massimo dell’inconcludenza». Forse soffriamo gli effetti della globalizzazione più di altri Paesi occidentali. «Appunto. Non è che ci sia un determinismo assoluto, in questi processi. È chiaro che esistono dimensioni sovranazionali davanti alle quali il governo di un Paese è impotente. Ma mi pare che la Germania, la Spagna, per non dire dell’Inghilterra, siano in grado di difendersi molto meglio, perché lì migliore è la

«Ormai i leader non hanno un’opposizione interna, e con un Parlamento nominato da loro sono sempre più sottratti a qualsiasi controllo. È allarmante la rassegnazione dei cittadini»

Claudio Martelli è stato vicepresidente del Consiglio nel sesto governo Andreotti fino al 1991, quando è stato nominato ministro di Grazia e giustizia

Aggiungiamoci che la società italiana appare sempre più disgregata e incapace di organizzare la rappresentanza: non si capisce da che parte dovrebbe arrivare il cambiamento. «Lo dice a uno che ha deciso di vivere il più possibile lontano dall’Italia. Per chi ha esperienza democratica assistere a questa disgregazione è una sofferenza. Eppure, anche se capisco di non avere ti-

capacità di chi esercita il potere. Si può dare ragione a Lenin, questo è vero, quando profetizzava che i capitalisti avrebbero venduto anche la corda per impiccarli. E l’Occidente in effetti pur di creare nuove popolazioni di consumatori ha allargato il mercato a chi lo trucca con il dumping sociale, in questo Tremonti ha ragione. Ma non si può spiegare con questa analisi il fatto che in Italia ci sia una così grave perdita di controllo sui processi economici». Andrà a votare? «Ci sto pensando, sa. Non è una decisio-

ne facile. È da tempo che ho casa anche in un altro Paese ma è la prima volta che ho questo dubbio. Vorrei che il mio voto fosse utile e in realtà mi trovo davanti all’impossibilità di scegliere. Sì, forse posso scegliere tra Berlusconi e Veltroni ma anche su questo grava l’incognita dell’inciucio, seppur sollecitato dallo stato di necessità». Nel ’94 il furore giustizialista ci ha catapultati in uno schema bipolare senza che ci fosse il tempo di costruirne i presupposti. Non è così anche stavolta? Il bipartitismo arriva all’improvviso senza che siano maturate le condizioni istituzionali. «È esattamente così, c’è una brusca accelerazione in assenza di regole democratiche». Lo dice anche da socialista rassegnato all’estinzione della sua tribù? «È un argomento che mi emoziona e preferirei evitarlo. Mi limito a dire che molti amici mi chiamano per lamentarsi di essere silenziati dai media e maltrattati da Veltroni. È partita la caccia ai piccoli partiti, e sarebbe accettabile se almeno gli altri fossero davvero grandi». Crede che lo spazio centrista aperto da Casini possa modificare gli equilibri immaginati dai due big? «Io dico che l’Udc era nato con un obiettivo più grande della mera difesa dell’identità cattolica. All’origine c’era un’idea di proposta liberale a cui potessero aderire credenti e non credenti. Ora mi pare che Casini spinga molto sull’identità cristiana, ma se c’è un’istanza che in Italia non ha bisogno di essere preservata, credo sia proprio questa». È anche vero che il tentativo di ricostruire le identità è una delle poche opzioni disponibili per spezzare il circolo vizioso di cui sopra: l’impoverimento che disgrega la società, la società disgregata che non esprime più partecipazione politica, il potere sempre più oligarchico che si avvita e non arresta l’impoverimento. «Non è facile interrompere la spirale. Credo che le responsabilità della politica italiana rispetto alle condizioni di vita siano riconoscibili. Basta guardare al differenziale di crescita e di coesione sociale che c’è tra noi e altri Paesi europei».


pagina 10 • 21 marzo 2008

mondo Grazie al maggiore impegno americano in Iraq il numero degli attentati si è ridotto drasticamente. In basso Richard Perle

L’ex sottosegretario alla Difesa difende l’invasione dell’Iraq e ha un rimpianto: la superbia degli Usa

Tutti gli errori di una guerra giusta di Richard Perle ombattere cinque anni una guerra impopolare equivale, per un governo, a una eternità. Sotto il profilo storico si tratta invece di un “batter di ciglia”, un periodo troppo breve per essere giudicato o farne un resoconto equilibrato. Ma giudici e contabili non aspettano. Con il quinto anniversario dell’invasione dell’Iraq il dibattito sulla scelta di entrare in guerra e le sue conseguenze, è tornato alla ribalta. La discussione è dominata dai costi terribili, mentre i benefici non trovano quasi spazio. I costi sono dolorosi e valutabili immediatamente: migliaia di vite umane perdute, spese enormi, vasta disapprovazione politica e diplomatica, riluttanza all’uso della forza nei conflitti futuri, dove intervenire potrebbe impedire altre guerre o evitare stragi di massa.

C

Ma i benefici ci sono. Alcuni già si vedono. Altri cominciano a delinearsi, altri ancora appariranno in seguito. L’immediato beneficio è la fine del regime di Saddam. Responsabile di due guerre che hanno causato oltre un milione di vittime, per decenni in contatto con gruppi terroristi, finanziatore dei terroristi suicidi, bugiardo sulle armi chimiche e biologiche (che pure sono state usate), Saddam rende inevitabile domandarsi: avremmo dovuto rischiare di lasciarlo al suo posto sperando in tempi migliori, o la distruzione del suo regime ha posto fine alla possibilità di organizzare attacchi ancora più devastanti dell’11/9?

Credo che abbiamo preso la decisione giusta. Bagdad è caduta in 21 giorni, le perdite per le due parti sono state minime. Venticinque milioni di iracheni sono stati liberati e oggi la minaccia rappresentata da Saddam non esiste più. Non ci saranno più armi di distruzione di massa da distribuire ai terroristi. Anche se non si può dire che queste esistevano veramente - i servizi segreti di mezzo mondo hanno commesso degli errori - tutto quel che serviva alla loro costruzione è stato distrutto. E la scoperta di fosse comuni dove erano state nascoste alcune delle 300mila vittime di Saddam, ha comunque dato alla guerra la sua giustificazione morale.

Cosa non ha funzionato? Credo che l’errore iniziale, dal quale poi è derivato una serie di altri errori, sia stato quello di non aver consegnato il Paese agli iracheni il giorno in cui

di arroganza, abbiamo creduto di conoscere meglio degli stessi iracheni come si sarebbe dovuto ricostruire l’Iraq dopo tre decenni di dittatura. Abbiamo dato all’America un compito impossibile, governare l’Iraq da Washington. In realtà i piani per creare una amministrazione irachena ad interim e iniziare la ricostruzione mentre il Paese si preparava alle elezioni sono stati dibattuti a lungo. Il sostegno per realizzare questo progetto, è venuto principalmente dal Pentagono dove l’idea di collaborare con l’opposizione a Saddam era già presente prima della guerra. Ma il dipartimento di Stato e la Cia si sono opposti con veemenza, argomentando che solo gli iracheni che vivevano nel Paese al momento della scoppio della guerra potevano essere in grado di governarlo. Negli Stati Uniti quando l’esecutivo è profondamente diviso è il Consiglio della sicurezza

strazione frazionata non più in grado di funzionare correttamente. La decisione di sostenere un governo provvisorio è stata cancellata in pochi giorni, lasciando il posto ad una occupazione dagli esiti fatali. Personalità irachene, la maggioranza delle quali in seguito avrebbe ricoperto alti incarichi elettivi, sono state trattate come servi, incapaci di influire su decisioni prese da americani giovani e colti che, non essendo mai stati all’estero, vivevano come reclusi nella “zona verde” di Bagdad. Politicamente, l’occupazione è stata un disastro. La situazione della sicurezza è deteriorata quando al Qaeda e gli ultimi ostinati simpatizzanti di Saddam hanno scatenato un inaudito regime terrorista. Gli insorti hanno preso di mira le moschee allo scopo di stimolare fratture etniche e religiose. Il ricordo della rapida vittoria della coalizione è svanito rapi-

Dopo la caduta di Saddam è stato un errore non lasciare la gestione del Paese agli iracheni. Le divisioni interne all’esecutivo americano hanno prodotto una politica impossibile: governare Bagdad da Washington Bagdad è caduta. Le forze della coalizione sarebbero potute restare, ma solo dopo un accordo col governo provvisorio. Purtroppo abbiamo fatto si che la liberazione diventasse un’occupazione, fatto che ha reso possibile una sanguinosa insurgency dalla quale noi, e gli iracheni, ne stiamo uscendo solo ora. Con una fiducia mal riposta, ma sarebbe meglio parlare

nazionale che prova ad elaborare una politica condivisa. Se nemmeno questo ha successo, decide il presidente. Almeno così funzionava l’amministrazione Reagan, nella quale io ho lavorato. Ma nel caso iracheno il disaccordo ha portato a ritardi e indecisioni a volte vicini alla paralisi. Il presidente non è stato in grado di guidare quella che era diventata un’ammini-

damente. Sono stati giorni bui. Ma anche giorni luminosi. Milioni di iracheni sfidando la morte si sono recati al voto nelle prime elezioni libere mai tenute da un Paese arabo. La convinzione che gli arabi siano inadatti alla democrazia, cosicché era facile per i governi occidentali lasciarli in mano ai dittatori, è stata messa in discussione da una quantità in-

credibile di uomini e donne coraggiosi. Ora il compito più urgente è ritrovare tale coraggio e su questo costruire il futuro del Paese.

Dal momento dello sforzo fatto dal governo americano, la cosiddetta surge, un numero crescente di iracheni sta respingendo il sentiero violento dell’insurgency. In Iraq al Qaeda ha perso slancio ed ora sta disperatamente battendosi per evitare la disfatta. I leader tradizionalisti iracheni hanno voltato le spalle ai jihadisti. Il vento è cambiato anche se ci sono ancora attentatori suicidi che vogliono guadagnarsi il biglietto per il paradiso uccidendo innocenti. Le prospettive per governi democratici in Iraq sono più incoraggianti che in qualsiasi altra nazione araba. Ma ci vorrà ancora del tempo. La surge sta funzionando. Il rapporto con gli iracheni ora si basa sulla partnership e non più sull’occupazione. È diretta da una amministrazione ridimensionata e più saggia, da un team di ufficiali militari di eccezionali capacità. Per quanto mi riguarda se questa strategia fosse stata adottata molto tempo prima, grandi dolori sarebbero stati evitati. Solo gli iracheni possono costruire una società, umana e più aperta, che sia in grado di riflettere la diversità di una grande civiltà. Cinque anni fa hanno avuto bisogno del nostro aiuto per abbattere Saddam ed ora hanno ancora bisogno di noi per concludere un percorso. Sono certo che ce la faranno.


mondo

21 marzo 2008 • pagina 11

Dopo l’introduzione del velo i laici cercano di far cadere il governo turco

Corte Costituzionale contro Erdogan di Rossella Fabiani a battaglia del velo in Turchia non è finita. Ora non sono solo i militari a difendere la laicità dello Stato contro Erdogan, ma è sceso in campo anche il procuratore generale della Corte costituzionale, Abdurrahman Yalcinkaya che ha chiesto lo scioglimento del partito Giustizia e Sviluppo (Akp), del quale fanno parte il presidente della Repubblica Abdullah Gul e il primo ministro Erdogan, che ha stravinto le elezioni del luglio scorso con il 47 per cento dei voti e che, tra le sue prime mosse politiche, ha aperto le porte dell’Università anche alle ragazze che indossano il velo approvando una legge che permette alle studentesse di portare il “turban”, usanza prima assolutamente proibita.

L

Le sanzioni contro l’Akp e i suoi leader, compreso il presidente Gul, provocherebbero lo scioglimento del partito al governo con l’eventualità di andare alle elezioni anticipate

Proprio in questi giorni la Corte costituzionale turca, forse già lunedì, dovrà decidere se accettare o no l’istanza dell’alto magistrato presentata venerdì scorso e valutare anche il ricorso presentato dai nazionalisti del Chp contro la legge. Nel dossier di 162 pagine scritte dal giudice Yalcinkaya e sottoposte alla Corte, che ha il potere di dichiarare illegale un partito, il magistrato cita la liberalizzazione dell’uso del velo nelle università come esempio di takkiyye, la tattica dissimulatoria che maschera le proprie convinzioni sino al raggiungimento del fine auspicato. L’accusa del giudice è pesante: la distruzione da parte del partito Akp del secolarismo dello Stato per trasformare la Turchia in una repubblica islamica. Per questo Yalcinkaya ha chiesto alla Corte di sciogliere il partito Akp in quanto gruppo “religioso”, accusandolo di attività illegale e denunciando il comportamento fuorilegge di settantuno dei suoi componenti, tra cui l’attuale primo ministro Erdogan e il presidente della Repubblica Abdullah Gul e chiedendo la loro interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Il procuratore generale, Abdurrahman Yalcinkaya è convinto di avere le prove del «tentativo dell’islam politico di modificare lo Stato e le leggi sociali, superando l’area del

rapporto tra la persona e Dio». E scrive che «il principale fondamento dell’islam politico è la sharia», mentre «in uno Stato laico la fonte della vita pubblica non possono essere le norme religiose». Le sanzioni contro l’Akp e i suoi leader, compreso l’attuale presidente Gul, significherebbero, di fatto, lo scioglimento del partito di Erdogan con l’eventualità di andare alle elezioni anticipate. La Corte è composta da 11 membri, 8 dei quali nominati dall’ex presidente kemalista Sezer. Per deliberare servono 7 voti su 11. Un fatto analogo era accaduto nel giugno del 1998, quando fu sciolto il partito islamico dell’allora primo ministro Erbakan dopo un avviso delle Forze Armate. Dalle ceneri di quel partito nacque l’Akp, ora al governo. È invece la prima volta che viene chiesta la sospensione di un presidente della Repubblica, in quanto la sua figura è fermamente protetta dalla Costituzione. Recep Tayyip Erdogan non si è fatto intimidire, al contrario ha sottolineato che «si tratta non di un atto contro il nostro partito, ma contro

la volontà del popolo». Ed ha aggiunto, citando il Corano, «hanno le orecchie e non sentono, hanno occhi ma non vedono, hanno la lingua, ma non dicono la verità». Mentre il suo partito, l’Akp, che questa volta può contare sull’inatteso sostegno degli ultranazionalisti del Partito di azione del popolo (Mhp), terza forza parlamentare, starebbe pensando addirittura ad un emendamento costituzionale per limitare il potere del procuratore capo della Suprema Corte oltre ad un pacchetto di emendamenti alla Costituzione - che riguarderebbero tra gli altri l’articolo 10 (sull’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge) e l’articolo 42 (sul diritto all’istruzione) - per evitare che i partiti possano essere dichiarati illegali e quindi chiusi, come già più volte successo in passato (ma mai quando erano al governo).

Anche Bahceli, il presidente del partito nazionalista, si è fatto sentire dicendo che: «il ricorso per la chiusura dell’Akp, che governa il Paese da 65 mesi creerà dei problemi politici non indifferenti». Con il gesto dell’alto magistrato continua, dunque, la guerra strisciante tra l’Akp e le forze vetero-kemaliste, che trovano la loro espressione nell’esercito e nella pubblica amministrazione, della quale la magistratura costituisce l’ultima roccaforte. Una guerra iniziata prima con la contestazione dell’elezione di Gul alla massima carica dello Stato, portando così il Paese ad elezioni anticipate, poi con l’ostilità alla riforma sul velo. Una crisi, che in seguito anche all’inchiesta Ergenekon (la Gladio turca), mette lo Stato alle corde. E mentre l’Unione Europea chiede con insistenza di fare luce sull’affare Ergenekon, anche i mercati finanziari hanno reagito negativamente in Turchia alla richiesta avanzata dal procuratore generale per lo scioglimento del partito di Erdogan. Preoccupa quello che è visto come l’ennesimo atto della guerra strisciante tra lo “Stato profondo” e il partito musulmano moderato: una crisi che viene da lontano e che mina la stabilità del Paese.

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Cecenia, scontri a fuoco Almeno nove persone sono rimaste uccise in Cecenia in una serie di scontri a fuoco tra ribelli separatisti e forze di sicurezza russe che si sono susseguiti in un villaggio della regione di Urus Martan. Le vittime sono quattro ufficiali di polizia, tre ribelli, un procuratore militare ed un civile.

Tibet1/ Dalai Lama apre a Hu Jintao Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, si è detto pronto a incontrare il presidente cinese, Hu Jintao, sulla crisi in Tibet. A patto però che sussistano «indicazioni concrete» sulla volontà di Pechino di dialogare. Il Lama ha aggiunto che la repressione della rivolta da parte delle autorità cinesi ha causato moltissime vittime. Per la Repubblica popolare, invece, il numero dei morti e feriti è molto inferiore a quanto riportato dai media internazionali. La risposta del Dalai Lama giunge a due giorni dalla comunicazione di Hu, nel quale il presidente cinese si diceva disposto a incontrare il leader spirituale a due condizioni: che non fosse in discussione l’indipendenza del Tibet e che i monaci cessassero la violenza.

Tibet2/ La Cina dice “no” al Papa La Cina ha respinto l’appello del Papa «al dialogo e alla tolleranza» in Tibet. Perché si dialoghi «il Dalai Lama deve rinunciare alla sua posizione sull’indipendenza, fermare le attività separatiste e riconoscere che il Tibet è parte della Cina e che quello della Repubblica popolare è l’unico governo legittimo di tutta la Cina». Quanto alla tolleranza auspicata mercoledì da Benedetto XVI, il portavoce del ministero degli Esteri, Qin Gangha, ha affermato che questa «non può esistere per i criminali, che devono essere puniti secondo la legge».

Chi ha scritto la poesia contro Brown? È caccia nei palazzi del governo di Londra al ministro che avrebbe scritto una breve poesia in cui si auspica che Gordon Brown si tolga di mezzo e si esprime nostalgia per Tony Blair. La composizione, apparsa sul sito web dello Spectator, recita cosi’: «At Downing Street upon the stair, I met a man who wasn’t Blair, He wasn’t Blair again today, Oh how I wish he’d go away» (A Downing Street, in cima alle scale / ho incontrato un uomo che non era Blair / Non era Blair, nemmeno oggi / Oh, come vorrei che se ne andasse via». Il dito è stato puntato dall’esponente conservatore Alan Duncan contro John Hutton, ministro dell’Economia e noto alleato di ferro di Blair. Questi ha subito negato con umorismo: «Io scriverei una poesia migliore di questa. Non sono assolutamente le mie parole».

Le razzie del Sudan in Darfur L’Alto Commissario Onu per i diritti umani, la canadese Louise Arbour, accusa le truppe governative sudanesi di aver saccheggiato le città e stuprato donne e ragazze durante gli attacchi lanciati il mese scorso nel Darfur Occidentale, con il sostegno delle milizie arabe dei janjaweed (diavoli a cavallo, ndr). In un rapporto redatto da esperti dei diritti umani della forza di pace congiunta Onu-Unione africana (Unamid) e diffuso oggi, si sottolinea che «queste azioni violano il diritto internazionale, non rispettando la distinzione tra soggetti civili e obiettivi militari».

Le minacce di Bin Laden Le minacce rivolte al Papa e all’Europa da parte di Bin Laden sono un segnale di attacco? Gli islamisti che frequentano i forum dedicati ad Al Qaeda ne sono convinti. È possibile - sostengono - che il prossimo attacco avvenga proprio all’interno dei confini europei. Una valutazione che tiene conto anche degli sforzi continui dei qaedisti di reclutare elementi di origine europea: pochi giorni fa si è fatto esplodere in Afghanistan un kamikaze tedesco di origine turca. Nel frattempo, la voce registrata nel nuovo messaggio attribuito a Osama Bin Laden è apparentemente autentica e riconducibile al capo di Al-Qaeda. Lo ha detto la Casa Bianca dopo l’analisi degli esperti.

Mongolia, cedono gli argini del Fiume Giallo Per il cedimento degli argini del Fiume Giallo, l’acqua ha inondato la città cinese di Erdos e altre località della Mongolia e 13 mila persone sono state evacuate. Al momento non risultano vittime, ma la situazione non tende a migliorare. Al momento hanno ceduto 500 metri di argine e l’acqua minaccia la città di Duguitala.


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speciale approfondimenti

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Il 18 marzo a Filadelfia il senatore Obama ha affrontato il tema del razzismo in un discorso destinato a entrare nella storia Usa. Lo pubblichiamo integralmente

RAZZA AMERICANA La zoppia di Obama di Michael Novak ome sempre, c’è una soffusa e diffusa retorica nel discorso di Obama a Filadelfia. Ma questa volta un punto è chiaro: l’uomo, a sinistra, zoppica. Non una parola sul ruolo delle politiche di sinistra che dal 1964 hanno statisticamente arrecato enormi danni alla comunità nera, peggiorato il tasso di disoccupazione giovanile e favorito l’abbandono delle ragazze madri. Niente di niente, nemmeno un accenno, sulla rabbia profonda, il risentimento e l’amarezza scaturiti dal «razzismo democratico». Nei discorsi di Obama, la sinistra non può sbagliare. La sua visione è settoriale. La sua retorica pure. La zoppia di Obama a sinistra lo cautela dal sembrare onestamente, costruttivamente e innegabilmente orientato al mondo del business. La parola «profitto» Obama la usa sempre in accezione negativa. Davvero pensa che le «perdite» siano una buona cosa, in grado di aiutare i poveri mentre i profitti siano il diavolo? E se le multinazionali sparissero dalle nostre vite, il problema dei poveri sarebbe risolto? Incidentalmente, cosa succederebbe se le multinazionali che Obama taccia e denigra spostassero le loro sedi e posti di lavoro oltreoceano, proprio mentre corporations di atre nazioni - Toyota, Siemens e un gruppo di altre, stanno aprendo nuovi stabilimenti in America? E nello stesso decennio in cui un vasto numero di americani hanno trovato occupazione come mai era accaduto prima? Ovviamente, la senatrice Clinton ha la stessa zoppia a sinistra. E la stessa voglia di dividere. I democratici tendono ad apostrofare e ritenere i conservatori come fossero il diavolo. I conservatori pensano solo che i democratici siano un po’troppo ignoranti.

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di Barack Obama

uecentoventi anni fa, in una sala che esiste ancora oggi, proprio dall’altro lato della strada, si riunì un gruppo di uomini che, con queste semplici parole, lanciò l’improbabile esperimento americano della democrazia. Agricoltori ed accademici, statisti e patrioti che avevano attraversato l’oceano per sfuggire alla tirannia ed alle persecuzioni, fecero diventare realtà la loro dichiarazione d’indipendenza alla Convenzione di Philadelphia che durò tutta la primavera del 1787. Il documento che elaborarono fu infine firmato, ma rimase in fondo incompiuto. Fu macchiato dal peccato originale di questa nazione, vale a dire la schiavitù, una questione che divise le colonie e portò la Convenzione ad una fase di stallo finché i fondatori scelsero di consentire che la tratta degli schiavi continuasse per almeno altri venti anni e di lasciare la soluzione definitiva del problema in eredità alle future generazioni. Ovviamente, la risposta alla questione della schiavitù era già ben radicata nella nostra stessa Carta Costituzionale – una Costituzione che aveva come fulcro l’ideale dell’eguaglianza di tutti i cittadini sancita per legge; una Costituzione che prometteva al suo popolo libertà, giustizia ed un’unione che avrebbe potuto e dovuto essere perfezionata nel tempo. Eppure, parole vergate su una pergamena non sarebbero state sufficienti a liberare gli schiavi dalla servitù o a garantire a tutti gli uomini ed a tutte le donne, di ogni razza e credo, pieni diritti e doveri quali cittadini degli Stati Uniti. Ci sarebbero volute generazioni successive di americani convinti della necessità di dover fare la loro parte – con proteste e lotte, nelle strade e nelle aule dei tribunali, con la guerra civile e la disobbedienza sociale e sempre correndo gravi rischi - per colmare il divario fra la promessa dei nostri ideali e la realtà del loro tempo. Questo è stato uno dei compiti che ci siamo prefissati di adempiere all’inizio della nostra campagna – vale a dire continuare la lunga marcia di coloro che ci hanno preceduto, la marcia per conseguire l’obiettivo di un’America più giusta, più equa, più libera, più attenta ed altruista, e più prospera. Ho

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Qui a fianco il reverendo Jeremiah Wright, i cui rapporti con Obama hanno motivato il discusso intervento del senatore afroamericano. Sopra manifestante pro Obama

scelto di candidarmi alla Presidenza in questo preciso momento storico perché ritengo veramente che non si possano raccogliere le sfide del nostro tempo se non lo si fa insieme; se non si perfeziona la nostra unione comprendendo che possiamo pur avere storie diverse, ma condividiamo speranze comuni; che possiamo pur non sembrare uguali e provenire dallo stesso posto, ma vogliamo tutti andare nella stessa direzione, vale a dire un futuro migliore per i nostri figli e per i nostri nipoti.

«Ho già condannato, in termini inequivocabili, le parole del Reverendo»

Questa convinzione mi deriva dalla fede incrollabile che nutro nella dignità e nella generosità del popolo americano. Ma deriva altresì dalla mia storia di americano. Sono figlio di un nero del Kenya e di una bianca del Kansas. Sono cresciuto con l’aiuto di un nonno bianco che era sopravvissuto alla Grande Depressione per poi arruolarsi nell’Esercito di Patton durante la Seconda Guerra Mondiale e con l’aiuto di una nonna bianca che lavorava alla catena di montaggio di un bombardiere a Fort Leavenworth mentre lui era in guerra. Ho frequentato alcune delle migliori scuole americane ed

ho vissuto in una delle nazioni più povere del mondo. Ho sposato una donna nera che ha in sé il sangue degli schiavi e dei padroni di schiavi – un’eredità che abbiamo tramandato alle nostre due splendide figlie. Ho fratelli, sorelle, nipoti, zii e cugini di ogni razza e colore, sparsi in tre continenti, e finché avrò vita non scorderò mai che in nessun altro paese sulla terra sarebbe stata possibile una storia come la mia. È una storia che non mi ha reso certo il candidato più convenzionale e tradizionale. Ma è una storia che mi ha impresso nel

DNA l’idea che questa nazione è qualcosa di più della mera somma delle sue parti – che benché tanti nella nostra diversità, siamo veramente una cosa sola.

In tutto il primo anno di questa campagna, a dispetto di tutte le previsioni contrarie, abbiamo visto fino a che punto il popolo americano desiderava questo messaggio di unità. Nonostante la tentazione di considerare la mia candidatura soltanto da un punto di vista puramente razziale, abbiamo registrato grandiose vittorie in stati dove vive la maggior parte


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della popolazione bianca del Paese. Nella Carolina del Sud, dove ancora sventola la bandiera dei Confederati, abbiamo costruito una potente coalizione di afroamericani e di bianchi americani. Ciò non vuol dire che la questione razziale non abbia caratterizzato la campagna. A varie riprese nel corso di essa, alcuni giornalisti mi hanno dipinto come «troppo nero» o «non sufficientemente ne-

egual misura, sia i bianchi che i neri. Ho già condannato, in termini inequivocabili, le affermazioni del Reverendo Wright che hanno causato così tante controversie. Non ero forse a conoscenza di quanto, talvolta, criticasse aspramente la politica interna ed estera americana? Sicuramente sì. Non lo avevo forse mai sentito fare delle osservazioni che potessero essere considerate discutibili mentre

ro». Abbiamo assistito all’emergere di tensioni razziali la settimana prima delle primarie in Carolina del Sud. La stampa ha passato al setaccio ogni sondaggio col fine di trovarvi prove di polarizzazione razziale, non soltanto in termini di neri e bianchi, ma anche di neri e persone di pelle scura. Eppure è soltanto nelle due ultime settimane che il dibattito sulla questione razziale in questa campagna ha preso una piega tale da essere causa di notevoli divisioni.

ero seduto in chiesa? Naturalmente sì. Non avevo forse espresso disaccordo nei confronti di molte delle sue opinioni politiche? Certamente sì – proprio come sono sicuro del fatto che molti di voi avranno ascoltato osservazioni fatte dai propri pastori, sacerdoti o rabbini sulle quali non erano affatto d’accordo. Ma le dichiarazioni che hanno provocato questa recente bufera non sono semplicemente controverse. Non sono semplicemente il tentativo di un leader religioso di scagliarsi chiaramente contro l’ingiustizia percepita. Al contrario, esprimono una visione profondamente distorta di questo Paese – una visione che considera il razzismo dei bianchi un male endemico, e che fa risaltare le pecche ed i difetti dell’America elevandoli al di sopra di tutto ciò che noi sappiamo essere il buono dell’America; una visione che considera la causa dei conflitti in Medio Oriente essere principalmente radicata nelle azioni di coraggiosi e fidi alleati quali Israele, invece che provenire dalle ideologie perverse e cariche d’odio dell’Islam radicale.

Da un lato abbiamo sentito alludere al fatto che la mia candidatura fosse, in un certo qual modo, un mero esercizio di azioni volte ad assistere chi è vittima di pregiudizi e che si basa soltanto sul desiderio di liberali ingenui di comprare un po’ di riconciliazione razziale a buon mercato. Dall’altro, abbiamo ascoltato il mio ex-Pastore, il Reverendo Jeremiah Wright, utilizzare un linguaggio incendiario per esprimere opinioni che potenzialmente possono non soltanto accrescere le divisioni razziali, ma anche denigrare sia la grandezza che la benevolenza e l’onestà del nostro Paese – che offendono giustamente, in

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speciale approfondimenti

segue da pagina 13 In quanto tali, le osservazioni del Reverendo Wright non sono soltanto sbagliate, ma anche causa di divisioni in un momento in cui abbiamo bisogno di unità; essi sono cariche d’implicazioni razziali in un momento in cui dobbiamo essere uniti per risolvere tutta una serie di problemi giganteschi: due guerre, la minaccia terroristica, un’economia in declino, una crisi cronica del sistema sanitario e cambiamenti climatici potenzialmente devastanti; tutti problemi che non sono né dei neri né dei bianchi, né dei Latino-americani né degli asiatici, ma piuttosto problemi che ci affliggono tutti. Considerate le mie origini, il mio background, la mia politica ed i valori e gli ideali che professo, ci sarà sempre qualcuno per il quale le mie dichiarazioni di condanna

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meglio conoscere la fede cristiana, un uomo che mi parlava del nostro dovere di amarci gli uni con gli altri, di aver cura dei malati e di aiutare i poveri. E’ l’uomo che ha servito il suo Paese da marine; che ha studiato ed insegnato in alcune delle migliori università e dei migliori seminari del Paese, e che da più di trent’anni guida una chiesa che è al servizio della comunità perseguendo in Terra l’opera del Signore – dando un tetto ai senza casa, prestando soccorso a chi ha bisogno, fornendo servizi di assistenza e borse di studio, curando le anime nelle carceri ed assistendo chi soffre di Aids.

Nel mio primo libro, Dreams From My Father (Sogni del Padre mio), ho descritto l’esperienza della mia prima funzione religiosa alla Trinity: «La gente iniziò ad urlare, ad alzarsi dal proprio posto, ad

ancora una volta una nave che portava la storia di un popolo nelle future generazioni ed in un mondo più vasto. Le nostre tribolazioni ed i nostri successi diventavano allo stesso tempo successi unici ed universali, neri ed anche qualcosa in più del nero; nel narrare il nostro viaggio, le storie e le canzoni ci davano la possibilità di recuperare e riscattare ricordi di cui non dovevamo vergognarci… il sogno che tutti potessero studiare ed amare i propri cari – ricordi, sogni grazie ai quali potevamo iniziare a ricostruire.” Quella è stata la mia prima esperienza alla Trinity. Come altre chiese prevalentemente nere in tutto il Paese, la Trinity incarna la comunità nera nella sua interezza: il medico e l’assistente sociale, lo studente modello e l’ex-teppista. Come altre chiese nere, le funzioni religiose alla Trinity sono piene di grasse risate e

Bianchi e neri finalmente insieme non saranno mai sufficienti abbastanza. Potrebbero chiedersi, innanzitutto, perché mi sono associato al Reverendo Wright o perché non mi sono unito ad un’altra chiesa. E confesso che se tutto ciò che sapessi del Reverendo Wright fossero i frammenti dei sermoni continuamente trasmessi in televisione e su You Tube, o se la Trinity United Church of Christ fosse davvero come quelle caricature messe in giro da alcuni giornalisti, non c’é dubbio che avrei reagito più o meno allo stesso modo. Ma la verità è che ci sono altre cose che io so di questo uomo. Colui che ho incontrato ormai più di venti anni fa è l’uomo che ha contribuito ad avvicinarmi ed a farmi

applaudire ed ad urlare a gran voce, un vento potente portava la voce del Reverendo fin su in alto la chiesa…» Ed in quella sola nota – speranza! – Ho sentito qualcos’altro: ai piedi di quella croce, nelle migliaia di chiese della città, ho immaginato le storie di gente comune nera che si fondevano con le storie di Davide e Golia, di Mosè e del Faraone, dei Cristiani nella tana del leone, del campo di Ezechiele cosparso di ossa secche. Quelle storie – di sopravvivenza, di libertà e di speranza – sono diventate la nostra storia, la mia storia; il sangue versato era il nostro sangue, le lacrime versate le nostre lacrime; finché questa chiesa nera, in questo giorno luminoso, sembrò

talvolta di umorismo osceno. Sono piene di balli, applausi, grida ed urla che possono sembrare stonati ad un orecchio non abituato. La chiesa racchiude nella sua interezza la bontà e la crudeltà, la fiera intelligenza e la scioccante ignoranza, le lotte ed i successi, l’amore ed anche l’amarezza ed il pregiudizio che fanno parte integrante dell’esperienza e del vissuto dei neri

d’America. E ciò contribuisce forse a spiegare il mio rapporto con il Reverendo. Per quanto imperfetto egli possa essere, è stato per me come una famiglia. Ha rafforzato la mia fede, celebrato il mio matrimonio e battezzato i miei figli. Nelle conversazioni che ho intrattenuto con lui non lo ho mai sentito parlare di gruppi etnici in termini sprezzanti e dispregiativi, o trattare i bianchi con i quali interagiva senza cortesia e rispetto. Egli riunisce in sé tutte le contraddizioni – nel bene e nel male – della comunità che ha servito diligentemente per così tanti anni.

Disconoscerlo sarebbe come disconoscere tutta la comunità nera. Rinnegarlo equivarrebbe a rinnegare la mia nonna bianca – una donna che mi ha aiutato a crescere, una donna che si è ripetutamente sacrificata per me, una donna che mi ama tanto quanto ogni altra cosa al mondo, ma una donna che una volta confessò la sua paura nei confronti dei neri che le passavano accanto per strada e nei confronti dei quali in più di un’occasione aveva manifestato stereotipi razziali o etnici che mi avevano umiliato. Queste persone fanno parte di me. E fanno parte dell’America, questo Paese che io amo. Alcuni considereranno queste mie parole un tentativo di giustificare o trovare un alibi per osservazioni che sono semplicemente indifendibili. Posso assicurarvi che non è così. Suppongo che la cosa più sicura da fare politicamente sarebbe far finta di niente, andare oltre questo episodio e sperare soltanto che cada presto nel dimenticatoio. Possiamo liquidare il Reverendo Wright

«Ma la comunità nera in America non ha mai smesso di soffrire»

Martin Luther King nel suo celebre discorso a Washington D.C.

come un tipo eccentrico e strambo o come un demagogo, proprio come alcuni hanno bollato Geraldine Ferraro, subito dopo le recenti affermazioni fatte nei miei confronti, come una persona che nutre profondi e radicati pregiudizi razziali. Ma credo che la questione razziale sia una questione che questo paese non può permettersi di ignorare proprio ora. Commetteremmo lo stesso errore commesso dal reverendo Wright nei suoi offensivi sermoni sull’America – se semplificassimo o amplificassimo, cadendo nello stereotipo, quanto di negativo vi è in tutto ciò al punto da distorcere la realtà. Il fatto è che le osservazioni fatte e le questioni che sono state sollevate nelle ultime settimane riflettono la complessità della questione razziale in questo paese, che non abbiamo mai veramente compreso e risolto fino in fondo – è una parte della nostra unione che dobbiamo ancora perfezionare. E se ci tiriamo indietro ora, se ci rintaniamo semplicemente nei nostri cantucci, non riusciremo mai ad unirci ed a raccogliere sfide quali quelle del sistema sanitario, dell’istruzione o della necessità di fornire buona occupazione a tutti gli americani. Per comprendere la realtà è necessario ricordare come siamo arrivati a questo punto. Come ebbe a scrivere William Faulkner: «Il passato non è morto e sepolto. In realtà, non è neppure passato». Non è questa la sede per ripercorrere la storia delle ingiustizie razziali in questo Paese. Ma non è neppure il caso di ricordare che molte delle disparità che ancora oggi esistono nella comunità afroamericana possono essere fatte risalire direttamente alle disuguaglianze tramandate da una passata generazione che aveva sofferto della brutale eredità della schiavitù e di Jim Crow.


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Le scuole dove vige la segregazione razziale erano e sono scuole inferiori. Ad oggi, ancora non abbiamo risolto questo problema – a 50 anni di distanza dalla sentenza nel caso Brown contro Board of Education – e l’istruzione di minore qualità che esse fornivano allora e forniscono oggi contribuiscono a spiegare l’onnipresente divario in termini di risultati conseguiti dagli studenti neri e da quelli bianchi. La discriminazione legalizzata, in virtù della quale ai neri era impedito – spesso con la violenza – di avere proprietà; non venivano concessi prestiti agli imprenditori afro-americani; i proprietari neri d’immobili non avevano accesso alle ipoteche del FHA; i neri erano esclusi dai sindacati, dalla polizia e dai vigili del fuoco – significava che le famiglie nere non potevano accumulare grandi ricchezze da lasciare in eredità alle future generazioni. Questa storia contribuisce a farci comprendere il divario esistente in termini di reddito e ricchezza fra bianchi e neri e la ragione delle notevoli sacche di povertà che ancora oggi si registrano in così tante comunità urbane e rurali.

via d’uscita, costruendola da zero, per quelli come me che sarebbero arrivati dopo di loro. Ma per i tanti che si sono fatti largo a fatica, con le unghie e coi denti, per assicurarsi un pezzettino di sogno americano, ce ne sono altrettanti che non ce l’hanno fatta – quelli che sono stati alla fine sconfitti, in un modo o nell’altro, dalla discriminazione. Quell’eredità di sconfitta è stata tramandata alle future generazioni, a quei giovani e, purtroppo sempre di più a quelle giovani che vediamo in piedi agli angoli delle strade o languire nelle nostre prigioni, senza speranza o prospettive per il futuro. Anche per quei neri che ce l’hanno fatta, le questioni della razza e del razzismo continuano a definire, in modo sostanziale, la loro visione del mondo. Per le donne e gli uomini della generazione del Reve-

in chiesa la domenica mattina, dal pulpito e nelle panche dove siedono i fedeli. Il fatto che così tante persone siano sorprese di sentire quella rabbia in alcuni sermoni del Reverendo Wright ci ricorda semplicemente la vecchia verità lapalissiana seconda la quale l’ora in cui si riscontra maggiormente la segregazione razziale nella vita americana è quella della domenica mattina. Quella rabbia non è sempre produttiva, in verità, troppo spesso distoglie l’attenzione

grati – per quel che li riguarda, nessuno ha regalato loro niente, tutto quello che hanno se lo sono costruito da zero. Hanno lavorato sodo tutta la vita per assistere poi, il più delle volte, alla delocalizzazione delle loro imprese e dei loro posti di lavoro o alle loro pensioni andare in fumo dopo una vita intera di dura fatica. Sono preoccupati per il loro futuro e ritengono che i loro sogni gli stiano sfuggendo di mano. In un’era di retribuzioni stagnanti e di aspra

verendo Wright e gli altri afroamericani della sua generazione sono cresciuti. Sono diventati maggiorenni alla fine degli anni ‘50 ed all’inizio degli anni ‘60, un’epoca in cui la segregazione razziale era ancora legge del Paese e le opportunità venivano costantemente limitate e soffocate. Ciò che sorprende, non è tanto come molti abbiano fallito scontrandosi con la discriminazione, ma piuttosto come tanti uomini e donne abbiano potuto farcela nonostante tutto; come abbiano potuto trovare una

rendo Wright, il ricordo delle umiliazioni subite, dei dubbi e delle paure non è scomparso, al pari della rabbia e dell’amarezza di quegli anni. Quella rabbia può anche non esprimersi in pubblico, davanti ai compagni di lavoro o agli amici bianchi. Ma trova voce dal barbiere o a tavola. Talvolta quella rabbia è strumentalizzata dai politici per accaparrarsi voti, sfruttando la questione razziale o per compensare le loro debolezze, i loro difetti. Qualche volta, occasionalmente, trova voce

Tradizionalmente i politici strumentalizzano i timori che la popolazione nutre nei confronti della criminalità per i propri scopi elettorali. I conduttori di talk show ed

La domenica mattina è l’ora della rabbia

La mancanza di opportunità economiche fra i neri e la vergogna e la frustrazione che derivano dal non poter mantenere la propria famiglia ha contribuito all’erosione ed alla povertà delle famiglie nere. Un problema questo che politiche previdenziali, puramente assistenziali, portate avanti per anni potrebbero aver aggravato ulteriormente. E la mancanza di servizi di base in così tanti quartieri urbani abitati dai neri, parchi dove far giocare i bambini, poliziotti che effettuino ronde e giri d’ispezione, una regolare raccolta dei rifiuti e l’applicazione delle norme edilizie.Tutto ciò ha contribuito ad innescare una spirale di violenza, degrado ed incuria che continua ad affliggerci tutti. Questa è la realtà nella quale il Re-

«La stessa collera è diffusa anche in alcuni segmenti della comunià bianca»

pre espressi in educata compagnia, ma hanno contribuito a plasmare il panorama politico di una generazione almeno. La rabbia per le azioni assistenziali e previdenziali a favore di chi è vittima di pregiudizi hanno contribuito a creare la Coalizione Reagan.

dalla soluzione dei problemi reali; impedisce di guardare onestamente in faccia la realtà e comprendere la complice responsabilità che abbiamo per la nostra condizione ed impedisce alla comunità afroamericana di creare le alleanze necessarie per conseguire un effettivo cambiamento. Ma la rabbia è reale, è forte e sperare semplicemente che sparisca, condannarla senza comprenderne le cause alla radice, non fa altro che accrescere l’abisso dell’incomprensione fra le razze.

Infatti, una rabbia simile è diffusa anche in seno ad alcuni segmenti della comunità bianca. La maggior parte della classe operaia e della borghesia bianca americana non ritiene di essere stata particolarmente privilegiata ed avvantaggiata dalla propria razza. La loro esperienza è quella degli immi-

Coro gospel in una chiesa black

concorrenza mondiale, le opportunità vengono viste come un gioco a somma zero, nel quale i sogni degli altri si avverano a nostre spese. Pertanto, quando viene detto loro che devono mandare a scuola i figli in autobus; quando ritengono che un afro-americano sia stato avvantaggiato ottenendo un buon lavoro o un posto in un buon college in ragione di un’ingiustizia che essi non hanno mai commesso; quando viene loro fatto notare che i timori che nutrono nei confronti della criminalità nei quartieri urbani sono in un certo qual modo frutto di pregiudizi razzisti, col tempo il loro risentimento cresce. Proprio come la rabbia che serpeggia in seno alla comunità nera, questi risentimenti non sono sem-

i giornalisti conservatori hanno costruito intere carriere svelando casi fasulli di razzismo e liquidando al contempo legittimi dibattiti in tema d’ingiustizie e disuguaglianze razziali bollandoli come meramente politically correct o come razzismo di ritorno. Così come la rabbia dei neri si è spesso rivelata controproducente, anche queste forme di risentimento nutrite dai bianchi hanno distolto l’attenzione dalle vere cause della stretta economica che ha colpito il ceto medio – una cultura aziendale caratterizzata da trattative ed accordi sottobanco, prassi contabili opinabili ed un’avidità concentrata solo sul breve periodo; una Washington dominata dalle lobby, dai gruppi di pressione e dagli interessi particolari; politiche economiche che favoriscono pochi a danno di molti. Eppure, sperare che i risentimenti nutriti dai bianchi americani svaniscano nel nulla; considerarli malposti o persino razzisti, senza ammettere che sono fortemente ancorati in preoccupazioni legittime – anche questo accresce le divisioni razziali ed ostacola il cammino verso una migliore comprensione. Questa è la situazione nella quale ci troviamo ora. E’una situazione di stallo a livello razziale nella quale siamo bloccati da anni. Contrariamente a quanto affermano i miei detrattori, sia neri che bianchi, non sono mai stato tanto ingenuo da ritenere che si possano superare le nostre divisioni razziali in un unico ciclo elettorale, o con una singola candidatura – in particolare una candidatura tanto imperfetta quanto la mia. Ma ho affermato una solida convinzione, un convincimento radicato nella mia fede in Dio e nel popolo Americano, per cui operando insieme possiamo superare alcune delle nostre vecchie ferite razziali. Ritengo che non abbiamo altra scelta se vogliano continuare su quella strada destinata a portarci ad un’unione più perfetta.

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speciale approfondimenti segue da pagina 15 Per la comunità afro-americana, quella strada implica accettare il fardello del nostro passato senza restarne vittime. Significa continuare ad insistere sulla necessità di portare giustizia piena in ogni aspetto della vita americana. Ma significa altresì collegare le nostre specifiche richieste – volte a conseguire l’obiettivo di una migliore assistenza sanitaria, di migliori scuole e di migliore occupazione – alle più vaste aspirazioni di tutti gli americani. Delle donne bianche che lottano per infrangere quel soffitto di vetro che non permette loro di godere di pari opportunità rispetto agli uomini. Dei bianchi che sono licenziati e degli immigrati che cercano di sfamare le loro famiglie. E significa altresì assumersi la piena responsabilità della nostra vita, chiedendo di più ai nostri padri e trascorrendo più tempo con i nostri figli, leggendo loro ed insegnando loro che anche se dovessero trovarsi nel corso della loro vita a dover affrontare il problema della discriminazione, non dovranno mai soccombere alla disperazione o al cinismo; dovranno sempre credere di poter scrivere il libro del loro destino. Ironia della sorte, questo concetto tipicamente americano – e direi anche conservatore – del self-help, vale a dire dell’aiutarsi da soli contando sulle proprie forze – ha trovato frequentemente espressione nei sermoni del Reverendo Wright. Ma ciò che troppo spesso il mio ex-Pastore non è riuscito a comprendere è che avviare un programma di self-help richiede anche un vero convincimento che la società possa cambiare.

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della speranza – per ciò che possiamo e dobbiamo conseguire in futuro. Nella comunità bianca, il cammino verso un’unione più perfetta implica riconoscere che ciò che affligge la comunità afro-americana non è soltanto frutto dell’immaginazione dei neri; che l’eredità della discriminazione – e che gli incidenti attuali provocati dalla stessa, benché meno evidenti che in passato – è reale e dobbiamo farci i conti. Dobbiamo affrontarla non solo a parole, ma con i fatti, investendo nelle nostre scuole e nelle nostre comunità, facendo rispettare la nostra legislazione in tema di diritti civili e garantendo equità nel nostro sistema giudiziario penale, fornendo a questa generazione tutte quelle opportunità che le generazioni precedenti non hanno potuto avere.Tutti gli americani si devono rendere conto che i loro sogni non si devono realizzare a discapito dei nostri sogni, che investire nella salute, nel benessere e nell’istruzione di tutti i nostri figli, indipendentemente dal colore della pelle, contribuirà, in ultima analisi, a far prosperare tutta l’America. Perciò, in fondo, ciò che ci viene chiesto di fare è né più né meno quello che tutte le grandi religioni del mondo ci chiedono: vale a dire fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Dobbiamo assistere i nostri fratelli e le nostre sorelle, il nostro prossimo, come dicono le Scritture. Dobbiamo ritrovare quel interesse comune che ciascuno di noi ha nei confronti dell’altro e far sì che anche la nostra politica rifletta questo spirito. Poiché ci troviamo di fronte ad una scelta in questo Paese: possiamo accettare una politica che alimenti le divisioni, i con-

cando la carta della questione razziale, o possiamo dibattere sull’eventualità che tutti i bianchi si compattino al seguito di John McCain alle prossime elezioni, indipendentemente dalle sue politiche. Di certo possiamo farlo. Ma se lo faremo, posso assicurarvi che alle prossime elezioni, parleremo di qualche altra inutile distrazione. Ed in seguito di un’altra ancora e non cambierà mai nulla.

Questa è una possibilità. Oppure, ora, in queste elezioni, possiamo dire tutti insieme: «No, questa volta no». Questa volta vogliamo parlare delle scuole che crollano e che stanno rubando il futuro dei bambini neri e di quelli bianchi, di quelli asiatici e di quelli ispanici. Stavolta vogliamo rifiuta-

La storia di Ashley, la speranza di Barack Il profondo errore dei sermoni del Reverendo Wright non sta nel fatto di aver parlato di razzismo nella nostra società. Sta nel fatto di averne parlato come se la nostra società sia statica; come se non siano stati registrati dei progressi; come se questo paese – un Paese che ha consentito ad uno dei suoi cittadini di candidarsi al più alto incarico della Terra e di costruire una coalizione di bianchi e di neri, di latino-americani e di asiatici, di ricchi e di poveri, di giovani ed anziani – sia ancora irrimediabilmente legato ad un tragico passato. Ma sappiamo bene, lo abbiamo già visto, che l’America può cambiare. E’proprio questa la genialità di questo Paese. I risultati che abbiamo sin qui conseguito ci infondono speranza – l’audacia

flitti ed il cinismo. Possiamo affrontare la questione razziale come spettacolo – come facemmo all’epoca del processo OJ Simpson o sulla scia della tragedia, come facemmo a seguito dell’uragano Latrina o come cibo da dare in pasto ai telegiornali della sera. Possiamo trasmettere ogni giorno i sermoni del Reverendo Wright su tutti i canali televisivi e continuare a parlarne da oggi fino alle elezioni così da farne l’unica questione di questa campagna, indipendentemente dal fatto che il popolo americano creda o meno che io abbia in qualche modo sottoscritto o simpatizzato con le sue espressioni più offensive. Possiamo cogliere al volo l’occasione della gaffe commessa da una sostenitrice di Hillary per dimostrare che sta gio-

re il cinismo che ci dice che questi bimbi non possono apprendere, che poichè non ci somigliano se ne deve occupare qualcun altro. I bambini d’America non sono quei bambini, bensì i nostri e non li lasceremo indietro nell’economia del XXI° secolo. Questa volta no. Stavolta vogliamo parlare delle lunghe file nei Pronto Soccorso di bianchi, neri ed ispanici che non hanno assistenza sanitaria, che non hanno da soli il potere di opporsi ai gruppi di pressione ed agli interessi particolari a Washington, ma che potremo aiutare se lo faremo tutti insieme. Stavolta vogliamo parlare delle fabbriche chiuse che un tempo fornivano un’occupazione dignitosa a uomini e donne di ogni razza; delle case in vendita che un tempo erano di pro-

prietà degli americani di ogni religione, di ogni regione e di ogni strato sociale. Stavolta vogliamo parlare del fatto che il vero problema non è che qualcuno di un altro colore ti sta portando via il lavoro; il problema vero è che l’impresa per cui lavori si trasferirà all’estero de-localizzando la produzione per il mero profitto. Stavolta vogliamo parlare di quegli uomini e di quelle donne di ogni razza e credo che insieme rendono un servigio alla patria, che insieme combattono e versano il loro sangue in nome della stessa orgogliosa bandiera. Stavolta vogliamo parlare di come riportarli a casa da una guerra che non avremmo mai dovuto autorizzare e neppure combattere, e vogliamo parlare di come dimostrare il nostro patriottismo preoccupandoci per loro e per le loro famiglie, fornendo loro quei benefici che si sono guadagnati sul campo. Non mi candiderei alla Presidenza se non ritenessi davvero, dal profondo del cuore, che questo è ciò che la vasta maggioranza del popolo americano vuole per questo Paese. Questa unione potrà pure non essere mai perfetta, ma di generazione in generazione ha dimostrato che può sempre essere perfezionata. Ed oggi, ogni qualvolta nutro dei dubbi o una sorta di cinismo nei confronti di questa possibilità, ciò che m’infonde maggiore speranza è la generazione successiva, quella dei giovani i cui atteggiamenti, le cui convinzioni e la cui apertura hanno già fatto la storia di questa elezione.

C’è un episodio, in particolare, con cui vorrei concludere oggi il mio intervento: una storia che mi è stata raccontata quando ho avuto il grande onore di parlare al compleanno del Dr. King nella sua chiesa, Ebenezer Baptist, ad Atlanta. C’è una giovane donna bianca di 23 anni, di nome Ashley Baia, che ha organizzato la nostra campagna a Florence, nella Carolina del Sud. Sin dall’inizio di que-

sta campagna ha fatto in modo di organizzare una comunità per lo più afro-america e un giorno si è ritrovata ad una tavola rotonda dove ciascuno le andava a raccontare la sua storia ed il perché si trovava lì. Ashley raccontò che quando aveva nove anni, sua madre si ammalò di cancro. Poiché fu costretta ad assentarsi per molti giorni dal lavoro, fu licenziata e perse il diritto all’assistenza sanitaria. Erano praticamente sul lastrico e fu così che Ashley decise che avrebbe dovuto fare qualcosa per aiutare sua madre. Sapeva che la spesa per i generi alimentari era quella che assorbiva la maggior parte del loro magro bilancio, così Ashley convinse sua madre che ciò che le piaceva veramente e che desiderava mangiare più di ogni altra cosa al mondo erano panini con mostarda e sottaceti, dato che erano gli alimenti meno costosi. Lo fece per un anno finché sua madre non stette meglio. Disse a tutti i presenti a quella tavola rotonda che il motivo per il quale si era unita alla nostra campagna era che in quel modo avrebbe potuto aiutare quei milioni di bambini nel Paese che volevano e dovevano anch’essi aiutare i loro genitori. Ebbene, Ashley avrebbe potuto fare una scelta diversa. Forse qualcuno le avrà pur detto all’epoca e nel corso della sua vita che la fonte dei problemi di sua madre erano i neri che vivevano alle spalle dello stato sociale ed erano troppo pigri per lavorare, oppure gli ispanici che entravano nel Paese illegalmente. Eppure questa scelta non l’ha fatta. Si è cercata degli alleati nella sua lotta contro l’ingiustizia. Ad ogni modo, Ashley terminò di raccontare la sua storia e girò per la sala chiedendo agli altri perché stessero sostenendo la campagna. Tutti avevano storie e motivazioni diverse. Molti sollevano una questione specifica: ed infine arrivò il turno di questo anziano nero che se ne era stato lì seduto, calmo calmo, per tutto il tempo. Ashley gli chiese perchè fosse lì. Ed egli non sollevò nessuna questione specifica. Non disse per l’assistenza sanitaria o per l’economia. Non addusse la motivazione dell’istruzione o della guerra. Non disse di essere lì per Barack Obama. Disse semplicemente a tutti i presenti in sala «Sono qui per Ashley». «Sono qui per Ashley». Di per sé, questo unico momento di riconoscimento fra quella giovane bianca e l’anziano nero non è abbastanza: non è sufficiente a fornire l’assistenza sanitaria ai malati o un’occupazione a chi è senza lavoro o un’istruzione ai nostri figli. Ma è da qui che dobbiamo iniziare. È da qui che la nostra unione può crescere e rafforzarsi. E come hanno capito molte generazioni nei 221 anni trascorsi da quando un gruppo di patrioti firmò quel documento a Philadelphia, è da qui che inizia la perfezione.



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economia

Considerando i prelievi nella fiscalità, il disavanzo salirebbe nel 2008 al 2,8 per cento contro il 2,4 previsto dal Tesoro

Tfr, un’incognita per il taglio del deficit di Marco Filippo Fani

on la pubblicazione, da parte del governo, della Relazione unificata sull’economia e la finanza pubblica svaniscono finalmente le nubi che hanno avvolto i conti pubblici italiani. Numeri a lungo celati, come accade con sempre maggior frequenza, sotto una coltre di dichiarazioni, di numeri stiracchiati, di valori cangianti, in un bizzarro contesto in cui nulla è mai davvero falso, dal momento che tutto è opinabile.

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L a n e b b i a , t u t t a v i a , si dissolve più che altro sul passato. Perché sul futuro, da opinare, ci sarebbe ancora parecchio: tanto sulle cifre così come sulla loro composizione. Quanto alla composizione, tutto ciò che si può osservare è che il contenimento del deficit, pur rivisto al rialzo al 2,4 per cento del Pil rispetto al 2,2 di settembre, continua a seguire l’eterna ricetta del cattivo risanamento italiano: investimenti pubblici fermi al palo e pressione fiscale alle stelle. Tutto per ridurre il disavanzo e per compensare una spesa corrente che continua ad andare per i fatti suoi, soprattutto quando si eliminano gli scaloni pensionistici e si fanno

leggi finanziarie che peggiorano dichiaratamente il deficit di sei miliardi e rotti. Il timore, tuttavia, è che quel 2,4 per cento possa risultare un po’ incerto. La stessa relazione, infatti, ipotizza un eventuale scenario peggiore, con un deficit del 2,6. La spesa per interessi, per esempio, è indicata stabile al 5 per cento del Pil. E se è vero che lo stock di debito si è un po’ ridotto, nulla esclude che gli interessi tornino a scendere. Ma può essere

per interessi nel 2007 di 74 miliardi e alla fine sono stati 76,7. Ma c’è dell’altro. Anche nella Relazione del governo giunge, infatti, l’eco della polemica sulla pressione fiscale che ha visto opposti Tesoro e Istat nei giorni scorsi. In particolare, per quanto riguarda il passaggio del Tfr dalle aziende al fondo gestito dall’Inps, il governo accetta in ultima analisi la tesi dell’istituto di statistica per il quale si tratta di

per la competitività e la finanza d’impresa – sono tutti privi di copertura finanziaria. E, dal momento che nella legge finanziaria 2007 il governo suggeriva esattamente l’opposto, non si capirebbe più perché alle imprese con più di 50 addetti sia stato inflitto un sacrificio che ora, mutando giurisprudenza, si rivelerebbe vano. Pagato pegno all’ortodossia contabile, tuttavia, non viene abbandonata del tutto la tesi delle due pressioni fiscali,

Nella Relazione unificata all’economia il governo dà ragione all’Istat e ammette che la riforma della previdenza integrativa ha incrementato il livello di tassazione. Timori anche per gli investimenti e per la spesa per interessi anche il contrario. E comunque il problema è che la vita media del debito italiano si è ormai allungata di parecchio e ciò comporta che l’anno prossimo scadranno prevalentemente titoli venduti non l’anno scorso ma tre, quattro o cinque anni fa. E perciò se anche i tassi diminuissero rispetto al 2007, sarebbero sempre superiori agli anni in cui sono stati venduti i titoli da rimpiazzare. Del resto il vizio è ricorrente: anche l’anno scorso di questi tempi si prevedeva una spesa

contributi sociali che vanno, perciò, ad aumentare il gettito di circa 5,5 miliardi, incrementando la pressione fiscale.

Si rinuncia dunque, almeno formalmente, alla tesi, peraltro non del tutto infondata, per cui non di prelievo si tratta bensì di debito: un po’ perché la tesi opposta è suffragata da Eurostat, un po’ perché diversamente bisognerebbe ammettere che gli interventi di investimento finanziati col Tfr – dall’Anas, alle ferrovie, all’alta velocità, ai fondi

al netto e al lordo del Tfr, già formalizzata nello scorso Dpef, con uno scarto fra l’una e l’altra dello 0,4 per cento del Pil sia per il 2007 sia per il 2008. Nella relazione, infatti, si precisa che la pressione fiscale sarebbe più bassa se si escludessero quelle somme, che non rappresentano un effettivo aggravio per il contribuente. E, del fatto che non lo rappresentino, ce ne si potrebbe anche rallegrare, se non fosse che una somma che non costituisce un aggravio “effettivo” non è nemmeno idonea a

ridurre “effettivamente” il deficit, il quale perciò formalmente si colloca all’1,9 per cento nel 2007 e al 2,4 nel 2008. invece “Sostanzialmente” sarebbe del 2,3 per l’anno scorso e del 2,8, interessi e scenari permettendo, per quello in corso. Insomma, formalmente siamo dentro i limiti del 3 per cento di Maastricht alla grande, e nessuno lo può negare. Sostanzialmente, chi lo sa. E se il bollino blu di Bruxelles non ce lo leva nessuno, la situazione non è tuttavia affatto esente da preoccupazioni. Il rischio è che una legge finanziaria che ha deliberatamente peggiorato gli indicatori dei conti pubblici conduca ad assistere al remake del brutto film del 2001 quando, anche allora come oggi, il governo scaturito dalle elezioni ricevette un’eredità di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

M a n o n è q u e s t o il guaio. Chi aspira alla bicicletta, del resto, è meglio che si rassegni a pedalare. Il guaio, semmai, è che quelle stesse nubi che si diradano sulle cifre, una volta disvelate queste ultime, vanno ad addensarsi, più cupe e minacciose che pria, sul futuro prossimo del Paese.


economia

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d i a r i o Da sinistra, il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, il primo cittadino di Genova, Marta Vincenzi, e quello di Bologna, Sergio Cofferati. Tutti uniti per creare un’unica utility che conquisti il mercato del Nord

d e l

g i o r n o

Per Pasqua pieno più leggero Per il weekend di Pasqua gli automobilisti troveranno un pieno meno ”pesante”. Scatta, infatti, il ”taglio” temporaneo delle accise che produrrà un ribasso di 2 centesimi al litro sul prezzo al consumo di benzina e gasolio. Una riduzione non strutturale, ma transitoria, che resterà in vigore fino al 30 aprile.

Bce pronta a intervenire sui tassi Il Fondo monetario internazionale giudica positivamente la posizione della Banca centrale europea che sta tenendo fermi i tassi di interesse per ora. La Bce però - secondo l’Fmi - dovrebbe essere pronta a rispondere in modo flessibile se i rischi a ribasso per la crescita e l’inflazione dovessero intensificarsi».

Accordo tra Chiamparino, Vincenzi, Cofferati. Roma (per ora esclusa)

Prezzi stabili, ma compravendite in calo

Torino,Genova e Bologna verso la grande utility del Pd

Adusbef, stangata a fine mese sui mutui

di Giuseppe Latour

ROMA. La Rwe del Nord Italia, il grande contenitore di tutte le ex municipalizzate lanciato da Enrico Letta, è ancora lontano dal prendere forma. Invece si registra una sfida tra due poli che sembrano avere strategie diverse per conquistare il mercato: da un lato l’A2A di Milano e Brescia, che con i contrasti tra i soci ancora non sanati e gli assetti di Edison da ridefinire, non può muoversi con scioltezza nel risiko dell’energia; dall’altro Iride (Torino e Genova) e Hera (Bologna) che sembrano aver convinto Enìa (Parma, Piacenza e Reggio Emilia) a non guardare alla Lombardia e assieme puntano sulla via di Roma (Acea). Un impulso importante è partito nei giorni scorsi da Torino e Genova e dai rispettivi sindaci, Sergio Chiamparino e Marta Vincenzi. I due si sono incontrati per sottoscrivere un memorandum nel quale delineano le intenzioni per il prossimo futuro di Iride. Al centro delle strategie di gestione ci sarà una maggiore integrazione tra gli azionisti di controllo, pur nel rispetto della “pariteticità”. A questo si accompagnerà la nascita di divisioni operative.

Si cerca insomma di uscire da quella governance duale che complicherebbe di molto eventuali progetti di fusione.Volontà confermata dalla “modifica dello statuto di Iride da sottoporre all’assemblea straordinaria dei soci per attribuire la delega dei poteri gestionali, oggi rigidamente dettagliati nello statuto, in capo al Cda per consentire l’istituzione di un comitato esecutivo paritetico”. Insomma, si apre la strada all’integrazione con altri soggetti

Iride e Hera pronte all’integrazione entro l’anno. E con loro ci sarà Enìa. L’addio di Veltroni rallenta l’ingresso di Acea facendo anzitutto ordine in casa propria. E tutto questo dovrà essere fatto entro l’anno. Sul fronte Hera arriva un gioco di sponda puntuale. Il sindaco di Modena Giorgio Pighi ha fatto sapere che «il patto di sindacato di Hera Spa condivide l’obiettivo di fare crescere la società con investimenti mirati alla qualificazione e innovazione delle sue aree produttive, anche attraverso la fusione con altre aziende italiane multiservizi a maggioranza pubblica». Intanto il presidente di Hera, Tommaso Tomasi di Vignano promuoveva un incontro con i manager di Iride, Enìa, Acea. La strada dell’accordo con Genova e Torino sembra praticamente tracciata. E lo conferma anche il presidente di Federutility, Mauro D’Ascenzi: «Andiamo verso importanti integrazioni di filiera non solo nel settore dell’energia ma anche in quelli dell’acqua e dei rifiuti. Un tavolo a quattro sembra già aperto, anche se sui tempi si sa ancora poco». Alla coppia Iride-Hera si aggiungerà senza grossi problemi Enìa e per ragioni territoriali e per motivi di integrazione commerciale. Un gioco a tre di questo tipo godrebbe di un ottimo livello di complementarietà, con Iride forte nell’upstream e Hera ed Enìa maggiormente radicate a livello locale.

Qualche problema in più viene sollevato dall’ingresso di Acea nella partita. Non sarebbe piaciuta ai vertici romani l’affermazione di Chiamparino, che qualche giorno fa aveva fatto sapere di essere pronto a un primo giro di fusioni, che avrebbero però lasciato fuori l’utility laziale. Roma si sarebbe detta contrariata dall’esclusione, manifestando la volontà di entrare subito in gioco o, in alternativa, ritirarsi dalle ostilità. Verso questo allontanamento porterebbe anche il gioco di sponda politico. Mentre, infatti, Acea era vicinissima a Bologna e Torino con Veltroni sindaco, l’attuale mutamento di scenario, con Rutelli in arrivo al Campidoglio, sembra avere sparigliato le carte in tavola.

Meno complicata, perché ormai lontanissima, la posizione di A2A e di Zuccoli. In questi giorni nessuno nomina A2A quando si parla di aggregazioni e dagli ambienti di tutte le utlility coinvolte arrivano solo generiche aperture a possibili accordi futuri. Di concreto, quindi, nulla. La stessa A2A non chiude le porte ma, secondo indiscrezioni, non avrebbe visto con favore la sua totale esclusione da questa fase della partita. In particolare né Tomasi di Vignano né i sindaci riuniti in consesso per parlare delle mosse da fare avrebbero nominato Zuccoli e i suoi. Probabilmente prevale il realismo: c’è la consapevolezza che una trattativa così complessa non può coinvolgere troppi interlocutori se vuole avere qualche possibilità di andare in porto. Anche perché all’orizzonte ci sono acquisizioni di alcuni piccoli del Nordest.

Il momento difficile dei mutui non aiuta il mercato immobialiare. Per tutto il 2007, infatti, si è registrato una tenuta dei prezzi, ma le compravendite e le intenzioni di acquisto sono ai minimi storici. Il dato emerge dal primo dei tre rapporti quadrimestrali sul mercato immobiliare del centro studi Nomisma, presentato a Bologna. Nel 2007 il calo delle compravendite, in particolare nelle grandi aree urbane (ma non ne sono immuni anche le città medie), è stato del 5 per cento, un trend al ribasso confermato anche nei primi mesi del 2008. Per il capitolo prezzi invece Nomisma parla di una sostanziale tenuta.

L’Adusbef denuncia una stangata a fine mese sui mutui. Secondo l’associazione de consumatori «Nonostante le poderose iniezioni di liquidità di Fed e Bce che aggravano le turbolenze dei mercati piuttosto che arginarle, con gravissime ripercussioni su 3,2 milioni di famiglie indebitate a tasso variabile, all’orizzonte ulteriori stangate a fine mese, quando andranno a versare le rate dei mutui, con aumenti tra i 15 ed i 20 euro. Al tasso euribor a tre mesi, - continua il comunicato dell’Adusbef - che continua ad aumentare e al quale è legato buona parte dei mutui indicizzati, bisogna aggiungere tra lo 0,80 e l’1,30% dello spread».

Mediobanca decide nomine per Telecom Si dovrebbe svolgere mercoledì prossimo la riunione del comitato nomine di Mediobanca. I quattro componenti del comitato (Cesare Geronzi, Vincent Bollorè, Marco Tronchetti Provera e Dieter Rampl) si incontreranno per definire i due nominativi di spettanza di Mediobanca da indicare a Telco per la lista da proporre all’assemblea di Telecom Italia in occasione del rinnovo del consiglio di amministrazione all’assemblea del 14 aprile.

Altre due aziende per la Bertone Ci sono altri due società interessate al futuro di Carrozzerie Bertone, azienda torinese per la quale è in corso la procedura verso l’amministrazione straordinaria. Le nuove figure, che si aggiungono alle sette contenute nel primo dossier, sarebbero un gruppo cinese del comparto auto e una finanziaria inglese che si è detta pronta a fare una due diligence per conto di una società terza. I tre esperti del tribunale hanno ribadito ai giudici che a loro avviso la soluzione più opportuna rimane quella dell’amministrazione straordinaria, da preferire a un fallimento che avrebbe pesanti ripercussioni.

Calcio, serie A in campo per la sicurezza sul lavoro ”Sicurezza sul lavoro - Tutti in campo - Nessuno in panchina”: sono gli slogan degli striscioni che verranno esposti sabato prossimo su tutti i dieci campi del Campionato di serie A per sensibilizzare spettatori, sportivi e opinione pubblica sul problema della sicurezza nei posti di lavoro. L’iniziativa - si legge su una nota - nasce da un invito che il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, e il ministro per le le Attività sportive, Giovanna Melandri, hanno rivolto nei giorni scorsi al presidente della Figc, Giancarlo Abete, per chiedere alla Federazione e alla Lega calcio che una giornata del campionato di serie A fosse dedicata a un momento simbolico di attenzione nei confronti del tema delle morti bianche e della sicurezza sul lavoro.


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cultura PAROLA E GENESI

Le parole si appoggiano alla mano mentre scrivi, sfarinano nel loro peso di memoria, imprimono ciò che doveva essere ed è stato. Ma quando si accende il display del computer ogni lettera ha i lineamenti di un volto apparso da un balcone, e poi svanito. O quanto è dolce fissare allora quella che fu la sua voce, la persona che ora passata o ancora vivente ti accompagna. Le parole di colpo sono alle tue spalle, ti baciano, accarezzano quello che tu eri stato quando apparve quel volto, la sua storia.

La “Giornata internazionale”, fissata dall’Unesco per il 21 marzo, coincide con il Venerdì Santo

Poesia e Passione, patrimoni dell’umanità

Ora è più facile udire, i respiranti ti sono accanto nella foresta d’ombre e pochi segni le vogliono per sempre strette come quando prima di nascere sorgeva dall’acqua il nostro fantasma. Tutto sembra passare per l’impronta del dito, alla visione nello schermo azzurro. Tu, fibra della mia vita prenatale, ascoltami, dentro di me mentre ne stai uscendo, potrò toccarti nella gloria della poesia, voce che cerco di rievocare, ritornerai domani, sarai mia?

ROBERTO MUSSAPI

di Francesco Napoli a poesia come patrimonio dell’umanità da salvare? Potrebbe essere questa la molla che ha spinto un organismo come l’Unesco a dar vita dal 1999 alla Giornata internazionale della poesia da celebrarsi ogni 21 marzo. L’iniziativa ha lo scopo dichiarato di proporre, promuovere, divulgare, festeggiare e ricordare questa insostituibile forma di espressione, come recita il comunicato della stessa Unesco. Quest’anno, poi, la giornata va a coincidere con una ben più alta ricorrenza, quella del Venerdì Santo, ricorrenza che ha indotto in Italia tante manifestazioni legate all’iniziativa Unesco a essere differite. Ma qualcuno ha saputo cogliere il felice segno della coincidenza e ha voluto unire i due momenti nella convinzione che non c’è alcun attrito, tutt’altro. Così proprio prendendo spunto dalla ricorrenza religiosa, a Volterra qualche giorno fa si è dato il via in Italia alle celebrazioni della poesia con La Passione, un lavoro teatrale tratto dal poemetto sulla Via Crucis scritto da Mario Luzi per l’evento pasquale del 1999 e redatto dal poeta su commissione di papa Wojtyla. La Passione di Luzi è una sacra rappresentazione scritta in piena corrispondenza con il testo evangelico e nel rispetto delle tradizioni. Il testo è un monologo di grande presa emotiva, impregnato di sacralità, nel quale la figura di Gesù si esalta nella sua doppia dimensione divina e umana, confidando al Padre

L

l’angoscia di quei terribili momenti in cui viene trascinato da un luogo all’altro della città fino all’epilogo. «Quando mi fu proposto di scrivere il testo per le meditazioni della Via Crucis - ha scritto lo stesso Luzi - ebbi, superata la sorpresa, un contraccolpo di vero e proprio sgomento. Ero invitato a una prova ardua su un tema sublime. La Passione di Cristo - ce ne può essere uno più elevato?». Mario Luzi, la cui matrice cristiana non è mai venuta meno così come la riflessione poetica ha sempre viaggiato a braccetto con i più profondi propositi di fede, ha intuito al-

sono ha seguito le orme del grande maestro toscano quando ha dato vita a un oratorio sacro in versi, il Resurrexi, di grande forza poetica e spirituale, con una straordinaria visione nella quale ha puntato l’attenzione sugli uomini che della Resurrezione hanno voluto fare esperienza viva. Un altro evento, tra i tanti, piace cogliere in questo 21 marzo. Anche alla Casa della Poesia di Baronissi - Salerno - non si sono spaventati della coincidenza se hanno deciso di inaugurare la casa-alloggio per i poeti proprio in questo giorno. Nel segno dell’acco-

Già nel 1999, Mario Luzi fuse insieme lirismo e passione cristiana, in un’opera che fece della via Crucis di Cristo una metafora della condizione umana e del cammino nella fede lora come la Passione potesse trasformarsi in un poema intessuto come viaggio nella vita e nel dolore dell’uomo: serenità e sconforto si alternano nel Gesù luziano ma mai viene meno la certezza delle possibilità finali concesse all’uomo dal Padre. Questa come tutta l’opera di Luzi mostra che poesia e sacro possono essere strettamente correlate e, anzi, la prima trova forte vivificazione dalla seconda. La poesia allora può diventare, verso dopo verso, preghiera, fondendosi alla dimensione divina in un unico afflato. Distante un padre, Roberto Mussapi pochi anni or-

glienza, dunque, per la prima volta in Italia si dà vita a una Casa-Poesia pensata per ospitare grandi poeti internazionali che non si limiteranno a una comparsata occasionale di una sera ma, sul modello inglese e francese, interagiranno con il territorio e l’intera geografia culturale del luogo attraverso uno scambio meno volatile di esperienze. Si è così intenzionalmente voluto ravvicinare i due momenti, quello dell’accoglienza e quello della Pasqua, con una tre giorni di festa attorno alla poesia come attorno al grande evento religioso. Ma tutto questo è cronaca,

piacevole da descrivere rispetto tanti altri fatti, ma sempre cronaca. La concomitanza delle date deve forse indurre anche ad altri pensieri. La coincidenza felice, a questo punto lo si può dire, è anche nelle mire della poesia e della religione cristiana che agiscono verso un obiettivo identico, l’uomo, con strumenti certo diversi ma fondati ambedue sulla parola come Rivelazione. Che cos’è la poesia, allora? In un’intervista apparsa pochi anni prima della sua morte, Franco Fortini - certo lontanissimo dal religioso per formazione e convinzione - disse che rispondere a questa domanda è come voler spiegare «che cos’è l’uomo» o «che cos’è il mondo». Ma la religione e il pensiero cristiano non hanno, tra l’altro, un’attenzione del tutto simile? Naturalmente con un punto di partenza opposto a quello fortiniano, quando Luzi invocava la sua musa scrivendo «Cantami qualcosa pari alla vita» non mostrava una medesima intenzione e tensione investigativa del fare poesia volta a rivelare sì la dimensione terrena dell’essere ma anche il suo rapporto con il sovrumano? La sincronia di quest’anno tra Giornata mondiale della poesia e Venerdì Santo potrebbe aiutare a riscoprire la nostra dimensione spirituale e metafisica, sì metafisica, casomai aprendo un libro di poesia ed entrando nel raccolto e arricchente silenzio della parola.


musica

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Il noto pianista di John Coltrane in scena il 3 maggio all’Auditorium di Roma con un nuovo quartetto

McCoy Tyner, l’eterno ritorno di un mito di Adriano Mazzoletti li appassionati di jazz, e non solo loro, conoscono John Coltrane, il sassofonista che fu l’ultimo grande caposcuola dell’intera storia del jazz. Un musicista di enorme valore imitato ancor oggi da un’ infinità di sassofonisti in tutto il mondo. Coltrane è scomparso da oltre trent’anni. Dopo di lui, due dei suoi più fedeli compagni, il contrabbassista Jimmy Garrison e il batterista Elvin Jones, lo seguirono di lì a qualche anno. Rimane il pianista McCoy Tyner, il quale ha formato con il sassofonista italo americano Joe Lovano, uno dei migliori discepoli di John Coltrane, un nuovo quartetto che suonerà all’Auditorium Parco della Musica di Roma, sabato 3 maggio. Avvenimento di grande importanza. Per la prima volta, uno dei componenti il complesso originale riproporrà, per gli ascoltatori italiani, il suono che rivoluzionò il jazz all’inizio degli anni Sessanta. Pochi sanno che il nome musulmano di McCoy Tyner è Sulaimon Saud, ma il fatto che sia nato a Philadelphia e che a dicembre festeggerà il suo ottantesimo compleanno, è risaputo.

G

La prima volta che fu ascoltata una sua incisione era il 1960. Dagli Stati Uniti erano giunti due dischi appena pubblicati. Il primo era del sestetto del trombonista Curtis Fuller, musicista assai apprezzato all’epoca. Il secondo del celebre Jazztet di Art Farmer e Benny Golson, il sassofonista che aveva suonato fino a poco tempo prima con i Jazz Messengers di Art Blakey. Quelle incisioni non crearono grandi emozioni. Jazz canonico nella linea di quanto si stava suonando a Detroit e Philadelphia, ma nulla di più. Oltre ai leader, in quei dischi erano presenti musicisti ben conosciuti, la tromba Thad Jones, i batteristi Lex Humphries e Dave Bailey e i bassisti Jimmy Garrison e Addison Farmer, fratello gemello di Art. L’unico nome nuovo era quello del pianista McCoy Tyner. Suonava alla Bud Powell, ma quale distanza dal genio di uno dei creatori del bop! In uno dei brani incisi con il Jazztet, il celebre Avalon

Nella foto grande McCoy Tyner e nelle altre immagini di alcuni compagni con i quali ha formato famosi gruppi: a sinistra il bassista Jimmy Garrison; a lato il sassofonista John Coltrane e in alto il batterista Elvin Jones

lanciato nel 1920 dal cantante blackface Al Jolson, protagonista del primo film sonoro, il suo assolo a tempo veloce, pur eseguito con una tecnica assolutamente brillante, appariva ritmicamente scorretto ed inconcludente. Fatto ancor più evidente se messo a confronto con il successivo di Curtis Fuller assolutamente perfetto nella sua precisione. Perciò in un certo senso il nome di questo giovane pianista, veniva archiviato fra i tanti che quasi giornalmente apparivano nelle cronache del jazz. Grande fu la sor-

Raddoppi di ottave, combinazioni di accordi inusitati e stile brillante lo resero famoso negli anni ’60

presa quando pochi mesi dopo giunsero, sempre dagli Stati Uniti, altri dischi pubblicati a nome di John Coltrane.

Difficile credere che il pianista di quel quartetto fosse lo stesso McCoy Tyner che aveva deluso nelle incisioni ascoltate poche settimane prima. Con il sassofonista, lo stile del ventiduenne McCoy Tyner si era completamente trasformato. Non più lunghe linee “alla Bud Powell”, ma raddoppi di ottave, combinazioni di nuovi accordi, inusitati e di grande effetto sonoro. Coltrane aveva trovato il suo partner ideale e l’ascendente che esercitava su McCoy fu determinante nella creazione di un numero assai alto di piccoli e grandi capolavori realizzati nei successivi cinque

anni. Ma non solo. In quella prima metà degli anni Sessanta, McCoy Tyner fu con Bill Evans il pianista più ammirato ed imitato in ogni parte del mondo. Quando poi nel 1962 e ‘63 McCoy incise per Impulse i primi dischi a suo nome, fu la consacrazione. Le sue versioni di Blue Monk, Round About Midnight e l’ellingtoniano Satin Doll dimostravano una inventiva melodica ed una chiarezza di idee assolutamente innovative. Parlando di lui John Coltrane si è sempre espresso in termini altamente elogiativi: «McCoy possiede un suono personale, a causa poi dei frammenti di modo che usa e della maniera in cui li dispone, il suono è molto più brillante di quanto ci si potrebbe aspettare dai tipi di accordi che

usa». Fino al 1978 il rapporto con McCoy era limitato all’ascolto delle sue incisioni. Finalmente mercoledì 19 luglio di quello stesso 1978 giunse a Villalago di Terni nell’ambito di Umbria Jazz la stessa sera in cui suonò anche il trio di Bill Evans con Lee Konitz. Serata indimenticabile per la presenza dei due pianisti più importanti e significativi dell’epoca. Bill Evans aveva già suonato al festival di Pescara nove anni prima, dove aveva ottenuto un vero trionfo. Personalmente ero assai curioso di incontrare e conoscere quel pianista così straordinario. Lo trovai schivo, di poche parole, ma gentile e a volte ingenuo. Il cartellone di quell’edizione di Umbria Jazz si presentava decisamente eccezionale. Vi suonavano le grandi orchestre di Dizzy Gillespie, Buddy Rich, Lionel Hampton, Carla Bley e i gruppi di Freddie Hubbard, Clark Terry con Shelly Manne e diversi nostri musicisti, Giovanni Tommaso, Gianni Basso con Larry Nocella, i Saxes Machine. Insomma tre giorni di grande jazz.

Le due esibizioni di McCoy, la prima a Villalago, la seconda a Castiglion del Lago (Umbria Jazz era ancora itinerante), furono però in parte deludenti, se poste in confronto con le straordinarie incisioni del quartetto di Coltrane, del trio con Lex Humphries e Steve Davis, fra cui lo stupendo Nights of Ballads and Blues e delle altre per Blue Note, Asante, Song for My Lady, Atlantis, Trident. A distanza di trent’anni non ricordo se la delusione fosse dovuta al raffronto con Bill Evans che aveva suonato prima di McCoy, oppure al gruppo che aveva portato in tournée, così diverso da quelli utilizzati nelle sue incisioni. Negli anni successivi ritornò altre volte, da solo o con musicisti a lui più congeniali, dimostrando sempre la sua genialità. Sabato 3 maggio McCoy ritornerà come leader di un gruppo per riproporre la sua musica e quella di John Coltrane. L’attesa è grande.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

G8, giusta una punizione per i poliziotti di Genova? SE LO STATO NON DARÀ UN SEGNALE FORTE GLI ITALIANI NON SI FIDERANNO PIÙ DELLA POLIZIA Quello che è successo al G8 di Genova è una vergogna che l’Italia si porterà sulle spalle ancora per tanto tempo. E questa storia continuerà ad essere alimentata dal centrosinistra nostrano solo per esclusiva colpa del centrodestra. Perché? La risposta è semplice: nessuno ha voluto appurare la verità. Anzi, si è cercato in ogni modo di insabbiare la vicenda. Torture, pestaggi, violenze. Questo è stato il G8, questo è successo alla Diaz e a Bolzaneto. Se lo Stato vuole avere qualche credibilità e l’Italia tutta liberarsi da questa onta bisogna dare una punizione esemplare a chi ha sbagliato. Altrimenti, perché mai gli italiani si dovrebbero fidare dei tutori dell’ordine? Quale fiducia ci possono dare?

Carlo Berti - Firenze

ALLA CASERMA DI BOLZANETO ABUSI DI POTERE DIETRO LO SCUDO DELLA VIOLENZA LEGALIZZATA Sono una lettrice di liberal e una elettrice di centrodestra. Non ho dunque molta simpatia, a voler essere onesta, per chi in quel G8 ha sfilato lungo le vie e gli stretti vicoli di Genova. Eppure quel giorno è accaduto qualcosa di grave, di grave davvero. Per-

LA DOMANDA DI DOMANI

ché la macelleria praticata dalle forze dell’ordine ai danni dei manifestanti è stata terribile e fuori da ogni logica accettabile. Di fronte a fatti del genere, a questo punto, non importa più il colore politico dei dimostranti, mi sento solamente di difendere il diritto a manifestare di chicchessia. Accuso dunque e in modo deciso chi, nella caserma di Bolzaneto (ma non solo), ha evidentemente peccato di abuso di potere proteggendosi dietro il vile scudo della violenza legalizzata. Quindi la risposta è: sì, mi auguro davvero una punizione più che esemplare per le forze dell’ordine coinvolte nei fatti di Genova. Cordialmente ringrazio e saluto.

Gaia Miani - Roma

PUNIRE I POLIZIOTTI NON SERVIREBBE A NULLA, MA OCCORRE COMUNQUE FARE LUCE E CHIAREZZA Quel giorno ero lì. Non sono di sinistra né un anarchico né altro. Semplicemente mi sembrava giusto manifestare, così sono andato a Genova con altre tre persone. Fortunatamente a noi non è successo nulla, ma quello che abbiamo visto e i racconti che abbiamo ascoltato credo non li dimenticheremo mai. Certo che occorrerebbe una punizione esemplare, ma tanto lo sappiamo tutti che non sarà così. Poche voci politiche e istituzionali fuori dal coro si sono battute per una Commissione d’inchiesta che accerti la verità. In molti invece vogliono insabbiare, insabbiare, insabbiare, continuando dunque a calpestare i diritti di chi, al di là dell’appartenenza politica, manifestava la propria idea e il proprio dissenso. In Italia può accadere anche questo.

Alex Fiore - Bari

Davvero il Parlamento è composto solo da fannulloni? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

LE COLPE SONO ANCHE DI QUEI POLITICI CHE CONTINUANO A INSABBIARE LA VERITÀ Credo che una punizione esemplare in tutta questa storia se la meritino in tanti. Chi tra i manifestanti ha messo a ferro e fuoco Genova, chi tra le forze dell’ordine ha torturato e pestato quei ragazzi (ma anche ragazze!), chi tra i politici ha fatto finta di nulla, e chi permetterà che in futuro accadano nuovamente fatti di una tale gravità.

BOICOTTARE LE OLIMPIADI? Tiene banco in questi giorni la durissima repressione cinese nel Tibet. Già da molti anni le democrazie hanno rinunciato a difendere i diritti dell’umanità brutalmente violati in quella meravigliosa, sfortunata terra. Quest’anno però il dibattito sul Tibet è particolarmente acceso, sia perché la Cina ha messo in atto la repressione più dura dal 1959, sia perché siamo alla vigilia delle Olimpiadi cinesi. Pochi ebbero il coraggio di esprimere dubbi nel 2000, quando le Olimpiadi furono assegnate alla Cina, poiché l’opinione pubblica del tempo era largamente schierata a favore. Si sa come va in questi casi, vi è sempre qualcuno che pensa che in fondo sono sempre compagni, e dunque non sbagliano. Oggi la condanna per la repressione cinese è praticamente unanime. Purtroppo però né il Governo né alcuno dei candidati premier ha preso una posizione di aperto contrasto alla Cina. Se ne teme infatti il potere economico, ed infatti anche gli Usa fanno come lo struzzo. Ma il tempo delle mezze misure è finito! Come si può pensare di andare a disputare le

SOTTOSOPRA Attrattiva del villaggio polacco di Szymbark, la “upside-down house”, ideata dall’imprenditore Czapiewski per evidenziare ”la confusione della modernità”. All’interno, mobili e suppellettili attaccati al soffitto SALVIAMO I SAMPIETRINI DEL CENTRO DI ROMA

L’EDUCAZIONE STRADALE TORNI PRESTO NELLE SCUOLE

Da residente romana del centro storico, voglio difendere il selciato tradizionale dei sampietrini su via Nazionale. Ritengo che i lavori di rimozione siano un grave sfregio per tutta la Capitale. È ovvio che la strada necessita di una riqualificazione, ma non si può pensare di divellere un pezzo di storia, coprendo la strada con l’asfalto e raccontando ai cittadini che i problemi di via Nazionale dipendono dallo storico selciato. Il problema vero è la manutenzione che non si fa da decenni, e sarebbe meglio procedere in tal senso piuttosto che sfregiare la città. Veltroni non ha mai fatto nulla per tutelare i sampietrini. Speriamo a questo punto in Alemanno.

Non mi stancherò mai di pensare che la certezza della pena sia uno dei cardini più arrugginiti del nostro sistema. È semplicemente indecente che ad un uomo che ha appena falciato le vite di due giovani irlandesi siano concessi gli arresti domiciliari. L’educazione stradale dei giovani e giovanissimi è importante, non può essere demandata solo ad un ‘patentino’ per guidare i ciclomotori, ma necessita di interventi educativi seri a partire dalle scuole, di cui le istituzioni più vicine ai cittadini si devono fare carico. Solo così può, a mio avviso, cambiare davvero qualcosa. Affinché sulle nostre strade nessuno più lasci la vita. A vent’anni come a cento. Grazie per l’ospitalità.

dai circoli liberal Vito Pruzzo - Catania

Olimpiadi in un Paese che opprime il popolo più pacifico del mondo, una nazione che compie un genocidio contro l’innocente Tibet? Come possono i potenti del mondo libero andare a Pechino a partecipare alla festa organizzata dai carnefici? Cosa sia la Cina lo ha spiegato magistralmente alle Giornate del Pensiero Storico 2006 il Cardinale Zhen, e chi ha assistito alla sua lezione ricorda i tragici racconti sulla dittatura cinese. E’ ipocrita chi dice che lo sport non ha nulla a che fare con la politica. E spesso sono gli stessi che fino a qualche anno fa plaudivano all’esclusione del Sudafrica da tutte le manifestazioni sportive. Il Sudafrica era uno Stato razzista, la Cina oltre ad essere razzista pratica il genocidio. E’ vero che non furono boicottate neppure le Olimpiadi di Berlino del 1936, e che l’Italia ha partecipato, sia pure in modo semiclandestino ed unica tra le democrazie occidentali, ai Giochi di Mosca del 1980. Ma il fatto di aver sbagliato in passato non è una giustificazione per continuare a farlo. E se proprio non è possibile un boicottaggio totale, lanciamo un appello a Pier Ferdi-

Chiara Agostini - Roma

Amelia Giuliani - Potenza

nando Casini. Almeno lui dica che non andrà alle Olimpiadi. Dica che la bandiera italiana non dovrebbe sfilare a Pechino. E lanci una petizione per far sì che tutti gli atleti italiani che saliranno sul podio portino con sé i colori del Tibet. Sarebbe un gesto di solidarietà non violenta e un segnale alla Cina che l’Italia sui diritti umani non transige più. A schiena dritta, finalmente. Giorgio Masina CLUB LIBERAL SIENA

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna La riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal è prevista per il 18 aprile, invece del 28 marzo.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Sei l’illusione che mi regge in vita Matilde! Oh come scrivo addolorato e mesto la mia prima lettera d’amore! La mia anima senza conforto si perde nei misteri dell’avvenire, il cuore sommerso nell’angoscia mi balza nel petto come per febbre, e le mie povere labbra, avvezze ai sospiri, non sanno che ripetere amami, amami sempre. Io t’amo come si può amare una donna! Io t’amo col trasporto della passione, coll’immensità dell’estasi! Ch’io ti vegga un solo momento, ch’io ti volga una sola parola, e più non domando; perché quello è il mio Paradiso. Oh non voler distruggere una sì pura illusione che si è incarnata con me, e che sola mi regge in vita! Vola nel labirinto del mondo, come la colomba che fugge il fango per non insozzare la candidezza delle sue piume: la società è un inferno, un inferno in cui si mescono i più santi, in cui il traditore siede accanto al tradito, in cui la fede si accompagna coll’inganno, e l’innocenza col delitto. Ippolito Nievo a Matilde Ferrari

IL PROSSIMO GOVERNO TUTELI I DIVERSAMENTE ABILI Aumenta sempre di più il debito pubblico nella sanità della Regione Lazio, a fronte di una gestione carente e poco efficace che danneggia il malato, costretto a sopportare liste d’attesa interminabili per essere sottoposto ad un esame medico specialistico o di routine. Ad essere completamente inadatta è anche l’assistenza ai diversamente abili, troppo spesso ghettizzati ed emarginati a causa delle loro condizioni fisiche di impossibilità motoria, costretti a vivere rinchiusi nelle loro abitazioni o ad essere sempre accompagnati dai familiari, poiché l’assistenza pubblica è quasi inesistente rispetto alla domanda, i mezzi di trasporto inadeguati ad accogliere disabili in carrozzina e troppe barriere architettoniche ancora in piedi. Spero che il prossimo governo, e mi auguro sia il centrodestra di Silvio Berlusconi o al massimo il Centro di Pier Ferdinando Casini, ponga la massima attenzione alle categorie più bisognose, sia dal punto di vista delle strutture che dei finanziamenti. Questo è quanto dovrebbe garantire una grande città come Roma (fino ad oggi ca-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

21 marzo 1952 Alan Freed presenta il primo concerto di rock and roll a Cleveland, nell’Ohio 1956 L’attrice Anna Magnani riceve l’Oscar come migliore interprete femminile per il film La rosa tatuata 1963 Chiude il penitenziario federale Usa di Alcatraz, situato su un’isola della baia di San Francisco 1980 Il presidente Jimmy Carter annuncia il boicottaggio degli Stati Uniti ai Giochi Olimpici di Mosca in segno di protesta contro l’invasione sovietica in Afghanistan 1999 Il regista Roberto Benigni riceve tre Oscar con il film La vita è bella 1685 Nasce Johann Sebastian Bach, compositore e organista tedesco († 1750) 1960 Nasce Ayrton Senna, pilota automobilistico brasiliano († 1994)

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

pitale più del mancato diritto alla mobilità che ) e proprio questo dovrebbe assicurare uno Stato che ha l’obbligo morale e civico di rispondere alle esigenze di persone meno fortunate che hanno diritto a maggiore assistenza. Ringraziando cordialmente la redazione, distinti saluti.

Franceschino Lorenzetti Frosinone

WALTER VELTRONI E IL COMUNISMO GASSOSO Non è un asso, d’accordo. Ma ha rappresentato una rivoluzione nel mondo comunista, fin dal suo primo apparire. Da allora, è rimasto un mito perché mescola e confonde: colore e grigiore, gli Usa e Cuba, Kennedy, Ghandi, Martin Luther King, Marx e Che Guevara e Obama.Veltroni arriva ovunque ed è una sfida e una lotta continua ai canoni tradizionali. Adesso vuole candidare industriali e operai insieme ad operatori di call center e parenti di famosi. Dal comunismo liquido passeremo a quello gassoso. Speriamo che sia la volta buona e che il Nostro prenda finalmente il volo. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

PUNTURE Veltroni va a cena con i dirigenti della Compagnia delle Opere. L’ultima cena.

Giancristiano Desiderio

La vera eloquenza consiste nel dire il necessario e soltanto il necessario F. DE LA ROCHEFOUCAULD

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di DALLA PARTE DEL TIBET (E DEI CINESI) Oggi ci sentiamo tutti tibetani. Perfino gli amici di Castro e Putin. Ed è giusto così. Di fronte al massacro di tibetani non si può tacere. Ma non si può, né si deve dimenticare anche il massacro quotidiano di cinesi. Il regime cinese non è nemico solo dei tibetani, lo è forse anche dei cinesi. Guai a cadere nella trappola della contrapposizione tra cinesi contro resto del mondo. Non è quella la battaglia di oggi. Nessuno oggi manifesterà contro i cinesi, tutti saremo contro il regime cinese che non rappresenta nessuno perchè non accetta libere elezioni. Esattamente come Castro a Cuba e Putin in Russia (e Arafat a suo tempo in Palestina o Hamas oggi a Gaza). Ieri in piazza c’erano anche gli amici dei 3 regimi. Chissà se rifletteranno anche solo per un secondo su questa loro incoerenza. Stare con Castro e Putin e con il Dalai Lama infatti non è possibile dal solo punto di vista dei diritti umani, ma anche dal punto di vista della politica internazionale. Proprio i dittatori russo e cubano infatti hanno dato appoggio al regime cinese definendo la questione tibetana una questione interna cinese. Non ci credete? provate a trovare una notizia che sia una relativa ai fatti tibetani sul giornale ufficiale del regime cubano, granma. Da Castro e Putin nessuna pietà per i tibeta-

ni massacrati. Neppure davanti a queste foto (se non avete lo stomaco forte, lasciate perdere).

Libero Pensiero liberopensiero. blogosfere.it

BIN LADEN MINACCIA L’EUROPA E ATTACCA IL PAPA Torna nel delirio più totale lo sceicco del terrore, l’uomo più ricercato del mondo, Osama Bin Laden. Le sue minacce sono dirette contro l’Europa e contro il Pontefice Benedetto XVI, “reo” di essere organizzatore di un fantomatico “piano” anti-islamico. Le folli dichiarazioni di Bin Laden non possono comunque lasciare indifferenti: il rischio per l’Occidente è elevato, proprio perchè Al Qaeda in passato è passata direttamente dalle parole ai fatti ( e con “fatti” ci riferiamo ai tremendi attentati che hanno seminato sangue e lutti in vari paesi). Purtroppo tutti gli sforzi per catturare il terrorista numero uno sono falliti, e Bin Laden può ancora rilasciare dichiarazioni sconcertanti ed intrise di odio e rabbia omicida. L’Europa dovrà senz’altro adottare misure di sicurezza ancora più stringenti, con la speranza di vedere finalmente stradicata la pianta del terrorismo. “Il Falco” intende esprimere la piena solidarietà al Pontefice per gli attacchi e le minacce ricevute, nella convinzione che i cristiani di tutto il mondo si uniranno intorno a lui per sostenerlo nel suo magistero.

Il Falco falcodestro.altervista.org

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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