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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Nord Sud

La più grande riforma delle pensioni? Eccola

di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

VIVA LA

José Piñera Giuliano Cazzola Alberto Mingardi

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Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

POLITICA

e

parla Bertinotti «VELTRONI-BERLUSCONI: IL DUOPOLIO È UN TRUCCO MA I MEDIA LO SANNO?» Susanna Turco

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centri storici IL NO DI FIRENZE PARLA A TUTTI pagina 8

Carlo Ripa di Meana

pakistan

Dedicato a chi contesta la scelta di Casini Rinunciare alle convenienze e alle ammucchiate in nome delle proprie idee, non è quello che chiedono gli italiani per tornare a credere in chi li rappresenta? alle pagine 2, 3, 4

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Il rischio della guerra civile pagina 10

Andrea Margelletti

spettacolo IL CINEMA ITALIANO VOLA GRAZIE AI TEENAGER Priscilla Del Ninno

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MARTEDÌ 19

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Viva

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la politica!

Se la scelta dell’Udc verrà premiata e se le sinistre resteranno due…

Dopo quindici anni forse torna la Politica di Renzo Foa certamente suggestiva l’immagine prodotta dalla semplificazione secondo la quale il futuro dell’Italia dipenderà dall’esito di un duello bipartitico fra il Pd di Walter Veltroni e il Pdl di Silvio Berlusconi. Ma con il passar dei giorni appare sempre più solo un’immagine. Basta porsi una semplice domanda. Questa: dove è la politica nelle due costruzioni che dichiarano la loro vocazione maggioritaria in vista del voto di aprile? Dove è la visione della composizione degli interessi sociali? Come vengono presentati i valori di riferimento? Quale è l’orizzonte che viene tracciato per il dopo-elezioni? Non ci sono risposte. Certo, si può giustificare questo vuoto con la natura propagandistica di una campagna condotta dall’uno per colmare il ritardo nei sondaggi e dall’altro per cercare – almeno così sembra – di riaffermare solo un rapporto diretto di fiducia fra se stesso, cioè il leader, e la pubblica opinione. Ma il vuoto resta. E abbiamo scelto, per questo numero di liberal, il titolo «Viva la politica» confidando nella possibilità che il vuoto venga riempito. Se Casini rinuncia, nel nome dei valori di riferimento, alla scelta per lui meno rischiosa di annacquarsi nel Pdl e se Veltroni anche dopo il voto confermerà la sua rottura con l’estrema sinistra, si può aprire la speranza che in Italia torni davvero la competizione politica.

È

no del centro-destra, con l’esclusione dell’Udc dalla coalizione attuata, dagli artefici del listone, senza dare una motivazione strategica. Per il resto tutto è come prima, con qualche volto in meno, a cominciare da quello di Romano Prodi che ha consumato il suo ruolo nella sua ultima disastrosa esperienza di governo. Ma come prima è soprattutto la vocazione a costruire cartelli, a chiedere una fiducia incondizionata, a non tener conto di una regola fondamentale del confronto democratico: quello di rispondere alle rappresentanze. Quello di non dare peso, da parte delle leadership, alle parole serietà e responsabilità.

Da qualche giorno – ha cominciato a chiederlo Il Sole-24 ore – è stato posto il problema della compatibilità dei programmi elettorali. Cioè di dire – quando si annuncia di voler ridurre la pressione fiscale o di voler introdurre il salario minimo garantito – dove e come trovare le risorse necessarie, per evitare di ricadere in quel meccanismo perverso in virtù

Berlusconi, sprecato fu il traghettamento di Dini, sprecata fu la prima esperienza prodiana, sprecato fu il passaggio di D’Alema a Palazzo Chigi, sprecato è stato nel suo complesso il quinquennio della Casa delle libertà, se si esclude il suo impatto sugli impianti culturali della società, sprecata infine – ma si potrebbe dir di peggio – è stato l’ultimo biennio prodiano. Oggi siamo davvero in presenza di una discontinuità? Basta dire – cosa peraltro non vera – che ci sono due partiti principali anzichè due alleanze a contendersi la vittoria per descrivere una novità? Oppure basa dire che c’è stato un salto di qualità solo perché Veltroni enuncia anche punti programmatici attinti dalle visioni del centro-destra? Non basta. Oltretutto, sull’altro versante, c’è l’immagine di Silvio Berlusconi che ripropone i temi, gli argomenti e le speranze della rivoluzione che annunciò nel 1994 e che è rimasta da allora ad oggi incompiuta. Quel che sta accadendo non è il preannuncio

In questi giorni, si può sottolineare con la matita blu la sottovalutazione della questione del voto cattolico. Ma nello stesso modo si possono sottolineare altre sottovalutazioni, come quella di una scelta che dovrebbe essere invece centrale, che è la scuola e la formazione. Non è la candidatura di gruppi di under trenta a risolvere il problema, ma la chiarezza di un’opzione. E poi, aldilà dell’ondata di indignazione per la trasformazione della Campania in un cumulo di rifiti, chi pone il problema ricordato ieri da De Rita della regolazione comunitaria della vita collettiva? E l’elenco potrebbe continuare. Temi e argomenti che vanno aldilà di Berlusconi e di Veltroni e che pongono una questione centrale: cosa è oggi un’alternativa in Italia, dopo le delusioni del bipolarismo e nel pieno del giochetto al bipartitismo? Se la domanda è questa, allora non è difficile trovare una risposta. È la possibile al-

L’Italia non uscirà dalla paralisi inseguendo schemi astratti e traducendo un esaurito bipolarismo in un inestistente bipartitismo, ma iniziando dal rinnovamento di due schieramenti che restano competitivi sui valori e sui programmi

Speranza. Perchè ancora adesso il fatto è che sia il Pd (partito in via di organizzazione) che il Pdl (lista unica in attesa di diventare un partito) continuano ad appartenere per come si sono formati e per le aspirazioni che esprimono più alla dimensione della pre-politica che a quelle della politica di cui, oggi, in questo 2008 c’è bisogno. Pare che il tempo si sia fermato agli albori del bipolarismo italiano, a quel passaggio tra il 1992 e il 1994, in cui tutto venne cancellato e in cui l’offerta si semplificò al minimo, fino a diventare l’espressione di ideologie contrapposte del «voto contro». Siamo ancora a quella stagione, con una variante obbligata e altre non obbligate. La variante obbligata è quella che ha indotto Veltroni ad attuare, rispondendo ad un istinto di sopravvivenza, la rottura con l’arcipelago che ora si definisce Sinistra arcobaleno, chiudendo l’anomalia italiana dell’alleanza tra le due sinistre. La più importante delle varianti non obbligate è, invece, l’improvvisa rottura consumatasi all’inter-

del quale il bipolarismo si è trasformato in delusione, lungo una serie di alternanze di governo in cui è stato realizzato il minimo e dalle quali l’Italia è uscita frenata. Ieri Giuseppe De Rita (dalle colonne del Corriere della sera) ha chiesto ai partiti di non presentare programmi. E Luca Ricolfi (dalle colonne della Stampa) anziché di programmi ha parlato di «promesse». Non poteva esserci critica più severa a questo inizio di campagna elettorale ancora una volta fondato sulla suggestione delle immagini. Un inizio di campagna elettorale che, da parte dei due principali duellanti, cioè Berlusconi e Veltroni, è stato giocato più sul metodo che sulla sostanza. Il metodo di architetture politiche rese più semplici, come se la semplificazione fosse la soluzione dei problemi italiani. Il metodo di poche enunciazioni chiare, come se solo la chiarezza fosse la garanzia della credibilità. Non ci vuole molto per capire che si tratta di novità fittizie. Che continuiamo a navigare nelle paludi di una stagione sprecata. Sprecato fu il primo governo

dell’apertura di una stagione in cui la politica – intesa come arte di governo e di mediazione sociale – riguadagna la sua centralità. Non lo è stata neanche nel dialogo, precedente alla caduta del governo Prodi, avviato sulla riforma elettorale. E non lo è neppure nell’avviso di una possibile soluzione delle «larghe intese» - della «grande coalizione», per dirla in tedesco – cioè di una soluzione che appare uno schema di gioco. L’Italia è ancora immersa nella pre-politica. I punti di riferimento restano i grandi blocchi sociali, ma non si scende nei meandri della loro frantumazione, nei «coriandoli». Il ricambio è proposto come un’alternanza generazionale, fondato sul certificato di nascita ma non sulle idee. Le mosse ad effetto sono calcolate su quelle di Sarkozy o su quelle di Obama. E il tentativo delle due maggiori leadership, impegnate nella semplificazione di facciata, sembra quello di non tener conto o di cancellare la pluralità delle rappresentanze. Di cancellare la necessità della politica.

ternativa agli schieramenti che dal 1994 si stanno confrontando in Italia. Non penso a possibili terze vie. Penso al possibile sostanziale rinnovamento degli schieramenti che si confrontano sulla base non solo di appartenenze, ma anche di patrimoni di valori e di programmi. Vedremo se il Pd di Veltroni rappresenterà davvero una svolta rispetto al passato, anche se i dubbi riguardano il sincretismo della sua cultura. Quel che è più importante, invece, è capire cosa avverrà nel centro-destra dopo che, con l’esclusione dell’Udc, si è consumata la rottura dell’area moderata. E qui la domanda è semplice. Riguarda la capacità e la forza con cui quelli che vengono definiti «centristi» sapranno essere i protagonisti non di una terza via, ma del rinnovamento di quel centro-destra che è riuscito nell’incredibile impresa di restare fermo, se non al 1994, al 2001, cioè al preannuncio di un’innovazione che non c’è stata e che va riproposta nei termini chiesti in questo 2008.


Viva

la politica!

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Il compito dell’alternativa moderata è rompere lo schema della contesa a due

Contro il prodotto unico elettorale di Luca Volontè l Popolo della libertà preferisco la libertà del popolo. Mi addormento di “ma anche” e penso che in Italia ci si invece assoluta necessità di “si e no”. L’idea che tutto sia deciso, che non sia possibile scegliere una alternativa reale e di moderati, responsabile e che punti alla giustizia e al merito non mi piace. I due cloni, Berlusconi e Veltroni, come dimostrato l’altro giorno dal confronto tra D’Alema e Tremonti, sono a capo di “liste” incredibili. L’uno sta con Clinton, ma anche con Obama, non disdegna la Binetti ma anche Boselli e Pannella, ha appoggiato il terribile Prodi, ma sembra catapultato dalla luna. L’altro è entrato nel Ppe grazie all’Udc, si era impegnato a democratizzare Fi, ma ha preferito pensare che la piazza del 2 dicembre 2006 sia stata il suo congresso, sposa Capezzone con Giovanardi e con Dini, ingloba la Mussolini e schifa il partito dei laici cristiani. Sull’economia entrambi i cloni parlano la medesima lingua, nessun cenno alla povertà delle famiglie, niente sul rincaro dei prezzi ma solo pensierini sparsi e costosi, senza indicare dove andranno a prendere i soldi.Votare Veltroni o Berlusconi è dunque uguale, due fotocopie con la sola differenza di età. C’è però un terzo e quarto polo, ci sono due idee diverse oltre il “prodotto unico elettorale”, i moderati laici e cristiani, liberali e riformisti dell’Udc e il suo opposto, l’Arcobaleno rosso e sinistro di Bertinotti.

A

Bertinotti ha avuto il merito di cancellare i segni dell’orrore comunista dal simbolo di partito, tuttavia mantiene ferma la barra sulle posizioni e proposte della sinistra etrema: gay e lesbiche prima della famiglia e dei figli, scuola di Stato, lotta alla Chiesa, appoggio ai nemici di Israele, abolizione del merito e dei talenti delle persone, lotta alla famiglia, aborto, eccetera.

Tra la lotta dei cloni, tanto pacata da annullare differenze e addormentare le menti, al modello aggiornato sovietico, si oppone con le sue proposte l’Udc che oggi rappresenta l’unica presenza di un partito di cristiani nel panorama politico italiano. Siamo laici che si impegnano nell’unico partito che abbia nel suo Dna la dottrina sociale della Chiesa. Un partito non è un soggetto impersonale, ma una associazione, una comunità di uomini che condividono valori e progetti e da questa forte identità lavorano per perseguire il benessere e la prosperità della nazione. Per l’Udc, i “valori non negoziabili” non sono punti di vista diversi, ma il fulcro dal quale si giudica ogni fatto della realtà, dove si propongono soluzioni originali ai problemi del Paese. I principi del magistero sociale, il succo dei valori non negoziabili è la tutela della vita dal concepimento sino alla morte naturale, il valore della famiglia fondata sul matrimonio, la libertà di scelta educativa e la sussidiarietà sociale. I principi cristiani non sono teorie, ma “testimo-

«Diamo fastidio perché non siamo irrilevanti». Perciò lo scopo dei nostri avversari è di cancellare i voti del partito più identitario, che esplicitamente fa del magistero sociale della Chiesa un motivo di orgoglio e non di vergogna nianza di una presenza”, una presenza che chiede un cambiamento, un sussulto di responsabilità per giudicare e cambiare il mondo. Cambiare l’Italia, in molte forme, è il tema comune di ogni campagna elettorale. Questo cambiamento per noi è una battaglia culturale e una originale formulazione di soluzioni serie e responsabili.

È questo l’animo che ha contraddistinto l’impegno di Luigi Sturzo e le sue battaglie per la libertà sociale. La medesima passione ha spinto la nascita e la responsabilità di Alcide De Gasperi negli anni della ricostruzione e tante personalità, laici perché cristiani, lungo tutto il ‘900 italiano. Negli ultimi tre anni assistiamo a una lotta furibonda contro la presenza pubblica, la testimonianza nel-

la società e nella politica dei cristiani. Dalle straordinarie polemiche contro la legge 40 (referendum sulla procreazione) provenienti da sinistra a destra, dalle irrisioni e strumentalizzazioni sul Family day, sino al bavaglio della Sapienza verso Papa Benedetto XVI, ogni giorno si accendono polemiche non solo contro la Chiesa cattolica, ma pure contro i cristiani impegnati in politica.

Si dibatte di convivenze civili, anche omosessuali, e si dimenticano colpevolmente le povertà di milioni di famiglie italiane. Grazie al nostro impegno quotidiano, in questi lunghi anni abbiamo dimostrato che l’esperienza di un partito di cristiani in politica ha prodotto risultati positivi e impedito una completa deriva relativista in Italia. Nella società contemporanea, in tutto l’Occidente si ritorna a riflettere sulla identità (la campagna elettorale americana e francese lo testimoniano) e in Italia, paradossalmente, si immaginano nuovi soggetti e coalizioni che escludano i cattolici, rapinino i voti e cancellino la dignità pubblica e la memoria del partito d’ispirazione cristiana. Siamo al compimento di un progetto culturale e politico antico. Dopo aver ridotto il Paese in poltiglia (Istat), si vorrebbe eliminare l’unico seme di un impegno politico dei cristiani visibile. «Diamo fastidio perché non siamo irrilevanti». Questa affermazione vale per la Chiesa nel suo impegno pubblico e vale ancor più nell’agone politico.

Dobbiamo sapere che avremo tutti contro: tutti i partiti e tutte le liste create ad hoc, uniti dal medesimo scopo di cancellare i voti del partito più identitario presente oggi in Italia, il partito che esplicitamente fa del magistero sociale un motivo di orgoglio e non di vergogna.

Un paradosso, che è anche una sfida per la permanenza stessa dei cattolici in politica. In questo momento c’è la richiesta di combattere per la vita o la morte dei politici cristiani di tutta la lunga e feconda tradizione del passato, ma anche per preservarne lo sviluppo nel futuro. La storia della Repubblica italiana è un’anticaglia di cui liberarsi? È più democratica una nazione senza il partito dei cristiani? Il cristiano potrà avere rilievo pubblico in futuro? Tutto ciò è in gioco nella prossima campagna elettorale, niente di meno. L’orgoglio di una battaglia, l’audacia di una campagna elettorale, la responsabilità di un impegno nascono dunque da questa consapevolezza: la tirannia del relativismo ha questo obiettivo. Diceva Nicolò Machiavelli, ne Il Principe, che nemmeno forze spropositate di mercenari possono aver la meglio della difesa della città fatta dagli stessi cittadini. Perché accade sempre così, quando l’uomo e un insieme di uomini combattono per ciò che hanno di più caro (i valori cristiani e la loro famiglia), non c’è niente e nessuno che possa sconfiggerli. Il campo è aperto, si incrocino le spade.


Viva

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la politica!

Perché la religione è da sempre il vero spirito della nazione

AMERICA Tutti i candidati cercano Dio di Michael Novak aniel Dennett è un professore di Boston che si dichiara laicista e ritiene che i credenti siano illusi, prigionieri di un incantesimo. La sua più recente diatriba contro la religione è un libro intitolato Breaking the Spell (Spezzare l’incantesimo). E proprio la scorsa settimana il suo amore per le ingiurie all’indirizzo altrui si è rivolto verso le prossime elezioni presidenziali. Il professor Dennett sceglie come primo bersaglio i candidati alla presidenza. Ritiene che un gran numero di questi, nel profondo, sia di fatto laicista ma per convenienza «blaterino piaggerie per rendere falsamente omaggio» ad una religione in cui in realtà non credono. «Gli umanisti laici come noi» afferma Dennett, «devono far capire chiaramente di non rimanere affatto impressionati dalle manifestazioni di devozione da parte di “qualsiasi”candidato». Descrive come «un motore di ipocrisia» l’esigenza sentita praticamente da tutti i politici americani di parlare di Dio.

D

Esorta gli altri umanisti laici, che occupano posizioni sicure e non di carattere politico, ad esprimersi frequentemente e con veemenza contro «le dichiarazioni di fede che ormai sono diventate obbligatorie per qualsiasi candidato ad incarichi politici di rilievo». «Solo allora - continua Dennett - quei candidati che sono segretamente laicisti avranno il coraggio di esprimersi anche contro la religione». «Quelli tra noi che possono permettersi di farlo dovrebbero rischiare di offendere coloro per cui l’offesa è un passatempo abituale, oltre ad un’ottima difesa per non dover pensare». Capiamo il motivo per cui i politici debbano fare simili dichiarazioni di fede, è il messaggio di Dennett. Ma dovremmo pazientemente spingere il Paese verso atteggiamenti laicisiti usando lo strumento della vergogna. «I tempi cambieranno», scrive il professore. «Possiamo già intravedere il momento in cui i candidati potranno aspirare a cariche pubbliche di alto livello negli Stati Uniti - come avviene in qualsiasi Paese civile in Europa ed in molti altri ancora senza dover pronunciare qualsivoglia frase di carattere religioso». E aggiunge: «La realtà è che gli americani sono già rimasti delusi da un presidente che afferma che sia Dio a dirgli cosa fare, e lo scambierebbero volentieri con qualcuno che ascolta attentamente le parole di consiglieri terreni razionali e preparati».

Adesso è tutto chiaro: i non credenti come Dennett umiliano quelli che non la pensano come loro accusandoli di essere degli stolti in preda a delle illusioni, timorosi di pensare con la propria testa, irrazionali, disinformati, gente che genera ipocrisia. Pensano forse che questa tradizione di disprezzo nei confronti dei credenti possa indurre questi ultimi a partecipare ad una conversazione razionale? Che sia un segno di rispetto reciproco e un modo per rendere omaggio alla dignità di chi crede, come conviene a qualsiasi essere umano degno di questo nome? E proprio su questo vorrei controbattere le affermazioni del professor Dennett. In primo luogo, può dimostrare che il Presidente Bush abbia mai affermato che sia «Dio a dirgli cosa fare»? Non ho mai sentito il presidente dire niente del genere. Mi sono rivolto anche ai suoi amici più

Molti non si accorgono che la maggior parte degli americani sono credenti e considerano cristianesimo ed ebraismo come grandi amici della libertà cari e anch’essi non si ricordano di alcuna dichiarazione di questo tipo. A dire il vero, durante una colazione alla Casa Bianca con numerosi giornalisti, ho sentito il presidente negare che Dio gli abbia mai “parlato”. In secondo luogo, esistono numerosissime prove che Franklin D. Roosevelt, Abraham Lincoln (soprattutto Abraham Lincoln), e George Washington abbiano spesso pregato alla ricerca di una guida e, talvolta, per trovare coraggio in situazioni di guerra. Prima ascoltavano tutti i consiglieri “razionali”che li circondavano e anche gli esperti “preparati”, ma quando questi erano usciti dalla stanza, il presidente doveva comunque decidere da solo cosa fare. Non è affatto sorprendente che, nei momenti di buio in cui si trovano a volte i presidenti, la maggior parte di loro abbiano cercato la quiete o una certa pace interiore in cui la loro mente potesse serenamente concentrarsi sulla decisione da prendere. Hanno chiesto un aiuto e

una guida all’Altissimo.“Chiedi e ti sarà dato”, era il consiglio del Signore che loro ben conoscevano. Praticamente tutti hanno poi affermato di essere emersi da tali momenti di raccoglimento, quiete e pace interiore con rinnovata determinazione. Nessuno ha detto che Dio gli abbia «parlato». Non è quello il modo in cui il Dio degli ebrei e dei cristiani di solito illumina le menti. Quando tutti intorno a loro urlano il proprio dissenso, sono impegnati in rivalità, vendette e mire personali, la maggior parte dei presidenti statunitensi hanno parlato della forza interiore che sono riusciti a trarre ponendosi sub specie aeternitatis. In quelle situazioni speravano che una visione lungimirante si dischiudesse ai loro occhi e alle loro menti. In questo modo cercavano di placare i propri tumulti interiori, cercando di trovare la strada giusta da seguire in “Santa pace”. La politica ai massimi livelli è di per sé caratterizzata da furore, illusioni, influssi e passioni infuocate. A quel livello, la politica è ben lungi dall’essere così “razionale” come il Professore può immaginare dal suo tranquillo campus, attorniato da colleghi che la pensano come lui, immerso tra le pareti rivestite di rovere del circolo dei professori.

In terzo luogo, il professor Dennett sembra non essersi chiesto come mai la maggior parte degli americani siano così religiosi - forse molto più ora di quanto non lo siano stati duecento anni fa - e come mai considerino le religioni cristiane ed ebraiche come grandi amiche della libertà, e la libertà come grande amica di quelle religioni in particolare. Il professore sembra immaginare che una vasta maggioranza si“svezzerà”dalla religione o dovrebbe farlo. Ultimamente, invece, sono i laicisti e gli atei ad essere considerati sempre più distaccati dalla realtà,

dalla profondità della capacità umana di porsi degli interrogativi, da cui scaturiscono tali autentiche religioni. Per l’ebraismo e il cristianesimo, la fede e la comprensione sono sorgenti che sgorgano dalla stessa fonte dell’anima. La nostra capacità umana di mettere in discussione è illimitata. È il nostro primo contatto con la presenza dell’Infinito intorno a noi e persino dentro di noi.

Come ha affermato Thomas Jefferson, la religione cristiana è il miglior sostegno su cui possa contare una repubblica. Forse è per questo motivo che, durante il suo mandato, sia stata celebrata la più grande funzione religiosa degli Stati Uniti nel palazzo del Campidoglio e il presidente Jefferson abbia fatto sì che fosse la banda dei Marine a suonare la musica a spese del governo. In America, la “separazione tra Chiesa e Stato” non ha mai significato la separazione delle aspirazioni religiose (e della pratica religiosa) dalla vita politica di tutti i giorni. Persino oggigiorno, l’insediamento dei presidenti statunitensi all’inizio di ogni mandato ha la forma, il tono e la sostanza di un rito religioso, ponendo tutta la Repubblica sub specie aeternitatis. Ogni presidente americano, eccetto uno, ha concluso il proprio discorso di insediamento con un’invocazione alla Provvidenza affinché continuasse a benedire la Repubblica o con una preghiera simile. Povero professor Dennett: si rende conto che anche i suoi candidati laici preferiti devono per forza adeguarsi all’indole religiosa del nostro popolo e delle nostre tradizioni. Quindi accetta il fatto che non ammettano apertamente la propria mancanza di fede. (Tra l’altro ci chiediamo chi siano costoro). Non voglio che i miei candidati mentano, ma neanche che perdano. Che situazione triste in cui trovarsi.


Viva

la politica! cro nello spazio pubblico? Se Sarkozy stesse corteggiando l’elettorato cattolico non si spiegherebbero certi suoi comportamenti sentimentalmente piuttosto libertini, né la condotta presidenziale così glamour, per nulla gradita al suo elettorato anziano, rurale e di salda pratica religiosa. In secondo luogo, non si deve dimenticare come su singoli provvedimenti, e in particolare sul progetto di legge relativo alla «immigrazione scelta», le posizioni presidenziali siano entrate già in rotta di collisione con l’episcopato francese e in generale con molte organizzazioni vicine all’associazionismo cattolico, molto sensibile ai cosiddetti sans-papiers e sui ricongiungimenti familiari. Infine non si deve trascurare come l’assenza nel contesto francese di un partito unico dei cattolici e il fallimento già a metà degli anni Sessanta dell’ipotesi democratico-cristiana abbiano consolidato nel Paese una reale pluralità delle appartenenze politiche da parte dei cattolici.

Si intensificano in questi giorni le polemiche

FRANCIA I laicisti all’attacco di Sarkozy di Michele Marchi al presidente bling-bling all’ondata neo-clericale. Il bersaglio dei media, in particolare di quelli della gauche colta (e di conseguenza laica) è sempre lui, il Nicolas Sarkozy in caduta libera nei sondaggi di gradimento. Ma questa volta l’affondo non riguarda la vita privata e nemmeno specifici provvedimenti. Sarkozy è infatti sul banco degli imputati per aver «attentato alle radici dell’ideale repubblicano». Due discorsi recenti di Sarkò, a Roma e Riad, hanno fatto parlare di assalto alla «cattedrale del laicismo». Siamo davvero di fronte a quella che Le Nouvel

D

Observateur ha definito la «crociata neo-clericale» del presidente, che ha come obiettivo una vera e propria nuova alleanza tra «il Trono e l’Altare»? O siamo in presenza, come ha affermato in maniera più sfumata l’esperto di Vaticano di Le Monde Henri Tincq, di un’operazione opportunistica con due principali finalità: da un lato ricompensare quel 70% di elettorato cattolico che lo ha votato alle presidenziali di maggio 2007 e dall’altro assecondare una tendenza oramai comune alla politica del XXI secolo, quella di attingere a piene mani, spesso strumentalmente, alle tematiche del ritorno del sa-

Il discorso di Sarkozy sulla religione viene da lontano e se ripulito da alcuni eccessi e facili semplificazioni rappresenta un interessante contributo su un argomento che, volenti o nolenti, le società politiche della Vecchia Europa e le loro spesso pigre classi dirigenti dovranno prima o poi decidersi ad af-

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frontare. La scelta non è improvvisata e lo dimostra un dato contingente: Sarkozy ha creato l’esecutivo più «cattolico» degli ultimi 25 anni di Quinta Repubblica, ma soprattutto la presenza cattolica è massiccia nel suo staff personale. La direttrice del suo gabinetto Emmanuelle Mignon, il segretario generale dell’Eliseo, Claude Guéant, e la vera e propria eminenza grigia dei discorsi sarkozisti, Henri Guaino sono tutti di salda osservanza religiosa. Non si possono poi dimenticare almeno altre due personalità cattoliche molto vicine al presidente, lo storico Max Gallo e il frate domenicano Philippe Verdin. Proprio il domenicano Verdin, ironicamente definito «il confessore del presidente», ci ricorda quanto i recenti discorsi di Sarkozy non abbiano in realtà nulla di estemporaneo. A partire dal 2003 egli ha infatti avviato una serie di incontri settimanali

Il presidente francese non teme le religioni, anzi, le considera un prezioso vantaggio con lo stesso Verdin che sono poi sfociati nel testo uscito l’anno dopo. Al fondo del libro-confessione di Sarkozy sta una duplice convinzione: di fronte alla forza ascendente dell’Islam in Francia (con il quale l’attuale inquilino dell’Eliseo ha molto dialogato nei suoi anni da Ministro degli Interni e dei Culti) è necessario incentivare, in una sorta di logica compensativa, il riemergere della tradizione cristiana del Paese, marginalizzata proprio a causa di una concezione escludente di laicità. All’attuale inquilino dell’Eliseo interessa Dio come generatore di azione e in questo senso si comprendono il fascino su di lui esercitato da figure quali Giovanni Paolo II, l’Abbé Pierre o Benedetto XVI, tutti esempi lampanti dell’irruzione del religioso nel politico.

All’uscita di La République, les religions, l’espérance nel 2004 la doppia rottura è compiuta: un personaggio politico francese parla esplicitamente di religione in pubblico (e questa è una gran-

de novità, se si pensa che il cattolico De Gaulle faceva la comunione in privato per non urtare la «laica Francia») e la religione torna ad essere fonte di dibattito pubblico. Le successive mosse, fino all’elezione presidenziale, sono una conseguenza di questa riflessione. Per il suggeritore presidenziale Guaino «la crisi della Francia è essenzialmente identitaria, come può mancare un discorso sulla religione?». A San Giovanni in Laterano ed a Riad il ragionamento di Sarkozy ha però compiuto un altro salto di qualità. La laicità francese delle origini è stata troppo spesso sinonimo di espulsione del religioso dallo spazio del politico, fino allo stato di minorità politico-sociale per i credenti all’interno della République. La fine della «discriminazione» c’è stata solo dopo l’intenso sforzo resistenziale dei cattolici nel corso della Seconda guerra mondiale, ma l’elevare la laicità a vero e proprio culto di Stato ha finito per incentivare pericolose forme di anticlericalismo ed ad ateismo aggressivo. Il discorso di Sarkozy si è fatto molto vicino a quello del Card. Ratzinger, nel suo L’Europa nella crisi delle culture, quando afferma: «è interesse di ogni sviluppo democratico moderno che esista una morale laica, ma è altrettanto necessario che accanto a questa conviva una morale religiosa».

Serve dunque, e questo è lo scatto rivoluzionario che ha sollevato le maggiori accuse verso il Presidente, «una laicità positiva, che pur vegliando sulla libertà di pensare, e quella di non credere, non consideri le religioni un pericolo, ma piuttosto un vantaggio». Dunque Sarkozy nuovo Napoleone, che duecento anni fa affermava «come è possibile avere ordine in un Stato senza religione?» O addirittura redivivo Maurras («essendo la religione attaccata sul piano politico, bisogna difenderla politicamente»), come lo hanno definito i potenti sindacati scolastici, veri e propri custodi della laicità repubblicana? L’impressione, al contrario, è quella di una personalità politica, tra le poche al momento in Europa, ad aver compreso la centralità del sacro, sia per quanto riguarda singoli provvedimenti (eugenetica, matrimoni omosessuali, eutanasia) sia per quello che attiene al confronto con altre civiltà meno secolarizzate della nostra (innanzitutto quella islamica), sia, infine, per l’emergere di un nuovo ed istintivo desiderio di assoluto. Se vi è un merito nello sforzo di Sarkozy è quello di aver avviato un dibattito di grande spessore. I candidati che in Italia si stanno contendendo la guida del governo in questi giorni ci diranno qualcosa su questo cruciale tema?


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politica

Il presidente della Camera alle prese con la campagna elettorale da candidato premier della Sinistra arcobaleno

«Il duopolio V&B è un trucco: quando se ne accorgono i media?» colloquio con Fausto Bertinotti di Susanna Turco

ROMA. Rimpianti non ne ha. Per la nostalgia - dice - è troppo presto. Eppure è strana la terra di mezzo in cui si trova Fausto Bertinotti: presidente della Camera pronto per un futuro da padre nobile e defilato, si ritrova oggi a contendere i voti al Pd da candidato premier della sinistra Arcobaleno. «Il suo era l’unico nome possibile», dicono i leader della Cosa rosso-verde, esibendo così il limite di un soggetto politico ancora acerbo, e insieme troppo maturo. Ma agli scettici sull’esistenza di nuove leve, di una giovane classe dirigente capace di prendere il testimone, il candidato Bertinotti risponde secco: «Esistono, sono già al lavoro. Non si vedono perché non vanno in televisione: ma la politica deve imparare a fottersene della televisione». Tutto ciò, tra gli stucchi e le tele della sala presidenziale della Camera dei deputati. A proposito: tra un po’ le sue interviste non cominceranno più con la frase“seduto sotto un quadro di Sironi”. Che trovo bellissimo, al contrario di quel De Chirico che gli sta di fronte. Li ho trovati qui, e li lascio a chi mi succederà senza aver cambiato una virgola. In questo sono conservatore: sono convinto che anche nella forma bisogna garantire la continuità delle istituzioni. Non come Diliberto, che da Guardasigilli tirò fuori dalla polvere la scrivania di Togliatti. Non faccio polemiche, penso solo che i luoghi istituzionali non devono essere influenzati dallo stile di chi si trova ad abitarli. Uno con la sua storia non prova almeno un po’ di sollievo nello svestire i panni rigidi della carica istituzionale? È sempre una questione di bilancio. Si perde il senso importante del rappresentare una istituzione, si guadagna la libertà di espressione che è più propria di una collocazione politico-partitica. Così ora non dovrà più dire frasi come «I soldati della Folgore in Libano sono la migliore vetrina del Paese». Ma lo direi ancora. Non ho mai avuto pregiudizi iniziali. Se sono bravi perché non dirlo. Se uno vede che là si esprime una cultura improntata di umanità e che persino sotto le divise dell’esercito c’è una cultura di pace, perché no. Se andassi là in borghese sarebbe lo stesso. Anche chi oggi è con lei nella Cosa rossa, la criticò per essere andato alla parata militare del 2 giugno 2006 con la spilla pacifista. Ma non era una contraddizione, l’ho fatto perché ho pensato che fosse compatibile con quella presenza. Del resto uomini e donne della sinsitra possono ricoprire ruoli istituzionali senza imbarazzi, avendo contribuito a fondare la Repubblica. Lei dice che Veltroni corre solo anche perché alleare il centro e la sinistra è

Direi ancora che «i soldati della Folgore in Libano sono la migliore vetrina dell’Italia. Sotto quelle divise c’è una cultura di pace. Perché non dirlo?» una operazione difficile, complessa. Ma allora perché nel 2006 proprio lei, che teorizzava l’ingresso della sinistra nel governo, non vi entrò? È questione di attitudine personale. Per citare Petrolini,“non ci tengo né ci tesi mai”. Uno dei miei maestri, Riccardo Lombardi, quando nacque il centrosinistra per il quale aveva tanto lavorato, essendo il candidato naturale per il ministero del Bilancio, scelse di fare il direttore dell’Avanti. Ecco appunto, lei che pure era uno degli artefici di quell’alleanza... Lombardi pensò che era fondamentale preservare l’autonomia del partito. Ho voluto farlo anche io. Però, alla prova dei fatti, sulla politica estera la sinistra non ha poi avuto grandi soddisfazioni. Al contrario, secondo me la politica internazionale del governo Prodi è stata una delle sue cose migliori. Basti solo dire che siamo usciti dall’Iraq. Certo, abbiamo scontato un compromesso sull’Afghanistan, ma dentro un contesto che ha segnato una autonomia dell’Italia: in Libano,

nel conflitto israelo palestinese, nell’apertura all’America latina. Lo dica ai suoi senatori. O al povero Turigliatto, allontanato dal partito proprio sulla politica estera. Abbiamo avuto qualche sofferenza che fa parte delle articolazioni della sinistra. C’è sempre la sinistra della sinistra: Turigliatto, Cannavò… fenomeni minoritari, con tutto il rispetto. Però adesso che in Parlamento arriva il rifinanziamento delle missioni all’estero la sinistra, dopo due anni di sì, si appresta a votare no. I maligni direbbero che, dunque, era solo una questione di poltrone. Contro i punti di vista viziati da pregiudizi non c’è niente da fare. Oggi la nostra posizione cambia perché non c’è più un governo che possa garantire quella che era la nostra motivazione per il sì, ossia l’impegno sulla conferenza internazionale di pace. Tornando all’oggi, dica la verità: Veltroni che la costringe ad andar da solo le fa comodo. Lei ha sempre teorizzato una sinistra a due gambe. Per essere esatti parlavo di due sinistre, ma è un discorso che nell’Italia di oggi vale un po’ meno, perché il Pd non si definisce “di sinistra”: è una forza di centrosinistra che potrà guardare al centro o alla sinistra. E se domani la sinistra dovesse avere un successo elettorale... Cosa considererebbe un successo per la Sinistra arcobaleno? Gli ottimisti parlano del 10 per cento, ma quella è all’incirca la somma di Pdci, Rifondazione e Verdi alle ultime ele-

zioni. Non è un po’ poco? Non sempre in politica sommare i partiti vuol dire sommare i voti. Anzi. Raggiungere i livelli del 2006, quindi, è già un obiettivo politico. Per raggiungere l’obiettivo, dovrà sottrarre elettori al Pd. Parlerei piuttosto di una competizione. La fine anticipata della legislatura ha portato alla crisi e alla fine del centrosinistra. E Cosa rossa e Pd rappresentano la presa d’atto della conclusione di quel ciclo: ora c’è un centro, e una sinistra. Ma il centrista Veltroni dice cose di sinistra, come la proposta dei mille euro ai precari. E lui pensa così di arrivare a un superamento della precarietà o a un suo consolidamento? Ecco, questo è un buon esempio della differenza con noi, che parliamo invece di salario sociale per precari e disoccupati e modifica della Legge 30. Il Pd dice: dato questo modello, bisogna temperarlo, noi diciamo che ragionare così è come svuotare il mare col secchiello, e che serve un cambiamento radicale. In ogni caso, in questa suddivisione la sinistra esprime una vocazione minoritaria, e in campagna elettorale… Vede, questa è una campagna elettorale terremotata, dallo schema completamente nuovo. Adesso, il nostro avversario principale è il dupolio. Nella tesi che la competizione è a due c’è dentro il baro. E non è un partito con cui puoi confrontarti: consiste appunto nel far credere che ci sono solo due competitor, e che il voto agli altri sia inutile. Per la verità, negli ultimi giorni si è disposto un quadripolio. Bertinotti e Veltroni, Casini e Berlusconi. Un quadripolio? Se guardo la televisione di poli ne vedo due. Comunque speriamo, corrisponderebbe di più alla realtà italiana, nelle quali le tendenze politico culturali sono quattro o cinque e rischiano di essere strangolate. E non sarebbe così se non ci fosse quella cosa vergognosa che è il premio di maggioranza: un arbitrio, come dice la Corte Costituzionale nella sentenza che ammette il referendum. Ad alcuni pare che le modifiche alla legge elettorale, inattuate sia per via referendaria che parlamentare, siano comunque entrate nelle vene del sistema politico. Veltroni che rifiuta la logica della coalizione, tutto questo fiorire di candidati premier… Ritengo invece che la situazione sia ancora aperta. Nella prossima legislatura si potrà andare verso il presidenzialismo francese o verso il sistema tedesco. Saranno queste elezioni a decidere se andiamo verso il un sistema bipartitico o polipartitico. E nel primo caso, tante domande della società sarebbero sacrificate.


politica

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d i a r i o

d e l

g i o r n o

Marini: «Dialogo in caso di pareggio». Se l’esito delle prossime elezioni politiche dovesse far registrare un risultato di parità al Senato e quindi di instabilità per l’intera legislatura «è necessario che i contendenti dialoghino perché su due o tre cose fondamentali bisogna dare delle risposte». Lo ha detto ieri il presidente del Senato, Franco Marini

Di Pietro cancella Rete 4 Il leader dell’Italia dei Valori ha presentato il suo programma elettorale: abolizione dei finanziamenti pubblici all’editoria, spostamento di Rete 4 su satellite. E’ quanto prevede di fare Antonio Di Pietro per cambiare radicalmente il sistema dell’informazione.

Montezemolo: «Federalismo incompiuto» Il presidente di Confindustria ha dichiarato ieri: «Dopo quattro anni siamo ancora nella lunga e costosa fase di transizione del federalismo incompiuto, abbiamo solo gli svantaggi e la crescita della spesa pubblica, molto più sul territorio che a livello statale».

Poco meno di 50 milioni gli italiani al voto

I vertici locali di FI e An ipotizzano liste senza quote per Michela

Circoli, la mina del Pdl di Errico Novi

ROMA. Nel giro di poche settimane il coefficiente di difficoltà si è alzato moltissimo. Forza Italia sapeva di doversi preparare a una campagna elettorale in discesa. Non immaginavano, i dirigenti azzurri, di dover fare i conti con una lista unica e una rivoluzione organizzativa piena di imprevisti. Certo, la vittoria del Popolo della libertà alla Camera non sembra in discussione. Al Senato può tornare in gioco solo se cade l’accordo in Sicilia con il Mpa di Raffaele Lombardo, che oggi vedrà Silvio Berlusconi, per capire se davvero Gianfranco Micciché farà saltare la sua candidatura a governatore. Ma in generale per Forza Italia presentarsi agli elettori con un simbolo nuovo e in coabitazione con An significa dover rivedere tutti i vecchi schemi sulla compilazione delle liste. E non solo. Perché, come segnalano collaboratori di Michela Brambilla, «uno dei problemi che vediamo emergere in varie parti d’Italia è il finanziamento della campagna elettorale: non si sa come saranno suddivise le quote tra Forza Italia e An, e i due partiti in molte regioni non hanno metabolizzato la presenza dei Circoli».

Ci sono casi meno intricati. La Lombardia è uno di questi. Il coordinatore regionale azzurro Maristella Gelmini ha ottimi rapporti con Michela Brambilla. La rossa presidente dei club è destinata a comparire in uno dei primi tre posti del Pdl alla Camera, c’è solo da scegliere in quale delle tre circoscrizioni lombarde. Dalla

Gelmini arrivano rassicurazioni ampie anche sul negoziato con i vertici di An: «Ci siamo già visti, c’è assoluta concordia e collaborazione da molto prima che si decidesse di presentarci come Popolo della libertà. Siamo d’accordo su un punto essenziale: dovranno essere scelti candidati qualificati, ci saranno rappresentanze di tutte le componenti della società civile. Berlusconi ci ha chiesto di schierare molte donne, molti giovani ed esponenti del mondo delle professioni». Il che però può voler dire un ridimensionamento dei forzisti tout court. Oppure no? «No, non è assolutamente necessario. Prenderemo molti più seggi rispetto al 2006, di fatto i nuovi in-

Fa eccezione la Lombardia: tra i club e la coordinatrice Gelmini c’è feeling e la Brambilla sarà tra i capilista. Oggi si scioglie il nodo Mpa gressi in lista coincideranno con il maggior numero di eletti assicurato dal premio di maggioranza». È proprio quella indicata dalla Gelmini la chiave di volta su cui punta via dell’Umiltà. L’idea è di non sconvolgere gli equilibri interni a Forza Italia (che esiste ancora e si avvierà allo scioglimento solo dopo il voto) e di limitare l’ingresso dei micropartiti. Meglio allargare le alleanze sociali che diluire lo zoccolo duro di azzurri e

finiani nella giungla delle forze minori. Ad avere il posto garantito in prima fila sono senz’altro Lamberto Dini e Gianfranco Rotondi, ma i loro seguaci non saranno in numero debordante. E le presenze extra rispetto a Forza Italia e Alleanza nazionale saranno concentrate soprattutto alla Camera, dove il premio di maggioranza è più solido. Al Senato Berlusconi non vuole correre rischi e preferisce schierare solo fedelissimi provenienti dalle due formazioni maggiori.

I nodi però sono più difficili da sciogliere in regioni particolari come il Piemonte e la Campania, dove bisogna metabolizzare nuovi apporti come quelli dell’ex udc Vito Bonsignore a Torino o di Rotondi e De Gregorio a Napoli. E in generale i coordinatori locali dei due grandi azionisti del Pdl cercano di semplificare il quadro e di non includere nel conto tutti gli altri, dai diniani ai Circoli della libertà. In questi giorni hanno ipotizzato proposte per le candidature limitate alla fusione tra i loro apparati, in attesa di sapere quali sono le quote da riservare agli affluenti. Di questo, i collaboratori della Brambilla sono piuttosto preoccupati: «Fanno come se non ci fossimo, eppure una quota per noi è già stabilita». Dovrebbe essere di un candidato sicuro in almeno una dozzina di regioni, con un raddoppio in quelle dove Michela è più forte. La questione per adesso è tenuta da parte, ma è destinata a saltare fuori nel giro di pochissimi giorni.

Saranno 47.543.119 gli elettori chiamati alle urne il 13 e 14 aprile per le elezioni politiche, secondo l’ultima revisione semestrale delle liste elettorali che risale al 30 giugno 2007. Di questi, 22.793.691 sono maschi, 24.749.428 sono femmine. Gli elettori residenti all’estero risultano essere 2.961.556,

Ore decisive per l’accordo tra Pd e Radicali «E’ bene chiarire il punto di partenza ha dichiarato Emma Bonino - Se alla lista dei Radicali venisse concesso l’apparentamento con il Pd potremmo ottenere 12 deputati, 3 senatori e 5 milioni di rimborso elettorale pubblico». «Se a Di Pietro è stato concesso, non capisco perchè a noi dovrebbe essere negato» ha concluso la Bonino.

Rutelli in corsa per il Campidoglio Francesco Rutelli, nel corso di una manifestazione al Teatro Vittoria, si e’ detto disponibile a concorrere per il Partito democratico alla poltrona di sindaco di Roma.

Grillini candidato della Sinistra a Roma «Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». Parte così la candidatura di Franco Grillini a sindaco di Roma. «Un terzo candidato ci dovrà pur essere. Io sono la risposta laica alle candidature di Ferrara e Rutelli».

Resta alta la tensione in Campania Un gruppo nutrito di manifestanti anti discarica, tra i quali anche amministratori cittadini, ha bloccato la linea Caserta-Foggia all’altezza della stazione di Savignano Scalo.

Fiorello si iscrive all’antipolitica Il popolare conduttore dai microfoni di Radio2 ha dichiarato: «Quando vi arriva il certificato elettorale strappatelo e buttatelo per strada. I politici devono fare qualcosa di concreto già prima delle elezioni, e non promettere e basta chiedendo voti. Se non risolvono il problema dei rifiuti a Napoli, non votate».

Strage di Erba: Olindo ritratta «Ho subito il lavaggio del cervello», ha detto ieri nell’udienza del processo a Como dove e’ imputato per la strage di Erba, Olindo Romano . Ed accusa gli inquirenti: «Mi dissero che se mi fossi liberato la coscienza, con il rito abbreviato e altri benefici sarei stato fuori in cinque anni e che mia moglie sarebbe stata immediatamente scarcerata».

Madre in coma dà alla luce una bambina Colpita da un’emorragia cerebrale e in coma, donna di 40 anni mette al mondo una bimba di sette mesi. E’ successo ieri a Genova. I medici con un doppio intervento d’urgenza hanno fatto nascere la bambina e operato al cervello la madre, che rimane comunque in condizioni gravissime.


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pensieri

124.239 voti di ieri a Firenze non sono trascurabili. Anche se il quorum del referendum sì o no al trenotram di 32 metri addosso al Battistero e al Duomo, non è stato raggiunto (è prevalso comunque il rigetto delle opere previste dal comune). Del resto, il voto non avrebbe avuto efficacia legale anche col quorum, perché si trattava di un voto consultivo, e quindi la sua influenza istituzionale non muta. Si nota, invece, la novità culturale e politica. Il tempo dei sindaci di centrosinistra, Chiamparino con il Grattacielo a Torino, Locchi con il Mercato coperto a Perugia, Veltroni con il Pincio sventrato e trasformato in un supergarage a Roma, con tutta la loro arroganza propositiva e, insieme, arcaica nelle tecnologie e nelle soluzioni imposte, è concluso. Leonardo Domenici, a Palazzo Vecchio, li precede e da oggi li informa su quanto sta accadendo. A cominciare da Walter Veltroni, che ancora sindaco di Roma e già candidato premier del Partito democratico, era salito a Firenze quindici giorni fa per un gran Convegno ecologista del Pd, e aveva rassicurato tutti descrivendo “il nuovo contro i conservatori passatisti che ci vorrebbero fermare”. Il collega primo cittadino Leonardo Domenici, aveva ringraziato il candidato maggiore per il suo incoraggiamento. Tutti lì ad applaudire lo slogan “il Partito del fare” senza neppure scomodar più l’avverbio “bene”. Si può immaginare che oggi Veltroni, imbambolato o solo attonito, stia scendendo in pullman lungo l’Adriatico, immerso nei suoi pensieri. Il primo rintocco la Campana lo ha dato nella città capoluogo della

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Il significato del no di Firenze al tram sotto il Duomo

Fine di imbambopoli nelle città di sinistra di Carlo Ripa di Meana

Un messaggio contro tutti i progetti devastatori, a cominciare da quello romano per il Pincio. Lo ascolterà anche il centrodestra? Regione, la Toscana, dove negli ultimi ventiquattro mesi furibonda si è accesa la resistenza trasversale di molti alla perdita di territorio per speculazioni

ono e saranno molteplici le conseguenze delle scelte di Berlusconi e Veltroni di andare alle elezioni senza alcuni degli alleati di ieri, per fare delle finte corse solitarie e cercare di far sparire i partiti più piccoli. Tra annunci di fusioni e scioglimenti decisi a tavolino, sta nascendo qualche nuova formazione, mentre molte, anche con un lunga storia alle spalle, sono sparite o si preparano a farlo, disposte più o meno volontariamente a rinunciare alla loro identità e al loro simbolo. Che spesso è stato barattato come fosse il marchio di un prodotto commerciale. E così gli italiani il prossimo aprile faticheranno non poco a riconoscere come familiare la scheda elettorale che si troveranno davanti nella solitudine della cabina. Dopo più di mezzo secolo, niente più falce e martello o fiamma tricolore, almeno tra quei partiti che avranno una concreta possibilità di superare i vari sbarramenti. Anche la bandiera di Forza Italia, che ha una storia non lunga ma importante, è stata mandata in soffitta e quanti l’avevano issata al balcone se lo sono sentiti urlare dal predellino di un’automobile, senza neanche la possibilità di chiedere perché. Solo l’Udc ha resistito a

S

L’INTERVENTO

edilizie e per gli sfregi, spesso nel cuore delle città storiche, piccole, medie e grandi, Fiesole, Casole Valdelsa, Montichiello, Gaiole in Chianti, Siena,

Ampugnano, Scansano in Maremma e ancora, e ancora. Prende forma, ed è destinata a precisarsi, in Italia, una controproposta di sviluppo molto misurata di volta in volta sui diversi progetti, e filtrata dalla conoscenza minuziosa delle implicazioni da parte delle popolazioni interessate, per portare in salvezza, con nuove ini-

Con la sola eccezione dell’Udc

Partiti italiani senza famiglia europea di Paolo Posteraro

questa ventata di distruzione e sradicamento e difende la sua identità e la sua autonomia: sarà l’unica formazione non nuova e improvvisata a presentarsi alle elezioni. All’indomani dell’appuntamento con gli elettori, però, si creerà una nuova e forse più grave frattura, che allontanerà la politica italiana da quella europea. I due terzi degli eletti al Parlamento di Strasburgo, 504 deputati su un totale di 785, sono iscritti al Ppe e al Pse. Sarebbe logico che proporzioni simili esistessero anche tra gli eletti a Montecitorio e a Pa-

ziative di tutela, quello che costituisce il patrimonio sterminato della Nazione italiana. Questa è la email partita la notte tra domenica e lunedì da Firenze, destinata a tutte le amministrazioni, a tutti i partiti tra loro concorrenti, a tutti gli interessi legittimi, o meno legittimi, escludendo le impunità sospinte dalla mistica del dover realizzare a ogni costo, ovunque e sempre, travolgendo il passato, con archistar, in nome della sprovincializzazione dell’Italia. A Firenze questo risultato ha destabilizzato la sicurezza di chi, il centrosinistra, ritiene che la questione ecologica e dei Beni culturali sia un ingombro, anche se qualcuno, in quei dintorni, flebilmente argomenta che l’antico interesse alla questione ecologica, se rispolverato, possa portare non nuovi voti, ma, almeno, rallentarne la messa in libertà. Di fronte, vi è l’altra parte dell’elettorato, quello di centrodestra, dove le voci di Mario Razzanelli e di Paolo Bonaiuti sono risuonate con accenti forti ma personali. È finora l’unico messaggio positivo che è giunto agli ecologisti nel mezzo di un trauma, e quindi di un guado, di questi anni per la perdita di riferimenti e interlocuzioni tradizionali nelle amministrazioni regionali, locali e tra i legislatori nazionali. Perché, invece, garantire che il Ponte sullo stretto si farà, suona deludente e sembra lì confermare che per il centrodestra la questione ecologica rimanga un ingombro che per di più fa perdere voti. Arroganza in crisi da una parte, ripetitività insensibile dall’altra: al momento la politica non ha ancora capito la posta in gioco.

lazzo Madama. Al contrario, nessuno tra i gruppi parlamentari che si formerà nella prossima legislatura sarà collegato al Pse, nel quale non si riconoscono né la Sinistra arcobaleno né il Pd. Il Pdl, poi, avrà ben poco in comune con la tradizione popolare. Alla nuova formazione, infatti, hanno aderito anche An, che nel Ppe non è stata ancora accolta, e la Mussolini e i repubblicani che giustamente non hanno neanche provato a entrarci. Mentre gli alleati della Lega fanno dell’euroscetticismo una dei loro tratti fondamentali. Anche in questo caso, l’eccezione sarà l’Udc, che è saldamente inserita nella realtà del popolarismo a livello europeo e non solo e che sarà l’unico partito italiano ad avere una collocazione chiara e definita in una delle due grandi famiglie politiche europee. Un’evidente anomalia, che rischia di condannare all’irrilevanza politica gran parte della rappresentanza italiana al Parlamento europeo. A voler creare partiti di plastica con decisioni calate dall’alto, rinnegando le proprie identità o cercando di cancellare quelle degli altri, si corrono e si fanno correre al Paese anche dei rischi imprevisti e certo da non sottovalutare.


&

parole RIFORMA ELETTORALE

è un passaggio, un obiter dictum come si dice in termine tecnico, nella recente sentenza della Corte costituzionale, che ha giudicato ammissibile il referendum sulla legge elettorale, che merita riflessione. Nel finale della sua decisione, la Corte sostiene: «L’impossibilità di dare, in questa sede, un giudizio anticipato di legittimità costituzionale non esime tuttavia questa Corte dal dovere di segnalare al Parlamento l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o di seggi».Ammesso e non concesso che con questa affermazione la Corte abbia voluto indicare un profilo di incostituzionalità della legge, sono assolutamente fuori luogo le ipotesi, da alcuni avanzate, di creare, anche artificiosamente, una questione di costituzionalità da sollevare davanti alla Corte per indurla a dichiarare incostituzionale l’attuale legge elettorale. Come per esempio, l’ipotesi che gruppi di elettori e/o candidati si rivolgano ai giudici, lamentando la lesione del loro diritto ad avere una buona e corretta legge elettorale, chiedendo che costoro investano la Consulta del dubbio di costituzionalità su quest’ultima.

C’

Si arriva fino al punto di sostenere che la legge elettorale violerebbe persino la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, là dove prevede il diritto ad avere elezioni in condizioni che assicurino la libera espressione dell’opinione del popolo. Come se l’Italia non fosse uno Stato di diritto e come se le ultime elezioni non fossero state libere. Oppure l’ipotesi di far sollevare dal comitato promotore un conflitto di attribuzione contro il decreto di scioglimento lamentando che il referendum, a causa dello scioglimento delle Camere, slitterebbe di un anno, come in effetti prevede la legge. Questa ipotesi tende a colpire l’atto di scioglimento, che rimette in moto il meccanismo stesso della democrazia. Tende inoltre a sovvertire l’ordine dei rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta disegnato dal nostro ordinamento. La finalità dichiarata di coloro i quali ipotizzano scenari giurisdizionali, è quella di ottenere addirittura la sospensione del procedimento elettorale, da parte della Corte costituzionale. A prescindere dall’improbabile raggiungimento di questo risultato, gli argomenti utilizzati tendono comunque a diffondere una pesantissima ombra di delegittimazione politica sulle Camere da eleggersi il prossimo aprile. I sostenitori di tale campagna non sembrano tuttavia avvedersi del fatto che gli argomenti da loro utilizzati gettano la stessa ombra di delegittimazione anche sul Parlamento e sulla maggioranza usciti dalle elezioni

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per via giudiziaria, per via referendaria o per via politica? di Tommaso Frosini

Mentre è infondato il tentativo di delegittimare i risultati del voto del prossimo aprile, utilizzando come una clava il dubbio della Corte costituzionale sulla soglia minima per il premio di maggioranza del 2006, facendo addirittura pensare che tutti gli atti del governo Prodi, sostenuto da quel Parlamento e da quella maggioranza, siano da collocare al di fuori della cornice costituzionale. Questo andava detto, in maniera perentoria. Ora, piuttosto, vediamo quelli che potranno essere gli scenari politici in pendenza del referendum sulla legge elettorale. Innanzitutto, va ricordato che il referendum è solo rinviato di un anno: e

quindi, se il legislatore non modificherà la legge, il referendum si terrà comunque nel 2009. L’unico modo per impedire il referendum è l’approvazione di una nuova legge elettorale diversa dall’attuale, e comunque tale da non potere adattare su di essa il quesito referendario. Si ha, pertanto, una data certa entro la quale cambiare la legge elettorale, e cioè prima di aprile 2009. Altrimenti c’è il voto referendario.

C’è da dire, però, che l’eventuale vittoria del referendum, non produrrebbe in nessun modo lo scioglimento anticipato delle Camere, secondo una tesi fallace che vorrebbe che le stesse fossero delegittimate dal voto contro la legge che le ha generate. Così pure nulla vieta che il legislatore, dopo l’esito favorevole del referendum, possa approvare una nuova legge diversa da quella risultante dall’abrogazione referendaria. Sul punto, semmai, ci sarebbero ragioni di opportunità politica a evitare l’approvazione di una legge simile a quella in parte abrogata dal voto referendario.

Certo, il referendum posticipato di un anno ha perso il suo impatto politico. I suoi effetti, però, si sono prodotti prima ancora della sua concreta effettuazione. È bastata, infatti, la richiesta referendaria, sostenuta da quasi un milione di firme, a indurre il sistema politico a “bipartizzarsi”, ovvero a concentrarsi in due grandi partiti. Anticipando, in tal modo, quello che sarebbe stato il risultato legislativo voluto dal referendum. Si tratta di un chiaro esempio di referendum come stimolo, non al legislatore per indurlo a cambiare la legge ma piuttosto alla classe politica per aiutarla a cambiare atteggiamento e strategia. A dimostrazione, che il bipolarismo è frutto essenzialmente delle scelte da parte della politica prima ancora che della legge elettorale. Solo il 15 aprile sapremo però se anche gli elettori accettano questa nuova configurazione del sistema politico: spetta al corpo elettorale, infatti, premiare o sanzionare il bipartitismo. In fondo, a ben vedere, nel voto per la rappresentanza parlamentare c’è anche il voto per il referendum.


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mondo

Elezioni pakistane: se il risultato degli scrutini in corso venisse contestato si aprirebbe un baratro

Musharraf gioca col fuoco la guerra civile è dietro l’angolo di Andrea Margelletti e elezioni parlamentari di ieri in Pakistan sono state la chiave di volta di un quadro interno delicato e complesso. E il loro risultato può mettere ancor più in evidenza le diverse espressioni di frammentazione politica ed etnica, instabilità, insicurezza, oltre che di aperta violenza. Per tutto il 2007, il Paese - unica potenza nucleare del mondo islamico - ha accumulato una serie di problemi e incognite che lo hanno reso una delle zone più instabili dell’intero scacchiere internazionale. La guerra in Afghanistan, che spesso sfocia in episodi di violenza oltreconfine, le elezioni presidenziali, con la discussa conferma di Musharraf alla guida del Paese e last but not least la morte di Benazir Bhutto, costituiscono i passaggi più eclatanti di un anno vissuto dal Paese all’insegna del rischio che la crisi latente degenerasse in guerra civile. L’appuntamento al quale sono stati chiamati 81 milioni di pakistani per il rinnovo dei 272 membri dell’Assemblea Nazionale rappresenta l’ennesimo bivio. Da una parte, viene offerta al governo di Islamabad - Musharraf insieme a un esecutivo di qualsiasi colore - la possibi-

L

lità di trovare la conciliazione fra le innumerevoli forze centripete che tendono a scontrarsi vicendevolmente. Dall’altra, se qualcosa andasse storta o semplicemente il risultato degli scrutini non venisse accettato, per il Paese si potrebbe aprire il baratro del conflitto interno. In questo caso, ricordare che il Pakistan si trova in una zona di per sé critica risulta un atto d’ufficio. Stando ai sondaggi, l’immagine dell’ex generale Musharraf - ha rinunciato da

stenitori del Partito del popolo della Bhutto (Ppp) e tra i militanti della Lega Musulmana (Pml-N), che fa capo al deposto Primo ministro, Nawaz Sharif. Per quanto riguarda le previsioni dei risultati, il partito di riferimento di Musharraf (PmlQ), era stimato intorno al 14% dei voti. Mentre il Ppp si proiettava verso il 50% delle preferenze.Tuttavia, in virtù del meccanismo elettorale, nel caso il Ppp fosse proclamato vincitore avrebbe comunque bisogno di

tistiche si collegano ai rischi di frammentazione. Infine non vanno sottovalutate le istanze dell’integralismo islamico, concentrate da un punto di vista territoriale nelle sempre più instabili aree tribali al confine con l’Afghanistan. Che recentemente stanno coinvolgendo le aree urbane di Islamabad, Lahore e Karachi. A fronte di tutto questo, Musharraf ha garantito l’assoluta trasparenza degli scrutini e ha anticipato che accetterà qualsiasi risulta-

I sondaggi vedono il partito di di Musharraf intorno al 14% dei voti e il Ppp della Bhutto verso il 50%. Ma se vincesse avrebbe bisogno di allearsi poco all’uniforme per conservare la poltrona di Presidente è sempre più offuscata. Una recente indagine dell’International Republican Institute, l’osservatorio in politica estera del Partito repubblicano Usa - che in linea teorica dovrebbe simpatizzare per Musharraf - ha rivelato che il 75% dei pakistani intervistati vorrebbe le sue dimissioni. A questo va aggiunto che il 51% ha espresso dubbi sulla trasparenza della corsa elettorale. La diffidenza e il sospetto sulla regolarità hanno prevalso proprio in seno ai so-

allearsi con un altro soggetto. E qui potrebbe subentrare il PmlN, che veniva dato al 22% dei voti circa. Inoltre va fatto un ragionamento sulla distribuzione etnica e territoriale del Paese. Il Punjab - la provincia più popolosa - ha smesso le vesti di roccaforte militare del presidente e il suo elettorato si proietta verso una frammentazione tra Pml-N e Ppp. Sul Sind, a sua volta, Musharraf non può certo sperare, in quanto da sempre gli è ostile. Un discorso analogo può essere fatto per il Baluchistan, le cui mire indipenden-

to. Ma ha vietato ogni manifestazione organizzata dai movimenti di opposizione. Si tratta di una presa di posizione, questa, che denota come egli stesso sia conscio della sua debolezza. Musharraf infatti - stando ai numeri il suo Pml-Q siederebbe all’opposizione - non vuole giocare la carta della forza, ma al tempo stesso non intende scoprirsi con atteggiamenti eccessivamente democratici che potrebbero minare ulteriormente il suo potere. Dal canto suo il Ppp, oltre a non disporre dei numeri sufficienti per governa-

re da solo, è orfano della Bhutto, che a suo tempo era considerata come una delle personalità più popolari di tutto il Medio Oriente allargato. Le opzioni che si presentano ai suoi eredi politici, tra cui il vedovo del premier assassinato, Asif Ali Zardari sono di allearsi o con Musharraf o con Nawaz Sharif. In entrambi i casi, si tratterebbe di un’alleanza di governo dai sapori molto occidentali e quindi in qualche modo impropria in una realtà sociale, culturale e politica tanto lontana com’è il Pakistan. Osservando questo scenario - fatto di frammentazione, instabilità e insicurezza - e a prescindere dai sondaggi, una cosa è certa. Le elezioni possono innescare pericolose degenerazioni di violenza. E quello della guerra civile non è uno spauracchio dei pessimisti, ma una triste possibilità. D’altro canto, tendere una mano al prossimo partito di maggioranza, da parte di Musharraf, sarebbe una possibilità di coesistenza risolutiva per governare. Detto questo, i progetti che in Occidente funzionano non sempre si adattano nel resto del mondo. Presidente Ce.S.I. Centro Studi Internazionali


mondo

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Kosovo, l’Europa dà il via ai riconoscimenti bilaterali

Quanto costa alla Ue la stabilità dei Balcani di Maria Maggiore

BRUXELLES. Il Kosovo costituisce un «un caso sui generis che non fissa alcun precedente». E ancora: «L’Europa s’impegna a far rispettare le minoranze presenti nella regione. Infine: «Rimane la prospettiva europea per i Balcani». Sono queste le parole chiave su cui si è chiuso il delicato Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue, ieri a Bruxelles. Con un fondamentale incipit: che la presidenza slovena è riuscita a mantenere la parola «indipendenza», quella autoproclamata dal Parlamento kosovaro e di cui gli europei prendono atto. Si è rimasti per qualche ora con il fiato sospeso ieri, dopo l’arrivo dei primi ministri europei. Lo spagnolo Angel Miguel Moratinos ha esordito dicendo che la Spagna non riconoscerà mai il Kosovo, la cui dichiarazione d’indipendenza è un «atto illegale fuori dal diritto internazionale». I baschi d’altronde già si sono fatti sentire. Dopo Moratinos è arrivato al Justus Lipsius il giovane ministro britannico, David Miliband che oltre a confermare un rapido riconoscimento del nuovo Stato ha invitato l’Europa a usare la propria leadership, inscrivendo al più presto il Kosovo tra i paesi candidati all’adesione all’Unione. Da niente a tutto. Così disunita as usual l’Ue dei 27 si è presentata a

un tavolo comune dove è ritornata in mente la dolorosa ferita causata dalla guerra in Iraq. In quell’occasione, nel marzo 2003, un accordo non si era trovato e alcuni Paesi avevano partecipato alla guerra, mentre altri avevano denunciato l’invasione illegale. Ieri lo scontro è rientrato prima di esplodere. La presidenza slovena, grande sponsor del Kosovo, è riuscita a trovare una formula magica con cui si salva la parola indipendenza per un neo-nato Kosovo, lasciando la libertà a ogni Stato-

Kosovo 1

L’indipendenza di Pristina un terremoto per Zapatero Che la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo avrebbe provocato un terremoto diplomatico era previsto e le divisioni emerse a Bruxelles tra i ministri degli Esteri dei Ventisette lo hanno confermato. Ma se il fronte dei Paesi contrari alla mossa di Pristina si allarga (Spagna, Cipro, Romania, Grecia, Slovacchia e Bulgaria oltre a Russia e Cina), c’è una capitale che è in fermento più delle altre: Madrid. Il 9 marzo ci saranno le elezioni politiche e l’effettoKosovo sembra destinato ad avere un peso paragonabile a quello degli attentati islamisti alla stazione di Atocha determinando, allora, la vittoria dei socialisti sul partito popolare. Ma, questa volta, a parti invertite. L’esempio che la dichiarazione unilaterale d’indipendenza kosovara dalla Serbia può offrire ai separatisti baschi non è solo una questione teorica sulla quale discutono

membro se riconoscerla o meno: «Il consiglio prende atto che gli Stati membri possono decidere, in accordo con le pratiche nazionali e le norme legali, di stabilire loro relazioni con il Kosovo, in quanto Stato indipendente sotto supervisione internazionale». Pronunciate queste parole, Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Belgio hanno annunciato di poter procedere al riconoscimento bilaterale. Così, tra mille incertezze e con i malumori di Belgrado gli Europei cominciano la fase di “protettorato” europeo. Lanciano per giugno una faraonica conferenza dei donatori che dovrebbe raccogliere 3 miliardi di euro. E intanto la missione EULex si appropria di un ex-palazzo dell’Onu, vicino l’aeroporto di Pristina. Costi dell’operazione? 205 milioni per poliziotti e giudici europei, 1 miliardo di euro entro il 2010 compresi i progetti di sviluppo socio-economico. Oltre ai fondi per le operazioni militari, sotto cappello della Nato (16 mila soldati della Kfor), il cui ammontare è tenuto segreto dall’Alleanza Atlantica. Dalla fine della guerra al 2006 l’Europa aveva già dato al Kosovo quasi due miliardi di euro. Molto più di quanto abbia donato all’Autorità palestinese. È il costo per la stabilità nei Balcani.

d i a r i o

g i o r n o

Afghanistan, strage kamikaze: 35 vittime Un nuovo attentato nel sud del Paese ha provocato almeno 35 morti e una ventina di feriti fra i quali tre militari canadesi. A provocare l’esplosione un kamikaze lanciatosi con un’autobomba contro il convoglio canadese della Nato vicino al mercato di Spin Boldak, nella provincia di Kandahar.

Israele, ancora tagli energia a Gaza Il premier israeliano, Ehud Olmert, ha ribadito che lo stato ebraico continuerà a ridurre il quantitativo di elettricità destinato alla striscia di Gaza, oltre a far fronte alle minacce terroristiche provenienti dal sud della Striscia, fin quando saranno del tutto cessate. Intanto, un esponente palestinese ha annunciato che il presidente Mahmoud Abbas incontrerà oggi a Gerusalemme il premier Olmert nell’ambito del tentativo di proseguire con il processo di pace.

Russia, Kasparov: no a Medvedev Il campione di scacchi Kasparov, opposistore numero uno di Putin, dice di essere pronto a contestare l’elezione «illegittima» di Dimitri Medvedev alla presidenza il 2 marzo. E per il giorno successivo al voto organizzerà due marce del dissenso a Mosca e San Pietroburgo.

Bielorussia: fermato capo dell’opposizione Il leader dell’opposizione bielorussa, Alexander Milinkiewicz è stato arrestato durante una manifestazione a Minsk contro il regime del presidente Alexander Lukashenko.

Scandali tedeschi: il prezzo della verità 5 milioni di euro e una nuova identità: tanto è costata all’ufficio di Pubblica Sicurezza tedesco (Bnd) l’acquisizione delle informazioni necessarie ad incriminare il presidente di Deutsche Post, Klaus Zumwinkel, per quello che s’annuncia come il più eclatante caso di frode fiscale della storia della Repubblica federale.

Ucraina, libero scambio con Ue L’unione Europea e l’Ucraina hanno lanciato i negoziati per la creazione di un’area comune di libero scambio tra i Ventisette e l’ex-repubblica sovietica. Il negoziato, che segue l’ingresso del Paese nel Wto lo scorso 5 febbraio, è stato firmato dal commissario europeo al Commercio Mandelson e dal presidente ucraino Yushenko.

Usa: Nancy Reagan in ospedale Nancy Reagan, ottantaseienne ex First Lady, è stata ricoverata dopo aver accusato un malore ed essere caduta in casa: la signora Reagan è ricoverata al St. John’s Health Center di Santa Monica.

vi si dirà di Enrico Singer

gli esperti. Lo stesso governo regionale basco guidato da Ibarretxe ha già detto che «la lezione democratica del Kosovo dimostra come si possono risolvere in modo pacifico i conflitti d’identità tra le nazioni». Parole che hanno avuto più effetto di una bomba dell’Eta. La prospettiva di una nuova offensiva separatista dei baschi dalla Spagna ha spinto il governo di Zapatero a prendere una posizione contraria all’indipendenza del Kosovo, ma per il partito popolare questo atteggiamento è solo strumentale. Zapatero è l’uomo che ha, comunque, tentato di avviare una trattativa con l’Eta e questo gli ha fatto perdere molti consensi. Uno dei commentatori più ascoltati del campo liberale - Federico Jiménez Losantos - ha coniato il termine Zapokosovares per

d e l

identificare la sua politica debole. Gli ultimi sondaggi elettorali davano il Psoe in vantaggio di un solo punto e mezzo sul Pp: nei prossimi giorni saranno gli sviluppi del caso-Kosovo a decidere la partita. Kosovo 2

La vendetta di Mosca: no alla Georgia nella Nato «Voi occidentali in Kosovo avete combattuto una guerra e i vostri soldati vegliano ancora su una fragile pace. Non capite che il Kosovo è un pezzo di una scacchiera che comprende l’Abkhazia, l’Ossetia del Sud, il Nagorno-Karabakh, la Crimea e il Transdnestr». Un diplomatico russo mi spiegava così l’atteggiamento del Cremlino alla vigi-

lia della dichiarazione di Pristina. Il giorno prima, a Mosca, il ministro degli Esteri Lavrov, aveva ricevuto i due leader dell’Abkhazia e dell’Ossetia del Sud - Sergeij Bagapsh e Eduard Kokoity - che inseguono l’indipendenza dalla Georgia e l’incontro era terminato con un comunicato ricco di sottintesi. Il Cremlino attenderà quello che accadrà all’Onu, ma se dovrà contrattaccare il terreno è deciso. Nelle due Repubbliche ribelli della Georgia che, con referendum non vincolanti si sono dichiarate indipendenti da Tbilisi, la Russia ha migliaia di soldati impegnati come ”forze d’interposizione”, ma soprattutto, ha grande influenza poiché la maggioranza degli abitanti è di etnia russa. L’Abkhazia e l’Ossetia del Sud sono due pezzi-chiave dell’eredità postsovietica. Con una complicazione in più: la Georgia vuole entrare nella Nato e la prospettiva di una doppia crisi sulle coste del Mar Nero (l’Abkhazia) e sulle montagne del Caucaso (l’Ossetia del Sud), non la favorirebbe.


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ECONOMIA E SOCIETÀ di José Piñera Pubblichiamo per gentile concessione dell'autore un estratto da Potere ai lavoratori. La versione integrale è stata pubblicata dall’Istituto Venezie nel 2007. Dello stesso tema Piñera ha scritto in Pensioni un affare privato (Leonardo Facco editore).

Q

uando il sistema dei Conti pensionistici personali (Cpp) venne inaugurato nel maggio 1981, già entro il suo primo mese di funzionamento, ben un quarto della forza lavoro avente i requisiti necessari si iscrisse a esso, e oggi il 95 per cento dei lavoratori cileni (coperti da un sistema pensionistico) appartengono al sistema Cpp. Quando venne data loro la possibilità di scegliere, la stragrande maggioranza dei lavoratori cileni votò col proprio denaro a favore di un sistema pensionistico basato sul libero mercato. Per i cileni il proprio Cpp rappresenta ora un diritto di proprietà reale e visibile – anzi, esso è la fonte primaria di certezza per la pensione, ed il bene principale del tipico lavoratore cileno non consiste nella propria auto usata e neppure nella propria piccola casa (probabilmente ancora ipotecata) ma nel capitale contenuto nel proprio Cpp. Il nuovo sistema pensionistico ha dato a ciascun cileno una quota personale dell’economia nazionale. Il tipico lavoratore cileno non prova più indifferenza al comportamento del mercato azionario o dei tassi d’interesse. Egli sa che una cattiva politica economica può danneggiare i suoi benefici pensionistici. Quando i lavoratori si sentono loro stessi proprietari di una parte dei beni della nazione, non per mezzo di capi di partito o attraverso un Politburo, essi sono molto più attaccati agli ideali di libero mercato e di libera società. La stragrande maggioranza dei lavoratori cileni che scelsero di aderire al nuovo sistema decise di volontà propria di abbandonare il sistema statale – sebbene alcuni dei capi dei sindacati nazionali e la maggioranza della classe politica consigliassero loro di non farlo. Ho sempre creduto che il comune lavoratore abbia un profondo interesse e presti molta attenzione a quelle questioni che sono strettamente connesse alla propria vita come ad esempio previdenza sociale, educazione, e sanità - e che quando prende una decisione egli lo faccia per il bene della propria famiglia, e non secondo le proprie simpatie politiche o ideologie collettiviste. La lezione fondamentale scaturente dall’esperienza cilena è che le uniche rivoluzioni che hanno successo sono quelle che hanno fiducia nell’individuo e nei prodigi che gli individui possono compiere quando essi possiedono la libertà. Perché il Cile per primo? Qual era il contesto politico? Come siete riuscito a farcela? Invariabilmente, queste sono le prime domande che mi vengono poste ogniqualvolta, nei miei viaggi per il mondo, mi viene chiesto di descrivere la rifor-

ma della previdenza sociale in cile. Permettetemi quindi di rispondere brevemente a queste domande. Tutto ebbe inizio nel 1956 quando la facoltà di scienze economiche dell’Università Cattolica del Cile firmò un accordo di co-operazione di tre anni con il dipartimento di economia dell’Università di Chicago. L’accordo venne rinnovato due volte, per un totale di nove anni. Lo straordinario trasferimento di idee che seguì, creò la miglior facoltà di economia nell’America Latina. Negli anni Sessanta, centinaia di studenti compreso il sottoscritto appresero rigorosi concetti di economia e vennero a conoscenza di concetti di politica pubblica basati sulla libertà individuale e sull’impresa privata.

Ben presto si venne creare una “massa critica” di economisti con ideali di libero mercato, ed aventi diagnosi comune riguardo ai problemi economici della nazione e vedute simili in merito alle soluzioni necessarie. Siccome ogni idea crea delle conseguenze, questo gruppo cominciò ad influenzare il dibattito pubblico ed iniziò ad essere conosciuto come i “ragazzi di Chicago”. Quando ottenni la mia laurea in economia in Cile nel 1970 decisi che, dopo quattro anni di studio intenso e gratificante in una facoltà che dal punto di vista intellettuale era una “succursale completa”dell’Università di Chicago, sarebbe stato per me un arricchimento il recarmi in un’altra università per compiere i miei studi di dottorato. Così, rompendo con la tradizione, mi iscrissi all’Università di Harvard per un Master (M.A.) ed un Dottorato di ricerca (Ph.D.) in economia. Anni dopo, quando ero già ministro, alcuni giornali cominciarono a chiamarmi non più “ragazzo di Chicago” bensì “uomo di Harvard”. Sono veramente orgoglioso di essere entrambi. Nei miei quattro anni a Cambridge (Massachusetts), non

NordSud solo approfondii la mia conoscenza dell’economia e di altre scienze sociali, ma mi immersi nel rinvigorente clima di libertà della società Americana. Alla ricerca delle cause fondamentali del successo dell’America, divenni un appassionato ammiratore dei Padri Fondatori e dei due loro grandi lasciti al mondo intero: la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione degli Stati Uniti. Trovai anche profonda ispirazione nei lavori di alcuni pensatori sulla libertà come John Locke, Adam Smith, Frederic Bastiat, Friedrich Hayek, Karl Popper, Ludwig von Mises, e Milton Friedman (nel cui libro del 1962, Capitalismo e Libertà, lessi per la prima volta riguardo l’idea di privatizzare la previdenza sociale).

Durante quegli anni, mi convinsi che solo delle riforme economiche e politiche radicali, basate sulla libertà individuale, avrebbero potuto strappare il mio paese dalla

Libera scelta e fondi privati La riforma pensionistica scritta da José Piñera, e promulgata in Cile nel 1981, prevede che ogni lavoratore depositi il 10 per cento del suo salario in un conto pensionistico personale (CPP). La rivalutazione di questo capitale porterà a finanziare un beneficio pari al 70 per cento dello stipendio finale. I CPP vengono gestiti da fondi privati (detti Administradoras de Fondos de Pensiones, AFP), che i lavoratori possono scegliere liberamente e dai quali possono staccarsi. Ogni AFP gestisce linee d'investimento con un diverso rapporto tra azionario e obbligazionario. Lo Stato controlla la sostenibilità degli AFP, vigila che non ci siano conflitti d'interesse (AFP e Sgr sono entità separate) e garantisce un’integrazione ai lavoratori che dopo 20 anni di contribuzione non abbiano raggiunto un livello di pensione minima.

povertà e da tutte le forme di oppressione. Nel frattempo, la presa di potere comunista a Cuba nel 1959 e gli sforzi di quel governo tendenti a creare, usando le parole di Che Guevara, molteplici Vietnam nell’America Latina, portarono alla fine al crollo della democrazia in Cile. Poco dopo, il nuovo governo militare decise di invitare alcuni dei “ragazzi di Chicago” ad aiutare a ricostruire l’economia distrutta ed ebbe così inizio in Cile la vera rivoluzione: uno spostamento radicale, totale ed ininterrotto verso il libero mercato. Questa “Rivoluzione cilena” raddoppiò il tasso storico di crescita economica del Cile (fino ad un valore medio del 7 percento annuo dal 1984 al 1998), ridusse drasticamente la percentuale di individui viventi in povertà, e mise in moto quelle forze che condussero alla democrazia liberale ed alla supremazia della legge.Verso la fine del 1974, mi trovavo dinnanzi ad una scelta difficile: rimanere a Boston assaporando la piacevole vita accademica che amavo così tanto o tornare in patria ad aiutare a fondare un nuovo Paese dalle ceneri di quello vecchio. Quando tornai a casa, sapevo che il cammino sarebbe stato pieno di pericoli e di rischi. Quasi immediatamente, mi impegnai attivamente nel promuovere in dibattiti pubblici gli ideali di libertà economica, sociale e politica.

Due anni più tardi, nel 1977, feci un discorso in cui descrivevo un possibile futuro scenario per il Paese nel caso che decidessimo di buttarci verso la libertà economica. Il giorno dopo, venni invitato dal presidente, che io non avevo mai incontrato prima d’allora, a

ripetere il discorso dinnanzi a lui ed all’intero governo. E nel dicembre 1978, divenni ministro del lavoro e della previdenza sociale in Cile con due grandi obiettivi: creare un nuovo sistema pensionistico e riformare la legge sul lavoro – rigida e contro l’occupazione – del mio paese. Le mie idee in merito alla riforma delle pensioni erano allora parte di una visione complessiva sul libero mercato e su una libera società in Cile. Al ministero, misi insieme un’eccellente squadra che mi aiutasse a progettare non solo il nuovo sistema ma anche una strategia di transizione. Per decine d’anni in Cile, coloro che avevano cercato di riformare la previdenza sociale avevano fallito, a causa del fatto che i loro piani erano di parte e difettosi. Decisi che avremmo dovuto «prendere il toro per le corna». Il mio motto era che avevamo bisogno di una «riforma radicale da eseguirsi cautamente». Mi ricordo l’aver spesso ripetuto alla mia squadra che non esiste niente di più soddisfacente nella vita che il fare qualcosa che altri ritengono impossibile. Eravamo uniti dalla nostra fede nel potere delle idee e dal convincimento che potevamo apportare cambiamenti significativi alla vita di milioni di lavoratori cileni. Durante i miei due anni al ministero, suddivisi la mia settimana lavorativa di sette giorni in parti eguali tra un incessante lavoro con la mia squadra, perfezionando ogni minimo dettaglio del progetto di riforma, e tra lo spiegare alla gente i pregi e le ragioni di quelle idee. Ebbi, in tutto il Paese, una quantità innumerevole di incontri con i lavoratori; ed intrapresi delle spie-


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NordSud

DALLA PARTE DEI LAVORATORI José José Piñera Piñera racconta racconta la la più più grande grande riforma riforma pensionistica. pensionistica. Quella Quella scritta scritta da da lui lui per per ilil Cile Cile gazioni televisive sulla riforma, per tre minuti ogni settimana, all’interno di uno dei notiziari televisi trasmesso in orario di massimo ascolto. Queste apparizioni televisive, tese a promuovere la riforma con parole molto semplici ed oneste, furono cruciali nel far conoscere ed apprezzare la riforma pensionistica ai lavoratori del paese. Permettetemi di portarvi a conoscenza di due aneddoti istruttivi, riguardanti le tentazioni a cui un riformatore si trova esposto ed alle quali egli non deve cedere. Ad un certo momento, apparve molto probabile che la riforma sarebbe stata finalmente approvata, dato che l’idea stava raccogliendo consensi ovunque. Tuttavia, alcuni gruppi d’individui fortemente interessati per fini propri a promuovere un particolare punto di vista o a mantenere la situazione attuale ritennero di poter strappare alcune «concessioni dell’ultima ora». Un giorno, ricevetti la richiesta di par-

tecipare, da solo e a porte chiuse, ad un incontro con i maggiori capi sindacali del paese. Dopo un cordiale giro di saluti, il loro portavoce spiegò che, sebbene fossero ideologicamente contrari alla riforma, si rendevano conto che probabilmente essa sarebbe stata approvata. «Siamo venuti a farvi presente che, in un futuro, il nostro sostegno potrebbe esservi vantaggioso. Dopo tutto, voi siete un giovane di 30 anni, forse con una promettente carriera politica dinnanzi a voi. Siamo pronti a darvi immediatamente il nostro sostegno pubblico, a condizione che voi vi dimostriate ragionevole e modifichiate un singolo dettaglio nel vostro progetto: invece di dare al lavoratore il diritto di scegliere chi amministrerà il suo conto individuale, tale decisione dovrà venir presa esclusivamente dal direttivo del sindacato al quale il lavoratore appartiene». Egli continuò: «I lavoratori, Signor ministro, non sono in grado

I militari decisero per loro un esenzione, ma è stata forse la “trovata” più felice del periodo di Pinochet, il sistema pensionistico inventato da José Piñera: copiato da ben 17 Paesi e citato come esempio anche in Italia. Ma per la presidente Michele Bachelet sono necessari cambi. Se lo schema generali non si tocca – anche per l’altissima redditività del 25 per cento dei fondi pensioni – la sinistra ha voluto affrontare il problema dei lavoratori indipendenti che restano fuori dal sistema e integrare gli assegni dei lavoratori dipendenti, che, a detta del governo, per il 50 per cento avevano pensioni insufficienti. Dunque, è stato istituito un "pilastro solidario" aggiuntivo con cui lo Stato integra i fondi per garantire a tutti un minimo: 125

di poter prendere una decisione di tal genere. Se riusciamo a raggiungere un accordo in merito a questo punto, noi saremo veramente felici di essere a vostra disposizione in futuro». Confesso di essere rimasto sorpreso, non solo dalla sfacciataggine dell’offerta, ma anche dal disprezzo – del tipo “Dei dell’Olimpo”– che essi dimostrarono avere per la libertà e dignità dei lavoratori. Nel formulare una risposta, decisi di usare un tono umoristico. «Sfortunatamente, non potrò accettare l’offerta che voi siete venuti a presentarmi dato che mi preoccupo di salvarvi l’anima».

«Cosa significa ciò, per Dio?» gridarono parecchi di loro all’unisuono. «È proprio come avete appena udito, Signori. Come tutti ben sappiamo, la dirigenza dei sindacati nel nostro Paese è sempre stata altamente politicizzata, ma non è corrotta. Se la scelta dell’amministratore dei conti pensionistici

E la Bachelet prova a far rientrare lo Stato di Maurizio Stefanini dollari al mese a luglio, da elevare fino a 160 entro fine anno. I governi di centrosinistra succedutisi dopo il 1989 non sono mai stati entusiasti della loro previdenza. Il presidente socialista Ricardo Lagos, nel 2001, si chiuse in un imbarazzato mutismo quando Goerge W. Bush definì quel modello «uno schema da cui gli stessi Stati Uniti devono apprendere». Proprio Lagos, però, avrebbe finito per celebrarne un peana: «Ci riuniamo

viene presa da un capo di sindacato – piuttosto che essere una decisione presa dal singolo lavoratore – voi dirigenti sareste sottoposti a pressioni tali che vi sarebbe difficile mantenere la vostra integrità. Gli amministratori dei fondi pensionistici, fortemente interessati ad ottenere l’incarico di amministrare i risparmi di grossi gruppi, troverebbero molto meno costoso il corrompere i dirigenti sindacali piuttosto che competere tra di loro sul libero mercato offrendo rendimenti più alti o commissioni più basse. Non posso accettare ciò, perché tale situazione darebbe adito a tentazioni che nessuno di voi vorrebbe trovarsi a fronteggiare». Dopo tali parole, nessuno alzò più la voce. L’incontro venne quietamente aggiornato, sebbene in maniera molto meno cordiale di come esso fosse iniziato.

La visita successiva fu da parte dei presidenti delle più potenti banche in Cile. Mi dissero che essi sostenevano appieno il concetto dei conti privati pensionistici individuali, tuttavia essi desideravano che il sistema venisse amministrato solo dalle banche. Ed uno dei direttori, persino, argomentò appassionatamente contro il permettere ad istituzioni finanziarie “straniere” di amministrare i risparmi pensionistici dei lavoratori. Riflettei attentamente sui loro argomenti, come avevo fatto in precedenza con quelli dei capi dei sindacati, tuttavia rigettai completamente il loro punto di vista. Per poter ricevere un buon servizio è fondamentale che esista competizione. Ed era per me inaccettabile il limitare le possibilità di scelta dei lavoratori, al fine di concedere ai finanzieri cileni una posizione di monopolio sull’amministrazione del sistema. Mi rendevo conto che mi stavo creando dei nemici, tuttavia non esiste niente di più pericoloso che il diluire la coerenza di una riforma per soddisfare coloro che sono fortemente interessati per fini propri a promuovere un particolare punto di vista. Non sarebbe soltanto disonestà morale ed intellettuale, ma anche una politica veramente pessima. Questi due incontri mi fecero venire a mente le parole di

per celebrare i 21 anni di un sistema che ha funzionato e ha avuto successo e che ora perfezioneremo costruendo cinque fondi», disse nell’annunciare la prima riforma allo schema originario. Nel 1980, infatti, erano stati creati due fondi di investimento: uno più redditizio, l’altro più sicuro. Nel 2001 si arricchì la scelta, perché, come spiegò l’allora ministro del Lavoro Ricardo Solari, «l’idea è che da giovani si può investire nei fonti (A o B) con maggior redditività e maggior rischi. Ma man mano che si avanza con l’età, ci si dovrà trasferirsi in fondi con minor rischio (C, D o E) per salvaguardare il capitale accumulato». Sono trascorsi altri sette anni e la presidente Bachelet ha avviato un’altra riforma.

Thomas Jefferson, parole che erano rimaste scolpite nella mia mente e nel mio cuore sin dal primo momento in cui le lessi: «Ogniqualvolta un individuo getta un occhio desideroso su una carica pubblica, il marciume ha inizio nel suo comportamento». In questa frase, le parole chiave sono “un occhio desideroso”, per mezzo delle quali Jefferson fece una distinzione tra il ruolo necessario degli individui aventi una carica pubblica ed il desiderio illegittimo di occupare una carica pubblica per fini personali. Infatti, una Repubblica ha bisogno di patrioti pronti a sacrificarsi in un incarico pubblico lavorando duramente, onestamente e sinceramente alla ricerca del bene comune. Una Repubblica è marcia, tuttavia, quando gli individui usano una carica pubblica per soddisfare la propria sete di potere, denaro o gloria, oppure per favorire parenti, amici o colleghi di partito. Questo Padre Fondatore dell’America si rese conto che è necessario ci siano dei veri condottieri - dei condottieri che siano pronti cioè a porre il bene comune innanzi a qualsiasi altra cosa - affinché una Repubblica possa sopravvivere e prosperare. E con questa frase, egli indicò chiaramente la differenza esistente tra questo tipo di condottieri ed individui intenti alla semplice ricerca del potere, cosa quest’ultima che è la maledizione di gran parte della politica dei giorni nostri. Il 4 novembre 1980, la riforma fu finalmente approvata. La legge concedeva alle compagnie amministratrici dei fondi pensionistici sei mesi di tempo per dare inizio alle operazioni, cosa che avrebbe posto il 4 maggio come data d’avvio. Un’idea mi colpì all’improvviso: spostare la data di inaugurazione al primo maggio, giorno internazionale della Festa del Lavoro. È una data che storicamente ha avuto un significato speciale per i lavoratori ma che è stata trasformata, purtroppo, in un’occasione per protestare; proteste alimentate dalla retorica della lotta di classe. Nel futuro del Cile, io vedevo quel giorno come giornata di celebrazione di una riforma che aveva dato libertà e dignità ai lavoratori della nostra nazione. Ricevuta l’approvazione di questa rettifica minore, mi affrettai verso il mio ufficio per condividere le buone notizie con il resto della squadra. Nel mezzo delle celebrazioni, si udì una voce al di sopra del chiasso: «Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo preso il toro per le corna. Viva il Cile!». Quella sera arrivai a casa molto tardi. Ero estremamente felice ma completamente esausto. Per rilassarmi, accesi il televisore sul canale delle notizie. Stavano dando la notizia fresca di stampa che Ronald Reagan era appena stato eletto presidente degli Stati Uniti. Nel sonno quella notte, i miei sogni erano pieni di speranza per il Cile e per il mondo. Traduzione di Giampietro Lea


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NordSud La riforma ha permesso lo sviluppo di un liquido sistema finanziario e una crescita esponenziale del Pil

Il pilastro del mercato che salvò i conti del Cile

libri e riviste

oberto Panzarani viaggia attraverso eccellenze e identità di un mondo che ancora non riesce a superare le differenze tra ricchi e poveri, a mettere assieme chi ha conoscenza e chi ha forza lavoro competitiva. Ed eccellenza dopo eccellenza o fragilità dopo fragilità, Panzarani suggerisce nuovi segmenti sui quali scommettere e soprattutto metodologie con le quali intervenire. E innanzitutto si guarda a un Occidente che deve imparare a esportare i suoi migliori istituti (come il diritto di proprietà), condividere le sue tecniche più affidabili, incentivare l’ecosostenibilità dei new comers. Perché soltanto se nascerà una piattaforma comune di scambi e di attività si creerà quel benessere comune che ci farà entrare in una nuova era. Quella di una reale globalizzazione.

R

Roberto Panzarani L’innovazione a colori: una mappa per la globalizzazione Luiss University Press Pagine 149, Euro 18

di Giuliano Cazzola a riforma pensionistica cilena del 1981 ha fatto scuola in diversi Paesi dell’America latina e ha fortemente contribuito al risanamento finanziario che – insieme con la lotta a un’inflazione impazzita – tanto è servito alla normalizzazione democratica di

L

altresì, come accade sempre in tali situazioni, pratiche generalizzate d’evasione e lavoro nero. Il riordino impostato dal ministro Piñera ricordava il classico uovo di Colombo. I lavoratori potevano scegliere se restare nel vecchio modello a ripartizione o aderire a uno nuovo, organizzato a capitalizzazione. In questo secondo caso, i

Per la prima volta i lavoratori potevano scegliere come gestire i loro soldi quelle realtà. Il preesistente regime previdenziale obbligatorio (l’Inp del 1924) era una delle principali cause dello sfascio economico del Cile. Eccessivamente oneroso (il prelievo contributivo ammontava ormai al 65 per cento della retribuzione), particolarmente frantumato in una miriade di casse e fondi pubblici “privilegiati” (in numero di 100 circa e connotati da profonde diseguaglianze), il sistema obbligatorio ante-riforma non era solo insostenibile, ma produceva

versamenti erano completamente a loro carico (in misura del 10 per cento della retribuzione, elevabile fino al 20 per coloro che intendevano assicurarsi altre coperture, tra cui quella sanitaria). Le risorse confluivano in fondi pensione privati, raggruppati in apposite Administradoras (società di gestione) regolate dallo Stato, in un contesto normativo di grande libertà d’adesione, mobilità e portabilità (le 4 più importanti Afp sono controllate da società straniere). Nelle

condizioni ottimali la prestazione pensionistica avrebbe dovuto garantire un tasso di sostituzione intorno al 45 per cento del reddito. Fin dall’inizio, tuttavia, erano emersi i problemi, a testimoniare che non esistono scorciatoie per fuoriuscire dai sistemi a ripartizione in bancarotta.

in uscita l’ultimo numero della rivista Economia dei servizi diretta da Fabio Gobbo ed edita dal Mulino. Nelle oltre 170 pagine del quadrimestrale Lanfranco Senn fa il punto sul peso della mobilità nell’economia moderna, mentre Paolo Costa racconta pregi e limiti delle politiche europee su questo versante. Oliviero Baccelli si sofferma sul ruolo delle Regioni nello sviluppo delle nuove eccellenze aeroportuali, partendo dalle esperienze in Sardegna e Puglia. Marco Alderighi e Giuliano Sparacino guardano al difficile equilibrio che va trovato tra liberalizzazioni e clausole sociali nel trasporto pubblico. Marco Spinedi valuta il ruolo che l’Italia, attraverso le nuove direttrici, potrebbe svolgere nel campo della logistica.

È

Toccava allo Stato cileno

José Piñera, autore della riforma delle pensioni in Cile

provvedere alla transizione: fare fronte, cioè, all’onere delle pensioni in essere private del finanziamento col metodo della ripartizione (ovvero del prelievo sulle retribuzioni dei lavoratori attivi, i quali, in un contesto a capitalizzazione, con il loro gettito contributivo non provvedono più al fabbisogno dei trattamenti vigenti, ma devono usare le proprie risorse per accumulare e incrementare, su di una posizione individuale, i montanti accantonati e investiti). Dai sistemi a ripartizione, insomma, si esce con difficoltà, poiché, per riuscirvi, si chiede sempre a un gruppo di generazioni di prendersi carico, contemporaneamente, dei

costi del finanziamento delle pensioni già liquidate (tramite il prelievo contributivo) e di reperire altre risorse da indirizzare agli strumenti della capitalizzazione. Inoltre, nel caso cileno, lo Stato era tenuto a finanziare la pensione sociale agli indigenti, doveva garantire una pensione minima, pari al 22 per cento del salario medio dopo 20 anni di contribuzione e al raggiungimento dell’età pensionabile legale (65 anni per gli uomini e 60 per le donne) ed erogava un “buono di riconoscimento” ai fondi privati, ragguagliato all’ammontare dei versamenti che gli interessati aveva-

Economia dei servizi Il Mulino Pagine 160, Euro 16


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NordSud MERCATO GLOBALE

La stagione interventista di Gianfranco Polillo

plesso, hanno tenuto. La Federazione continentale (Fiap) ha portato avanti un indirizzo molto coraggioso, basato sui seguenti principi: a) diversificare al massimo i portafogli, eliminando gli obblighi a investire in alcuni titoli, autorizzando un più ampio intervento sui mercati internazionali, aumentando i limiti massimi degli investimenti in titoli a rendimento variabile; b) riconoscere alle persone maggiori possibilità d’opzione tra diverse linee d’investimento. Ma le ricorrenti incertezze dei mercati finanziari hanno raffreddato molti degli entusiasmi iniziali, anche se, nel caso cileno, è capitalizzata nelle Afp un ammontare corrispondente a più della metà del Pil. no effettuato nel precedente regime. In aggiunta, lo Stato si è assunto per decenni il carico delle vecchie pensioni, dal momento che, nel sistema previgente erano rimasti 300mila lavoratori contribuenti e iscritti a fronte di un milione di prestazioni erogate (nel nuovo modello del 1981 la situazione era completamente rovesciata: 4milioni di assicurati e circa 200mila pensioni). In sostanza, in Cile, fin dall’inizio apparve chiaro che il concorso pubblico alla previdenza riformata e privatizzata era pari al 6 per cento del Pil. Un importo ragguardevole, da non sottovalutare, viste le dimensioni e i limiti dell’economia cilena.

Il caso cileno è stato imitato dagli altri fondi pensione latinoamericani (presenti in 11 Paesi), i quali non costituiscono una forma di previdenza complementare, ma realizzano in pratica la copertura pensionistica primaria: non sono, cioè, il secondo, ma il primo pilastro. Le loro dimensioni finanziarie sono risultate importanti, anche se hanno risentito dell’attività svolta dal momento della loro istituzione. I fondi cileni (i capostipiti del sub-Continente) hanno operato da oltre un quarto di secolo, quelli di altri Paesi (Costarica, Ecuador) soltanto da un numero inferiore di anni. Eppure, la crisi economica e finanziaria, che pu-

re ha inciso sui rendimenti, non è riuscita a mutare in negativo il segno algebrico dei rendimenti. Ma le cose non sono sempre andate in questa maniera.

Talune misure governative hanno provocato non pochi problemi ai fondi pensione. In Argentina, per esempio, vi è stata la riduzione dall’aliquota contributiva dall’11 al 5 per cento, sia pure per un periodo transitorio, accompagnata dall’obbligo per le Administradoras di investire in titoli pubblici, subendo le conseguenze delle diverse manipolazioni ordinate dal governo (sono divenute cioè le prime vittime dei bond argentini che tanti guai hanno disseminato in giro per il mondo). In Bolivia, invece, è stata disposta l’integrazione degli avanzi d’esercizio dei Fondi collettivi e di quelli individuali. La fusione ha prodotto, in pratica, sia un abbattimento del valore di mercato delle azioni (in quanto il trasferimento ai fondi individuali è avvenuto al loro importo attuale), sia una diversa composizione del portafoglio rispetto a quella scelta dalle Administradoras: il che ha determinato un moto di sfiducia tra gli affiliati quando hanno scoperto che le regole potevano essere cambiate in corso d’opera per motivi di politica economica e sociale. Nonostante tali esperienze, i fondi principali, nel com-

Per affrontare le difficoltà accennate la presidente Bachelet non ha trovato una ricetta migliore dell’intervento pubblico. Il progetto del governo cileno è quello di rafforzare il sistema attraverso l’introduzione di una pensione di base, pubblica, finanziata dallo Stato. Una soluzione all’europea, dunque. A proposito del Vecchio Continente, ricordiamo cosa ha scritto Mario Draghi a proposito dell’opinione che di noi si ha nel resto del mondo: «L’Europa è vista come un’area di stabilità e di ricchezza dove la gente è pagata per non lavorare, dove la produttività è bassa e le tasse sono alte, dove le opportunità della rivoluzione tecnologica degli anni Novanta non sono state utilizzate appieno, dove la presenza dello Stato come proprietario dei mezzi di produzione e regolatore di quelli che non possiede è rilevante, dove il sistema finanziario è prevalentemente fondato sull’intermediazione di un mercato bancario oligopolistico e generalmente inefficiente, dove si riscontra un’incapacità da parte di tutti (governi per primi, ma anche imprese, intermediari finanziari e bancari, gli stessi lavoratori) di superare con decisione le barriere nazionali, di sfruttare appieno la maggiore scala che l’integrazione europea permetterebbe di conseguire».

Il liberismo sarà pure di sinistra, come hanno scritto Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, in un recente libro di successo. Ma a noi che siamo liberali – giudicate voi se di destra o di sinistra – questo incipit non piace. L’enfasi riposta rischia, infatti, di far smarrire un nesso più profondo e trasformarsi in semplice retorica. A smentire il “mercatismo”, vale a dire l’ingenua convinzione che il mercato sia l’unica freccia a disposizione dei moderni, sono intere biblioteche. Ma soprattutto un senso più profondo della storia e delle contraddizioni che sono tipiche dei processi reali e della loro vitale evoluzione. Saranno pure considerazioni filosofiche, ma fino a un certo punto. Basta l’osservazione empirica per dimostrare la necessità di un approccio più ragionato. Possiamo discutere se il prossimo futuro sarà segnato da una recessione internazionale o da un semplice rallentamento. Quel che è certo è l’inversione di una tendenza. Stiamo passando dal bello al brutto tempo. Ma, quello che più conta è capire perché. All’origine della crisi prossima ventura sono fatti specifici, a partire dal credit crunch. E dalla mancanza di fiducia che le grandi istituzioni finanziarie hanno nei confronti di loro stesse. La loro solvibilità è stata messa a dura prova dalla concessione dei mutui subprime. Capitali prestati a chi non aveva redditi sufficienti per restituirli, qualora i tassi di interesse fossero aumentati. Le insolvenze hanno determinato perdite ingenti difficili da valutare. E l’incertezza ha occluso il sistema dei vasi comunicanti. Altro fattore di sconcerto è stato il forte aumento di prezzo di tutte le materie prime: petrolio, derrate alimentari e oro. Un’inflazione diversa dal passato. Gli elementi del puzzle sono apparentemente distinti. Ma

se si guarda in profondità, si può scorgere un comune denominatore. Esso è dato dal cambiamento dei rapporti di forza a livello internazionale. L’Occidente, a differenza di qualche anno fa, non è più l’unico soggetto in campo in un mondo dominato dal sottosviluppo e dall’inedia. Quelli che erano i “dannati della terra”, sparsi nei quattro continenti, vogliono di più e sono in grado di ottenerlo. Producono, risparmiano, e consumano. Ma soprattutto competono e quindi abbattono antichi privilegi. Si può rispondere a questa sfida invocando solo il “mercatismo”? La risposta sembra inadeguata: più sul piano pratico che su quello teorico. I Fondi sovrani di investimento, gestiti da una dozzina di Paesi (soprattutto produttori di petrolio) hanno capitali, secondo i calcoli di Morgan Stanley, pari a quasi 3mila miliardi di dollari. Che supereranno i 10mila miliardi, da qui al 2012, secondo le stime del Fmi. La sola Kuwait Investiment Authority, organo governativo dell’Emirato, ha un patrimonio di 213 miliardi di dollari, equivalenti al 10 per cento del Pil italiano. Senza considerare il possibile effetto leva. Tutti insieme considerati, sono in grado di acquistare l’intero listino della borsa di Wall Street. A una possibile penetrazione finanziaria, che risponde anche a logiche di carattere politico, si può rispondere soltanto invocando regole liberiste? Non sembra essere questa la risposta dei principali Paesi occidentali. Ecco allora che privatizzare, come ha suggerito Mario Draghi, va bene se si tratta dei rami bassi dell’Amministrazione pubblica – a partire dai servizi pubblici locali – ma questo non basta. Occorre che lo Stato sappia misurarsi con le nuove sfide, dotandosi di una struttura adeguata, in grado di andare oltre l’orizzonte del mercato e il suo respiro contingente.


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NordSud Quando Milton Friedman spiegò ai migliori giovani cileni come salvare il loro Paese

Liberisti tra Santiago e Chicago di Alberto Mingardi ilton Friedman consigliere di Pinochet? Questa “leggenda nera”è stata alimentata per anni da quanti hanno cercato di immaginare nella libertà economica un alleato della dittatura. Ritrovare nel liberismo lo strumento economico del regime autoritario era un’operazione particolarmente utile per quella parte della sinistra che aveva subito con la fine del governo di Allende un vero choc, e che in questo modo riusciva però insperabilmente ad accorpare due nemici storici, eppure storicamente distinti: fascismo e capitalismo. In realtà, Milton Friedman non dispensò mai consigli al generale. Le cose andarono molto diversamente. Negli anni Cinquanta, l’università di Chicago aveva attivato un programma di scambio culturale con la facoltà di economia dell’università Cattolica del Cile. Il programma permise ai professori di Chicago di visitare ripetutamente il Paese latinoamericano, influenzando in profondità l’insegnamento delle discipline economiche in quella realtà. Alcuni dei loro laureati cileni li seguirono, per così dire, negli Stati Uniti: svolgendo corsi post-laurea o conseguendo un dottorato a Chicago, o in altre università americane. Più che da Friedman, l’influenza più rilevante su questo“cileni d’America”fu esercitata da Arnold Harberger, importante studioso della tassazione d’impresa, che teneva un seminario sui problemi del Sud America, nel quale ricette e ipotesi per il riscatto cominciarono a essere esaminate e confrontate.

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Quegli insegnamenti spinsero Piñera a privatizzare la previdenza

Fortuna volle che un numero consistente di questi giovani studiosi, anziché “fermarsi” a insegnare negli Usa, pensò di ritornare in patria. Il Cile passò da un centro-sinistra democristiano, ai socialisti di Allende. La loro legittimazione non derivava da una strepitosa vittoria elettorale: il partito socialista era il secondo, nel Paese (con un po’più di un terzo dei voti). Allende venne rimosso dalle forze armate tre anni dopo la sua elezione a Presidente, nelle tragiche circostanze di un colpo di stato in cui egli stesso perse la vita (suicidandosi con un Ak 47 fornitogli da Castro, o ucciso per errore dai golpisti, non si sa). L’evento scosse profondamente l’opinione pubblica mondiale. Ciò che però non venne notato se non da pochi “reazionari”– e ancora oggi non viene riconosciuto – è che il ricorso ai militari era l’extrema ratio cui si affidavano quelle stesse forze parlamentari che guardavano con orrore il Presidente calpestare, giorno dopo giorno, la Costituzione. Una manovra disperata, resa necessaria dai colpi inferti alla società dal combinato disposto del consolidamento del regime in una dittatura di stampo“cubano”, e dalla desertificazione dell’economia causata dal socialismo reale. «Stiamo cercando di superare lo Stato borghese, di cambiarlo dalle fondamenta», disse Allende a Regis Debray. Ci riuscì sorprendentemente bene, in un tempo davvero breve: la nazionalizzazione delle miniere, la

“riforma agraria” (come al solito sinonimo ‘politicamente corretto’di una vasta azione di confisca), l’aumento della tassazione, insomma la guerra a tutto campo alla libera impresa, determinarono una situazione di dissesto drammatico, di povertà diffusa. Quando Pinochet (un generale nominato dallo stesso Allende) prese il potere, con un governo nato come “emergenziale”ma durato nei fatti 17 anni, non possedeva idee precise in fatto di politica economica. Il suo riformismo nacque dalla disperazione di dare una svolta al Paese, potendo affidarsi soltanto ai tecnici allora a disposizione. Esclusi i social-comunisti, Pinochet dovette andare a pescare all’università Cattolica: e ci trovò quelli che poi sarebbero stati chiamati i “Chicago Boyz”. Tutti rigorosamente cileni, ma il cui pensiero era stato “fertilizzato” dal programma di scambio con l’ateneo dei Friedman, Stigler, Becker, Coase.

José Piñera aveva perfezionato i propri studi a Harvard. Con Pinochet divenne ministro del Lavoro e della Sicurezza sociale (1978-1980) e poi ministro delle Miniere (1980-1981). Nella sua prima funzi one, Piñera mise in atto quella che è evidentemente la riforma più importante di quegli anni. Il Cile è stato il primo Paese al mondo a privatizzare il sistema pensionistico, su un modello delineato già in letteratura, e dallo stesso Milton Friedman nei suoi lavori divulgativi.Veniva abbandonato il sistema“a ripartizione” inventato da Bismarck, nel quale i lavoratori di oggi pagano le pensioni di oggi, e si passava a un sistema“a capitalizzazione”. I risparmi dei lavoratori sono registrati su di un libretto apposito e affidati a fondi che investono in azioni, buoni o altri strumenti finanziari. I lavoratori scelgono da sé un AFP (amministratore del fondo pensione) al quale va obbligatoriamente un 10% del salario del lavoratore, cui si somma una cifra analoga

versata dal datore di lavoro (l’impiegato può poi aggiungere volontariamente un altro 10 per cento del suo stipendio). Gli AFP sono società altamente specializzate, e stringentemente regolate, che possono svolgere soltanto quel mestiere. Vi è concorrenza molto intensa fra gli AFP, perché vi è portabilità dei fondi, e pertanto i singoli lavoratori possono muoversi da un’agenzia all’altra. La riforma ha prodotto, negli anni, molti vantaggi. I più significativi sono due. Da una parte, la “liberazione” del risparmio individuale ha prodotto un’alfabetizzazione finanziaria su larga scala, di cui hanno beneficiato soprattutto le fasce più deboli (per dimostrare la popolarità del liberismo fra i più poveri, Piñera si presentò alle elezioni per il consiglio comunale nel quartiere più povero di Santiago, nel 1992, risultandone l’eletto più votato). Dall’altra, la vivacizzazione dei mercati finanziari ha consentito al Cile di crescere per vent’anni con tassi del 7 per cento annuo, diventando l’economia più prospera dell’America Latina. Il centro-sinistra, ininterrottamente al governo da che Pinochet rimise il proprio Paese nelle mani del sistema democratico, non ha toccato di fatto la riforma di Piñera. Qualcuno dice che il passar del tempo ne renderebbe necessaria una revisione. La Bachelet insiste sulla necessità di aggiungere un pilastro pubblico al sistema. L’idea è abbastanza strana: da una parte, la riforma Piñera prevede una “rete di sicurezza” finanziata dalla fiscalità generale, a salvaguardia dei più deboli. Dall’altra, i sistemi che hanno due pilastri hanno costruito il secondo (quello privato) per compensare le deficienze del primo (quello pubblico). Finora, le uniche riforme varate hanno alleviato uno dei lasciti negativi, della pressione del governo“nazionalista”del generale: cioè il limite agli investimenti sul mercato internazionale. Il bello del sistema Piñera è proprio la liberazione del risparmio: il fatto che il futuro dei lavoratori viene affidato ai mercati, che per imperfetti che possono essere perdono meno colpi delle burocrazie. Gli esiti così positivi, per vent’anni di storia, ne fanno una riforma che tutti i governi “liberali” dovrebbero impegnarsi a copiare.

i convegni ROMA martedì 19 febbraio 2008 Palazzo San Macuto Partnership for grown e Baia promuovono un incontro per studiare le nuove possibilità offerte ai progetti di sviluppo dal mondo della finanza. Al convegno «Nuove risorse per crescere: seed capital, venture capital, private equity” intervengono, tra gli altri, Ronald Spogli, ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, PierDomenico Gallo (Galloinvest), il sottosegretario Enrico Letta, Mario Baldassarri, Daniele Capezzone, Benedetto Della Vedova, Sandro Gozi, Nicola Rossi e Bruno Tabacci. MILANO mercoledì 20 febbraio 2008 Palazzo Clerici Si tiene oggi a Milano l’annuale workshop di Accenture e Agici su “Strategie delle utilities europee e mercato mondiale del gas”. Partecipano, fra gli altri, Giuliano Zuccoli (A2A),Tomaso Tommasi di Vignano (Hera), Umberto Quadrino (Edison), Alessandro Ortis (Autorità per l’energia Elettrica e il gas), Renzo Capra (A2A) e il ministro dello Sviluppo, Pier Luigi Bersani. ROMA giovedì 21 febbraio 2008 Sede di IntesaSanpaolo Giornata dedicata da IntesaSanpaolo al tema “Ripensare la politica industriale oggi”. Risponderanno a questa domanda Pietro Modiano, il direttore generale di Ca' de Sass, Beniamino Quintieri, ex presidente dell’Ice e commissario generale per l’Italia all'esposizione universale di Shanghai. Chiuderà i lavori il ministro Pier Luigi Bersani. RHO (MILANO) venerdì 22 febbraio 2008 Polo fieristico Il mondo del turismo italiano si incontra alla Bit per studiare il suo più agguerrito concorrente: il sistema spagnolo. Bernabò Bocca, presidente di Confturismo e Nicola Piepoli analizzano i due modelli.



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economia

Anche nel 2008 si prevede un aumento dei prezzi: +4 per cento per il residenziale e +4,5 per gli uffici

La crisi dei mutui e la congiuntura non frenano la corsa al mattone di Alessandro D’Amato

ROMA. Un mercato, quello del mattone, che continua a tenere a dispetto delle stime più pessimistiche. O a dispetto delle speranze di chi cerca buoni affari. Ma nonostante queste profezie di prossime sciagure, il comparto immobiliare italiano non sembra essere ancora stato colpito dalla crisi che si aggira in Europa e negli Stati Uniti. Tutt’altro, e poco importa che sul settore aleggino non poche incognite, tra cui quelle legate al destino delle Siiq, le società d’investimento immobiliare quotate, introdotte con la Finanziaria per il 2007.

Per capire una situazione che ha sorpreso economisti e addetti ai lavori, è necessario partire da consuntivi e previsioni. Nel suo ultimo bollettino la Banca centrale europea dedica attenzione anche al mercato immobiliare. E dice che, anche se nel complesso l’anno scorso i prezzi degli immobili in Eurolandia hanno mostrato «una moderazione», ha fatto eccezione l’Italia, dove il costo delle abitazioni è invece rimasto «in linea con quello registrato nel 2006». Nella prima metà dello

scorso anno l’aumento dei prezzi, infatti, è stato nel nostro Paese del 6,6 per cento, dal 6,7 del 2006. Uno studio di Scenari Immobiliari, invece, vede prezzi ancora in crescita nel 2008, anche se in rallentamento rispetto al recente passato. Le ultime stime aggiornate sull’anno in corso indicano come il residenziale registri un +4 per cento, gli uffici un +4,5, il commerciale un +3,5, l’industriale un +2 e il turistico un +4,3.

ti di credito, che oggi forniscono mutui solo per il 50 per cento del valore delle abitazioni. E questo non può che colpire le fasce di popolazione più debole, penso soprattutto agli immigrati, che negli anni scorsi hanno mobilitato il 20 per cento dell’intero mercato italiano».

In più, il comparto guarda con preoccupazione anche ai progetti di edilizia popolare, pubblicizzati da Antonio Di Pietro mentre era ministro del-

gap, passerà ancora tempo». Il settore privato comunque si sta muovendo: 400 grandi processi di trasformazione urbana in corso o in fase di lancio con investimenti previsti per 100 miliardi di euro dovrebbero partire prossimi anni. Ma la vera risorsa per il real estate italiano è rappresentata dal patrimonio pubblico e privato e che potrebbe essere collocato sul mercato. Un patrimonio pari a 162 miliardi di euro: il settore pubblico, di suo e nel

Breglia (Scenari immobiliari): «Ripercussioni per le fasce più deboli della popolazione». Così si spera nei progetti dei privati pari a un valore di 100 miliardi di euro e nei collocamenti del patrimonio pubblico. Rallentano le Siiq Niente crisi, allora? Se si guarda alle quotazioni in senso stretto, la risposta è no. In realtà le difficoltà ci sono. «Soprattutto nella fascia bassa di prezzo, che rappresenta un quarto del totale», spiega Mario Breglia, il presidente di Scenari Immobiliari, «per il momento le imprese riescono a farvi fronte con politiche di marketing e di sconto, ma è cambiata la politica degli istitu-

le infrastrutture, e oggi rilanciati da Silvio Berlusconi per il programma economico del Popolo delle Libertà. «Preoccupazione ingiustificata», fa notare ancora Mario Breglia di Scenari Immobiliari, «visto che siamo stati 25 anni senza edilizia popolare, costruendo mille alloggi all’anno nell’ultimo decennio a fronte dei 60mila della Francia non cambia molto. Prima che si colmi il

solo 2008, dovrebbe movimentarne tra i 2 e i 4 miliardi. Più complessa la situazione dal punto di vista finanziario. Oltre al credit crunch, preoccupa la situazione delle Siiq, che dovevano permettere alle aziende di portare in Borsa i propri rendimenti immobiliari. A più di un anno dalla loro istituzione ufficiale, però, siamo ancora in una fase di regolamentazione, che non giova a

chi – come IntesaSanpaolo e Aedes – è pronto a partire e morde il freno, insieme ai cinque miliardi di patrimonio che potrebbero finire a Piazza Affari. Ma si tratterà in massima parte di razionalizzazione di patrimoni, più che di serie nuove opportunità di guadagno.

Eppure per le Siiq qualcosa si muove anche sul fronte legislativo. Secondo alcune fonti, infatti, uno studio finanziario milanese è stato incaricato di esaminare le problematiche connesse alla versione italiana di questo tipo di società per l’Italia. Questo per consentire, poi, alla commissione Finanze di mettere a punto un disegno di legge sul loro trattamento fiscale, che non sia in contrasto con la disciplina dei fondi immobiliari già esistente in Italia. Il problema principale sembra sia quello relativo all’”exit tax”, il pedaggio pagato in Francia dalle vecchie società immobiliari per il passaggio al nuovo regime agevolato. In Italia sarebbe ancora troppo alto e sconsiglierebbe, per il momento, la trasformazione.


economia

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Bernabè respinge le aspettative del mercato, che punisce ancora il titolo

Telecom, tempi più lunghi per l’aumento di capitale di Giuseppe Failla

MILANO. Con il Paese senza un governo e la scarsa liquidità in giro, è difficile fare un aumento di capitale. Anche se il mercato se lo aspetta. Per frenare le vendite a Piazza Affari (ieri il titolo Telecom ha perso lo 0,9 per cento) è dovuto intervenire l’amministratore delegato Franco Bernabè, per ribadire che «non è allo studio alcuna ipotesi di aumento di capitale», pure previsto dai patti parasociali di Telco. Questa prospettiva era tornata a balenare dopo la decisione dell’azienda di risolvere la questione rete con la creazione della divisione Open Access, che ha di fatto escluso ogni forma di cessione, totale o parziale dell’infrastruttura. Il debito di Telecom è di oltre 37 miliardi, ma sembra non preoccupare l’amministratore delegato. «Voglio dire con grande chiarezza», ha affermato, «che sul debito la situazione è di grande tranquillità. È stato fatto un eccellente lavoro in passato di consolidamento quindi siamo molto tranquilli e lo siamo per il futuro anche nelle difficili condizioni di mercato che si sono avute negli ultimi mesi». Resta il fatto che alcuni azionisti, non sicuramente gli spagnoli di Telefonica da sempre contrari alla cessione della rete, abbiano visto nella creazione di Open Access un’occasione mancata. La vendita dell’infrastruttura non solo avrebbe consentito un rapido abbattimento del debito, ma avrebbe an-

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Il gelo fa impennare il caro verdura L’ondata di gelo di questi giorni avrà immediate ripercussioni sui prezzi di frutta e ortaggi. La Confederazione italiana agricoltori (Cia) ha annunciato aumenti tra il 20 e il 45 per cento già dalla prossima settimana. E se i produttori rincareranno i prezzi tra il 2 e il 5 per cento, la grande distribuzione potrebbe arrivare fino a un +30 per cento. Furibondo di fronte a queste stime Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori: «Il maltempo ma non giustifica aumenti. Non ci risulta che ci siano danni sconvolgenti».

Mister Prezzi convoca gli assicuratori Il garante dei prezzi, Antonio Lirosi, mette nel mirino gli assicuratori per gli aumenti del Rc Auto. Per vederci chiaro ha convocato per il 6 marzo i rappresentanti dell’Ania, l’associazione di categoria, e confrontare i prezzi. All’incontro è stata invitata anche l’Isvap al quale il garante ha chiesto formalmente lo scorso 14 febbraio un’analisi sugli andamenti tariffari tra il 2006 e il 2008. Il garante ha fatto sapere che dalla relazione sull’andamento delle gestioni assicurative nel primo semestre 2007 inviata dall’Isvap al ministero si evince «che il ramo Rc-auto e natanti ha registrato nel primo semestre 2007 un risultato positivo di 617 milioni di euro (incremento di 185 milioni di euro rispetto allo stesso periodo del 2006), pur avendo riscontrato un aumento del 5 per cento del numero di sinistri pagati». Soddisfatto Pier Luigi Bersani: «Si aprono spazi per una riduzione delle tariffe Rc auto».

Alitalia, sciopero a Malpensa di 4 ore Oggi i lavoratori della Sea, la società che gestisce gli scali lombardi, bloccheranno per 4 ore (dalle 10 alle 14) gli scali di Malpensa e Linate. Lo sciopero è stato indetto dai sindacati confederali per chiedere chiarezza sullo scalo varesino.

Coop nel mirino dell’Unione europea

Per fronteggiare l’alto debito e rafforzare la strategia di espansione serve nuova liquidità. Si va verso il taglio dei dividendi? che diluito le spese necessarie alla sua manutenzione. E in quest’ottica si spiega perché si sia ipotizzato un aumento di capitale. Esclusa questa strada, non ne rimangono molte a Bernabè per ridurre l’indebitamento e al tempo

stesso portare avanti quel piano di espansione che ha annunciato al suo insediamento, quando ha spiegato che la campagna di dismissioni si poteva considerare conclusa. Tra le vie praticabili il taglio dei dividendi. Ogni anno Telecom produce cassa per 3,3-3,4 miliardi di euro, delle quali più di due terzi si trasformano in cedole. Se i dividendi venissero tagliati, o come ipotizzato da alcuni non distribuiti, la società avrebbe un piccolo tesoretto da usare per il debito o per piccole acquisizioni. Un sacrificio che gli azionisti, soprattutto i piccoli, difficilmente accetteranno.

La cooperazione italiana potrebbe essere penalizzata da Bruxelles. Lo ha annunciato il ministro delle Politiche agricole, Paolo De Castro. «Sembrerebbe che il commissario alla Concorrenza Neelie Kroes stia accelerando sul dossier che riguarda le cooperative di distribuzione, se andrà avanti noi temiamo un effetto domino». Nel mirino della Ue la tassazione di favore per le Coop della grande distribuzione. «Siamo preoccupati», ha concluso De Castro, «per le cooperative agricole e quelle bancarie».

Legautonomia e Uncem si uniscono Legautonomie e Uncem (comunità montane) sono pronte per costituire un’unica confederazione. Domani il soggetto sarà presentato dai rispettivi presidenti Oriano Giovanelli e Enrico Borghi.

Borsa, continua il rush di Tiscali Gli acquisti sui listini di mezz’Europa contagiano anche piazza Affari, ieri in crescita dell’1,1 per cento. Protagonista Tiscali, a +10,05 per cento dopo nuove voci di acquirenti esteri.

A breve si vota il referendum sull’intesa dei metalmeccanici. E l’ala massimalista della Cgil vuole mandare un segnale al suo segretario

Contratti, da sinistra una spinta delle tute blu per frenare Epifani di Vincenzo Bacarani

ROMA. Si doveva parlare di contratti da rinnovare e di trattative di secondo livello, invece l’invito a cena di Montezemolo ha avuto, per ora, l’unico effetto di mettere le carte in tavolo. Di chiarire le distanze tra i segretari di Cgil, Cisl e Uil, soprattutto per i continui distinguo di Guglielmo Epifani, che pure sulla riforma dei contratti ha firmato una bozza con Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Mentre le tre confederazioni sono impegnate in questa partita a scacchi, tra pochi giorni – il 25, 26 e 27 febbraio – verrà sottoposto a referendum l’intesa sui metalmeccanici. E questo voto potrebbe dare a Epifani altri appigli per ulteriori distinguo. L’aumento salariale previsto è di 127 euro al mese distribuito su 30 mesi, cui vanno sommati 20 euro per

chi non fa la contrattazione di secondo livello. In fatto di orario, ci sarà un sabato comandato in più per le aziende con più di 200 dipendenti e per quelle che hanno meno di 200 addetti. L’accordo è stato firmato da Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil e dal sindacato autonomo Fismic. Contrari la Confederazione unitaria di base e l’ala sinistra della Fiom che fa capo a Giorgio Cremaschi. E proprio in questi giorni è partita la campagna della Rete 28 aprile (la componente della sinistra radicale Cgil) che invita i lavoratori a bocciare il contratto. «Due sono le questioni fondamentali sulle quali non siamo d’accordo», spiega Cremaschi, «La prima è lo scambio tra salario e flessibilità». Cioè il sabato lavorativo in più previsto dall’accordo. «La seconda»,

prosegue il segretario nazionale Fiom, «è che l’aumento salariale è diluito nel corso di due anni e mezzo». Il rischio ora è che al referendum più lavoratori del previsto diano il voto contrario non solo al contratto, ma anche ai sindacati. «È vero», ammette Cremaschi, «perché c’è un malcontento generale che va al di là del contratto». Chi non è molto d’accordo, ma invita a esprimere parere positivo è il sindacato autonomo Fismic, molto forte in Fiat. «Invitiamo a votare sì», dice il segretario Roberto Di Maulo, «nonostante ci siano aspetti non positivi. Diciamo che è il meno peggio che si poteva fare. No, non siamo entusiasti». Sarà un referendum sul sindacato? «Diciamo», ribatte Di Maulo, «che i lavoratori sono stufi di pagare troppe tasse».


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cultura

Il ruolo del cappellano della Real Casa alla morte di Vittorio Emanuele II e di Pio IX

Monsignor Anzino il tessitore della tregua fra Italia e Vaticano Pio IX. A sinistra: la somministrazione dei sacramenti a Vittorio Emanuele II

uesta è la storia di un documento e del ruolo che a volte può svolgere per illuminare uno di quei passaggi del nostro passato destinati ad esercitare un peso duraturo sulla storia italiana. Si tratta della relazione redatta dal cappellano maggiore della Real Casa, monsignor Valerio Anzino, circa gli avvenimenti che lo videro svolgere un ruolo importante in occasione della malattia di Vittorio Emanuele II, iniziata il 4 gennaio 1878 e conclusasi con la morte del re, cinque giorni dopo. Una morte destinata ad aprire un periodo di tensioni e passaggi cruciali. Quello che colpisce, nella relazione del cappellano, è la drammaticità e la tensione che circondarono le ultime ore di vita del primo re d’Italia, e che non si spiegano soltanto con l’avvenimento, pur doloroso in sé, ma soprattutto con le possibili implicazioni che a esso venivano associate sia dai vertici del potere civile, sia dalle gerarchie ecclesiastiche. In particolare, il pomeriggio cruciale della morte, quando anche il sovrano ritornava uomo e doveva ottenere il perdono di un potere più alto, diventò oggettivamente e di necessità un momento fondamentale nel confronto-scontro tra il nuovo Stato unitario, che aveva fatto della presa di Roma, anche se in forma non del tutto limpida, l’atto finale del suo compimen-

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to, e il vecchio Stato della Chiesa, che considerava il primo un usurpatore. In questo contesto, anche la morte diventava un terreno di scontro tra due opposte ragioni di Stato: quella della Chiesa, che non poteva assolvere senza pentimento per le offese che riteneva le fossero state arrecate dal re, e quella della dinastia e del potere secolare, che non potevano rinnegare le loro azioni senza incrinare le basi della loro stessa sopravvivenza. Un braccio di ferro in cui nessuno dei due protagonisti, per ragioni diverse, poteva comunque ammettere che il re di un Paese cattolicissimo morisse senza i conforti della religione, aprendo così uno scontro senza margini di manovre e degli esiti per entrambi imprevedibili. Di qui

di reciprocità, non poteva comportarsi altrimenti. Lo scontro intorno al letto di morte di Vittorio Emanuele, alla somministrazione dei sacramenti e alle parole pronunciate dal re (o che si decise fossero state pronunciate, di pentimento, ma non di sconfessione delle scelte politiche), rappresentò soltanto la prima scena dello scontro politico di quei mesi. La seconda scena, altrettanto importante, concerne i contrastati preparativi dei funerali di Vittorio Emanuele. Anche questo passaggio rappresentò, in un certo senso, la prosecuzione e la replica del precedente, perché, se da parte dello Stato fu preparato come la celebrazione del fondatore dell’Unità d’Italia, da parte della Chiesa, che, dopo aver concesso i sacra-

di Aldo G. Ricci parte. La terza scena, altrettanto drammatica quanto la prima, è dominata dalla scomparsa dell’altro protagonista, Pio IX, che, un mese dopo la morte di Vittorio Emanuele, lo seguiva nella tomba. Anche in questo caso la morte del pontefice non fu e non poté rimanere un fatto privato o interno alla Chiesa. Le cerimonie funebri, l’afflusso dei fedeli e delle autorità italiane e straniere, e il comportamento del governo e della dinastia, di fronte a un lutto che coinvolgeva a un tempo religione e politica, ponevano problemi di ordine pubblico e di diplomazia che lo Stato era oggettivamente costretto ad affrontare in una situazione del tutto fluida dei rapporti tra Stato e Chiesa. L’ultimo atto della nostra storia

Otto anni dopo Porta Pia, i sacramenti concessi al re e, subito dopo, i funerali del Papa e il successivo conclave furono il passaggio chiave, sotto l’abile regia di Crispi, per congelare la ferita aperta tra lo Stato e la Chiesa il ruolo chiave del reverendo Valerio Anzino, il quale, per la sua stessa duplice natura di ecclesiastico, e quindi soggetto alla disciplina della Chiesa, e dipendente della Real Casa, e quindi obbediente alla Dinastia e allo Stato, si trovò a essere necessariamente intermediario nell’intera vicenda: vera e propria cerniera tra una Chiesa che non poteva parlare a uno Stato che non riconosceva e uno Stato che, per il principio

menti ”in articulo mortis”, non poteva negare i funerali religiosi, si tentò invece, senza successo, di mantenerli entro i confini di una cerimonia semiprivata, dalla quale fossero assenti quei riconoscimenti formali del nuovo ruolo della dinastia che questa volle invece riaffermare. Ma la singolarità di questa storia si rivela proprio a questo punto, perché questo capitolo non segna la fine del dramma, ma soltanto della sua prima

si sposta infine sulla preparazione del Conclave, che molti alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, sulla scia dei preparativi fatti da Pio IX in tal senso, avrebbero voluto organizzare fuori d’Italia, in concomitanza con il trasferimento all’estero della Santa Sede e l’elezione del nuovo pontefice, Leone XIII. Anche in questo caso si trattò di un passaggio destinato a mettere alla prova la disponibilità del nuovo Stato nei con-

fronti della Curia: la stessa condizione, a ruoli invertiti, che aveva caratterizzato, poche settimane prima, l’insediamento del nuovo re, Umberto I. Ma a ben vedere tutto il copione era già in nuce in quella relazione del cappellano Anzino, che sanciva una tregua d’armi tra Stato e Chiesa destinata a durare fino al Concordato. Il cappellano reale era stato lo strumento ideale per arrivare a quella tregua. Ma, dai documenti del suo archivio, il grande regista di tutti quei passaggi cruciali si rivela essere Francesco Crispi, ministro dell’Interno del governo in carica, guidato da Depretis. È lui che rilegge la relazione del cappellano sulla morte del re, che organizza i suoi funerali e poi l’incoronazione di Umberto I. È ancora lui che disciplina la partecipazione ufficiale ai funerali di Pio IX e l’andamento del Conclave. Erede della componente movimentista del Risorgimento, ma convinto della necessità di una sua istituzionalizzazione nella Dinastia, Crispi è ben consapevole che un ruolo chiave in questo progetto lo gioca il rapporto Stato-Chiesa, e che in questo rapporto la forma è sostanza. Per questo, avvertendo il pericolo di un qualsiasi passo falso e l’importanza dell’immagine pubblica, prende nelle sue mani la regia dei passaggi istituzionali di un Regno privo ancora di tradizioni: una scelta forte e carica di implicazioni future.


spettacolo

19 febbraio 2008 • pagina 21

I film che puntano sugli adolescenti sbancano il botteghino

Il cinema italiano vola grazie ai teenager di Priscilla Del Ninno eriodicamente ci si chiede, e non senza motivo, a che punto è il nostro cinema e dove sia diretto. A maggior ragione oggi, che solo dopo l’uscita di Caos Calmo di Grimaldi, con Nanni Moretti, si è interrotto l’indiscusso primato di Federico Moccia al vertice del box office. Del resto per anni il dibattito mediatico si è incentrato quasi esclusivamente sul virus della crisi che, secondo autorevoli addetti ai lavori, aveva contagiato il cinema italiano rischiando addirittura di diventare irreversibilmente endemico. La disaffezione del pubblico, lo scetticismo della critica, la diffidenza dei produttori e spesso, perché no, una snobistica autoreferenzialità degli autori, non hanno certo aiutato il dialogo tra cineasti e pubblico, e men che meno incrementato il mercato. Oggi, invece, che finalmente sul diagramma dell’andamento di celluloide l’ascissa degli incassi e l’ordinata della fiducia rispetto ai prodotti di casa nostra confermano un trend sempre più incoraggiante, cinefili e imprenditori annunciano – numeri alla mano – bilanci positivi che inducono a legittimare la teoria di un nuovo “Rinascimento italiano”. Ma a che prezzo?

P

Parlami d’amore di Silvio Muccino nel fine settimana cinematografico ha spodestato dal primo posto Caos Calmo. Con Scusa ma ti chiamo amore sesto, sono tre i film italiani nella top ten

Intanto l’Anica, che raggruppa le industrie cinematografiche nostrane, presentando i dati relativi alla stagione 2007, (l’anno della svolta?), ha potuto finalmente parlare di un clima rigenerato e di un ottimistico stato di salute del nostro cinema. Che, tradotto in cifre, secondo i dati Cinetel forniti nei giorni scorsi, significa un aumento di incassi al botteghino per i film distribuiti nel nostro Paese del 12,9 per cento, a fronte di una diminuzione delle pellicole proiettate (-7,6 per cento), incremento dovuto soprattutto all’exploit del cinema italiano: 44,5 per cento di incassi in più, malgrado una diminuzione di film prodotti (-10,1 per cento). Cresce la qualità, aumenta la richiesta, salgono gli investimenti – dei privati come dei contributi pubblici - e i nostri film diventano persino merce appetibile per il mercato estero:

addirittura si va configurando una mappa degli assetti imprenditoriali che al duopolio Rai-Medusa va progressivamente integrando un disegno più sfaccettato nel quale intervengono player stranieri potenti come Universal, Warner o Disney.

Eppure la svolta ancora non può considerarsi effettiva: certo il corpo industriale della settima arte è, come detto, in splendida forma, ma l’anima creativa della proposta cinematografica di casa nostra ancora risente di qualche malessere. L’antidoto? La fruibilità su vasta scala. Quello che ancora manca è la forza di affrontare la scommessa di misurarsi con un pubblico variegato. Infatti i titoli che svettano al botteghino sono quelli confezionati per un pubblico giovanile e destinati dunque ad una particolare fetta di mercato. Così, allo snobismo di certi autori schierati sul fronte dell’impegno civile o dell’intimi-

Le pellicole di casa nostra hanno fatto registrare un aumento del 44,5 per cento, nonostante si sia prodotto il 10 per cento in meno

stampo adolescenziale con cui conquistare il box office primaverile. In mezzo, il giudizio specialistico, che come riportato in un servizio del Giornale dello Spettacolo sul peso della critica, per bocca di Paolo Mereghetti del Corriere della Sera, sottolinea come “il successo economico non è mai garanzia di qualità, e un critico deve esprimersi prescindendo dagli esiti al botteghino”. Dalle stesse colonne, ma sul fronte dei registi, replica Neri Parenti, che spiega come “oggi lo standard culturale degli spettatori, specie giovani fra i 15 e 28 anni, non sia particolarmente raffinato; si è costruito abbassando i livelli, su una tv che offre quiz e grandi fratelli, e un certo tipo di film deve tenerne conto”.

Ma allora davvero lo scarto è tra Moccia e De Sica? Certo il carnet di celluloide non registra solo appuntamenti con Scamarcio e Vaporidis. E ancora più indubitabile è che gli autori doc, per intenderci i Virzì, i Salvatores, i D’Alatri, le Comencini, cresciuti a scuola degli intramontabili maestri di sempre come Scola e Monicelli – tanto per citarne due sempre attivi – negli anni hanno dimostrato di aver metabolizzato la lezione della commedia all’italiana. Come degno di nota è che tra loro e il filone vacanziero c’è in mezzo la sorpresa cult di Fausto Brizzi e la conferma “da manuale”di Giovanni Veronesi, per non parlare del caso a parte di Gabriele Muccino. Ma è innegabile che gli autori

smo elitario, a cui anni fa si adducevano le cause della crisi, oggi risponde soprattutto una scuola di pur apprezzabili cineasti impantanati sul doppio binario del cinepanettone con cui vincere la sfida natalizia, o del plot sentimentale di

e gli script che dominano calendario delle uscite e classifiche degli incassi siano quelli che più furbescamente si declinano a un target giovanilistico. E allora, come vincere la sfida sul piano dell’eterogeneità del pubblico e dell’internazionalità dell’offerta? Magari semplicemente partendo da questi prodotti, che tanto fanno storcere il naso alla critica e a quella nutrita fetta di pubblico esclusa dalla proposta filmica, e arrivare attraverso i finanziamenti e gli incassi che questi titoli vantano, alla realizzazione di opere più complete. Solo a quel punto il processo di rigenerazione, o per usare il termine degli industriali dell’Anica, il Risorgimento, sarà effettivamente compiuto.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO

E’ giusto non far correre Pistorius alle Olimpiadi? Se le protesi al titanio generano vantaggi la decisione, purtroppo, è più che giusta Spiace non poter vedere Oscar Pistorius gareggiare alle Olimpiadi di Pechino, sarebbe stata sicuramente una grande emozione. Se le protesi al titanio generano dei vantaggi la decisione è purtroppo giusta; anche se sono del parere che si potrebbe ricercare una soluzione per eliminare tali benefici, magari appesantendo le protesi, al fine di consentire a questo atleta di presentarsi ai blocchi di partenza. Ma, indipendentemente dalla sua partecipazione o meno ai Giochi, è giusto elogiare questo sportivo che ha vinto una grande gara contro le avversità della vita, dimostrando con la propria volontà ed il proprio carattere di essere un grande atleta, ma soprattutto un grande uomo. E non c’è oro olimpico che possa eguagliare questa vittoria.

Pierangelo Meloni - Sondrio

Se si facesse eccezione sotto l’onda emotiva si accetterebbe anche l’uso di sostanze dopanti La Federazione Internazionale di Atletica ha deciso che Oscar Pistorius, l’atleta sudafricano che corre con protesi al carbonio, non possa partecipare alle prossine Olimpiadi di Pechino. Secondo la Iaf infatti l’atleta riceverebbe dalle sue protesi un notevole vantaggio. Esse gli consentirebbero di risparmiare il 25 per cento di energie rispetto agli altri partecipanti. Con tutta l’ammirazione che certamente il sudafricano merita, non vedo perché si sia parlato addirittura di scandalo. Secondo me invece la decisione è assolutamente corretta. Nessun partecipante deve ricevere vantaggi esterni. Se si facesse eccezione sotto l’onda emotiva, al limite si potrebbe arrivare ad accettare l’uso di sostanze dopanti. Grazie per l’ospitalità e buon lavoro.

Rodolfo Corradin - Verona

D’Alema, Prodi e Veltroni non rompono col passato Quelli del Pd, con in testa D’Alema, Prodi e Veltroni, in rigoroso ordine d’importanza e sobrietà e sensatezza, professano d’essere tutti nuovi, di aver cambiato del tutto filosofia e che col passato non ci sono proprio paragoni. Per ora, pare che nessun’anima creata se ne sia accorta. Siamo proprio curiosi di vedere quale sarà il responso delle prossime elezioni. Distinti saluti.

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

Ma alla fine quelle sono le sue gambe, una dote da considerarsi naturale come altre Per Oscar Pistorius niente Olimpiadi. Forse la decisione della Federazione internazionale di Atletica è corretta. Non è possibile accettare che un atleta possa avere da supporti meccanici un vantaggio rispetto agli altri concorrenti. Però veramente spiace dover accettare una decisione che toglie di mezzo un ragazzo che ha dimostrato di avere coraggio e forza di volontà che hanno del miracoloso. Dovremmo affermare il principio che quelle sono le sue gambe, gambe che danno al sudafricano un vantaggio, così come le maggiori doti naturali di un qualsiasi atleta le danno a chi le possiede. Ma mi rendo conto che il discorso non regge.

Matteo Prandi

Achille Fortuna - Ancona

Chi mai avrebbe fatto gareggiare un atleta aiutato dalla spinta di agenti esterni? A conti fatti, credo proprio che sia giusto impedire a Pistorius di gareggiare alle prossime Olimpiadi di Pechino. Intendiamoci, certo non è per sue ”colpe” che è stato preso questo provvedimento. In realtà ci sarebbe soltanto da ammirare persone così tanto valorose e piene di grinta e forza di volontà. Ma se le protesi che porta rappresentano realmente un aiuto, una spinta maggiore rispetto a chi non le possiede, allora, per spirito di correttezza e lealtà, non è giusto che giochi. Non si tratta di adottare misure restrittive nei confronti di un diversamente abile, si gridò addirittura allo scandalo quando si decise di impedirgli le Olimpiadi. Al contrario, proprio perché bisogna trattare le persone sempre alla pari, al di là degli handicap, la decisione è più che mai giusta: chi infatti avrebbe mai fatto gareggiare un atleta aiutato dalla spinta di agenti esterni?

Amelia Giuliani - Potenza

LA DOMANDA DI DOMANI

Berlusconi ha fatto bene a rinunciare a Casini?

Se la Francescato parla con gli angeli eco-compatibili La Francescato, candidata vicepremier da Bertinotti, qualche giorno fa, rispondendo ad un giornalista che le chiedeva una sua opinione su un tema di stretta attualità, è sbottata: ”Io non parlo di ciò di cui parlano tutti! Io parlo solo di fonti di energia ecocompatibili”. Se uniamo questa sua affermazione ai suoi notori dialoghi con i suoi angeli interiori (almeno lei sostiene di averne), la domanda sorge spontanea: ma lei parlerà solo con angeli ecocompatibili?

Massimo Bassetti

Speravo che Berlusconi risolvesse i problemi con l’Udc Francamente non mi aspettavo questa rottura e mi auguravo un armistizio, almeno tempotaneo, tra l’Udc e il Pdl. Ritenevo possi-

dai circoli liberal

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

IL MOMENTO DELLE SCELTE CORAGGIOSE Come diceva Manzoni, il coraggio uno non so le può dare ma per scrivere la storia politica dei prossimi anni in Italia è arrivato il momento di avere coraggio. Coraggio politico ovviamente! Niente in confronto al coraggio di tante migliaia di famiglie che ogni giorno affrontano la difficoltà di un costo della vita sempre più elevato e che stentano ad arrivare alla fine mese; niente in confronto alla drammatica esperienza delle popolazioni campane di questi ultimi mesi; niente in confronto alle sempre troppo numerose “morti bianche” ed alla crescente schiera di disoccupati e di precari. Il coraggio, quindi, dei semplici, cioè di fare con impegno il proprio dovere: scelte dignitose e, se del caso, anche dolorose. Missione sconosciuta a gran parte della nostra classe dirigente. Il coraggio di riscoprire il ruolo sociale del politico che deve con serietà e coerenza cercare, secondo coscienza e non per opportunismo, la via migliore per portare il Paese verso la realizzazione del bene comune. Le speranze di un’intera ge-

bile e auspicabile una convergenza dei centristi nella lista del Pdl per le elezioni politiche. Sono quindi un po’ dispiaciuto e disorientato, avendo grande stima e simpatia sia per Berlusconi sia per Casini. Il rischio, doloroso. e che si crei una stagione di insulti e di veleni tra forze alternative alla sinistra, appartenenti alla comune casa europea del Ppe. Anni fa ero pure iscritto al Ccd-Democratici di centro, e a quel tempo tra Berlusconi e Casini splendeva il sereno... quanta acqua sotto i ponti! Ho l’impressione che si sia persa una grande opportunità e mi piacerebbe invitare ancora Berlusconi e Casini a ritrovare lo spirito di un tempo. Ma la campagna elettorale è ormai iniziata. Non mi rimane che attendere i prossimi eventi, con il timore che la fuoriuscita dell’Udc possa indebolire il ruolo e l’influenza dei democratici-cristiani all’interno del centrodestra.

nerazione di giovani, le nostre speranze e quelle dei nostri bimbi, si stanno infrangendo nell’individualismo e nell’autoreferenzialità che affligge la nostra politica sempre più lontana dalla realtà che la circonda. Negli ultimi quattordici anni, nella cosiddetta II Repubblica, la scena politica è stata caratterizzata da aspri ed irrisolti contrasti, politici ed istituzionali, che hanno minato le basi della nostra democrazia proprio in ragione dell’assenza di peso specifico del centro moderato, diviso tra i due schieramenti, privato della capacità di essere ammortizzatore dei conflitti in atto. La vicenda che in questi ultimissimi giorni ha caratterizzato l’ex alleanza di centrodestra sembra avviare un processo di definitivo riassetto degli equilibri politici all’interno del nostro sistema partitico. Se da un lato il centrosinistra cerca di marginalizzare la sinistra radicale per esprimere una maggiore capacità di affidabilità, nel centrodestra, invece, assistiamo alla marginalizzazione della forza più moderata con sbilanciamento della compagine a destra. In un Paese caratterizzato da un elettorato a maggioranza mo-

A Roma il centrosinistra legittima l’illegalità diffusa Roma. Municipio IV. Cinque giorni fa, la ri-occupazione del Cinema Astra. L’ennesima conferma di quanto nel territorio di Montesacro siano leggittimati dalle istituzioni gli abusi e l’illegalità diffusa. Non bastava l’Horus Club di Piazza Sempione, l’ex commissariato di viale Gottardo e i Casali di Vigne Nuove: i soliti noti, proprio alla vigilia di un’intensa campagna elettorale, hanno ben pensato di commettere l’ennesimo abuso, sicuri della tutela di ’certi personaggi’ in seno alle istituzioni. Alcuni cittadini si stanno organizzando in comitati spontanei per la sicurezza di Montesacro. Auspichiamo che il rinnovo del Consiglio Municipale, nella prossima scadenza elettorale, veda la vittoria del centrodestra, unica formazione che ha dimostrato di avere veramente a cuore la legalità e la sicurezza dei cittadini.

Alfredo Caputo - Roma

derato si rischia di assistere impotenti allo svuotamento del centro in favore di formazioni politiche degne ma prive di quella vera tradizione popolare, liberale, democratica e cristiana che ha fatto grande l’Italia. E’arrivato il momento di riscoprire con orgoglio le proprie radici, rialzare la testa e proporre i vecchi ideali incarnati da facce serie, capaci di guidare il nostro Paese fuori dal pantano. Ignazio Lagrotta LIBERAL CLUB BARI

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 22 FEBBRAIO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog ”Io, vicino a voi così Taciturno” Avendovi detto questa mattina che vi amavo, mia vicina di ieri sera, provo ora meno vergogna a scrivervelo. L’avevo già capito quel giorno a colazione a Nizza nella città vecchia, quando i vostri grandi e begli occhi di cerbiatta mi avevano cosi turbato che me ne ero andato al più presto per evitare la vertigine che mi procuravano. E quello sguardo che rivedo dovunque, piuttosto che i vostri occhi di questa notte di cui il mio ricordo ritrova soprattutto la forma e non lo sguardo. Di questa notte benedetta ho soprattutto conservato davanti agli occhi il ricordo dell’arco teso della bocca semiaperta di giovane fanciulla, di una bocca fresca e ridente, che proferiva le cose più ragionevoli e più spirituali con un suono di voce cosi incantatore che, con lo spavento e il dispiacere in cui ci gettano i desideri impossibili, sognavo che vicino a una Luisa come voi, non avrei voluto essere nient’altro che il Taciturno. Guillaume Apollinaire a Louise de Coligny-Chatillon

La fonte permanente del progresso è la libertà L’iniziazione alle cose sagge e nobili viene prevalentemente dagli individui, specie se isolati. La fonte infallibile e permanente del progresso è la libertà: ogni individuo libero è un potenziale centro indipendente d’avanzamento. L’individuo in possesso delle piene facoltà è sovrano sul suo corpo e sulla sua mente, come pure nella ricerca della sua felicità, con l’unico limite di non danneggiare gli altri. Un individuo ha diritto di manifestare il suo pensiero anche se tutti gli altri abbiano opinioni opposte. L’eresia favorisce il progresso intellettuale: la verità trae vantaggio da chi pensa con la propria testa, anche quando sbaglia. Poiché gli esseri umani sono imperfetti, è bene che esistano opinioni e azioni differenti, ossia che si sperimentino diversi modi di vivere, specie se originali rispetto a tradizioni e consuetudini. Gli individui – i quali rifiutino di degradarsi a pecore questuanti, sottomesse ad uno Stato pastore - gestiscono i propri affari, si elevano moralmente e intellettualmente, sono spesso efficienti e costituiscono una garanzia contro la tirannide.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

E’ dannosa la crescente inclinazione ad estendere i poteri (quasi tirannici) della società, della tradizione, della consuetudine, dell’opinione pubblica e della legislazione sulla persona, che si trova vieppiù obbligata a vivere secondo regole di condotta imposte da altri. Così si determinano torpore, conformismo, mediocrità collettiva, dominio della numerosità, aggiogamento mentale, mimetismo nella folla e nella massa; nonché carenze d’impulsi, di preferenze individuali e di gusti peculiari. Il servilismo verso i potenti spinge le persone ad emarginare e bollare gli eccentrici (Cfr. le opere dell’apostolo della libertà John Stuart Mill).

Gianfranco Nìbale

Il centrodestra dovrebbe correre sempre compatto Non sono di Fi e nemmeno di An (lasciata da due anni). Alle prossime elezioni, sulla scia del consiglio di Montanelli del ’74, mi turerò il naso e voterò Pdl. Cosa faranno i vari Storace, Mastella,Tabacci, De Michelis, ecc e loro eventuali elettori? In nome e per conto della identità di partito, correranno da soli. Serve ripeterlo? No, serve ricordarlo, quando al centrodestra si farà fatica a governare, ”onestà vorrà che si volle il muoia Sansone con tutti i filistei”. Hanno vissuto all’ombra del carro berlusconiano e quando si è detto corriamo insieme, ecco il risultato. Ma gli elettori, nelle urne, ricorderanno che i due partiti più grandi hanno fatto il sacrificio e gli altri, della summa intelligenza di centrodestra, di sacrificio non ne vogliono sentir parlare, chi con una scusa e chi con un’altra. Spero che tutti insieme, noi, si sia all’altezza di lasciar loro un bel ricordo elettorale: non possiamo far altro.

Leopoldo Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)

PUNTURE Con molta probabilità Vincenzo Visco non sarà candidato dal Pd. Enrico Morando l’ha spiegata così: “C’è un rovesciamento del vecchio slogan, quello del governo Prodi: pagare tutto per pagare meno. Oggi noi possiamo dire e diciamo: pagare meno e pagare tutti”. Intanto, Visco paga per tutti.

Giancristiano Desiderio

Ai furfanti manca sempre qualche cosa: quando sono perfetti diventano brava gente! GEROLAMO ROVETTA

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di CINEMA E LETTERATURA Non si tratta unicamente di fotogrammi e parole, di voce ed immagine, di racconto scritto e mostrato, si tratta di due linguaggi diversi, ma complementari, che al lettore o allo spettatore, sembrano ”semplici macchine” per raccontare storie. Cinema e letteratura: ne parlo perché sta per uscire un film tratto da uno dei libri che più mi hanno emozionato e commosso ultimamente, “Il cacciatore di Aquiloni” di Khaled Hosseini. Il libro racconta la storia di due bambini afgani Amir e Hassan di etnia ed estrazione sociale diverse, il primo hazara, il secondo pashtun e di come si snoderanno le loro vite, dopo che una terribile violenza li vede protagonisti: lo stupro di Hassan, a cui Amir assiste senza intervenire. Questa è la chiave di tutto il romanzo, che diventa metafora per narrare le tragedie di quella terra straziata, da guerre fratricide, invasioni e regimi dusumani. Lo stesso Hosseini considera il suo libro una potente metafora: “Hassan lo stuprato rappresenta l’Afghanistan; Amir che guarda e non interviene, la comunità internazionale, che è sempre rimasta alla finestra mentre il mio paese veniva brutalizzato da un regime dopo l’altro”. Un libro, quindi pieno di pathos e significati profondi , che coinvolge in modo straordinario il lettore. Cinema e letteratura, pur essendo due arti distinte, hanno un rapporto di osmosi, di compenetrazione e a volte di contrapposizione, non fosse altro, perché la maggior parte dell’opera cinematografica s’ispira o è tratta dall’opera lette-

Società Editrice Edizione de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Poligrafico Europa s.r.l. Paderno Dugnano (Milano) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania

raria. Le connessioni e le contaminazioni e gli esempi sono innumerevoli nella storia del cinema e si potrebbe andare avanti all’infinto a parlarne. Il legame fra le due arti è così stretto che spesso non si può fare a meno di fare confronti (…).

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ARRIVA ZOLLITSCH, IL PROGRESSISTA Il Cattolicesimo democratico tedesco ha nuovamente il suo eroe. Si chiama Robert Zollitsch, è arcivescovo di Friburgo ed è stato eletto al vertice della conferenza episcopale tedesca all’indomani delle dimissioni dell’anziano cardinale Karl Lehmann, anche lui su posizioni progressiste. Eppure, fino all’ultimo si era scommesso che a dovergli succedere sarebbe stato il conservatore arcivescovo di Monaco Reinhard Marx, assai più gradito alla Curia romana. Ecco perchè l’investitura di Zollitsch è stata accolta dall’intera opinione pubblica come un fulmine a ciel sereno. La scelta assume comunque un forte valore simbolico, giacché Zollitsch, presto settantenne, guiderà la Chiesa tedesca per un solo mandato (della durata di sei anni), lavorando cioè nella continuità con il suo predecessore e, in qualità di ottimo diplomatico, tentando di mediare tra le varie correnti interne. Zollitsch sarà insomma un presidente ad interim, incaricato di traghettare la comunità cattolica verso una nuova era dopo quella di circa vent’anni dominata dalla figura di Lehmann (…).

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PAGINAVENTIQUATTRO Ricostruire un’immagine screditata? Christophe Reille può

I miei clienti sono BRUTTI E SPORCHI di Francesca Pierantozzi PARIGI. Rende simpatici i cattivi. Restituisce umanità ai mostri. Instilla il terribile dubbio della presunzione d’innocenza nella pubblica opinione. Nella giungla dei media e dei processi sommari, Christophe Reille si è inventato un mestiere destinato a sicuro successo: consulente in comunicazione per colpevoli mediatici. La maggior parte dei suoi clienti sono brutti, sporchi, cattivi e pieni di soldi, quasi sempre accusati di aver rubato ai poveri per dare ai ricchi, sono i potenti incastrati dai magistrati, quelli che non destano compassione, quelli che non si aspetta la sentenza per stabilire che sono colpevoli, i capri espiatori a nove colonne. Ex giornalista specializzato in economia, già consigliere tecnico al ministero dell’Industria e del Commercio Estero, poi direttore delle relazioni esterne del gruppo Vivendi quindi di Fiat Francia, Reille ha cominciato a lavorare come consulente in comunicazione nel 2001. Ha consigliato Noël Forgeard, l’ex presidente del gruppo aeronautico Eads, partito con un’indennità miliardaria da record in piena crisi per il ritardo della costruzione dell’Airbus 380. Ha tolto dalle fauci di un’opinione pubblica assetata di sangue Antoine Zachiarias, ex presidente del colosso edile Vinci, anche lui licenziato con una liquidazione miliardaria. È riuscito a rendere (quasi) presentabile persino l’oligarca russo Mikhail Prokhorov, indagato in Francia per un affare di prostituzione. L’ultimo ad aver beneficiato dei suoi consigli è stato Jérôme Kerviel, il trader della Société Générale accusato della maxi frode da 50 miliardi di euro. Kerviel è sempre in carcere, le accuse di falso, abuso di fiducia, intrusione informatica restano, ma Reille è riuscito a togliergli di dosso l’immagine di nemico pubblico numero uno del mondo della finanza e dei poveri ignari azionisti, di individuo disturbato, instabile e suicidario, unico, incosciente, planetario responsabile della crisi della terza banca di Francia, personificazione di un capitalismo senza scrupoli. Reille lo ha «ripulito», lo ha vestito con una chiara camicia a quadretti e lo ha fatto parlare con un giornalista dell’Agence France Presse, per mostrare che il giovane Kerviel è tranquillo, ben educato, timido, cosciente dei suoi errori, capace di spiegare il

suo operato e di assicurare di non essere l’unico colpevole della voragine nei conti di Société Générale. In un mondo in cui le battaglie giudiziarie non si combattono più soltanto in tribunale, al cospetto della Giustizia, ma soprattutto sulla pubblica piazza, nei giornali, in tv e davanti all’opinione pubblica, il ruolo di Reille è spesso più decisivo di quello del povero avvocato. Nel caso di Kerviel contro Société Générale, per esempio, Reille ha dovuto far fronte ad una vera armata di consulenti in comunicazione ingaggiata dalla banca francese, per far passare il messaggio: «abbiamo un buco di 5 mi-

liardi di euro, siamo stati imbrogliati, è tutta colpa di Jérome Kerviel». «Bisognava mettere fine alla caccia all’uomo dei fotografi e a tutte le speculazioni ridicole provocate dall’unica foto - una foto tessere del suo curriculum - che era stata pubblicata. Bisognava mostrare all’opinione pubblica che Kerviel non si nascondeva, che non si era dato alla fuga e che era in buona salute» ha spiegato Reille. Ci sono alcuni dossier giudiziari «che provocano una fortissima emozione, per cui non bastano le risposte secche che dà la giustizia» continua. Reille affianca gli avvocati muovendosi in quello stretto limbo delimitato dal secreto d’istruzione di un’inchiesta in corso. Purtroppo «una persona indagata diventa subito un presunto colpevole» deplora Reille, assicurando che «l’opinione pubblica sa bene che cos’è l’innocenza ma non la presunzione di innocenza». E molto spesso gli avvocati «che devono consacrarsi alla preparazione della difesa» non sono in grado «di occuparsi anche delle relazioni esterne del loro cliente». «È inutile farsi illusioni - conclude Reille - Oggi le regole del diritto e quelle dell’opinione pubblica non corrispondono più. Forse esagero, ma direi che è diventato praticamente necessario truccarsi prima di essere interrogato dalla polizia o da un giudice d’istruzione. Dopo qualche giorno i verbali si ritrovano nella stampa, quasi fossero delle interviste».

Orson Welles (a sinistra) e un’immagine del film “Quarto potere”

MA RICCHI La maggior parte sono accusati di aver rubato ai poveri per dare ai potenti, sono i “big” incastrati dai magistrati, quelli che non destano compassione, quelli che non si aspetta la sentenza per stabilire che sono colpevoli, i capri espiatori a nove colonne

L’obiettivo di Reille è semplice: anche chi si macchia delle colpe più riprovevoli è spesso vittima di un sistema più grande di lui e là dove i media non cercano che un colpevole o un capro espiatorio, esistono meccanismi più complessi non sempre riducibili alla misura delle nove colonne.


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