C.A.C.C.A. n°8

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prep. 9  In direzione di, per indicare movimento, reale o figurato, nello spazio o nel tempo; 10  Nei pressi di, vicino a, per indicare stato in luogo; 11  Intorno a, poco prima o poco dopo, per dare un’indicazione approssimativa; 12  Nei confronti di, per. agg. lat.; s.m. inv. 7  La parte posteriore di un foglio; 8  Rovescio di una moneta o di una medaglia; 1  Direzione di un movimento o senso nel quale sono disposti più elementi; 2  Modo, maniera; 3  Unità strutturale e ritmica di un componimento poetico; 4  Suono, grido caratteristico che emette una specie di animali; 5  Riferito a persona, suono inarticolato, grido, atteggiamento del viso o gesto; 6  Intonazione particolare, accento dialettale di una persona o di una comunità; [vèr-so] s.m. [vèr-so] s.m. 1  Direzione di un movimento o senso nel quale sono disposti più elementi; 2  Modo, maniera; 3  Unità strutturale e ritmica di un componimento poetico; 4  Suono, grido caratteristico che emette una specie di animali; 5  Riferito a persona, suono inarticolato, grido, atteggiamento del viso o gesto; 6  Intonazione particolare, accento dialettale di una persona o di una comunità; agg. lat.; s.m. inv. 7  La parte posteriore di un foglio; 8  Rovescio di una moneta o di una medaglia; prep. 9  In direzione di, per indicare movimento, reale o figurato, nello spazio o nel tempo; 10  Nei pressi di, vicino a, per indicare stato in luogo; 11  Intorno a, poco prima o poco dopo, per dare un’indicazione approssimativa; 12  Nei confronti di, per.



­alloc -arob irot

In copertina: sono un animhale. Dietro la copertina: una roba a caso della redazione. L’editoriale è di Nicola Manghi. La balena è di Alice Colombo. Il testo “Invertita” è di Marta Pedretti e Cesare Pavese e sì, parla di lesbiche. Il testo delirante è di Marco Deliri Buggi, mentre l’omino con la testa gigante e i rami in testa è di Ptr-Trb. Proseguendo, troviamo la pagina facebook del nostro amico Beppe Fontana, e la sezione più seria e letteraria scritta da Jacopo Rasmi assieme a Matteo Sclafani, in arte MEO, e Stefani Cognata, non dimenticate il QR Code! Il super paginone centrale è di HEN, che tra le altre cose ha disegnato tutti i Gormiti. La prima tavola a fumetti mai pubblicata su C.A.C.C.A. è di Jaco, e il gorilla che sa Shakespeare a memoria è figlio di KKDEB. I crudi testi della MarazZine sono dei gemelli Emanuele e Filippo Marazzini, mentre per l’illustrazione Western-Kooks ringraziamo Pier Lorenzo Servetti. Keep on reading, non manca molto: un lettering con orsi e salmoni di Francesco Cibati accompagna il testo su Saturnio, scritto della new entry Andrea Alfieri e corredato dall’illustrazione (ingiustamente piccola) di Lobo. I Social-uccellacci del malaugurio li ha allevati Sime da qualche parte a Milano, mentre i musi animaleschi su sfondo blu sono della zoofila Valentina Manente. Per concludere, l’ambigramma “verso” sulla quarta di copertina (attenti, questo numero si legge come un manga) lo dobbiamo a Giulia De Benedetto, anche lei nuova nelle infaticabili fucine di Cose A Caso Con Attenzione. Altri collaboratori non si vedono ma ci sono: tutti quelli che non sono stati selezionati, tutti quelli che ci aiutano ai banchetti e che ci fanno girare per la penisola, tutti quelli che sto dimenticando, Sodo che ci fornisce l’inchiostro ormai da due anni, Giovanna che ha scovato tutti i refusi. Infine manchi tu, collaboratore, che ci stai leggendo e dai un senso a questo progetto.

è una rivista a caso non a scopo di lucro. Se per caso vi venisse voglia di scrivere o disegnare con noi ci trovate su coseacasoconattenzione@gmail.com o sulla nostra pagina fb: CACCA Per sfogliare e scaricare gratuitamente tutti i numeri andate su issuu.com/coseacasoconattenzione, non siate timidi!




Io

di

decide di usare le scale mobili e

quelli che si siede sulle panchine

sono

Saturnio

e

sono

uno

poi chi s’è visto s’è visto. Quel-

e si guarda attorno. Oggi mi sono

lo lì per esempio, quello con la

seduto giù nel sottopassaggio in

faccia scavata e i pantaloni alle

stazione perché mi piace vedere in

ginocchia, quello che si è appe-

che direzione decide di andare la

na incastrato tra il poliziotto in

gente. Qui sotto, tra il binario

borghese e la studentessa in era-

uno e i bagni, si vedono solo una

smus, mica ci pensa al fatto che ha

tabaccheria e l’entrata della me-

scelto le scale mobili. Lui sa che

tropolitana. Dal tabaccaio c’è il

lo aiutano ad andare dove deve an-

solito via vai di gente che c’è in

dare senza muovere un muscolo. Lui

ogni tabaccheria. Qualcuno si fer-

sa che il lavoro sporco lo fa la

ma, entra per un istante e poi esce

scala mobile. Sono la scorciatoia

con una sigaret-

perfetta

ta tra le labbra

un

e

l’accendino

perché a nessu-

pronto in mano.

no frega un caz-

L’accesso

alla

zo di prendere o

metro invece ri-

no le scale mo-

succhia

bili.

e

spu-

verso

obbiettivo,

Sono

in-

ta centinaia di

fallibili,

persone nel sot-

ci

tosuolo.

strade o fermate

Vanno tutti per

intermedie, met-

la

strada

ti il piede sul

sul-

nastro e arrivi.

le scale mobili.

Sei stanco? Sca-

Ci sono branchi

le

loro

ammassati

sono

non altre

mobili.

Hai

di automi al telefono, mamme di-

troppi bagagli? Scale mobili. Vuoi

sperate, medici di base in ritardo

dare un senso alla tua vita? Scale

pronti a mostrare i denti se non

mobili. Allora tutti si incastrano

riescono ad infilarsi nel nastro.

tra i corrimano in gomma antiscivo-

C’è pure una suora, imprigionata

lo senza pensarci, per poi arrivare

tra i vari dirigenti in camicia,

davanti ai tornelli e timbrare i

che tiene il muso a chi non lascia

biglietti, ed è già troppo tardi.

abbastanza spazio per lei e il suo

Perché se ti incastri nelle scale

dio. Poi arriva un tizio rasato con

mobili tra suore, medici, madri e

la barba lunga e ben regolata che

tutta quella gente lì, non hai la

scende le scale a piedi trascinan-

possibilità di fare qualche pas-

dosi dietro due grosse valigie. Un

so indietro per salutare ancora i

pazzo.

tuoi cari prima di andartene, come

Insomma succede sempre che uno pas-

ha fatto quel pazzo rasato con la

sa di lì, non ci pensa nemmeno,

barba lunga.



Campagna romana, metà Ottocento. Sulla fronte, cappello da pastore a cono alto; calzoni in velluto blu con borchie d’argento, cinturone -bottino dopo un assalto?-. Al collo nastri vistosi, santini, chincaglie. Sì, è proprio Ignazio detto Mago, il brigante! Ma che fa? Solo, prega fuori la grotta, tra le boscaglie. Lo vedono bene, non fa il commediante: stretti i denti per la ferita al ginocchio -i compagni gli han lasciato del pane e una fiascasi dice non tema neppure il malocchio! Ma ecco, gli sbirri lo atterrano, gli frugano in tasca: stoviglie d’osso, due piombini, una croce. Poi, stappata una botticella, attendono il resto della colonna. Un giovane tenente di Rieti -sciatta voceodia i banditi per una razzia o c’entra una donna. Così al forzato, per riso, chiede a tradimento: «Di’, bestia, lo conosci Dante Alighieri?» Lui si aggiusta le ciocie, alza il mento; ripensa al nonno cantastorie, gli occhi son fieri. Ribatte astuto: «No, costretti fummo a viver come bruti…» Quello scolora, sente nelle ossa il gelo. Pensa: “Ma se son tutti così acuti…” Quindi gli spara in fronte, a bruciapelo. Gli altri non fiatano, annebbiati dal vino. «Faceva spavento» si giustifica, sorriso teso. «Amen» ribatte uno e taglia del morto il biondo codino. All’ufficiale sopraggiunto dicono solo che non s’è arreso. Il problema è risolto, con di tutti il benestare. Passa il tempo, anno dopo anno. Il grigio tenente -ora chirurgo militares’allunga in caserma su uno scranno. È alle prese con una lettera. Dubbioso, poggia il latteo cranio di Ignazio alla scrivania: “Esagerata doligocefalia -scrive al dott. Lombrosoe pure sub microcefalia: alla di lui criminale mania ben s’accordano molti atavici difetti. Ma quel suo motto di spirito? Fu spettro d’intelligenza? Le chiedo consiglio, maestro. I miei rispetti all’insigne Vostra Eccellenza”.


All’alba la pianura e il braccio di Martin sanguinavano. Bill Crosby, la schiena contro un masso e nella destra la carabina, da ore teneva gli occhi sulla pista. In attesa. Nell’aria odore di sete e terra riarsa. -Lo so che siete ancora lì. Cavò di tasca le pallottole rimaste; erano poche, poche quanto le ore di sonno. Il viso del vecchio cowboy, maschera di polvere sudore stanchezza, si raggrinzì. Diede un’ultima occhiata oltre la pietra che lo riparava, si accovacciò e sempre rimanendo piegato raggiunse il ragazzo: era pallido e si premeva il gomito con una mano. Tremava di febbre. Bill Crosby controllò la ferita: si stava infettando, il proiettile era ancora dentro. Serviva un medico. Subito. Bestemmiò: Martin socchiuse gli occhi. -Non voglio perdere il braccio, signore. Non voglio perderlo… morire. -Non muoverti, ragazzo, non muoverti o sarà peggio. Gli strinse la fasciatura. Martin guaì di dolore. -Li ammazzo tutti io, signor Bill, lo giuro su Dio. Mi dica dove sono. -Non muoverti -ripetè- non lo so dove sono. Non esponiamoci. Aspettiamo. E distolse lo sguardo perché quella mancanza di certezze non era da lui, lo metteva in imbarazzo. Andò a sdraiarsi qualche metro più in là. Trovò il tabacco. Accese e lanciò ampie boccate verso il cielo che impallidiva. Era furente: perché ti sei fatto fregare, Bill? Perché ci siamo fatti fregare? Guardò Martin: camicia allagata di rosso, mani a pugno, viso contratto, rantolo ad ogni respiro. E fu proprio quel verso da moribondo a fargli ricordare tutto ciò che era successo la settimana prima. Il massacro, la mancanza di Glenda, gli avvoltoi. E di come aveva conosciuto il ragazzo. La notizia era giunta in città il venerdì mattina con il Pony Express. Due proiettili nel polmone destro e uno nella milza, J. Larrigan, che ogni quindici giorni recapitava la posta in groppa al suo sauro nero, fece appena in tempo a raggiungere il centro della main street per poi stramazzare. Mandarono subito a chiamare lo sceriffo che stava chiudendo una mano di poker. Carte eccellenti -disse prendendo il cappello- proprio adesso doveva farsi accoppare... Al sole, in mezzo alla strada, tutto si era fatto chiaro. La polvere rossa sotto le zampe e sul manto del cavallo, le congetture (mi creda, sceriffo, il povero Larrigan si fermava sempre da loro, alla fine del giro, dai Miller: Thorn, Glenda, Martin e Frank). In poco meno di un’ora raggiunsero il ranch. E qui le versioni discordano: alcuni dissero Dio, quanto sangue, altri qui c’entrano gli Apaches. Altri ancora invece tacquero guardandosi gli stivali. Tutti furono però concordi su alcuni dettagli: primo, che erano stati in tre a sterminare e derubare la famiglia (tracce fresche di tre cavalieri sulla pista delle colline);

secondo, che il Pony Express aveva visto troppo; terzo, che Martin, il primogenito, quel giorno sui pascoli, era l’unico sopravvissuto, e quarto: che ci voleva il vecchio Bill Crosby. Bill Crosby aveva cinquant’anni, schiena dritta e mani grandi. Nell’esercito il tempo necessario per esserne espulso e mandriano il tempo necessario per imparare a sparare ai coyotes e ai messicani (che per lui era più o meno la stessa cosa), ora gestiva un emporio in città. Ma tutti sapevano che le pistole preferiva usarle che venderle. Si era fatto crescere i baffi. Lo sceriffo andò da lui dopo pranzo. -Tutti i Miller? -Tutti. -Anche Glenda? -Mi dispiace molto, Bill: sapevo di voi. -Lo so -mormorò- quando partiamo? Al tramonto già cavalcavano. Tre: lo sceriffo, il vice Slude e Bill. Anzi, quattro: quando Martin si era fatto vivo nessuno gli aveva detto di tornare indietro. Avevano pizzicato i tre assassini sulla pista per Salinas: non erano Apaches ma cowboys. E sapevano sparare: quando Bill e gli altri avevano aperto il fuoco, prima si erano mostrati sorpresi (avevano anche urlato qualcosa) e poi, invece di spronare, avevano risposto con la voce del fucile. Slude e il cavallo di Martin s’erano subito afflosciati. Il ragazzo aveva anche cominciato a sparare all’impazzata con il risultato di beccarsi una pallottola nel braccio che, a tre giornate di marcia dall’abitato più vicino, significava una cosa sola: cancrena. Che lo avessero capito anche gli avvoltoi in volo sulle loro teste? Ripararono dietro le rocce. Bill Crosby si riscosse. La sigaretta gli stava bruciando l’indice. Era stata una buona idea rimandare lo sceriffo in città a chiedere rinforzi? Forse, ma adesso era solo. Solo con il ragazzo. Martin. Qualcosa in lui non gli piaceva. Era glaciale. Orfano da pochi giorni, se la rideva troppo durante i bivacchi. In più era l’unico superstite, insospettabile... E quel verso poi, quel rantolo così lugubre, aveva un che di indefinibile, metteva i brividi. E se quei cowboys nascosti qualche passo davanti a loro non c’entrassero nulla? Non pensare troppo, Bill, ti fa male, questo sole ti sta cuocendo il cervello. Tornò dal ragazzo, gli mise la mano sulla fronte. Febbre alta. Bisognava agire. Si mise ad osservare la pista e non vide il viso di Martin che si trasformava in un ghigno, la pistola che faceva fuoco. Sentì solo un dolore alla schiena e poi calò il buio. Quando lo sceriffo tornò con i rinforzi trovò il cadavere di Bill Crosby e di tre giovanissimi cowboys in licenza che andavano ad una fiera di cavalli. Martin Miller fu dato per morto. Mentre veniva celebrato il suo funerale guadava il Rio Grande.






RECTO -verso

Proseguiamo, continuiamo. (Malgrado la regola di monograficità segmentaria della rivista). Un ragionamento che è fondante, e fonte, non può finire: continua a sgorgare, a circolare, eterno e (in)differente come ogni flusso d’acqua. Per cui insistiamo, su questo luogo decisivo che è la lingua.

Il tuo trillo sembra la brina / che sgrigiola, il vetro che incrina... / trr trr trr terit, tirit * Ed è soprattutto la lingua stessa che deve insistere, su se medesima. Insistere come un esercizio ascetico. Lingua che si avvinghia su se stessa, che si ripercuote, che si frequenta fin quasi al parossismo. Lingua che vuole essere lingua, che martella per uscire dall’immemorabile oblio quotidiano: lingua che vuole sentirsi lingua. Ovvero organo, carnale, orale, extra-verbale, iper-verbale. Vuole essere Vera. Don... Don... E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi! / là, voci di tenebra azzurra...* Nell’insistenza, nella ripetizione allucinante e materica, ogni somiglianza si dilegua. Ogni fuggevole significato, strumentale e teleologico, si smarrisce nella caverna della bocca. La voce si sconnette e risuona e parte in luoghi azzurri e tenebrosi. Non resta molto di comunicazione quando la parola rotta punta verso il puro ritmo, e la lingua è percussione. Non conato primitivo, ma intensità inaudita della littera, manierismo della littera, delirio culturale della littera: altrove della littera nella littera, ovvero allitterazione (e onomatopea, e…). Lord Lord Lord caw caw caw Lord Lord Lord caw caw caw Lord ** Questo spazio ignoto e intimo della lingua non è che il verso del suo recto ordinario, che nell’insistenza lentamente si spalanca. Ed è “verso” indubbiamente, integralmente. L’insistenza della lingua sono i versi, della poesia. Il verso nasce dell’interruzione coattiva della lingua prosastica che scioglie l’astratta e continua linearità del discorso in puri rapporti spazio-temporali, di ritmo. Tutta (o quasi) la figuralità, e la matericità, della lingua in terra di poesia nasce dalla disgiunzione d’un discorso che batte un arresto, sospende, torna e ribatte ritmicamente. Everything is holy! everybody's holy! everywhere is holy! everyday is in eternity! Everyman's an angel!** Qui la lingua raggiunge uno stadio circolare e tautologico, in cui infimo e celeste si incontrano e s’abbracciano. Nei versi la lingua si fa, in ultima istanza, verso. Ovvero grido, trasporto, voce animale, chiamata, segnale (in difetto di referente, in pienezza di presenza). Ed anche parlata, motto, dialetto, balbuzie gioiosa infantile. Tutta potenza, materica e segreta. La lingua al suo momento di festa (ossia di sospensione) diviene canto, e sfiora l’urlo. Si spoglia d’ogni pretesa per potere brillare d’umiltà graziosa. Allora, essa non dice più nulla, come nuda. È cavità (os, oris) mistica : pura oralità, o orazione. E non c’è più direzione (destinatari destinanti): manca di versi, ha un indirizzo inafferrabile. Parla a Dio, parla in Dio, parla Dio. Siamo, quindi, alla celebrazione, alla rivelazione, alla liturgia. *Giovanni Pascoli ** Allen Ginsberg




Stanotte non ho dormito, ho colto versi di coito diversi dai versi soliti, i vicini fin troppo rasenti al muro, si sentono cinguettare ogni mercoledì, come appuntamento post coppa. Per soffocare i propri gemiti, ospitano una decina di gabbiette di uccellini, pappagallini inseparabili, diamanti mandarini, canarini gialli e rossi ed infine una coppia di nonnetta bicolor, presi da chissà quale negozio clandestino. È un’abitudine che hanno ormai da due anni, quando lui si è separato e ha incontrato la sua nuova compagna ad un torneo di rutti on-line, insieme per allenarsi e nascondere questi fastidiosi rumori decisero di acquistare tutti quei volatili, all’inizio presero quattro gatti ma poi questi dormivano tutto il giorno ed erano terrorizzati da quei versi modulati da litri di cola gassosa, li riportano alle famiglie che li avevano smarriti ed erano contenti. Stamattina dovevo essere sveglio, avevo promesso al mio amico Matteo di accompagnarlo alle prove del suo nuovo gruppo, passare a prendere i componenti, visto che possiedo un furgone spazioso per farli stare comodi. Solo che non mi ha avvisato del cantante, il loro gruppo suona un genere unico nel raggio di 300km, infatti a 305km c’è un gruppo simile ma non lo conoscevo, a suo dire loro fanno un genere diverso, ambientgrindnoisemetalpostcore mentre gli altri fanno ambientgrindnoisemetalcore, a me comunque non frega un cazzo, basta che mi danno i 50 euro per trasportarli e possono fare anche le cover di Raul Casadei. Arriviamo ad una fattoria, dopo vari discorsi sull’ energia cinetica quantistica e sul fatto che le code ai cessi dei locali tra uomini e donne ormai si sono uguagliate, scendiamo e si dirige dal contadino, classico uomo virile di 73 anni con canottiera seconda pelle e cappello color ciliegia troppo matura, marcia per la precisione. I due si avvicinano al recinto dei maiali e noto il volto stupito di Matteo, non trova più il suo vocalist, aveva disegnato con una bomboletta fucsia una X sulla schiena, ma il fango e le piogge dei giorni scorsi, unito ad un acquisto sbagliato di una vernice spray pessima, comprata dal nostro amico Luca nel colorificio di famiglia. Tutti sanno che non tengono prodotti buoni, le bombolette in realtà le compra da un distributore in accordo con il comune, così i possibili writer che le usano per imbrattare il paese si ritrovano la parete ripulita dalle intemperie dopo una settimana, il comune dà una mazzetta ai genitori del nostro amico e tutti sono felici. L’unica cosa buona che puoi comprare da loro sono i notes, quaderni e piccole agende per scrivere i tuoi pensieri, racconti o poesie, li sceglie direttamente Luca, ha la passione di scrivere versi poetici, molto differenti da quelli dei miei vicini.


invertita hai giocato nel sole, hai parlato con noi. Mi sembravi intrattenere un rapporto privilegiato con la vita del mondo, con i suoi movimenti profondi: mi parevi antica, millenaria. Dispensatrice di segreti universali. Anche quando mi dicevi “non lo so”, avevi la serenità di chi pensa: se non lo so, di certo c’è un motivo. Del mio affanno ti facevi guaritrice attenta e rassicurante, ma, in fondo, non lo capivi e non ti apparteneva. Crescevi sicura, forte della tua anima vecchia quanto il mondo; ed io accanto a te, tutta pensieri e tutta vergogna, in disarmonia. Acqua chiara, virgulto primaverile, terra, germogliante silenzio La disarmonia non mi abbandona mai, la ritrovo negli occhi che incontro, nelle inflessioni di voce; a volte mi sorprendo a inventarmela, a crearmela intorno – cortina invalicabile, fossato abissale: mi incateno al centro e mi concedo di pensare che nessuno possa capire il groviglio che sono. Tu non ti sei mai pensata groviglio ma piuttosto filo sottile, di cui si poteva seguire il corso senza conoscerne il verso; tu non mi hai mai pensata groviglio, ma piuttosto intreccio, parola che imparammo ad usare insieme per definire quel che racconta un libro e che a me sembrò perfetta per descrivere la nostra storia strana, il nostro insolito legame

di corpi – strana ed insolito soltanto per me, per te naturale come il cielo e la terra. Tu hai giocato bambina sotto un cielo diverso, ne hai negli occhi il silenzio, una nube, che sgorga come polla dal fondo. Ora ridi e sussulti sopra questo silenzio. Nel mio ricordo non parli mai, e non è vero che tacessi; parlavi tanto ma è soprattutto il silenzio che mi facevi dentro che scelgo di ricordare. Un silenzio di pensieri prima che di parole – un modo di guardare e di farsi guardare, un modo di esistere di fronte all’altro, senza permettere che un fiume di parole scorra in mezzo e allontani. E così ogni giorno scelgo questo modo che era tuo per definirmi – per definirci: non una lotta affannosa di parole, ma piuttosto un’armonia di versi. Dolce frutto che vivi sotto il cielo chiaro, che respiri e vivi questa nostra stagione, nel tuo chiuso silenzio è la tua forza. Come erba viva nell’aria rabbrividisci e ridi, ma tu, tu sei terra. Sei radice feroce. Sei la terra che aspetta.


Hai un sangue, un respiro. Non sei mai stata soltanto un’idea; ed anche ora che gli anni mi hanno sottratto la nitidezza dei tuoi contorni, non sei soltanto un ricordo. Sei fatta di carne di capelli di sguardi anche tu. Mi piaceva questo: riconoscermi prima di tutto nel tuo corpo. Ti vedevo sudare e pensavo: sudo anch’io. Certo, eri diversa, la tua carne lo era, più rotonda sui fianchi, più morbida sulle mani, le unghie come schegge di vetro in un batuffolo di cotone. Te le mangiavi e mi chiedevi se volevo assaggiarle, per assicurarmi che fossimo davvero uguali. Ora forse ti direi di sì: avrei quel sapore in bocca tutte le volte che le voci – mia e degli altri – provano a convincermi che sono un’altra cosa, di un’altra natura. Tutte le volte che trovo così allettante abbandonarmi a questo facile distacco che, distinguendomi definitivamente, mi alleggerisce, come una nave che si allontana dal porto e non si guarda indietro. No: le unghie sono le stesse. Sono costretta a guardarmi sempre indietro. Terra e piante, cielo di marzo, luce, vibrano e ti somigliano

Il sollievo è ritrovarti sempre in questo sentiero di fatica, senza che tu ci sia mai; e mi piace pescare a casaccio nella memoria e rassomigliare a te qualche ricordo, anche quelli in cui – dentro di me lo so – non c’entri. E mi piace camminare guardandomi intorno e convincermi che per ogni pensiero e sguardo umano che mi è nemico c’è un elemento di natura – un albero, un sasso – che sta dalla mia parte, mi è alleato. Sei il nome che do a ciascuna di queste alleanze. il tuo riso e il tuo passo come acque che sussultano Alla mia alleanza con l’acqua do il suono della tua risata e l’ondeggiare della tua andatura. la tua ruga fra gli occhi come nubi raccolte Alla mia intesa con le nuvole, tutta la gamma delle tue espressioni. il tuo tenero corpo una zolla nel sole. Alla terra riservo la tua pelle calda, i contorni mutevoli del tuo corpo che cresce. Hai un sangue, un respiro. Vivi su questa terra. Ne conosci i sapori le stagioni i risvegli,




Verso L’ E D I T O R I A L E

Qualche settimana fa la redazione di C.A.C.C.A. si è riunita per pensare al nuovo numero. Ci siamo guardati negli occhi, abbiamo annusato l’aria ed è bastato poco per capire che eravamo giunti ad un’impasse: pareva non ci fosse verso d’intenderci. Taglio corto: avrete capito, se state leggendo questo editoriale, che l’impasse è stata in qualche modo affrontata. Ma non per questo si può dire che abbiamo trovato un verso per superarla; abbiamo, piuttosto, cercato un modo di partire dal fatto che un verso non c’è, per fare dunque qualcosa di questa impossibilità. Sulla scia delle migliori intenzioni che avevano animato il progetto fin dall’inizio, ci siamo dati a una riforma che, come potete vedere, rende questo numero otto piuttosto diverso da quelli precedenti. Se questo cambiamento sia una cosa del momento, se gli altri torneranno come prima, se saranno anche loro diversi ma in modo diverso, se la particolarità di questo numero sia solo legata alla sua parola chiave – tutto questo lo lasciamo indovinare a voi. (Vi lasciamo anche indovinare se queste cose le abbiamo veramente pensate o se sarà quel che sarà). Insomma, vi lasciamo ponderare le quote di cose a caso e di attenzione da immaginare dietro quello che facciamo. Alla luce di questo «non c’è verso», che parrebbe diventato il nostro nuovo motto, questo numero di C.A.C.C.A. vuole essere un modo per dire che, forse, non è così importante che ci sia un verso; importante ci pare, piuttosto, che da qualche parte ci si possa incontrare.



numero otto - aprile 2016  #3b5998 - verso

Antonio Ligabue nel 1962 sta camminando sull’argine del suo fiume, parla agli animali nella loro lingua perché si sente uno di loro.


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