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FIAT SUL COLLO Sul perché quando cambia il lavoro ci rimettono gli operai

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on l’accordo di Pomigliano e Mirafiori, con il braccio di ferro che ancora dura alla Fiat di Melfi sui tre operai licenziati e reintegrati dalla magistratura del lavoro, l’iniziativa di Marchionne sta travolgendo l’intero sistema delle relazioni industriali nel nostro paese. È un’azione condotta avanti con selvaggia determinazione che non ha eguali in nessuna esperienza del passato. Non c’è da stupirsi se a Marchionne fanno ponti d’oro l’attuale governo e la risicata maggioranza che lo sostiene. Né stupiscono le posizioni del Pd che nel suo interclassismo “debole” non ha gli strumenti per elaborare una politica economica e un progetto industriale effettivamente alternativi a quelli che si stanno affermando attraverso l’iniziativa di Marchionne. Ma perché Marchionne si è avventurato in questa guerra senza quartiere che ha come obiettivo principale il lavoro e i suoi diritti, quando tutti i dati ci dicono che, nell’industria dell’auto, il costo del lavoro incide solo del 7 per cento sul prodotto finale e che la più bassa produttività degli stabilimenti italiani dipende più da una scarsa utilizzazione degli impianti che dall’organizzazione del lavoro e dei turni, e tanto meno dall’assenteismo? La risposta sta nel fatto che il bilancio industriale della gestione Marchionne della Fiat è pessimo nonostante l’alibi della crisi economica: in Europa la Fiat perde quote di mercato ben maggiori rispetto alle altre case europee. Marchionne deve salvaguardare la sua immagine di grande manager internazionale dal fallimento che la sua gestione della Fiat registra nel Vecchio Continente. In questi mesi, giustamente, l’attenzione si è concentrata su Pomigliano e

Mirafiori. Ma quale sarà il destino di Melfi e Cassino, quando i modelli lì prodotti andranno fuori mercato? Il 23 aprile del 2010 Fiat lancia con grande dispiego di mezzi mediatici e pubblicitari il suo nuovo progetto: “Nasce una nuova fabbrica. E appartiene a tutti noi – scrivono Elkann e Marchionne – Per costruire più veicoli Fiat in Italia e portare più Italia nel mondo nasce Fabbrica Italia, il più straordinario piano industriale che il nostro Paese abbia mai avuto”.

Sergio Marchionne in 80 mesi al vertice della Fiat ha totalizzato un valore pari a 255,5 milioni di euro, ovvero 38,8 milioni l’anno (“Corriere della Sera”, 9.01.11). Se le crifre corrispondono a verità, il buon Marchionne guadagna ogni anno 1.037 volte un suo dipendente medio.

9 Parole impegnative, non prive di quel pizzico di retorica a tratti persino patriottica come s’usa nelle relazioni d’azienda di oltre Atlantic. Ma questo è tutto. “Fabbrica Italia” si esaurisce completamente in queste poche righe. I 20 miliardi di investimenti non sono scomprarsi, probabilmente non sono mai esistiti. Infatti, l’indomani di quel 23 aprile Marchionne si dichiara “offeso” da quanti osano chiedere i particolari di “Fabbrica Italia”. Tali richieste, che normalmente sarebbero considerate legittime, per l’amministratore delegato della Fiat sono il segno di un inguaribile “provincialismo”, forse perché nel mondo globale di cui si picca essere uno degli esponenti di punta non s’usa. Fabbrica Italia è solo un messaggio in cui pubblicità e pro-

paganda la fanno da padrone. Di contro, invece, Marchionne minaccia di portare gli stabilimenti in Serbia e la sede legale di Fiat a Detroit. Altro che investimenti in Italia! Le scelte di Marchionne appaiono più una tattica di sopravvivenza che una vera prospettiva. E ciò ci permette di capire, se non di giustificare, le ragioni della deriva di Cisl e Uil altrimenti incomprensibile. Essa è dettata dalla rassegnazione che nasce dalla convinzione che il progetto di Marchionne non ha alternative. E la rassegnazione è la causa dell’allineamento di Piero Fassino alle posizioni della Fiat, quando giustifica l’accettazione del peggioramento delle condizioni di lavoro con la “globalizzazione” come se questa fosse una sorta di fatalità a cui bisogna soggiacere, e non quel complesso processo di riorganizzazione della divisione del lavoro su scala mondiale entro cui far valere opzioni e strategie tra loro alternative. È importante, tuttavia, che lo scontro sociale che caratterizzerà le prossime settimane e i prossimi mesi non alimenti a sinistra la convinzione che siamo entrati in una fase in cui non c’è alternativa al “muro contro muro” tra il lavoro e il resto delle forze in campo. Per sconfiggere Marchionne e tutti coloro che, a cominciare dal governo, lo sostengono è necessario aprire una lotta senza quartiere e senza concessioni, ma anche spostare il terreno del confronto e dello scontro

fuori dal perimetro disegnato dalla Fiat. E l’onere di una tale risposta spetta innanzitutto alla politica. Come? Inannazitutto domandandosi se è proprio inevitabile che in Italia l’unico produttore di automobili resti solo la Fiat (che ha avuto un secolo di finanziamenti, agevolazioni, sconti, aiuti di stato senza i quali non avrebbe retto nemmeno un decennio)? Perché non provare a riaprire la partita di Termini Imerese cercando seriamente su scala mondiale investitori interessati? È accaduto in Svezia per la Volvo e la Saab, perché non potrebbe accadere anche in Italia? Occorre una politica industriale a livello europeo da parte delle istituzioni comunitarie che faccia, tra l’altro, da cornice a una contrattazione a livello continentale che limiti e disciplini la concorrenza al ribasso tra i lavoratori dei diversi stati dell’Unione. È una prospettiva difficile, visti anche gli orientamenti dei principali governi europei, che in passato ha fallito. Ma ora, di fronte all’evidenza della crisi di sistema che si è abbattuta sull’economia mondiale, è possibile almeno avviare un confronto su politiche industriali comuni a livello europeo del settore dell’auto? L’impresa è ardua e la prospettiva ambiziosa, ma vale la pena cimentarsi su questo terreno, se vogliamo avviare un effettivo mutamento del corso delle cose. Giancarlo Greco giancarlo@alambicco.com


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