Nichi 2.0

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GLI ITALIANI IN DACHAU

IL PERSONAGGIO

Abbiamo incontrato Mario Catanzaro, nostro concittadino, deportato nei lager nazisti, che lo scorso 15 febbraio, insieme ad altri salentini, ha ricevuto la medaglia d’onore.

I

ncontro Mario, classe 1922, nella sua casa, in via Sicilia, dove vive con la moglie Clea e la figlia Lalla. Sorriso accogliente e sguardo vigile e attento, quasi a voler dire: “Eccone un’altra a chiedere, a voler capire”. Già… a tentare di capire, perché sembra quasi impossibile che il protagonista di ciò che racconta, con reticenza, sia lui. “Sono stato deportato nel maggio del ’43, quando prestavo servizio come finanziere a Trieste. Eravamo tutti nella caserma a mangiare, tranquilli, quando sono arrivati due camion tedeschi e i soldati hanno cominciato ad urlare “fuori”, “svelti”; ci hanno caricati sui camion e

Mario Catanzaro con la moglie Clea e il Sindaco Girau durante la Cerimonia di assegnazione delle medaglie al valore lo scorso 15 febbraio.

poi fatti salire su un treno merci. Ricordo ancora due sergenti, di cui uno, ungherese, particolarmente brutto e severo. Sul nostro treno c’erano solo militari, nessun civile. Venimmo poi a sapere che a fare la spia ai tedeschi, era stato un maggiore dell’esercito italiano. La nostra destinazione, dopo un viaggio massacrante, era Dachau. Ci suddivisero nelle baracche per i prigionieri lavoratori. Ogni mattina ci portavano fuori dal campo a lavorare in una fabbrica, io ed altri eravamo addetti alla costruzione di locomotive. A sera, dopo 12 ore di lavoro, si rientrava nel campo, stanchi e affamati, per consumare un misero

pasto, brodaglia e minuscole fave che provocavano immediatamente disturbi intestinali”. Ogni tanto Mario si allontana con lo sguardo ma la riluttanza iniziale lascia spazio al racconto, sostenuto dall’intercalare della moglie che per anni ha condiviso la sua scelta di tacere su quei tragici giorni. “Era difficile sopportare di vedere gli impiegati degli uffici ammini-

strativi della fabbrica, consumare pasti normali e noi, a doverci ritenere fortunati quando si rimediavano bucce di patate; liberi, loro, e noi comandati e costretti a sopportare tutto senza potersi ribellare. Non ricordo particolare solidarietà tra compagni di prigionia, la fame era talmente tanta che non si riusciva a pensare a niente, ognuno cercava di sopravvivere come poteva. Ricordo di aver fatto a botte con un prigioniero francese che mi sfotteva, gli italiani non erano molto amati. Era impossibile far giungere ai nostri cari notizie, neanche un biglietto ci era permesso scrivere. Solo un prete, anche lui prigioniero, tentava di tirarci un po’ su, infondendoci coraggio. Il campo è stato liberato nell’aprile del ’45 americani. Giunto in Italia, da Capodistria, ho camminato per chilometri e chilometri a piedi, fermandomi a mangiare cedri nelle campagne. Ritornato finalmente a San Cesario fui accolto da uno zio che mi tenne con sé per un po’ prima di riabbracciare i miei familiari, poiché ero quasi irriconoscibile, ridotto a 45 chili di peso. Nel ’53 ho conosciuto mia moglie e sono ritornato in servizio in finanza ad Ancona. Ci siamo trasferiti a Torino dove è nata nostra figlia e poi a Bologna, 25 anni. Poi siamo tornati qui, a San Cesario”. Clea mi mostra orgogliosa, i riconoscimenti ricevuti da Mario, tra cui la croce al valore, il Diploma di Combattente per la Libertà d’Italia, ’43-’45, ricevuto dal Presidente Pertini nel 1984 e l’ultimo, la medaglia d’onore assegnata a lui e ad altri 16 salentini internati nei lager nazisti, e consegnatali il 15 febbraio scorso nella Prefettura di Lecce. Mentre li ascolto, lo sguardo cade su un volantino ingiallito, uno dei tanti documenti conservati, stampato qualche giorno dopo la liberazione

In alto: un’immagine dei forni crematori del campo di sterminio di Dachau

In basso: la prima pagina del documento Gli Italiani in Dachau stampato subito dopo la Liberazione, il 26 maggio 1945, esattamente 65 anni fa

del campo: Gli italiani in Dachau: “Ora la lunga, spaventosa tragedia è giunta all’epilogo: l’incubo è dissolto. E ne usciamo storditi, quasi increduli; ancora ne abbiamo l’orrore negli occhi, le tracce nelle carni. Fra poco ritorneremo… I valori morali sono ritrovati, abbiamo perduto tutto, ma abbiamo ritrovato la cosa più importante: siamo uomini”. Il numero dei prigionieri passati da Dachau, secondo le ricostruzioni, è impressionante: più di 206.000 (di cui 10.000 italiani), il numero dei morti è di 30.000. Il 29 aprile 1945 gli americani liberarono il campo e contarono 67.665 prigionieri. Gli italiani erano 3.388. Giuliana Scardino guliana@alambicco.com

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