C.A.C.C.A. n°3

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numero tre - ottobre 2014  #dd0000 - influenza


Influenza L’ E D I T O R I A L E

Nello scrivere risulto influenzato da René Girard:

«per avere mobilità del desiderio in relazione sia agli appetiti che agli istinti è fondamentale l'imita­zione, e quindi la presenza di un modello — o di più d'uno, in quanto ognuno può averne in numero indefinito. Il desiderio mimetico è il  solo tipo di desiderio che può essere libero, cioè essere vero desiderio, perché deve scegliersi un modello»

M

entre l'ebola insidia l'Africa Nera e spaventa il resto del mondo, un'altra influenza si manifesta in molte forme sotto ai nostri occhi. A qualche migliaio di chilometri da qui, dove parrebbe consumarsi lo «scontro di civiltà», gli jihadisti di Siria e Iraq giurano vendetta all'infedele occidentale da dietro gli specchi di Ray Ban Wayfarer; dall'altra parte, noi, infedeli occidentali, guardiamo i telegiornali accarezzandoci nervosamente barbe sempre più arabeggianti. Dietro all'apparente stridere di differenze inaccostabili emerge lo spettro dell'indifferenziazione: odio del diverso o odio dell'uguale? Ostilità delle differenze o impossibilità di simbolizzare una crescente somiglianza? Sui nostri schermi scorrono immagini crude: teste che rotolano in Siria; militari che sparano in Ucraina, sui confini dell’Europa; medici che, in Guinea, lottano contro l’ebola tentando di rimanerne salvi. A Roma, queste immagini accorrono a dar forma all’ultimo, tremendo strazio di un disperato: tuta mimetica, mascherina anticontagio sul volto, decapita una ragazza ucraina prima di morire sotto i colpi della polizia. Un gesto tragico, che pare inscenare il dramma del crollo di un ordine simbolico in grado di assettare il mondo, il declino di differenze ordinatrici e strutturanti. E Lacan ci ricorda che «ciò che è precluso al simbolico, ritorna nel reale»: violenza erratica, priva di senso; di più: figlia dell'assenza di senso. Una reciproca influenza inconscia, misconosciuta, informa dunque le nostre azioni senza che ce ne accorgiamo e, anzi, mentre pensiamo non sia così. Ma è un'influenza strutturale: autoimmune; il punto non è sfuggirle, impossibile, quanto piuttosto vederla, prenderne coscienza, conviverci. Prima, magari, che uno starnuto nucleare ci spazzi via.

Non esistono innocenti: tutti abbiamo passato un raffreddore a qualcuno.

M. Marchesi




Rinocerontite "La banalità è un sintomo di non comunicazione. Gli uomini si nascondono dietro ai loro clichè." - E. Ionesco Qualsiasi tipo di influenza presenta dei sintomi che si manifestano come segnale del contagio, quindi diciamo che la banalità può essere considerata un'influenza; ed in questo caso i cliché dovrebbero avere la “funzione” di medicinali che alleviano la sofferenza. Eugène Ionesco è autore di varie opere teatrali nel ‘900 e vive in pieno l’epoca dei totalitarismi, ciò lo porta ad interrogarsi sul male che le ideologie massificanti creano sulla popolazione, e quindi i cliché. Un’opera in particolare, intitolata “Il Rinoceronte”, descrive una situazione assurda (tipica tendenza del teatro dell’epoca) nella quale tutti gli uomini vengono attaccati dalla cosiddetta “Rinocerontite” e si trasformano in animali apatici ed identici l’uno all’altro, lasciandosi trascinare dalla massa contagiosa. Bérenger, il protagonista, vede tutte le persone attorno a lui trasformarsi ed abbandonarsi ad un destino di apatia e passività. Lui vorrebbe comunicare il suo dissenso e risvegliare le coscienze, ma non parla la lingua dei Rinoceronti. Sarà davvero giusto scegliere di conformarsi ad un cliché così contagioso a costo di perdere la propria identità peculiare?



-sei sicuro? -sì -ci giureresti? -decisamente sì

-hai mai pensato che è possibile sbagliare? -sì, cioè no, non è questo il caso. -provaci -ma come? Non ci riesco

-secondo me hai ragione -qual è il problema allora? -pensa -la tua sicurezza -a cosa penso? -ma che ci faccio se sono sicuro? -a questo -lo sto facendo, e credo di aver ragione -credi? -sì, credo, hai ragione, la certezza è presunzione -non sto dicendo che sei presuntuoso -e io sto dicendo che non voglio esserlo -rilassati, ti ho detto che hai ragione -ma non lo pensi -il punto è se lo pensi tu, non io -già, questo è il punto -sembri dubbioso -vorrei non esserlo -ma lo sei. -si vede? -sì, cosa ti turba? -nulla -“nulla” non è una risposta sincera -sto solo pensando -smetti di pensare -non si può smettere di pensare -hai ragione. quindi? -quindi? quindi…bah -stai ancora pensando? -sfortunatamente sì -pensare troppo ti farà male -vaffanculo -sei sicuro? -no, cazzo, no -cosa farai? -non lo so


Non ti devi far influenzare… Non mi fiderei della sua opinione: è una persona molto influenzabile. Di primo acchito colgo un’accezione negativa nell’uso della parola “influenza” che più mi risulta abituale: come un “potere” che viene esercitato su una persona; come un freddo spiffero che si insinua tra i battenti delle finestre e va ad alterare il confortevole microclima generosamente creato dal camino. Poniamo che il microclima sia io, me stessa, ciò che questo scatolone chiamato corpo contiene; e tu, Influenza, tu, spiffero, che sei diverso da me, che sei “non-io”, entri e ti prendi il potere di cambiarmi, di alterarmi, di rendermi altro. Inaccettabile. E, soprattutto, negativo. Io bramo l’autenticità; non desidero diventare ed essere altro che quello che sono. Ma… Cosa sono? è possibile “essere” in assoluto? O, piuttosto, “essere” relativamente a qualcosa, e in particolare a ciò che ci circonda, al mondo? Metamorfosi metaforica. Poniamo che io, che ero il microclima, diventi un Lago; e che l’Influenza, che era lo spiffero, si trasformi in un fiume, e precisamente in un immissario. L’influenza si è trasformata: non è più la strega cattiva che con i suoi poteri magici trasforma in un rospo il bel principe; ora è un fiume, un torrentello di montagna che dolcemente si getta nel Lago. Non è casuale questa trasformazione: la radice della parola influenza è la stessa del verbo latino influo, che significa “gettarsi dentro, sfociare”; e ancora “insinuarsi, penetrare piano piano”, proprio come fa il torrentello. Quindi ora tu, Influenza, tu, torrentello, o fiume, così diverso, così “non-io”, così Altro, ti insinui dentro di me e scateni delle correnti nuove, inaspettate, non necessariamente desiderate, ma che in ogni caso mi muovono, muovono quelle acque che, senza di te, sarebbero stagnanti. Ma voglio davvero essere un lago? Essere stagno non è sinonimo di autenticità? Io, Stagno, impassibile a qualsiasi tipo di Influenza, il vero “self-made Stagno”, l’assoluto Io. O, piuttosto, io, Stagno, ingabbiato nelle mie acque, debole e indebolito dalle mie stesse certezze (vere, o fittizie?), limitato, e solo.

Inaccettabile. E, soprattutto, negativo.

Io bramo il Lago: influenzato, incostante, agile, relativo, penetrato e penetrante. Mi arricchisco di acque altrui, pieno di paure e di dubbi, mai nuovo e mai vecchio, solo diverso, sempre diverso. Ma mai passivo: le acque che mi influenzano, che si insinuano in me non mi conquistano, bensì si rimescolano alle mie, creando vortici dalla sorte sconosciuta. Forse il sogno nel cassetto di ogni Lago è quello di poter insinuare le proprie acque nei Laghi altrui, creando così un concerto fluviale, un organismo in cui le singole membra, connettendosi l’una all’altra, danno completezza all’opera dell’Umanità.

E dunque mi ricredo: influenzatemi! Influenziamoci! Ut in universorum animus tamquam influere possimus. Cioè «Affichè possiamo quasi insinuarci nell’animo di tutti», come mastro Cicerone disse.




Pensiamo un istante ai carcerieri di un tempo, o agli psichiatri dei primi del '900: quante crudeltà sono state commesse con leggerezza, in buona fede, credendo di servire la giusta causa del re o della “normalità”? Pensiamo ora a bambini parcheggiati davanti alla televisione o maniacalmente costretti al gioco del calcio. Pensiamo alle signore e signorine rimaste incastrate tra lo shopping compulsivo e il perseguimento di una bellezza “ideale” e pensiamo a chi subisce, nel 2014, bullismo e xenofobia. Chi sono i loro carcerieri? Chi sono i loro psichiatri?

In

seguito all'avvento di internet il termine "influencer" ha visto una rapida e costante ascesa, grazie all'incredibile quantità di connessioni stabilite e di informazioni in circolo. Quello che accade è sotto gli occhi di tutti: persone e gruppi, brand e istituzioni creano e condividono materiale che, attraverso le pagine, finisce sotto gli occhi di milioni di persone. Nessun dubbio sul fatto che il fine ultimo di tutto ciò sia la visibilità. Mi sento però di fare una distinzione tra i vari tipi di materiale reperibili sui social network: una fotografia scattata sul palco e immediatamente postata da un cantante ancora sudato dopo la performance è diversa da un video studiato al tavolino di un ufficio marketing, e il disegno di un illustratore che vuole condividere un'idea personale è diverso dalla fotografia di una modella scattata per suscitare determinate emozioni e sentimenti. La differenza sta nella ragione di fondo: mentre da una parte c'è la volontà di affermare la propria identità esprimendo un'emozione o un'idea autentica e spontanea, dall'altra le emozioni e le idee sono studiate e create per generare identificazione in un brand e, di conseguenza, aumentare le vendite. Non vi è nulla di male in questa seconda opzione, ormai ognuno afferma la propria identità attraverso le marche che veste e utilizza, e preferisco senza dubbio una campagna che faccia breccia nel cuore delle persone con messaggi positivi piuttosto che con culi e tette. Quello che mi preme è evidenziare l'importanza di due cose: da una parte la salvaguardia delle piccole realtà, delle cose autentiche, dei pensieri spontanei; dall'altra la presa di coscienza rispetto alla realtà attuale e la pretesa di una comunicazione di qualità, che possa avere una funzione sociale e fare aprire gli occhi sul fatto che non solo ciò che indossi ti rappresenta e non solo ciò che bevi ti rende felice. Stando al libro dell'ex direttore di Wired Chris Anderson, già nel 2006 eravamo passati "da un mercato di massa a una massa di mercati", per cui è necessario selezionare il tipo di persona a cui ci si rivolge piuttosto che sparare nel mucchio sperando di far presa. Questo spostamento, assieme all'enorme quantità di dati immessi sul web ogni giorno, ha dato vita a strumenti per aumentare la propria visibilità, come GoogleAdWords col quale si "comprano" le parole digitate sul motore di ricerca, pagandole "al click", oppure la funzione promozionale delle pagine Facebook, che, sempre a pagamento, aumenta i contatti della propria pagina. Alla fine tutto sottende, direttamente o indirettamente, a una logica economica. L'importanza di una persona è data dal numero dei suoi follower prima che dalle sue azioni, le idee e le emozioni vengono create, imbrigliate e cavalcate, le parole sono vendute a scapito della democrazia. Un parallelismo sorge spontaneo: la televisione, almeno in Italia, è stata fondamentale negli anni del dopoguerra per l'alfabetizzazione e in generale per le opportunità che prometteva... oggi è palese quanto queste aspettative siano state deluse. Con internet ci viene data una possibilità di riscatto, e la differenza sta nel nostro ruolo di influencer, un ruolo centrale che, volenti o nolenti, ci impone di pensare e di agire eticamente. Anche se costretti in una logica economica e ben poco democratica siamo noi, popolo digitale, a decidere quali idee far circolare.

Pensate -pensiamo- a chi antepone lo smàrtfon al saper scrivere, Dragonball ai Lego, il tifo al gioco, il sesso al dialogo, l'azione al pensiero. Ma pensiamo semplicemente alle immagini violente che ci bombardano ogni giorno. Al fatto che provengono dalla stessa società di cui noi tutti facciamo parte, da noi stessi. E smettiamo una volta per tutte di addossare le colpe sempre e soltanto agli altri.



INFLUENZE E tecnica dell'emergenza. Siamo pluri-sopravvissuti. Sommersi e salvati da mille stagioni d'epidemia. Almanacchiamone alcune, di influenze: peste, HIV, aviaria, suina, ebola... Anno dopo anno, potremmo collezionarle in un album, le influenze — nostrane ed esotiche. Non ce l'ho, non ce l'ho, non ce l'ho — una collezione paradossale: per continuarla bisogna non averne... L'importante è che ci siano, e che non ce le abbiamo: scongiuri. Che tempo fa?- Non prendere freddo.- Mangia la carne che ti fa bene.- Prendi le vitamine. Importante che ci siano e ci pre-occupino (altrimenti dovremmo iniziare a occuparci di cose serie). L'epidemia è permanente: viviamo in uno stato di emergenza. Quindi cautela, cautela. Moderati, moderati. L'emergenza è la Norma. L'emergenza legifera sulla vita, con l'autorità del ricatto: influenza senza resistenza. E' il campo concentrazionario dell'emergenza, non c'è s-campo previsto. Vedi: l'emergenza umanitaria, l'emergenza politica, l'emergenza climatica... Il prototipo della malattia ultima, perfetta: la Crisi. Emergenza maxima. E maxima influenza. Non passa mai, non si cura: fantasmagoria inesauribile, presenza di un non-esserci. Il grande Moloch, il cupo Mastino. Nuova, gloriosa dottrina del Peccato Originario C'è crisi. C’è crisi. C'è crisi e basta. Non si discute: tutti si prenda l'amara medicina, giù la purga. Libera nos a malo… Noi malati di male. Non c'è fuga: s'impari ad abitare l'emergenza. Galoppini sfiancati del miraggio della salvezza. O salute. Ah, Salus...


Con

i nonni, dopo la briscola, finisce sempre così. Che si stia parlando di una mattina d'agosto, quando qualcuno chiese ad una stazione di volare in cielo insieme a 80 persone. Che si parli di una manifestazione giusta, nel posto giusto e di un cestino che esplode nel momento sbagliato. O ancora di un aereo o di un treno che in un attimo non esistono più, lasciando parenti per anni in sala d'attesa. Ecco, a questo punto, alla fine del discorso, la domanda che sempre non riesci a non fare è: “ma tu, in quel momento, dov'eri?”. E le risposte, memoria permettendo, anche se raccontano di passeggiate con le amiche, di corse in macchina o di giornate di studio che non c'entrano nulla con i fatti importanti, quelli che vanno sui giornali e fanno la storia di un paese, sono uniche perché le senti venire da lontano e hanno un odore penetrante, come di naftalina dei vecchi armadi. In noi nipoti queste confidenze innescano poi, puntualmente, una tempesta di dubbi. Maledizione- ci diciamo- il mondo ha davvero leggi strane se, mentre Tizio moriva, mio nonno, da un'altra parte, si stava bevendo una limonata davanti alla partita. Poi una perplessità. L'impressione che ti stiano, senza volere, senza parole, suggerendo altro. Non per affetto ma per affinità biologica, per legge di natura. Eccola lì allora, tradita da silenzi e pause, quella sensazione: la serenità dell'avercela fatta, dello “anche stavolta non è toccato a me ma agli altri”. Il godimento animale di risultare illesi, non coinvolti, anche se era impossibile farsi un solo graffio, di averla spuntata comunque, non per virtù ma per caso fortuna fede o chissà che altro. “Non c’è un perchè” sembrano sentenziare alla fine, irritati, con uno sguardo. Come se il vero problema, quasi peggiore dell'essere scampati a qualsiasi catastrofe, sia doverne rendere conto ogni settimana a te, che sei lì, impertinente, con i tuoi anni ad una sola cifra, a dimostrare loro il tempo trascorso.

Si alzano, ormai è tardi, tra poco si cena, vai adesso, finisci i compiti. Obbedisci. Eppure perché torni nella tua stanza con l’impressione di aver capito poco e di aver dialogato per un pomeriggio con un sopravvissuto senza meriti, un reduce per caso? E perché, ora, i fumetti sugli scaffali ti sembrano un pizzico più falsi? Paradossale: quei racconti più, crescendo, li si dimentica, più, vivendo, li si comprende. Anche noi, da quando siamo nati, abbiamo assistito e siamo virtualmente sopravvissuti a decine di attentati, ad una cinquantina di invasioni, a centinaia di bombardamenti. Siamo stati concepiti durante la prima guerra del Golfo, abbiamo perso il primo dente mentre in Kosovo si massacravano bambini, tolto le rotelle alla bicicletta mentre decollavano i primi missili intercontinentali. Nessuno di noi, se sente nominare il 2001, non può non pensare (e vigliacco chi nega) alla Melevisione interrotta dall'apocalisse di New York e alla rabbia. La rabbia innocente del vedersi negare il Fantabosco per il World Trade Center in fiamme. Sì, siamo superstiti inconsapevoli di fatti che accadono, per nostra immeritata fortuna, via, lontano, ma la cosa, anche se non lascia tracce indelebili, anche se non ci fa sanguinare, anche se non ci fa crollare la casa sulla testa, ci segna. Quanto? Lo diremo tra 60 anni, alla fine di una briscola. Chi perde però, prima risponde, poi offre da bere.


Durante la quiete invernale del 1910, Sam Kills Two, guerriero coltissimo e memoria storica dei Lakota, registra su una pelle di bisonte i fatti più rilevanti accaduti al proprio clan durante l'anno appena trascorso. Se per un istante ci soffermiamo sulle miniature già dipinte, subito balza all’occhio quanto forte e costante sia stato, nel corso del tempo, l'impatto dei bianchi sulla vita della tribù.

Fiorenzo

Manti (il bisnonno di chi scrive), all’età di ventidue anni, si arruolò volontario nell’esercito italiano per andare a combattere sul fronte dell’Isonzo. Il padre Enrico, notaio, di idee molto liberali, non approvando né la guerra appena iniziata né la scelta del figlio, cercò invano di convincerlo a non partire, prospettandogli un solido futuro se avesse continuato gli studi di giurisprudenza. Ma Fiorenzo non volle sentire ragioni e dopo aver lasciato come commiato alla famiglia una veemente poesia di Marinetti, fuggì di notte. Ferito ad una caviglia durante la rotta di Caporetto, il sergente Manti disertò con alcuni commilitoni, riuscendo dopo molte peripezie a tornare a casa. Il padre Enrico, anche se a fatica, perdonò il figlio. Ed ecco, durante il periodo di convalescenza, probabilmente a mo’ di sfogo, Fiorenzo schizzò sul retro di uno spartito il disegno qui riprodotto: è incredibile con quanta (inquietante) chiarezza si noti il fortissimo e soffocante ascendente che il clan Manti ebbe sempre sul giovane: l’albero genealogico dipinto sul muro davanti al letto sembra una gigantesca mano pronta a ghermire l’infido discendente, colpevole (soltanto) di aver rinnegato la solida tradizione di famiglia. Ossessiva influenza che alla fine ebbe, tuttavia, la meglio: il reduce infatti non solo non tenne fede ai suoi ideali giovanili, dissociandosi presto dall’orientamento interventista, ma si convinse, dopo ripetute insistenze, a seguire le orme del padre, subentrandogli, dopo pochi anni, nella conduzione dello studio. Chi scrive trovò il disegno tra le pagine di una consunta Bibbia appartenente alla nonna materna: era usato come segnalibro insieme ad una microscopica scheggia di granata, estratta dalla gamba del padre Fiorenzo e serbata gelosamente come reliquia di giorni lontani e bui. Il disegno è purtroppo una copia: l’amico mani abili Nicolò lo ha gentilmente ricopiato su richiesta dell’autore, in quanto il foglio originale versa purtroppo in cattive condizioni e la proprietaria, assai gelosa e sensibile, non ha voluto concederlo allo scanner. La casa di Fiorenzo, villa Manti (con l’albero genealogico affrescato in una stanza al primo piano), sebbene fatiscente da decenni, è ancora in piedi e si trova in provincia di Modena.


Etciù! Etciù! Non è davvero possibile essere influenzati ad Agosto.. Ohibò! Dev’essere stata la (…) ad attaccarmi l’influenza. Perbacco! Che poi se ci pensa un attimo.. Siamo tutti influenzati,! se ci si pensa un attimo! Diceva un vecchiaccio: "La malattia è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione." Ecco: si vede che non era influenzato, quel vecchiaccio. Che l’influenza te l’attaccano sempre solo gli altri. Sempre. E non parlo solo di starnuti eh! Ci mancherebbe. Quelli sono il meno. Io non parlo mica di convinzioni. Nossignore. Parlo di idee! Quelle sono il virus più pericoloso. Prima attecchiscono nelle orecchie o sulla cornea, poi germogliano sulla corteccia prefrontale, e infine mettono frutti nel cuore. Non si può scappare. Così - Etciù! - in questo momento io sto influenzando te, lettore, che d’ora in poi porterai, dentro di te, una traccia di me.

C’è stato in realtà un tempo, quando un’influenza poteva significare morte. Uno starnuto, una condanna. E la morte, come si sa, ti influenza la vita. Di più, te la stravolge. Bastava un “Etciù!" per farti crescere pustole livide sotto le ascelle. Un’influenza atroce, nera, influenzava, come era ovvio che fosse, anche il modo di pensare. Streghe, untori, capri espiatori. Quando l’influenza, da semplice malattia, degenera in influenza mentale. In pazzia.


Il Conte Mercurio Io, il Conte Mercurio, dopo centinaia d’anni di servizio, sono venuti a prendermi. Sono figlio di Galileo Galilei, io, il Conte Mercurio. Dal 1607, con mirabile dedizione presto il mio servizio a tutte le genti. Fratello caro, ti tocco, ti assaporo, la tua pelle è pallida, tu hai l’influenza. Alzo il mio scettro e ti concedo il permesso, rimani due giorni a letto, passerà, prendi una medicina se vuoi accelerare il processo, ti passerà uguale, ma se vuoi prendi la medicina, indebolisciti di paracetamolo. Te lo devo dire fratello, non vorrei, ma in fondo lavoro per loro, le case farmaceutiche. Cara madre, con dolcezza sto sfiorando tuo figlio, la sua pelle emana calore, fin troppo. Il mio corpo si gonfia, i miei organi vengono pervasi da fiumane di mercurio. Suo figlio, il suo bambino sta male, come posso dirglielo in termini da voi comprensibili, suo figlio, il suo bambino, ha quarantuno di febbre, quanto è limitata la scala del fratello Fahrenheit per esprimere cosa provo quando entro a contatto con le vostre pelli cauterizzanti. Lo devi far ricoverare, così lo nutriranno di farmaci e sarà iniziato alla terribile società, quelle delle case farmaceutiche, ogni affanno, ogni dolore, ogni debolezza mentale, saranno curate da loro, le case farmaceutiche. Diavoli invisibili, le case farmaceutiche, ci ho convissuto per anni con quei diavoli invisibili. Li spalleggiavo nonostante la mia disapprovazione, solo per amore di lavoro, solo per amore di origini, non potevo deludere i miei nobili padri. Galileo Galilei, che con grande rammarico abiurò le sue teorie, me lo diceva, figlio mio, sii costante, porta avanti ciò in cui credi, fino alla fine, fino alla morte. Io l’ho fatto, scendendo ad ogni compromesso, solo per dedizione al mio lavoro, ed ora proprio loro, le case farmaceutiche, mi stanno venendo a prendere. L’esercito della morte è al completo. C’è l’HIV, cavalca a grandi falcate il suo viscido destriero, l’atavica compagna malaria, quante volte l’ho combattuta, la sua influenza, lungo le rive dei fiumi africani, nelle catapecchie ai confini della città, che bella missione, la mia. Anche le nuove leve, la vedo, l’ebola, giù in fondo, come sconfiggerla. Capsula di Tavor, dama delle benzodiazepine, si erge sulla sua purulenta schiena. Mi vogliono addormentare, poi solo Dio sa cosa mi succederà. Come combatterli i miei raggi, nulla potranno contro la sardanapala delle case farmaceutiche. È arrivata la mia ora, l’evoluzione mi porterà via, un algoritmo prenderà il mio posto, un algoritmo senza nessuna cognizione di causa, senza eleganza alcuna. Alzo il mio scettro, ma mi sento debole, mi sento debole, la mia vista si appanna, le mie ginocchia tremano. Addio padre, addio compagni mondani, il mio impero è finito, il digitale vi guiderà tra febbri tremolanti e temibili influenze. Io, il Conte Mercurio, mi riverso in una pozza di mercurio splendente come rugiada, addio padre, ho l’influenza.




[in-flu-èn-za] n.f.s. [pl. -e] 1 Azione, influsso di qualcosa su persone, fenomeni, situazioni e simili. estens. Autorità , prestigio, ascendente. 2 astrologia Azione esercitata dagli astri sulla natura e sul destino degli esseri animati e inanimati. 3 fisica Proprietà di alcuni corpi di agire a distanza su altri. 4 medicina Malattia infettiva delle vie respiratorie, endemica ed epidemica, di origine virale. 5 antico Flusso, scorrimento di liquidi.

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