Mestieri d'arte e design 12

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Editoriale

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ritorno al passato nella contemporaneità Raccontare i mestieri d’arte è come tornare alle origini, una sorta di Patto di famiglia stipulato con i veri valori della vita e della professione Chi mi conosce sa che Mestieri d ’arte & design ha rappresentato per me un ritorno al passato, e precisamente al 18 settembre 1969 quando in tipografia, con la cassa Rossi o con la francese, carattere dopo carattere appoggiavo sul vantaggio la riga composta, tenuta da lingotti da 12 punti o con una 1/2 riga; componevo la pagina e poi con il rullo inchiostravo la forma e con un piccolo torchio realizzavo la prima bozza. Nel giugno del 2010, quando uscì il primo numero di questa rivista, è stato un po’ come tornare alle origini per comprendere i veri valori della vita e della professione. L’arte del saper fare è una delle eccellenze che vengono riconosciute nel mondo all’Italia. Parallelamente al nostro immenso patrimonio culturale e artistico, contribuiscono «all’ornamento per lo Stato, all’utilità del pubblico e ad attirare la curiosità dei forestieri», come scriveva Anna Maria Luisa, ultima granduchessa de’ Medici nel suo Patto di famiglia. Spesso, però, ci dimentichiamo di questa infinita ricchezza, non la valorizziamo, non la sosteniamo, non ce ne curiamo.

to ambizioso e ampio che prevede anche il portale www.italia-sumisura.it, sostenuto da Acri (Associazione di fondazioni e di Casse di risparmio), dove sono stati raccolti i primi 300 indirizzi su tutto il territorio italiano: botteghe e atelier che portano avanti la grande eredità e l’enorme giacimento dei mestieri d’arte di alto profilo. Lì dove emerge la passione per la ricerca di un tessuto o di un legno pregiato, la precisione della loro lavorazione, il gusto del fatto a mano e la sua prerogativa di unicità che richiede tempo e pazienza. Vorrei farvi riflettere su un particolare: nel sito non troverete mai informazioni commerciali, né sarà possibile la vendita dei prodotti tramite e-commerce. E questo la dice lunga sul nobile intento di questa iniziativa, che si deve interpretare con finalità solo ed esclusivamente culturali.

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Ho sempre avuto attenzione per i dettagli e mi piace pensare alla mia redazione come a una bottega artigianale dove ogni immagine, ogni titolo, ogni didascalia venga cucita assieme all’articolo portante come un abito sartoriale. Consapevole del grande patrimonio di manualità e creatività che si può, e si deve, raccontare, ho sempre cercato di difendere il saper fare artigianale, ricordando quando anche io ho cominciato a muovere i primi passi nel mondo del lavoro sporcandomi le mani in una bottega di tipografo. Sono felice, dunque, che oggi OmA (Osservatorio dei Mestieri d’Arte) e la Fondazione Cologni dei Mestieri d’arte, con il supporto di Vacheron Constantin, possano dare alla luce Italia su misura, una guida dedicata esclusivamente alle eccellenze artigiane del nostro Paese, che nel mio piccolo ho cercato di raccontare in questi anni sulle mie riviste. Un proget-

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Se esiste al mondo una azienda che da anni vive e si nutre di mestieri d’arte è Vacheron Constantin. La copertina di questo numero, quindi, non poteva che essere dedicata alle celebrazioni dei 260 anni della Maison ginevrina, che ha saputo trasformare la tecnica in arte, e a quel meraviglioso oggetto unico che è il sigillo aureo creato da Gérard Desquand. Un capolavoro di oreficieria e precisione per cui l’incisore parigino ha scelto 24 simboli straordinari, ognuno dedicato a una tappa, una conquista o una caratteristica distintiva della casa orologiera. Ventiquattro come gli anni di JeanMarc Vacheron quando cominciò la sua memorabile avventura. Tra il 1755 e il 1900 lui e poi i suoi eredi portarono infatti la cultura del tempo nel mondo, nel vero senso della parola: partendo da Ginevra percorsero 60mila chilometri, ossia una volta e mezzo la circumnavigazione del globo, in un’epoca in cui ogni partenza rappresentava l’inizio coraggioso di una pionieristica scoperta. A seconda dell’inclinazione che la mano del maestro dà alla punta del bulino, la quantità di metallo che vuole eliminare varia e regala diversa lucentezza al gioiello: ogni gesto lascia così trasparire la perfetta padronanza del suo gesto. Sigillando l’eternità.

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Mestieri dArte Design

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PRECISIONE

Un sigillo aureo celebra i 260 anni di Vacheron Constantin. Il maestro Gérard Desquand ha inciso in 24 simboli la storia della Maison

TRADIZIONI

Viaggio in Svizzera a Sainte-Croix, la patria dei carillon

CREATIVITÀ

Dalle mani della famiglia Sartori le più belle maschere per il teatro

MANUALITÀ

Nel cuore di Edimburgo i nobili arazzi del Dovecot Tapestry Studio

In copertina, il sigillo in oro che l’incisore parigino Gérard Desquand ha realizzato interpretando i 260 anni di storia di Vacheron Constantin.

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Editoriale ritorno al passato nella contemporaneità di Franz Botré Botteghe Libri Premi Iniziative Fiere Mostre ALBUM di Stefania Montani I protagonisti del design ETICA MENTE di Ugo La Pietra Gesti sapienti Per dio e per il re di Alberto Cavalli

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Lavorazioni di stile PER FILO E PER SEGNO di Akemi Okumura Roy

Maestri d’arte violinis causa di Paola Carlomagno

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Mestieri dello spettacolo abito qui di Susanna Pozzoli

Formazione L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA di Alberto Gerosa Talenti da scoprire TRACCE DI RINASCITA di Giovanna Marchello

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Decoratori di attimi UN SIGILLO PER L’ETERNITà di Alberto Cavalli

Cattedrali del design lo spirito del tempo di Silvana Annicchiarico

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Botteghe storiche l’arte esatta di Mariagabriella Rinaldi

Linguaggi personali SULLE ALI DELL’INNOVAZIONE di Shannon Guo

I templi del savoir-faire L’arma della qualità di Simona Cesana

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Tradizioni territoriali LA MELODIA DEI RICORDI di Alberto Gerosa Imprese DI NECESSITà VIRTù di Ali Filippini Eccellenze artigiane PATRIMONIO NAZIONALE di Alessandra de Nitto Artefici contemporanei UN TESORO NELLE MANI di Alessandra de Nitto Musei segreti la via della ceramica di Riccardo Zelatore

Opinioni 16 114

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Fatto ad arte di Ugo La Pietra QUEL SENSO DEL SACRO CHE NON C’è PIù

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Pensiero storico di Maurizio Dallocchio e Matteo Vizzaccaro LE NUOVE SFIDE PER I COSTRUTTORI DI VALORE

Ri-sguardo di Franco Cologni LA BELLEZZA NON SIA UN ALIBI

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Sconti fino al 50% in oltre 1000 enti tra musei, mostre, dimore storiche, teatri e giardini in tutta Italia Foto Giorgio Majno, 2005 Š FAI - Fondo Ambiente Italiano

Monastero di Torba - Frazione di Gornate Olona - VA


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Collaboratori

A R T I G IANI D E LLA P A R OLA Susanna Pozzoli

Fotografa con esperienze internazionali di residenze, lunghi soggiorni e mostre prestigiose, si dedica allo studio e alla rievocazione di storie e luoghi raccontati con uno stile personale. I suoi progetti alludono con grazia a preziose realtà nascoste. La fotografia è il suo strumento per una ricerca artistica approfondita.

Dopo essersi occupata della comunicazione per grandi brand del lusso, lascia Tokyo e il natio Giappone per seguire a Londra il marito, fotografo inglese. Lavora ora come corrispondente per numerosi media nipponici.

Silvana Annicchiarico

Ali Filippini

ALBERTO GEROSA

Mariagabriella Rinaldi

STEFANIA MONTANi

Paola Carlomagno

Shannon Guo

Giovanna Marchello

Architetto, svolge attività di ricerca, critica, didattica e professionale. Dal 2007 è direttore del Triennale Design Museum della Triennale di Milano. Fa parte del Comitato scientifico della Triennale di Milano per Design, Industria e Artigianato. Attualmente collabora con varie testate giornalistiche.

Laureatosi in estetica a Ca’ Foscari, è docente a contratto di letteratura russa all’università di Vienna. Giornalista professionista, è stato direttore del periodico d’arte Goya e collabora con riviste specializzate in strumenti di scrittura e orologi, tra cui anche Penna.

Giornalista, ha pubblicato due guide alle Botteghe artigiane di Milano e una guida alle Botteghe artigiane di Torino. Ha ricevuto il Premio Gabriele Lanfredini dalla Camera di Commercio di Milano per aver contribuito alla diffusione della cultura e della conoscenza dell’artigianato.

è la fondatrice, socia e curatrice della galleria twocities di Shanghai, specializzata in craft contemporaneo. Tra le sue numerose cariche, è direttore esecutivo della Shanghai Industrial Designers Association e vice direttore della Shanghai Jewelry Design Association.

Vicecaporedattore: Andrea Bertuzzi Grafica: Francesca Tedoldi

Mestieri d’Arte & DESIGN Semestrale – Anno VI – Numero 12 Dicembre 2015 Direttore responsabile ed Editore: Franz Botré Editor at large: Franco Cologni Direttore creativo: Ugo La Pietra

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Akemi Okumura Roy

Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Direttore generale: Alberto Cavalli Editorial director: Alessandra de Nitto Organizzazione generale: Susanna Ardigò Hanno collaborato a questo numero Testi: Silvana Annicchiarico, Paola Carlomagno, Simona Cesana, Maurizio Dallocchio, D&L Servizi editoriali (revisione testi), Ali Filippini, Alberto Gerosa, Shannon Guo, Language Consulting Congressi (traduzioni),

Ha un dottorato in design presso l’università Iuav di Venezia con una ricerca sulla storia dell’esporre in ambito sia merceologico sia culturale. Collabora con riviste di settore, affiancando all’attività giornalistica ed editoriale quella formativa e curatoriale.

Vive a Padova, dove compiuti gli studi classici si appassiona all’arte contemporanea. Segue il mercato dell’arte internazionale, con attenzione alla fotografia. Figlia del designer Gastone Rinaldi, collabora con varie testate d’arte, per cui cura recensioni di mostre sulle nuove tendenze, il design e le arti applicate.

Diplomata in Pianoforte e in Composizione sperimentale a indirizzo musicologico, si occupa della Segreteria scientifica del Museo del Violino di Cremona. Ha svolto docenze di Storia della musica, Storia e tecnologia degli strumenti musicali, Trattatistica e prassi esecutiva in diversi Conservatori.

Cresciuta in un ambiente internazionale tra il Giappone, la Finlandia e l’Italia, appassionata di letteratura inglese, vive e lavora a Milano, dove si occupa da 20 anni di moda ed è specializzata in licensing.

Giovanna Marchello, Stefania Montani, Akemi Okumura Roy, Susanna Pozzoli, Mariagabriella Rinaldi, Matteo Vizzaccaro, Riccardo Zelatore Immagini: Enrico Fiorese, Mauro Magliani, Giuseppe Millaci, Mariateresa Musca, Lawrence Mynott, Susanna Pozzoli, Sarah Sartori, Colin Roy, Emanuele Zamponi Mestieri d’Arte & Design è un progetto della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Via Lovanio, 5 – 20121 Milano © Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte. Tutti i diritti riservati. Manoscritti e foto originali, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. È vietata la riproduzione, seppur parziale, di testi e fotografie.

Pubblicazione semestrale di Swan Group srl Direzione e redazione: via Francesco Ferrucci 2 20145 Milano Telefono: 02.3180891 info@arbiter.it

Pubblicità A.Manzoni & C.

Via Nervesa 21, 20139 Milano tel. 02.574941 www.manzoniadvertising.com

www.arbiter.it www.fondazionecologni.it www.mestieridarte.it

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a c i e n o C f o n i r o Sinfonico S a r t s e h c r O di Milano Giuseppe Verdi Auditorium di Milano Fondazione Cariplo Largo Gustav Mahler

STAGIONE 2016 Abbonatevi a

Info e biglietteria


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quel senso del sacro che non c’è più Il nostro artigianato di tradizione costruiva oggetti che accompagnavano i «riti domestici» come avveniva per i sacerdoti durante le funzioni religiose. Oggi purtroppo non accade più così

All’interno di molte aree territoriali legate alla cultura contadina, soprattutto se pensiamo alle valli delle nostre montagne, si è sempre praticato un artigianato carico di ritualità che, molto spesso, erano collegate all’andamento delle attività agricole e in stretto rapporto con le stagioni. È noto a tutti come il mondo contadino fosse da sempre (fin dalle primitive culture pagane) intimamente legato ai riti delle varie religioni e, viceversa, le ritualità religiose sono sempre state costruite intorno alle attività agricole. Un mondo quindi dove il sacro accompagnava ogni gesto, ogni opera, ogni rito; e il sacro era anche spesso presente negli oggetti della quotidianità, con segni che ne esaltavano il valore spirituale oltre che materiale. Spesso ritroviamo questi caratteri legati alle culture contadine trasferiti all’interno dell’artigianato che ha da sempre prodotto opere e oggetti complementari alle attività agricole; addirittura, in molti casi, era lo stesso contadino che nei mesi invernali, nel momento di sosta della sua attività agricola, si trasformava in abile artigiano.

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Se guardiamo alla storia locale e all’artigianato tipico della Valle d’Aosta, il contadino-artigiano realizzava oggetti di uso quotidiano e mobili per la casa, che ancora oggi è possibile vedere in occasione della fiera di Sant’Orso ad Aosta, nata dal perpetuarsi dell’usanza introdotta dallo stesso santo di distribuire zoccoli in legno ai poveri durante l’inverno. A ben guardare, negli oggetti che i contadini-artigiani realizzavano in legno (ma anche in ferro battuto, in pietra ollare, in cuoio), possiamo leggere i segni

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e i simboli incisi o sbalzati sulla superficie (sono impressi nella memoria collettiva certi cinturoni decorati per i campanacci delle mucche). Questi segni nascondevano, e nascondono ancora, credenze e superstizioni: espressioni genuine di fede che si trasmettevano attraverso i decori artisticiartigianali. Nella «grolla» possiamo leggere un simbolo di fratellanza; nei collari per le capre, nelle culle di legno di cirmolo, nei cofanetti e nelle cassapanche domestiche, negli stampi per marcare il burro o il pane ritroviamo rosoni intagliati, lettere, ma soprattutto monogrammi del Cristo, la croce Mauriziana e le croci di Malta.

Oggetti nati per una precisa funzione ma caratterizzati da segni che sono portatori di un rapporto carico di spiritualità tra individuo e oggetto. La caratteristica del nostro artigianato di tradizione era proprio questa: un artigianato che costruiva oggetti che dovevano accompagnare i «riti domestici» allo stesso modo degli oggetti di cui un sacerdote aveva bisogno per celebrare la sua ritualità. Oggi il senso del sacro sembra scomparso dal nostro vivere quotidiano: il giardino, luogo sacro agli dei, ha perso il suo genius loci; l’oggetto domestico non rappresenta più una ritualità quotidiana... eppure spesso, osservando ancora i gesti di artigiani impegnati a creare un oggetto (in ceramica, in legno intagliato, in vetro) ci sembra di ritrovare i caratteri di quegli antichi valori. Se il progettista cercherà in futuro di guardare un po’ più da vicino i gesti di un artigiano mentre trasforma la materia, riscoprirà alcuni segni misteriosi che hanno sempre rivelato il valore del sacro di cui sono intrise le pratiche del fare.

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©Bob Noto

andrea grignaffini bob noto

Il cuoco universale La cultura nel piatto

le teorie e le pratiche della cucina oggi attraverso la riflessione etica e filosofica dei grandi chef contemporanei 252 pagine con 70 illustrazioni a colori, e 35

fondazione cologni Marsilio

Nella stessa collana: renato meucci Strumentaio Il costruttore di strumenti musicali nella tradizione occidentale

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mario favilla, aldo agnelli Fare l’automobile Con interviste a grandi car designer

andrea branzi Ritratti e autoritratti di design

andrea guolo Costruttori di bellezza Filosofia della calzatura maschile secondo Santoni

patrizia sanvitale La mano che cura Dialoghi con i maestri del benessere

clizia gurrado, laila pozzo Il Bel Mestiere Artigiani e maestranze nel teatro d’opera

luana carcano Maestri del mare La nautica italiana, una storia di eccellenza

isabella villafranca soissons (a cura di) In opera Conservare e restaurare l’arte contemporanea

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Pensiero storico

le Nuove sfide per i costruttori di valore La comprensione del pregio di un bene influenza sempre più i comportamenti d’acquisto. In anteprima i risultati di una ricerca della Bocconi realizzata con Fondazione Cologni e sostenuta da Vacheron Constantin

La crescita dimensionale delle imprese si configura come un’arma fondamentale per competere in un mercato globalizzato. Le imprese italiane, al 99% di piccola o media dimensione, hanno perso una parte rilevante delle quote di mercato e hanno assistito a una crescita del proprio tasso di mortalità. Esiste tuttavia un particolare fenomeno, riguardante il gusto di specifici bacini d’utenza, che l’Italia deve saper sfruttare. Sta infatti emergendo una categoria di soggetti che ha modificato il proprio comportamento d’acquisto rispetto a un passato caratterizzato dal mero possesso, favorendo una maggiore inclinazione culturale alla comprensione del valore intrinseco e unico che un bene può avere, generato dalle persone e dal loro saper fare. Tale fenomeno rappresenta una possibile e decisiva soluzione per l’Italia, sistema dotato in modo specifico e difficilmente imitabile di un tessuto di imprese, quelle dell’artigianato contemporaneo d’eccellenza, realmente capaci di incontrare questi bisogni. Il Cdr (Claudio Demattè Research della Sda Bocconi) e la Fondazione Cologni, con il sostegno di Vacheron Con-

stantin, hanno individuato caratteristiche, risultati e criticità di queste imprese, che possiedono un modello di business unico e competitivo, rilevante benchmark per nuove generazioni di imprenditori e per la rimodulazione delle politiche economiche esistenti. Ciò in conseguenza di uno stringente bisogno di valorizzazione che passa anche attraverso una dura fase di ripensamento della struttura e della cultura produttiva da un lato e del framework istituzionale e normativo di supporto dall’altro.

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La valorizzazione del design, dell’intelligenza creativa e della maestria artigiana, fattori specifici del subsegmento delle imprese artigiane eccellenti, può essere il fattore su cui ripensare e sviluppare il vantaggio competitivo internazionale del made in Italy. La ricerca ultimata a luglio 2015, che verrà pubblicata a inizio 2016 nel volume Costruttori di valore, a cura di Maurizio Dallocchio e pubblicato da Marsilio Editori, ha raccolto e sistematizzato informazioni di carattere strategico, economico, finanziario e sociale direttamente dalla bocca degli artigiani eccellenti, maestri del saper fare legati tradizionalmente a specifici terri-

*Maurizio Dallocchio è Professor of Corporate Finance alla Bocconi di Milano, Director of Master in Corporate Finance e Past Dean della Sda Bocconi School of Management. Matteo Vizzaccaro è Sda Bocconi Assistant Professor dell’Area amministrazione, controllo, finanza aziendale e immobiliare.

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oe i h c c a l l oc c a r o * D o i riz V izza u a M a t te o M E

tori, testimoni dell’evoluzione del gusto capaci di descrivere in modo diretto il modello dell’impresa artigiana d’eccellenza. Il ricambio generazionale e la trasmissione del sapere sono emersi come elementi critici di particolare rilievo. Il 21,5% degli intervistati afferma di non ravvisare un interesse nell’intraprendere un percorso di apprendimento dei mestieri da parte delle nuove generazioni. Il 32% afferma invece che i giovani interessati sono anche in grado di gestire l’azienda, e soltanto il 10% riesce a impiegare soggetti con età compresa fra i 18 e i 30 anni. Le nuove generazioni necessitano di essere portate a un livello di conoscenza consapevole di questo mondo, che a oggi rappresenta una valida prospettiva di sviluppo professionale non adeguatamente presidiata.

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aumento degli stessi (nel 15% dei casi), laddove la maggior parte delle imprese operanti sul territorio italiano ha dovuto ridurre l’organico impiegato. Tali risultati sono stati determinati in modo congiunto da prodotti unici e di qualità eccellente e da scelte strategiche vincenti, viste le attuali condizioni del mercato domestico. Il 71% circa delle imprese intervistate dichiara di accedere a mercati di sbocco stranieri, con il 33% dei rispondenti che afferma di esportare più del 60% dal proprio fatturato. L’Europa Occidentale e gli Usa sono i principali mercati e forniscono un’indicazione importante in merito al profilo dell’acquirente ideale per la produzione artigiana d’eccellenza, che oltre a una disponibilità di denaro sufficiente all’acquisto di un prodotto di altissima qualità, deve possedere un gusto specifico, non orientato al lusso in sé quanto piuttosto all’ottenimento di un prodotto di alta gamma.

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La ridotta dimensione dell’attività emerge come tema sensibile, stante la necessità di dover coniugare l’obiettivo di incremento dimensionale, utile a combattere le nuove pressioni competitive, con quello di continuare a produrre in modo eccellente prodotti unici. Sebbene l’87% delle imprese intervistate impieghi meno di 10 dipendenti e la compagine sociale sia limitata (costituita nell’85% dei casi da uno o due soggetti che apportano il capitale), il 58% degli intervistati dichiara di percepire come la sopravvivenza futura della propria impresa sia legata alla possibilità di fare rete. In modo coerente con la capacità di fornire produzioni di elevatissimo standard qualitativo, il 75% degli intervistati ritiene che l’investimento sia un fattore critico per il successo dell’azienda e, nonostante un periodo economico avverso, per il 50,5% delle imprese gli investimenti sono rimasti costanti o sono addirittura aumentati rispetto al periodo pre-crisi, a testimonianza della capacità di queste imprese di liberare risorse per continuare a essere competitive. Al mantenimento dei livelli di investimento è corrisposto il mantenimento dei livelli occupazionali (nel 55% dei casi) o un

Crescita e valorizzazione sono le primarie necessità per le imprese dell’artigianato contemporaneo d’eccellenza. La crescita, equilibrata e sostenibile, concerne una condizione necessaria per affrontare la competizione e afferisce a una rivisitazione della struttura e della cultura produttiva. La valorizzazione passa invece attraverso una ristrutturazione delle infrastrutture di supporto all’attività produttiva, che devono, così come le imprese, adeguarsi al mutato scenario competitivo, diventando esse stesse competitive e quindi enfatizzando i punti di forza del Sistema Italia, correggendone i punti di debolezza. La tutela nei confronti della contraffazione, lo sviluppo e l’adeguata comunicazione dei percorsi professionali, il supporto delle istituzioni sia in ambito nazionale sia internazionale, la creazione di condizioni produttive adeguate sono tutti fattori rilevanti e determinanti per la creazione di un vantaggio competitivo potenzialmente unico e imprescindibile per l’avvio di una nuova fase di sviluppo.

Il 58% degli intervistati dichiara di percepire come la sopravvivenza futura della propria impresa sia legata alla possibilità di «fare rete»

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Nuove strade per la scoperta dei nostri mondi

www.patrimony1873.com

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di Stefania Montani

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Artigiani Libri Premi Iniziative Fiere Mostre

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ALBUM Atelier Selene Giorgi largo Richini 14, Milano carattere anche agli abiti più semplici. La sua ultima invenLa sua formazione è l’Accademia di belle arti di Brera: per zione è il Mutabito, un pezzo unico che, grazie a cerniere questo i suoi abiti sono meravigliose sculture che, grazie alla nascoste nel tessuto, può trasformarsi in molteplici capi da scelta dei tessuti e ai tagli inconsueti, spiccano per l’originalità utilizzare per le diverse occasioni: giacca, gonna, vestito da e il glamour. La storia di Selene Giorgi inizia con la curiosità cocktail, abito da sera... Nel suo atelier di fronte all’Università e la sperimentazione in vari campi: dal disegno al découpage, Statale di Milano la si può vedere mentre dispone ad arte dalla pittura alla scultura. Poi l’amore per i materiali e il suo un tessuto sul manichino, lo fissa con gli spilli, decidendo di talento l’hanno portata a trovare soluzioni originalissime nel volta in volta la forma e il movimento che dovrà avere il suo campo dell’abbigliamento, fuori dagli schemi. Inizia così la capo. Estro, preparazione tecnica, conoscenza dei materiali e lavorazione a mano del feltro, che plasma come fosse creta, o una continua ricerca estetica fanno sì che ogni creazione sia del cashmere, della seta, dell’organza che trasforma in scenografiche camicie. Notevoli anche le sue leggerissime collane unica. Perché, come ama dire Selene, i suoi abiti non vestono di stoffa, arricciate, trapuntate in morbide volute, che danno le forme: vestono l’anima. www.atelierselenegiorgi.it

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ALBUM artigiani Puiforcat 48 Avenue Gabriel, Parigi La storia di Puiforcat inizia nel 1820 con il suo fondatore émile e raggiunge l’apice nel 1920 con Jean, quarta generazione, maestro orafo amico di artisti e appassionato di scultura che sviluppa un’attività ancora oggi tra le eccellenze di Francia. Ricca di un patrimonio di circa 10mila forme e di oltre 100 modelli di posate, Puiforcat è una delle poche aziende artigianali che è riuscita a mantenere viva la propria tradizione pur sperimentando sempre forme e materiali nuovi. Le lavorazioni sono in argento, in metallo argentato o in acciaio, riconoscibili grazie al punzone EP. Nell’atelier le lastre d’argento vengono tirate e martellate manualmente sulla superficie, fino a conferire all’oggetto la forma voluta, come un tempo. Nascono così brocche, ciotole e vassoi che vengono poi abbelliti con lavorazioni a cesello, a sbalzo e con applicazioni di decori. Tutto può essere realizzato su misura e ogni pezzo personalizzato con i motivi più raffinati e complessi. Alcuni pezzi di Puiforcat si possono ammirare anche al museo del Louvre e al Centre Pompidou a Parigi. Da poco l’argenteria Puiforcat è entrata a far parte del Gruppo Hermès. www.puiforcat.com

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Peter Marigold 11 South End Road, Londra Uscito dal Royal College of Arts di Londra, allievo di Ron Arad, diplomato alla Central St. Martin School, Marigold è un enfant prodige dalla straordinaria manualità. Amante delle forme irregolari, che riesce a combinare nelle strutture più originali, ha il pallino dell’ordine: la maggior parte delle sue creazioni sono previste per riporre oggetti, libri, indumenti. Ogni spazio è utilizzato a questo scopo, persino i vani delle finestre. Make shift, per esempio, è un modulo di scaffali a incastro di dimensioni differenti, prodotto in una varietà di materiali leggeri e resistenti, da utilizzare a seconda delle esigenze; così come le Split Box Shelves (sotto), un insieme di scatole di varie dimensioni

Gilles Bonvin 3 Route de Challonges Usinens (Francia) Il punto di partenza di questo bravissimo decoratore francese è l’amore per il bello, sia che si tratti di dipingere una parete con paesaggi di montagna, animali o un intero soffitto in finto legno, sia che si tratti di riprendere il motivo di una piastrella ormai introvabile, o ricreare una serie di pietre per mascherare una porta in un muro a secco. Dopo aver frequentato la scuola Van der Kelen a Bruxelles e corsi di specializzazione in decorazione teatrale a Ginevra, è tornato in Alta Savoia, regione di origine, e ha aperto il suo atelier. Tante sono le case da lui abbellite, sia internamente sia sulle facciate esterne, dove riesce a riprodurre interi paesaggi con flora e fauna. Bonvin utilizza materiali diversi a seconda delle superfici, dalle terre ai pigmenti, dagli acrilici ai colori alla birra e agli oli. Collabora anche con gli ebanisti, per riprendere e prolungare l’effetto visivo dei rivestimenti in legno sui muri con i suoi motivi decorativi e i trompe l’oeil. gilles.bonvin13@gmail.com

che si completano combinandosi in angoli di 360°. Tra le sue creazioni più originali c’è un tavolo a forma di ellisse composto da assi che si aprono a fisarmonica e tra le quali possono essere aggiunte le assi di scarto del taglio, in modo da raddoppiare le dimensioni, senza spreco di materiali. Il suo laboratorio è a Hampstead Heath, a un passo dal grande parco londinese. Qui, grazie all’esperienza sviluppata smontando e rimontando mobili, nascono le originali creazioni che sono già state in mostra in tanti Paesi, tra i quali l’Italia, dove Marigold ha esposto al Salone del mobile di Milano. www.petermarigold.com

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Shoes: Pleasure & Pain

di Helen Persson (Victoria&Albert Museum) Un paio di scarpe è un prodotto complesso costituito da dozzine di parti, formato da materiali diversi che vanno dal metallo alla pelle, dalla tela al legno. Affascinata da questi accessori, l’autrice indaga l’arte di realizzare le calzature fino ai nostri giorni, intervistando alcuni dei maggiori designer quali Manolo Blahnik, Sandra Choi di Jimmy Choo, Caroline Groves, Marc Hare e Christian Louboutin.

Fashion Culture Istituto Marangoni: icon of fashion and design Giovanna Zanella 5641 Castello, Venezia Scarpe esclusive, da uomo e da donna, ognuna con la propria personalità. Volute di pelle che si arrotolano verso la caviglia, intrecci di camosci nelle diverse sfumature, intarsi certosini, delicate fantasie: una vera festa per gli occhi. Sono tutti modelli di Giovanna Zanella, realizzati a mano uno per uno, partendo dalla forma del piede. L’abile artigiana veneziana i segreti del mestiere li ha imparati da Rolando Segalin, indiscusso maestro del ’900, che le ha insegnato ad «analizzare il piede» che avrebbe calzato la scarpa, indagando la personalità del cliente, il suo stile di vita, il tipo e la frequenza della camminata. Giovanna ha fatto tesoro dei suoi insegnamenti e una decina di anni fa si è messa in proprio aprendo la sua bottega nella contrada di San Lio, a pochi passi dal Ponte di Rialto. Qui, munita di aghi, filo, taglierini, pinze, forbici, corde, colle e un’ampia serie di forme in legno, dà vita ai suoi modelli cercando di unire originalità e comodità, senza fermarsi alla linea. La sua ricerca spazia tra vari tipi di materiali, dalla pelle al cuoio, fino ai tessuti, alle plastiche, alle perle di vetro, giocando con la tradizione e con la modernità, senza tabù. Come ogni artigiano davvero talentuoso, oltre alle calzature originalissime è in grado di confezionare i modelli più classici e tradizionali. Sempre su misura. www.giovannazanella.it

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di Cristina Morozzi, fotografie di Aldo Fallai (Rizzoli Usa) Il volume celebra gli 80 anni della scuola professionale, nata a Milano nel 1935 per volere di Giulio Marangoni, che ha sedi anche a Parigi, Londra, Shanghai. Nelle foto, capi firmati da noti stilisti usciti da questo prestigioso istituto, oggi riconosciuto nel mondo. Qui si sono formati anche Versace, Ferré, Armani.

Cartier-Panthère

Autori vari (Editions Assouline) La pantera, icona da quasi 100 anni della Maison Cartier, nella storia, dall’antichità ai giorni nostri, e nella gioielleria. Un racconto affascinante che si snoda anche attraverso i molti personaggi illustri legati alla Maison parigina, da Jeanne Toussaint a Daisy Fellowes, da María Félix alla Duchessa di Windsor, icona di stile e di eleganza. Le fotografie sono all’altezza delle creazioni preziose del gioielliere.

Logo Design

di Julius Wiedemann (Taschen) Il libro racconta come un logo possa condizionare il successo di un prodotto: attraverso una serie di immagini collegate a prodotti ben conosciuti a livello mondiale, l’autore illustra il potere incontrastato dei grafici e della loro creatività nel favorire la commercializzazione delle creazioni nei campi più disparati. Un eccellente punto di riferimento per tutti gli addetti ai lavori e non solo.

La conquista del tempo La storia dell’orologeria dalle origini ai nostri giorni: scoperte-invenzioni-progresso

Dominique Fléchon, introduzione di Franco Cologni (Fondation de la Haute Horlogerie in coedizione con Marsilio Editori) Coniugando approccio storico e scientifico, il volume, riccamente illustrato con oltre 500 immagini, racconta come l’orologeria, scienza e arte al contempo, si sia sviluppata attraverso i secoli cercando la precisione e la bellezza, creando strumenti di sempre maggiore complessità, fino ai nostri giorni. L’uscita dell’edizione italiana, completata e aggiornata, ha dato origine recentemente alla preziosa mostra omonima allestita nella Sala federiciana della Biblioteca ambrosiana di Milano, che ha illustrato questa meravigliosa avventura dell’uomo con esemplari d’eccezione, dai primi gnomoni alle contemporanee meraviglie tecniche. Il volume è arricchito da apparati didattici che lo rendono un punto di riferimento per gli specialisti e fonte di scoperte per gli appassionati.

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Homi Milano, Fiera di Rho 29 gennaio-1° febbraio 2016 Proposte per gli stili di vita del consumatore multiculturale dei nostri giorni, per il benessere, l’abitare della casa e del giardino, la tavola, il bagno, il tessile, i gioielli. Tanti i manufatti in ceramica, vetro, porcellana, metallo, legno, cuoio, tessuto, materiali lapidei. Mille visioni dell’abitare e del vivere anche nelle aree-satelliti, in grado di abbracciare ogni momento della vita dell’uomo e della donna di oggi. Con particolare attenzione all’eccellenza italiana. www.homimilano.com

Maison & Objet Parigi, Nord Villepinte Quartiere espositivo 22-26 gennaio 2016 L’esposizione a cadenza semestrale illustra le nuove proposte delle più note aziende e dei designer, affermati ed emergenti. Il padiglione 4, intitolato Craft, è interamente dedicato all’artigianato d’arte. Gli spazi sono suddivisi per argomenti e sono consacrati alle Fragranze, alla Cucina+Design, alle Innovazioni, ai Bambini, alla Moda, al Giardino. Tante le soluzioni per l’architettura d’interni, ma anche l’arte della tavola, i tessuti. www.maison-objet.com

Heimtextil Francoforte, Fiera 12-15 gennaio 2016 Quest’anno l’importante fiera mondiale dell’arredamento tessile cambia data e apre i battenti durante la settimana, dal martedì al venerdì. Oltre all’applicazione gratuita «Navigator Heimtextil» da scaricare per orientarsi nei diversi settori, la manifestazione propone un padiglione dedicato alle ricerche ecosostenibili e uno spazio consacrato ai colori. Tanti i tessuti per l’arredo prodotti dai più importanti editori tessili del mondo, proposti da oltre 2.600 espositori. Ogni anno Heimtextil edita il Trend Book con le ricerche sulle ultime tendenze, in anteprima. www.heimtextil.messefrankfurt.com

Fiera di Sant’Orso Aosta 30 e 31 gennaio 2016 Da quest’anno anche alla fiera di Sant’Orso è possibile scaricare una app per essere informati su tutte le manifestazioni. Ricca di eventi, la manifestazione si snoda in tutto il centro cittadino con musica, degustazioni enogastronomiche di prodotti tipici, manufatti di falegnameria. Anche quest’anno, in piazza Chanoux e piazza Plouves avrà luogo L’atelier, mostra mercato riservata alle imprese artigiane che hanno fatto della produzione artistica la loro professione. In piazza Chanoux esposizione dei lavori degli allievi dei corsi, organizzati dalla Regione, di scultura, intaglio, tornitura, «drap», ferro battuto, «sabot»,

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falegnameria, «vannerie» (intreccio in vimini). Nella notte fra il 30 e il 31 gennaio, il tradizionale Veillà, veglione con tutte le vie illuminate a giorno. www.fieradisantorso.it 2

Salon International de la Haute Horlogerie Ginevra, Palaexpo 18-22 gennaio 2016 Appuntamento per appassionati e collezionisti dei misuratori del tempo, frutto del lavoro di ricerca e della collaborazione tra creatori, maestri orologieri e designer. L’anteprima mondiale dell’alta orologeria mette in mostra le ultime creazioni dei più importanti marchi, nel segno dell’eccellenza: A. Lange & Söhne, Audemars Piguet, Cartier, Baume & Mercier, Jaeger-LeCoultre, Montblanc, Iwc, Officine Panerai, Parmigiani Fleurier, Piaget, Greubel Forsey, Van Cleef & Arpels, Vacheron Constantin, Roger Dubuis e Richard Mille. www.sihh.org expocasa Torino, Lingotto Fiere 27 febbraio-6 marzo 2016 Sette le tipologie di prodotti alla 54a edizione, dai complementi ai tessuti, dall’arredo per il bagno all’illuminazione, dai prodotti per l’esterno alle proposte per il risparmio energetico, la climatizzazione, il riscaldamento e i materiali per ristrutturare la casa. Poi, incontri con interior designer, home stager, chef, architetti. A questo si aggiunge la sesta edizione di toBEeco, mostra-concorso per premiare designer e aziende sul tema dell’ecologia e del riutilizzo dei materiali con progetti che uniscono responsabilità sociale e innovazione industriale. www.expocasa.it

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Mercatini di artigianato Natalizi Tra i moltissimi appuntamenti per gli appassionati, tra l’ultimo weekend di novembre e tutto dicembre: Ad Amburgo lo storico mercatino di Natale, Historischer Weihnachtsmarkt, è allestito nell’affascinante piazza del Rathausmarkt. Argentieri e orafi, preziose decorazioni fatte a mano, ceramiche di Lausnitz e oggetti in legno intagliato, tessitori, vasai e incisori. A Innsbruck scintilla il mercatino della Marktplatz, con il grande albero di cristallo realizzato con ben 170.500 Swarovski. Da non perdere i mercatini di Trento e Bolzano, fra i più visitati dell’arco alpino. Tra casette in legno, sfavillio di luci e prodotti della tradizione enogastronomica e artigianale. Londra spicca da sempre per la straordinaria atmosfera natalizia. Tra i tanti mercatini, Hyde Park Winter Wonderland e Southbank Centre presso il London Eye: candele, giocattoli, pizzi, oggetti in legno, ceramiche, gioielli e bijoux, abiti artigianali da donna e da bambino, un vero paradiso british.

ALBUM premi iniziative Istituto Marangoni Per festeggiare gli 80 anni di attività, l’Istituto Marangoni ha ideato «Eighty chances to be the one», 80 borse di studio per il valore di un milione di euro da assegnare ad altrettanti futuri fashion warrior che potranno candidarsi sul sito per partecipare ai prestigiosi e ambitissimi corsi a Milano, Londra, Parigi e Shanghai. scholarships.istitutomarangoni.com

Academia Cremonensis è nata Academia Cremonensis, scuola di liuteria che, grazie ai contributi di un filantropo appassionato di strumenti ad arco, si propone di tramandare i segreti di questo antico mestiere nella città famosa nel mondo per la sua tradizione. Situata nel centralissimo palazzo storico MinaBolzesi, tiene corsi per piccoli gruppi seguendo i metodi messi a punto da Simone Fernando Sacconi, illustre liutaio, e da Giovanni Lucchi, caposcuola dell’archetteria italiana. Per arricchire la figura dell’artigiano costruttore di strumenti ad arco, fornendo le competenze teoriche e pratiche necessarie a diventare un professionista. www.academiacremonensis.it

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A Vienna, l’atmosfera si fa sognante. Sono 150 le bancarelle che illuminano piazza del Municipio (Rathausplatz) tra porcellane, sculture in legno, birre d’Alsazia, biscotti di ogni gusto e forma e mille specialità golose. A Parigi, tra i mercatini più famosi per varietà di espositori: Champs-Élysées, Trocadero, Montparnasse, BoulogneBillancourt, place Saint-Sulpice, Défense, Gare de l’Est (alsaziano), Saint-Germain-des-Prés, Versailles, Vincennes. A Milano il Green Christmas il 12 e 13 dicembre alla Fonderia Napoleonica Eugenia: artigianato a impatto zero tra arredi bio, materiali riciclati e cosmesi naturale. «Oh bej! Oh bej!» è invece lo storico mercato meneghino in piazza Castello.

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59° Premio Faenza Concorso internazionale della ceramica d’arte contemporanea Mic Faenza, fino al 24 gennaio 2016 Oltre 1.300 opere, di 618 artisti provenienti da 57 nazioni, sono in mostra al Museo di Faenza. I migliori ceramisti a livello mondiale (oltre ai vincitori del concorso), selezionati tra i partecipanti all’ormai storica competizione. www.micfaenza.org Italian Stories Una nuova piattaforma nata per promuovere la visita alle migliori botteghe artigiane e far vivere l’esperienza delle nostre eccellenze. Si chiama Italian Stories ed è stata creata da Eleonora Odorizzi e Andrea Miserocchi, giovani architetti desiderosi di promuovere i nostri artigiani, i cui laboratori sono spesso nascosti e fuori dagli itinerari più battuti del turismo. Sul sito sono descritte le «esperienze» prenotabili negli atelier. www.italianstories.it

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Premio Liliane Bettencourt Il «Premio Liliane Bettencourt per l’intelligenza della mano», fra i più prestigiosi riconoscimenti a livello internazionale, è aperto a tutti i mestieri d’arte. Dalla sua fondazione ha consacrato il talento di circa 85 personalità di eccellenza appartenenti a diversi domini dell’alto artigianato e della creatività. Prevede tre sezioni: Talenti d’eccezione, Dialoghi e Percorsi. Le opere per concorrere si possono presentare fino a marzo 2016, e dovranno testimoniare la perfetta padronanza delle tecniche artigiane, avere un carattere innovativo e peculiare, alte qualità estetiche. I premi: 50mila euro al vincitore di ogni sezione, 100mila euro di accompagnamento per lo sviluppo di progetti. www.fondationbs.org La bellezza quotidiana Villa Reale, Monza Compie un anno la sede distaccata della Triennale che occupa i magnifici spazi del Belvedere della Villa Reale di Monza. In un percorso cronologico si possono ammirare pezzi iconici creati dalle grandi firme del design, storiche e contemporanee, quali Ponti, Fornasetti, Magistretti, Castiglioni, Albini, Munari, Branzi, Novembre... Oltre mille pezzi, a cui si aggiungono i modelli di Giovanni Sacchi, i disegni di Alessandro Mendini, la biblioteca Clino Castelli Color Library, l’Archivio Nanni Strada, il fondo Sirio Galli e la collezione virtuale di tutti gli oggetti delle sette edizioni del Triennale Design Museum, consultabile su Pinterest. www.triennale.org

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Islamic Art Budapest, Iparmuveszeti Muzeum Fino a gennaio 2017 Il Museo delle arti applicate di Budapest mette in mostra una ricca serie di importanti manufatti della cultura islamica provenienti dall’Asia e dal Nord Africa, dal IX fino al XX secolo. Grande la varietà delle sezioni, che spaziano dalle ceramiche provenienti da Marocco, Iran e dal Caucaso, ai tappeti, ai monili, agli abiti da cerimonia, molti dei quali intessuti di fili d’oro e rifiniti con pietre preziose. Oltre al grande valore storico e artistico, queste collezioni rappresentano un positivo esempio di relazioni virtuose tra popoli, culture e religioni diverse. www.imm.hu

Shoes: Pleasure and Pain Londra, Victoria & Albert Museum Fino al 31 gennaio 2016 Londra celebra l’estro e la bravura dei creatori di calzature con un’esposizione ricchissima che presenta oltre 200 paia di scarpe, di tutte le epoche e provenienti da varie nazioni: dal sandalo dell’antico Egitto decorato in puro oro zecchino alle calzature francesi del ’700, dalle scarpe con tacco a rocchetto degli anni 30 fino agli elaborati modelli ideati dai nostri contemporanei creatori di moda. www.vam.ac.uk Bejewelled Treasures: The Al Thani Collection Londra, Victoria & Albert Museum Fino al 28 marzo 2016 Oggetti spettacolari, tratti da un’unica collezione privata, esplorano i temi della tradizione e modernità nella gioielleria indiana. Tra i pezzi più belli e preziosi le giade Mughal, un raro pinnacolo in oro e gemme proveniente dal trono del sultano Tipu e pezzi che rivelano i profondi cambiamenti che hanno avuto luogo nel design del gioiello indiano nel corso del XX secolo. La mostra prende in esame l’influenza che l’India ha avuto sulla gioielleria europea d’avanguardia, realizzata da Cartier e altre Maison e si conclude con opere contemporanee realizzate da Jar e Bhagat, ispirate a una fusione creativa di motivi Mughal e disegni indiani Art Déco. www.vam.ac.uk

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korea now! craft, design, mode et graphisme en coréE Parigi, Les Arts Décoratifs Fino al 3 gennaio 2016 La mostra si propone di illustrare i legami tra la creazione d’arte, il design contemporaneo e le tecniche dell’artigianato coreano tradizionale del XXI secolo. I visitatori possono ammirare opere di artisti accanto a manufatti che spaziano dagli oggetti ai complementi d’arredo, dagli accessori agli abiti. www.lesartsdecoratifs.fr

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Pierre Cardin: past, present, future Parigi, Musée Pierre Cardin Permanente Pierre Cardin, uno dei francesi più conosciuti al mondo (ma di origine italiana), inaugura il suo museo con un’esposizione di 200 creazioni di haute-couture che raccontano l’avanguardia delle sue collezioni e il suo coraggioso sperimentare: la prima collezione del 1953 e i suoi tagli sartoriali, fino al mitico bubble dress. Durante gli anni 60, lo stilista dà libero corso alle sue idee futuriste ispirate alle scoperte scientifiche, e sarà il primo sarto a portare alla ribalta i tessuti sintetici. Disposti su manichini nei quattro piani del palazzo, gli abiti testimoniano 60 anni di grande creatività e talento. www.pierrecardin.com

Armani Silos Milano, via Bergognone 40 Permanente In occasione dei festeggiamenti per i suoi 40 anni di attività, Giorgio Armani ha aperto al pubblico il suo museo mettendo in mostra gli abiti che hanno caratterizzato il suo stile. Un excursus estremamente suggestivo, formato da 600 abiti e 200 accessori, che si sviluppa su quattro piani in una struttura magistralmente realizzata che evidenzia ogni capo come in una quinta teatrale. Una selezione ragionata delle creazioni del grande maestro, suddivisa per temi che ne raccontano l’estetica e la storia. www.armanisilos.com Il nuovo Vocabolario della Moda Italiana Milano, Triennale Fino al 6 marzo 2016 Una mostra dedicata al linguaggio e alla natura della moda italiana del nuovo millennio, attraverso l’analisi dei marchi e dei designer che ne stanno tracciando un nuovo corso. L’obiettivo della mostra è quello di portare allo scoperto la poliedricità della creatività nostrana e le sue capacità di rigenerarsi, non

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solamente attraverso il lavoro degli stilisti italiani ma anche attraverso la creatività di alcuni stranieri che hanno scelto di collaborare con marchi del nostro Paese. Il risultato sarà una mappatura capillare che condurrà a un’analisi dei linguaggi della moda italiana, restituendone il «vocabolario» contemporaneo. www.triennale.org 3

Enrico Fiorese

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Jaime Hayon: Funtastico Holon (Israele) Design Museum Holon Fino al 30 aprile 2016 La mostra al Design Museum di Holon è dedicata a Jaime Hayon, designer spagnolo fra i più grandi e acclamati a livello internazionale, annoverato dal Times fra i 100 più rilevanti del nostro tempo. Nei suoi lavori emerge una visione del mondo ideale in cui elementi narrativi e fantastici vengono combinati con un occhio attento al dettaglio. L’esposizione presenta un’antologia delle creazioni di Hayon degli ultimi dieci anni, dalle prime opere del 2003 fino a progetti speciali studiati per aziende come Baccarat, Lladró e Magis. www.dmh.org.il

vetraria muranese, Fulvio Bianconi. Estroso grafico, illustratore, designer, trascorre l’infanzia a Venezia dove ha un primo contatto con il vetro muranese, come apprendista in fornace. E scocca la scintilla. A lui si devono infiniti mirabili pezzi creati per Venini, molti dei quali divenuti vere icone dell’arte del fuoco muranese, come i vasi fazzoletto, quelli a fasce orizzontali, verticali e gli scozzesi o le giocose figure di animali. L’esposizione, curata da Marino Barovier, è la quarta del ciclo espositivo dedicato alla storia di Venini, organizzato da «Le stanze del vetro», progetto di Fondazione Giorgio Cini e Pentagram Stiftung per lo studio e la valorizzazione dell’arte vetraria del XX e XXI secolo. Con oltre 300 opere, la mostra illustra in modo esaustivo la proficua collaborazione che nel tempo a più riprese, e soprattutto negli anni 50, ha legato l’artista veneto e la celebre fornace muranese. Il primo catalogo ragionato dei vetri di Bianconi per Venini è edito da Skira. www.cini.it

2) The Bauhaus #itsalldesign Weil am Rhein, Vitra Museum Design Fino al 28 febbraio 2016 3) Riapertura della Toshiba Gallery of Japanese Art Victoria & Albert Museum, Londra Dal 4 novembre 2015 5) The Century of the Child. Nordic Design for Children from 1900 to today Helsinki, Museo del Design Fino al 13 marzo 2016 6) Des choses à faire. Chevalier - Masson Grand Hornu (Belgio), Cid Fino al 10 gennaio 2016 7) Art Nouveau. The great Utopia Amburgo, Mkg Museum für Kunst und Gewerbe Fino al 7 febbraio 2016 8) Arte transparente. La talla del cristal en el Renacimiento milanés Madrid, Museo del Prado Fino al 10 gennaio 2016

Altri Appuntamenti 1) Japonese Ko- gei. Future Forward New York, Museum of Arts and Design Fino al 7 febbraio 2016

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Fulvio Bianconi alla Venini Venezia, Fondazione Giorgio Cini Fino al 10 gennaio 2016 La Fondazione Cini di Venezia dedica una straordinaria mostra a uno dei maggiori esponenti dell’arte

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Titoletto in prima persona * Cristina Castelli è professore ordinario di Psicologia del ciclo di vita, direttrice del CROSS (Centro ricerche sull’orientamento scolastico e professionale) e del Master “Relazione d’aiuto in contesti di vulnerabilità e povertà nazionali ed internazionali” presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. E’ direttrice della Fabbrica del Talento.

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Etica

mente di Ugo La Pietra

Designer toscano che pratica la ricerca come strumento indispensabile per arrivare alla forma attraverso un percorso dall’etica all’estetica, da giovane promessa è diventato ormai un riferimento per le nuove generazioni di progettisti. La passione per l’indagine, la gioia per la scoperta, l’atteggiamento totalmente libero sono i messaggi che Paolo Ulian trasmette con i suoi progetti ai giovani che si affacciano a questa professione. domanda Nel suo lavoro ha sempre dichiarato di procedere attraverso la ricerca per arrivare alla forma. Ci vuole spiegare questo percorso? risposta È molto semplice, credo di portarmi dentro ancora quel metodo, tanto basico quanto utile ed efficace, che usavo da bambino: giocare, sperimentando con i materiali, manipolandoli e a volte violentandoli per arrivare a coglierne i limiti, le caratteristiche intrinseche e, infine, a immaginarne le potenzialità. Si tratta solo di saper ascoltare quello che ogni materiale ha da raccontarci. È da qui che possono nascere le idee su nuovi possibili utilizzi. Procedere seguendo l’intuito, la libertà e il piacere del gioco porta sempre a incocciare delle soluzioni che poi risultano già giuste in partenza, senza bisogno di ulteriori verifiche proprio perché basate sull’esperienza diretta. Soluzioni dove la forma non si disegna arbitrariamente ma arriva in modo

Vaso «Introverso», design Paolo Ulian con Moreno Ratti, edizioni Vallmar (Meda, 2014). è un vaso in marmo bianco di Carrara dalla doppia anima, che racchiude nella sua stessa materia un altro vaso di forma diversa. Si può decidere di conservare la forma originale o di modificarla facendo emergere il secondo servendosi di un martello per spezzare le sottili lamelle di marmo.

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«Progettare significa indagare spazi inesplorati, sfidare le leggi finora conosciute, senza avere la certezza di ottenere risultati concreti». Paolo ulian considera la ricerca il solo strumento per arrivare alla forma

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naturale, come la spontanea espressione della sua essenza, come l’unico modo possibile di rivelare tutto un processo progettuale. Per me il progetto deve obbligatoriamente passare da qui per poi, forse, arrivare alla produzione, quando e se un’azienda ne riconoscerà il valore. D. Si riconosce nel tipo di ricerca, propria dell’ambito disciplinare del design praticato dalle precedenti generazioni, che raramente indaga le relazioni dell’oggetto progettato con l’ambiente in cui è inserito, con le persone cui è destinato e con gli altri oggetti? R. Dipende a quali progetti ci si riferisce. Di sicuro mi sento molto vicino a quel tipo di ricerca che indaga il rapporto tra le cose, l’uomo e i suoi comportamenti: dove il legame tra uno e l’altro rimane indissolubile in qualsiasi luogo o ambiente, questi oggetti vengano sistemati e con qualsiasi persona entrino in contatto. Mi riconosco molto anche nelle ricerche di alcuni designer delle ultime generazioni come Lorenzo Damiani e Francesco Faccin, proprio perché anch’io, come loro, mi sono confrontato spesso su questo tema che in alcuni casi mi ha portato a individuare delle piccole invenzioni tipologiche; come è successo per esempio con il biscotto da dito per la Nutella o il tappetino da bagno Mat-walk con le pantofole integrate, pensato per Droog Design. Non mi riconosco invece in tutti quei progetti

che non hanno nulla da raccontare, anche se molto spesso a livello commerciale sono stati dei campioni di incasso. D. Il recupero di semilavorati è molto spesso una costante nei suoi progetti. È un percorso progettuale che le fa conoscere alcuni processi (il lavoro degli operai, i procedimenti dell’industria...) ma che forse la rende distante dall’origine della materia. Come supplisce a questa carenza? R. L’esperienza della manualità in rapporto con i materiali e le lavorazioni è una passione e una qualità che ho fin da ragazzo; non è assolutamente una carenza per me, ed è sicuramente anche per questo che preferisco decisamente lavorare a stretto contatto con gli artigiani piuttosto che con l’industria. Nel rapporto con l’industria in genere tutto è più freddo, distaccato, parcellizzato, a ognuno il proprio ruolo. Mentre nel rapporto con l’artigiano i ruoli si mescolano a tal punto da trasformare il lavoro di entrambi in una sorta di simbiosi dove io posso mettermi al lavoro sul suo tornio e lui può darmi suggerimenti di natura formale o strutturale per migliorare il mio disegno. È da qualche anno ormai che la maggior parte del mio tempo mi piace trascorrerlo nei laboratori degli artigiani, a pensare, a provare e riprovare, a costruire o distruggere, a sorridere o a disperarmi. Ormai il mio vero studio si è trasferito lì. D. è sempre convinto, dopo anni di lavoro, che si debba in-

In alto, Paolo Ulian lavora al disegno del pannello in marmo «Pixel» realizzato per Bufalini Marmi, 2015. Sotto, «Finger Biscuit» (Ferrero, 2004/06): un progetto che asseconda il gesto, automatico per tutti davanti alla famosa crema al cacao, del... leccarsi le dita. Nella pagina a fianco, tavolini «Autarchico» disegnati per Le Fablier, 2011.

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ventare sempre qualcosa di nuovo? E come concilia questa esigenza con il suo noto modo di procedere dall’etica all’estetica? R. In un certo senso sì, l’invenzione è uno dei motivi che mi ha spinto ad avvicinarmi a questo mestiere. Progettare significa proiettarsi in avanti, indagare spazi inesplorati, sfidare le leggi finora conosciute, senza mai avere la certezza di arrivare a dei risultati concreti. Nel suo piccolo il designer, come lo intendo io, dovrebbe avere lo stesso approccio di uno scienziato che dimostra al mondo una nuova teoria rivoluzionaria, che cancella i concetti precedenti, fino a quel momento dati per buoni. Riguardo al rapporto tra invenzione, etica ed estetica, penso che le ultime due siano componenti assolutamente importanti che a volte il progettista, con un triplo salto mortale, riesce a far coincidere con quella dell’invenzione, in un rapporto biunivoco come avviene tra gli atomi e le molecole. È nella perfezione della loro combinazione che a volte si può incontrare il progetto emozionante, simbolico e puro. D. Che cosa pensa dei designer che oggi vogliono essere artigiani e autoproduttori, ma che non hanno conoscenza e consapevolezza né del contesto culturale né della cultura del fare? Quelli che, in Italia, non hanno il supporto commerciale delle istituzioni dedicate al craft, attive e ben strutturate in molti altri Paesi e che quindi devono confrontarsi

con una realtà per decenni dominata dal design industriale? R. È una battaglia dura e difficile quella che affrontano oggi i giovani designer per cercare di affacciarsi e sopravvivere nel mercato mondiale. In Italia sono abbandonati a loro stessi, senza alcun supporto o facilitazione da parte delle nostre istituzioni, anzi con mille ostacoli creati proprio da queste ultime. Da un lato si è perso il riferimento e il mito rappresentato dalle grandi aziende di design che non hanno più la volontà, le energie e le possibilità di investimento di 20 anni fa; dall’altro c’è lo stravolgimento di qualsiasi parametro di riferimento dovuto ai cambiamenti velocissimi imposti dalle tecnologie digitali e dalla globalizzazione. Quello che si prospetta oggi ai giovani autoproduttori è un panorama infinito di opportunità, in cui però la maggior parte del loro tempo viene assorbita da tutta una serie di incombenze, al limite delle loro possibilità: devono fare auto-promozione sui vari portali, blog e social network; devono auto-assemblare i loro pezzi; devono auto-distribuirli nei negozi sia reali sia virtuali. Praticamente ai giovani auto-produttori non resta che uno spazio infinitamente piccolo da dedicare alla progettazione in senso stretto. Comunicano, producono e vendono in tutto il mondo, ma il pericolo è che perdano di vista la cosa più importante: la qualità della ricerca, della sperimentazione e del progetto.

In alto, Paolo Ulian lavora nel laboratorio di un marmista al prototipo di un grande vaso. Sotto, «Una seconda vita», centrotavola scomponibile in terracotta realizzato per Attese edizioni, 2006. A fianco, il grande pannello «Pixel» per Bufalini Marmi inizia a rivelare il suo decoro grazie alla «perdita» di alcuni elementi.

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Per Dio e per il re con questo motto lo speziale parigino claude trudon iniziò nel 1643 a produrre con le migliori cere d’api candele artigianali, oggi conosciute come cire trudon di Alberto Cavalli

Courtesy Ufficio Stampa Campomarzio70

Courtesy of Cire Trudon/Lawrence Mynott.

E c c e l l e nGzees tdi a sl am p io enndtoi

Sopra, due busti in cera best-seller di Cire Trudon, rispettivamente Napoleone Bonaparte e Louise, figlia dell’architetto Alexandre-Théodore Brongniart. A sinistra, alcune delle illustrazioni ironiche e suggestive dedicate ai protagonisti dell’arte, del costume o della storia francese, sviluppate dalla Maison per commentare la genesi delle sue candele e sottolinearne l’identità non solo olfattiva (www.ciretrudon.com).

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Gesti sapienti

Il 14 maggio 1643, solennità di San Mattia Apostolo, Luigi XIV sale al trono di Francia. Il sovrano, che passerà alla storia come il Re Sole, simbolo dell’assolutismo regio, dello sfarzo e della potenza francese, avrebbe lasciato come traccia visibile della propria visione estetica e politica uno dei palazzi più leggendari al mondo: la Reggia di Versailles. Una piccola curiosità storica vuole che i saloni, i boudoirs, le alcove, la chiesa della Reggia fossero illuminati dalle candele di un altro signore la cui carriera iniziò proprio in quello stesso 1643: il parigino Claude Trudon. Speziale ed esperto fabbricatore di candele, Trudon selezionava già allora le migliori cere d’api e il motto scelto nel 1714, Deo Regique laborant, rivela al contempo la destinazione e la missione non solo delle api, ma anche delle candele firmate Trudon: «lavorare» per Dio e per il re. Quella che dal 2007 è conosciuta come Cire Trudon, e che oggi è una delle più famose, apprezzate e prestigiose Maison specializzate nella realizzazione artigianale di candele dal profumo inconfondibile, ha radici che affondano nel cuore stesso della Francia. Radici che sin dall’inizio si sono nutrite di scienza e fantasia, di ricerca e di evoluzione, di obiettivi continuamente superati e di sfide vinte con successo. Si pensi al costante favore dei vertici dello Stato: dai Borboni a Bonaparte, passando per la Rivoluzione, le candele Trudon hanno continuato a illuminare i palazzi del potere. O all’affermazione di una identità specifica e seducente anche di fronte all’avvento della «fata elettrica»: nel 1889, in piena euforia per le innovazioni, Trudon riceve comunque una medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi. O infine alle continue innovazioni di oggi, sviluppate da un punto di vista sia ecologico (Cire Trudon usa solo cere sopraffine di origine vegetale, biodegradabili al 100%) sia culturale ed estetico. Nei nomi scelti per le proprie creazioni echeggiano le storie

più seducenti, gloriose o accattivanti di Francia: Carmélite, La Marquise, Trianon, Joséphine, Madeleine, Mademoiselle de la Vallière… ognuna di esse esprime un’identità olfattiva ricercata e personalissima. Se Manon evoca il bucato lavato di fresco, Solis Rex rimanda ai parquet delle gallerie di Versailles. E ogni anno sempre nuovi rimandi vengono studiati, seguendo ispirazioni narrative, storiche o artistiche che (dopo un lungo studio, attente sperimentazioni artigianali e un infallibile intuito per l’aspetto estetico di ogni dettaglio) diventano candele, ceri, persino busti dei grandi di Francia o vaporizzatori per l’ambiente. Ogni fase di realizzazione, che avviene nei laboratori normanni di Cire Trudon, prevede il lavoro consapevole e appassionato di artigiani specializzati. Unire cera liquida e profumo nelle dosi perfette, versare il composto nei preziosi contenitori in vetro, raddrizzare gli stoppini che il calore della cera ha fatto inclinare, confezionare le candele una per una: come ricorda Julien Pruvost, managing director, «il ruolo degli artigiani è centrale. Nulla accade senza il loro prezioso lavoro». domanda Qual è la formula per creare un prodotto sempre contemporaneo, senza dimenticare il prezioso Dna artigianale? risposta Credo fortemente nella qualità, nell’autenticità e nell’apertura mentale. Tutti i nostri prodotti sono fatti a mano presso la nostra manifattura in Normandia. Ci impegniamo a perseguire la massima qualità nella scelta degli ingredienti e dei componenti, al contempo onorando il passato e il presente. d. Qual è il punto di partenza, nel creare una nuova collezione? R. Non ci sono regole né un metodo. Le idee arrivano a volte dal passato, o da ciò che ci circonda. Può essere un tema, un libro, una mostra d’arte, un personaggio storico. In alcuni casi l’ispirazione può invece essere del tutto personale, e arrivare direttamente dalla nostra immaginazione. d. Quali sono i passi che seguite per creare un vocabolario specifico per Cire Trudon? R. Trudon crea candele da oltre 300 anni. Ciò che ci permette di esistere e di resistere nel tempo sono sia il passato, sia l’innovazione. Tutta la nostra storia è un racconto di progressivi adattamenti, se ci si pensa. I nostri antenati erano già imprenditori coraggiosi e creativi, e anche noi, quando guardiamo in avanti, ci volgiamo al passato. Questo dà senso e pone un obiettivo alla nostra creatività. d. Come interpretate le diverse aspettative dei mercati? R. In effetti, non lo facciamo. La nostra speranza è quella di offrire uno sguardo sul mondo delle fragranze per interni che sia interessante per il pubblico di tutto il mondo. La nostra collezione è vasta e continuamente in crescita. Credo che i nostri clienti ci apprezzino per il nostro carattere, non perché ci sforziamo di soddisfare un certo target. d. Quanto sono importanti, per voi, la ricerca artigianale e l’attività manuale? R. Tutti i nostri prodotti sono necessariamente fatti a mano. Creare candele resta un’attività delicata, con numerosi parametri che devono essere aggiustati e controllati. Solo l’esperienza e l’intervento costante dell’uomo danno vita a prodotti di qualità: non ci sono scorciatoie.

Sopra, un busto in cera viene rifinito a mano. In alto e a destra, le diverse fasi della lavorazione dei vasi, delle candele e dei busti: i vasi in vetro sono prodotti a Vinci, in Italia. Presso la Maison Trudon, la cera mischiata al profumo viene fatta colare manualmente nei vasi; la preparazione delle cere avviene secondo formule specifiche, che consentono una qualità olfattiva straordinaria. I profili da applicare alle candele richiamano l’arte classica e lo stile Impero. Dopo l’applicazione del blasone, ogni candela viene accuratamente controllata e chiusa nella sua scatola.

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Botteghe storiche

Una lunga ricerca intellettuale Sopra, Dario Fo, premio Nobel e padrino insieme a Franca Rame del Museo Internazionale della maschera Amleto e Donato Sartori, indossa e interpreta le maschere dei Sartori. Nella pagina a lato, Ruzante, maschera di Amleto Sartori in legno cavo e laccato, per ÂŤI Rasonamenti di RuzanteÂť,1955.

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dalle mani della famiglia sartori sono uscite le piĂš belle maschere per il teatro, di cui hanno inventato non solo la tecnica ma anche la forma culturale e poetica

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L’arte

esatta

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di Mariagabriella Rinaldi

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un rito demiurgico Sopra, Truffaldino, maschera dei Sartori in cuoio patinato per «Il re cervo» di Carlo Gozzi, regia di S. Pitoeff e J. Lecoq, Parigi, Teatro Marigny, 1956. A fianco, dal basso, Arlecchino seduto, maschera in cuoio dei Sartori, per «Arlecchino servitore di due padroni» di Carlo Goldoni, regia di Giorgio Strehler, interprete Ferruccio Soleri, Milano, Piccolo Teatro,1963; Amleto Sartori nel suo studio-atelier nel 1950.

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Archivio Centro Maschere e Strutture Gestuali

Botteghe storiche

Donato Sartori nasce a Padova nel 1939. Proprio in questo 2015 sono cadute le celebrazioni per il centenario della nascita del padre Amleto (1915-1962), grande e indimenticato artista e maestro della maschera. I Sartori, padre e figlio, hanno entrambi interamente dedicato la propria vita a un’arte antica e a lungo dimenticata, quella della creazione della maschera teatrale in cuoio, inventandola e portandola ai più alti vertici artistici ed espressivi. Soprattutto nella maturità Amleto Sartori, scultore, pittore e poeta, porta avanti una lunga ricerca intellettuale, letteraria, storica, psicologica e di sperimentazione sulla Commedia dell’arte, studiando, inventando non solo la tecnica ma anche la forma artistica, culturale e poetica della maschera teatrale caduta in un plurisecolare oblio. Il figlio Donato, anch’egli scultore, respira fin da bambino la cultura e la passione paterna e poco più che ventenne è già un artista formato e poliedrico: alla morte del padre ne eredita il patrimonio culturale e tecnico e lo amplia portando avanti l’antica tradizione della bottega d’arte, con sensibilità tutta contemporanea. Suggestivi i ricordi del maestro, che da bambino visitava con il padre Amleto la fonderia Bianchi di Venezia, assistendo rapito alla nascita dell’oggetto maschera, quasi un rito demiurgico: «Ho ancora nelle narici l’odore acre della cera persa, bruciata, negli occhi il riverbero accecante del bronzo fuso, colato negli stampi conficcati tra la sabbia. Sento ancora la tensione dell’attesa di quando

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«Il gioco della maschera non è una scienza esatta ma un’arte esatta» (Jacques Lecoq)

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si spaccava il negativo per scoprire, quasi fosse un reperto archeologico, la forma sepolta che svelava gradualmente l’espressione di un volto. Maschere realizzate con altri materiali, ora ricavate dall’intaglio del legno, ora plasmate nel cuoio, ora scavate nella pietra, si accumulavano in tanti anni di lavoro e di esperienza». Come diceva il famoso mimo Jacques Lecoq «il gioco della maschera non è una scienza esatta ma un’arte esatta». Dalla bottega d’arte dei Sartori sono uscite dal dopoguerra in poi le più belle maschere per il teatro. Dopo anni faticosissimi di lavoro e studio Amleto diventa famoso in tutta Europa. Registi e attori importanti scelgono le sue creazioni: fra questi il regista Jean-Louis Barrault per la sua trilogia di Eschilo, l’Orestea, andata in scena nel 1955 e rimasta celebre per le ben 75 stupende maschere in cuoio realizzate da Amleto. Di grande interesse è il confronto tra queste maschere e quelle create da Donato nel 2001 per la stessa trilogia, con la regia dello svedese Peter Oskarson: maschere vibrafoniche in resina, di straordinaria forza espressiva ed essenzialità esecutiva. I Sartori hanno realizzato in circa 80 anni di attività artistica maschere in materiali diversi (dal cuoio al legno al metallo e altro) per opere teatrali che spaziano da Goldoni a Pirandello, da Shakespeare a Molière, fino a Ionesco, al teatro d’avanguardia e al teatro di strada. Hanno collaborato con i più famosi registi e artisti della scena: da Bertolt Brecht a Giorgio Strehler a Eduardo De Filippo, da Jacques Lecoq a Eugenio Barba, da Dario Fo a Moni Ova-

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Botteghe storiche

dia. Fra i grandi interpreti i più celebri Arlecchini di tutti i tempi, Ferruccio Soleri e Marcello Moretti: quest’ultimo quando indossava una maschera dei Sartori pare si dimenticasse di averla, tanto che quando aveva caldo si racconta si tergesse... la maschera con il fazzoletto! Nel 1979 Donato Sartori crea ad Abano Terme (Pd), con l’architetto Paola Piizzi, oggi direttrice e curatrice del Museo e con lo scenografo Paolo Trombetta, il Centro maschere e strutture gestuali, che studia e promuove tutti gli aspetti spettacolari, etnologici e antropologici della maschera e realizza seminari, mostre e performance in tutto il mondo. In questo contesto di grande importanza anche dal punto di vista della promozione culturale del territorio, il maestro ha l’orgoglio, la tenacia e la passione dopo tanti anni di insegnare e trasmettere la sua esperienza ai giovani che vogliono imparare la nobile arte del «mascherero». Quest’anno, in occasione del centenario della nascita del padre, ha diretto il 30° Seminario - Laboratorio internazionale «Arte della maschera nella Commedia dell’arte», accogliendo studenti da ogni parte del mondo: un corso professionale teoricopratico sulla storia, morfologia e tecnica della maschera teatrale in cuoio, dall’idea al progetto alla realizzazione secondo le metodologie e le tecniche dei Sartori dal 1947 a oggi. Nel 2004 il Centro dà vita al Museo internazionale della maschera, un luogo unico che raccoglie circa 2mila maschere teatrali create dai Sartori, oltre a una straordinaria quantità di maschere e reper-

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«L’opera era fatta, viva e piena di quel calore umano che hanno le cose vere» (Donato Sartori, Autobiografia)

ti
originali provenienti da diverse aree geografiche, raccolte in anni di viaggi e scambi culturali. L’intento del museo è quello non solo di custodire e valorizzare il patrimonio Sartori ma di renderlo luogo dinamico, di ricerca, di sperimentazione, un museo vivente. Straordinaria la testimonianza di Dario Fo, autore di un bellissimo testo sulle maschere create, scolpite e battute in cuoio dai Sartori, da lui usate a centinaia nei suoi spettacoli e a suo dire uniche per leggerezza e calzata, quasi una stregoneria. «Pochi sanno che una maschera d’autore è oltretutto uno strumento acustico straordinario, uno strumento musicale di amplificazione e catalizzante l’equilibrio dei toni, degli acuti e dei gravi... Ogni maschera è uno strumento musicale con una particolare cassa di risonanza». Per un attore portare la maschera è insieme angoscia e felicità, un’arte ardua che richiede moltissima disciplina e capacità tecnica: ma nell’indossarne una dei Sartori si aggiunge qualcosa di magico alla propria interpretazione. E la magia continua oggi, anche grazie alla figlia di Donato e Paola, Sarah, artista, che porta avanti nella bottegalaboratorio la tradizione di famiglia accanto al padre e alla madre. «Le maschere fanno parte della mia vita», ammette semplicemente con un luminoso sorriso: quando il talento diventa un destino ineludibile... Così del resto Giorgio Strehler rendeva omaggio con un telegramma a Donato Sartori, riassumendo la nobiltà della sua arte: «Il grande teatro del mondo con le tue maschere racconta agli uomini come si può essere veri» (www.sartorimaskmuseum.it).

Sarah Sartori

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il grande teatro del mondo Sopra, Maschera «Neutra» dei Sartori in cuoio naturale, Parigi, École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq, 1958. Nella pagina a fianco, dal basso, Pantalone, maschera in cuoio dei Sartori per l’ «Arlecchino servitore di due padroni» di Carlo Goldoni con la regia di Giorgio Strehler, interprete Giorgio Bongiovanni; Donato Sartori al lavoro nel suo atelier di Abano Terme intento nella modellazione.

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Violinis classe 1934, è stato Recentemente insignito della laurea ad honorem in discipline della musica. storia del grande liutaio gio batta morassi, che a 16 anni salÏ su un treno con destinazione cremona...

causa di Paola Carlomagno

foto di Emanuele Zamponi

Per rifinire la cassa di un violino, prima della verniciatura, il liutaio interviene con lime e rasiere, definendo e smussando la superficie fino a ottenere un effetto sempre personale. Presso la bottega di Gio Batta Morassi (via Lanaioli 3, Cremona), ogni strumento deve rappresentare alla perfezione le caratteristiche della scuola costruttiva cremonese (www.morassi.com).

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«Avevo 16 anni quando arrivai a Cremona da Tarvisio in treno. Scesi alla stazione e chiesi: “Dov’è la Scuola internazionale di liuteria?”. La risposta fu: “Ma che cos’è?”». A Gio Batta Morassi piace raccontare questo aneddoto per descrivere l’inizio della sua avventura cremonese, un’esperienza che l’ha portato a passi lenti ma determinati a cercare e a scoprire un mestiere allora ancora tutto da inventare. Nato a Cedarchis di Arta (Udine) nel 1934, a 8 anni si trasferisce con la famiglia a Camporosso dove il nonno materno gestisce una segheria. Concluso l’avviamento professionale a Tarvisio, la Camera di commercio di Udine gli assegna una borsa di studio che il sedicenne Morassi investe recandosi a Cremona, per apprendere quell’arte, allora poco nota, chiamata liuteria. È il 1950 e quella che da lì a qualche anno sarebbe diventata una Scuola internazionale è poco più che un laboratorio presso l’Istituto Ala Ponzone, nel cui sottoscala è stata ricavata anche un’aula per far musica. Morassi ricorda come la scuola fosse ancora poco attrezzata; i materiali usati per le lezioni e i laboratori non erano reperibili in città: «Prendevo il treno e andavo a comprarli a Mittenwald; a Cremona non c’era nulla». È allievo di Peter Tatar, un personaggio quasi romanzesco giunto a Cremona nel 1933 dall’Ungheria, con un viaggio compiuto in gran parte a piedi. La situazione cambia repentinamente verso la fine degli anni 50, dopo il trasferimento della scuola in Palazzo dell’arte (ora sede del recente Museo del violino). Viene bandito un concorso nazionale per un posto di maestro liutaio;

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primo in graduatoria risulta Giuseppe Lucci, che però rifiuta l’incarico in favore di Pietro Sgarabotto. Viene creato un posto per un aiuto maestro, destinato al terzo classificato: è Gio Batta Morassi, che passa così dai banchi di scuola alla cattedra, assistendo in diretta al rifiorire dell’alta artigianalità cremonese, quella stessa che secoli prima aveva dato fama al nome di Cremona attraverso i capolavori degli Amati, Guarneri, Stradivari, Bergonzi e dei loro eredi di bottega. Negli anni 60 la scuola acquisisce tra i suoi docenti i più rinomati maestri allora attivi a Milano (i fratelli Bisiach, Giuseppe Ornati e Ferdinando Garimberti) e Simone Fernando Sacconi, massimo esperto di liuteria classica da 30 anni residente negli Stati Uniti. Gio Batta diventa il «maestro Morassi», conquistando il panorama liutario con l’aver

fatto della sua attività un’arte raffinata e preziosa: per lui il suono non è solo un insieme di armonie ma anche di odori, quelli delle essenze lignee, delle vernici, delle resine che sono un tutt’uno con lo strumento. Mosso dall’ambizione di vedere un violino realizzato oggi che riesca a trasmettere quelle caratteristiche tramandate dai grandi maestri, non ha mai smesso di perseguire il suo sogno: poter riconoscere al primo sguardo un violino di scuola cremonese. Anche negli anni di crisi, quelli iniziali della sua professione, ciò che l’ha incoraggiato a continuare è stata la passione e la voglia di esplorare quel che restava da scoprire del misterioso mondo della costruzione di un violino, inseguendo il raggiungimento di quella perfezione che gli Amati, i Guarneri e gli Stradivari avevano conquistato e svelato con i loro capolavori: per Morassi la sfida è ricalcarne le orme e rubare i segreti di quell’artigianato che nelle loro mani è diventato arte. E l’ambizione più grande è, a 80 anni compiuti, continuare ancora a trasmettere attraverso gli allievi e i suoi figli, nella piena consapevolezza che il discepolo dovrà superare il maestro: «Bisogna sempre lasciare qualcosa per l’avvenire, per le giovani generazioni». Morassi ha costruito circa un migliaio di strumenti, soprattutto violini, viole e violoncelli, ma anche pochette, viole da gamba, chitarre, viole d’amore, barython, vihuele. Collabora tuttora con riviste di settore e con le giurie dei più importanti concorsi internazionali; partecipa a rassegne, mostre, conferenze e seminari di studio in Europa, Usa, Giappone, Cina, Taiwan, Corea, Messico.

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Sopra, una fase della verniciatura presso la bottega cremonese di Gio Batta Morassi. Nella pagina a fianco, in alto, tutti gli attrezzi di lavoro esprimono personalità e tradizione; tutti gli elementi (resine, essenze, vernici) sono accuratamente selezionati. In basso, Gio Batta Morassi, grande maestro pluripremiato, che tuttora si impegna a trasmettere la sua visione dell’arte liutaria.

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le nuove generazioni riscoprono il vetro Sopra, un’opera in vetro del 2009 di Guan Donghai, «City Gate», tratta dalla serie Xin. A destra, «Gather» di Shelly Xue: le ali sono realizzate in vetro e fanno parte della collezione «Angel is waiting». Il vetro è diventato uno dei materiali d’elezione della nuova generazione di artigiani e artisti cinesi, che stanno riscoprendo il potenziale espressivo delle arti decorative.

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Linguaggi personali

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sulle ali

dell’innovazione di Shannon Guo (traduzione dall ’originale inglese di Alberto Cavalli)

negli ultimi 15 anni in cina è rinato il craft contemporaneo reinterpretando le definizioni materiali e concettuali di vetro, ceramica, legno, stoffa e metalli

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52 97 Il mondo occidentale ha da secoli un’ottima conoscenza della porcellana cinese tradizionale. Ma quando si tratta della porcellana contemporanea, così come delle odierne espressioni delle arti applicate, la situazione è molto diversa. Del resto, anche in Cina il grande pubblico vede come qualcosa di piuttosto bizzarro l’uso che i maestri contemporanei fanno dell’argilla, del vetro, della stoffa, del legno, del metallo: una distanza che si riverbera anche all’estero, dove non si conoscono che i lussuosi pezzi da collezione o gli oggetti fatti in serie. Nel 2005, al fine di promuovere i mestieri d’arte contemporanei in Cina e all’estero, assieme ad alcuni amici americani ho dunque creato la galleria twocities a Shanghai, la prima e unica dedicata alle arti applicate cinesi di oggi. E dieci anni dopo, a Bristol, insieme ai curatori di tre musei britannici (il Bristol Museum, il Cheltenham Museum e il Potteries Museum di Stoke-on-Trent), ho sviluppato la mostra Ahead of the Curves – new China from China dedicata a 17 pezzi di arte ceramica contemporanea, finalmente esposti in un contesto culturale stimolante. Moltissime delle opere selezionate sono state realizzate nella città di Jingdezhen, da secoli il principale centro cinese per l’arte

Nel 2003 c’erano solo cinque scuole con laboratori adatti alla creazione di gioielli, mentre oggi ci sono più di 50 enti di formazione che offrono programmi specifici e i relativi diplomi

ceramica, secondo modalità e tecniche antichissime: ma ogni artefice ha aggiunto un tocco diverso, personale. Molti di loro sono originari proprio di Jingdezhen, o vi sono profondamente legati: alcuni insegnano tuttora al locale Istituto d’arte ceramica, altri hanno incarichi di docenza in altre città ma ogni anno tornano a Jingdezhen per ritrovarvi forza e creatività. Per questi artisti, che vivono tra idee tradizionali e moderne, tra influenze cinesi e occidentali, Jingdezhen è un luogo sacro, il paradiso dell’arte ceramica. La mostra di Bristol ha permesso di reintrodurre e ridefinire, in chiave moderna, un materiale in uso da secoli. E ha consentito di individuare la sfida che questa generazione di maestri si trova ad affrontare, ovvero come reinterpretare le definizioni concettuali e materiali dell’antica arte ceramica in un linguaggio personale. Come si può far rivivere la tradizione, esprimendo al contempo un’identità che possa fare la differenza? L’artista Jackson Lee, uno dei protagonisti della mostra Ahead of the Curves, ha detto che per lui la tradizione «è come una tazza di tè verde: è con me ovunque io vada». La tradizione lo ha dunque accompagnato da Jingdezhen, dove insegnava, allo stato di New York, dove ha conseguito un ma-

porcellana nobile Sopra e nell’altra pagina, «Birds Twitter and Fragrance of Flowers», una serie di opere in porcellana di Wan Lya, realizzate nel 2010: uno dei materiali più nobili e raffinati della cultura cinese, decorato secondo gli stilemi della tradizione, viene utilizzato per interpretare forme di flaconi e contenitori di uso quotidiano.

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ster in ceramica alla Alfred University. Ma per molti artisti più giovani la tradizione sembra ancora rappresentare qualcosa di remoto, anche se ne sono circondati; e, al contempo, i concetti artistici dell’Occidente, insegnati in tutte le scuole d’arte, sono molto distanti dalla cultura cinese. Pur trovandosi in una situazione apparentemente dicotomica, i maestri della Cina di oggi vogliono esprimersi con autenticità: si tratta quindi di identificare un processo nuovo, che si situa a un crocevia tra ispirazioni diverse. Un processo che non può fare a meno di fecondazioni significative: l’arte vetraria contemporanea, per esempio, è stata portata in Cina da alcuni maestri che avevano studiato nel Regno Unito. Tornati dall’Università di Wolverhampton, Zhung Xiao Wei, Guan Dong Hai, Xue Lv, e altri hanno aperto i loro atelier dove hanno cominciato a produrre le loro opere, dando vita a un vero e proprio movimento. Influenzando in seguito artisti più giovani come Wang Qin e Han Xi, che hanno trovato una strada espressiva in materiali come il vetro e la ceramica. Abbiamo assistito anche a una grande crescita nel campo della gioielleria e della lavorazione artistica del metallo: basti pensare che nel

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2003 c’erano solo cinque scuole dotate di laboratori adatti alla lavorazione dei metalli e alla creazione di gioielli, mentre oggi sono più di 50 gli enti di formazione che offrono programmi specifici, e relativi diplomi, in queste discipline. Molte università hanno creato i propri atelier, e sempre più numerosi sono gli studenti che dopo essersi laureati cominciano una carriera indipendente, che si tratti di laboratori o di piccole attività. A che cosa stiamo assistendo, dunque? Come artista, educatrice, fondatrice di una galleria di arti applicate e curatrice, sono stata testimone oculare e protagonista in prima persona dei profondi cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo dei mestieri d’arte in Cina, e ho osservato come lo sviluppo negli ultimi 15 anni sia stato rapidissimo. Dopo aver analizzato e partecipato a quanto sta avvenendo, posso affermare che stiamo vivendo un’autentica rinascita del craft contemporaneo, che anche il governo cinese ha compreso di dover promuovere e sostenere. Mi reputo fortunata nell’esserne parte, e nel prossimo futuro mi aspetto di vedere risultati sempre più incoraggianti. Abbiamo ancora tanta strada da fare, ma abbiamo il cuore ricco di speranza: e quindi corriamo con gioia.

suggestioni arcaiche Ironia e tradizione, suggestioni arcaiche e linguaggi contemporanei si incontrano nell’opera di Zhao Lantao intitolata «At Ease», realizzata nel 2011 in porcellana. Secondo la gallerista ed esperta Shannon Guo, il mondo dei mestieri d’arte cinesi è oggi pervaso da una forte energia.

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di Alberto Cavalli

Interpretando i 260 anni di storia di Vacheron Constantin, l’incisore parigino GÊrard Desquand ha realizzato un sigillo in oro che reca 24 simboli straordinari, ognuno dei quali dedicato a una tappa, una conquista o una caratteristica distintiva della Maison.

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Un sigillo per l’eternità Un oggetto unico di straordinaria raffinatezza, inciso dal maestro francese Gérard Desquand, per celebrare i 260 anni di attività ininterrotta di Vacheron Constantin

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Decoratori di attimi

incidendo il metallo, la luce può rifrangersi ed effondersi

Nel quattordicesimo tomo dell’Encyclopédie, pubblicato nel 1751, il termine «sigillo» viene definito come l’impronta di una figura, simbolica o allegorica, apposta a un atto per garantirne l’autenticità e per darvi esecuzione. Di lì a quattro anni, a Ginevra, Jean-Marc Vacheron avrebbe iniziato la propria attività di costruttore di orologi con un sigillo un po’ diverso: non un marchio in ceralacca apposto su un brevetto, e nemmeno una patente regia (tutti gli illustri riconoscimenti sarebbero arrivati più avanti), ma un contratto di apprendistato. Nel 1755, infatti, il ventiquattrenne maestro ginevrino ingaggiò Esaïe Jean François Hetier per affiancarlo nella realizzazione di orologi: e con quella firma ha avuto inizio l’avventura della Manifattura di alta orologeria più antica e prestigiosa al mondo. Una nascita che aveva dunque già in sé la visione del futuro, e la consapevolezza della trasmissione nel tempo: elementi che Vacheron Constantin ha da sempre integrato alla propria filosofia. E che ancora oggi trovano espressione concreta ed efficace nell’incessante ricerca artistica, culturale e tecnica che porta alla nascita di modelli sempre più stupefacenti e preziosi; ma anche nell’attenzione davvero unica alla formazione, all’educazione e al passaggio di consegne tra maestri e allievi, che la Manifattura sostiene e incentiva non solo nel settore dell’alta orologeria, ma più in generale nel mondo fragile e prezioso dei mestieri d’arte. Per celebrare i propri 260 anni di attività ininterrotta, Vacheron Constantin ha quindi scelto di risalire alle origini della propria identità e di far realizzare un sigillo in oro:

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quel sigillo che forse mancò a Jean-Marc Vacheron, ma che idealmente ha da sempre accompagnato la storia della Manifattura, rappresentata dal motto «Fare meglio se possibile, ed è sempre possibile». Un oggetto unico di straordinaria raffinatezza, inciso dal maestro francese Gérard Desquand: custode di una tradizione antica e nobile, docente all’école Estienne e presidente dell’Institut National des Métiers d’Art di Parigi, Desquand ha lavorato sul cilindro aureo per incidere 24 simboli di straordinaria efficacia. Ventiquattro come gli anni di Jean-Marc Vacheron quando iniziò la sua avventura: e la scelta iconografica della Maison e del maestro incisore ha infatti privilegiato i punti di partenza, le innovazioni, così come gli esiti straordinari raggiunti dalla Maison in termini pionieristici. Non solo ripercorrendo i successi della costruzione orologiera in senso stretto, ma anche riprendendo le peculiarità artistiche di Vacheron Constantin: in primo luogo, la sua attenzione ai mestieri d’arte e alla ricerca artistica. Perfettamente rappresentati dalla figura di Gérard Desquand e dalla sua opera. Il maestro ha infatti realizzato un capolavoro di oreficeria e precisione, lavorando soprattutto con il bulino: uno strumento che non solo taglia ma che permette anche di rimuovere la materia. A seconda dell’inclinazione che il maestro dà alla punta, infatti, la quantità di metallo che si intende togliere varia: ogni gesto deve dunque lasciar trasparire la perfetta padronanza della mano che lo utilizza, e che segue un tracciato meticoloso e dettagliato. I bagliori delle 24 figurazioni sono

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Ogni simbolo inciso sul sigillo d’oro è il frutto di un attentissimo studio di linee e profondità, che determinano giochi di luce sempre suggestivi. Gérard Desquand, l’artefice, è anche presidente dell’Institut National des Métiers d’Art di Parigi.

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Decoratori di attimi

i gesti lasciano trasparire la perfetta padronanza della mano

il frutto di uno studio sapiente sulla luce, che naturalmente deriva dal taglio: l’angolo che si crea levando il metallo permette alla luce di rifrangersi e di effondersi. Un risultato definito dalla precisione, dalla grande padronanza dei gesti, da una tecnica che Gérard Desquand utilizza con destrezza e che richiede non solo impegno e concentrazione, ma anche tempo e pazienza. E passione: perché solo un cuore che ama il proprio lavoro sa intuire, dietro la lucentezza di un metallo, il palpito di una forma che aspetta di venire alla luce. L’opera preziosissima realizzata da Gérard Desquand non è dunque un sigillo come un altro. Né, del resto, Vacheron Constantin si è mai accontentata di firmare le proprie creazioni con un semplice logo: tanti sono, infatti, i sigilli (culturali, materiali, spirituali o metaforici) che la Maison appone alle sue creazioni. Gli emblemi materiali, come il Punzone di Ginevra, non mancano: creato nel 1886 per proteggere e tutelare il lavoro dei maestri ginevrini, questo ambitissimo riconoscimento è a tutt’oggi uno dei sigilli (in senso letterale, ma anche in senso culturale) più prestigiosi e ambiti, garanzia di provenienza, qualità, precisione e saper fare. Il primo movimento realizzato da Vacheron Constantin e contraddistinto dal Punzone di Ginevra è del 1901: la Manifattura è stata dunque una delle prime a riconoscere l’importanza di una certificazione di altissimo livello, imparziale e spietata, che distinguesse ciò che è eccezionale e desse valore all’autenticità. Vacheron Constantin sigilla inoltre ogni sua azione con segni forse non

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materiali, ma non per questo meno concreti: dietro ogni creazione, infatti, c’è un’attenzione straordinaria agli esseri umani, c’è ricerca tecnica e scientifica, c’è la promozione di un patrimonio immateriale fatto di gesti, di tradizioni, di aspettative e di saperi. E infine, la Manifattura firma la propria identità con la sua famosa croce di Malta: un componente fondamentale nella creazione di ogni segnatempo di alta orologeria, che diventa segno discreto ed evocativo di una forza distribuita equamente, di equilibrio, di vitalità. Presentato a settembre a Ginevra, in occasione della celebrazione dei 260 anni della Manifattura, il Sigillo aureo è dunque al contempo un simbolo di continuità con il passato e un impegno verso il futuro. Continuità: perché la forte valenza simbolica del gesto del «sigillare» ha da sempre accompagnato la storia delle relazioni umane. Persino la Bibbia, nel suggestivo Cantico dei Cantici, fa dire all’innamorato: «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio». Il sigillo è una prova di fedeltà e di eternità, di valore e di coraggio. Che venga posto metaforicamente sul cuore, come si giurano gli innamorati, o che con esso si chiudano documenti e dispacci, come usavano fare gli antichi sovrani, il sigillo è il segno visibile di ciò che è autentico, prezioso, duraturo. Come un orologio Vacheron Constantin. Che costruisce il suo futuro proprio sull’impegno, e sulla promessa di custodire e far progredire non solo la tecnica e la ricerca, ma anche i mestieri d’arte che rendono prezioso e indimenticabile ogni sguardo che si è posato, si posa o si poserà sull’orologio stesso.

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Il sigillo reca anche il motto della manifattura Vacheron Constantin: «Fare meglio se possibile, ed è sempre possibile». Un impegno che sigilla non solo l’eccellenza delle creazioni, ma anche la volontà di trasmettere nel futuro i mestieri d’arte.

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60 Te s t o e f o t o d i S u s a n n a Poz z o l i

Abito

QUi

raffinato creatore di costumi ispirati a capi d’epoca con ricami di grandissimo pregio, Ollivier Henry vive e lavora in una casa con giardino a pochi chilometri da Parigi, dove prendono vita le sue creazioni

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Sopra, Ollivier Henry, nella sua casa a pochi chilometri da Parigi, dove vive e lavora. Qui nascono le sue creazioni, calligraficamente ispirate a modelli storici attentamente studiati, con una predilezione per la moda femminile che va dal XVI al XIX secolo. Gli abiti, minuziosamente realizzati e ricamati a mano, sono richiesti dai musei pi첫 importanti del mondo, per produzioni cinematografiche e teatrali.

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62 Da dove nasce una passione innata, che non si esaurisce nel tempo ma che continua a crescere e svilupparsi con entusiasmo sempre maggiore? Ollivier Henry, raffinato creatore di costumi ispirati ad abiti d’epoca con ricami di grandissimo pregio, è un candidato ideale per rispondere a questa domanda. Vive e lavora a pochi chilometri da Parigi, in un’elegante casa con giardino della seconda metà del XIX secolo; immerso in un microcosmo di serenità e bellezza, attorniato dalla sua collezione di ceramiche, libri e biografie di personaggi storici, senza internet né televisione, si dedica con metodo e costanza alle sue creazioni. Monsieur Henry, affascinato sin da bambino dai tessuti, dalle fattezze degli abiti e dai dettagli di sartoria, ha iniziato con il cucito a sette anni. Nessuno nella famiglia faceva parte di questo universo, ed è grazie al prezioso aiuto delle due nonne che ha iniziato a confezionare vestiti per le bambole per poi lavorare su forme più grandi e complesse. Autodidatta, ha trovato le giuste vie per documentarsi sulla storia del costume e della moda mentre imparava a tagliare e cucire. Un percorso autonomo, senza maestri e senza guide, alimentato dalla curiosità e dal desiderio di imparare. Da adulto, segue un corso di alta formazione di tre anni all’Ecole Duperré in Moda, comprende che la sua vera passione sono i costumi di scena e decide di farne un mestiere. Alla fine del triennio, incuriosito da un breve corso di ricamo e con il chiaro intento di associarlo alla creazione di costumi, intraprende una formazione di due anni dedicata a questo sapere artigianale. Pochi mesi dopo il diploma, Henry realizza i primi costumi di scena per l’opera, la sua seconda passione, e insegna storia del costume all’Ecole Duperré. Per diversi anni il suo lavoro si divide tra l’insegnamento e i costumi: Manon di Jules Massenet in scena all’Opéra Comique di Parigi, Die Walküre di Richard Wagner all’Opéra di Marsiglia... Realizza anche alcuni costumi per il cinema, tra cui quelli indossati da Gérard Depardieu nel film Vatel di Roland Joffé. Nelle creazioni di Henry convergono due aspetti ugualmente importanti: il sapere tecnico e manuale, frutto dell’osservazione di pezzi antichi e di lunghe ore di lavoro e di prove; una solida cultura storica, del costume ed estetica. Il suo fine ultimo è quello di creare pezzi unici, conformi alla moda del tempo, alle tecniche di allora ma da lui liberamente concepiti, confezionati e ricamati. Il processo creativo di Monsieur Henry è molto rigoroso. L’idea iniziale può nascere da una lettura o da una citazione. L’ispirazione può arrivare in un museo, alla vista di un abito d’epoca, di un ricamo o di un accessorio. Altre volte decide di creare una mise per una gran dama invitata a un ricevimento, e in quel caso ha un personaggio in mente, un luogo e una data precisa. Anche la scoperta di un tessuto antico, trovato da un antiquario, può portarlo a immaginare un abito per una particolare occasione. Ogni vestito è pensato per un uso ben preciso e

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Vincitore nel 2014 del premio «Talent du Luxe et de la Création» per la categoria «Rarità», Ollivier Henry si dedica alle arti dell’ago e del filo sin da bambino; oltre a confezionare gli abiti e gli accessori li ricama con estrema abilità, riproducendo i punti originali. Qui sopra, un tailleur da signora ispirato alla moda del XIX secolo, in taffettà di seta color taupe ricamato a punto piuma.

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64 formale, come richiesto dall’etichetta del tempo: tailleur femminile da giorno, abito nero da sera, casacca da caccia... Quando il contesto è chiaro Henry si immerge nelle letture, nelle ricerche approfondite, nel disegno e soprattutto nel ricamo, per creare un costume il più possibile fedele alle tecniche del tempo. Queste creazioni sono sempre «liberamente ispirate da» e sono frutto dell’universo raffinato e colto del suo creatore. Le mise sono perfettamente rifinite in tutte le parti visibili e no: corsetti, colli, sottogonne, pizzi... Henry si dedica a un solo pezzo alla volta: quando una pièce è perfettamente ricamata, è tempo di passare alla prossima creazione. Il processo dura in media nove mesi anche se ogni capo ha tempistiche differenti a seconda del lavoro che cucito e ricamo richiedono. Quando i diversi elementi, realizzati sulle proporzioni femminili d’epoca e confezionati separatamente, sono pronti, vengono accorpati su manichini in legno creati ad hoc. Infine il costume si mostra in tutta la sua bellezza e la sua incredibile complessità nel calcolo delle forme, nella precisione delle finiture e nella ricchezza dei colori e dei dettagli. Emerge la certosina laboriosità e perfezione dei ricami che si integrano armoniosamente al design, valorizzando le forme dell’abito. Pizzi, fiocchi, perle, una molteplicità di punti e variazioni, sfumature di colori, applicazioni, bottoni e nastri fanno rivivere la sontuosità dei grandi abiti del passato. Henry per le sue creazioni si ispira alla moda femminile dal XVI secolo alla fine del XIX. Ogni epoca ha le sue specificità e una maniera diversa di concepire il corpo e per questo l’artista ama spaziare tra un secolo e il successivo, tra un contesto e l’altro. La passione che ha scoperto da bambino non lo ha mai abbandonato e in lui permane un gioioso desiderio di creare e apprendere. Il piacere e l’emozione che prova nel vedere terminato, dopo mesi di attento lavoro, il costume che aveva immaginato genera l’impazienza di iniziarne subito un altro. Le creazioni di Monsieur Henry sono state presentate in diversi musei, tra cui il Palais Galliera, la Cité internationale de la dentelle et de la mode de Calais (Museo del pizzo) e in fiere di settore internazionali. Nelle esposizioni Henry ricerca una sintonia tra i luoghi ospitanti e i pezzi scelti e per questo i contesti antichi meglio si prestano alla creazione di un dialogo. I suoi costumi sono stati ospitati in castelli medievali e palazzi ottocenteschi dando vita a un forte impatto scenico. Vorrebbe realizzare un «museo itinerante di costumi» che possa viaggiare in diverse sedi prestigiose. Un ciclo di mostre pensate ad hoc per i singoli luoghi privati e pubblici, che propongano un dialogo tra le architetture, le atmosfere delle location e le sue creazioni. Nel 2014 Ollivier Henry ha ricevuto il prestigioso premio conferito dal Centre du Luxe et de la Création di Parigi come «Talent de la rareté» (talento della rarità), un importante riconoscimento per l’originalità della sua ricerca.

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Le specificità delle epoche, delle occasioni sociali, dei contesti storici sono studiate e ricreate con estro e cultura da Ollivier Henry, che ricerca la fedeltà iconografica ma anche il colpo d’occhio spettacolare. Sopra, un casacchino per la mattina di ispirazione Luigi XV, tipico quindi della moda della metà del XVIII secolo, in ottoman di seta rosa ricamato con motivi floreali.

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in ogni fabbrica di riva 1920, una delle aziende del mobile canturino più note, c’è una mazza rossa. monito per i dipendenti, serve a distruggere i pezzi non all’altezza. solo così si può «produrre per tramandare»

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L’arma

della qualità di Simona Cesana

«Tra le briccole di Venezia» è una collezione che coinvolge 34 grandi nomi del design, dell’arte e della moda e che si carica di valori ecologici legati al riuso di un manufatto, la «briccola», che è parte del paesaggio veneziano: pali in legno di rovere corrosi dalle maree, interpretati e trasformati in oggetti domestici. Sopra, «Venice» di Claudio Bellini: in questo tavolo le briccole si riflettono su un piano di acciaio lucido a rappresentare l’incanto della laguna veneziana. Nella pagina a fianco, «Bricolages» di Mario Botta: sedute, sgabelli e tavolini disegnati come omaggio a Brâncus‚i.

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Usiamo legni di riforestazione e riuso, come il kauri, rimasto sepolto per millenni nel terreno Cantù è una cittadina brianzola che vanta da generazioni un legame profondo e produttivo con la lavorazione del mobile. Il mobile canturino ha conosciuto un’apertura straordinaria al progetto durante l’epoca della Selettiva, vivace periodo durato 20 anni, dal 1955 al 1975, durante il quale i migliori architetti italiani e internazionali (Carlo De Carli, Ico Parisi, Gio Ponti, i finlandesi Alvar Aalto e Tapio Wirkkala, per citarne solo alcuni) frequentavano le botteghe di Cantù lavorando fianco a fianco con gli artigiani. In quegli anni si realizzarono, pienamente e consapevolmente, i migliori obiettivi di progetto, produzione e mercato nel settore dell’arredamento, grazie ad artigiani e imprenditori capaci e aperti alla collaborazione con personalità che provenivano dalla cultura del progetto, portando il mobile brianzolo a incarnare al meglio i principi e il successo del design italiano. È nel solco di queste esperienze che si inserisce la storia di Riva 1920, una delle aziende del mobile canturino più conosciute che si distingue per una forte personalità nell’approccio alla produzione e per un aspetto che mi piace definire «estetica dell’etica», come meglio comprendiamo dalle parole di Maurizio Riva, guida dell’azienda di famiglia (di cui è titolare con i fratelli Davide e Anna), che abbiamo incontrato presso la sede canturina di Riva 1920: fabbrica, showroom e anche Museo del legno, dove è esposta una collezione, realizzata con pazienza e passione dai fratelli Riva, di oltre 2mila macchine e utensili storici per la lavorazione di questo mateirale. domanda Come siete riusciti ad affermare la vostra identità aziendale ed esprimere il grande valore del legno? Quanto contano i vostri progetti che oltrepassano la semplice produzione di mobili? risposta Il nostro atteggiamento imprenditoriale parte da un concetto che io continuo a portare avanti con grande forza: produrre per tramandare. è il concetto che si basa su delle leggi che ho fatto mie; la prima di queste è usare legni di riforestazione e di riuso. Ad esempio, il legno kauri, che utilizziamo per i nostri tavoli, viene

estratto dal terreno dove è rimasto sepolto per millenni, seppellito da acqua e fango in seguito a grandi cataclismi; per rispetto verso il materiale, usiamo il kauri per produrre tavoli, in modo che la sua identità e la sua forza vengano conservate e valorizzate. Altro esempio si riferisce ai progetti che realizziamo con le briccole della laguna veneziana e che di fatto rappresentano la terza vita del legno: la prima è stata quella della pianta stessa; la seconda vita è stata offrire un servizio alla città di Venezia, indicando le vie da percorrere alle imbarcazioni in laguna; la terza vita è quella che abbiamo dato noi, realizzando mobili e complementi su progetto di grandi designer. Un ulteriore esempio dell’uso e riuso del legno è rappresentato dal grosso progetto che abbiamo sviluppato in favore della comunità di San Patrignano (per il recupero dalle dipendenze, ndr): abbiamo creato mobili riutilizzando il legno di vecchie botti per il vino, attivando un laboratorio di falegnameria all’interno della comunità. Questo è un esempio di recupero, non solo del legno, ma anche di persone fragili e bisognose di supporto per riprendere in mano la propria vita. d. Riva 1920 è sinonimo di grande qualità di materiali e lavorazioni preziose. Come si conciliano nella vostra azienda le esigenze produttive con il dettaglio fatto a mano? r. Con le nuove tecnologie si riescono a ottenere lavorazioni precise al decimo di millimetro che non sarebbero possibili se eseguite a mano da un falegname. Il lavoro è cambiato: per poter realizzare alcuni progetti (come la libreria Piano Design che ha richiesto un anno di progettazione e sviluppo) è inevitabile l’uso di alcuni macchinari tecnologicamente avanzati. La sintesi di questo pensiero è: tecnologia più manualità è uguale a qualità. Per quanto riguarda il legno, quello che utilizziamo è sempre massello, mai truciolare. Il nostro prodotto «mobile» ha una scocca tutta in multistrato e listellare bordato e placcato successivamente, come faceva mio nonno, con il legno massello, applicato però con la precisione di macchine tecnologicamente

Nella pagina a fianco, la «cucina» di Riva 1920. Gli oli e le cere dati a mano, l’attenzione al dettaglio, la cura di ogni particolare sono elementi fondamentali che, insieme alle più sofisticate tecnologie, costituiscono la qualità del prodotto Riva. «Con le nuove tecnologie si riescono a ottenere lavorazioni precise al decimo di millimetro che non sarebbero possibili se eseguite a mano da un falegname», spiega Maurizio Riva, a capo dell’azienda di famiglia. «Tecnologia più manualità è uguale a qualità» (www.riva1920.it).

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A fine giornata il lavoro viene coperto con un telo rosso per proteggerlo, quasi come un bimbo avanzate. Un elemento importante per capire le qualità delle nostre lavorazioni è il cassetto: è in massello con gli incastri a coda di rondine; i ripiani hanno sempre portaripiani e le cerniere sono per il 90% progettate e realizzate appositamente per noi. d. è affascinante entrare nel vostro showroom e capire la qualità del vostro lavoro, anche solo sentendo il profumo naturale del legno. r. Le armadiature, ad esempio, sono realizzate in legno massello e multistrato di cedro. La finitura, a cera od oli naturali, viene data esclusivamente a mano. Un aspetto per me fondamentale è l’ordine, diventa quindi una regola anche nelle nostre fabbriche: le scope sono rosse e si appendono, le palette vanno messe a posto. Riordinare è l’ultimo compito della giornata di tutti coloro che lavorano con me: tutto il lavoro realizzato durante la giornata si lascia sul banco e viene coperto con un telo rosso, alle 18.20 suona la campana e tutti insieme, nelle tre fabbriche, si fa la pulizia generale. Perché il telo rosso? Il telo rosso serve a coprire e proteggere il prodotto come se fosse, non dico un bambino, ma quasi, perché noi stiamo lavorando per il prossimo. Questa attenzione per me ha un inestimabile valore, e su di essa investiamo tanto. d. è la manifestazione estetica di una metodologia rigorosa e di un’etica del lavoro? r. Sì, è un simbolo. L’altro simbolo è una mazza rossa, appesa all’interno di ciascuna delle tre fabbriche che serve a distruggere il prodotto con basso contenuto di qualità. Tutti i dipendenti, all’ingresso in fabbrica, si trovano davanti questa mazza rossa di cui spieghiamo il significato e diventa quindi per tutti un simbolo che rappresenta il valore della qualità del lavoro. Io sono rigoroso, questo è il mio rigore. E sono un estremista. Non scendo a patti. Ormai l’industria del legno in Italia non conosce il legno. L’industria del mobile in Italia è tutto fuorché legno. Ho guardato e guardo con molta attenzione alle cose, a come sono fatte, e presto particolare cura al legno: come si può creare un grande tavolo in legno massello, per poi finirlo

con una verniciatura? Fino a 10-15 anni fa, il legno doveva essere risultare perfetto, senza nodi. Che cosa significa avere un tavolo in legno massello senza nemmeno un nodo? Il nodo lo rende vivo. d. L’etica e il valore del lavoro traspaiono anche da altre iniziative di cui Riva 1920 è promotrice e protagonista. Penso agli appuntamenti culturali che organizzate nel vostro museo (e che sono seguiti ogni volta anche da 600 persone), ai concorsi per giovani designer che periodicamente istituite, alle attività in associazione con altre imprese del mobile... r. Il mio lavoro consiste ormai per il 50% in comunicazione; ho un’anima che è metà azienda e metà sociale. Il rapporto con gli artigiani e i designer con il progetto Brianza Design, le attività nelle scuole e nelle università... sono tutti ambiti che ho cercato di coltivare e far dialogare tra loro; spesso sono stato osteggiato perché il mio atteggiamento è di cercare autonomamente una strada nella quale poi tanti altri confluiscono e tutto ciò dà fastidio ai poteri forti e precostituiti. La mia tensione è aiutare il prossimo e ho grande cura verso i giovani: molti di loro mi contattano per chiedere consigli o sottopormi delle idee e cerco sempre di richiamarli o di rispondere loro personalmente. Vado in 15 università a parlare ai giovani e sono molto arrabbiato con i docenti perché non si parlano e non si aiutano l’un l’altro, e comportandosi così non aiutano gli studenti. È chiaro che questi docenti non sanno spiegare i materiali, né le tecnologie. Continuo a combattere contro questa mancanza accogliendo nelle mie tre fabbriche tantissimi studenti e spronandoli ad andare a vedere le fabbriche, a visitare le fiere specializzate sui materiali. I docenti devono assolutamente uscire dall’università e portare i giovani nelle aziende per far capire loro come si lavora. Siamo noi che dobbiamo impegnarci per lasciare una strada ai giovani; essere imprenditore significa avere un dovere. Chi può e chi ha un’idea deve adoperarsi per offrire qualcosa alle prossime generazioni. È il dovere di impresa.

Nella pagina a fianco, poltrona «Kairo» di Karim Rashid. La particolare forma a doppio arco scavata trae ispirazione da un suo viaggio in Egitto. La poltrona viene realizzata in un blocco di cedro massiccio, precedentemente squadrato, e poi posizionato all’interno di una macchina che modellerà il legno fino a ottenere la forma desiderata. Per ottenere la forma finale, la macchina lavorerà ininterrottamente sul singolo blocco di cedro per oltre otto ore. Per la levigatura, sempre fatta a mano, sono necessarie altre quattro ore di lavoro.

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di Silvana Annicchiarico*

Lo spirito

del Tempo La Triennale di Milano è tornata a Monza, dove era nata 92 anni fa, collocando a Villa Reale la propria Collezione permanente del design italiano

A *Direttore del Triennale Design Museum

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A volte è quasi inevitabile che le cose tornino là dove erano iniziate. Dove hanno le loro radici. Vale per le persone come per le istituzioni. Il 14 dicembre 2014 la Triennale di Milano è, almeno in parte, tornata a Monza, nella città dove era nata oltre 90 anni prima con la Biennale delle Arti decorative del 1923, e lo ha fatto collocando nella prestigiosa sede della Villa Reale la propria Collezione permanente del design italiano. Nulla di nostalgico, beninteso: la scelta del Triennale Design Museum di trasferire a Monza una delle sue risorse più preziose, la Collezione permanente, nasce dalla convinzione che questo ritorno possa essere in realtà un rilancio, che possa diventare materia fertile di stimolo, di riflessione e di discussione, e che serva a rinforzare e rilanciare il legame, anche simbolico, fra il territorio della Brianza e l’insieme di culture, pratiche e saperi che hanno fatto grande e unico il design italiano.

Gli oggetti esposti nel Belvedere della Villa Reale, negli spazi ristrutturati con grande eleganza e con ammirevole pulizia formale dall’architetto Michele De Lucchi, sono ordinati cronologicamente e suddivisi per decadi, in modo da rappresentare tutte le grandi fasi della storia italiana contemporanea: il dopoguerra e gli anni della ricostruzione, il boom economico, gli anni del conflitto sociale, gli anni del consumismo edonistico, infine il difficile travaglio alla ricerca di una nuova identità che ha caratterizzato l’ultimo decennio del secolo scorso e la vorticosa mutazione che nel nuovo millennio ha colpito anche il design con l’avvento dei new media e della rivoluzione digitale. Nel complesso, si tratta di una selezione di oltre 200 pezzi iconici della Collezione permanente del Triennale Design Museum, in cui le opere dei grandi maestri (da Gio Ponti a Piero Fornasetti, da Franco Albini a Bruno Munari, da Et-

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Cattedrali del design

tore Sottsass ad Alessandro Mendini) si affiancano a quelle di giovani designer (da Lorenzo Damiani a Fabio Novembre, da Martino Gamper a Formafantasma) per testimoniare le innovazioni, le sperimentazioni e le eccellenze del design italiano. Mentre nell’attuale sede della Triennale, nel Palazzo dell’Arte progettato negli anni 30 da Giovanni Muzio a ridosso del parco Sempione di Milano, il Triennale Design Museum continua a sperimentare la propria vocazione «mutante», cambiando ogni anno ordinamento e allestimento per cercare di ripercorrere secondo strade sempre nuove l’affascinante storia del design italiano, Monza diventa invece il luogo della «permanenza», lo spazio in cui il design italiano celebra le proprie eccellenze più conosciute, quelle amate e apprezzate in tutto il mondo. Proprio per questo gli oggetti selezionati sono riconducibili alle tipologie più disparate (dall’arredo alle luci, dalle

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sedute ai mobili per ufficio), ma rinviano tutti allo spirito del tempo, rispecchiano i sogni e i bisogni dell’epoca in cui sono stati progettati e realizzati. Inoltre risultano tutti imprescindibili, ciascuno a suo modo, per definire il sistema complessivo del design italiano, e il suo combinato composto di aziende e designer, di industriali lungimiranti e di creativi geniali, di forme innovative e di funzioni risolutive. Tanto la selezione quanto l’ordinamento hanno come obiettivo quello di rendere accessibile anche al grande pubblico, nel modo più semplice possibile, una delle più grandi storie della modernità italiana. Anche in vista del grande appuntamento del 2016, quando la XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano, il cui tema sarà «21st Century. Design After Design», avrà proprio nella Villa Reale di Monza, insieme al Palazzo dell’arte di Milano e ad altri prestigiosi luoghi milanesi, uno dei suoi punti di riferimento più importanti.

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Nelle immagini sono visibili i suggestivi spazi del Belvedere della Villa Reale di Monza, recentemente restaurati e aperti al pubblico. La collezione permanente del Triennale Design Museum è stata esposta con l’allestimento curato da Michele De Lucchi. In mostra una selezione di oltre 200 pezzi, dal dopoguerra a oggi (www.triennale.org).

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di Alberto Gerosa

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l’altra faccia della

Medaglia la Scuola dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato è un autentico vivaio per i modellatori e gli incisori di tutti i continenti. una realtà italiana che il mondo ci invidia

Prima di spiccare il volo verso la terza dimensione, i bozzetti per le nuove medaglie vengono eseguiti al tratto. Come è avvenuto anche nel caso della medaglia del III anno del pontificato di Papa Francesco. Nella foto sono riconoscibili i contorni delle figure protagoniste della celebre scultura del Bernini: un cherubino nell’atto di trafiggere Teresa d’Ávila con un dardo infuocato, simbolo dell’amore di Dio.

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Il successo di questa storia risiede nella lungimiranza. Di affiancare alla «fabbrica delle monete» non solo un museo, ma anche una scuola-laboratorio Medaglia fa da sempre rima con Italia. Sviluppatasi nella nostra penisola durante l’Umanesimo, allorché si emancipò del tutto dai modelli di epoca romana, la medaglistica è indissolubilmente legata a nomi quali Benvenuto Cellini, Leone Leoni e, soprattutto, Pisanello. Il disco in fusione di bronzo da lui realizzato in onore dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo e della sua partecipazione al Concilio di Ferrara-Firenze (1438) è infatti considerato la prima medaglia moderna propriamente detta. Ancora oggi, il potere evocativo di questa forma d’arte che da più di mezzo millennio condensa in forme e simboli icastici gli avvenimenti e le grandi personalità della storia non pare aver subito scalfitture. Merito d’istituzioni quali la Scuola dell’arte della medaglia, fondata nel 1907 in seno alla Regia Zecca ed entrata nel 1978 a far parte dell’Istituto Poligrafico. Il segreto del successo di questa storia tutta italiana risiede nella lungimiranza. Quella originaria di affiancare alla «fabbrica delle monete» non solo un museo, ma una vera e propria scuola-laboratorio: un caso unico al mondo, che ha fatto della Sam un autentico vivaio per i modellatori e gli incisori delle

zecche di tutti i continenti. Ogni corso di studio ordinario triennale prevede infatti percorsi ad hoc per studenti e borsisti stranieri (ci risulta che solo l’India, a oggi, manchi ancora all’appello...). Ma anche la lungimiranza dei responsabili del programma formativo dei nostri giorni (in primis Laura Cretara e Rosa Maria Villani), cui va il merito di aver affiancato all’incisione a taglio diretto e alla modellazione l’insegnamento di discipline non meno fondamentali, per esempio la smaltatura a gran fuoco e la glittica (nella quale non a caso eccellevano i grandi medaglisti rinascimentali), nonché la tecnica dello sbalzo e cesello. Rimane peraltro imperativo il completo dominio della realtà, dell’anatomia umana e delle forme della natura a prescindere dall’ausilio delle computer graphic; queste ultime sono nondimeno oggetto di studio e l’utilità delle apparecchiature digitali è riconosciuta in fasi cruciali quali la realizzazione dei punzoni. Anche l’equilibrio tra le lezioni didattiche (che prevalgono solo nel primo anno) e la loro applicazione pratica si è rivelato un fattore di fondamentale importanza, preparando gli allievi alle loro future professioni mediante la partecipazione sia a

Sopra, il recto della medaglia pontificia 2015. In alto, il bassorilievo in gesso della futura medaglia viene eseguito a grandi dimensioni (circa otto volte il conio finale). Tale prototipo si ottiene effettuando due calchi successivi («negativo» e «positivo») sul motivo iniziale modellato in cera o altro materiale plasmabile. A fianco, la modellazione del panneggio del cherubino riprodotto sul verso della stessa emissione.

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Formazione

Per l’artigiano è imperativo il dominio della realtà, dell’anatomia umana e delle forme della natura a prescindere dall’ausilio del computer progetti interni sia ad altri indetti dall’Istituto Poligrafico oppure da realtà esterne non meno prestigiose. Come avviene con la medaglia pontificia annuale, simbolo di continuità sia del soglio di Pietro, che l’ha emessa ininterrottamente dal XVI secolo, sia della stessa arte della medaglia in Italia, dove solo un vieto e anacronistico spirito postcavouriano sarebbe in grado di disconoscere il forte legame tra la zecca unitaria e la preesistente zecca pontificia. L’emissione 2015 del conio vaticano, la cui fase progettuale come di consueto viene seguita attentamente anche dal Santo Padre, è uscita lo scorso giugno, declinata nei tre metalli classici della medaglistica (oro, argento e bronzo) e recante sul verso non già l’abituale effigie del pontefice in carica, bensì un’immagine (interpretata con sensibilità dalla giovane modellatrice Alessia Di Giuseppe, diplomata e borsista Sam) della scultura del Bernini nota come Transverberazione di santa Teresa d’Ávila. Da ciò s’intuisce non solo la volontà da parte di Jorge Mario Bergoglio di rendere omaggio a una grande mistica di origine iberica, ma anche l’esortazione a un ritorno della Chiesa alla genuina frugalità degli ordini

mendicanti, circostanza che a molti pare essere la cifra del pontificato di Francesco. Passando dal sacro al profano, la stessa Di Giuseppe è anche l’artefice del nuovo modello della Medaglia calendario, fortunata collezione inaugurata dall’Istituto Poligrafico nel 1981. Coerentemente con l’argomento prescelto per i coni degli ultimi anni, «Simboli e temi dell’uomo», l’emissione 2016 sviluppa il concetto dell’amore riprendendo le splendide figure dei tarocchi Visconti-Sforza. Un incarico, questo, che è costato alla giovane creativa diversi mesi di lavoro fra progetto e modellazione, oltre alla necessità di consultare un esperto di tarocchi per riprodurre la combinazione di carte più adatta ad augurare ai proprietari della medaglia un 2016 foriero in massimo grado del sentimento celebrato. Analogamente a Herman Melville, che in Moby Dick dedica un intero capitolo alla decifrazione del doblone ecuadoriano da otto scudi inchiodato all’albero di maestra del Pequod, non dubitiamo che i possessori della nuova Medaglia calendario impiegheranno un anno intero, forse più, per sondare e decifrare appieno gli arcani simbolismi riprodotti sulle sue superfici!

Sopra, bozzetto del recto della medaglia calendario 2016. In alto, da sinistra: ultime fasi di ritocco della superficie del rilievo in gesso dei tarocchi, elemento caratterizzante la medaglia calendario 2016; uno dei laboratori della Sam (via Principe Umberto 4, Roma; www.sam.ipzs.it). Nella pagina a fianco, l’estasi della carmelitana spagnola trasfigurata nell’oro della medaglia pontificia 2015.

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A destra, il vetro verde di Empoli è uno dei materiali cui Leo Prusicki, Domenico Rocca e Alberto Nespoli di Segno italiano hanno dato nuova vita. Sopra, un loro allestimento al Bagatti Valsecchi per la Fondazione Cologni.

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tracce

di rinascita di Giovanna Marchello

tre giovani hanno lanciato segno italiano, un progetto di valorizzazione dei prodotti di alto artigianato del nostro paese. dalla sedia leggera di chiavari al vetro verde di empoli

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La purezza della ceramica di Este (Padova) e il calore del rame, lavorato dagli artigiani trentini, arricchiscono lo scenario che Segno italiano dedica a una tavola suggestiva e artigianale (www.segnoitaliano.it).

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Ta l e n t i d a s c o p r i r e

«Il caos spesso genera la vita, laddove l’ordine spesso genera l’abitudine», scriveva agli inizi del ’900 lo storico americano Henry Adams. Riscontriamo ogni giorno come dal caos in cui siamo immersi stiano emergendo realtà imprenditoriali inedite, caratterizzate da una spiccata interdisciplinarità, che si propongono di riunire e sviluppare le preziose risorse del nostro tessuto creativo e produttivo, erose e disperse dalla crisi. Una nuova dimensione, nella quale un patrimonio di conoscenze antiche e moderne si incontra in un rapporto fluido, una configurazione idonea ad affrontare una situazione globale instabile e mutevole. In questa eclettica realtà si colloca un originale progetto di valorizzazione dei prodotti di alto artigianato italiano che due giovani e intraprendenti architetti d’interni hanno lanciato a Milano nel 2010. Con il marchio Segno Italiano, Alberto Nespoli e Domenico Rocca (ora affiancati anche da un terzo socio, Leo Prusicki) si sono posti l’obiettivo di dare uno sbocco commerciale ai manufatti d’eccellenza provenienti dai distretti storicamente e qualitativamente più significativi del nostro Paese. In parallelo, Segno Italiano porta avanti una prolifica attività di progettazione di interni, inserendo così, in un contesto reale, questi stessi manufatti: appartamenti e ville in Italia e all’estero, attività commerciali (loro il concept e la realizzazione di una catena di negozi nella Repubblica Ceca) e ristorazione (come il Refettorio Simplicitas a Salisburgo). «Domenico Rocca e io abbiamo in comune

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N Non disegnano quasi mai, ma rieditano l’oggetto basandosi sempre sull’archetipo italiano, in chiave contemporanea

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la formazione in Architettura d’interni al Politecnico di Milano e un amore per la moda e la sartoria italiana», spiega Alberto Nespoli. «Nel 2009, quando ci siamo incontrati, abbiamo riflettuto sul fatto che questa sartorialità non fosse espressa nel design italiano, e che andasse invece valorizzata. Da questa intuizione abbiamo creato un’agenzia in grado di selezionare, rieditare, promuovere e mettere a sistema l’artigianato d’eccellenza italiano legato all’arredo e al complemento d’arredo». Fin dall’inizio, il loro manifesto si è ispirato da una parte alla moda e dall’altra al movimento Slow food, che in quegli anni si stava concretizzando attraverso Eataly. «Ci piaceva molto questo modello, che seleziona e presenta le primizie in un unico incubatore, e abbiamo pensato di applicarlo all’artigianato», continua Nespoli. Dalla moda, invece, hanno preso il concetto di collezione e la velocità del ciclo di produzione. «Noi non disegniamo quasi mai l’oggetto, ma lo rieditiamo, alleggerendolo e riproponendolo in chiave contemporanea. Ci basiamo sempre sull’archetipo italiano, su oggetti che siano storicamente radicati nel territorio. In parallelo, sia per sostenere lo sforzo economico sia perché ci interessa riunire più sinergie possibili, lavoriamo su progetti di interni, su allestimenti e scenografie». Le collezioni partono tutte dalla definizione di uno «scenario domestico italiano»: Tavola imbandita, Vivere all’aria aperta e Il benessere. I materiali devono essere tradizionali italiani, legati all’artigianalità e alla manualità.

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«Abbiamo cominciato dalla sedia leggera di Chiavari, un prodotto molto iconico sviluppato agli inizi dell’800 che altro non è che la mamma della Superleggera di Gio Ponti. Cinque anni fa era scomparsa ma, grazie al nostro lavoro, ora è ampiamente distribuita», dice Nespoli. Analogamente, Segno Italiano ha fatto rivivere il vetro verde di Empoli, una tecnica e una produzione che nessuno eseguiva più da 20 anni: «Facendo un grande lavoro di archivio abbiamo recuperato queste forme bellissime e messo insieme un team di artigiani che non soffiavano più». Diverso il caso della ceramica atestina, che è ancora attiva: «Senza interferire con il loro mercato, abbiamo ripreso delle produzioni che erano completamente morte ma che, secondo noi, sono molto attuali», conclude Nespoli. Tutta la produzione porta il marchio SI, «un certificato di qualità, come un Docg». Nel giro di pochi anni, Segno Italiano ha già realizzato una decina di collezioni, per un totale di oltre 600 articoli, che spaziano dalla cesteria sarda e toscana alle pentole dei ramaioli tridentini, ai coltelli di Scarperia, alla sedia pieghevole Tripolina, all’amaca di Monte Isola. Segno Italiano collabora anche su progetti in co-branding con lo stilista Antonio Marras, che da anni segue un percorso affine nell’ambito della moda. «Definite le collezioni, ci occupiamo del catalogo, delle foto, delle pubbliche relazioni, della presentazione ed elaboriamo il listino prezzi», dice Nespoli. Segno Italiano si fa infine carico della distribuzione, sia online (attraverso il proprio sito o di

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D Dal Centre du luxe di Parigi, nel 2015, Segno italiano ha ottenuto l’illustre premio come «Empreinte de l’année».

illustri partner quali wallpaper.com) sia in negozi che, per contesto e posizionamento, costituiscono una vetrina ideale, come la Rinascente a Milano, L’Éclaireur a Parigi e The Conran Shop a Londra. Ci sono anche progetti per aprire punti vendita Segno Italiano, dove il pubblico possa vivere i prodotti nel loro insieme. E poiché per la componente esperienziale è indispensabile, di tutte le collezioni vengono realizzati brevi video, «per spiegare qual è il valore aggiunto dato dalla ricerca, dalla tradizione e dalle persone». Sotto il marchio di Segno Italiano, nei prossimi mesi vedranno la luce progetti che includono una nuova collezione dedicata al peltro, che sarà presentata alla prossima edizione di Maison & Objet, un appartamento a Venezia sul tema dei vetri di Murano e degli stucchi veneziani, una villa sul lago di Lugano sul tema delle terrecotte marchigiane colorate in pasta, un nuovo progetto con Antonio Marras che sarà presentato al Salone del mobile 2016, progetti speciali dedicati agli intrecci su commissione di gallerie parigine e nuovi ristoranti. Unendo l’amore per la tradizione, la vocazione per il design e un approccio pragmatico al mercato, Segno Italiano ha saputo dare una veste contemporanea, ma filologicamente rigorosa, a prodotti e lavorazioni uniche che hanno conquistato alcune tra le più belle vetrine d’Europa e raggiunto importanti avamposti sia negli Stati Uniti sia in Giappone, mentre il quartier generale di via Palermo 8, a Milano, si è aggiudicato una menzione nella Milan City Guide pubblicata da Louis Vuitton.

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Il modello simbolo della sedia di Chiavari (a sinistra) nacque nel 1807 dalla mano di Gaetano Descalzi: Segno italiano l’ha rilanciata, insieme alla poltrona Tripolina (in questa pagina).

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per filo e In queste pagine, l’arazzo «Butterfly» di Alison Watt (2014), commissionato dalla Scottish Opera, è stato realizzato nel laboratorio di tessitura di Dovecot da Naomi Robertson, David Cochrane, Freya Sewell, Rudi Richardson e Jonathan Cleaver.

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Dovecot Studios Ltd.

il tessitore traccia il disegno su un foglio di acetato, che diventa la mappa del lavoro da realizzare. Il dovecot tapestry studio, situato a edimburgo, è uno dei pochi al mondo a praticare la nobile arte dell’arazzo tradizionale

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per segno di Akemi Okumura Roy foto di Colin Roy (traduzione dall ’originale inglese di Giovanna Marchello)

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Il Dovecot Tapestry Studio è uno dei pochi laboratori al mondo dove ancora si pratica la nobile arte dell’arazzo tradizionale sia per la produzione di opere su commissione sia come disciplina tramandata a giovani apprendisti. Dovecot fu istituito nel 1912 dal 4° marchese di Bute nel villaggio di Corstorphine, ora inglobato nella città di Edimburgo, e avviato con la collaborazione di Gordon Berry e John Glassbrook, due maestri tessitori che provenivano dai leggendari laboratori di William Morris, a Wimbledon. Nel 2000, il Dovecot Tapestry Studio ha corso il rischio di chiudere, ma è stato salvato grazie al generoso sostegno economico di Alastair ed Elizabeth Salvesen. I laboratori sono stati trasferiti sulla Infirmary Street, nel cuore della vecchia Edimburgo, nel 2008. La nuova sede, il cui restauro è costato 12 milioni di sterline, si trova in un edificio vittoriano di fine ’800, che originariamente ospitava i primi bagni pubblici della capitale scozzese. Ora accoglie i laboratori di tessitura e di tufting, una galleria espositiva dedicata alle opere contemporanee, un bar, uno spazio per gli eventi e un negozio. Le attività dello Studio sono sostenute dalla Dovecot Foundation, che promuove anche un programma di eventi e mostre interdisciplinari. Di particolare rilevanza sono i corsi di formazione, mirati alle nuove generazioni, che

beneficiano di numerose collaborazioni culturali e didattiche. Una missione che, come sottolinea David Weir, direttore sia del Dovecot Studio sia della Fondazione, «non è di conservare, perché se ci si limita a conservare qualcosa, si rischia di trasformarlo in un pezzo da museo. Il nostro scopo è di far sì che questo mestiere possa evolversi, anche attraverso l’apprendistato. Rispettiamo la storia, la tradizione e il patrimonio di conoscenza che rappresentiamo, ma senza restare ancorati al passato. La nostra rilevanza, nel XXI secolo, è definita da un nuovo pubblico, che da noi cerca nuovi standard e nuovi orizzonti, che si manifestano nelle opere contemporanee che realizziamo su commissione». Conclude Weir: «Guardiamo al futuro attraverso i nostri programmi di tirocinio, perché la necessità di sviluppare il mestiere cresce di pari passo con i lavori che ci vengono commissionati». Grazie alla sua fama, lo Studio ha saputo attrarre numerosi artisti e artigiani, che insieme hanno realizzato opere straordinarie. A Dovecot lavorano sette maestri specializzati nella tessitura e due nel tufting: realizzano arazzi e tappeti interpretando i disegni degli artisti a cui collezionisti pubblici e privati di tutto il mondo commissionano i progetti. Nel corso degli anni, più di 800 mirabili creazioni sono state realizzate in collaborazione con artisti di grande fama, tra cui Alan Davie, Henry Moore, David Hockney, Sir Peter Blake, Eduardo Paolozzi, Magne Furuholmen, Garry Fabian Miller e Bernat Klein. La Bank of Scotland, PepsiCo New York, Rolls Royce, la Regina Madre, la British Library a Londra e il Castello di Edimburgo sono solo alcuni tra i numerosi collezionisti istituzionali. Naomi Robertson, direttore del laboratorio di tessitura e maestro tessitore, spiega che la collaborazione tra artigiani e artisti comincia molto prima del progetto stesso, per consentire loro di entrare in sintonia, e prosegue durante l’intero processo. «Una volta incominciato il lavoro, non possiamo più avere dubbi», conferma. «Il tessitore traccia il disegno su un foglio di acetato, che diventa la mappa del

In alto, Naomi Robertson, direttore del laboratorio e maestro tessitore. A lato, dal basso, una veduta dell’interno del laboratorio di tessitura; il maestro tessitore David Cochrane. Sia la galleria espositiva sia il laboratorio sono aperti al pubblico (www.dovecotstudios.com).

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lavoro da realizzare. Se lo facesse l’artista stesso, il risultato non sarebbe quello desiderato. Il nostro compito è proprio di interpretare, insieme agli artisti, schizzi, dipinti, foto e collage che ci portano. Il nostro è un mestiere molto tradizionale e lavoriamo con maestri contemporanei, ma sembra che l’intesa sia ottima!». «Teniamo in gran conto il dialogo tra artisti e tessitori», sottolinea Weir. «Musicisti, pittori, designer: tutti portano qualcosa di nuovo nel nostro mondo, un punto di vista diverso e aggiungono una variante inconsueta a questo dialogo. Ecco come riusciamo a mantenere lo Studio al passo coi tempi: mentre il nostro patrimonio resta, è il lavoro a rinnovarsi». Nel 2008, ad esempio, Dovecot ha collaborato con la Fondazione Henry Moore per realizzare i suoi disegni tessili. «Nel 1950, Henry Moore creò un arazzo qui a Dovecot; poi continuò a sviluppare le sue stampe serigrafiche, creando un’incredibile collezione di foulard. La mostra ci ha permesso di guardare le sue opere in un modo nuovo, e il pubblico ha potuto rendersi conto che Moore non fu solo un grande scultore ma anche un creativo che amava sperimentare sia con i materiali sia con le tecniche». La scelta dei colori è fondamentale. «Li mescoliamo direttamente sulle spole di legno, per ottenere una maggiore gamma di variazioni», spiega Robertson. «Raramente tessiamo con

un colore piatto. In questo modo aumentiamo sfumature e profondità, rendendo vivi i colori. Questo processo è alla base di tutto il nostro lavoro». Ciascun tessitore ha le proprie spole preferite («migliorano con il tempo e l’uso», conferma Robertson) e lavora da solo. «Ma reciprocamente seguiamo i colori, le gradazioni, le tonalità che andiamo creando. è un lavoro di squadra», spiega. La tradizione vuole che il tessuto non venga mai tagliato (porta sfortuna) e vengono impiegate solo tecniche antiche: «Non è cambiato niente. Usiamo lana, cotone e lino, ma non la seta. è rimasto tutto come è sempre stato». Nel 2013, Naomi Robertson ha collaborato con la pittrice Alison Watt su un arazzo, commissionato dalla Scottish Opera, chiamato Butterfly, alla realizzazione del quale hanno lavorato tre tessitori per dieci mesi. All’apertura dell’arazzo, la commozione era generale: «è sempre un momento particolare», dice Robertson. E come spiega David Weir, «sta tutto nelle mani, nel cuore e nella testa che lavorano insieme. Nel nostro lavoro non c’è niente di digitale: sono le mani che, tessendo, creano una magia nelle nostre menti. Questa è, ed è sempre stata, la cosa più importante». La produzione di Dovecot ha per simbolo proprio la colombaia in pietra, risalente al ’500, situata nella proprietà che fu la prima sede dello studio. Le iniziali del tessitore possono essere sul fronte o sul retro. La Dovecot Gallery è aperta al pubblico dal lunedì al sabato, e un paio di giorni a settimana sono visitabili anche i laboratori. I visitatori sono cresciuti da 5mila nel 2008 a 45mila nel 2014. Le attività culturali organizzate a Dovecot sostengono creativamente ed economicamente il lavoro della Fondazione. Al momento, Dovecot sta realizzando il suo progetto più ambizioso: un arazzo lungo 50 metri, destinato a un nuovo edificio, che sarà completato nel 2016. L’aspirazione più grande di David Weir è di tenere viva l’arte tessile contemporanea in un modo significativo, affinché «nessuno possa guardare queste opere senza fermarsi a riflettere sul lavoro che c’è dietro. Stiamo andando incontro a un periodo particolarmente denso di impegni, e abbiamo già una lista d’attesa di due anni».

In alto, David Weir, direttore di Dovecot Studios. A lato, dal basso, Alison Watt con Naomi Robertson posano davanti all’arazzo «Butterfly» (l’opera misura 5,6 x 4,2 metri, e alla sua esecuzione hanno collaborato tre tessitori per dieci mesi); il tessitore Rudi Richardson.

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Michael Wolchover

Lavorazioni di stile

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IMITATORI DELLA NATURA Per far cantare questo uccellino meccanico sono necessari più di 250 componenti. Reuge utilizza piumaggio naturale; nel caso di specie a rischio può usare solo penne naturali dello stock della Bontems di Parigi, rilevata nel ’60.

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La melodia

dei ricordi di Alberto Gerosa

viaggio a sainte-croix, in svizzera, la patria dei carillon. Abbiamo visitato reuge, rimasta l’unica manifattura di alta gamma a realizzare gabbie e tabacchiere che custodiscono uccellini cantori meccanici

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CI VUOLE ORECCHIO Qui sopra, i componenti del movimento musicale prima di essere montati sulla platina di una music box. A lato, dall’alto, l’accordatura manuale mediante mola conferisce a ciascun dente della tastiera o pettine il suo particolare timbro; l’alloggiamento del cuore meccanico nel suo scrigno ligneo. In tutte le fasi del lavoro l’artigiano deve possedere un ottimo orecchio musicale.

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C’è un paesino nel cuore dell’Europa che è cresciuto realizzando... musica. Quel paese si chiama Sainte-Croix e si trova nel Giura vodese, in Svizzera. Qui, dove la montagna e gli inverni rigidi rendono la terra poco fertile, la più immateriale delle arti ha portato lavoro e prosperità, perlomeno ai tempi in cui il digitale e gli mp3 erano ancora di là da venire. I nomi Reuge, Thorens, Paillard dicono poco o nulla ai moderni fruitori di «musica liquida», eppure fino agli anni 50 del secolo scorso la gente di tutto il mondo sognava, ballava, s’innamorava e regalava emozioni al ritmo delle scatole musicali e dei grammofoni realizzati in questa località. Chi ha la ventura di aggirarsi oggigiorno per queste amene e tranquille contrade potrà difficilmente immaginarsi che nell’epoca d’oro della musica meccanica le aziende di Sainte-Croix dessero da mangiare a ben 10mila persone. Eppure, lungi dall’essere confinato ai percorsi didattici dei musei locali, questo felice incontro dell’artigianato artistico con l’industria continua a perpetuarsi nell’attività manifatturiera di Reuge. Abbiamo visitato l’azienda alla vigilia del trasferimento in un nuovo fabbricato, circostanza che ci ha consentito di cogliere certe atmosfere particolari. Come quella del laboratorio che ospita il vecchio forno per la tempra delle tastiere, dove i raggi del sole

provenienti dall’esterno hanno vita dura a contrastare la spessa patina opaca che decenni di fiammate a 800 gradi e colate d’olio hanno depositato su leve, manovelle e vasche di raffreddamento. Le tastiere sono infatti in acciaio, fresato in modo tale da ottenere la caratteristica forma a pettine; ciascun dente corrisponde a una nota diversa, a seconda del grado di limatura e della presenza o meno di un contrappeso in piombo che rende i suoni più gravi. Ogni nota è isolata da vibrazioni involontarie mediante l’applicazione da parte di un’apposita operatrice (tradizionalmente nota come «enplumeuse») di un sottilissimo frammento di kevlar, che ha preso il posto delle piume di gallina. Inutile dire che gli artigiani, seppur coadiuvati negli ultimi decenni da macchinari computerizzati, devono disporre di un orecchio musicale eccellente: Didier Cote, saldatore e levigatore in forze a Reuge da una trentina d’anni, ha infatti un passato da musicista (suonava il sintetizzatore). Ma la qualità della musica non si determina solo con l’udito: lo stesso Cote spiega infatti che quando si passano le tastiere sulla macchina levigatrice non s’indossano i guanti, dal momento che solo la mano nuda è in grado di percepire il giusto calore raggiunto dal metallo per sviluppare il timbro migliore. Insieme alle tastiere sono i cilindri in ottone a costituire il cuore di

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Tradizioni territoriali

note stellari Doppi cilindri in grado di suonare ciascuno tre temi dai grandi film e da band visionarie come i Pink Floyd e i Deep Purple: Reuge lo dimostra con le edizioni limitate MusicMachine (mod. 1 e 3, sopra e a destra, in basso), realizzate con MB&F. Anche se i design sono avveniristici, il principio del funzionamento rimane fedele alle origini: lo dimostrano cilindro, tastiera e regolatore di velocità.

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ogni scatola musicale; se le prime sono le note, i secondi rappresentano la partitura, composta da centinaia, spesso migliaia, di minuscoli spilli o, più precisamente, coppiglie fissate sui fori che corrispondono all’arrangiamento di una melodia classica o popolare. Ciascun cilindro può contenere fino a quattro partiture: quando la scatola musicale ha terminato di suonare un brano, un dispositivo provvede a spostarlo di quel tanto da far coincidere la nuova serie di coppiglie alla tastiera. Tra le fasi cruciali della realizzazione di una scatola musicale ricordiamo anche la gommatura, che avviene mediante la fusione e l’iniezione all’interno del cilindro di una speciale resina la cui composizione è uno dei segreti più gelosamente custoditi dalla manifattura. Legati al passato industriale di Sainte-Croix sono anche certi utensili tuttora in uso presso Reuge, come lo speciale cacciavite a biglie il cui funzionamento è basato sul principio d’inerzia e che gli artigiani di Reuge si tramandano di generazione in generazione (in commercio non si trova). Un discorso a parte meriterebbero le scatole dove i movimenti musicali sono alloggiati: spesso si tratta di autentici capolavori d’intarsio, realizzati facendo uso delle più pregiate essenze lignee; ma non mancano incursioni nell’immaginario popolare del XXI secolo, come

dimostrato dalla recente MusicMachine 3 in forma di caccia imperiale di Guerre stellari, frutto della collaborazione con la visionaria casa orologiera MB&F. A proposito di orologeria, il legame con l’arte delle scatole musicali è documentato: orologiai erano sia il ginevrino Antoine Favre, inventore nel 1796 del già descritto sistema a cilindro e tastiera, sia la famiglia JaquetDroz, alla quale si deve la costruzione a fine ’700 di sbalorditivi automi, tra cui i primi uccellini cantori meccanici, un tempo utilizzati per insegnare a cantare ai volatili allevati in cattività dai più alti esponenti dell’aristocrazia. Erede di questa tradizione, Reuge è oggi l’unica manifattura di alta gamma superstite a realizzare gabbie e tabacchiere che custodiscono uccelli canterini artificiali. Il loro canto, straordinariamente simile a quello dei volatili veri, viene riprodotto grazie a fischietti fatti vibrare da un piccolo mantice in pelle di capra, azionato a sua volta da camme. Il piumaggio è spesso ottenuto da penne naturali; per le specie protette si ricorre a quelle sintetiche. Ritmi dimenticati, automi, uccellini cantori... siamo giunti a sfiorare il reame delle fiabe, eppure questa è una realtà ben tangibile. Il suo nome è Sainte-Croix: ricordatevela, la prossima volta che i manichei della musica v’illustrano la superiorità del digitale... (www.reuge.com).

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In questa pagina, dettaglio dello scomparto portagioie del servomuto Groom in noce Canaletto Titoletto in prima persona e pelle. A lato, Carré d’assise, * Cristina Castelli è professore ordinario di Psicologia del ciclo di vita, direttrice del CROSS (Centro ricerche sull’orientamento scolastico e tavolino-seduta professionale) e del Master “Relazione d’aiuto in contesti di vulnerabilità e povertà nazionali ed internazionali” presso la Facoltà di Scienze in pelle o tessuto, ispirato alle dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. E’ direttrice della Fabbrica del Talento. dimensioni deldella carréFormazione di seta.

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Di necessità

Virtù

La collezione Les Nécessaires di Hermès rilegge con intelligenza i mobili d’uso, in cui fino all’800 veniva custodito tutto ciò che era utile alla vita quotidiana. Intervista con Philippe Nigro, che l’ha disegnata e consegnata nelle mani di esperti artigiani francesi

di Ali Filippini

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La riuscita di un progetto è nella reciprocità: la ricchezza della relazione che si viene a creare mentre modifichi, tagli, correggi, lavori con gli artigiani

Si chiama Les Nécessaires d’Hermès ed è la collezione di mobili e complementi d’arredo che la Maison francese ha presentato due anni fa, aggiornandola nel 2015 con alcune novità. Philippe Nigro, designer francese ma italiano d’adozione, è l’autore della decina tra mobili polifunzionali e piccole sedute che la compongono. Come il nome stesso suggerisce, la collezione rimanda ai mobili d’uso, appunto «nécessaire», in cui fino all’800 veniva custodito tutto ciò che era utile alla vita quotidiana; mobili che per la loro fabbricazione venivano affidati all’impegno di artigiani d’eccezione, un po’ come accade con questa collezione composta da complementi, servomuto, tavolini e sedute trasformabili. L’anno scorso si è aggiunta anche Les Curiosités d’Hermès, composta da tre grandi e superaccessoriati bauli-contenitori. Per Philippe Nigro, designer dell’anno Now! Maison & Objet 2014, abituato ai numeri più alti della produzione in serie (tra le sue collaborazioni aziende del design, come De Padova, Ligne Roset, Glas Italia, Venini, Caimi Brevetti...) si tratta del primo approccio all’alto artigianato, mediato però da soluzioni progettuali vicine al mondo del design che ci svela in questa intervista. domanda Com’è nata la collezione e quale rapporto ha instaurato con gli artigiani? risposta La collezione è nata a seguito di un primo incontro con Hermès, nel 2011, quando abbiamo iniziato a ragionare su una collezione di oggetti utili per la

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casa che non fossero necessariamente dei mobili «protagonisti» come divani e grandi arredi; in un primo momento ci siamo concentrati su tipologie ben precise e da lì si sono sviluppate le idee che hanno nel tempo allargato anche il brief progettuale. Dall’incarico di creare i pezzi alla loro realizzazione sono passati due anni, nel corso dei quali io ho lavorato a stretto contatto, da una parte con l’ufficio tecnico della casa, dall’altra con gli artigiani. Hermès ha un savoir-faire tecnico basato essenzialmente sulla lavorazione della pelle, quindi questi mobili sono sviluppati, tanto per l’ebanisteria quanto per i metalli e per l’imbottitura, da risorse esterne all’azienda. Per quanto riguarda il rivestimento e altre finiture, le lavorazioni sono fatte invece internamente seguendo il know-how storico Hermès. d. Come si è trovato con i diversi laboratori? C’è differenza tra questo ambito esclusivo e quello più legato all’industria? R. Come progettista ho passato molto tempo a discutere con gli artigiani coinvolti nella realizzazione dei pezzi stando praticamente di fianco a loro; anche se esterni all’azienda, questi laboratori sono molto coinvolti nel processo perché le maestranze ricevono una formazione dagli artigiani della Maison. Inoltre, nelle loro sedi hanno spesso un reparto di lavoro ad hoc per Hermès. Per questa collezione stiamo parlando di fornitori tutti provenienti dalla Francia, perché era nei loro intenti fare una produzione al 100% francese. Quanto a differenze tra ambiti

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di produzione, direi che il lavoro fatto con l’artigiano è praticamente lo stesso. Non c’è differenza tra un comparto orientato al lusso e un altro tipo di produzione di alta qualità ma non di lusso, perché la riuscita di un progetto è nella reciprocità: la ricchezza della relazione che si viene a creare mentre modifichi, tagli, correggi, ti ingegni insieme... Certo, con un cliente come Hermès si è un po’ più liberi di fare alcune scelte, soprattutto per quanto riguarda i materiali e in generale la complessità del progetto; decisioni che apportano grande qualità o preziosità al prodotto finale. Lavorare per altri segmenti, come noto, comporta spesso l’accettazione di compromessi che sono necessari a contenere il prezzo del prodotto finale. d. Mi parli dell’ispirazione progettuale: in qualche modo, l’héritage dell’azienda (penso anche al confronto con la storia e il nome altisonante di Jean-Michel Franck)

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ha influenzato le sue scelte stilistiche? R. All’inizio mi sono «immerso» fisicamente nell’azienda, per comprendere il loro lavoro di ricerca. Esiste un grande archivio dove sono raccolti migliaia di pezzi, dalle borse ai mobili, inclusi i prototipi. Per me è stato utile partire da lì. I fondatori stessi di Hermès erano appassionati di oggetti funzionali e intelligenti nell’esprimere il loro utilizzo; io questo l’ho percepito e interpretato, in qualche modo, attraverso il lavoro sul design di questi pezzi. Se si guarda alla storia di Hermès si può rintracciare un’attenzione alla funzionalità ma allo stesso tempo anche una forma di ironia di fondo, una componente, diciamo, divertente o disinvolta nell’affrontare i diversi temi progettuali. Perciò, a livello d’ispirazione, ho voluto inserire nella collezione questo duplice sapore di funzione e sorpresa, come dovrebbe risultare evidente dalla funzione

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Sotto, appendiabiti e portaaccessori Vestiaire dalla struttura pieghevole, dotato di vassoi svuotatasche e poggiaborse rifiniti in pelle. A lato, seduta Cabriolet, con crociera in noce e piedini in acciaio.

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Imprese

Il valore deriva dall’intenzione di realizzare oggetti che possano invecchiare bene e che risultino quindi meno legati al gusto di un momento

nascosta nei pezzi, che solo chi usa può, appunto, scoprire e conoscere. Alcuni di essi, infatti, hanno cassetti nascosti o scorrevoli ed elementi a sorpresa che li ravvivano pur mantenendoli pratici. Per la sua epoca Jean-Michel Franck è sicuramente un designer abbastanza radicale, con grandi qualità di progetto. Ma non ero tanto spaventato dal confronto con questo nome, piuttosto dal mito internazionale legato alla stessa Hermès. Poi mi metteva pressione arrivare dopo Enzo Mari, che mi ha preceduto in questo progetto sulle collezioni d’arredo. Da progettista posso però dire che sono soddisfatto del lavoro perché la collezione è stata accolta positivamente, anche dal punto di vista commerciale. d. Ha pensato a un cliente tipo? Chi compra questi mobili di alta ebanisteria che rapporto ha in generale con il design contemporaneo? Qual è la sua opinione sull’interesse

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delle case di moda verso l’arredamento? R. Stiamo certamente parlando di un ambito luxury ma, se ci pensiamo, sono sempre esistiti dei mobili eccezionali, in virtù della loro qualità e funzionalità, che dal secolo scorso e anche prima erano disponibili per chi poteva permetterseli. In un contesto ambientale, spaziale, questa collezione può dialogare benissimo con altri oggetti di design contemporaneo perché nell’insieme i pezzi sono esteticamente abbastanza essenziali e atemporali nella loro forma. Inoltre è una collezione che, a seconda della necessità, si può completare nel tempo e che quindi si presta a crescere. Dopo i Nécessaires, ad esempio, ho lavorato al servizio di tre bauli dedicati a funzioni diverse, che potrebbero anche essere adattati per misure ed esigenze differenti (Hermès offre un servizio custom, per progetti su misura per il cliente, ndr). Per quanto riguarda l’attenzione della moda verso l’arredo e il lifestyle, riconosco che alcune aziende fanno delle collezioni di alta qualità, mentre altre sono più legate appunto al fashion, quindi esprimono proposte più effimere nel loro design. Nel caso di Hermès, oltre all’apporto qualitativo che abbiamo visto, il valore risiede nel realizzare oggetti che possano invecchiare bene e che risultino quindi meno legati al gusto di un momento.

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A destra, il servomuto Groom con specchio girevole dal dorso in pelle. A sinistra, la panca con cassetti Cheval-d’arçons. Tutti i disegni del servizio sono di Philippe Nigro (a fianco; italy.hermes.com).

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di Alessandra de Nitto

le migliori botteghe raccontate in una guida L’Italia non è soltanto patria d’arte e bellezza, museo a cielo aperto, custode di panorami naturali unici. Molto del fascino e dell’attrattiva esercitati dal nostro Paese a livello internazionale è legato alla capillare presenza sul territorio di botteghe e atelier custodi di un altissimo savoir-faire, che ha radici storiche straordinarie e che tuttora è coltivato ai più alti livelli grazie alla maestria e al talento dei grandi artigiani italiani. Un patrimonio unico, una ricchezza che innerva l’intera penisola declinandosi in numerose e diverse specificità legate a storia, territorio e risorse, ma che non sempre viene adeguatamente riconosciuta e promossa, benché negli ultimi anni si assista al fiorire di molti progetti di valorizzazione, soprattutto legati a un turismo più colto e responsabile. In questo quadro nasce un nuovo progetto, promosso dal Gruppo Editoriale, frutto della collaborazione tra la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte e OmA-Osservatorio dei Mestieri d’Arte di Firenze: Italia su misura, una guida delle eccellenze arti-

giane italiane. Dopo il successo delle precedenti pubblicazioni dedicate a Firenze e Milano, l’indagine si allarga a comprendere l’intero territorio nazionale, in un magnifico viaggio da nord a sud, isole comprese, attraverso 100 selezionatissimi indirizzi che rappresentano il fiore all’occhiello della maestria italiana: dalla ceramica alla gioielleria ai tessuti, dagli argenti alla sartoria agli accessori, dagli strumenti musicali ai presepi, dal vetro al mosaico al ferro battuto... Creazioni uniche e personalizzate, rigorosamente fatte a mano, simbolo di quella eccellenza, tradizione e know-how che rendono l’Italia uno dei maggiori punti di riferimento per l’alto artigianato, riconosciuto e stimato nel mondo. La pubblicazione della guida, riccamente illustrata e bilingue (italiano e inglese), preziosa ma agevole grazie al piacevole formato, è resa possibile dal generoso supporto di Vacheron Constantin, storica Maison ginevrina di alta orologeria da sempre, per proprio retaggio culturale, paladina attenta e sensibile dei mestieri

patrimonio

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Eccellenze artigiane

bilingue e in un portale. nasce «italia su misura» d’arte in Europa. Per questa che, con i suoi oltre 250 anni di attività, è la più antica manifattura di orologeria al mondo, la promozione del savoir-faire è una vera mission, un impegno etico, sociale e morale: partner del network internazionale delle Giornate Europee dei Mestieri d’Arte, in Italia sostiene in tale ambito i progetti della Fondazione Cologni. Ardua impresa per i promotori di questa iniziativa quella di riunire in una piccola shopping guide il meglio dei mestieri d’arte italiani: la selezione è stata condotta sulla base di requisiti di riconosciuta eccellenza, in primis quello della presenza all’interno dell’atelier di ogni fase della lavorazione. Tradizione e innovazione si sposano felicemente nelle botteghe d’arte italiane, che portano avanti ogni giorno un patrimonio di conoscenze unico, da tutelare e trasmettere alle nuove generazioni, con sensibilità contemporanea. Lo sguardo attento del fotografo Dario Garofalo ha saputo cogliere con grande sensibilità gesti e volti di questo mondo, dischiudendolo ai

nostri occhi in una dimensione intima e poetica, dove competenza e passione scandiscono i ritmi del lavoro artigiano. Ben consapevoli dell’impossibilità di testimoniare in una sola pubblicazione la multiforme ricchezza e varietà del nostro artigianato d’arte, Gruppo Editoriale, OmA e Fondazione Cologni hanno dato vita al nuovo portale www.italiasumisura.it, che raccoglie una selezione allargata delle migliori botteghe e atelier in tutta Italia. Il portale, anch’esso bilingue, inquadra ogni artigiano all’interno di una specifica sezione tematica e le botteghe possono essere individuate anche per area geografica e per categoria merceologica, rendendo molto semplice e utile la navigazione. Il portale viene inaugurato con una selezione iniziale di ben 300 indirizzi, destinata a un continuo ampliamento e aggiornamento. Un’iniziativa molto ambiziosa e significativa, resa possibile dal prezioso sostegno di venti fondazioni bancarie italiane aderenti all’Acri, che si propone di diventare vetrina di riferimento per i nostri mestieri d’arte di eccellenza.

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Sotto, la copertina del libro «Italia su misura» e alcune eccellenze presentate (www.italiasumisura.it). Da sinistra, la storica bottega di Bianco Bianchi a Pontassieve (Fi) dove i figli dell’artigiano portano avanti la nobile tecnica della scagliola; l’atelier del maestro Luciano Petris a Codroipo (Ud), che perpetua l’arte millenaria del mosaico; l’arte del legno in Trentino-Alto Adige, che raggiunge l’eccellenza nella bottega del maestro Fritz Drechslerei a Sarentino (Bz).

nazionale

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Artefici contemporanei

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Un tesoro

nelle mani di Alessandra de Nitto

«Gli aghi sono i miei pennelli, i fili i miei pigmenti, i tessuti preziosi le mie tele». Parola di cecilia piacitelli roger, maestra del ricamo

Sopra, borsetta ricamata con perline. A lato, illustrazione con alcuni attrezzi della ricamatrice. Dall’alto, da sinistra: pinze di bambù; foglia d’oro color rame; pennello con peli di cinghiale, per applicare colore ai tessuti di seta; occhiali da vista; aghi fatti a mano; forbici giapponesi; koma in legno tornito con avvolto filo metallico d’argento e d’oro; tre pennelli con peli misti di capra e cinghiale; pasta rossa per applicare il sigillo; scatola in legno di paulonia, per riporre aghi, tekobari e forbici; due tekobari in acciaio per intervenire in punti delicati del ricamo.

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Artefici contemporanei

La sua produzione spazia dall’home décor agli accessori moda: pannelli decorativi, cuscini, Cecilia Piacitelli Roger ha molte vite, almeno tre. Nella sua prima vita si laurea in Paleografia e diplomatica e ottiene il diploma di archivista presso l’Archivio di Stato di Milano. Nella seconda vita si dedica con la famiglia alla produzione di vini di alta qualità. Nella terza e per ora ultima vita, senza dimenticare le sue precedenti esistenze, diventa maestra nell’arte del ricamo: il suo vero destino, costruito nel tempo con passione, tenacia e straordinaria sensibilità, arrivando ai più alti vertici artistici ed esecutivi. La formazione accademica ha certo determinato il suo approccio estremamente metodico e minuzioso allo studio e alla ricerca. L’attività di viticoltrice di eccellenza ha invece alimentato il suo innato amore per la concretezza del fare e soprattutto per il mondo della natura, sua prima fonte di ispirazione. Cecilia è cittadina del mondo, instancabile e curiosa viaggiatrice. Nasce a Milano, capitale della moda e del design, ma viaggia incessantemente, sposa un francese e si trasferisce tra le montagne del Pays-d’Enhaut nel Cantone del Vaud, in Svizzera. Qui oggi lavora nel suo incantevole atelier, affacciato sulle montagne e avvolto nella pace e nel silenzio. Un’oasi ideale per la vestale di una creatività che richiede grande calma, concentrazione, precisione. Sei, otto ore di attività al giorno: per i più complessi quadri decorativi possono infatti essere necessari addirittura mesi di lavoro. Questa bella signora bruna dagli occhi luminosissimi è tanto gentile e appassionata quanto determinata, adora il suo lavoro e persegue con tenacia la perfezione. La passione per il ricamo la accompagna da sempre, fino a divenire una vera e propria attività professionale di eccellenza. La sua produzione spazia dall’home décor agli accessori moda: pannelli decorativi, cuscini, paraventi, ma anche borse-gioiello preziose e superglamour, dai ricchi decori naturalistici di piccole perle o dalle raffinatissime

geometrie a piccolo punto, sempre in edizioni limitate. Ama dire che le sue mani sono il suo tesoro, la natura la sua musa: «Gli aghi sono i miei pennelli, i fili i miei pigmenti, i tessuti preziosi le mie tele». Fiori, alberi, foglie, erbe, piccoli frutti, uccelli, farfalle, nuvole, rocce e fiumi popolano queste tele, descritti poeticamente con miracolosa minuzia. Aghi, cornici, punteruoli, forbici giapponesi, ganci tambour, koma, tekobari… sono l’armamentario minuto e prezioso del suo banco d’artigiana. Instancabile ricercatrice e sperimentatrice, si è appropriata nel tempo con un lungo lavoro di studio e applicazione di tutte le più importanti tecniche della tradizione italiana: ha raccolto documenti, studiato fonti, visitato musei, incontrato molte ricamatrici in attività per conoscere i segreti della loro maestria. Con grande sensibilità ha compendiato e reinterpretato in modo del tutto personale le conoscenze di cui ha fatto tesoro, anche innovando forme e materiali. Ci racconta che nella sua formazione sono stati essenziali soprattutto gli incontri con alcune anziane maestre, custodi di saperi in via di scomparsa, la lunga frequentazione della grande scuola dell’atelier di François Lesage a Parigi e l’incontro con la sublime tradizione del ricamo giapponese. A Parigi, nella prestigiosissima Haute Couture and Interior Design Lesage School, tempio del ricamo per l’alta moda oggi acquisito dalla Maison Chanel, ha frequentato a lungo corsi specialistici acquisendo una formazione di alto livello nel ricamo per la moda e l’arredo au crochet de Lunéville e à l’aiguille. Si è perfezionata successivamente in alcune delle più alte realtà formative internazionali, come le storiche Royal School of Needlepoint e Hand & Lock di Londra, il Conservatoire des Broderies de Lunéville in Francia, l’Accademia del Teatro alla Scala di Milano, più recentemente la St. Martin School di Londra. Ma nella sua

Da sinistra, l’atelier, ex laboratorio di un ebanista, restaurato dalla ricamatrice per accogliere i suoi materiali fragili e preziosi; un ricamo di ispirazione giapponese: la tecnica è la «couching» e si esegue con un cordone di seta realizzato a mano, avvolto sul koma e un sottilissimo filo di seta infilato su un ago fatto a mano; Cecilia Piacitelli Roger al lavoro tra fili di lana, telai e modelli già terminati e montati. Sullo sfondo, alcuni quadri realizzati in seta su seta secondo la tradizione del ricamo giapponese.

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Eccellenze dal mondo

preparazione sia tecnica sia espressiva ha avuto un ruolo centrale la straordinaria esperienza del ricamo tradizionale giapponese. Cecilia ha conquistato con anni di studio e di esercizio il Decimo livello presso il Japanese Embroidery Center di Atlanta, depositario dell’arte millenaria del ricamo tradizionale, Nui do, o la Via del Ricamo: vero e proprio cammino di conoscenza del sé, percorso non solo tecnico e artistico ma anche spirituale e intellettuale. Cecilia vanta oggi l’ambita certificazione di insegnante. Viaggia regolarmente in Giappone per accrescere e ampliare le sue fonti iconografiche e il suo patrimonio tecnico, che comprende anche la padronanza del marouflage giapponese, che utilizza per il montaggio delle sue creazioni su carta washi e dell’ardua tecnica della foglia d’oro su tessuto,

paraventi, ma anche borse-gioiello glamour che le consente di dare alle sue opere meravigliosi effetti di luce. Al dominio delle più complesse e virtuosistiche tecniche abbina la profonda conoscenza dei procedimenti di tintura dei tessuti e dei filati con colori vegetali secondo le antiche prescrizioni, per poter ricostruire con filologico rigore alcune tecniche storiche. Nonostante la solida e multiforme preparazione nell’ambito del ricamo tradizionale, la ricerca di stili e forme contemporanee rappresenta per questa maestra d’arte un aspetto cruciale del suo lavoro, convinta com’è che per mantenere vitale un artigianato spesso negletto e considerato espressione di manufatti talvolta troppo domestici sia indispensabile renderlo contemporaneo e diffonderne il più possibile l’interesse presso un vasto pubblico. Accanto alla produzione, una parte significativa del suo lavoro è destinata all’attività didattica e divulgativa, attraverso mostre, dimostrazioni, conferenze e corsi. Realizzati con tenacia quasi tutti i suoi obiettivi, le resta un grande sogno: quello di veder nascere prima o poi una cattedra di Storia del ricamo presso qualche corso di laurea in design o moda. Perché, auspica, «il ricamo possa ritrovare una collocazione più visibile e più contemporanea, al pari di altre forme di artigianato artistico come la ceramica, il vetro, il mosaico, l’intarsio ligneo... Nella sua storia il ricamo ha molto viaggiato, più di quanto non si conosca, arricchendo e influenzando stili decorativi diversi e di aree geografiche distanti tra loro». Le piace ripetere che il ricamo è quasi sempre bellezza senza nome e senza volto, l’opera di mani ignote che hanno prodotto virtuosismi tecnici e manufatti raffinatissimi, ma che sono rimaste sconosciute... Nella quiete dei suoi monti, Cecilia Piacitelli Roger sogna il suo sogno e intanto ricama... e ricama, e ricama. E la prodigiosa bellezza che esce dalle sue mani amorevoli e sapienti esprime la sua anima, ha il suo volto, porta il suo nome.

Sopra, un ricamo tradizionale giapponese realizzato su seta «shioze» con fili di seta e fili metallici. L’effetto di naturalezza delle camelie è ottenuto con la tecnica «realistic effects». Il pannello è montato a kakejiku, dopo un marouflage del ricamo su carta washi. L’atelier si trova tra le montagne del Vaud, in Svizzera (10, Chemin de Rouge Pierre, Les Moulins; www.ceciliaroger.com). Lo descrive così: «La patina del tempo del suolo, del legno e delle vecchie tubature ricorda l’operare di altri artigiani prima di me».

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Musei segreti

In queste pagine, Museo della ceramica di Savona: sala con il corredo di vasi provenienti dall’antica farmacia dell’Ospedale San Paolo di Savona risalenti al1666, grande esempio di eccellenza della tipologia orientalizzante a tappezzeria.

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Savona e mondovĂŒ. Liguria e piemonte uniti da una strada nobile: due istituzioni culturali che esaltano un patrimonio locale d’eccellenza di Riccardo Zelatore

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Musei segreti

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Scrivere di musei ultimamente significa quasi sempre intrattenere sulla questione del ruolo che tali istituzioni devono o possono giocare nella società contemporanea. Non sono qui a disquisire sulla crisi della cultura globalizzata che intellettuali della levatura di un Jean Clair hanno, con buona dose di indignazione critica, esaustivamente argomentato. A me preme soffermarmi su pochi tratti che incorniciano significato e vocazione di due iniziative culturali importanti, felice esempio, per ora, di sinergia tra soggetti privati, enti pubblici e fondazioni bancarie. Ad accumunarli, non solo un patrimonio ceramico di eccellenza, ma una prossimità storico-geografica che sancisce di fatto un unicum. Sia chiaro, il nuovo Museo della ceramica di Savona e quello di Mondovì hanno genesi, statuti, dinamiche, gestioni, patrimoni, dimensioni e orizzonti autonomi e differenti; tuttavia, affondano le loro radici in un territorio che, se pur diviso dall’Appennino, nei secoli ha condiviso destini artistici, culturali e socioproduttivi. I due soggetti mettono poi a fattor comune alcuni presupposti di governance culturale e, non a caso, sono adesso congiunti (con Albissola Marina e Albisola Superiore) da un progetto di valorizzazione a rete titolato «La terra di mezzo. La via della ceramica tra Liguria e Piemonte». Proviamo a farne due veloci ritratti prendendo a prestito le profilazioni ufficiali. Savona: due palazzi, un percorso unico. Nel cuore del centro storico, a due passi dalla Cattedrale dell’Assunta e dalla Cappella Sistina. Si comincia da Palazzo Gavotti, attraverso la collezione della Pinacoteca civica e le opere contemporanee della Fondazione Milena Milani. La visita prosegue nello straordinario Palazzo del Monte di Pietà, con il Museo della ceramica. Quattro piani di

storia e un allestimento innovativo, per un viaggio affascinante tra epoche e stili. Dal Rinascimento al ’900, dal Futurismo fino al design contemporaneo, più di mille opere per testimoniare il legame profondo di una tradizione con il suo territorio. Alle raccolte di proprietà della Civica pinacoteca, come l’elegante vaseria dell’antico Ospedale San Paolo e la donazione del principe Boncompagni Ludovisi, si aggiungono le prestigiose collezioni acquistate nel tempo dalla Fondazione Antonio De Mari. Tra queste opere si annoverano i vasi dell’antica farmacia Cavanna di Genova, i tesori della collezione Bixio e, per la scultura moderna, la Nena e la Maternità di Arturo Martini. Sul fronte del contemporaneo, troviamo i prototipi realizzati dai più grandi artisti e designer internazionali per le Edizioni Attese, nell’ambito delle Biennali della ceramica nell’arte contemporanea. La visita si completa con originali strumenti multimediali tra cui eccelle l’originale quadrisfera, struttura che permette di assistere a una narrazione suggestiva della storia e degli sviluppi della ceramica ligure (www.museodellaceramica.savona.it). Mondovì: lo splendido museo è distribuito su quattro piani e 20 sale nella prestigiosa e suggestiva cornice del Palazzo Fauzone di Germagnano. Una autorevole cornice settecentesca, ricca di affreschi, stucchi, tappezzerie e specchiere sapientemente restaurati, che si apre da un lato sulla medievale piazza Maggiore in rione Piazza, di fronte alla chiostra delle Alpi Marittime, dall’altro verso i dolci declivi delle Langhe. Vi hanno a vario titolo contribuito il ministero per i Beni culturali, la Regione Piemonte, la Provincia di Cuneo, la Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico del Piemonte, nonché le Fondazioni delle Casse di rispar-

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113 Da sinistra, Museo della ceramica di Mondovì; una delle sale interne di Palazzo Fauzone di Germagnano; Sala degli stili classici e delle piccole plastiche di Giacomo Boselli, Museo della ceramica, Savona; vaso in terracotta decorato sotto vetrina in stile déco (Torido Mazzotti, 1926 ca.).

mio di Cuneo e di Torino e la Compagnia di San Paolo. L’ha voluto Marco Levi (19102001), ultimo proprietario della storica ceramica Vedova Besio e figlio, a sua volta ultima fabbrica del distretto di Mondovì, rimasta attiva sino ai primi anni 80 del secolo scorso. L’hanno inaugurato Guido Neppi Modona, allora presidente della Fondazione del museo, e Christiana Fissore, direttore dello stesso, che oggi ricostruisce quasi due secoli della caratteristica produzione di stoviglie di uso comune delle fabbriche del distretto. Le sale multimediali nobilitano la visita e supportano la vocazione didattica dell’istituzione che non vuole essere solo un luogo della memoria storica ma dimostrazione concreta del potere generativo della cultura. Con la realizzazione di Up, unità interna attrezzata per realizzare tutte le fasi del ciclo produttivo, la fabbrica ceramica entra concretamente nel museo contribuendo al rilancio e alla rivisitazione della produzione del distretto monregalese proponendosi come sede di sperimentazione e di confronto per artisti e designer contemporanei (www.museoceramicamondovi.it). Due esempi di istituzioni culturali che non si accontentano di esporre le loro prestigiose collezioni per qualche giorno alla settimana: due hub importanti di promozione culturale, qualificati per collocazione storico-territoriale e per modernità di progetto. L’ideazione, la programmazione e la realizzazione di iniziative distribuite nel tempo ma coordinate e integrate tra loro per creare un sistema organico tra musei, mondo della scuola e tradizioni produttive dell’artigianato ceramico locale sono la via nobile per assicurare ai soggetti coinvolti una minima protezione dagli azzardi della globalizzazione e permettere alle intelligenze ancora in circolazione di connettersi con alcuni saggi principi della civiltà.

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Ri-sguardo

e è molto facile innamorarsi delle meraviglie del nostro Paese, queste non devono essere usate come scudo per mascherare l’indolenza, l’ignoranza e l’inefficienza

la bellezza non sia un alibi

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«Ma signore, cosa mi domanda? Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo. Ho bisogno soltanto di aprire bocca e involontariamente diventa il fonte di tutta l’armonia di quest’idioma celeste. Sì, caro signore, per me non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlano italiano». Così scrive Thomas Mann, nelle Confessioni del Cavaliere d’Industria Felix Krull. L’italiano come lingua celestiale, l’Italia come la patria della bellezza: innamorarsi del nostro Paese, della nostra cultura, dei nostri mestieri è facile. Eppure, come in tutti i Giardini dell’Eden, anche nel nostro paradiso si annidano serpenti insidiosi, tentatori e rovinosi: la sciatteria, la disorganizzazione, la corruzione e tutta quella «industria del brutto» (dall’ignoranza alla delinquenza) che è ogni giorno sotto i nostri occhi. Di bellezza si vive, ma si muore anche: è questo il rischio che corriamo, quando sottolineiamo solo gli aspetti edulcorati della nostra cultura e dimentichiamo che la creatività e la cultura del progetto (oggi diremmo «il design») nascono e prosperano in un contesto sociale, politico ed economico stimolante. Eretico. Nutrito di scienza, ricerca, difficoltà e ispirazione. Sostenuto storicamente da un sistema avanzato di dialogo tra committenti, creativi, artigiani non sempre facile, a volte

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belligerante, ma anche irripetibile altrove come giustamente afferma la Fondazione «Italia Patria della Bellezza», di nascita recente. In un momento di estrema banalizzazione dei messaggi, saper mantenere un atteggiamento critico e un linguaggio convincente, come questa rivista si impegna a fare, significa saper presentare il «bello ben fatto» tipico dell’Italia come il risultato di un processo che si nutre di curiosità e competenza. Significa raccontare il vero cuore della bellezza attraverso una vis retorica efficace e reale, che faccia breccia presentando la realtà e non un facile surrogato di essa. La bellezza italiana va infatti compresa, raccolta e raccontata con competenza non solo evocativa ma anche linguistica, per presentare al meglio la genialità così come il lavoro, la maturazione così come la sperimentazione, la crescita così come la tradizione. Innamorarsi della bellezza è facile. Ma il vero amore è quello «generativo»: ovvero, quello fertile. Che fa nascere qualcos’altro, che porta lontano. A differenza di Narciso, punito dagli dei per essersi innamorato del suo riflesso, Pigmalione, abbagliato dalla grazia della sua opera, venne premiato da Afrodite: perché l’amore per la statua si rivelò un sentimento puro, che trovava la sua ragione nella sensibilità dell’artifex. Mentre lo sguardo di Medusa pietrifica e toglie la vita, lo sguardo innamorato dell’artigiano/artefice dona calore alla materia in virtù dell’autenticità della sua ispirazione, e della sua perizia e competenza nell’esecuzione. Lo sguardo e la parola: le vere fonti dell’amore. Ma per mantenere questa capacità di essere amati e amabili e di generare ricchezza e stupore, la bellezza non può più essere un alibi per mascherare l’indolenza, l’ignoranza e l’inefficienza. Per essere competitivi occorre non solo essere belli e bravi, ma anche precisi, puntuali, affidabili; occorre saper raccontare la verità con bellezza. Una sfida ancora da combattere, per passare dalla suggestione del linguaggio al successo dell’azione.

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