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Boss che fanno figli anche al "41-bis"

Marta Capaccioni

Emergenza mafia tutt’altro che finita! Ergastolo e legge sui pentiti sono normative a rischio. Forse qualcuno dovrebbe spiegare all’Europa cos’è la mafia e i mafiosi visto che esorta il nostro paese a rivedere pilastri del nostro sistema. Lo scorso aprile, la Corte costituzionale italiana, con ordinanza, ha esortato il Parlamento ad approvare entro 12 mesi una legge che stabilisca in quali casi un mafioso non pentito, condannato all’ergastolo, possa accedere alla libertà vigilata dopo 26 anni di carcere. Nonostante le restrizioni attualmente previste dal regime carcerario “duro”, molti dei boss potenti fanno figli, danno ordini attraverso i telefonini, continuano i loro affari. Le stragi, gli attentati, gli omicidi, le minacce e le sentenze di morte, rappresenterebbero solamente un ricordo lontano, ma non si può abbassare la guardia.

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Dopo la sentenza del 2018 in cui è stato accertato in primo grado che pezzi deviati del nostro Stato trattavano con Cosa Nostra mentre saltavano in aria Falcone e Borsellino, la politica e i mezzi di informazione sono caduti in un assordante e inquietante silenzio mediatico. In questi mesi e soprattutto nelle ultime settimane, invece, il tema è tornato prepotentemente alla ribalta, in particolare dopo la scarcerazione di Giovanni Brusca.

A rischio c’è quella normativa di contrasto alle mafie, unica in Italia e nel mondo. Il pericolo è in effetti, che venga smantellata magari perché ritenuta superata, obsoleta e non più corrispondente e adeguata all’attualità. Una deriva grave e preoccupante, che sta allarmando gli addetti ai lavori, giornalisti e società civile. Ergastolo ostativo, “41-bis”, legge sui “pentiti”: dopo le due pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che hanno condannato il nostro Paese a riformare la regolamentazione antimafia, lo scorso aprile, la Corte costituzionale italiana,

con ordinanza, ha esortato il Parlamento ad approvare entro 12 mesi una legge che stabilisca in quali casi un mafioso non pentito, condannato all’ergastolo, possa accedere alla libertà vigilata dopo 26 anni di carcere.

A prescindere dal fatto che –come emerso da innumerevoli inchieste, processi e dichiarazioni di collaboratori di giustizia –, non esiste altro tipo di dissociazione che non passi dalla collaborazione o dalla morte, i punti specifici che dovrebbero essere oggetto di modifiche, facevano parte proprio di quel papello di richieste che Cosa nostra presentò allo Stato durante le stragi del 1992 e 1993. Quindi si comprende chiaramente come, grazie all’abolizione di fatto della pena all’ergastolo per gli omicidi di mafia, si stiano riaccendendo le speranze per i boss di uscire dal carcere, facendo venire meno l’unico vero deterrente temuto dagli stessi.

E ancora più grave è che al centro del mirino ci sia proprio l’istituto della collaborazione con la giustizia, il cui smantellamento comporterebbe un grave arretramento nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata: disincentivare la collaborazione e rimuovere la protezione ai collaboratori, abbandonandoli così a sé stessi, significherebbe privare lo Stato di uno strumento rivelatosi da sempre prezioso (a partire dal primo pentito, Tommaso Buscetta) per destabilizzare gli equilibri interni e per disarticolare le strutture delle organizzazioni criminali.

Un pericolo che si aggrava sempre di più, soprattutto dopo le reazioni suscitate dalla scarcerazione di Giovanni Brusca. Ovviamente è comprensibile e condivisibile il dolore e il rifiuto umano provato dai familiari delle vittime di mafia. Ma da parte di certi personaggi politici si percepisce, invece, una levata di scudi allarmante e ipocrita: in effetti, non si capisce come sia possibile che chi grida allo scandalo davanti all’uscita dal carcere di un pentito, il quale, dolente o nolente, ha scontato interamente i suoi anni di pena, favorisca poi nelle aule politiche una modifica normativa che permetterebbe a mafiosi, tra cui irriducibili stragisti, di uscire dal carcere senza aver detto nemmeno una parola.

Attualmente all’ergastolo ci sono Bagarella, Santapaola, i Biondino, i Madonia e i fratelli Graviano: personaggi che hanno ucciso centinaia di persone (uomini, donne e bambini), che hanno ordinato stragi e attentati e che se tornassero in libertà, anche solo per un giorno o per qualche ora, si riapproprierebbero dei propri posti di comando, rafforzando il loro potere.

ERGASTOLO? TANTO TELEFONO LO STESSO

Alcuni di loro, vedi Filippo Graviano, il quale ha ammesso unicamente la sua partecipazione alla cosca di Brancaccio, hanno già richiesto di accedere a permessi premio utilizzando la via della “dissociazione”. Anni fa lo fecero anche i boss Pietro Aglieri, Nitto Santapaola, Pippo Calò, Giuseppe Farinella e Piddu Madonia. Come se non bastasse, le inchieste più recenti, come quella denominata "Xydi", hanno dimostrato come i boss, nonostante le restrizioni disposte dal regime carcerario, riescano perfettamente a comunicare con l'esterno, a riorganizzare i clan, a tramare, a passarsi messaggi anche tra di loro.

Nel 1997 i fratelli Graviano hanno addirittura avuto un figlio, mentre erano reclusi in cella nel regime speciale (ed è un mistero rimasto completamente irrisolto), per non parlare inoltre del ritrovamento nelle mani dei capimafia di alcuni telefonini. Davanti a tale possibilità e a tale pericolo nessuno grida più allo scandalo?

Infatti, c’è chi è convinto, o cerca di convincere gli altri, che la mafia non rappresenta più un’emergenza, che le organizzazioni mafiose non hanno più la stessa forza e lo stesso potere di trent’anni fa e che le stragi, gli attentati, gli omicidi, le minacce e le sentenze di morte, rappresenterebbero solamente un ricordo lontano.

Tuttavia, ritenere che tale fenomeno sia in grado di scomparire senza un’azione di contrasto forte dello Stato rischia di legittimare un cancro che compromette ogni giorno le fondamenta democratiche della nostra Repubblica.

Sicuramente abbiamo bisogno di modifiche legislative per rendere più efficace la lotta alla criminalità organizzata, ma non nel senso di abbassare la guardia e l’attenzione sulla questione. È vero, oggi la mafia è cambiata ma non perché meno pericolosa, al contrario perché molto più potente e subdola rispetto al 1992: nel silenzio pressoché generale della politica e delle legislature che si sono succedute, è stata in grado di incrementare la sua influenza, prendendo il controllo di molti settori della società ed estendendo i propri tentacoli all’interno di ogni ambito della nostra vita quotidiana, sfruttando le crisi economiche, come quella attuale post pandemica e dimostrando una incredibile capacità di adattamento e di resilienza ai mutamenti politici e sociologici. Tutto questo grazie a stretti rapporti con componenti della politica, dell’imprenditoria, delle banche, e persino con il mondo della massoneria deviata. Un sistema di ibridi connubi emersi da innumerevoli inchieste e processi, come ‘Ndrangheta stragista, Gotha, RinascitaScott e altri.

Non è possibile che non si prendano in considerazione gli enormi fatturati prodotti dalle mafie ogni anno (circa 150 miliardi di euro), i quali superano di gran lunga i ricavi di molte aziende e multinazionali italiane e vengono inseriti all’interno del nostro PIL in accordo con i criteri dell’Unione Europea. Ci si chiede, poi, come possano passare inosservate le tonnellate di cocaina che arrivano dalle coste sudamericane direttamente nei nostri porti (primo fra tutti, Gioia Tauro, ma anche nei porti del Nord Italia, come quelli di Genova, La Spezia, Vado Ligure, Livorno e Venezia). È inammissibile inoltre che, in un paese civile, l’edilizia, l’immobiliare, il terziario, l’eolico, lo smaltimento dei rifiuti, ma anche il turismo, il lusso, e persino i centri di accoglienza, siano settori ad alto rischio di riciclaggio da parte degli ingenti capitali illeciti provenienti soprattutto dall’industria del narcotraffico.

NON SCHERZIAMO SI UCCIDE ANCORA

Oltre a tutto ciò, la mafia da ormai più di 150 anni rappresenta anche e soprattutto un problema sociale e culturale, la cui soluzione non è mai stata una priorità nell’agenda politica dei governi. Se prendiamo in esame la Sicilia, quest’ultima registra il tasso di povertà più alto della media italiana (41,4 % contro il 10% circa), peggiorato ulteriormente dopo la pandemia, e presenta un quadro criminale molto simile a quello dei paesi sottosviluppati. Una situazione inaccettabile.

Quindi vediamo come la mafia sia un fenomeno in grado di aumentare giorno dopo giorno il proprio potere e la propria influenza, ramificandosi e radicandosi nel tessuto economico e politico, e non solo in quello italiano, ma anche in quello europeo e internazionale. Purtroppo però, anche se le organizzazioni criminali hanno in parte cambiato forma e colore, ponendosi una maschera pulita e sfruttando soprattutto il canale della corruzione, queste non hanno mai rinunciato all’uso dell’intimidazione e della violenza ogni volta che se ne è presentata la necessità. Così, quei magistrati che nel tempo si sono spesi e che oggi si stanno spendendo, sacrificando la loro vita, nella ricerca della verità totale sulle stragi, sulle trattative e su quegli ibridi connubi tra pezzi del potere e la mafia, hanno subito pesanti minacce telefoniche e incursioni nelle proprie abitazioni, hanno ricevuto buste contenenti proiettili, bombole a gas su cui era stato collocato dell’esplosivo, messaggi e bigliettini intimidatori, ordigni rudimentali poggiati sulle proprie foto. Nel 2014 un magistrato in particolare, Nino Di Matteo, attualmente consigliere al Csm, è stato oggetto di un vero e proprio progetto di attentato. Secondo vari collaboratori di giustizia è arrivato persino il tritolo dalla Calabria a Palermo e secondo gli inquirenti nisseni che si sono occupati delle indagini si tratta di un attentato “ancora in corso”. Non possiamo dimenticare, infatti, che fuori dal carcere, latitante da ormai 28 anni, è in libertà il capomafia Matteo Messina Denaro, rappresentante di quell’ala stragista di Cosa Nostra, “picciotto” di Riina e di Provenzano insieme a Giuseppe Graviano. Proprio Messina Denaro, secondo i pentiti, avrebbe inviato delle missive dove era contenuta la condanna a morte di Di Matteo, che “si era spinto troppo oltre” e dove c’era scritto nero su bianco che a volere tale assassinio erano “amici di Roma”: a detta dei collaboratori gli stessi mandanti dell’attentato a Paolo Borsellino. E allora di fronte a tutto questo capiamo come sia pericolosa la deriva garantista voluta dai giudici europei applicata alla mafia e ai condannati al 41-bis e capiamo quanto, al contrario, sia necessario non abbassare la guardia e preservare quella normativa fondamentale voluta e ideata da Giovanni Falcone. Un indietreggiamento sull’ergastolo ostativo e sulla legge sui pentiti significherebbe una resa dello Stato, che oggi non ci possiamo permettere. Al contrario, si deve rispondere con un’azione forte e decisa, affiancando quella magistratura onesta e più esposta nella ricerca della verità che è sempre stata lasciata sola, come unico avamposto nel contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo. Oggi più che mai è indispensabile parlare di mafia, ma non nel senso di sminuire il problema, quanto invece, nel senso di informare, per prendere coscienza e consapevolezza di un fenomeno che da tanti decenni mina profondamente i principi democratici della nostra Costituzione.