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DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

NordSud di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

CINQUE PAGINE SPECIALI

Il declino? È la classe dirigente Raffaele Bonanni, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Gianfranco Polillo

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politica

ELEZIONI AMERICANE

NAPOLITANO CONSULTA MA RESTA IL BUIO

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

Ci schieriamo. McCain e Obama: per noi la migliore sfida finale è questa.

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di Errico Novi

minaccia Iran L’OCCIDENTE È SEMPRE STRABICO

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di Aldo Forbice

afghanistan

Può vincere? È più dura per Barack: deve battere l’odioso clan dei Clinton. A cominciare oggi dalla Florida...

VIAGGIO NEL CUORE DELLA JIHAD a pagina 10

di Rossella Fabiani

poteri

L’UNIONE E LE NOMINE DELL’INPS a pagina 18

di Giuliano Cazzola

economia

ALLARME BANKITALIA SUI REDDITI di Francesco Pacifico

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cultura

DENTRO LA PITTURA DELL’ULTIMO TIZIANO Marco Vallora

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ISSN 1827-8817 80129

pagine 2, 3, 4 e 5

9 771827 881004

QUOTIDIANO • 29

GENNAIO

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

13 •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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America

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Il vero potere di un presidente sul mondo è quello di aprire orizzonti e condizionare orientamenti e speranze

Il duello migliore? Tra McCain e Obama di Renzo Foa isti da lontano, dall’altra sponda dell’Oceano, il democratico Barak Obama e il repubblicano John McCain sembrano i due candidati migliori nella lotta per la Casa Bianca, che in questi giorni sta completando la fase iniziale delle primarie. È vero che sono sempre stati gli americani a decidere il loro presidente e che l’opinione del mondo ha sempre contato poco. Basti ricordare che quattro anni fa, nella vecchia Europa, ci fu un’ondata di tifo senza precedenti per John Kerry. Se si fosse votato in Germania, in Francia o in Italia avrebbe vinto lui. Invece accadde che George W. Bush conquistò il suo secondo mandato con una massiccia percentuale di consensi. Ma è anche vero che un presidente degli Stati Uniti, per quanto costretto a rispondere in primo luogo alla propria opinione pubblica, è un personaggio da cui dipende, direttamente o indirettamente, la sorte del mondo. Ovviamente non penso solo agli equilibri geopolitici o ai conflitti aperti sui quali le scelte di Wahington, per la potenza che esprime, pesano più di tutto e continueranno a pesare in un ragionevole futuro. Penso soprattutto all’altro enorme potere che l’America ha da sempre: quello di condizionare orientamenti e speranze e di aprire orizzonti. Vengono in mente, per restare all’ultimo mezzo secolo, i nomi di John Kennedy e di Ronald Reagan. È dunque giusto esprimere qualche attesa.

V

La prima attesa è quella di una possibile competizione fra Barak Obama e John McCain. Entrambi devono vedersela l’uno con Hillary Clinton e l’altro con Mitt Romney. E sembra uno scontro all’ultimo voto, dall’esito incerto. Del senatore dell’Illinois è già stato scritto e detto tutto. È stato esaltato il suo carisma, si è sottolineato il fatto simbolico che è il primo aspirante nero alla Casa Bianca, ma si è insistito soprattutto sulla novità di una figura più giovane, capace quindi di guardare con altri occhi al mondo che c’è. Quest’ultimo è il fattore-chiave su cui si può spendere qualche parola in più, se non altro vedendo il fenomeno da un’Europa ferma e statica e, in particolare, da un’Italia dove il ricambio delle leadership è da tempo una chimera. Si tratta di un messaggio analogo a quello che ha trasmesso, oltre i confini francesi, Nicolas Sarkozy con il suo dinamismo e la sua energia, dopo essersi presentato come l’alternativa al dinosauro Chirac. L’irruzione di Obama ha lo stesso significato, il cui peso può anche essere con-

siderato superiore al valore di una scelta fondata sugli orientamenti politici. La sua competizione con Hillary Clinton ha questo senso: da una parte una new entry, dall’altra una figura che sta al vertice del potere dal 1992 e che in caso di

amministrazioni democratiche che a quelle repubblicane. A tutti i tentativi di appropriazione indebita, compiuti soprattutto qui in Europa, si possono facilmente contrapporre non solo le varie rivendicazioni dell’”unilateralismo” fatte da Clinton

Il senatore dell’Ilinois può diventare il simbolo

di un ricambio di leadership, come quello che ha impersonato in Francia Nicolas Sarkozy. Se battesse Hillary spezzerebbe il minuetto dinastico Bush-Clinton. Il senatore dell’Arizona è a sua volta un protagonista di una forte visione internazionalista

elezione ci starebbe per un ventennio. Una figura, oltretutto, che incarna l’ormai eterna lotta dinastica tra le due famiglie presidenziali americane, i Bush e appunto i Clinton. Cioè un segnale globale di mancanza di ricambio. Un alibi per l’inamovibilità delle classi dirigenti.

Non credo che la senatrice di New York sia più o meno affidabile di Obama o di McCain, per quello che riguarda il rapporto dell’America con il mondo. Questo rapporto, dopo il 1989, ha assunto forme di stabilità, comuni sia alle

presidente, ma anche i discorsi fin qui pronunciati dal senatore dell’Illinois. La debolezza di Hillary, vista da lontano, sta proprio nell’immagine di una nomenclatura senza possibili ricambi, di un cuore dell’Occidente fermo alle personalità che hanno segnato una ormai lunga stagione. Un mondo che cambia non può presentarsi sempre con le stesse leadership. Se non altro perché darebbe l’immagine opposta, cioè quella di un mondo fermo. Quanto a McCain, sarebbe un ottimo candidato (e quasi certamente un ottimo presidente) per una storia personale

Gli auguri di Napolitano a liberal Abbiamo ricevuto ieri questo telegramma dal Quirinale: «I migliori auguri, a nome del Presidente della Repubblica e miei personali, per la scelta editoriale della edizione quotidiana di liberal che va ad ampliare il panorama dei media e ad accrescere il pluralismo dell’informazione nel nostro Paese. Firmato: Pasquale Cascella, cosigliere del presidente della Repubblica per la stampa e l’informazione». Da liberal un doppio ringraziamento a Giorgio Napolitano per gli auguri che ci ha inviato e per aver trovato il tempo di farlo nel pieno dei suoi decisivi impegni istituzionali durante questa crisi di governo.

e politica che – anche in questo caso vista da fuori – riflette la tradizione più importante che l’America ha ereditato dal suo Novecento, quella internazionalista. Ed è la sua visione del mondo a dirci che gli Stati Uniti, anche con un ricambio alla Casa Bianca, non rinuncerebbero ad esercitare il loro peso. Mitt Romney, che ha mostrato di avere un crescente appeal sull’elettorato e che riflette un filone importante della recente storia de Partito repubblicano, sembra invece appartenere a quella leadership americana più concentrata sui grandi problemi domestici. È probabile l’opinione pubblica lo apprezzi anche per questo. Ma se rileggiamo la storia del rapporto dell’America con il mondo nell’ultimo mezzo secolo, ci accorgiamo che ogni volta che si sono affermate a Washington visione più concentrate sugli affari interni, si sono creati squilibri globali maggiori rispetto agli squilibri provocati da eccessi, che pure ci sono stati, di interventismo.

Queste, in sintesi, le ragioni per le quali un duello tra Obama e McCain darebbe al mondo l’immagine di un’America rivitalizzata, in grado di trasmettere messaggi a tutto campo e di allargare gli orizzonti dell’Occidente. Infine, a mo’ di post scriptum vorrei segnalare un candidato che manca. Parlo di Condoleezza Rice, il segretario di Stato di George W. Bush, diplomatica di valore, politica capace ed espressione in carne ed ossa delle chances che l’America di oggi riconosce a tutti, selezionando il valore e la capacità delle persone, che si tratti di bianchi o neri, di donne o di uomini. Delle personalità che hanno contraddistinto l’amministrazione repubblicana uscente la Rice è stata probabilmente la più forte, non solo quanto ad immagine, ma anche quanto alla visione che ha espresso nei momenti più difficili della crisi irachena e in un momento nel quale gli Stati Uniti si sono trovati nel pieno di una profonda crisi di fiducia con parti importanti del mondo, innanzitutto con parti importanti dell’Occidente. A lei – e non soltanto al generale Petraeus – è sembrato andare il maggior merito di una svolta, grazie alla quale anche l’Europa ha finito con il serrare i rapporti con l’altra sponda dell’Oceano. Ma non è candidata. Così come non è candidato, nonostante annunci e smenite, l’attuale sindaco di New York, Michael Bloomberg, che potrebbe essere a novembre il terzo incomodo della gara. E “i terzi incomodi”, come è sempre accaduto, rendono ancora più interessante, per il mondo, la competizione per la Casa Bianca.


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e fossi musulmano ve lo direi», dice Barack Obama. E io gli credo. In effetti, egli è un cristiano praticante, un membro della Trinity United Church of Christ. Attualmente non è un musulmano. Ma Obama lo è mai stato o è stato considerato tale dagli altri? Più precisamente, i musulmani potrebbero considerarlo un murtadd (un apostata), vale a dire un musulmano convertitosi a un’altra religione e, quindi, qualcuno il cui sangue potrebbe essere versato? Il candidato alla soglia presidenziale americana ha rilasciato due importanti dichiarazioni a riguardo. Sul sito web della sua campagna elettorale è stata pubblicata una dichiarazione del 12 novembre così titolata: «Barack Obama non è mai stato un musulmano», e poi: «Obama non ha mai pregato in una moschea. Non è mai stato un musulmano, non ha ricevuto un’educazione musulmana, ed è un devoto cristiano». Poi, il 22 dicembre, nell’inatteso scenario del Smoky Row Coffee Shop di Oskaloosa, in Iowa, mangiucchiando una fetta di torta di zucca e bevendo del tè con quattro abitanti del luogo, Obama ha fornito su questo argomento molti più dettagli rispetto a quanto abbia mai fatto prima. Alla domanda in merito al suo retaggio musulmano, egli ha così replicato: «Mio padre era originario del Kenya e molta gente del suo villaggio era musulmana. Non professava l’Islam. A dire il vero, non era molto religioso. Poi incontrò mia madre, una cristiana del Kansas. Si sposarono e divorziarono. È stata mia madre a pensare alla mia educazione. Pertanto, sono sempre stato un cristiano. L’unico legame che abbia mai avuto con l’Islam è la provenienza keniota di mio nonno paterno. Ma io non ho mai professato l’Islam (…) Per un po’sono vissuto in Indonesia, visto che mia madre insegnava lì. E quello è un paese musulmano. Frequentai le scuole indonesiane. Ma non fui un osservante della fede islamica. Credo, però, che ciò mi permetta di capire come la pensi questa gente, che condivide in parte il mio pensiero, vale a dire che si possono instaurare migliori rapporti con il Medio Oriente e ciò contribuirebbe a renderci più sicuri, se noi potessimo capire come loro la pensino a riguardo».

«Sono sempre stato cristiano» ha detto Obama, puntando sul fatto che sin da bambino non è mai stato un osservante della fede islamica, per negare così ogni legame con l’Islam. Ma i musulmani non reputano che la professione della fede islamica sia di capitale importanza. Per essi,

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La presunta conversione di Obama e i possibili risvolti internazionali

Barack l’apostata, il mistero pericoloso di Daniel Pipes chi è nato da padre musulmano è un musulmano di nascita. Inoltre, tutti i bambini che portano un nome arabo basato sulla radice trilaterale H, S,N (Hussein Hassan e altri nomi) possono essere considerati musulmani. Pertanto, a loro dire, basta considerare il nome completo di Obama: Barack Hussein Obama per affermare che è musulmano di nascita. Inoltre, familiari e amici lo hanno considerato musulmano sin da bambino. Nell’articolo dal titolo «Obama Debunks Claim About Islamic School», il 24 gennaio 2007, Nedra Pickler dell’Associated Press scriveva: «La madre di Obama divorziò dal padre di Obama per poi sposare un uomo indonesiano, Lolo Soetoro, e la famiglia si trasferì in Indonesia dal 1967 al 1971. Dapprincipio, Obama frequentò la scuola cattolica ”San Francesco di Assisi”, e in base alla documentazione presentata fu iscritto come musulmano, la religione del suo patrigno. La documentazione richiedeva che al momento dell’iscrizione ogni allievo scegliesse una delle 5 religioni di Stato: musulmana, indù, buddista, cattolica o protestante. A questa domanda, il capo addetto stampa di Obama, Robert Gibbs, replicò facendo sapere a Pickler che non aveva la certezza di cono-

scere il motivo per il quale nel documento Obama risultava essere musulmano».

Due mesi dopo, Paul Watson del Los Angeles Times (articolo disponibile on-line in una ristampa del Baltimore Sun) riportò che dal sito web della campagna di Obama era scomparsa quella dichiarazione assoluta e ne apparve una più sfumata: «Obama non è mai stato un musulmano praticante». Il Times ha approfondito la questione e ne ha saputo di più riguardo il suo interludio indonesiano: «I suoi ex insegnanti cattolici e musulmani, insieme a due persone identificate dal maestro della scuola elementare frequentata da Obama come amici di infanzia, affermano che Obama è stato iscritto dalla sua famiglia come musulmano in entrambe le scuole frequentate. Quella iscrizione implicava che, ai tempi della terza e della quarta elementare, Obama apprendeva l’insegnamento dell’Islam per due ore alla settimana frequentando una classe religiosa. Gli amici di infanzia dicono che talvolta Obama si recava a recitare le preghiere del venerdì nella locale moschea». «Pregavamo, ma non sul serio, limitandoci a imitare i gesti compiuti

dagli adulti presenti nella moschea», ha chiosato Zulfin Adi. «Ma da bambini amavamo incontrare i nostri amici e ci recavamo insieme in moschea, e giocavamo». La sorella più giovane di Obama, Maya Soetoro, in una dichiarazione rilasciata in occasione della campagna elettorale ha affermato che la famiglia frequentava la moschea esclusivamente «per gli eventi comunitari» e non ogni venerdì. Rievocando i tempi del soggiorno di Obama in Indonesia, il resoconto del Times afferma che Obama: «si recava in moschea» e che «era musulmano».

Sintetizzate, le prove disponibili stanno a indicare che Obama era musulmano di nascita, di padre non praticante e che per alcuni anni ricevette una educazione sufficientemente musulmana, sotto gli auspici del patrigno indonesiano. A un certo punto, si convertì al Cristianesimo. Sembrerebbe falso asserire, come ha fatto Obama: «Sono sempre stato un cristiano» e «Non ho mai professato l’Islam». Non si può essere cos’ dilettanteschi (o ingannevoli) da affermare che: «Obama non ha mai pregato in una moschea». Implicazioni della conversione di Obama. In poche parole, la conversione di Obama a

Il candidato democratico nega di essere stato musulmano. Ma come reagirebbe l’Islam fondamentalista?

un’altra fede religiosa fa di lui un murtadd.Detto questo, la punizione per l’apostasia commessa da un bambino è meno severa rispetto a quella inflitta agli adulti. Come fa rilevare Robert Spencer, «in base alla legge islamica un apostata di sesso maschile non è mandato a morte, se non raggiunge la pubertà» (cfr.‘Umdat al-Salik o8.2; Hidayah, vol. II, p. 246). Qualcuno, però, reputa che egli dovrebbe essere imprigionato fino al raggiungimento dell’età adolescenziale e poi «invitato» ad accettare l’Islam, ma ufficialmente la pena di morte per i giovani apostati è vietata.

Il lato positivo è che se Obama venisse accusato apertamente di apostasia, ciò solleverebbe la questione del diritto di un musulmano a cambiare religione, facendo sì che un argomento da sempre marginale diventi primario e centrale, magari a beneficio di quei musulmani che tentano di dichiararsi atei o di convertirsi a un’altra religione. Ma se i musulmani considerassero Obama un murtadd, ciò avrebbe delle grosse conseguenze per la sua presidenza? L’unico precedente in grado di rispondere a simile interrogativo è il caso di Carlos Saúl Menem, presidente dell’Argentina dal 1989 al 1999. Figlio di due immigrati siriani musulmani e marito di un’altra siro-argentina, Zulema Fátima Yoma, Menem si convertì al Cattolicesimo. Sua moglie disse pubblicamente che Menem abiurò l’Islam per motivi politici – poiché fino al 1994 la legge argentina esigeva che il Capo dello Stato fosse membro della Chiesa. Dal punto di vista musulmano – si veda il NYT dell’8 gennaio 1989 – la conversione di Menem è peggiore di quella di Obama, essendo opera di un adulto. Tuttavia, Menem non è stato minacciato né ha dovuto pagare lo scotto del cambiamento di religione, perfino durante il suo viaggio nei paesi a maggioranza musulmana, in Siria in particolare. Ma una cosa è essere Presidente dell’Argentina negli anni Novanta e un’altra è essere Presidente degli Stati Uniti nel 2009. Non si dovrebbe scartare l’ipotesi che qualche islamista lo rinnegherebbe per il fatto che sia un murtadd e tenterebbe di giustiziarlo. Ma vista la bolla protettiva che circonda un presidente americano, questa minaccia, presumibilmente, non lo distoglierebbe dall’assolvimento delle sue mansioni. Cosa più importante, in che modo reagirebbero i musulmani più tradizionali? Sarebbero furiosi per la sua apostasia? Il rischio di una reazione incontrollabile è una possibilità reale, che metterebbe in serio pericolo qualsiasi sua iniziativa rivolta al mondo musulmano.


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America

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Il senatore dell’Arizona è un leader che non divide. E per questo piace anche ai democratici

McCain,l’uomo dell’equilibrio che potrebbe salvare i repubblicani di Gennaro Malgieri on so se possa definirsi “conservatore” nel senso più proprio del termine, ma tra i candidati repubblicani è certamente quello che

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più ci si avvicina. John McCain non è un reaganiano “classico”, né un seguace fedele delle idee di Russell Kirk e non ha neppure il carisma, né la statura politica di Barry Goldwater. Certo è che la sua storia, la sua idea di America, la visione strategica del suo Paese nel mondo lo pone nell’ambito di quello che potremmo definire “conservatorismo diffuso”. E, per di più, lo fa percepire non solo ai suoi elettori, ma alla più vasta opinione pubblica non schierata, indipendente, come l’erede migliore della grande tradizione repubblicana. Non a caso ha ottenuto un rating di gradimento dalConservative l’American Union dell’82.3%, assai confortante.

E sempre non per caso, dopo le prime prove negli Stati dove pure non partiva favorito, i sostenitori del Grand Old Party gli hanno conferito una fiducia ben al di là delle aspettative, relegando di fatto in posizioni subalterne candidati di rango che mi-

nacciavano sfracelli alla vigilia delle primarie. Huckabee, Romney, Giuliani già comprendono che la lotta con McCain è diventata impari. E sono, senza dubbio, meno conservatori del favorito. Ciò significa che il partito repubblicano sta sbiadendo le sue connotazioni ideologiche per aprirsi a fasce di elettorato che chiedono sicurezza interna, leadership internazionale salda, competitività economica, ma anche soluzioni più eque della questione sociale. Insomma, un po’ più di solidarietà senza rinunciare alle garanzie di libertà messe a dura prova dalle discutibili leggi dettate dalla guerra al terrorismo. McCain non ha, con tutta evidenza, una vi-

sione ideologica della politica. E’ e rimane un combattente, un soldato, anche se non indossa più l’uniforme. E’ apprezzato al di là del partito perché è uomo che non divide, a differenza di

in grado di intercettare i consensi di chi non vede di buon occhio suoi compagni di partito foraggiati dalle industrie petrolifere e da comparti produttivi altamente inquinanti. In considerazione di quest’ultimo aspetto, McCain viene ritenuto come un “conservatore ecologista”, categoria soltanto all’apparenza nuova nella galassia politica americana, in realtà essa è molto presente in quegli ambienti repubblicani più colti, inclini a considerare la salvaguardia dell’ambiente uno dei caposaldi del conservatorismo, come sottolinea lo studioso britannico Roger Scruton.

Quanto alla guerra in Iraq, McCain inizialmente critico con l’amministrazione della Casa Bianca per la gestione dell’intervento, ha finito per appoggiarla ma, contemporaneamente, chiede un graduale disimpegno, terminata la fase di “normalizzazione” civile e politica, pur ritenendo che la guerra al terrorismo resti tra le priorità statunitensi. Tanto è vero che attaccando Hillary Clinton ha detto: “E’ la prima volta nella storia che qualcuno fa campagna elettorale con la promessa di arrendersi in una guerra”. Laddove McCain si differenzia dai “falchi” di Bush e dai cosiddetti neoconservatori è nell’utilizzo della tortura dei prigionieri di guerra da lui ritenuta una barbarie, mentre nell’estabishment della presidenza la si è più volte giustificata, così come si è giustificato il campo di concentramento di Guantanamo che ospita terroristi talebani e loro affiliati o soltanto sospettati di esserlo. Il New York Times gli ha dato atto che “da genuino eroe di guerra, McCain difende con passione il trattamento umano dei pri-

L’unico vero conservatore su piazza sarebbe Dick Cheney. Ma McCain è l’unico in grado di fondere le varie anime del partito. Proprio come riuscì a fare Ronald Reagan George Bush, come ha rilevato il New York Times che lo ha designato “presidenziabile” insieme con Hillary Clinton (ma Obama non si arrende, come ha dimostrato in South Carolina sabato scorso).

In effetti il senatore dell’Arizona viene considerato dall’opinione pubblica come un politico fedele ai propri principii, nazionalista illuminato, anzi patriota a tutti gli effetti, ambientalista come pochi tra i repubblicani e quindi

gionieri”. Gli americani apprezzano. E’ un nuovo tipo di conservatore o non è affatto un conservatore il senatore dell’Arizona, che già oggi in Florida e poi nel Supermartedì vorrebbe ipotecare la propria nomination? L’interrogativo circola vorticosamente. Il punto d’arrivo è sempre lo stesso: il solo conservatore “duro e puro” sulla piazza, secondo gli standard abituali, sarebbe Dick Cheney. Ma quanti voti prenderebbe? Il più stretto collaboratore di Bush perderebbe certamente


America Bush perderebbe certamente tanto contro Obama che contro la Clinton. Meglio lasciar perdere e concentrarsi su una nuova figura di leader repubblicano, McCain appunto, del quale tutto si può dire tranne che non incarni i valori dell’America profonda, a meno di non considerare tra questi l’ambientalismo e la tolleranza nei confronti degli immigrati. Due questioni che hanno logorato l’amministrazione Bush il cui “fondamentalismo” ha finito per stancare. L’atteggiamento di McCain, per quanto in controtendenza rispetto alla visione che si ha dei repubblicani, è di distensione e di “pacificazione”. Proprio come quello che mostrò Reagan convincendo a votare per lui cospicui settori di “sinistra” stanchi delle politiche stataliste dei democratici alla Carter. I migliori repubblicani del secolo scorso sono stati quelli che hanno saputo comprendere lo spirito del loro tempo e coniugarlo con i principii irrinunciabili del patrimonio politico e culturale a cui aderivano. Avere nostalgia di Reagan, come Bill Kristol ha definito sul Weekly Standard, il fenomeno che segna gruppi influenti del partito, è improprio, significa chiudersi ai mutamenti in corso nella società americana. Di più. Secondo Kristol “è stupido aspettare un altro Reagan, ma non solo perchè le sue abilità politiche sono rare, ma anche perché c’è una cosa eccezionale di Reagan che molti dimenticano: è stato l’unico presidente del secolo scorso a essere stato eletto in quanto leader di un movimento ideologico”. E a ragione. Nel mondo si combatteva l’ultimo scampolo, quello decisivo, di una guerra ideologica durata più di quarant’anni. Reagan non poteva che esserne l’alfiere in quanto leader del cosiddetto “mondo libero”. E l’Impero del Male, infatti, fu sconfitto. Con McCain, dopo i furori di Bush, più religiosi che ideologici, i repubblicani tornano alla politica come l’ha intesa e praticata, tra gli altri, Goldwater. Unendo e non dividendo. Addirittura fondendo “anime” diverse. I più importanti analisti conservatori, che credono nella resurrezione del Grand Old Party dato per spacciato alla vigilia della corsa per la Casa Bianca, ritengono che il nuovo conservatorismo non può assomigliare né a quello di Reagan, né a quello di Bush. Esso deve fondarsi sulla ricerca di un giusto equilibrio (di “equilibrio” parlava oltre due secoli fa Edmund Burke nel definire il conservatorismo in opposizione alla rivoluzione): è l’ambito nel quale si muove McCain riscuotendo la simpatia degli elettori come dimostrano le sue rotonde vittorie nel New Hampshire e nel South Carolina. In Florida può contare su un milione e settecentomila veterani che già nel 2000, quando competeva con Bush, lo appoggiarono. Questa volta potrebbero essere decisivi per lanciarlo verso la finalissima del Supermartedì. E chiudere la partita in casa dell’Elefantino.

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Ondivago e irritabile, per la base repubblicana non è il candidato giusto

Ma è troppo di sinistra per vincere le primarie di Antonio Martino Abbiamo chiesto questo articolo ad Antoio Martino che conosce John McCain. el 2000 il Senatore John McCain fece fallire la sua corsa alla nomination repubblicana con un violento attacco alla destra religiosa. Il New York Times commentò il discorso con la lapidaria considerazione: «preferisce avere ragione che essere eletto». Sua madre, Roberta, di cui sono amico da molti anni, mi disse: «la grande stampa parla bene di John e la cosa mi preoccupa: non sarà diventato di sinistra?». National Review, la rivista fondata da Bill Buckley che da decenni costituisce il punto di riferimento obbligato per chi vuol conoscere la posizione dei conservatives americani, ricorda (28 gennaio 2008) come McCain si sia contrapposto ai conservatori su un gran numero di problemi. Ha presentato una proposta di riforma delle istituzioni sanitarie (HMO, health maintenance organizations) assieme all’ultrasinistro Ted Kennedy ed al non meno sinistro John Edwards; un’altra per ridurre le

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dell’ammiraglio Jack, comandante della flotta americana nel Pacifico, gli offrirono di liberarlo. La risposta di John fu: me ne andrò solo quando verrà il mio turno, quando saranno liberati tutti gli americani catturati prima di me. Passò otto anni recluso in quel campo di prigionia ed ogni volta che gli americani attaccavano veniva torturato. E’ rimasto menomato dalle torture: non può alzare le braccia nemmeno per pettinarsi. Nel raccontarmi la vicenda, Roberta mi disse: «noi sapevamo tutto» e, dopo una pausa, «non ho versato una lacrima». Vedendo che ero rimasto esterrefatto, per farmi capire aggiunse: «se ci mettiamo a piangere noi privilegiati, cosa dovrebbero fare i poveri negri i cui figli sono stati mandati in Vietnam incontro allo stesso destino?».

Il fatto che John sia stato un eroe di guerra ha quasi certamente giocato un ruolo decisivo nella sua elezione a senatore: con credenziali come le sue, sarebbe assai difficile non conquistare l’affetto, la

Le sue posizioni sulla riforma della sanità, la sua opposizione alla politica fiscale di Bush e la sua tendenza agli accordi bipartisan non piacciono all’establishment del Grand Old Party emissioni di anidride carbonica con Joe Lieberman. Come se non bastasse, ha votato contro i tagli alle tasse introdotti dal presidente Bush, anche se poi ha cambiato idea, e su temi come l’immigrazione, le cellule staminali e il trattamento dei terroristi reclusi è sempre stato a sinistra dei repubblicani ed in netta contrapposizione ai conservatori. Sempre secondo la stessa rivista, ha persino preso in considerazione la possibilità di cambiare partito. Malgrado ciò, è opinione di National Review che stavolta McCain potrebbe ottenere la nomination repubblicana.

Dall’alto: George Bush e Ronald Reagan; il vicepresidente Dick Cheney; il candidato alle presidenziali 1964 Barry Goldwater

Conoscendo sia lui sia la sua famiglia, dubito fortemente che ciò sia probabile. Henry Kissinger mi disse che avrebbe preferito McCain a Bush nel 2000 e, dopo aver aggiunto che nel 1968 avrebbe preferito Nelson Rockefeller a Nixon, concluse: «non ne azzecco mai una in questa materia». Ma, aldilà delle sue possibilità di farcela stavolta, chi è John McCain? E’ anzitutto un eroe di guerra. Sua madre mi ha raccontato la vicenda. John venne abbattuto mentre era in volo sul Vietnam. Catturato dai vietcong, venne imprigionato nel famigerato Hanoi Hilton. Essendo i vietcong venuti a conoscenza del fatto che John era figlio

simpatia e l’appoggio degli elettori americani. Ma questo, che è il suo punto forte, è anche il motivo per cui dubito che riesca ad ottenere la nomination. Non solo perché è assai improbabile che i conservatori lo appoggino, ma anche perché la sua drammatica esperienza ne ha fatto sì un eroe, ma lo ha anche segnato profondamente. Su troppi temi la sua posizione è stata ondivaga, il che lo fa apparire inaffidabile; inoltre, gode fama di avere un carattere difficile ed irritabile, limiti questi proibitivi per chi aspira alla presidenza della più grande potenza mondiale. Devo anche ammettere che non sono nemmeno tanto convinto che, se eletto, sarebbe un buon presidente. Ciò non toglie che personalmente sia una persona stimabile e simpatica. Quando il campione di arti marziali Chuck Norris, protagonista di una fortunata serie televisiva e sostenitore di Huckabee, disse che votare per McCain significava eleggere il suo vice, intendendo dire che era troppo vecchio per fare il presidente, John gli rispose: «hai detto una cosa volgare; manderò la mia novantaseienne madre a lavarti la bocca!». Chiunque conosca Roberta sa benissimo che sarebbe perfettamente in grado di farlo.


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politica VERSO LE ELEZIONI. Viaggio nei piccoli partiti del centrodestra/1

Divisi da Pannella, uniti dal Cavaliere di Susanna Turco on si può certo dire che il loro passato li abbia aiutati ad amarsi, eppure in prospettiva sarà proprio la politica a volerli insieme. Daniele Capezzone e Benedetto Della Vedova, il fondatore del network Decidere.net e il presidente dei Riformatori liberali, l’iperattivo talentuoso e il bocconiano tenace, sono diversi in tutto tranne che nella storia politica. Già radicali di belle speranze, ultimi in ordine di tempo tra ”sopravvissuti” al distacco da Pannella, l’ex pupillo e l’ex oppositore del gran capo dopo aver incarnato il bianco e il nero della politica di Torre Argentina si ritroveranno insieme, nelle prossime elezioni, nel centrodestra del Popolo delle libertà, o comunque gravitanti nell’area di Forza Italia. Entrambi negano di voler fare i «capetti di partitino», e certamente – scarsa affinità caratteriale a parte - non hanno in programma di fondere le rispettive creature. Eppure, quando si tratterà di decidere modi e forme della prossima corsa al voto, non è da escludere che potranno trovarsi a dover rappresentare, magari con una lista di bandiera, le posizioni e le ragioni dei radicali di destra («sempre che Berlusconi faccia posto a tutti e due», malignano gli ex compagni di partito).

N

«Sono sicuro che finiremo inevitabilmente e felicemente per lavorare insieme», dice assicura Della Vedova. «Anche se, in realtà, spero sempre che sia l’intero gruppo radicale a scegliere di schierarsi da questa parte», aggiunge. Oggi deputato di Fi, lui il gran salto fuori da via di Torre Argentina, verso via dell’Umiltà, l’ha fatto nell’estate del 2005, creando il movimento dei Riformatori liberali – collegato da un patto federativo con Forza Italia alle ultime elezioni – dopo aver sostenuto per anni che i radicali dovessero «giocarsi le loro carte» non fuori, ma dentro una coalizione: «Lo dissi per l’ultima volta in

Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata

Alessandro Manzoni

Benedetto Della Vedova e Marco Taradash, presidente e portavoce dei Riformatori liberali, e Daniele Capezzone, fondatore del network Decidere.net

Benedetto Della Vedova e Daniele Capezzone, diversi in tutto tranne che nella storia politica, sono destinati a ritrovarsi fianco a fianco alle prossime elezioni. Entrambi scommettono sul Popolo delle libertà e giurano: leaderino di partitino? Giammai un’assemblea del giugno 2005, mi risposero che non era ancora aria», racconta, «Allora incontrai Berlusconi, nel momento in cui tutti scappavano in direzione opposta, e gli comunicai che volevo contribuire a rafforzare il connotato liberale e liberista del centrodestra». Detto, fatto. E visto che nello stesso periodo la leadership radicale stava maturando la scelta di buttarsi a sinistra, Della Vedova si è trovato di lì a poco nella ottima posizione di incarnare il dissenso degli scontenti per la svolta pro-Prodi.

Di qui la nasci ta, con il contributo anche economico di Berlusconi, del movimento dei Riformatori liberali guidato da Della Vedova con Marco Taradash, Peppino Calderisi e Carmelo Palma. Un movimento «liberale, liberista e libertario», come vuole lo slogan,

che però a dispetto del battesimo incoraggiante, finisce per arenarsi, elettoralmente parlando, nelle secche della scarsa visibilità. Alla Camera, l’unica candidatura “sicura” dentro le liste di Forza Italia è alla fine soltanto quella di Della Vedova. Al Senato, per via delle difficoltà nella raccolta delle firme su nuovo simbolo “Riformatori liberaliRadicali per le libertà”, il movimento riesce a presentarsi con liste autonome soltanto in Veneto, Puglia e Sicilia, ottenendo così 7.768 voti e nessun eletto. «Se Berlusconi avesse mandato Benedetto più spesso in televisione, il risultato sarebbe stato ben diverso», è il commento di Marco Pannella.

Co munque si a, mentre quello dei Riformatori liberali rimane sostanzialmente un movimento di opinione, attivo soprattutto nell’ambito referendario

(prima per il sì alla riforma costituzionale, poi nel comitato promotore di Guzzetta), Della Vedova, «unico sopravvissuto» di RL in Parlamento, in questi due anni ha lavorato «più dentro che a fianco di Forza Italia», «rappresentando una specificità che non vuole differenziarsi, ma arricchire la proposta». In prospettiva si vede come una delle tante «anime» che graviteranno nel Popolo delle libertà: «Non ho mai pensato di fare il leaderino di partitino, è un’idea mi fa venire l’orticaria. Ritengo che si debba superare la frammentarietà e intendo il centrodestra come un grande partito in cui ci sia competizione tra tante anime che si ritrovano attorno a una serie di obiettivi precisi di politica e di governo». Piuttosto lontana da lui è quindi l’ipotesi di fare, se non un partito, quanto meno una lista liberal-radicale: «Mi sento parte del Pdl e di Forza italia e chiederò certamente il voto dei radicali per la coalizione guidata da Berlusconi. Il resto è strategia e tattica elettorale di cui è presto parlare», dice.

Ed è , i l suo, lo stesso atteggiamento con il quale si accosta al tema Daniele Capezzone. Parecchio impegnato sia con Decidere.net, il network di elaborazione di proposte economiche che a breve lancerà una nuova iniziativa sul private equity, sia con la recente direzione politica dell’agenzia di stampa “il Velino”, l’ex enfant prodige, deputato del gruppo misto dopo un faticoso distacco dai radicali, conferma «il desiderio di dare una mano al progetto del Popolo libertà» e si augura che «alcune nostre proposte siano giudicate interessanti». Qualcosa di più preciso circa la sua collocazione non è per ora dato sapere: «Ho il mantra dei contenuti», spiega, «e sono convinto che rispetto a questi due nuovi partiti che nascono, Pd e Pdl, sarebbe importante portare ciascuno i propri contenuti e cercare di lavorare insieme».

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Torna libera Sandra Lonardo Mastella ondazione «sosterrebbe un esecutivo istituzionale per fare una nuova le

Minacce per tutti Una busta contenente un proiettile e’ stata recapitata al direttore del giornale Leonardo Boriani. Ad accompagnare il proiettile, minacce a vari politici italiani del centrodestra. Tra i quali Bossi, Fini e Casini.

Terremoto giudiziario in Calabria 18 persone, tra cui il consigliere regionale Domenico Crea, sono state arrestate su ordine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nell’ambito di un’operazione denominata “Onorata sanità”. In manette anche i fratelli Marcianò, imputati per l’omicidio di Francesco Fortugno.

Camorra, indagato consigliere regionale PD

Oggi ultima giornata di consultazioni, tocca a Forza Italia e Pd

Napolitano cerca uno spiraglio che non c’è di Errico Novi ROMA – Non si può dire che ieri si siano aperti spiragli. Ed è assai improbabile che se ne vedano oggi, dopo che Giorgio Napolitano avrà completato le consultazioni. Restano da ascoltare Forza Italia, Pd e gli ex presidenti della Repubblica. C’è un dato che casomai è destinato a confermarsi: la partita per formare un nuovo governo avrà quasi certamente un secondo tempo. Finora si è andati avanti con mosse prudenti come quella di Pier Ferdinando Casini, che ieri ha evocato un «esecutivo di pacificazione nazionale» ma ha anche aggiunto di non essere disponibile «a pasticci o a trasformismi». Di fatto, al Quirinale l’Udc ha certificato la propria intenzione di non voler fare da stampella del centrosinistra.Tutto questo però non compromette l’ipotesi del mandato esplorativo da conferire a Franco Marini o a un’altra figura di alto profilo. Il sostegno seppur risicato a un nuovo governo che accompagni la riforma del sistema di voto verrà appunto verificato in un secondo tempo, durante la possibile esplorazione. Non s’intravedono clamorose novità da parte dei leader di opposizione. Ma singoli senatori potrebbero cambiare all’ultimo momento gli equilibri. Non esclude l’ipotesi il vicepresidente udc del Senato Mario Baccini, che a liberal spiega: «Auspico che si arrivi a un governo istituzionale. E di fronte a un appello del Capo dello Stato rivolto per il

bene del Paese, non mi potrei sottrarre». È a partire da posizioni come questa che si può aprire un’altra strada, ora invisibile. Se Napolitano tentasse di verificare per l’ultima volta la possibilità di un altro esecutivo, con un incarico a Marini o ad altri, diventerà ovviamente decisiva la scelta di Clemente Mastella, da cui dipende anche il voto del fedelissimo Tommaso Barbato. A parte l’eccezione Baccini ieri non

Fini non vede spazi: «In 24 mesi è stato impossibile trovare l’intesa sulla riforma». Casini ripropone un governo di pacificazione sono arrivati altri particolari segnali di incoraggiamento. Gianfranco Fini e Umberto Bossi hanno chiarito di avere una sola opzione: «Elezioni subito». Esattamente la stessa che Silvio Berlusconi proporrà oggi. Il leader di An fa notare quanto sia complicato immaginare un accordo sulla legge elettorale in un eventuale scorcio di legislatura: «È stato impossibile trovare un’intesa finora, non vedo cosa potrebbe cambiare». Nulla, se si pensa che la sinistra estrema è divisa al suo in-

terno. Franco Giordano ha assicurato al presidente della Repubblica che Rifondazione «sosterrebbe un esecutivo istituzionale per fare una nuova legge elettorale» e che si potrebbe partire, ovviamente, «dalla bozza Bianco». Formula che non piace e che anzi irrita i Comunisti italiani. A sua volta Casini spiega che bisognerebbe «almeno introdurre le preferenze» prima di tornare alle urne. Tecnicamente non sarebbe facile: bisognerebbe tenere in carica Romano Prodi. D’altra parte anche il presidente di Confindustria Luca di Montezemolo batte sulla «possibilità di restituire agli elettori la scelta dei parlamentari». Ma il vertice degli industriali non si fa illusioni, e invoca per lo meno «una fase più serena» nei rapporti tra le forze politiche. È quello che ha provato a fare anche Walter Veltroni: dopo un incontro al loft del Partito democratico con Massimo D’Alema, ha tenuto una conferenza stampa dai toni assai distesi nei confronti di Berlusconi. A proposito dell’appello alla piazza ha commentato: «Parole del genere nascondono in realtà sempre una qualche debolezza». A Veltroni è arrivata anche la risposta di Forza Italia sull’invito a presentarsi da soli: «Una richiesta incomprensibile, non si capisce perché dovremmo separarci dai nostri alleati», hanno scritto Sandro Bondi e Fabrizio Cicchitto. Tutti in ogni caso danno l’impressione.

Un’indagine sulla presunta collusione tra clan della camorra ed esponenti politici vede tra gli indagati anche il consigliere campano Roberto Conte, eletto nella Margherita e appartenente al Partito democratico. Per la procura di Napoli: “E’ solo l’inizio”.

Ahmetovic condannato per una rapina nel 2006 Il rom che uccise 4 minorenni con il suo furgone, ad Appignano del Tronto, è stato condannato a 3 anni di reclusione per una tentata rapina a mano armata ai danni dell’ufficio postale di Malignano.

Per Bankitalia, redditi fermi al 2000 Da sette anni non crescono i redditi per dipendenti pubblici e professionisti. Va meglio per imprenditori, artigiani e titolari d’imprese familiari. Al sud la crescita maggiore, ma resta molto più basso il reddito medio rispetto al nord del Paese.

“Te la do io l’America!” Il New Yorker scopre Beppe Grillo. Il comico genovese è finito sulla copertina del prestigioso settimanale dell’intellighenzia Usa, sotto al titolo «Il Michael Moore italiano».

Dare del ”buffone” ad un politico non e’ reato Specie quando non mantiene gli impegni presi nei confronti degli elettori. La Cassazione ha annullato una sentenza di condanna per ingiuria nei confronti di un cittadino che durante un’assemblea pubblica aveva interrotto il discorso del sindaco chiamandolo ’ridicolo e buffone’.

Forza Italia si candida a governare la Sicilia Convocato a Palermo il vertice di Forza Italia sugli scenari in Sicilia dopo le dimissioni di Cuffaro. ”E’ giunto il tempo di esprimere le nostre candidature per la presidenza della Regione” ha detto il capogruppo Fi al Senato Renato Schifani.

Negramaro, droga nell’auto Due componenti della band, a Sulmona per un concerto, sono stati fermati nei pressi del casello autostradale. I cani dei finanzieri hanno fiutato la presenza di stupefacenti all’interno dell’autovettura, sono andati dritti verso due dei giovani musicisti che avevano in tasca un po’ di hashish, pochi grammi, per confezionare gli spinelli.

La stilista più giovane del mondo sbarca a Roma Ha sfilato questa mattina nella capitale, nella seconda giornata di ”Alta Roma, alta moda”, la collezione della stilista più giovane al mondo. Russa, 15 anni, Kira Plastinina ha già 40 negozi che portano il suo marchio.


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pensieri

L’INTERVENTO

La Grande Riforma? Un obbligo, dopo le elezioni di Arturo Gismondi opo le elezioni del 13 maggio 2006, la sinistra italiana si è concessa un supplemento di soddisfazione patria con il referendum del 25 giugno, quando i cittadini furono chiamati a votare un rotondo “no” alle modifiche introdotte dalla legislatura precedente alla seconda parte della Costituzione del 1947-48. Fu una vittoria facile, per il referendum era sufficiente la richiesta di un limitato numero di parlamentari o di cinque Regioni. E fu una battaglia facile poiché il centro-destra, uscito dalla sconfitta dei 20 mila voti non accennò neppure a una resistenza. La campagna elettorale vide sorgere, in ogni angolo del territorio patrio, stuoli di sacerdoti di quella che Carlo Azelio Ciampi definì la “religione civile”. E se in qualche caso, come in quello di Ciampi, trattavasi di onesti professori di ginnasio e di liceo, in altri casi ci fu chi giuocò pesante, come ad esempio l’on. Diliberto il quale sentenziò che poiché la Costituzione era un risultato della lotta anti-fascista e della Resistenza chiunque vi ponesse mano ri-

D

velava intenzioni golpiste. La richiesta venuta negli ultimi tempi dalla sinistra di mettere di qui alle elezioni politiche un congruo periodo di tempo per cambiare la legge elettorale e per introdurre alcune riforme costituzionali si guardava bene dal ricordare che proprio quelle riforme ritenute necessarie, e giustamente, erano state abolite con la riforma approvata fra gli anni 2005 e 2006. In effet-

Intanto va ricordato che la Carta era stata cambiata dal centrodestra e che un referendum cancellò il nuovo testo. Il percorso potrà riprendere con un’assemblea costituente o anche con una commissione più ristretta ti, le riforme delle quali si parlava, di diminuzione del numero dei parlamentari, di fine del bicameralismo perfetto fra Camera e Senato, di maggiori poteri del capo del governo eletto direttamente dal popolo erano perfettamente inserite nella riforma del quinquennio precedente. Va da sé che i propositi rinno-

nna e le altre. O meglio: “gli altri”. Domanda: “Perché affitti il tuo utero?”. Risposta: “ Per amore, solo per amore”. Benevolo commento di una certa Gail Taylor, titolare di un’agenzia specializzata in uteri in affitto per coppie omosessuali californiane e non solo.: “Poi, ovviamente, c’è anche il lato economico”. Questo discorso surreale si legge in un “focus” di due pagine che il Corrierone, noto capofila del politicamente corretto nel campo della procreatica (bruttissima parola) e della bioetica in generale dedica al cosiddetto “turismo procreatico”. Naturalmente si parte dai casi di più facile impatto emotivo in cui donne “normali”, per malattie o disgrazie, non possono generare o portare a compimento gravidanze. Poi, con disinvoltura esemplare, si passa al racconto esteso di una coppia di uomini, Marco e Tobia, che per diventare bipadri non solo hanno affittato un congruo numero di uova fresche e di tipo mediterraneo (tratti somatici materni come da catalogo) ma poi hanno tirato a sorte su dei bigliettini chi dei due dovesse avere l’onere e l’onore di dare il proprio sperma. “Fallo tu”, “No, fallo tu”, si erano detti per amore, solo per amore, ma poi ha prevalso il sorteggio equanime. Trovata una fattrice ben disposta e “simpatica”, è nata Anna. Figlia di due padri, grazie ad una sentenza del tribunale di San Diego, e di due madri. E grazie soprattutto alla umana follia ed a centoventimila dollari. Tutto ciò su carta stampata. Tutto ciò sul quotidiano più diffuso in

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vatori di oggi rispondono a esigenze più reali, e anzi vitali, ancorché sostenute, almeno da qualche parte, da propositi dilatori. Resta il fatto che le riforme del nostro apparato istituzionale coincidono nel futuro con ogni serio proposito di adeguare il funzionamento del nostro sistema politico e sono parte di ogni processo di modernizzazione della società italiana. In questo senso non si può che

consentire con la proposta di Ferdinando Adornato di inserire le riforme necessarie fra quelle che il centro-destra dovrà mettere in campo nel caso, tutt’altro che improbabile, di un futuro ritorno al governo del Paese. Qualche attenzione meritano piuttosto i dubbi di Sandro Bondi sulla necessità, o sulla

opportunità, di affidare la materia ad una Assemblea Costiruente. Una terza Camera, se ciò si intende, rischia di ingombrare il panorama politico-istituzionale, di inserire una nuova campagna elettorale, contraddice intanto l’esigenza di alleggerire, sotto il profilo finanziario, il costo pesante dell’apparato legislativo. D’altra parte, il futuro governo dispone di uno schema costituito dalla riforma della della passata legislatura che – insieme a quanto elaborato da forze diverse, e dalla cultura di altri settori politici può costituire materia sulla quale lavorare. Vale, infine, il precedente, quanto mai autorevole che ha consentito alla Costituente nei primi anni del dopoguerra, di dar vita alla Carta fondamentale della quale si è celebrato in questi giorni il sessantesimo anniversario. All’interno di quella assemblea si costuì la famosa “Commissione dei 75” sulla quale gravò gran parte del la-

A proposito di turismo procreativo

Anna e le altre di Maria Burani Italia. Fredda e professionale anche la giornalista che riferisce che i “due padri” hanno in programma di dire alla bimba, quando questa farà loro ovvie domande,“che ci sono state due signore che li hanno aiutati ad averla”. Relativismo etico? No, di più, molto di più. Occasionalmente, in ore pomeridiane, va in onda su una rete nazionale, un programmone di quelli in cui al quiz si sposa di tutto per la gioia della casalinga di Voghera e dei suoi figli che magari sono in cucina con lei a fare i compiti di scuola per il giorno dopo: una cantante in voga fa vedere un suo CD in cui alla canzone melodica con la sua voce si accompagnano immagini prolungate di una coppia omosessuale che si scambia appassionati sguardi seguita da una coppia eterosessuale sorridente ma piuttosto disincantata. Eccola la “normalità”. Relativismo etico? No, di più, molto di più. In parlamento si stava per varare una legge che in maniera più

voro di elaborazione. È un precedente da tenere presente, anche perché allora si trattava di dar vita a una Costituzione che nasceva dal nulla, dalla elaborazione dei principi all’ordinamento dello Stato. In questo caso, almeno per ora si parla di una riforma della seconda parte della Costituzione riguardante il funzionamento delle istituzioni e dei rapporti reciproci. La necessità indicata da Adornato resta comunque non solo opportuna, ma obbligata. E dopo quel che è passato sotto i ponti nei venti mesi di governo della sinistra, e con Napolitano al Quirinale, non dovrebbe risultare difficile un impegno comune ad altre forze politiche. Trovo infine lodevole cominciare a lavorare sui temi e gli impegni del futuro governo anche perché è questo un campo nel quale la Casa delle libertà ha prodotto meno in questi lunghi mesi di opposizione.

o meno velata, identificando omofobia e razzismo in un calderone sulfureo, stendeva tappetini scarlatti ai piedi del Monstrum, l’uomo nuovo del radicalismo libertario, privo di anima e di conoscenza, con la ragione sostituita da robotica meccanismi di azione e reazione. Incapace di elaborare scienza ma insuperabile nelle strategie della tecnica. Angelo caduto? No, è fin troppo nobile. Si direbbe piuttosto capofila di quella tribù amazzonica, di cui scrive in un suo indimenticabile racconto Borges, ritenuta agli albori della storia per la sua coprofila rozzezza ed invece poi identificata come ultimi residui di una splendida civiltà che perdendo se stessa e le ragioni della Vita e dell’Amore, degrada fino al totale ribaltamento perfino della percezione dei sensi. Il brutto al posto del bello, la menzogna la posto della verità, la Morte al posto della Vita. L’Italia è alla vigilia di nuove elezioni? Certamente sì. Sarà questione di giorni o di mesi ma nuove elezioni sono alle porte e tutto fa pensare che il centro-destra le vincerà. Ma non è solo di Ici, di grandi opere, di sicurezza e di lavoro che si dovrà parlar chiaro, bensì anche di un modello di vita, di un’etica politica da sventolare come l’autentica bandiera del rinnovamento italiano. Non basta più dar ragione al Papa “un po’ per celia un po’per non morir”per dirla con Mimì di Boheme. L’Italia profonda e sana è assai di più di quella metà abbondante che darebbe il voto al centrodestra ed è un’Italia stufa non solo d’intrallazzi ma anche di intellettualistici social-libertarismi.


&

parole

inizio di quest’anno è stato caratterizzato da una escalation di esecuzioni a Teheran e nelle altre città iraniane: ventiquattro impiccagioni sino al 10 gennaio, mentre altre decine se ne preannunciano nei prossimi giorni. È questa la risposta che il regime islamico ha voluto dare alla moratoria sulle esecuzioni mondiali decisa nel dicembre scorso dall’assemblea delle Nazioni Unite. Nella gran parte dei casi si tratta di giovani, anche minorenni, perché la Repubblica islamica iraniana è l’unico paese al mondo che non risparmia i minori di anni 18, condannati non sempre per reati di sangue ma anche per piccolo traffico di droga o per sodomia. Se la cifra dei primi dieci giorni di gennaio dovesse essere mantenuta nel resto del-

L’

l’anno si triplicherebbe la quantità di esecuzioni eseguite nel 2007 (che furono 298) . Ma in Iran viene largamente praticata anche la lapidazione, prevalentemente riservata alle donne condannate per adulterio. Secondo Amnesty International (che ha promosso una campagna per abolire la lapidazione) nove donne e due uomini si trovano nelle carceri iraniane in attesa di questa orribile esecuzione, studiata accuratamente per provocare il massimo di sofferenza alla vittima. Eppure qualche tempo fa dei funzionari dell’ambasciata della Repubblica iraniana di Roma sono venuti in redazione per consegnarci dossier in lingua fardi e inglese nel tentativo di dimostrarci che la guida spirituale Alì Khamenei e il presidente della Repubblica Ahmadinejad si erano dichiarati contrari alla lapidazione. Questi giovani ed entusiasti funzionari, sicuramente pasdaran del regime, ignoravano che una moratoria imposta nel 2002 dal capo dell’autorità giudiziaria era rimasta disattesa. Infatti il codice penale iraniano continua ad essere rigorosamente applicato.

In particolare, l’articolo 102 prevede che gli uomini devono essere sotterrati sino alla vita, le donne sino al seno. E l’art.104 stabilisce persino la grandezza delle pietre da utilizzare: «Non così grandi da uccidere la persona con uno o due colpi, e nemmeno così piccole da non

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L’Iran di Ahmadinejad MINACCIA il mondo. Ma per la sinistra è allarmismo americano di Aldo Forbice

Ci sono persino le planimetrie dei siti dove Teheran costruisce gli impianti per missili nucleari a lunga gittata. Che accadrà quando saranno pronti? poter essere definite pietre». Conosciamo un elenco lunghissimo di donne (e di uomini) che dal 2002 ad oggi hanno subito la dolorosa sorte della lapidazione. E questo per smentire i solerti giovani diplomatici addestrati a diffondere controinformazioni nei media italiani. Ogni giorno osserviamo, nei giornali, nelle agenzie e nelle radio e tv, il risultato, purtroppo positivo di questa “semina” di notizie, alimentate e “assistite” da funzionari di ambasciate e del ministero dell’Informazione del regime iraniano. Questo “ lavoro”dei funzionari del regime è stato particolarmente intensificato per la questione nucleare,che continua ad essere cruciale per il mondo intero. Al punto che le Nazioni Unite stanno per definire le nuove sanzioni a Teheran (che, per la verità, si prevedono leggere per non irritare Cina e Russia, strettamente legate all’Iran da commesse energetiche e contratti industriali a molti zeri). Che l’Iran rappresenti una seria mi-

naccia nucleare è ormai indiscusso: non ce lo dice solo la resistenza che opera attivamente anche negli stessi cantieri che costruiscono e potenziano i siti sotterranei a Teheran,Tabriz, Qazvin, Isfahan, Ashiraz, Yazd, Kerman, Qom, Ahwaz, Kermanshah e in altre località del vastissimo territorio dell’ex Persia e che, per primi, hanno fatto pervenire in Europa le prime denunce, con documenti e persino planimetrie, dei tunnel dove si costruivano impianti atomici e missili a lunga gittata.

Non ce lo dice solo Israele (il primo ministro Ehud Olmert, dopo aver denunciato la minaccia nucleare di Teheran, ha detto in parlamento: «Lo Stato d’Israele non esclude alcuna opzione per prevenire l’acquisizione di armi atomiche da parte dell’Iran»). E non ce lo dice solo Bush, che col suo recente appello dal Golfo Persico («Agire prima che sia troppo tardi») ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sui rischi di una dittatura islamica dotata di armamenti nucleari. È questa una prospettiva temuta, non solo da Israele e da tutti i paesi del Golfo e potrebbe far nascere uno scenario terrificante, che non esclude i rischi di una terza guerra mondiale. Questa tesi viene confermata, con una numerosa serie di documenti inediti, da un politologo iraniano, Alireza Jafarzadeh, che dirige a Washington un istituto di studi strategici,

nel suo libro L’atomica di Teheran (Guerini editore). L’appello di Bush è rimasto però inascoltato, soprattutto in Europa: nessun capo di Stato si è mostrato particolarmente sensibile alle parole del presidente Usa, anche se quest’ultimo ha detto esplicitamente al re dell’Arabia Saudita che, se non dovesse esserci la solidarietà dell’Occidente la Casa Bianca può agire da sola sino a ordinare il bombardamento dei siti nucleari iraniani, anche senza consultare il Congresso. Ma anche queste parole sono rimaste lettera morta. Anzi, il nostro ministro degli Esteri Massimo D’Alema non ha perso occasione per definire “un’esagerazione”l’appello di Bush, aggiungendo, in una intervista televisiva: «Questi toni da parte del capo di una grande potenza li trovo inutilmente allarmanti».

Commenti che lasciano sgomenti. Che colui che è stato capo della politica estera del governo Prodi (ormai ex governo) si distingua per la sua politica di amicizia e di tolleranza nei confronti degli ayatollah e di una sanguinaria dittatura islamica in omaggio ai contratti e, in generale,al businnes ci lascia esterrefatti. E non basta ad attenuare questo effetto lo stupore e l’indignazione che D’Alema (e la signora Bonino) manifestano verso quei “cattivi “ di Teheran che di tanto in tanto mandano sulla forca un po’ di ragazzi.


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mondo

Retrovia dei talebani afghani, l’Area tribale è la centrale operativa dei terroristi di al Qaeda

Waziristan. Viaggio nel cuore della Jihad di Rossella Fabiani er quarant’anni l’esercito coloniale britannico tentò di domare il Waziristan, con le sue montagne dominate dai villaggi fortificati di Razmak, Datta Khel, Spin Wam, Dosali, Shawa e con le strette vallate di Miranshah, Edak, Hurmaz, Hassu Khel e Haider Khel già allora coltivate a oppio. Ma le tribù di questo popolo guerriero riuscirono ogni volta a respingere i soldati di Sua Maestà, tanto che, nel 1893, all’Impero delle Indie britanniche non rimase che riconoscere a tutta le regione lo statuto di Area tribale indipendente. Inserita, però, all’interno di quella “Linea Durand” – sir Mortimer Durand era il diplomatico britannico che la negoziò con l’emiro afghano, Abdur Rahman Shah – che segna tuttora il confine tra Pakistan e Afghanistan. Adesso il Waziristan è la più turbolenta delle zone tribali pakistane e, come allora, sotto il controllo dei signori della guerra locali che tengono in scacco, questa volta, i soldati di Pervez Musharraf. Ed è diventato la retrovia dei talebani afghani e la centrale operativa dei terroristi di al Qaeda con le sue basi e, forse, anche con i rifugi dei suoi capi: da Ayman al Zawahiri a Osama bin Laden, se è ancora vivo. Gli abitanti di questa regione (i Darwe-

P

sh, i Dawar e i Meshod) sono poco meno di un milione in un territorio di 11.585 chilomentri quadrati che è incastrato tra l’Afghanistan e le altre quattro province del Pakistan (Belucistan, Sind, Punjab e Frontiera del Nord-ovest). Basta guardare una carta geografica per rendersi conto che il Waziristan non è una terra sperduta all’estremo confine del Paese, ma che dista poche centinaia di chilometri da Kabul, da una parte, e da Islamabad, dall’altra. Eppure è una specie di corpo estraneo che, nel marzo del 2006, si è autoproclamato “Stato islamico indipendente” . Socialmente e religiosamente il Waziristan è un’area dominata da un Islam conservatore. Ogni famiglia deve essere guidata da una figura maschile. Le donne sono praticamente escluse dalla vita sociale. Le tribù sono rette da anziani capivillaggio che si incontrano in una jirga (un’assemblea tribale) per le decisioni collettive. Ma, soprattutto, le tribù del Waziristan sono di etnia pashtun e la “Linea Durand” le ha artificialmente divise dal resto dei pashtun che vivono in Afghanistan. Allora l’impero britannico aveva interesse a rafforzare un Paese-cuscinetto tra i suoi confini e l’impero russo. Oggi tocca a Islamabad e a Kabul il compito di

gestire un problema che ricorda quello del Kurdistan. Le varie tribù pashtun sono legate da una forte solidarietà, tanto che puntano addirittura alla creazione di un nuovo Stato: il cosiddetto Pashtunistan. E la questione nazionale ha finito per intrecciarsi a quella politico-religiosa. Dopo mesi di complessi negoziati e di sanguinosi combattimenti, i waziri e il governo pakistano han-

stramento, lo stop alle incursioni oltre confine e l’allontanamento di tutti i “combattenti stranieri”, ovvero dei terroristi di al Qaeda. In cambio, Islamabad ha promesso la fine delle operazioni militari e la liberazione di circa 2500 prigionieri. A oltre un anno da questo accordo, poco è cambiato: il cessate-il-fuoco, più meno, regge, ma il Waziristan è rimasto il santuario dei fondamentalisti. Wa-

l’assedio

Si è temuta una nuova Beslan ieri mattina, quando un commando di uomini armati ha preso in ostaggio i bambini di una scuola del villaggio di Wali Dar, regione del Pakistan nordoccidentale attigua al Waziristan. I media pachistani riferiscono che gli integralisti - cinque o sette uomini armati di granate e bazooka - hanno avuto prima uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza che li aveva intercettati e poi hanno cercato rifugio nella scuola sequestrando gli scolari di età compresa tra i 7 e i 12 anni. Gli ostaggi - trattenuti per ore - sono stati tutti rilasciati. A risolvere la crisi è stato l’intervento dei mediatori inviati dai capi tribali del posto. Il commando aveva posto come condizione per liberare gli ostaggi un salvacondotto. Accordato. Inizialmente il governo pakistano li aveva chiamati terroristi, ma in serata Musharraf li ha definiti «criminali».

no raggiunto alla fine del 2006 un accordo di pace. Sulla carta, almeno, i capi tribali hanno garantito la fine degli attacchi da parte dei talebani, la restaurazione dell’autorità amministrativa nella regione, la chiusura dei campi di adde-

shington non ha apprezzato la tregua che, di fatto, ha alleggerito la pressione sui talebani consentendogli di intensificare gli attacchi in Afghanistan: dopo la firma dell’accordo, la violenza è esplosa anche nelle province afghane di

Paktia, Paktika e Khost, confinanti con il Waziristan, che fino ad allora erano r più tranquille. Ma per il presidente Musharraf, in questo momento così difficile per la vita del Paese – dopo l’assassinio di Benazir Bhutto e alla vigilia delle elezioni del 18 frebbraio – la questione-Waziristan è un rebus che sembra irrisolvibile. Il suo impegno nella lotta al terrorismo lo spingerebbe a riprendere l’offensiva, ma i settori più fondamentalisti del potere religioso e militare, senza i quali in Pakistan è difficile governare, lo spingono alla prudenza. Musharraf è accusato dal Fronte islamico dell’ex premier Nawaz Sharif, di «essere un cattivo musulmano che manda l’esercito contro i suoi fratelli invece che contro gli infedeli americani offendendo l’Islam e la dignità nazionale». Per il momento, quindi, Musharraf aspetta. E in Waziristan si moltiplicano i gruppi combattenti. Come quello di Amir Baitullah Meshud, che ha mandato i suoi terroristi a Barcellona e che Musharraf accusa di avere organizzato l’attentato mortale a Benazir Bhutto. Ma, oltre ai talebani e ai terroristi di al Qaeda, ci sono anche i miliziani di Masud Azhar, il capo della guerriglia del Kashmir. Un calderone pronto a esplodere.


mondo

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In Irlanda a maggio referendum sul trattato Ue

Una spada di Damocle sull’Europa di Silvia Marchetti ento milioni di euro per dire “no”al nuovo trattato europeo non sono pochi. Anzi, sono troppi per provenire soltanto dai confini nazionali. In Irlanda la campagna per il referendum sulla carta Ue si fa incandescente e i promotori del “no”già possono contare sull’appoggio finanziario degli euroscettici del Vecchio Continente. Tutti coloro che si battono contro l’avanzamento del progetto comunitario e che nel loro Paese non avranno diritto di protesta guardano alla Tigre celtica come terreno di guerra e avrebbero deciso di scendere in campo inviando nell’isola sostanziosi contributi. L’Irlanda è l’unico dei 27 Paesi membri dell’Unione europea dove quest’anno si terrà un referendum per recepire il nuovo trattato, in quanto per legge qualsiasi testo che modifica anche solo in parte la costituzione deve essere sottoposto al voto popolare. Il referendum è previsto per maggio-giugno ma gli occhi dell’intera Europa sono già puntati sull’isola. Per entrare in vigore il trattato deve essere approvato da tutti i 27 Stati membri e un solo “no” può di nuovo affossare il progresso politico dell’Unione europea come è accaduto nel 2005 dopo il voto negativo in Francia e in Olanda. L’obiettivo è l’entrata in vigore del trattato entro il 2009, prima delle elezioni europee. Fino a oggi l’unico Paese ad averlo recepito per via parlamentare è l’Ungheria. Naturale, quindi, che le speranze di tutti gli euroscettici del continente - dall’estrema destra francese di Jean-Marie Le Pen ai nazionalisti britannici - si focalizzino sull’isola, dove

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MOSCA

Corso per oligarchi sfida le business school Il Financial Times ha pubblicato ieri la sua annuale classifica delle migliori scuole per la formazione dei manager e dei loro Mba (Master in business administration). Nessuna sorpresa nello strapotere americano (57 università nelle prime cento) e nel ritardo italiano (una sola presenza: la Bocconi che scivola, per di più, dal 42° al 48° posto). Anche la presenza di tre università cinesi nella classifica non è una novità. Ma presto un nuovo Paese entrerà nella classifica: è la Russia di Putin che ha aperto la sua prima “scuola per oligarchi”, la Skolkovo Moscow School of Management. Con uno sponsor d’eccezione: Dmitry Medvedev, il più forte candidato alla successione di zar Vladimir al Cremlino (le elezioni presidenziali ci saranno il 2 marzo) guida il board della scuola. Che conta insegnanti eccellenti (anche l’ex amministratore della General Elecrtic, Jack Welch) e un rettore che ha un’esperienza particolare in

la partita che si giocherà avrà più una dimensione europea che nazionale. Insomma, l’Irlanda è diventata suo malgrado un faro per i nemici dell’Europa. In prima linea nella campagna per il ”no” c’e’ Libertas, una lobby che si batte per una maggiore trasparenza democratica nella Ue e accusa il governo di utilizzare illegalmente le entrate fiscali per fare pubblicità a favore del ”si” (l’utilizzo di risorse statale per un referendum sarebbe vietato da una sentenza della corte costituzionale). Il leader e’ il businessman Declan Ganley, un personaggio misterioso di cui si sa poco sulle origini e sull’enorme fortuna che e’ riuscito ad

accumulare. Una cosa e’ certa: Ganley ha contatti in tutto il continente e sta gia’ organizzando lo sbarco sull’isola di Le Pen. Libertas si oppone all’invito che il premier Berthie Ahern (nella foto) ha rivolto a due sponsor di eccellenza, Nicholas Sarkozy e Angela Merkel, di recarsi in Irlanda quando si terrà la consultazione popolare. I cittadini irlandesi al momento sono indecisi. Stando a un sondaggio del quotidiano Irish Sun, più del 14 per cento degli intervistati opterà per il “no”mentre il 77 per cento e’ancora incerto. Sta di fatto che il numero dei “swing voters”(ossia di coloro che in ogni elezione determinano alla fine l’esito del voto schierandosi da una parte o dall’altra) sale di giorno in giorno. Il paradosso è che gli irlandesi a parole sostengono di essere a favore dell’Unione europea, ma poi al momento di recarsi alle urne votano in massa contro, come è stato per il referendum del 2001 sul trattato di Nizza che aprì la strada all’allargamento. Gli agricoltori sono scontenti del ruolo che la Ue sta giocando nelle negoziazioni sul commercio mondiale, gli industriali guardano con terrore ai controlli di Bruxelles sul regime di tassazione irlandese (tra i più bassi del continente) e la maggioranza dei sindacati è contro il nuovo trattato. Ad oggi la situazione politica è la seguente: i tre maggiori partiti - Fianna Feil del premier Ahern e i due gruppi all’opposizione Fine Gael e Labour appoggiano il trattato, i verdi non hanno una linea ufficiale, mentre gli unici a opporsi sono i nazionalisti del Sinn Fein. Oggi il futuro dell’Europa si gioca in Irlanda.

vi si dirà di Enrico Singer

questo tipo d’imprese: il belga Wilfried Vanhonacker ex rettore del Ceibs di Shanghai. Il fondatore della scuola è un altro oligarca russo: Ruben Vardanian, il presidente della banca d’investimenti Troika Dialog. E il suo credo si può riassumere in questa frase: “I programmi dei migliori Mba, oggi, sono pensati per manager che devono operare nei Paesi sviluppati. Noi li abbiamo pensati per i nuovi mercati emergenti”. BEIRUT

Scatta l’ultimo round per la presidenza La seduta del Parlamento libanese è convocata per l’11 febbraio e questa – dopo tredici rinvii e una serie di sanguinosi attentati – dovrebbe essere la volta buona per eleggere il nuovo Presidente. Il candidato è sempre il generale

Michel Sleiman, cristiano maronita, attuale capo dell’esercito. Sul suo nome un compromesso tra musulmani e cristiani, anti-siriani e filo-siriani, era stato raggiunto già nel novembre scorso, quando era scaduto il mandato di Emile Lahoud. Ma lo scontro con Hezbollah, appoggiato da Damasco, è sulla composizione del governo di unità nazionale che Sleiman ha promesso. La formula detta del 10+10+10 (che darebbe agli islamisti il “terzo di blocco” su tutte le decisioni) non è accettata dalle altre componenti. Dopo l’ultimo massacro (nove morti domenica) si sono moltiplicati gli appelli – dalla Lega araba alla Ue – per un’intesa. Ma la chiave della svolta sta nella telefonata che Sleiman ha fatto al presidente siriano Bashir el Assad per assicurargli che “comunque vada” i rapporti tra Beirut e Damasco non cambieranno e questa garanzia dovrebbe placare anche Hezbollah.

Kenya, Sudan, Somalia «L’instabilità del Kenya rischia di allargarsi a macchia d’olio e di mettere a repentaglio il processo di pace in Sudan e le operazioni di peacekeeping in Somalia». A dirlo Jendayi Frazer, la diplomatica Usa a capo della Commissione Africa. In Kenya intanto la situazione precipita: sono decine i morti nella zona della Rift Valley e non si fermano scontri e massacri tra le etnie kikuyu e luo.

Germania, occhio a sinistra Elezioni regionali 1: La vittoria elettorale della ”signora XY”, la finora semi-sconosciuta Andrea Ypsilanti, può essere considerata un trionfo della stretegia portata avanti dal presidente del Partito socialdmeocratico tedesco (Spd), Kurt Beck; la presidenza dell’Assia potrebbe essere un ottimo viatico per una rinascita della sinistra interna al partito.

Germania, che vittoria Elezioni regionali 2: Quella riportata da Christian Wulff (Cdu) in Bassa Sassonia - la patria della Volkswagen - è una vittoria capace di risollevare gli umori in un’Unione di centrodestra colpita dalla debacle di Roland Koch in Assia: Wulff è infatti riuscito a far trionfare non solo la sua personalità, ma un intero sistema politico.

Tutti contro il canone Il leader del Partito popolare spagnolo Mariano Rajoy ha ricevuto ieri i membri della piattaforma ”Tutti contro il canone”, per promuovere l’eliminazione del canone digitale, uno dei punti centrali del programma elettorale del Pp. La piattaforma il 31 gennaio presenterà la proposta, firmata da due milioni di persone, a Zapatero.

Onu: Kosovo affare della Ue Il Kosovo è un problema europeo. Lo ha detto Ban Ki-Moon, segretario generale dell’Onu, senza però suggerire come i Paesi europei dovrebbero ”risolvere” la questione. Nessuna risposta anche sul possibile invio di una missione civile della Ue in Kosovo, che dovrebbe sostituire quella dell’Onu (Unmik) accompagnando la provincia verso l’indipendenza.

Attenti all’Afghanistan Per il presidente afgano Hamid Karzai «i Talebani stanno tentando in tutti i modi di danneggiare l’Afghanistan. In quest’opera non sono soli e dopo il mio ultimo viaggio in Pakistan sono sempre più convinto che il governo di Islamabad, assieme agli Stati Uniti e al resto del mondo debbano collaborare concretamente per risolvere questo problema».

Schengen si allarga I ministri degli Esteri dei Ventisette hanno dato via libera all’ingresso della Svizzera nello spazio Schengen. Berna dovrebbe esere pronta ad entrare il primo novembre 2008.

LONDRA

Brown deve tagliare le spese per la difesa Gordon Brown deve prendere una decisione scomoda. Tagliare l'ambizioso programma d'investimenti nel campo della Difesa (che aveva deciso il suo predecessore Tony Blair). L'alternativa sarebbe ancora più dolorosa: lasciare senza fondi i militari britannici impegnati in Iraq, in Bosnia e in Irlanda del Nord. Un rapporto della Commissione difesa della Camera dei Comuni parla chiaro. Per realizzare le nuove fregate della classe “Type 45” (la prima, la HMS Daring, è stata varata nel febbraio 2006), i sottomarini nucleari di nuova generazione “Astute”, due nuove portaerei e il nuovo aereo-radar della serie Nimrod ci vogliono due miliardi di sterline (come dire 3,5 miliardi di euro) in più del previsto. Che semplicemente non ci sono. La soluzione? Il ministro della Difesa, Bob Ainsworth, dovrebbe annunciare a breve un altro rinvio del piano di ammodernamento degli arsenali di Sua Maestà.


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ECONOMIA E SOCIETÀ

NordSud IL DECLINO? È LA CLASSE DIRIGENTE Colloquio con Raffaele Bonanni di Francesco Pacifico al declino al declinismo. Dalla certezza che il Paese sta andando in malora al timore che in malora ci porterà l’eccessivo allarmismo. Sul futuro dell’Italia si dividono politici ed economisti, ma Raffaele Bonanni, il segretario generale della Cisl che da tempo denuncia l’impoverimento dei salari, preferisce fare una premessa prima di partecipare al dibattito: «Questo non può giustificare l’ottenere altri soldi da un’economia decrepita. Mai chiedere soldi a prescindere». Allora Bonanni, è il declino o siamo malati di declinismo? L’eccessivo pessimismo non è una malattia, ma la proiezione di una condizione concreta che sta minando le basi della convivenza come le energie importanti per costruire il futuro. E questo dipende dal deficit di classe dirigente. Che fa, cavalca l’antipolitica con l’Italia priva di governo? Ma no, non parlo soltanto della politica, ma più in generale di quelli che hanno il potere di costruire relazioni, di farsi sentire. Però i due schieramenti in questa fase potrebbero mettersi insieme per affrontare le emergenze dell’economia, del sociale o le riforme istituzionali. Meglio le larghe intese? Suggerisco soltanto quello che hanno fatto i tedeschi. Do idee, non input politici. Che non mi interassano. M’interessa invece un Paese che in 15 anni non ha

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fatto le riforme perché chi è andato al governo ha cancellato il lavoro fatto da chi l’ha preceduto. È assurdo. Perfetto modo per salutare il governo Prodi. Mi astengo dal commentare soltanto perché è caduto e non sono un maramaldo. Ma quando era in piedi, io sì che sono stato graffiante… Il problema è una classe dirigente che ha dato for-

ai rigassificatori, al nucleare, persino agli impianti eolici. Prenda l’Alitalia che finisce ai francesi e nessuno si lamenta per come si getta la politica turistica del Paese. Gli spagnoli hanno fatto carte false per Iberia… Non verrà assolvere un’imprenditoria che non ha fatto uno straccio di offerta? Ma quando ci si accorge che l’operazione deve andare in una direzione, e non mi riferisco sol-

Parla il segretario della Cisl: «C’è un sistema che si è chiuso in angusti recinti per salvaguardare se stesso» fait, si è rinserrata in angusti recinti per salvaguardarsi. E questo genera degrado, come dimostra Napoli. Napoli? Come è possibile che è in una regione da sei milioni di persone nessuno si sia preoccupato di fare un termovalorizzatore e di spiegarne l’importanza? La stessa magistratura, sempre solerte nel fare intercettazioni, lì non muove un dito. Che risposta si dà? Tutto perché c’è una classe dirigente che ha smarrito la proprio missione, non vuole fare neppure una battaglia per un inceneritore. Così abbiamo i no Tav, i no

tanto al governo appena caduto, gli imprenditori non si buttano. Ancora nessuno, neppure Prodi, mi ha spiegato perché Lufthansa è stata esclusa nonostante offrisse condizioni migliori in termini di rotte e investimenti. Ma allora siamo in declino? Il declino non è altro che l’immobilismo di una classe dirigente, che se va bene finisce per difendere interessi propri. Questo è il declino italiano, nato perché i partiti non sono più presidi di democrazia, ma oligarchie che hanno sequestrato il diritto di voto dei cittadini. Lo si dice pure del sindacato.

Il sindacato è un mondo variegato. E poi state parlando con il segretario di una confederazione che è prima per lavoratori attivi, mica pensionati. L’anno scorso la Cisl ha ottenuto 85mila iscritti in più, ha vinto tutte le elezioni Rsu, per non dire del risultato del referendum del welfare. D’accordo la Cisl non è la Cgil, ma il suo potere d’interdizione resta alto. Perché siamo tra i pochi a operare nell’interesse del Paese. Non è retorica, ma stiamo ancora in mezzo alla gente, parliamo con migliaia di lavoratori ogni giorno: loro non hanno altro sbocco che noi, noi abbiamo bisogno di loro per capire le necessità. Il tessuto democratico è logoro in ambito politico-istituzionale, non certo nel corpo sociale. Almeno un po’ di autocritica sul governo amico? Non va chiesta a me. D’accordo, torniamo al declino: a guardare i fondamentali le cose non andrebbero male: le esportazioni crescono, il deficit Pil va verso l’1,3 per cento e l’evasione cala. Non c’è una condizione generale perché ci sono imprenditori che accettano la sfida del mercato senza aiuti. Ma sono piccole e medie aziende, mai tutelate dalla classe dirigente. Il problema è che mancano le grandi, le uniche che fanno ricerca e innovazione, che sanno giocare all’estero. Tenendo fuori l’Eni, non c’è rimasto molto. Penso a Finmeccanica, ancora potentissima

e in grado di affrontare la concorrenza. Ma sono aziende del Tesoro. E allora? Preferiamo i colossi che abbiamo privatizzato e che sono diventati dei nani? Certo, è difficile contrastare competitori sempre più aggressivi se l’energia si paga l’80 per cento in più, perché si è abbandonato il nucleare. E le infrastrutture che ti costano di più, la pubblica amministrazione che zoppica, i servizi che sono molto onerosi ma meno efficienti… Questo taglia le ali soprattutto ai grandi. Lei ce l’ha con la politica. Ma no, critico un sistema che 10 anni fa, attraverso un patto scellerato, ha permesso a tutti di abbandonare il manifatturiero per fare affari nei servizi, dimenticandosi di darsi norme sulla concorrenza e di garantire gli interessi generali nei regimi concessori. Si riferisce ad Autostrade? E non solo. Io ho abbassato del tutto i costi della bolletta con Skype; ma mi si deve spiegare perché in ufficio, a Roma, ho la banda larga, mentre nella mia Val di Sangro, zona industriale così efficiente che ci investono ancora gli stranieri, c’è il doppino. Perché lo Stato non obbliga le compagnie a fare la banda larga anche lì? Non è che il sindacato in questi anni abbia parlato molto di mercato, ma tant’è gli ultimi dati confermano il vostro allarme sui salari.

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La ricetta: «Lavorare di più e meglio per guadagnare di più»


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NordSud segue da pagina 13 Certo, ma questo non deve essere una giustificazione per ottenere soldi – e di soldi c’è ne è bisogno – da un’economia decrepita. Il futuro ci impone di sfruttare meglio le nostre intelligenze e usare più intensamente i nostri impianti come hanno fatto gli anni scorsi in America. Legare meglio salari e produttività: per questo suggerite di rafforzare la contrattazione aziendale? Allora, si va verso il superamento del contratto nazionale? Intanto lo sviluppo del secondo livello non rimuove il contratto nazionale. Che deve soltanto intervenire per coprire i vuoti generati dall’inflazione e costruire le norme per le trattative aziendali. Stop. Quindi? La priorità per chi lavora è assecondare i gusti del mercato. Tradotto, i soldi li prendiamo soltanto se le aziende vanno bene. Per non parlare della valenza in termini di potere, di peso contrattuale, in questa trasformazione: un collettivo di lavoratori può chiedere e stabilire meglio il suo stipendio se partecipa alle scelte dell’azienda sull’organizzazione del lavoro o della produzione. Certo, così si finisce in prima linea, si prendono più rischi. Non rischiano anche i lavoratori più deboli? Il problema è che oggi chi è meno flessibile guadagna di più di chi è flessibile. Bisogna riappropriarsi dell’organizzazione del lavoro. In chiave moderna, sembra di risentire Giulio Pastore o Pierre Carniti parlare di cogestione. Ma quest’utopia ci accompagna dalla nascita della Cisl. È nello statuto, ne ha scritto pagine bellissime il professor Romani, il nostro massimo teorico. Ha una valenza sociale perché combatte l’alienazione data dell’essere soltanto un ingranaggio, dal non sapere cosa si muove intorno a noi. Ha una valenza politica perché supera il mero antagonismo tra società e lavoratori, facendoli partecipare al rischio aziendale. Allora sembrava avveniristico… Lo è tuttora per la Cgil. E i dubbi nel vecchio governo li dimentichiamo? Per non parlare degli imprenditori che, si dice a Napoli, devono smetterla di chiagnere e fottere. Ma si può fare, dipende da chi succederà a Prodi, che deve concedere l’abbattimento delle tasse sugli aumenti concessi con il secondo livello. Altrimenti i i riformisti che ci sono a fare? Bella domanda. Le riforme non sono mica affrancate dalla realtà. Altrimenti lo iato tra classe dirigente e società sarà ancora più alto. Sa perché gli spagnoli vanno forti, perché c’è qualcosa di spirituale che li unisce: vogliono crescere, lo fanno in ottica di giustizia sociale. A Siviglia mi ha emozionato sentir dire a Zapatero che «i risultati ottenuti dal suo e dal precedente governo sono

dovuti alla concertazione». Capito, ha riconosciuto i meriti di Aznar. In Italia invece non c’è riconoscimento reciproco tra i poli e manca un progetto, un principio unificatore che salvi il Paese dal declino. Appunto. Ma potremo ripetere quanto ci siamo detti negli anni nel boom: vogliamo andare avanti ed essere più democratici. Aggiungendo: lavorare di più e meglio per guadagnare di più. Eppoi allora non c’erano quelli che bacchettavano, che ti dicevano devi stare peggio. Invece oggi c’è chi consiglia di lavorare quanto i cinesi. Cavolate di qualche solone. Dobbiamo lavorare meglio dei cinesi non come i cinesi. Non preoccuparsi ma avvantaggiarsi di quello che producono. Io ho comprato un giaccone in piuma, un po’ dozzinale in verità, ma l’ho pagato 70 euro. Il problema è cosa vendiamo loro, quindi puntare sulla qualità prima che ci superino anche in questo. Se la ricetta è produrre meglio e guadagnare di più sfruttando la leva della contrattazione aziendale, non si poteva approfittare dell’accordo dei metalmeccanici? Si può sempre fare di più, ma questo è stato il compromesso trovato con gli imprenditori. Eppoi ci siamo tolti quel macigno che era il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Intanto, quando avete chiesto risorse per i salari, PadoaSchioppa vi ha risposto che i soldi sono pochi. Chi sostituirà Prodi a Palazzo Chigi non deve fare cadere l’argomento. E soprattutto non deve seguire PadoaSchioppa, che troppe volte ha dato delle cifre e poi ne sono uscite altre: l’ultima Finanziaria doveva essere di 11 miliardi di euro e poi si è passati a 16. Discutiamo invece di detrazioni per chi ha figli e soggetti non autosufficienti, di abbattimento delle tasse sul secondo livello, fino ad arrivare alla revisione delle aliquote Irpef. Eppoi un federalismo fiscale che aumenti le responsibilità di chi riceve denaro dai cittadini per creare servizi. Oggi invece siamo caricati come muli, ma non è solidarietà vedere un lombardo, che dà cento in tasse allo Stato per vedersi restituire 70 attraverso servizi scadenti. Per concludere, è chiaro che per lei manca il sistema-Paese. Ma quando il governo Prodi nacque, godeva del sostegno o della non belligeranza di Confindustria, banche e sindacati. Si era parlato anche di un patto renano tra di voi… A me quell’idea non convinceva, perché le banche non mi sembravano interessate a discutere con noi di costi fissi, quanto di finanza e di servizi. Comunque non ci sarà sistema-Paese finché la politica resterà autoreferenziale, non si daranno regole al mercato e si riprenderà a discutere di liberalizzazioni. Dopo tante lenzuolate qualcuno ha capito quali sono stati i benefici e dove ancora intervenire?».

libri e riviste

Guido Rossi - Mercato d’azzardo Adelphi, 110 pagine, 28 euro

Michael Porter riaggiorna il suo celebre studio sulle cinque forze che plasmano la competizione. Robert S. Kaplan e David P. Norton si soffermano sul legame tra strategia e attività operativa in un management system di alta efficacia. Cynthia Montgomery pone l’accento sulla necessità di spingere i manager ad assumersi la responsabilità dell’elaborazione e dell’esecuzione della strategia. Rosabeth Moss Kanter descrive invece l’influenza dal basso nelle soluzioni lanciate da molte grandi realtà. L’amministraore delegato di Lazard, Bruce Wasserstein, rivendica in un’intervista di avere, con i propri consigli, ispirato manager e iniziative di successo più di chiunque altro nel mondo del business. Da segnalare anche i contributi di Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, sulle sfide che attendono il settore petrolifero, e di Beatrice Trussardi.

uando Guido Rossi scomunicò i patti di sindacati, si sollevarono proteste e ironie contro il giurista che (su tutti gli accordi su Rcs per blindare il Corriere) più di altri ne aveva scritti. Ma ciò non ha frenato l’ex presidente di Telecom e Montedison dal continuare la sua attività censoria contro le storture del capitalismo. Con prosa diretta ma al tempo stesso elegante, in Mercato d’azzardo, Rossi chiude la trilogia iniziata con Il conflitto epidemico e il Gioco delle regole (sempre pubblicati da Adelphi) e dà un quadro dell’economia italiana allarmante. Un quadro nel quale i mercati diventano «i teatri della liquidità», le scelte aziendali sono influenzati degli speculatori, la riforma della corporate governance si è ridotta a uno strumento per aumentare gli stipendi dei manager, Nunzia Penelope - Vecchi e potenti – facendoli pagare ai piccoli azionisti. Rossi, uomo di questo sistema, sa dove politica, istituzioni, banche, imprese: perché l’Italia è in mano ai settantenni” andare a colpire. E se l’analisi è difficilmente attaccabile, più complesso applica- Baldini Castaldi Dalai, 368 pagg., 17,50 euro re le soluzioni che propone. Per il giurista soltanto l’Europa, dandosi un suo organiiaggio di Nunzia Penelope nel smo antitrust, può uniformare le regole fronte gerontocratico che guida e ed evitare quei conflitti d’interessi (come forse blocca l’Italia. Al centro della quello tra banche e aziende del risparmio gestito) che fanno bruciare ricchezza. sua indagine ci sono, da un lato, i Cesare Dalla mano invisibile alla mano europea. Geronzi o i Giovanni Bazoli, i Vittorio Merloni o i Giuliano Amato; dall’altro i Jaki Elkann o i Matteo Arpe.Tutti raccontati attraverso interviste o caustici aneddoti. Così, alla fine delle 368 pagine del libro, ci si rende conto che è difficile parlare di lotta all’ultimo sangue tra i componenti della “meglio senectute” e giovani delfini che vogliono sostituirli. Si nota, e non è meno preoccupante, l’incapacità di queste due generazioni di capirsi e di confrontarsi, di muoversi con lo stesso passo e verso gli stessi obiettivi. Non a caso Giuliano Amato, che pure nel 1992 nominò il quarantenne Franco Bernabè alla guida dell’Eni, si chiede: «Trovare in Italia dei quarantenni bravi è difficile: chissà, forse sono nascosti nei sottoscala. Harward business review Italia Ma mi chiedo: sono nascosti perché non Strategiques edizioni, pagg. 125, 13,50 euro hanno meriti, perché sono pigri, o perché sono stati compressi da altri ? È un fenomeno che andrebbe indagato». Da non in uscita l’ultimo numero di perdere, infine, il 40enne Matteo Arpe che Harvard business review, che racconta lo scontro in Capitalia con il festeggia quest’anno il suo cente- 70enne Cesare Geronzi: «Ho preso (la nario. L’edizione italiana curata da Enrico banca, ndr) che valeva meno di due Sassoon ospita le opinioni di importanti miliardi e l’ho portata a 21». E se la prenesperti di management per fare il punto de con le grandi commissioni che prendosulla cultura e sulla strategia aziendale. no i manager per le loro consulenze.

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NordSud

Il miracolo dei piccoli non colma il gap di crescita di Enrico Cisnetto arlare di declino italiano dopo che per settimane i media internazionali hanno utilizzato l’immagine delle montagne di immondizia napoletane per descrivere il nostro Paese sembrerebbe quasi di cattivo gusto: come sparare sulla Croce rossa. Eppure c’è chi, proprio mentre le Borse cadono per paura della recessione americana o magari mondiale, parla di mini-boom italico, farnetica di grande trasformazione del nostro capitalismo, ipotizza che un po’di recupero nella capacità esportativa (interessante, ma siamo lontani dalle quote di commercio mondiale di un tempo) significhi la fine della marginalità del made in Italy. È il caso, per esempio, di alcuni economisti – da Marco Fortis ad Alberto Quadrio Curzio – di centri di ricerca come il Censis (anche se il suo ultimo rapporto è più “declinista” di quanto si ammetta), ma anche di uomini di mercato come Pietro Modiano, grande banchiere e sensibile conoscitore della realtà italiana, anche politica. Anzi, a ben vedere è proprio il direttore generale di IntesaSanpaolo che sembra volersi mettere alla testa di questa pattuglia di “ottimisti senza se e senza ma”. Ottimisti che, offrendo una difesa appassionata del sistema-Italia e indicando su un’ideale bilancia pesare più il valore delle forze economiche propulsive rispetto a tutte le carenze del Paese, si assumono la responsabilità di sostenere che l’Italia non è in declino. E che, anzi, è grave e controproducente parlare in questi termini. Finiamola di piangerci addosso, questo è il messaggio, perché il declinismo è una pericolosa profezia che si autoavvera, lo specchio deformante che deprime il Paese e le sue forze più interessanti. E di

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converso chi denuncia la strutturalità delle difficoltà nazionali, come il sottoscritto, diventa “sfascista” e anche un po’ iettatore. No, caro Modiano, no cari ottimisti. La realtà non è questa. Voi parlate di miracolo – perché, nel caso, di miracolo trattasi – compiuto da alcune migliaia di imprese che coraggiosamente hanno continuato a investire negli ultimi anni nonostante l’euro forte, e che ora sarebbero capaci di trainare il resto del nostro apparato produttivo. Vero, questa minoranza esiste ed è combattiva, ma conta su 5-10mila aziende di stazza media e medio-piccola, una serie di punte di eccellenza fortemente caratterizzate da relativa marginalità (nicchie di mercato), niente affatto trainanti ma semmai residuali. Residuali perché si tratta di quelle realtà che si sono salvate dallo tsunami di questi anni di cambiamenti epocali provocati dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica. Residuali perché incastonate in una realtà molto più vasta (i 5 milioni di soggetti imprenditoriali italiani) che ogni giorno combatte con un sistema-paese inesistente: con infrastrutture d’epoca, con un livello di tassazione che nonostante le promesse non è sceso, con il credit crunch in atto che sta portando (anche se non lo dice nessuno) il sistema bancario a stringere i cordoni della borsa, rendendo l’avventura imprenditoriale quotidiana ancora più darwiniana. È inutile, poi, continuare a recitare come un mantra che il Pil è positivo. Nel valutarlo, non serve più confrontarsi col passato come si faceva un tempo, ma bisogna spostare il termine di paragone con i Paesi competitor, a cominciare da quelli europei. Così ci accorgeremmo di ciò che è successo negli ultimi 11 anni: un periodo

Non possiamo dirci soddisfatti da un Pil in salita dell’1,9 per cento

i convegni ROMA martedì 29 gennaio 200 Sala delle Colonne, Camera dei Deputati Si discute di “liberalizzazioni difficili” nell’incontro organizzato da Assoutenti. Partecipano Linda Lanzillotta, Sergio D’Antoni, Raffaele Morese (presidente di Confservizi) e Vito Riggio (presidente dell’Enac). ROMA martedì 29 gennaio 2008 Palazzo Altieri, Abi Oggi e domani si tiene il Forum Csr 2008, annuale apputamento dell’Abi dedicato alla responsabilità sociale dell’impresa. Intervengono, tra gli altri, Giuseppe Zadra, direttore generale dell’Abi, e Giuseppe Mussari, presidente del Monte Paschi.

in cui la nostra economia è stata costantemente un passo indietro rispetto ai nostri colleghi di Eurolandia (mediamente del 37 per cento l’anno: tra il 1997 e il 2007 noi siamo cresciuti in media dell’1,4 per cento all’anno, mentre l’area dell’euro del 2,2 per cento). Nel periodo, il differenziale accumulato nella creazione di ricchezza è stato di 8,8 punti, che diventano addirittura 18 rispetto agli Stati Uniti, visto che nel medesimo periodo la loro economia è cresciuta a un ritmo del 3,2 per cento all’anno, ben 2,3 volte superiore a quello italiano. Di fronte a questi dati, conta il fatto che il 2007 si sia chiuso con un +1,9 per cento? A me non sembra. Perché quale che sia la congiuntura internazionale, le nostre performance si mantengono distanziate da quelle continentali e da quelle americane in modo costante, impedendoci, come dimostrano i dati sul commercio mondiale, di recuperare quote di mercato. Persino sull’unico fronte in cui possiamo vantare dati migliori degli altri, quello della disoccupazione, l’Ocse ci segnala che quell’essere calati sotto la soglia del 6 per cento – meno della metà rispetto a 10 anni fa – lo abbiamo pagato moltissimo in termini di performance di produttività “molto povere”, tanto che il Pil pro-capite per lavoratore è oggi inferiore a quanto fosse nel 2000, e ciò causa un costo del lavoro per unità di prodotto e ritmi di tempo-lavoro che ci spiazzano nella competizione mondiale. E il futuro? Non fa certo ben sperare, se seguiamo previsioni come quelle di Mario

Baldassarri e del suo centro studi Economia Reale, che calcola per il 2008 un incremento del Pil solo dello 0,6 per cento – con un deficit pubblico che si riporterebbe pericolosamente intorno al 3 per cento – a fronte di 1,5-2 di Eurolandia. Ecco allora che emerge con grande chiarezza qual è il punto su cui intervenire: la crescita. Premere il pedale dello sviluppo, ripensando coraggiosamente la politica industriale del Paese. Ma per pensare a un rilancio è indispensabile una preventiva diagnosi condivisa. E qui casca l’asino di Modiano e dei suoi amici ottimisti: finché ci si consola guardando al bicchiere mezzo pieno (ammesso che sia tale), al buon vecchio capitalismo famigliare, al “boom silenzioso” di marca Censis, non sarà mai possibile mettere in atto quelle iniziative di carattere straordinario che servono al Paese. Forse perché la politica è troppo impegnata a salvare se stessa dalla crisi più profonda dai tempi di Tangentopoli, forse perché il “salotto buono” dell’economia non esiste più da un pezzo, frazionato in molti “saloncini” decisamente più angusti, fatto sta che quello trionfante rimane il partito trasversale degli indecisionisti, del “non si può”. Un partito che non vuole saperne di diagnosi severe, e alle cure aggressive e magari dolorose preferisce gli antidepressivi. Allontanando i medici realisti (che iettatori!) continuiamo allora a far finta che vada tutto bene. In Italia, del resto, la situazione è sempre seria, ma non grave. (www.enricocisnetto.it)

BARI martedì 29 gennaio 2008 La Confindustria di Bari fa il punto sulla “competitività del sistema industriale italiano. Energia, infrastrutture, politica industriale”. Intervento clou quello di Emma Marcegaglia, vice presidente Energia di Confindustria. MILANO mercoledì 30 gennaio 2008 Teatro Strehler La Indicod-Ecr promuove il convegno “Concorrenza come motore della crescita”. Tra i relatori Antonio Catricalà, presidente Antitrust, e Pier Luigi Bersani. ROMA giovedì 31 gennaio 2008 Istituto dell’Enciclopedia italiana La Fondazione Ugo La Malfa organizza la tavola rotonda “I nodi del sistema pensionistico e il loro impatto sulla spesa pubblica”. Con Giuliano Amato e Giampaolo Galli, direttore dell’Ania. TREVISO venerdì 1 febbraio 2008 Teatro Eden Le “Prospettive dell’economia mondiale 2008” al centro di un incontro organizzato da Unicredit. Ne discutono l’Ad del gruppo, Alessandro Profumo, e Alessandro leader di Riello, Confindustria Veneto.


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NordSud I dati dimostrano che gli occupati sono cresciuti nelle realtà meno ingessate come le Pmi

L’ARMA della flessibilità per aggredire i MERCATI di Giuliano Cazzola

upponiamo che due autisti siano incaricati di condurre, a turno, un’automobile dotata di una tecnologia molto sofisticata e delicata. E che, soprattutto, entrambi siano inadeguati a guidarla. Uno di essi è convinto che nessuna vettura sia migliore della vecchia e cara Millecento della Fiat. Magari ha qualche rimpianto per la Trabant, orgoglio della Germania comunista. E comunque pretende di condurre ogni mezzo affidatogli come se fosse alla guida della sua macchina ideale. L’altro, invece, è un innamorato entusiasta dei motori, quasi alla stregua di un poeta avanguardista del secolo scorso. Ma non ha conseguito la patente in un’autoscuola riconosciuta, ha poca esperienza nella guida, confonde i comandi e scambia i segnali stradali. Per di più è daltonico e attraversa i semafori con il rosso. In tali condizioni non c’è da stupirsi se, affidata alla guida alternata di autisti di siffatte capacità, l’automobile è avviata a un destino di accelerato declino. La metafora è facilmente interpretabile. La sventurata vettura è la società italiana; gli autisti sono le due coalizioni del nostro sgangherato bipolarismo: quello arcignamente “nostalgico” rappresenta l’Unione, quello generosamente “improvvisato ed improvvisatore” la Casa delle libertà o ciò che ne resta. L’Italia, insomma, è malata di politica, non ha più una guida, è prigioniera delle corporazioni e delle coalizioni di interessi che rifiutano il cambiamento. Affidati a se stessi, se la cavano (talvolta pure egregiamente) quei pezzi di società e di economia che possono fare a meno della politica, che sono stati capaci di misurarsi, affidandosi soltanto alle proprie forze, con le sfide del cambiamento. Così è stato per settori importanti del mondo dell’impresa, che in anni difficilissimi come quelli dell’inizio del nuovo secolo

S

sono riusciti a trovare degli spazi di nicchia nei mercati internazionali. Ciò in un rapporto virtuoso e biunivoco con il lavoro. Per capirlo, infatti, è sufficiente osservare la variazioni medie dell’occupazione nei diversi periodi. Dal 1986 al 1990 l’incremento medio annuo è stato, in Italia, dello 0,4 per cento. Dal 1991 al 1995 la tendenza si è invertita (- 1,1 per cento). Poi è iniziata la ripresa: + 1 per cento dal 1995 al 2000; + 1,4 dal 2001 al 2006. In quest’ultimo periodo tra i Paesi europei soltanto l’Irlanda (+3,1 per cento) e la Spagna (+4 per cento) hanno avuto risultati migliori. Anche perché si tratta di nazioni che non si sono certo risparmiati nulla sul versante della flessibilità del lavoro. Questi andamenti positivi vanno rapportati, ovviamente, alle dinamiche produttive. Il Cnel ha confermato che l’incremento dei livelli occupazionali avvenuto durante una fase di recessione è «fatto del tutto inusuale in una prospettiva storica». In sostanza, grazie a una nuova legislazione che ha sbloccato il mercato del lavoro – qui almeno la politica non ha fallito – l’occupazione è aumentata anche in momenti di ristagno dell’economia. È interessante notare le caratteristiche della crescita occupazionale riscontrata nel 2006, che può essere definito sicuramente un anno-chiave anche sul versante del trend dell’economia. Tale positiva evoluzione si è concentrata nelle piccole e medie imprese. Ma all’interno di questo universo si è assistito a un particolare fenomeno. Le aziende che impiegano almeno 10 dipendenti ma non superano i 50 (le quali, complessivamente, danno lavoro a circa un quarto degli occupati italiani) hanno registrato un incremento notevole, mentre le aziende più piccole e quelle medie hanno avuto performance più deludenti. Il numero di occu-


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NordSud

••• MERCATO GLOBALE •••

NELL’ERA DEI SOVRANI DELLA SPECULAZIONE di Gianfranco Polillo lmeno per il momento la situazione è stata tamponata. Le Borse hanno ripreso fiato, seppur con mille incertezze, ma la crisi è lontana dall’essere risolta. Eppure l’intervento è stato eccezionale. La Fed si è mossa con tempestività, allargando i rubinetti del credito, con un’iniziativa che non ha precedenti. Un taglio di 0,75 punti nei tassi di interesse si era verificato solo nel 1984, quando le stesse Borse erano sull’orlo del tracollo. Oggi la storia si ripete, con qualche brivido in più, ma non è detto che i risultati saranno quelli sperati. Perché, nel frattempo, la realtà è profondamente mutata. L’Occidente sta regredendo nei grandi equilibri internazionali, dove avanzano le nuove potenze asiatiche e gli emirati del petrolio. E se l’Occidente nel suo complesso perde colpi, sono soprattutto gli Stati Uniti a soffrirne maggiormente. Questo è il lato oscuro della crisi che ancora non si vede e non è stato analizzato. I cambiamenti più rilevanti sono avvenuti nei mercati finanziari. In quest’ultima settimana, due grandi settimanali – l’Economist e Business Week – recavano in copertina il loro grido di allarme contro la presenza dei Fondi sovrani di investimento. Strutture direttamente controllate dal potere politico cinese o da quello degli emirati arabi. Fatto tutt’altro che inspiegabile, se si considera che gran parte del risparmio mondiale si concentra ormai nelle mani di queste oligarchie. Enormi ricchezze, sotto forma di attivi valutari, che non sono impiegate, se non in minima parte, in progetti di sviluppo per le proprie popolazioni, ma reinvestite nelle grandi metropoli del benessere occidentale. Finora il riciclaggio aveva funzionato grazie al monopolio della rete da parte delle principali banche internazionali. Poi la catena si è incrinata e i fondi hanno cominciato a agire per proprio conto, intervenendo direttamente nel capitale delle grandi istituzioni americane ed europee. Un primo brutto colpo per gli equilibri complessivi del sistema. Tale, tutta-

A

pati nelle piccole imprese è cresciuto in media dell’11 per cento (con incrementi ancora più vivaci per le imprese fino a 15 dipendenti e per quelle con più di 20 dipendenti). Mentre nelle aziende con in organico almeno 50 dipendenti ma non più di 250, l’occupazione è risultata in leggera flessione (0,4 per cento). Nel caso delle microimprese – non più di 10 dipendenti) – l’occupazione si è invece contratta (-0,8 per cento). Tali evoluzioni, secondo il Cnel, segnalano che i processi di ristrutturazione, soprattutto nell’industria, hanno premiato le “taglie medie” con maggiori capacità ed opportunità competitive: in sostanza, il modello Nordest ancora una volta è stato valorizzato. Ma la condizione del Mezzogiorno rimane problematica. Come ha evidenziato di recente il Rapporto Svimez, sia pure in un contesto di cre-

I fondi controllati dai governi cinesi o arabi immettono liquidà che i sistemi di Usa ed Europa non riescono a metabolizzare. Nascono così le nuove direttrici del potere geoeconomico via, da non determinare una crisi così profonda come quella che si intravede. Il secondo choc si è prodotto negli assetti dell’economia reale. Il sistema ha funzionato fin quando gli Stati Uniti sono riusciti a mantenere alta la guardia del tasso di sviluppo. Forte crescita della produttività e altrettanta crescita nei consumi. Uno speculare all’altro e viceversa. Un circolo virtuoso che si autoalimentava, anche se, sul terreno puramente finanziario, si manifestavano squilibri crescenti che il riciclaggio internazionale riusciva tuttavia a governare. Lo Stato spendeva molto di più di quanto incassava dal fisco? Poco importava: i fondi esteri colmavano il vuoto con prestiti adeguati. La bilancia dei pagamenti mostrava un profondo rosso? Nessun problema. Gli Usa rimanevano un Paese solvibile, capace di indebitarsi, a tassi di interesse eccezionalmente contenuti. Naturalmente poteva durare all’infinito soltanto vincendo ogni legge di gravità. Ma il diavolo, alla fine, ci

le cifre

+11

per cento. La crescita boom dell’occupazione tra il 2001 e il 2006 che ha contraddistinto le piccole imprese.

+1,4

per cento. La crescita dell’occupazione tra il 2001 e il 2006, superiore alla media europea, dovuta agli interventi sul mercato del lavoro come la legge Biagi.

-0,4

per cento. Il calo degli occupati che, in una fase favorevole come il quinquennio 2001-2006, hanno registrato le imprese tra i 50 e i 250 dipendenti.

ha messo la coda. Per sostenere i consumi le grandi banche hanno prestato soldi anche a coloro che non sarebbero stati in grado di restituirli. Una scommessa, come quella dei subprime, che, alla fine, si è dimostrata essere un azzardo morale. Perché la produttività dei nuovi debitori non era tale da garantirsi un reddito adeguato, in grado di far fronte alle obbligazioni contratte. Ed è stato l’inizio della fine. Al primo rialzo dei tassi di interessi sono iniziate le insolvenze. Quindi la crisi si è diffusa come un’epidemia generando perdite diffuse tra banche e fondi di investimento. E il flusso dei finanziamenti si è interrotto. Al corto circuito la Fed ha reagito come abbiamo indicato. Basterà? Non ne siamo sicuri. Se la crisi ha il suo epicentro nello squilibrio tra produttività e salari, che sono la base dei consumi, è sul primo termine dell’equazione che bisogna intervenire. Negli Usa, in Europa, ma soprattutto in Italia, dove produttività e offerta di lavoro soffrono da tempo.

I processi di ristrutturazione hanno premiato le “taglie medie” del Nordest e acuito la distanza tra il Sud e i nostri competitori. Una sfida per la politica scita dell’occupazione di ambedue le aree, il divario si è ulteriormente allargato. E qui ritorniamo alla questione che ponevamo all’inizio: il rapporto tra la società e la politica. Nel Meridione la società civile è troppo debole; soffre di una grave dipendenza dalla politica. E ne subisce il degrado. In termini purtroppo accelerati. È l’Italia che è malata di nichilismo, che è percorsa da brividi di fascismo, con l’aggravante dell’assenza di qualunque strategia, perché la violenza sempre più frequente non è

rivolta al raggiungimento di un obiettivo, di un disegno politico, ma è fine a se stessa. È disperazione omicida. Anzi, è desiderio di morte. Romano Prodi, qualche settimana prima delle sue dimissioni, se l’è presa per come è stato interpretato il confronto con la Spagna. È senz’altro vero che le dimensioni della nostra economia sono assai più ampie di quelle iberiche. Tra l’altro l’Italia ha anche maggiore popolazione rispetto a questo partner europeo. Non c’è dubbio, però, che Madrid

ha un trend molto più vivace e accelerato rispetto al nostro: nel 2007, il surplus del bilancio ha superato il 2 per cento, mentre il Pil è cresciuto del 3,8. Anche per quanto riguarda la questione dei divari territoriali, il Sud della Spagna ha compiuto significativi progressi che il nostro Mezzogiorno continua a ignorare. Tanto che la questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania è talmente scandalosa da fare il giro del mondo come una pagina vergognosa per l’Italia.


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poteri Ecco uno dei bottini più allettanti sfuggiti al governo Prodi

All’Inps le nomine sono migliaia, l’Unione si danna per questo di Giuliano Cazzola a ragione Gianfranco Polillo (Liberal del 26 gennaio): agli scampoli della maggioranza del 2006 interessa molto poco una nuova legge elettorale. Vogliono durare, in qualunque modo, il più possibile a un solo scopo: avere voce in capitolo nel nominificio (Polillo ha calcolato ben 600 poltrone da occupare) che verrà a scadenza nelle prossime settimane. Nel fare l’elenco degli incarichi da rinnovare Polillo ha trascurato, però, alcuni tra i più importanti. Mi riferisco alle posizioni di vertice dei maggiori enti previdenziali: Inps, Inail, Inpdap e i loro «fratelli minori». Si tratta di amministrazioni con bilanci d’esercizio che movimentano – in entrata e in uscita – la bellezza di 500 miliardi l’anno. Le attività di questi Istituti interagiscono con l’economia del Paese, col sistema delle imprese e con 22 milioni di famiglie (basti pensare che il reddito del 40 per cento dei nuclei familiari deriva prevalentemente dai trasferimenti monetari di un modello di

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welfare che gestisce ogni tipo di prestazione: dalle pensioni agli infortuni, dal mercato del lavoro ad ogni forma di sostegno al reddito e di agevolazioni contributive).

Nel solo Inps ci sono ben 6mila poltrone, al centro e in periferia, raccolte in più di 900 organismi collegiali a cui sono affidati compiti delicatissimi nel riconoscimento, anche discrezionale, di prestazioni ai singoli (si pensi alla problematica delle invalidità) e alle aziende (come il riconoscimento della cassa integrazione guadagni o la rateizzazione degli obblighi contributivi). Ma il maggiore ente previdenziale può essere usato per operazioni ancora più ampie sul versante del consenso alla politica. Ricordiamo, per tutte, l’adesione dell’Istituto alla cosiddetta sanatoria dei crediti contributivi in agricoltura: in pratica un condono mascherato, in assenza di qualunque indicazione di legge, per ben 6miliardi a beneficio delle aziende, fortemente voluto dal ministro

De Castro e dallo stesso Prodi. Un’operazione che ha vanificato, in pratica, la più severa normativa adottata dal Parlamento (l’introduzione dei cosiddetti Durc) per combattere l’evasione nelle campagne. L’Inps, poi, è magna pars di Equitalia, il soggetto pubblico a cui è affida-

ziali» il compito di coprire, per 3,5 miliardi in un decennio, parte dei maggiori oneri derivanti dalla manipolazione dello scalone. Ma l’economia ha voluto cautelarsi (giustamente perché i risparmi in materia appartengono «all’esile sostanza di cui sono fatti i sogni»), preve-

Non c’è dubbio: alla maggioranza

appena battuta, più che le riforme, stanno a cuore le poltrone. E quelle degli enti previdenziali

rappresentano una grande leva di consenso, grazie a partite come la sanatoria

dei crediti contributivi in agricoltura ta la riscossione del gettito tributario. Il governo inoltre ha affidato, nella legge n. 247/2007 che ha dato attuazione al protocollo del 23 luglio scorso, alla «razionalizzazione degli enti previden-

dendo una «stangatina» di ordine contributivo (pari allo 0,09%) se nel 2011 i risparmi promessi non saranno ancora in vista. Che la razionalizzazione sia una promessa temeraria lo ha sostenuto anche la Ragioner-

ia generale dello Stato, i cui rappresentanti, in sede di audizione parlamentare, hanno dichiarato che «eventuali economie derivanti dall’operazione di accorpamento degli enti non possono essere utilizzate per la copertura finanziaria di nuove spese nel senso che gli eventuali risparmi di spesa derivanti da tale operazione non possono essere utilizzati come fonte di copertura per eventuali disposizioni recanti oneri certi, derivanti ad esempio dal potenziamento delle tutele e dei diritti soggettivi nell’ambito delle prestazioni sociali». Ma l’improbabile razionalizzazione (Prodi ne parlò persino nella conferenza di fine d’anno) era solo un pretesto per una prise du pouvoir assoluta e totalitaria: il disegno del governo prevedeva la nomina di un supercommissario unico per tutti gli enti nel mirino, coadiuvato da tre subcommissari nelle persone degli attuali direttori generali (Vittorio Crecco dell’Inps, Piero Giorgetti dell’Inail, Giuseppina Santiapichi dell’Inpdap).

Toccherà eventualmente alle commissioni bloccare l’ondata di prebende personale già in servizio on il Parlamento presso il ministero dell’Ampraticamente sciolto biente e della tutela del tersembrerebbe una ritorio e del mare e del minsciocchezza scrivere istero dello Sviluppo ecouna lettera aperta ai presidi Paolo Messa nomico), per i quali non è denti delle commissioni previsto un solo gettone. Ambiente di Camera e Senato. Purtroppo, non è così. Il malcos- politico, la sfiducia incassata non ta anche un brutto esempio di per- In questi mesi le occasioni di contume di certa politica italiana non sembrano arrestare la fame lottizza- vasività della ”casta”. La struttura fronto (e scontro) con il ministro conosce limiti. Il governo Prodi, toria di Pecoraro Scanio, che insiste del nuovo Comitato nazionale di Pecoraro Scanio non sono mancate. definitivamente caduto, non ha cer- a voler riorganizzare un ministero gestione e attuazione della direttiva Ma non si tratta soltanto di ribadire to mancato di creare difficoltà e os- che non amministra più. Ci rivol- 2003/87/CE (quella che istituisce il una diversa visione della tutela deltacoli, ma fra quanti hanno causato giamo all’onorevole Ermete Realac- sistema comunitario per lo scambio l’ambiente. In questo caso, è in giol’impopolarità del centrosinistra ci, al senatore Tommaso Sodano: delle quote di emissioni di CO2) - co qualcosa di più: il tanto strattonaspicca senz’altro Alfonso Pecoraro nelle prossime ore le Commissioni che prevede la presenza di un Con- to ”senso delle istituzioni”. Ancora Scanio. Se non fosse stato per l’in- da voi presiedute saranno convocate siglio direttivo (7 membri, incre- non sappiamo se il Capo dello Stato tervento della Procura di Santa per esaminare lo schema del nuovo mentati da 3 per le decisioni in ma- vorrà incaricare un altro premier o Maria Capua a Vetere che ha prodot- regolamento del ministero dell’Am- teria di progetti di assorbimento di sciogliere le Camere. Di certo c’è to la rottura fra Unione e Udeur, la biente, che prevede la soppressione carbonio), di una segreteria tecnica che il leader dei Verdi non sarà (non crisi si sarebbe aperta con la sfidu- della direzione generale che com- (14 membri) e di una segreteria am- è) più ministro. Come si può pensare cia che il Senato avrebbe decretato prende i servizi “Sviluppo sosteni- ministrativa (8 membri) - com- che sia lui a determinare le conal ministro dell’Ambiente. Non è un bile” e “Protezione internazionale porterà inevitabilmente un rallenta- dizioni di un riassetto di quel dicascaso, infatti, se gli editorialisti del- dell’ambiente”, istituiti nel 2000 dal- mento del processo decisionale in- tero? Tanto più che il decreto che l’autorevolissimo quotidiano La l’allora ministro Edo Ronchi per sieme a un inevitabile aumento dei propone al Parlamento poggia su Stampa nel dare le pagelle ai mem- allineare l’organizzazione del min- costi di gestione del sistema. Lo due pilastri: la vendetta politica e il schema di decreto proposto clientelismo. La precarietà della legbri dell’esecutivo abbiano assegnato istero a criteri e standard europei. il voto più basso (un sonoro 2) pro- Questa proposta di modifica oltre ad prevede, infatti, compensi per tutti i islatura deve favorire un di più di essere un passo indietro per il min- suoi membri (32) mentre sappiamo trasparenza e rigore e non una rinprio al leader dei Verdi. Eppure le vicende di Napoli, il suo istero, in controtendenza rispetto che, attualmente, esiste un Comitato corsa da ”saldi di fine stagione”. personale ed evidente fallimento alle scelte internazionali, rappresen- formato da 6 membri (assistito dal Non sarebbe accettabile.

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Fermate il colpo di coda di Pecoraro


economia

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L’allarme di Palazzo Koch: i redditi delle famiglie italiane fermi dal 2000

Bankitalia: i salari pagano la scarsa produttività di Francesco Pacifico a un parte le famiglie dei lavoratori fissi con stipendi congelati ormai da sei anni. Dall’altro i nuclei con a capo i lavoratori autonomi, che hanno visto crescere a dismisura, e nello stesso lasso di tempo, i loro guadagni. Due Italie separate, che sembrano muoversi su binari paralleli. Mentre politici e studiosi si dividono sul declino del sistema Paese, Bankitalia preferisce non entrare nel dibattito ideologico e offre un quadro allarmante. Come si evince dall’ultimo supplemento al Bollettino statistico di Palazzo Koch, «per il periodo 2000-2006 il

D

reddito delle famiglie (a reddito fisso, ndr) in termini reali è infatti rimasto sostanzialmente stabile (0,3 per cento) rispetto a una crescita del 13,1 per cento delle famiglie con capofamiglia autonomo». Non solo, perché non ha migliorato le cose neppure la fase espansiva degli ultimi anni. «Il miglior andamento delle famiglie con capofamiglia dipendente fra il 2004 e il 2006», nota Palazzo Koch, «compensa soltanto in parte la riduzione osservata fra il 2000 e il 2004». Il che si traduce nella stagnazione dei consumi di questi anni. Di per sé l’analisi di Bankitalia non deve sorprendere. Anche perché è facile individuare le cause del fenomeno: il progressivo aumento del petrolio che ha avuto ripercussioni inaspettate sui beni primari come gli alimentari; la necessità, se non l’imperativo, di congelare l’inflazione, che ha spinto le parti a rinnovare con estrema difficoltà i contratti collettivi in scadenza; una tassazione incontrollata, che da un lato deve affrontare l’annoso problema del deficit, e dall’altro diventa necessaria per mantenere il livello dei servizi. E poco importa che

questi siano spesso inefficienti. Mentre diventa un lontano ricordo il peso (se non l’esistenza) del ceto medio, soltanto il 10 per cento delle famiglie italiane può contare su un reddito superiore a 55mila euro all’anno. E per risalire la china, forse non bastano né le detrazioni chieste dai sindacati né una rimodulazione della produzione, con un sabato lavorativo al mese, chiesto da Confindustria. Non a caso, leggendo con molta attenzione l’analisi l’ultimo supplemento al Bollettino statistico, si scopre che Palazzo Koch ha una soluzione per uscire dal guado: aumentare la produttività e legarla alle richieste del mercato. Non lo si dice chiaramente, ma Mario Draghi chiede al sistema produttivo un nuovo modello dell’organizzazione del lavoro, che il sistema Paese fatica a gestire e a portare a compimento. In soldoni Draghi spinge per superare la querelle tra chi difende il modello unico di contratto e chi invece vuole rimodulare il rapporto tra salari e produzione in base alle esigenze delle singole realtà. Anche perché soldi a pioggia aumentano solo l’inflazione.

Blindata Mps A dispetto delle previsioni di molti, la Fondazione Monte dei Paschi di Siena, primo azionista di Mps, sosterrà l’aumento di capitale con cui Giuseppe Mussari dovrà chiudere l’acquisizione di AntonVeneta. «Non ci sarà nessuna diluizione del cpaitale sostenuto», ha detto il presidente Gabriello Mancini, che però dovrà sostenere un impegno di 2 miliardi e 950 milioni di euro, forse a scapito delle larghe elargizioni che l’ente fa sul territorio (oltre 250 milioni di euro). Una notizia, questa, che preoccupa il sistema senese.

Fiat vs Moody’s Già in passato la società di rating era state nel mirino di Sergio Marchionne, ma ieri l’amministratore delegato di Fiat si è scagliato contro Moody’s, che ha deciso di confermare il rating Ba1 al Lingotto, nonostante i conti 2007 e l’ azzeramento dei debiti. «Trovo osceno dare un rating junk a chi non ha debito. È come offrire gli occhiali a chi non ne ha bisogno», ha spiegato. In verità, dietro l’atteggiamento delle società di rating c’è soprattutto il timore che Fiat, senza nuovi modelli nel 2008, possa non reggere il trend di questi ultimi anni.

Alitalia, il Nord vuole Toto La crisi del governo fa sperare il fronte del Nord in un allontanamento di Air France da Alitalia. Umberto Bossi ha chiesto al presidente Giorgio Napolitano di far cessare le trattative. «Chi è che firma? Lasciamo fallire Alitalia senza che l’azionista di maggioranza possa firmare?», si è chiesto. Il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, rilancia invece il piano di Carlo Toto, mentre Diana Bracco, presidente di Assolombarda, chiede che la Lombardia non resti isolata in questa battaglia. Intanto si tratta con Air France per evitare che abbandoni la maggior parte delle rotte da Malpensa.

Piazza Affari regge Borsa stabile (-0,15 per cento) grazie all’inversione di tendenza di Wall Street e le buone performance di Fiat (+2,84 per cento), Mondadori(+2,91 per cento), Unicredit (+1,22 per cento) e IntesaSanpaolo (+1,48 per cento).

Dopo la crisi dei subprime il governatore chiede maggiore trasparenza e maggiori margini di rischio

Vigilanza, compromesso tra Draghi e le banche ROMA – La data è stata già fissata, perché si vuole chiudere la delicata querelle entro un mese. Entro questo arco di tempo, la riforma della struttura della Vigilanza bancaria voluta da Mario Draghi e già approvata arriverà alla sua completa attuazione, compresa la nomina di nuovi Capi servizio e, forse, di uno o due funzionari. Non solo: a Bankitalia si dà anche per imminente - entro una decina di giorni al massimo - anche la pubblicazione del regolamento attuatorio sulla governance duale. Nel quale, secondo le indiscrezioni, l’istituto avrebbe, di massima, confermato la linea del documento che aveva suscitato qualche polemica. D’altronde, riguardo la riforma della Vigilanza, il governatore aveva già anticipato le linee guida al Forex un paio di settimane fa, affermando che Bankitalia si è impegnata a costruire un modello di supervisione in armonia con i Basilea2, e parlando di Vigilanza ”leggera”in termini di adempimenti e vincoli, che si affiderà più che in passato alla «capacità delle banche di definire il proprio profilo di rischio e costituire i relativi presidi». Il che presupporrà una continua interazione tra vigilanti e vigilati, mentre la presenza ispettiva sarà da considerare come «un normale strumento dell’azione di Vigilanza». La supervisione degli intermediari sarà svolta integralmente presso l’amministrazione centrale, mentre le strutture periferiche vigileranno sulle banche a operatività locale. In particolare ”la gestione del rischio

di Alessandro D’Amato di liquidità è diventata assolutamente centrale – ha detto lo stesso Draghi – perché l’esperienza recente dimostra come la liquidità dei mercati e degli intermediari possa contrarsi repentinamente, con effetti cumulativi talora devastanti». Secondo il governatore, infatti, la tutela della stabilità richiede anche che le banche mantengano margini di sicurezza sulle loro posizioni di rischio. Ed è proprio su questi punti che arrivano alcune perplessità da parte degli esperti. La riforma, i cui effetti sono ancora tutti da vedere - e un giudizio compiuto non si potrà avere prima di qualche anno - è stata immaginata quando la crisi dei mutui subprime era ancora ai primi vagiti. E nell’occasione, con una volontà calmieratrice facile da comprendere, da Palazzo Koch si preferì definire un ”semplice turbamento” dei mercati. Linea che invece destava già all’epoca molte preoccupazioni tra operatori e intermediari. Eppure, se la vicenda ha insegnato qualcosa a oggi, è proprio che nell’occasione sono clamorosamente mancati raccordi e interlocuzione a livello sovranazionale, nella prevenzione prima e nella diagnostica poi. Per questo, oggi si parla di rafforzamento dei poteri degli organismi europei: e sembra difficile che proprio in questo ambito, non ci sia nulla da rivedere nelle nuove funzioni della Vigilanza. Anche perché dall’annuncio di un’indagine di Banki-

talia sui rischi collegati alle attività in derivati, oggetto pure di un’audizione del direttore generale Fabrizio Saccomanni alla commissione Finanze della Camera (nella quale si era parlato persino di quattro banche, presso le quali erano in corso ”verifiche”), sono arrivate solo generiche rassicurazioni sul sistema del credito italiano. Si è sempre detto che «secondo quanto comunicato dagli istituti», non c’erano rischi all’orizzonte dopo la crisi dei subprime. Ma un quadro completo del rapporto tra banche e derivati soprattutto in relazione alle società veicolo fuori bilancio: conduit e Siv - non è mai stato messo a disposizione del pubblico degli operatori. Eppure i metodi per arrivare a una generale chiarificazione ci sarebbero: c’è chi ha proposto una ”sollecitazione”, più o meno prescrittiva, a far rientrare in bilancio quello che oggi è fuori; ma la soluzione potrebbe causare più problemi di quanti ne risolverebbe, visto che un obbligo così severo, oggi, potrebbe ingenerare polemiche e discussioni sulla ”veridicità” di bilanci che fino a ieri non ne prevedevano la presenza. Ma si potrebbe invece esortare le banche a chiarire in maniera netta la propria posizione, quantificando la propria esposizione, stabilendo raccordi trasparenti con il bilancio. Anche se, finora, le istituzioni hanno mostrato di far leva con successo sulla moral suasion per spingere i vigilati a prendere decisioni in linea con i voleri dei vigilanti. Bastera anche stavolta?


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local

L’abolizione della frontiera di Gorizia chiude una ferita

L’Europa non finisce più a Trieste lettera da Trieste di Renato Cristin el 1954, con la scellerata tracciatura del confine postbellico con la Jugoslavia, Trieste diventò una città estrema, in tutti i sensi: geografico, politico e culturale. La grande apertura e confluenza culturale che l’aveva sempre caratterizzata si interruppe bruscamente dinanzi all’acciaio della guerra e al granito dell’ideologia. La protervia nazionalistica ed espansionistica del regime di Tito si era infatti riversata come un’onda titanica e come un’orda cieca sui territori triestini, goriziani e friulani, sconvolgendoli. Gli abitanti di quelle zone erano abituati da secoli alle guerre, alle incursioni e alle dominazioni straniere, ma non erano preparati a tanta violenza ideologica. Ciò che li tramortì non fu solo la ferocia dell’aggressione jugoslava, ma anche l’inusitato e immorale appoggio che i comunisti italiani le fornirono. Così, dopo la fine della guerra e dopo il ritiro dell’esercito titino, Trieste veniva espropriata del suo entroterra e diventava l’estrema propaggine orientale dell’Italia e del mondo libero. Estrema, radicale e violenta fu anche l’elaborazione e la prassi politica della sinistra comunista in quelle zone: un esplosivo miscuglio di stalinismo e di sentimento anti-italiano, e di conseguenza estre-

N

La scheda

Per tutto il Novecento, la frontiera orientale italiana è stata in movimento. Dopo la prima guerra mondiale, sulle ceneri dell’Impero austro-ungarico, venne fissata lungo la valle dell’Isonzo. Dopo l’8 settembre ci fu l’annessione tedesca. Nel 1945 ci fu il tentativo della Jugoslavia di Tito di inglobare la città giuliana. Nel 1954 vi passò - il simbolo fu la divisione di Gorizia - la cortina di ferro. Il 1989 cominciò a cambiare tutto e poi, via via, l’integrazione della Slovenia all’Europa, fino alla sua adesione al ”patto di Schengen”, ha cancellato materialmente il confine

l’intersecarsi di vicende biografiche, gli intrecci storici. Recuperare quello spazio pluridimensionale significa, oggi, ridisegnare la mappa geopolitica dell’Europa centro-meridionale, predisporre architetture culturali innovative e restituire vigore alle singole identità. Per l’Italia, questo recupero ha il significato di una riaffermazione della propria identità nazionale nel nuovo contesto europeo. Per i triestini, i friulani, per tutte le

La Venezia Giulia, l’Isonzo: molti scrittori ne hanno vissuto e illustrato contaminazioni, intrecci storici e contaminazioni geografiche. Recuperare quello spazio significa ridisegnare una mappa geopolitica mo divenne anche il confronto politico. Si polarizzarono pure le posizioni culturali, stravolte in quel sano equilibrio che la feconda porosità dei confini aveva favorito fin da prima dell’Impero austroungarico. Con picchi di feroce violenza alternati a fasi di astuto attendismo, la radicalizzazione ideologica filocomunista, che si espresse anche attraverso forme di sterminio di massa come gli eccidi delle foibe, proseguì fino al 1991, anno in cui, dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, la disgregazione della Jugoslavia permise la nascita di due nuovi Stati democratici, Slovenia e Croazia. Poi, l’entrata della Slovenia nell’Unione Europea, il primo maggio 2004, segnò un ulteriore passaggio sulla via di un ritrovato senso di civiltà. Ora è stato eliminato l’ultimo ostacolo simbolico. Il 21 dicembre scorso, con una cerimonia svoltasi al valico di Rabuiese presso Muggia, in quello che era l’ultimo lembo di territorio libero davanti alla cortina di ferro, l’Europa ha festeggiato l’ingresso della Slovenia nello “spazio Schengen” e, quindi, l’eliminazione delle frontiere. Quell’atto rappresenta il tentativo di superare mezzo secolo di storia, una non scontata resa dei conti con il passato che prefigura al tempo stesso la dimensione del futuro. E’ il ripristino di un’antica, medievale e poi asburgica, idea di confine che marcava spazi di proprietà ma che al tempo stesso tracciava aree di interazione e di integrazione, luoghi di interlocuzione culturale che determinarono la crescita e la convivenza di popolazioni, tradizioni, religioni, identità. A cavallo di quel confine, molti scrittori ne hanno vissuto e illustrato le feconde contaminazioni,

popolazioni del Friuli Venezia Giulia questo evento rappresenta un’occasione di rinnovamento della loro cultura nella valorizzazione della tradizione, la possibilità di aprirsi all’altro senza il timore di cadere vittima della prevaricazione altrui. Oggi possiamo ragionevolmente sperare che Trieste, da città estrema ridiventi fin d’ora città mediana, città della mediazione e della moderazione, senza perdere nulla di se stessa, anzi riappropriandosi di quell’identità italiana e cosmopolita che le è sempre stata propria. Insieme con le frontiere è caduto anche l’ultimo muro d’Europa, quello che da più di mezzo secolo, divideva la città di Gorizia, lacerata come Berlino. Fino a pochi anni fa, i ragazzi che giocavano a calcio nel campetto del Seminario diocesano dovevano fare attenzione a non scagliare il pallone al di là delle reti di protezione, perché sarebbe finito oltre i reticolati del confine, irrimediabilmente perduto nella zona d’ombra che, come un rasoio maligno, tagliava in due la città. Oggi, nel peggiore dei casi, dovranno fare una corsetta per andare a riprenderselo. Ma la retorica dell’europeismo non deve occultare i rischi che questa nuova fase storica porta con sé. Nessuno di quei ragazzi potrà mai prendere alla leggera ciò che è stato: la tragedia del comunismo non sarà mai cancellata e non dovrà mai essere dimenticata. Non si devono obliare le sofferenze che il secolo dei totalitarismi ha prodotto, le stragi perpetrate a ridosso del confine orientale d’Italia e i legittimi diritti degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Solo se verrà finalmente dato ascolto anche alle loro voci, il confine sarà davvero caduto.


cultura

29 gennaio 2008 • pagina 21

Ritratto di Fabrizio Salvaresio, Kunsthistorisches Museum di Vienna A destra: Ritratto di dama in bianco (Lavinia?) Gemaldegalerie, Dresda In basso: Danae Kunsthistorisches, Museum di Vienna

di Marco Vallora vete presente quei patetici nonnini che la tv del buonismo presenta il pomeriggio, con la torta del prossimo centenario, che non san nemmeno spegner le candeline e singultano, ingozzati dalle parole dello speaker, che l’incalza, nel panico del silenzio? Anche il «servitore» Tiziano, astutamente, nei suoi tardi anni, si finge ancor più novantenne e incapace di dipingere, col suo evasivo «re catholoco» Filippo di Spagna, e batte cassa protervo, passando col piattino a riscuotere quei «quatrini» - scrive proprio cosìche da diciott’anni non vede e attende ansioso, dopo tutti quei sontuosi invii, di «poesie» dipinte e «inventioni mitologiche».

A

Ma è come una favola: per quanto i suoi visitatori lo descrivano spesso quale un vecchio Omero cieco incapace di tenere i pennelli in mano, sappiamo che solo lui, genialmente, può aver creato, quasi per emanazione spiritica, quei capolavori tardi d’un genio rinnovato e rannuvolato, che troviamo in gran parte riuniti nella tappa veneziana, all’Accademia, della più folta e regale mostra del Kunsthistorisches di Vienna, ottima curatrice Sylvia Ferino. Che spiega, nel variegato catalogo Marsilio, come l’ipocrisia intellettuale abbia, per il titolo, preferito a «tardo», il termine di ultimo: L’ultimo Tiziano e la sensualità della pittura. Un «ultimo», che nasce molto presto, se risale per lo meno a quel magistrale Auto-ritratto macerato e penitenziale del Prado, che risulta del 1562. E che è una prodigiosa metafora-meditazione sulla vuotezza piena e affollata e melanconica della vecchiezza, impre-

All’Accademia di Venezia i capolavori “tardi“di un genio

Dentro la pittura dell’ultimo Tiziano Negli ultimi anni della vecchiaia è stato descritto come un Omero cieco, ma in verità aveva raggiunto una sapienza pittorica miracolosa gnata nel color topo della memoria e nella carnagione vizza della stanchezza di vivere. «Ipocrita»: perché la Germania ha da sempre coniata questa bella categoria della Spaete Werke, dell’opera tarda, se vogliamo sepolcrale, che però schiude nuovi orizzonti esplosivi: quelli dell’intermporalità fulminante (e vale per il Goethe del Secondo Faust, come per il Verdi del Falstaff, per il Tiziano del San Lorenzo su graticola, ahimé rimasto ai Gesuiti, il Bruckner o il Michelangelo dell’ultime ore). Una nuova giovinezza rivoltosa, come dimostra quel capolavoro assoluto del Supplizio di Marsia, col cielo burroso e macerato, che s’accende di barbagli sinistri e insanguinati, e la carne di Marsia, che sotto l’attenta furia chirurgica del geloso Apollo, il cagnino che lappa frettoloso di non esser scacciato, si spiuma dionisiaca: come un guanciale mal sprimacciato. Quegli stessi

della battaglia notturna dei cuscini, in Zero in condotta di Vigo. Perché la modernità intempestiva di questo Tiziano è tale, che con certe Madonne ultime stai più dalla parte impregnata d’umor padani del Piccio o di Spadini, che non del suo veneto venerato maestro Bellini.

I suoi primi cieli, lindi e giorgioneschi, si fanno affocati, tetri, s’ingolfano di furie telluriche, inscatenate. O lasciano protagonista il nudo Golgota terroso della juta, come nel desolato Cristo e il buon ladrone, di Bologna. Oppure, nutrendo poi le furie spolpate di Schiavone e gli elettrici tramonti del Tintoretto, s’imperlano di sudori d’agonia, come nella cinerina e affondante e magistrale Pietà, che Tiziano rivolle imperiosamente indietro, per porla nella sua tomba, come un intrattenibile ex-voto. Le statue più vive dei morti, la Vergine che imposta la

mandibola, per non crollare, e il Cristo abbandonato che scivola inanimato, incarnando la sua fumante dipartita. E quando Santa Margherita avanza, nel no man’s land infido dei neri dragoneschi, si prova davvero molta più angoscia, che non con gli effetti speciali hollywodiani degli horror di Linch. E qualcuno può fingere di credere che Tiziano non «sapesse»? Perfino il protervo Vasari, che lo visita a Venezia, con la puzza sotto al naso del fiorentino che non avverte odor di disegno, si inquieta e sconvolge e cambia il corso delle sue Vite, riscrivendo la sua prosopopea. E ammette che «questo modo sì fatto è bello e stupendo, perché fa parer vive le pitture e fatte con grand arte, nascondendo le fatiche». «Stupendo»: come qualcosa che stupisce e impaura, come se, demonicamente, Tiziano dipingesse col pensiero. Mentre invece il Boschini ci racconta magnifica-

mente come «il condimento» della sua pittura fosse entrar dentro la pittura con «sfregazzi delle dita», senza più nemmen pennello, «volendo imitare l’operazione del Sommo Creatore» e scolpendo nella materia cedevole della Pittura. Pittura di macchia, che «respira e batte i polsi», come s’era accorto l’amico Aretino, un po’sconvolto da quel «far grosso» delle pennellate in luce. E una regina illuminata quale Maria d’Ungheria, governatrice dei Paesi Bassi, abituata a ben altre minuzie fiamminghe, consigliava la sorda Maria Tudor d’allontanarsi un po’ da quelle prodigiose macchie, che a distanza il miracolo si compiva.

Lo sapeva Tiziano, che scappava spesso dalla sua pittura, voltava le tele dall’altra parte in castigo alle pareti, poi ci tornava sopra, tormentato e «come un chirurgo», suggerisce Boschini, tornava a raddrizzar ossa e buttar lì uno straccio insanguinato da macello, già alla Soutine. Si guardi lo sfaldato e malato Ecce Homo di Saint Louis, sublime, con quel Pilato inturbantato e cortigiano, che posa la mano inanellata sul vetro immaginario dell’aria, verso di noi, perimetrando la luce. È la consapevolezza d’una pennellata che vuol farsi sentire, che bussa alle nostre viscere, che «firma» l’ultimo Tiziano: altro che inconscenza! Tiziano non ha dovere di risponderne all’Inquisitore, come Veronese. Lo spiega al questionante Varga, intermediario di Carlo V: lui vuol esser Tiziano, di non un imitatore Michelangelo o Correggio. E la sua pennellata - questo tenzone tassesco e melanconcio, sensuale ed erotico, questo coito pubblico tra colore e disegno (e come parlano, le radiografie!) - deve «recitarlo», pittoricamente.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Elezioni americane: chi vorreste presidente? Ron Paul, il candidato politically uncorrect per eccellenza Io voterei per Ron Paul. Il candidato politically uncorrect per eccellenza. Riduzione drastica della pressione fiscale e limitazione della presenza dello Stato per la libertà e la responsabilità dell’individuo. Paul è scomodo e i media non possono dargli visibilità, ma è una condizione tipica di chi parla di Libertà! Di certo non diverrà mai presidente degli Stati Uniti, ma non mi dispiacerebbe che si parlasse un po’ di un candidato che non ripete sempre le stesse cose. La scelta del candidato ci viene imposta dalla Tv. Perché non provare a indagare cosa c’è sotto la corteccia mediatica?

Basta con gli Usa: noi siamo orgogliosamente europei

Alberto Moioli

Esiste una sindrome tutta italiana che è veramente insopportabile: l’esterofilia. Quando in Francia si lotta tra la signora Ségolène e il buon Sarko, il dibattito italiano si sposta su chi andrà all’Eliseo. Se poi si parla degli Usa, allora, è ancora più importante. Perché i politici nostrani non si occupano dei nostri problemi? Basta con questi Usa. Noi siamo italiani ed europei. L’importante per noi è quale signorotto si insidierà al posto del presidente Barroso nella Commissione europea e chi sarà il prossimo premier del Belpaese. Siamo orgogliosamente europei.

Augusto Curino – Torre Suda (Le)

La fazione di Bush prenda una pausa di riflessione e torni a casa

Obama mi è simpatico. Nella razzista America di Bush, un presidente nero democratico sarebbe quasi una rivoluzione. Hillary proprio non va, invece. Anche se donna e quindi politicamente corretta è moglie dell’uomo che ha bombardato la

Serbia per coprire una storia squallida. E’ meglio non mettere la moglie alla Casa Bianca, potrebbe fare anche peggio. McCain dall’altra parte non è male, ma forse è il caso che la fazione di Bush prenda una pausa di riflessione e torni a casa.

Lorenzo Mangione - Firenze

Hillary? Antipatica. Meglio un altro repubblicano

Gentile direttore, imperversa ormai la campagna elettorale per la Presidenza degli Usa e a quanto pare sembra che questa volta ad essere l’uomo più potente del mondo sarà una donna: Hillary Clinton. Spero proprio che così non sia. Intanto perché è proprio antipatica nella sua arroganza tutta clintoniana, e poi perché sono convinto che sarebbe meglio che il nuovo presidente fosse ancora un repubblicano. Questo per assicurare una continuità alla politica del tanto vituperato Bush. In poche parole credo che la democrazia possa davvero essere ”esportata”. Anche con le armi se necessario. Non c’è dubbio che meglio sarebbe se fosse sufficiente l’esempio, ma come restare indifferenti alle crudeltà di Saddam o alle inciviltà dei Talebani? Penso che se gli Usa riusciranno a democratizzare Iraq, Afghanistan e Pakistan, volenti o nolenti Iran e Siria prima o poi dovranno adeguarsi. Cordiali saluti.

Luciano Capurso - Varese

Servirebbe un immigrato di seconda generazione: Saddam Hussein

Servirebbe un immigrato di almeno seconda generazione. Uno che sappia le lingue. Che commerci con il petrolio ma che ami anche lo stato sociale. E poi deve saper interpretare le esigenze di molte etnie e religioni diverse. Infine deve avere amicizie di lungo corso qui in Italia. Insomma Saddam Hussein!

Nina Ghigliottina

QUI LO DICO

Egregio direttore, che dire, complimenti! Finalmente la stampa di centrodestra parla dell’aborto senza paraocchi e senza posizioni preconfezionate e chiuse. Il muro contro muro non ha senso. C’è bisogno di prevenzione, più consultori, più educazione. Ma l’aborto in alcuni casi è comprensibile e comunque rimane un dramma per la donna. Queste cose bisogna dirle: il vero problema è arrivare ad una scelta consapevole, non ad una cancellazione della 194. Complimenti per il quotidiano, a presto.

Gianluca Laci – Sommacampagna (Vr)

Caro direttore, valorizzi le donne della sua redazione

Caro direttore, l’iniziativa editoriale ”Liberal”è molto interessante. Sinceramente non mi sento rappresentata da alcun partito in Italia, ma mi rendo conto che con la sinistra vetero-marxista proprio non ci posso stare. Ma neanche con alcuni ”destri” italiani. Seguo Adornato da tempo e il neonato quotidiano mi ha fatto tornare l’interesse per la politica e per l’impegno sul campo per me e i nostri concittadini. Solo due appunti alla redazione. Per prima cosa, alle lettere bisognerebbe rispondere. Pubblicarle così è comunque interessante, ma qualche volta vorremmo sentire anche le vostre opinioni. E poi, dovreste un po’ valorizzare la parte rosa della vostra redazione. Dareste un segnale importante, ormai nel giornalismo le donne famose sono solo quelle che spettegolano, scrivono gossip inutili oppure fanno i mezzibusti in tv. Sfruttate le vostre professioniste per dare un segnale al mondo dell’editoria. A presto e continuate sulla strada tracciata. Saluti.

Prossimo ispettore di polizia in una fiction, noto per le intemperanze caratteriali ma soprattutto per l’assenza di peli superflui, Fabrizio Corona ha voglia di dimostrare a tutti come dovrebbe essere un agente serio e preparato. La dichiarazione d’intenti ha scatenato una ridda di critiche da parte delle forze dcll’ordine. Visto che la serie tv si preannuncia adrenalinica e ricca di inseguimenti mozzafiato, l’ex paparazzo era però il candidato ideale. Pur di averlo nel ruolo di protagonista, la produzione ha garantito che nelle scene che lo vedranno alla guida, l’ispettore si fermerà a ogni semaforo e casello stradale. E che in attesa di riavere la patente, Fabrizio sarà interpretato da una controfigura. sta: si è dimesso. Sinceramente non mi fa neanche pena. E’ stato condannato e con certezza ha fatto alcune cose. Se ancora il problema penale non si è risolto, la questione politica c’è e rimane. Per la dignità della Sicilia e dei siciliani ha fatto bene a mandare l’Assemblea regionale alle elezioni. E che ora il centrodestra si compatti e rivinca finalmente con un personaggio un po’più serio. Secondo me ora ci saranno molte più persone che voteranno CdL (o quel che sarà) senza Cuffaro. Speriam bene.

Francesco Romano – Vittoria (Rg)

Livia Romana De Angelis – Sperlonga (Lt)

LA DOMANDA DI DOMANI

Aborto, è giusto cambiare la legge 194?

Senza Cuffaro la Cdl sarà più compatta

dai circoli liberal

Rispondete con una email a lettere@liberal.it

OCCORRE SUBITO UNA NUOVA LEGGE ELETTORALE Il 23 gennaio scorso è stato piacevole per me vedere l’edicolante mostrarmi il primo numero del quotidiano Liberal. Il giornale mi sembra ben strutturato, essenziale (anche se un po’ di cronaca non guasterebbe), con idee chiare ed obiettivi condivisibili. Sarà certamente utile per riflettere, capire i grandi temi culturali e politici ed orientarci nelle scelte. Il momento dell’uscita del quotidiano non poteva essere più significativo. Sembra, tra l’altro, che abbia preconizzato la fine del pessimo governo Prodi. Il Paese attraversa la peggiore crisi politica della sua storia repubblicana. L’economia, i grandi problemi della politica sociale, il decadimento morale, l’intolleranza nei confronti della Chiesa, il proliferare dei partiti e l’odio trasversale che li percorre, l’adeguamento della Carta Costituzionale, il funzionamento della giustizia, i rapporti tra magistratura e politica sono soltanto la parte più evidente delle sfide che attendono da subito le forze politiche ed istituzionali ed il nuovo governo. Ritengo che un nuovo governo deb-

Il presidente della regione Sicilia ha finalmente fatto una cosa giu-

ba nascere subito per fare una nuova legge elettorale e prevedere l’elezione di una assemblea costituente per la riforma della Costituzione. La legge elettorale vigente è stata un grave errore del centrodestra ed i suoi effetti devastanti non possono essere ulteriormente avallati. Che la sovranità torni ai cittadini e che il parlamento non sia più popolato dai cavalli di Caligola. Credo che Berlusconi , a cui vanno riconosciuti grandi meriti, commetta un altro errore nell’insistere nell’andare subito alle elezioni con la legge vigente. Tutto lascia pensare che vincerebbe le elezioni, ma tutto lascia anche pensare che non governerebbe ed esporrebbe il Paese ad un altro periodo di incertezze. La preoccupazione di Bondi che sarebbe difficile votare per tre assemblee è eccessiva. Andremmo ben volentieri alle urne se sapessimo che, oltre l’assemblea costituente che durerebbe per un periodo breve e predeterminato, voteremmo per una sola camera legislativa con componenti dimezzati. Il tempo per questa riforma ci sarebbe anche perché il referendum incombe. Non è piacevole dare la sensazione di voler prendere al

volo una probabile vittoria elettorale qualunque cosa possa succedere dopo. Nella mia città di Matera e nella Regione Basilicata la situazione politica non è dissimile da quella del resto d’Italia anche se ha delle specificità che meritano di essere approfondite.Vogliamo utilizzare le possibilità che Liberal quotidiano ci offre per alimentare o, meglio, per avviare un dibattito politico serio anche nelle nostre realtà. Giuseppe Panio PRESIDENTE LIBERAL CLUB MATERA

APPUNTAMENTI ROMA - 31 GENNAIO-1-2 FEBBRAIO 2008 Università Lateranense, Tempio di Adriano, Palazzo dei Congressi Meeting internazionale ”Cambio di stagione: 1968-2008, quarant’anni dopo”


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LA POLEMICA

Quel che Ceronetti non sa del Papa di Andrea Capaccioni Ad un artista impulsivo e asistematico quale è Guido Ceronetti tutto è concesso. Ma in un articolo pubblicato sull’ultimo inserto domenicale del Sole 24 ore (Ma Ratzinger dimentica Manzoni, p. 35) ha sfiorato il ridicolo. Scrivere di ciò che non si conosce o dar libero sfogo alle proprie idiosincrasie conduce inevitabilmente a far brutte figure. L’assunto di Ceronetti è questo: nei discorsi del Papa è assente ogni riferimento ad Alessandro Manzoni e a una letteratura, molto eterogenea, costituita da autori “sofferti” che vanno da Bernanos, passando per Bonaiuti per concludere con Karl Barth. L’obiezione su Manzoni è imbarazzante.Tralasciamo ogni considerazione sui gusti personali per rispetto del buon senso di chi ci legge. Ma difronte ad una simile affermazione non bisognerebbe chiedersi se c’entra qualcosa la poca fortuna che la nostra letteratura ottocentesca ha avuto nel resto d’Europa? Se poi Ceronetti avesse avuto la pazienza non dico di leggere ma di dare un’occhiata ad un piccolo libro scritto da Ratzinger (La mia vita) si sarebbe trovato difronte ad un prezioso diario di letture. Con molte sorprese. I romanzi di Bernanos costituiscono una delle letture più amate da Benedetto XVI, fin da giovane. Un fatto risaputo, tanto che recentemente il presidente francese Sarkozy, in Vaticano per una visita ufficiale, ha portato in dono due edizioni originali del grande scrittore d’oltralpe. Accusare poi questo Papa di non conoscere l’opera di Barth è come affermare che il presidente Napolitano non ha mai letto gli scritti di qualche autore liberale. Si stupirebbe Ceronetti della considerazione riservata da Benedetto XVI alla Lettera ai Romani. In realtà Ceronetti non ha la minima idea della preparazione teologica di Ratzinger e dei rapporti che egli ha avuto con studiosi cattolici e protestanti nel corso delle sue lezioni tenute nelle più prestigiose facoltà teologiche della Germania. Se poi vogliamo rinfacciare a Benedetto XVI di preferire la lettura delle opere di Hans Urs von Balthasar a quelle di Barth... Che dire poi della perla finale: invitare il Papa a fare meno uso di Tommaso D’Aquino. Anche in questo caso lo scrittore torinese non sa una cosa nota a tutti e dichiarata dallo stesso interessato: il poco trasporto del Papa, anche se accompagnato da grande rispetto, per l’opera dell’Aquinate a cui senza dubbio preferisce quella di Agostino. Chissà se il grande censore delle letture di Ratzinger approverà.

Sos rospi: la specie Bufo-Dini mascotte di Palazzo Madama Sos rospi. Sarebbero decine di migliaia quelli da salvare. Se ne occupa un team di volontari di Legambiente, Lac e Wwf guidati dal Centro Studi Arcadia che in tutta Italia ha strappato a morte certa ben oltre un milione e mezzo di anfibi. Durante la stagione migratoria, gli animaletti impegnati a raggiungere fiumi e laghi per diporre le uova, vengono falcidiati dalle auto in corsa. Parti-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

colarmente minacciata la specie Bufo-Bufo, cioè rospo comune. Un declino globale particolarmente pericoloso tanto da indurre gli organizzatori a definire il 2008 l’anno della rana. Non risulta in corso nessuna operazione di salvataggio del rospo Bufo-Dini, specie anfibia particolarmente prolifica negli stagni di Palazzo Madama. In questi ultimi 13 anni ha dimostrato di saper sopravvivere per conto proprio saltando vari fossi e acquitrini con Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

particolare abilità dimostrando doti straordinarie di sopravvivenza in differenti habitat. La grave distrazione ha allertato alcuni volontari della CdL che hanno chiesto al presidente Marini di proclamare il rospo Bufo-Dini mascotte della prestigiosa istituzione.

Sabrina Fantauzzi - Roma

Con Silvio e Umberto riprendiamoci l’Italia Il mio cognome ovviamente fa subito capire dove sono nato. Oggi però vivo al Nord per ovvie questioni di lavoro. All’inizio odiavo i militanti di Bossi. Li consideravo in modo pregiudiziale razzisti, xenofobi e chiusi al dialogo. Niente di più sbagliato. Ho letto il ”programma” della Lega approvato dal Parlamento del Nord sabato scorso. Come si fa ad essere contrari? Sicurezza, lotta all’immigrazione, lavoro, priorità agli italiani. Devo dire che sto diventando sempre più un fan del Carroccio. Lì ci sono teste pensanti e soprattutto chiare, dalle posizioni nette senza se e senza ma. Come sulle elezioni. Si deve andare alle urne. Con Silvio e Umberto, riprendiamoci l’Italia.

Gaetano Tazio – Opera (Mi)

Calcio, togliamo la ridicola usanza del ”terzo tempo” Hanno chiuso i settori per gli ospiti. Hanno militarizzato gli stadi. Hanno introdotto provvedimenti come le diffide e la flagranza differita. Hanno definito i tifosi, ”terroristi”. Se due persone si picchiano dentro uno stadio vengono diffidati e denunciati. Se succede per strada, nessuno fa nulla. Se succede in Senato, con sputi e insulti, nulla. Se succede tra calciatori idem. Adesso hanno addirittura inventato il ”terzo tempo”, usanza nobile del rugby, che viene ridicolizzata nel calcio. Invece di portare pace e rispetto negli stadi, è solo un motivo di contatto, attrito e risse tra calciatori (vedi l’ultima Livorno-Juventus). Ho una domanda, chi diffida i calciatori? Chi diffida quelli che diffidano? Saluti.

Leale Opposto – Roma

Giancristiano Desiderio, Alex De Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di ELEZIONI SUBITO E C C O I L P E R C HÉ L’attuale legge elettorale non sarà certamente delle migliori (…), ma chi dice che se si andasse al voto oggi si riprodurrebbe la stessa situazione di instabilità vissuta con Prodi, è in malafede. Facciamo un passo indietro. L’effettivo risultato delle elezioni è raggiunto dopo due passaggi: prima ogni forza politica raccoglie un certo numero di voti grezzi, poi questi vengono trasformati in seggi alla Camera e al Senato dalla legge elettorale vigente. Ovviamente le regole del gioco possono modificare in qualche misura i rapporti di forza nel Parlamento, ma se ti mancano i voti c’è ben poco che la legge elettorale possa fare. Alle ultime elezioni il Centrosinistra ne è uscito con una maggioranza molto debole in Parlamento essenzialmente perché non aveva veramente vinto le elezioni. Ottenne solo 24.700 voti in più alla Camera e prese addirittura 428.500 voti in meno al Senato. E’ stata insomma un’elezione al filo di lana. E’ chiaro che in una situazione di questo tipo non c’è legge elettorale che tenga, a meno che non si voglia scivolare in un super-maggioritario che regali per cinque anni il Paese in mano al 50,1% dei cittadini. (…) Ad ogni modo, il punto è che nel 2006 sono mancati i voti. Non la legge elettorale ha reso ingovernabile il Paese, ma la reale spaccatura politica dei cittadini. (…) Oggi le cose sono molto diverse. I sondaggi fotografano oggi un’Italia ben diversa da quella rocambolescamente ereditata dalla sinistra nel 2006.

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Questa non è più un’Italia divisa al 50%. Difficile esserlo, dopo un anno e mezzo di Visco & colleghi. (…) Non è questo il momento di mettersi a litigare su doppi turni o sbarramenti vari. L’Europa sta andando incontro ad un periodo molto difficile dal punto di vista economico. Una grave recessione potrebbe essere alle porte, i consumi e gli investimenti andrebbero stimolati (…) ed il mercato del lavoro non sprizza certo entusiasmo. E’ insomma urgentissima una politica economica in grado di aiutare l’Italia ad affrontare lo tzunami che ci sta per colpire. (…) Al voto, dunque. Ora, subito. Una maggioranza stabile emergerebbe anche con l’attuale legge elettorale. (…) Passata l’emergenza economica potremmo dilettarci nell’arte raffinata della disquisizione parlamentare, preferibilmente bi-partisan, su riforme istituzionali e leggi elettorali. Ma non ora, per carità.

Orizzonte Liberale orizzonteliberale. blogosfere.it

IL PARADOSSO Il paradosso di questa crisi è che se Veltroni le prova tutte per allontanare Prodi da Palazzo Chigi, Berlusconi vuole che rimanga, per gestire l’ordinaria amministrazione sino al voto. Il primo per cercar di far dimenticare agli italiani i misfatti dell’Unione e presentarsi come il nuovo, sottovalutando forse l’intelligenza dei suoi connazionali, il secondo vuole ricordarglieli ogni giorno.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


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