Medioevo n. 310, Novembre 2022

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MEDIOEVO n. 310 NOVEMBRE 2022

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 3 NOVEMBRE 2022



SOMMARIO

Novembre 2022 ANTEPRIMA

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AMORI MEDIEVALI La (talentuosa) figlia dell’astrologo di Federico Canaccini

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MUSEI Il bello della copia

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MOSTRE Cluny: ecco i «nuovi arrivati»

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE MOSTRE Cordova L’età del cambiamento di Elena Percivaldi

Dossier

VIVERE AL TEMPO DEL DECAMERON/11 Una vita da conquistare di Corrado Occhipinti Confalonieri 28

28

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LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Piemonte

Un tesoro «alla romana» di Chiara Parente

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COSTUME E SOCIETÀ LA MAGIA Non per ignoranza, né per oscurità... di Alessandro Bedini

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI «Dove con salsicce le vigne son legate» di Sergio G. Grasso 102 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Una notte d’inverno un cavaliere... di Paolo Pinti 108 LIBRI Lo Scaffale

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BRESCIA «Leonessa d’Italia»

testi di Cristina Ferrari, Matteo Ferrari e Giuliano Milani

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MEDIOEVO n. 310 NOVEMBRE 2022

MEDIOEVO

IN EDICOLA IL 3 NOVEMBRE 2022

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Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Cristina Ferrari è archeologa. Matteo Ferrari è ricercatore a contratto all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Giuliano Milani è professore di storia medievale all’Université Gustave Eiffel, Champs-surMarne. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Paolo Pinti è studioso di oplologia.

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MEDIOEVO Anno XXVI, n. 310 - novembre 2022 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa Fondazione Brescia Musei: copertina (e p. 79) e pp. 65, 66-67, 72-75, 78, 80-85, 88, 92-93 – Doc. red.: pp. 5, 44/45, 46, 48-51, 53, 56-61, 69, 70-71, 90, 102/103, 106 – Cortesia Opera Laboratori-Ufficio Stampa Firenze Musei: Guido Cozzi: pp. 6-9 – Cortesia RMN-Grand Palais (Musée de Cluny-musée national du Moyen Âge): Michel Urtado: pp. 10, 12 (sinistra), 13 (destra), 14; Mathieu Rabeau: pp. 12 (destra), 13 (sinistra) – Shutterstock: pp. 28/29, 76/77, 86/87, 90/91 – Cortesia comitato organizzatore della mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo entre Constantino y Justiniano», Cordova: p. 29 – Mondadori Portfolio: p. 108; Electa/Remo Baldazzi: p. 47; Album/Collection J. Vigne/Kharbine Tapabor: p. 52; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 54/55; Mithra Index/Heritage Images: p. 62; AKG Images: pp. 68/69, 111; Electa/Antonio Quattrone: p. 105 – Cortesia Ufficio Stampa Ente Turismo Langhe Monferrato Roero: pp. 94-95, 100 – Chiara Parente: pp. 96/97, 98-99 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 104 – National Gallery of Art, Washington: p. 105 – Cortesia dell’autore: p. 110 – Cippigraphix: cartine alle pp. 30/31, 68 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 97. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina Brescia. L’oratorio di S. Maria in Solario, oggi inserito nel percorso espositivo del Museo di Santa Giulia.

Prossimamente roma

Il volto perduto (V-XIV secolo)

medioevo nascosto

dossier

I tesori di Palazzo Davanzati

Eleonora di Castiglia Una regina d’Inghilterra


amori medievali di Federico Canaccini

La (talentuosa) figlia dell’astrologo

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a poetessa francese Christine de Pizan nacque in realtà a Venezia, nel 1365, e, battezzata Cristina, fu detta da Pizzano per alcuni terreni posseduti in quella località del Bolognese dal padre, Tommaso di Benvenuto. Questi, terminati gli studi a Bologna, ebbe una carriera di tutto rispetto: fu docente di astrologia, per poi passare quale Consigliere al servizio della Serenissima, e poi addirittura in Francia per offrire le sue arti a Carlo V. Nel 1369, a soli quattro anni, Cristina si trasferí dunque assieme alla famiglia a Parigi, dove trascorse l’infanzia tra gli agi di corte, ma anche immersa nella cultura letteraria che il padre le volle garantire. Divenuta adolescente, Cristina ha l’età giusta per convolare a nozze. Grazie all’ascendente che Tommaso esercitava sul re, potè scegliere fra numerosi pretendenti: alla fine preferí Ètienne Castel, un giovane della Piccardia, non particolarmente ricco, ma il cui padre era legato alla famiglia reale. Quando le nozze furono celebrate, agli inizi del 1380, tra i due correva una decina d’anni: Ètienne ne aveva infatti ventiquattro. Il giovane fu subito investito dell’ufficio di notaio e segretario regio e per alcuni anni, come ricorderà Cristina, il loro fu un matrimonio felice, agiato e pieno di soddisfazioni. Tommaso di Benvenuto aveva avuto una carriera formidabile e la sua famiglia, in particolare Cristina e il suo sposo, godettero di quel prestigio, di quella fama e di quel benessere. I due ebbero tre figli, che crebbero a contatto con Miniatura raffigurante la Ragione, la Rettitudine e la Giustizia che appaiono in sogno a Christine de Pizan, che si è addormentata nel suo studio, da un’edizione del Livre de la Cité des Dames della stessa Pizan illustrata dal Maestro di Margherita di York. 1470-1480 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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la nobiltà della Francia del tempo. Ma, cosí come Cristina intitolerà una sua opera, Livre de la mutacione de Fortune, la fortuna gira: il 16 settembre 1380, Carlo V muore a Beauté-sur-Marne, colpito da una grave malattia e da allora comincia il rapido declino della famiglia dell’astrologo e consigliere del re. Con l’elezione di Carlo VI, ebbe inizio anche una campagna contro la magia e l’astrologia in un clima, quello a cavallo tra Tre e Quattrocento, di crescente sospetto e intolleranza. Nel giro di cinque anni le entrate di Tommaso scemano fino a cessare del tutto; poi, nel 1387, il padre di Cristina muore. Tocca a Ètienne prendere le redini della famiglia in un momento particolarmente difficile: ma la sorte sembra accanirsi sulla coppia. Nel 1390, dopo solo dieci anni di matrimonio, Ètienne viene stroncato da un’epidemia mentre accompagna il re a Beauvais. Orfana di padre e ora anche vedova, a venticinque anni Cristina si trovò a gestire i beni famigliari, probabilmente male amministrati dal padre negli ultimi anni. Mentre i suoi due fratelli minori decisero di rientrare in Italia, Cristina dovette fronteggiare innumerevoli processi volti a privarla delle sue sostanze. Fu allora che, forte dell’educazione ricevuta, mise a frutto la sua cultura: si affermò come la prima scrittrice di professione della letteratura francese, cimentandosi in poesia lirica, ballate, rondeau, in cui racconta amori e esperienze personali. È sopratutto da queste poesie che abbiamo conosciuto il dolore della vedovanza di Cristina, l’amore sincero per il marito, le innumerevoli difficoltà affrontate. La strategia ebbe successo e Cristina riuscí a garantire a sé e ai suoi figli una condizione di grande agio, invitata dai potenti del tempo, dal conestabile di Francia al conte di Salisbury, dal re d’Inghilterra al duca di Borgogna, da Gian Galeazzo Visconti a Luigi d’Orléans.

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ANTE PRIMA

Il bello della copia

MUSEI • La Galleria

dell’Accademia di Firenze apre le porte della Gipsoteca, all’indomani del suo completo rinnovamento. E propone un dialogo affascinante fra le opere replicate nel gesso e dipinti medievali e rinascimentali

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orna a farsi ammirare, in una veste totalmente rinnovata, la Gipsoteca della Galleria dell’Accademia di Firenze. Dopo due anni e mezzo di lavori, la riapertura ha segnato la chiusura dei grandi cantieri avviati nel 2020, e all’evento si è voluto dare il titolo di «Beyond the David» («Oltre il David»), a sottolineare che il museo non è solo scrigno della scultura michelangiolesca, ma è testimone di importanti collezioni legate all’arte fiorentina, che tornano a emergere, rubando la scena persino al David. Il monumentale Salone dell’Ottocento, già sede della corsia delle donne dell’antico ospedale di San Matteo, poi incorporato nell’Accademia di Belle Arti,

raccoglie la collezione dei gessi, oltre 400, tra busti, bassorilievi, sculture monumentali, modelli originali in gran parte di Lorenzo Bartolini, uno dei piú importanti scultori italiani del XIX secolo. La collezione fu acquisita dallo Stato italiano dopo la morte dell’artista e qui trasferita in seguito all’alluvione del 1966. Un luogo di grande fascino che ricrea idealmente lo studio di Bartolini, arricchito da una raccolta di dipinti di maestri ottocenteschi che hanno studiato o insegnato all’Accademia di Belle Arti.

Azzurro polvere per le pareti Gli interventi sono stati di ordine statico-strutturale, relativi all’impianto di climatizzazione, novembre

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Sulle due pagine immagini della Gipsoteca e della Sala del Due e Trecento della Galleria dell’Accademia di Firenze. all’illuminazione e all’impianto elettrico. Per motivi statici e di stabilità climatica, sono state chiuse varie finestre, consentendo al nuovo allestimento, con le pareti tinteggiate di color «gipsoteca», azzurro polvere, di recuperare un ampio spazio espositivo, arricchendo la Gipsoteca anche di quei modelli in gesso che erano sinora conservati negli uffici della Galleria. Le mensole, rinnovate e ampliate, accolgono i busti-ritratto, che per la prima volta hanno potuto essere messi in sicurezza grazie e un sistema d’ancoraggio sicuro e non invasivo. I fragili modelli in gesso, nel corso dei lavori di ristrutturazione, sono stati sottoposti a un attento

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ANTE PRIMA

intervento di revisione conservativa e di spolveratura. Tutte le opere sono state soggette a un’accurata campagna fotografica. I grandi cantieri sono iniziati nel 2016, includendo le fasi di studio e preparazione, generando documentazioni e planimetrie che non c’erano. Era necessario:

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mettere a norma l’impianto di sicurezza; rinnovare l’impiantistica; il restauro architettonico-strutturale della Gipsoteca; il consolidamento o la sostituzione delle capriate lignee settecentesche della sala del Colosso, trasandate; intervenire sugli impianti di areazione e di climatizzazione, mancanti in alcune

sale o vecchi di 40 anni; fornire un’adeguata illuminazione. I lavori si sono sviluppati su 3000 metri quadri del museo. Sono stati sostituiti o sanificati 750 metri di canali di areazione e rinnovati 130 metri di canalizzazioni. Per la prima volta, adesso, il museo ha un impianto di climatizzazione novembre

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In alto uno scorcio dell’ambiente della Galleria dell’Accademia nel quale domina il David, scolpito da Michelangelo Buonarroti fra il 1501 e il 1504. A sinistra un’altra immagine della rinnovata Gipsoteca.

funzionante in ogni sala con nuove luci LED di ultima generazione che valorizzano le opere esposte e contribuiscono all’efficientamento energetico. A seconda delle necessità, sono stati fatti degli interventi su tutte le opere del museo, sono state movimentate, protette, imballate,

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spostate, spolverate, riviste o altro. E con l’occasione sono state realizzate campagne fotografiche approfondite, conservative o di digitalizzazione, su tutte le collezioni. Sono stati ripensati percorsi e allestimenti.

Pittura fiorentina Dalla sala del Colosso, che apre il percorso espositivo con il suo blu Accademia, caratterizzata, al centro, dall’imponente Ratto delle Sabine, capolavoro del Giambologna, intorno al quale ruota la preziosa collezione della pittura fiorentina del Quattrocento e del primo Cinquecento, all’inedita sala dedicata al Quattrocento, in cui trovano una perfetta collocazione capolavori come il cosiddetto Cassone Adimari dello Scheggia o la Tebaide di Paolo Uccello, finalmente leggibili in tutti i loro meravigliosi dettagli. Dalla Galleria dei Prigioni alla Tribuna del David, fulcro del museo, con la maggiore raccolta di opere michelangiolesche che la nuova illuminazione esalta, rendendo visibile ogni particolare, ogni segno del «non finito».

Opere che si confrontano con le grandi pale d’altare del XVI e il primo XVII secolo, che testimoniano l’influenza di Michelangelo sui suoi conterranei nella ricerca della nuova spiritualità della Controriforma. E infine le sale del Duecento e Trecento, dove i fondi oro risplendono di una luminosità mai percepita prima sulle pareti tinteggiate di un verde «Giotto». Oggi la Galleria dell’Accademia di Firenze ha cambiato volto, ha una nuova forte identità. (red.) DOVE E QUANDO

Galleria dell’Accademia di Firenze Firenze, via Ricasoli 58-60 Orario tutti i giorni, 8,15-18,50; chiuso il lunedí, il 1° gennaio e il 25 dicembre Info tel. 055 0987100; e-mail: ga-afi@cultura.gov.it; www.galleriaaccademiafirenze.it; Instagram: @galleriaaccademiafirenze; Facebook: @galleriadellaaccademia

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ANTE PRIMA

Cluny: ecco i «nuovi arrivati» MOSTRE • Il Museo

Nazionale del Medioevo di Parigi presenta le acquisizioni degli ultimi sei anni. Opere di grande pregio, a testimonianza di una gestione dell’istituto che non riposa sugli allori, ma punta al costante arricchimento delle collezioni

A destra valva in avorio di una scatola per specchio. 1320-1340.

L’

incremento della propria raccolta è uno degli obiettivi da sempre perseguiti dal Museo Nazionale del Medioevo di Parigi e nel corso degli ultimi sei anni ben 43 opere – fra cui dipinti, sculture, miniature e manufatti tessili – sono entrate a far parte di un patrimonio che, a oggi, si compone di oltre 24 000 opere, frutto dell’accorpamento dei fondi Du Sommerard e dei materiali in origine custoditi dal lapidario della città di Parigi (vedi «Medioevo» n. 305, giugno 2022; anche on line su issuu.com). Un’ampia selezione di questi beni – 33 su 43 – viene ora esposta, nella maggior parte dei casi per la prima volta, dopo essere stata studiata, catalogata e, ove necessario, sottoposta a restauro. Al termine della mostra temporanea, alcune opere verranno esposte in permanenza, mentre altre, soprattutto per motivi di (segue a p. 12)

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Madonna con Bambino, dipinto su tavola di Jean Hey, detto Maestro di Moulins. 1490-1495. L’opera, esempio pregevole della pittura tardo-medievale, è una delle nuove acquisizioni piú importanti del Museo di Cluny. novembre

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ANTE PRIMA A destra Natività, miniatura di Jean Colombe. 1475-1485 circa. In basso scultura raffigurante Gesú Bambino benedicente. 1500 circa.

conservazione, saranno custodite nei depositi, da dove potranno tuttavia uscire in occasione di nuove mostre oppure per consentire la rotazione con altri oggetti.

Scelte meditate Le nuove acquisizioni sono frutto di donazioni e di acquisti e questi ultimi, in particolare, sono dettati dalla volontà dell’istituzione parigina di consolidare il proprio ruolo di riferimento nel campo dell’arte medievale, incrementando

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le raccolte di arte dell’Alto Medioevo, scultura romanica e gotica, oreficeria e smalti di Limoges, vetrate, tessuti ricamati, miniature, pittura francese del XV secolo, arazzi, oggetti d’uso quotidiano. Al tempo stesso, Cluny ambisce, attraverso pezzi di particolare pregio, ad ampliare il proprio orizzonte geografico, includendo l’Europa del Nord, la Spagna, l’Italia e le regioni orientali. Con altrettanta attenzione si guarda alla produzione artistica fiorita novembre

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intorno al 1500, periodo nel quale venne edificato il nucleo originario del complesso in cui il museo ha sede, poiché esso rappresenta un cruciale momento di passaggio fra Medioevo e Rinascimento. A questo proposito, peraltro, è stato da tempo avviato un fruttuoso dialogo con il museo del Rinascimento di Ecouen. Infine, la politica delle nuove acquisizioni, che anche mira ad arricchire la documentazione sulla storia del Museo e dei suoi allestimenti.

In alto mattonella in terracotta decorata con l’immagine di un cervo. 1300 circa. A destra scultura raffigurante san Giacomo Minore. 1500 circa.

Acquisti e donazioni Nel percorso espositivo i «nuovi arrivati» sono distribuiti secondo le modalità con le quali sono entrati a fare parte della raccolta museale e l’esordio è affidato ai pezzi acquistati. È il caso di un Cristo crocifisso in rame smaltato, databile al XIII secolo, prodotto a Limoges. Si tratta di un manufatto eccezionale, per due motivi: il primo

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ANTE PRIMA è la tipologia della veste che Gesú indossa, il secondo è la presenza, sul retro, di un’iscrizione che permette di ricostruire la provenienza dell’opera fin dall’Ottocento. Una splendida Madonna con Bambino, dipinta su legno da Jean Hey (noto come Maestro di Moulins), è giunta a Cluny con il sostegno di un donatore che ha preferito mantenere l’anonimato. Grazie a lui, il museo ha potuto dotarsi di una delle migliori espressioni della pittura tardo-medievale a oggi note.

Collezionisti e mecenati Per ciò che riguarda i manufatti tessili, molto si deve ai collezionisti Josiane e Daniel Fruman e se ne ha prova concreta nella seconda sezione della mostra, nella quale sono riunite casule in velluto, stoffe ricamate in seta e oro a altri pregiati manufatti. Donazioni importanti hanno poi contribuito a rendere ancor piú completa la documentazione della raccolta di sculture, cosí come il repertorio degli arazzi si è arricchito di un frammento dell’opera originariamente custodita nella cattedrale di Beauvais e raffigurante

In alto paramento ricamato con l’immagine di santa Caterina. Fine del XV sec. In basso figurina in rame smaltato raffigurante un cavaliere all’assalto. 1300 circa.

scene della vita di san Pietro. Si può ancora ricordare un caso particolare, cioè quello di una figurina in rame smaltato che mostra un cavaliere lanciato all’assalto: l’opera era stata individuata fra gli oggetti offerti in una vendita all’asta, ma era stata successivamente sequestrata dall’autorità giudiziaria per accertarne la provenienza. Risolta positivamente l’indagine, il cavaliere si può ora ammirare nelle vetrine del museo. (red.) DOVE E QUANDO

«Acquisizioni recenti: 2017-2022» Parigi, Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo Orario ma-do, 9,30-18,15; chiuso il lunedí, il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio Info tel. +33 01 53737800; www.musee-moyenage.fr; Facebook: @museecluny; Instagram: museecluny; Twitter: @museecluny

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AGENDA DEL MESE

Mostre ASCOLI PICENO SULLE ORME DI SAN MICHELE ARCANGELO. PELLEGRINI E DEVOTI NELL’ARTE Pinacoteca Civica fino al 6 novembre

Approda ad Ascoli Piceno la mostra itinerante voluta per approfondire il tema del pellegrinaggio attraverso opere che spaziano dal Medioevo al Seicento, seguendo un percorso all’insegna dei luoghi di culto di san Michele Arcangelo. I pellegrini e i devoti che in gran numero percorrevano gli itinerari di fede europei sono stati piú volte rappresentati dagli artisti che ne hanno messo in evidenza le particolarità dell’abbigliamento, con i segni caratteristici dell’avvenuto pellegrinaggio che consentiva di riconoscerli. I santi invocati durante il percorso, come san Rocco e san Giacomo Maggiore, venivano dunque effigiati dagli artisti con le vesti tipiche dei pellegrini al pari dei santi che nel Medioevo avevano portato la parola di Cristo in luoghi

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a cura di Stefano Mammini

lontani e pericolosi, come san Giacomo della Marca raffigurato sempre con il bordone. La mostra vuole rendere omaggio a questo particolare legame e attingendo a un ricco patrimonio iconografico si è selezionato un nucleo di opere, in un percorso tematico che mette in risalto alcuni elementi particolari, come l’abito caratteristico dei pellegrini e le insegne esibite per certificare di aver intrapreso il viaggio verso i remoti luoghi santi. Fra le opere giunte ad Ascoli si segnala la tela del seicentista Francesco Cozza, recentemente rinvenuta a Roma presso un convento dove era stata nascosta sotto un dipinto moderno affinché le monache non fossero turbate dalla visione del demonio nudo sconfitto da un atletico san Michele Arcangelo. info tel. 0736 298213 oppure 333 3276129; e-mail: info@ascolimusei.it SIENA ARTE SENESE. DAL TARDO MEDIOEVO AL NOVECENTO NELLE COLLEZIONI DEL MONTE DEI

PASCHI DI SIENA Santa Maria della Scala fino all’8 gennaio 2023

Raccontare la storia dell’arte senese dal tardo Medioevo al Novecento grazie a capolavori conservati nelle collezioni della Banca Monte dei Paschi di Siena: è questo l’obiettivo della mostra allestita nel Complesso Museale Santa Maria della Scala. Opere di maestri del calibro di Pietro Lorenzetti, Tino di Camaino, Stefano di Giovanni detto il

Sassetta, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Domenico Beccafumi, Bernardino Mei, Cesare Maccari e Fulvio Corsini permettono di ripercorrere il secolare amore di Siena per le arti figurative, attraverso alcune grandi personalità artistiche capaci di affermarsi in patria e non solo, dando conto dello straordinario valore delle collezioni della Banca Monte dei Paschi di Siena, indissolubilmente legate alla città, alla sua memoria e ai suoi valori. Le collezioni sono costituite da un numero impressionante di dipinti, sculture e arredi, per lo piú di scuola senese dal XIV al XIX secolo, non senza interessanti incursioni sul Novecento italiano. Esse sono il frutto di una prolungata sedimentazione storica, avviata con vere e proprie committenze da parte di una pubblica istituzione fondata nel 1472, e proseguita in tempi piú vicini a noi con importanti acquisizioni e con l’allestimento, negli anni Ottanta del secolo scorso, di veri e propri spazi museali nell’antica chiesa di S. Donato, all’interno della sede storica di novembre

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piazza Salimbeni. La raccolta è stata peraltro incrementata grazie a nuclei di opere provenienti dalle banche incorporate nel corso degli anni e, particolarmente, con l’acquisizione di una parte della celebre Collezione Chigi Saracini di Siena: una delle piú importanti collezioni private italiane, che ancora oggi si conserva nel palazzo di via di Città. Di tutto ciò la mostra offre una ponderata selezione, focalizzata sulle maggiori testimonianze della scuola senese, celebre in tutto il mondo. info tel. 0577 286300; e-mail: booking@operalaboratori.com; www.verniceprogetti.it MANTOVA PISANELLO. IL TUMULTO DEL MONDO Palazzo Ducale fino all’8 gennaio 2023

La mostra è pensata in occasione dei 50 anni dall’esposizione curata da Giovanni Paccagnini, con la quale fu presentata una delle piú importanti acquisizioni nel campo della storia dell’arte nel XX secolo: la scoperta nelle sale di Palazzo Ducale di Mantova del ciclo decorativo di tema cavalleresco dipinto a tecnica mista intorno al 14301433 da Antonio Pisano, detto il Pisanello. L’esposizione fa parte di un programma di ampia visione e lungo periodo per la valorizzazione dell’opera e della Sala dedicata all’artista, insieme all’attigua Sala dei Papi. Verrà infatti ripensato in maniera permanente l’allestimento dell’intero ambiente per la migliore fruizione di un ritrovamento eccezionale del patrimonio artistico italiano. Il progetto prevede di restituire una leggibilità completa delle pitture, strappate e ricollocate

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oltre cinquant’anni fa, grazie a un nuovo sistema di illuminazione e a una pedana sopraelevata che per la prima volta pone il visitatore a distanza ravvicinata dalle pareti (oggi il pavimento si trova a una quota piú bassa di ben 110 cm di quando l’opera fu realizzata). Circa 30 opere, tra cui prestiti internazionali, quali i capolavori del Pisanello la Madonna col Bambino e i santi Antonio e Giorgio della National Gallery di Londra, per la prima volta in Italia dalla sua «partenza» nel 1862, e i disegni del Museo del Louvre di Parigi; ma anche l’Adorazione dei Magi di Stefano da Verona dalla Pinacoteca di Brera di Milano e, non da ultimo, la preziosa Madonna della Quaglia, una tavola giovanile di Pisanello, considerata tra le opere simbolo del Museo di Castelvecchio di Verona, disponibile anche in virtú di un accordo di valorizzazione in essere tra i due musei sui rapporti artistici tra Verona e Mantova. info tel. 0376 352100; https:// mantovaducale.beniculturali.it; Call Center: tel. 041 2411897; www.ducalemantova.org

MILANO LE PIETÀ DI MICHELANGELO. TRE CALCHI STORICI PER LA SALA DELLE CARIATIDI Palazzo Reale. Sala delle Cariatidi fino all’8 gennaio 2023

L’esposizione consente di apprezzare l’arte e l’inventiva michelangiolesca attraverso il confronto di tre calchi ottonovecenteschi, in ideale continuità con la mostra appena conclusa con grande successo al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Le tre Pietà di Michelangelo,

nella forma dei loro calchi in gesso, giungono ora a Milano, dove sono eccezionalmente riunite, in uno spettacolare ed emozionante allestimento, nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. Il calco della Pietà di S. Pietro della Città del Vaticano fu realizzato nel 1975 all’interno del Laboratorio Calchi e Gessi dei Musei Vaticani da Ulderico Grispigni; l’occasione della sua realizzazione giunse in un momento drammatico per la Pietà ovvero l’atto vandalico del 1972 ai danni della scultura, che resero necessaria la preparazione di un nuovo calco. Il calco della Pietà di S. Maria del Fiore a Firenze, detta Pietà Bandini, conservato nella collezione della Gipsoteca fiorentina dell’Istituto d’Arte di Porta Romana, risale al 1882 circa e si deve al formatore fiorentino Oronzo Lelli. Il calco della Pietà Rondanini fu commissionato nel 1953 al formatore milanese Cesare Gariboldi, allo scopo di determinare al meglio e in totale sicurezza, durante le prove di allestimento della statua in marmo, l’ubicazione ideale per la scultura, conservata dal 1952 nel Castello Sforzesco. Oggi esposto in mostra dopo una accurata pulitura, è conservato nei depositi del Museo d’Arte Antica. info www.palazzorealemilano.it NEW YORK I TUDOR. ARTE E REGALITÀ NELL’INGHILTERRA RINASCIMENTALE The Metropolitan Museum of Art fino all’8 gennaio 2023

Dall’ascesa al trono di Enrico VII nel 1485 alla morte, nel 1603, di sua nipote, la regina Elisabetta I, la casata dei Tudor fece delle arti uno strumento di

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AGENDA DEL MESE

legittimazione e celebrazione del proprio potere. Una stagione rievocata dalla rassegna allestita dal Metropolitan di New York, che si avvale di una ricca selezione di opere, oltre un centinaio, che comprendono dipinti, arazzi, sculture, armature e altri oggetti d’arte, provenienti dalle collezioni del museo stesso e frutto di importanti prestiti. All’epoca dei Tudor, l’Inghilterra accolse una folta comunità internazionale di artisti e mercanti e le corti dei regnanti che si succedettero in quegli anni furono pienamente cosmpolite, avvalendosi dell’operato di scultori fiorentini, pittori tedeschi, arazzieri fiamminghi e dei migliori armaioli, orefici e stampatori: ingegni e talenti che contribuirono all’emergere di un autentico e originale stile inglese. In mostra si possono ammirare le opere realizzate durante il regno dei cinque sovrani Tudor: Enrico VII, Enrico VIII, Edoardo VI, Maria I ed Elisabetta I. E altrettante sono le sezioni tematiche in cui si articola il percorso espositivo, che concorrono a definire l’immagine assunta dalle residenze dei Tudor, nelle quali

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la vastità e lo sfarzo dei saloni e delle gallerie si alternavano all’intimità delle alcove. info www.metmuseum.org MILANO L’ORANTE (…NEL TUO NOME ALZERÒ LE MIE MANI…) Complesso monumentale di S. Eustorgio fino al 15 gennaio 2023

nell’atteggiamento dell’orante. Oltre a questo reperto, a ispirare il progetto espositivo è il versetto del Salmo 63 «Cosí ti benedirò per tutta la vita: nel tuo nome alzerò le mie mani», e l’intento è quindi quello di raccontare il gesto dell’orante nell’atto di alzare le mani verso il cielo, presente nell’iconografia paleocristiana cosí come oggi nel momento della recita del Padre Nostro. La mostra si divide in sei sezioni che, attraverso le immagini, portano all’attenzione del pubblico la tipologia del gesto, analizzandola non solo da un punto di vista storicoarcheologico, ma anche e soprattutto nel significato profondo del rapporto del devoto con Dio. info www.museosanteustorgio.it; Facebook e Instagram: museodisanteustorgio

TREVISO PARIS BORDON 1500-1571. PITTORE DIVINO Museo Santa Caterina fino al 15 gennaio 2023

Treviso dedica al suo piú grande pittore, Paris Bordon (1500-1571), definito dallo storiografo veneziano Marco Boschini, il «Divin Pitor» – termine che ha usato solo per Raffaello e Tiziano – la piú ampia rassegna monografica mai realizzata finora con opere eccezionali, molte delle quali mai esposte in Italia. L’esposizione racconta la creatività e la qualità straordinaria dell’opera dell’allievo di Tiziano, riunendo i suoi capolavori provenienti dai piú prestigiosi musei del mondo. È Giorgio Vasari a considerare Paris Bordon l’unico allievo di Tiziano meritevole di attenzione, tanto da dedicargli una lunga

L’esposizione prende spunto dal frammento di un’epigrafe funeraria paleocristiana, rinvenuta nell’area del cimitero nel Complesso Monumentale di S. Eustorgio, raffigurante un defunto, probabilmente un soldato o un funzionario della burocrazia imperiale, con le braccia allargate e innalzate

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MEDIOEVO


appendice nella biografia del Vecellio nell’edizione del 1568 delle Vite. Non esistono opere e documenti capaci di fare chiarezza sulle date del suo apprendistato, ma di certo sappiamo che nel 21 giugno 1518 Paris è indicato come «pictor habitator in Venetiis in contrata Sancti Iuliani». Il giovane pittore non tarda a dimostrare una certa emancipazione dal maestro, volgendo il suo interesse alle nuove tendenze introdotte da Palma il Vecchio e dal Pordenone. La mostra intende riscoprire proprio la varietà, l’originalità e la ricchezza della produzione del genio trevigiano riunendo insieme i suoi sensuali ritratti femminili, le rappresentazioni mitologiche, le scene sacre delle grandi pale d’altare e le piccole opere destinate alla devozione privata. A coronamento della visita in mostra viene proposto un itinerario di confronti e rimandi, curato dal direttore dei musei cittadini, Fabrizio Malachin, per riscoprire capolavori della Pinacoteca del Museo Santa Caterina o disseminati all’interno del territorio trevigiano e veneto. info tel. 0444 326418; e-mail: mostraparisbordon@gmail.com; www.mostraparisbordon.it PARIGI TOLOSA 1300-1400. LA FIORITURA DI UN GOTICO MERIDIONALE Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo fino al 22 gennaio 2023

Il nuovo progetto espositivo proposto dal Museo Nazionale del Medioevo si avvale delle acquisizioni scaturite dagli studi piú recenti per tracciare un

MEDIOEVO

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quadro inedito della produzione artistica fiorita a Tolosa nel XIV secolo. A quell’epoca la città era fra le piú importanti di Francia, con Parigi, Lione, Orléans e Rouen e conobbe una vera e propria età dell’oro soprattutto nella prima metà del Trecento. Inglobata nel regno di Francia nel 1271, Tolosa seppe comunque conservare il suo carattere originale e si rese protagonista di una significativa crescita economica, traendo vantaggio dall’insediamento dei papi ad Avignone, per via degli stretti legami dei pontefici francesi con l’Università tolosana e con gli Ordini mendicanti insediati in città. Del tutto dà conto la mostra, che nella prima parte documenta l’organizzazione di Tolosa e la vita quotidiana dei suoi abitanti, mentre nella seconda riunisce una serie di pregevoli opere d’arte, che fanno da contorno a quattro

statue provenienti dalla scomparsa cappella di Rieux. info www.musee-moyenage.fr

ritmano tuttora il calendario delle festività cittadine. info www.bresciamusei.com

BRESCIA

ROMA

LA CITTÀ DEL LEONE. BRESCIA NELL’ETÀ DEI COMUNI E DELLE SIGNORIE Museo di Santa Giulia fino al 29 gennaio 2023

ROMA MEDIEVALE. IL VOLTO PERDUTO DELLA CITTÀ Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 5 febbraio 2023

Forte di una selezione di 120 opere, la mostra indaga per la prima volta su una fase storica fondamentale per la costituzione dell’identità della città e del suo territorio, prendendo in esame un arco cronologico che parte dalla seconda metà del XII secolo, epoca in cui compaiono le prime tracce delle istituzioni civiche comunali, al 1426, anno della dedizione a Brescia alla Repubblica di Venezia. Si tratta di un’epoca segnata da importantissime trasformazioni, in cui la città crea la sua forma e la sua identità dal punto di vista architettonico, con il baricentro nella piazza, su cui affacciano il palazzo comunale e le cattedrali, e anche sul versante politico, affermando il suo primato nel territorio. Esplorando l’origine e l’evoluzione di quegli elementi che ne hanno forgiato il carattere viene indagata la nascita di alcuni simboli civici arrivati fino ai nostri giorni: dallo stemma del leone rampante, vero emblema identitario urbano reso celebre da Carducci che lo associò all’eroismo della città martire delle Dieci giornate, fino ai culti civici dei santi Faustino e Giovita, alle Sante Croci e alla figura della Vergine che ha una posizione centrale nella devozione civica di Brescia medievale, simboli che

Riscoprire il volto perduto della Roma fra VI e XIV secolo e il suo ruolo cardine nell’Europa cristiana e medievale sia per i semplici pellegrini sia per regnanti e imperatori. Questo l’obiettivo della nuova mostra allestita negli spazi del Museo

di Roma in Palazzo Braschi. Articolato in 9 sezioni, il percorso espositivo nasce con lo scopo di far conoscere aspetti poco noti del patrimonio dell’Urbe, attraverso una selezione di oltre 160 opere tra mosaici, affreschi e opere mobili, provenienti prevalentemente da raccolte e collezioni pubbliche romane e da luoghi di culto, oltre che da prestigiose istituzioni museali come i Musei Vaticani. Parte,

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AGENDA DEL MESE infatti, dalla scoperta della città medievale attraverso i suoi luoghi piú iconici, quali basiliche e palazzi, ma anche dal contesto ambientale, oggi profondamente modificato, come il corso del Tevere con porti e ponti dove si svolgevano vita e attività urbane. L’immersione nella realtà del Medioevo romano si approfondisce poi esaminando le ricche committenze di papi e cardinali, l’attività di artisti e botteghe, il fascino della città come imprescindibile méta di pellegrinaggio anche per re e imperatori. Ricchi apparati didattici illustreranno in mostra i molteplici volti dell’indiscussa capitale dell’Europa medievale. info tel. 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museodiroma.it

Settecento. Fu ritrovato infatti sulla tavola un numero d’inventario, il 118, che si scoprí corrispondere con quello della Galleria di Scipione Borghese al 1693. Le analisi scientifiche hanno poi confermato l’autografia raffaellesca e un restauro ha restituito la qualità pittorica dell’opera, fino ad allora nascosta sotto strati di vernice ingiallita. info www.pinacotecabologna. beniculturali.it MACERATA CARLO CRIVELLI. LE RELAZIONI MERAVIGLIOSE Palazzo Buonaccorsi e altre sedi fino al 12 febbraio 2023

Il progetto espositivo dedicato a Carlo Crivelli (1430/1435 circa-1495) invita a scoprire le meraviglie della pittura di uno dei maestri del

BOLOGNA GIULIO II E RAFFAELLO. UNA NUOVA STAGIONE DEL RINASCIMENTO A BOLOGNA Pinacoteca Nazionale fino al 5 febbraio 2023

Il Ritratto di Papa Giulio II della Rovere, uno dei capolavori di Raffaello, viene eccezionalmente esposto alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, opera clou della mostra «Giulio II e Raffaello. Una nuova stagione del Rinascimento a Bologna». Giulio II fu il pontefice che assoggettò Bologna allo Stato della Chiesa, cambiando profondamente il corso della storia cittadina e avviando, anche grazie alla presenza di artisti come Bramante e Michelangelo, una nuova stagione del Rinascimento in città. Il Ritratto è un dipinto a olio su tavola, commissionato da papa della Rovere a Raffaello e realizzato a Roma intorno al 1511-1512. Oltre alla versione conservata alla National Gallery di Londra, se

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ne conoscono diverse copie, alcune anonime, altre di importanti artisti come quella attribuita a Tiziano, conservata alla Galleria Palatina di Firenze. Si tratta di esemplari che testimoniano l’interesse per il personaggio effigiato e per il modello interpretativo raffaellesco, che rimane dominante nella ritrattistica dei papi per la gran parte degli artisti nei secoli successivi. Vasari e Lomazzo parlano di un ritratto del papa realizzato da Raffaello presente nella basilica di S. Maria del Popolo a Roma. L’opera, passata nella collezione Borghese nel 1608, era stata in seguito venduta all’imperatore Rodolfo II e da allora se ne erano perse le tracce. Nel 1976 uno studioso della National Gallery di Londra sciolse l’enigma del dipinto, che era stato acquistato nel 1824 dal museo e che si trovava in Inghilterra dalla fine del novembre

MEDIOEVO


Rinascimento, attraverso una terra ricca di storia e arte. Il percorso parte da Macerata, all’interno di Palazzo Buonaccorsi, con 7 dipinti di Crivelli selezionati con l’intento di riportare nel territorio di provenienza alcune opere e prosegue in 8 comuni della Regione Marche (Corridonia, San Ginesio, Sarnano, Monte San Martino, San Severino Marche, Serrapetrona, Belforte del Chienti e Camerino) che conservano lavori dell’artista o a esso fortemente collegati in una serie di, come suggerisce il titolo del progetto, relazioni meravigliose. Pittore inquieto, sperimentatore, pieno di grazia e di genio, Carlo Crivelli è una delle figure piú intriganti del XV secolo. Veneziano di nascita, in seguito a una vicenda giudiziaria in cui fu coinvolto, abbandona la laguna giungendo prima a Zara per poi trasferirsi nelle Marche (dal 1468 al 1495), influenzando in modo definitivo la storia dell’arte di quel territorio e non solo. Ignorato da Giorgio Vasari, sconosciuto per decenni, riscoperto e adorato soprattutto dagli artisti preraffaelliti inglesi, conteso dai collezionisti del mondo, Carlo Crivelli a oggi è una figura indipendente che proietta il suo fascino, fatto di invenzioni sempre diverse, perfezione tecnica e mistero. info www.musei.macerata.it MONZA STREGHERIE. FATTI, SCANDALI E VERITÀ SULLE SOVVERSIVE DELLA STORIA Villa Reale fino al 26 febbraio 2023

La mostra riunisce stampe antiche firmate dai maggiori incisori e artisti degli ultimi due secoli e da straordinari illustratori anonimi dimenticati,

MEDIOEVO

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progetto «100 opere tornano a casa. Dai depositi alle sale dei musei», voluto per promuovere e valorizzare il patrimonio storico-artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei luoghi d’arte statali, mettendo cosí in collegamento musei grandi e piccoli. L’opera giunta a Palazzo Besta, un Ritratto di Carlo V a figura intera armato, è stata realizzata da Tiziano Vecellio e dai suoi collaboratori: databile al 1550 circa, proviene dalle collezioni della Galleria degli Uffizi. È un esempio di «ritratto di Stato» introdotto da Tiziano in luogo del piú

presentando scene di malefici, torture, sabba osceni, crudi episodi di stregoneria ma anche scene luminose di streghe buone, zingare che guariscono bambini dalle malattie e simboli magici nascosti in quadri pastorali. Si tratta di un centinaio di opere, scelte all’interno della collezione Guglielmo Invernizzi. Tra i pezzi della raccolta vi sono alcuni trattati immancabili in un percorso dedicato alla stregoneria, fra i quali spicca il Malleus Maleficiarum, il piú consultato manuale sulla caccia alle streghe, nella pregiata edizione del XVI secolo, nel quale sono indicati caso per caso i

supplizi e le pene da fare soffrire a chi era accusato di stregoneria. E poi ancora un bulino di Albrecht Dürer del 1501 raffigurante La strega a rovescio sul caprone, le xilografie del Maestro del Virgilio di Grüninger del 1502, Il giovane principe impara la magia di Hans Burgmair, del 1515, e La strega e il palafreniere di Hans Baldung Grien del 1544/45. info www.stregherie.it TEGLIO (SONDRIO) CARLO V, DAGLI UFFIZI A PALAZZO BESTA Palazzo Besta fino al 6 aprile 2023

La mostra si inserisce nel

tradizionale ritratto di corte. Il grande ritratto di Carlo V è messo a confronto con l’effigie dello stesso imperatore affrescata nel Salone d’Onore di Palazzo Besta a Teglio e dialoga con

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AGENDA DEL MESE alcuni dei piú illustri personaggi che lo hanno incontrato, come Ludovico Ariosto, Erasmo da Rotterdam, Pietro Aretino; ma anche con i suoi antagonisti politici: Francesco I di Francia, Massimiliano d’Austria, Enrico VIII d’Inghilterra. Tutti, in diverso modo, erano contemporaneamente al centro degli interessi culturali e politici dei Besta, che li vollero presenti sulle pareti del Salone d’Onore. La figura di Carlo V è l’occasione dunque per leggere da uno specifico angolo visuale alcuni dei soggetti e dei temi che legano il Palazzo e la famiglia Besta al territorio e alla storia europea loro contemporanea. info tel. 0342 781208; e-mail: drm-lom.palazzobesta@ beniculturali.it SAINT-GERMAIN-EN-LAYE IL MONDO DI CLODOVEO Musée d’Archéologie nationale fino al 22 maggio 2023

Il Museo d’archeologia nazionale si trasforma in un grande gioco di fuga collettivo, facendo di ciascun

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Appuntamenti CACCAMO (PALERMO) LE GIORNATE MEDIEVALI: UN SALTO NEL PASSATO Castello fino all’11 dicembre

visitatore l’eroe di un’avventura inedita, che ha luogo all’epoca dei Franchi: è questo il sorprendente risultato della mostra attualmente allestita negli spazi del castello di SaintGermain-en-Laye, che propone un approccio decisamente inconsueto al tema affrontato, che è quello dell’età merovingia e del suo primo sovrano, Clodoveo. Il percorso espositivo, ludico e interattivo al tempo stesso, rievoca dunque i tratti distintivi del primo Medioevo, dispensando nozioni di storia e archeologia. Ai visitatori è data la possibilità di vestire i panni di un personaggio vissuto al tempo dei Merovingi e di costruire un proprio «percorso di vita», grazie a un’applicazione web o a libri-gioco. La fruizione delle diverse risorse – giochi, libri, video – è totalmente libera e ciascuno può scegliere la soluzione che preferisce, diventando attore della visita ed eroe della storia che ha confezionato. info www.museearcheologienationale.fr ACQUI TERME (ALESSANDRIA) GOTI A FRASCARO.

ARCHEOLOGIA DI UN VILLAGGIO BARBARICO Museo Archeologico di Acqui Terme fino al 27 maggio 2023

L’esposizione presenta per la prima volta insieme i materiali restituiti dalle indagini archeologiche condotte negli ultimi vent’anni nel tratto di pianura compreso tra la Statale Alessandria-Acqui e il fiume Bormida. Sull’ampio terrazzo fluviale che ha conservato testimonianze di insediamenti pre- protostorici, alcune famiglie gote occuparono un impianto di conduzione agricola di epoca romana imperiale, al quale diedero nuovo impulso, fondando un villaggio di capanne in legno e seppellendo i propri defunti in un cimitero posto a breve distanza dall’abitato. I Goti di Frascaro vissero separati, ma non isolati, dalla popolazione romana per quasi un secolo (dalla fine del V al terzo venticinquennio del VI secolo), mantenendo tradizioni tipiche della cultura barbarica. info tel. 0144 57555; e-mail: info@acquimusei.it: www.acquimusei.it

Curata dalla Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali-Sezione Regione Siciliana (SIPBC Sicilia), con la collaborazione del Comune di Caccamo e il patrocinio gratuito della Federazione Storica Siciliana, l’iniziativa propone rievocazioni storiche che si ripetono ogni mese. Fino a dicembre, negli spazi del Castello medievale, si può assistere a una rievocazione intervallata da momenti di narrazione e spiegazione degli ambienti della fortezza. Il programma inizia alle 10,00 nella Sala Prades del Castello, per poi concludersi al baglio centrale. I visitatori saranno

accompagnati alla visione commentata delle sale del piano nobile del maniero da figuranti in abito d’epoca. Questo il calendario delle giornate con le quali la rassegna giunge al termine: domenica 20 novembre; domenica 11 dicembre. info tel. 091 8149744, cell. 339 3721811 o 320 0486901; e-Mail: sipbc.regionesiciliana@gmail.com, sicilia@sipbc.it novembre

MEDIOEVO





ANTE PRIMA

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fra gli attori principali degli eventi che scandiscono i secoli dell’Alto Medioevo europeo e non soltanto di quello scandinavo. Alla loro parabola è dedicato il nuovo Dossier di «Medioevo», nel quale Tommaso Indelli ripercorre l’intera vicenda di questa popolazione e sottolinea l’eredità che essa ha lasciato, permettendoci di scoprire, per esempio, che anche l’Italia, almeno per quanto riguarda le sue regioni meridionali, ha avuto un importante passato «vichingo». Storie come sempre accompagnate da un ricco apparato iconografico e cartografico, che contribuisce a inquadrare nel modo migliore i caratteri salienti dell’era vichinga.

MEDIOEVO DOSSIER

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353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

ul finire dell’VIII secolo, la costa orientale dell’Inghilterra viene investita per la prima volta dalle incursioni di gruppi provenienti dal Grande Nord: sono i Vichinghi, un popolo che, da quel momento in poi, farà molto parlare di sé, soprattutto perché la loro comparsa sulla scena della storia è segnata da razzie e violenze. Nel tempo, tuttavia, l’espansione di questi abili navigatori e temibili guerrieri assume connotazioni diverse e le genti vichinghe si insediano stabilmente in molte regioni del Vecchio Continente e la loro cultura si fonde con quella delle genti autoctone. Ecco perché, oggi, possiamo a buon diritto considerarli

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GLI ARGOMENTI

• Una storia europea • L’espansione • I regni scandinavi • Nel Mezzogiorno d’Italia

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mostre cordova

L’età del

di Elena Percivaldi

cambiamento N N La transizione fra la tarda antichità e l’Alto Medioevo è un momento cruciale nella storia della Spagna, cosí come dell’intera Europa. Una importante mostra di prossima apertura a Cordova, già capoluogo della provincia romana della Betica, indaga i rapporti culturali e religiosi tra il Mediterraneo occidentale e le terre della penisola iberica

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el febbraio del 313 d.C. l’imperatore d’Occidente Costantino emanò a Milano, insieme al suo collega d’Oriente, Licinio, l’editto con il quale conferí ai cristiani la piena libertà di culto. La speranza, si legge nel De mortibus persecutorum, opera attribuita, non unanimemente, all’apologeta cristiano Lattanzio, era che il Deus Summus che questi veneravano potesse da quel momento in poi dimostrarsi benevolo anche nei confronti degli imperatori e dei loro sudditi, ristabilendo la pace sociale in un impero veleggiante nella crisi e alle prese con la minaccia sempre piú pressante dei «barbari» alle porte. Lo storico provvedimento, che comprendeva anche la restituzione alle comunità cristiane dei beni che gli erano stati sequestrati durante le persecuzioni, ebbe ripercussioni epocali nelle vicende dell’impero, inserendosi in un quadro di grandi cambiamenti e trasformazioni. novembre

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L In alto, sulle due pagine veduta di Cordova. In primo piano, il ponte romano che attraversa il Guadalquivir; sullo sfondo, la grande moschea, oggi cattedrale dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, nei cui spazi è allestita una sezione della mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo cristiano entre Constantino y Justiniano», visitabile dal 16 dicembre. A destra testa ritratto di Costantino in età giovanile. Prima età costantiniana. Grottaferrata, Museo dell’abbazia greca di S. Nilo.

Tra la fine del IV secolo e la metà del successivo, sospinte dalla migrazione degli Unni, diverse popolazioni fino ad allora stanziate ai limiti orientali della compagine statale romana – definite «barbariche» perché originate al di fuori del contesto politico e culturale classico – erano penetrate, spesso in maniera violenta, all’interno dei confini dell’impero occupando vasti territori e ottenendone il controllo in cambio di trattati

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L’Impero e il cristianesimo nel IV secolo

Territori ceduti ai Sassanidi nel 363

L’Impero alla morte di Teodosio (395)

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Spartizione romano-sassanide dell’Armenia

Divisione dell’Impero tra Arcadio (Oriente) e Onorio (Occidente) nel 396

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di alleanza e prestazioni militari. Nel 476 il generale Euf di origine scira Odoacre rate (gli Sciri era una popolazione germanica orientale, n.d.r.) depose il quattordicenne Romolo Augustolo e inviò le insegne imperiali a Costantinopoli, arrogandosi il titolo di patricius Romanorum e riconoscendo di fatto l’imperatore d’Oriente Zenone come unico sovrano.

La fine di un’epoca

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Cartina dell’impero romano dall’età di Costantino alla vigilia delle invasioni barbariche (306-401). In alto frammento di arredo liturgico Nisibis decorato con Chrismon, alfa (Nusaybin) e omega. VI sec. Cordova, Museo di San Vicente. Ti

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L’atto pose formalmente fine all’impero romano d’Occidente, ma creò anche la base per la nascita, di lí a poco, di un regno «romano-barbarico» in Italia. L’azione di Odoacre, infatti, finí per mettere in allarme Zenone, preoccupato dell’intraprendenza e della personalità forte del generale, inducendolo a sollecitare gli Ostrogoti, una gens federata stanziata ai confini orientali, a entrare nella Penisola allo scopo di riportarla sotto il diretto controllo bizantino. Al loro comando c’era Teodorico, valente guerriero appartenente alla stirpe degli Amali che in gioventú aveva vissuto a Costantinopoli, dove era stato educato alla cultura classica. Teodorico sconfisse Odoacre sull’Isonzo, a Verona e sull’Adda e infine, incalzatolo a Ravenna, lo fece uc-

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mostre cordova Il cristogramma

«In hoc signo vinces» Tra i simboli piú diffusi nell’iconografia paleocristiana c’è il cristogramma, che la tradizione vuole introdotto da Costantino in seguito alla visione, secondo Lattanzio ricevuta in sogno prima della decisiva battaglia del Ponte Milvio (scontro che si combatté il 28 ottobre del 312), che invitava il futuro Augusto d’Occidente a tracciare un «celeste signum Dei» sugli scudi del suo esercito. A ciò si aggiunge il duplice resoconto di Eusebio di Cesarea, che, nella Storia ecclesiastica, attribuisce la vittoria costantiniana alla protezione divina (ma non menziona alcun sogno), mentre nella successiva Vita di Costantino, scritta dopo la morte dell’imperatore, narra come il sovrano e il suo esercito videro in cielo una croce luminosa attorniata dalla scritta in greco «en touto nika», tradotto in latino con l’espressione «In hoc signo vinces» («Con questo segno vincerai»); la visione fu seguita dall’apparizione in sogno di Cristo, che avrebbe ordinato a Costantino di riprodurre sul suo labaro quel segno che aveva visto in cielo, ricevendo protezione durante la battaglia contro Massenzio. L’adozione del cristogramma da parte di Costantino si rivelò una mossa vincente per promuovere la diffusione del cristianesimo e farne le basi della sua politica tesa a rafforzare l’impero e la sua immagine. Sovrapponendo in un monogramma le due lettere greche X e P, chi e rho, iniziali della parola Christòs – il nome di Gesú, che in greco significa «unto» e traduce l’ebraico «messia» – ottenne un simbolo facile da riprodurre ma al tempo stesso di eccezionale potenza evocativa; arricchito mediante l’aggiunta ai lati della prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco – alfa e omega –, il monogramma assumeva inoltre valore apocalittico, rimandando alla fine dei tempi («Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine, il primo e l’ultimo», Ap 22,13). Pregevoli esempi del cristogramma si ritrovano, in mostra, in un pendente dal Museo di Mertola, nel bell’anello d’oro inciso con la scritta «Sabina vivas in [Christo]» dal Museo Archeologico di Baena o, ancora, nel Chi-Rho cerchiato e accompagnato da Alfa e Omega (e dal nome di Isidoro) dal Museo della Città di Antequera. In alto placca in ceramica con cristogramma cerchiato, alfa, omega e iscrizione di Isidoro. Antequera, Museo de la Ciudad. Nella pagina accanto, in alto, a sinistra sepoltura di individuo di sesso femminile con elementi di corredo di tipologia sveva, da Mérida. Mérida, Consorcio de la Ciudad monumental.

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cidere a tradimento durante il banchetto che avrebbe dovuto sancire la fine delle ostilità. Rimasto padrone della Penisola, nel 498 il condottiero ostrogoto ottenne a sua volta da Costantinopoli il titolo di patrizio e con esso, di fatto, la corona d’Italia, arrivando a controllare un territorio che comprendeva anche la Provenza e l’Illiria (provincia romana coincidente con le attuali Croazia e Slovenia). Un processo per certi versi simile coinvolse anche altre regioni dell’ormai ex impero, quali le Gallie, la penisola iberica e le province del Nord Africa, dove i Franchi, i Visigoti, gli Svevi, i Burgundi e i Vandali riuscirono a dar vita a regni autonomi e in continuo conflitto fra loro.

Non di natura divina...

In questo momento di trasformazioni epocali giocò un ruolo di primissimo piano anche la religione, che rappresentava un elemento di capitale importanza nei rapporti politici non solo tra i «barbari» e l’impero, ma anche in seno ai regni stessi. In origine per lo piú pagane, le genti barbariche si convertirono al cristianesimo in modi e tempi diversi; se i Franchi con Clonovembre

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A destra statuetta di Cristo docente, forse proveniente da Civita Lavinia (Roma). IV sec. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

doveo (496) abbracciarono direttamente il cattolicesimo, molti altri adottarono tale fede al momento del loro ingresso nei territori imperiali, nella forma ariana. Predicato nel IV secolo dal prete di origine alessandrina Ario, l’arianesimo considerava il Cristo solo come un uomo, negandone la natura divina e rifiutando, di conseguenza, il dogma della consustanzialità, secondo il quale invece il Figlio gode della stessa sostanza del Padre (e dello Spirito Santo). La dottrina di Ario fu condannata dal concilio di Nicea (325); ebbe però notevole seguito in particolare tra i Goti, che l’adottarono verosimilmente sotto l’influsso dell’imperatore Valente (364-378), che era ariano, quando entrarono come federati dentro ai confini orientali. Dopo la sconfitta e la morte di Valente ad Adrianopoli (378) e a seguito del Concilio di Costantinopoli (381), l’arianesimo fu annoverato, insieme ad altre varianti del cristianesimo, alla stregua di un’eresia e perseguitato dagli imperatori; i Goti tuttavia, che erano stati convertiti dalla predicazione di Ulfílas (311-382) – il cui entourage aveva approntato anche una traduzione della Bibbia in lingua gota, supportata

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mostre cordova dall’ideazione di un apposito alfabeto –, continuarono a professarlo facendone un elemento di «identità etnica» che desse loro modo di differenziarsi dai Romani, influenzando nella scelta, come testimonia per esempio Procopio di Cesarea, anche le altre genti barbariche con cui erano in rapporti stretti quali i Vandali, i Burgundi e gli Svevi. Una volta stanziati in Spagna, i Visigoti si sarebbero convertiti al cattolicesimo alla fine del VI secolo, evento che fu ufficializzato in occasione del terzo Concilio di Toledo (589).

Dicembre prossimo, a Cordova

A questi temi cruciali e decisivi per le vicende future del Continente (e non solo) è dedicata la grande mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo cristiano entre Constantino y Justiniano» allestita a Cordova dal 16 dicembre prossimo al 15 marzo 2023. Curata da Alexandra Chavarría Arnau, professoressa di archeologia medievale all’Università degli Studi di Padova, l’esposizione si articola in tre sedi nella città andalusa: il Centro de Arte Contemporáneo C3A, la Sala Vimcorsa e la Mezquita, la grande moschea, oggi cattedrale dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, tra le principali espressioni dell’arte arabo-islamica e dell’architettura gotico-rinascimentale andalusa, nonché patrimonio dell’umanità UNESCO insieme all’intero centro storico cordovese. La sezione ospitata dal C3A illustra la genesi e lo sviluppo del cristianesimo primitivo, dalla prima apparizione dei temi e dei simboli della nuova religione ai rapporti con il giudaismo, dalle persecuzioni scatenate dal rifiuto dei cristiani di partecipare ai riti imposti dalla religione di Stato romana al culto dei martiri, delle loro reliquie e dei loro luoghi di sepoltura, a cominciare da quelli degli apostoli Pietro e Paolo, culto fortemente incoraggiato dai vescovi di Roma. La mostra inizia con

una proiezione audiovisiva che introduce il visitatore allo spirito del cristianesimo primitivo e lo immerge nei primi luoghi di culto, per finire con la visione avuta da Costantino prima della decisiva battaglia di Ponte Milvio, che portò all’ideazione del Cristogramma (vedi box a p. 32) e fu prodromica all’Editto di Milano e alla concessione della libertà di culto per i cristiani. In questo percorso rivestono un ruolo di eccezionale importanza i simboli in cui i primi cristiani si identificavano e che divennero nel tempo rappresentativi ed emblematici della loro stessa fede. Pressoché inesistenti nei decenni immediatamente successivi la primissima diffusione del nuovo credo, i simboli cristiani fanno il loro esordio tra la fine del II e il III secolo e rispondono alla necessità di rappresentare la nuova fede in ambito funebre e rituale, ma anche negli oggetti utilizzati durante la vita quotidiana, in primis (e con valore metaforico) le lucerne o le gemme. Le cause di tale lacuna iconografica possono essere forse individuate nella convinzione, da parte dei credenti, che tali simboli nell’imminenza della Parusia (la seconda venuta di Cristo) fossero superflui, ma è anche possibile Mosaico pavimentale con l’immagine della croce, da una chiesa di Henchir el-Ouara, nella regione dell’antica Sufetula (Tunisia). Sbeitla, Museo.

la croce

Passione, ma anche vittoria sulla morte La croce, naturalmente, si impose come simbolo cristiano per antonomasia. Stando a quanto testimoniato nel II secolo da scrittori quali Tertulliano, Origene, Minucio Felice e Clemente di Alessandria, i cristiani già allora avevano adottato il signum crucis, plastico simbolo della passione di Cristo e del suo trionfo sulla morte, quale segno di riconoscimento e contro le tentazioni del demonio. Tertulliano aggiunge che il gesto era utilizzato anche al di fuori dell’ambiente strettamente liturgico e a scopo apotropaico.

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Il ritrovamento della croce (inventio Crucis) nel 325 per mano di Elena, madre di Costantino, portò all’elaborazione del simbolo della crux invicta, emblema della vittoria sulla morte, immagine che si consolidò a seguito della donazione alla basilica dell’Anàstasis, disposta da Teodosio II nel 420, di una grandiosa croce gemmata da erigere sulla cima del Calvario, luogo della morte di Gesú, ma anche luogo prossimo al Sepolcro, ormai vuoto a seguito della resurrezione di Cristo. novembre

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Il simbolo della croce si legò sempre piú strettamente al potere imperiale, soprattutto dopo l’arrivo della reliquia della Vera Croce a Costantinopoli al tempo di papa Giovanni III (561-574). Imponenti edifici cruciformi furono costruiti al tempo di Giustiniano – come la chiesa dei Ss. Apostoli nella stessa Costantinopoli, riedificata in forme grandiose con pianta a croce greca sul primo edificio a pianta centrale voluto da Costantino – e da lí tale modello si diffuse, tra il VI e il VII secolo, in tutto il Mediterraneo e nell’Occidente cristiano.

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che siano andati perduti a causa delle persecuzioni oppure che siano scomparsi con la demolizione, a partire dal IV secolo, dei primi rudimentali luoghi di culto, per far posto ai piú ampi edifici atti ad accogliere la crescente ecclesia, la comunità di fedeli. I simboli cristiani piú antichi sembrano di carattere aniconico, verosimilmente in ottemperanza al divieto, formulato nel libro biblico dell’Esodo (Es 20, 4-5), di rappresentare il divino attraverso le immagini. Tra i piú diffusi c’è senza dubbio il pesce, che rimanda ai passi

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mostre cordova L’Hispania fra tarda antichità e Alto Medioevo

Un passaggio delicato Tra la fine del V secolo e i primi decenni del VI secolo i Visigoti si insediano stabilmente nella penisola iberica, coronando un processo lento, iniziato dalla metà del V secolo con la sporadica presenza militare in alcune aree strategiche, poi evolutasi in insediamenti via via piú estesi durante il regno di Alarico II (fine del VI secolo) e consolidatisi – come indica Procopio – nel terzo decennio del VI secolo con Teudi. Dopo la decisiva battaglia di Vouillé (507 circa), con la quale il re dei Franchi Clodoveo annientò il regno visigoto di Tolosa uccidendo sul campo lo stesso Alarico II, la corte visigota si divise in due fazioni: da un lato i sostenitori del giovane Amalrico, rampollo del defunto sovrano e di Teodegota, figlia del re ostrogoto Teodorico il Grande; dall’altro i fautori narbonesi di Gesalico, che di Alarico II era figlio illegittimo. Teodorico si affrettò a rivendicare la legittimità

del nipote e inviò un potente esercito guidato dal generale Ibbas grazie al quale riuscí a estendere il suo controllo su un territorio molto vasto, che comprendeva la Dalmazia, l’Italia, la Gallia meridionale e l’Hispania. Due lettere (Variae V, 35 e V, 39) indirizzate ad Ampelius e Liuvirit, funzionari dell’amministrazione gota, ci informano sulla gestione amministrativa dell’Hispania in questo periodo. Nella seconda in particolare, inviata tra il 523 e il 526, i due, definiti rispettivamente illustris e spectabilis, sono sollecitati da Teodorico a riorganizzare la provincia recentemente annessa con «leggi e buoni costumi». Il testo si concentra sulla gestione del patrimonium, i beni dell’imperatore ora nelle mani del re ostrogoto. Oltre a regolamentare i dazi dogali e alle tasse sulle circolazioni delle merci (teloneo e canon transmarinorum), Teodorico intendeva assicurarsi che i funzionari

Frammento di bassorilievo ornato con motivi architettonici, proveniente probabilmente da una chiesa. Cordova, Museo Archeologico.

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locali non imponessero tasse eccessive ai conduttori delle proprietà e voleva evitare che i possessori ispanici si appropriassero indebitamente dei fondi che appartenevano alla domus regia. Insieme ad Ampelius e Liuvirit, faceva parte dell’amministrazione del regno visigoto anche il generale Teudi, comandante dell’esercito e precettore del giovane Amalrico. Poco dopo il suo arrivo in Hispania, Teudi aveva sposato una ricca donna ispano-romana, matrimonio che gli aveva consentito di consolidare la propria posizione e iniziare una brillante carriera politica, che, alla morte di Amalarico, lo avrebbe condotto sul trono (531). Nonostante i 17 anni di governo di Teudi siano poco documentati, sembra assodato che il sovrano seppe reagire all’espansionismo imperiale nel Mediterraneo occidentale, iniziato con le campagne di Giustiniano contro i Vandali, con

evangelici relativi alle pesche miracolose, alle prodigiose moltiplicazioni operate da Cristo e al ruolo degli apostoli come «pescatori di anime». Ma non è tutto. Attraverso la parola ichthýs, pesce in greco, il simbolo funge da acronimo per l’espressione Iesous Christos Theou Yios Soter, ovvero «Gesú Cristo, Figlio di Dio e Salvatore». A partire dal III secolo, l’iconografia si evolve, adottando figure umane e scene attinte da simboli ereditati dalla precedente cultura pagana greco-romana ed ebraica, ma ora reinterpretati in una chiave del tutto nuova. Due esempi emblematici di questo processo sono l’orante e il Buon Pastore: il primo, un uomo rivestito da una lunga tunica (oppure una donna velata) raffigurato in piedi e con le mani tese verso il cielo in atteggiamento di preghiera, rimanda chiaramente a un’iconografia religiosa di tipo ancestrale diffusa in ambito mediterraneo; il secondo, un giovane imberbe che porta sulle spalle una pecora, sottende invece la funzione di psicopompo presente già in Hermes/Mercurio, il dio dei novembre

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un’efficace politica difensiva, realizzata anche attraverso la costruzione di fortificazioni lungo le coste. La storiografia ha spesso interpretato il complesso quadro politico di questo periodo polarizzando i profondi conflitti esistenti tra diverse fazioni politiche secondo una connotazione etnica (Romani contro Visigoti) oppure religiosa e ideologica (ariani contro cattolici). In realtà, tali tensioni riflettono la complessa e graduale trasformazione delle strutture politiche, sociali ed economiche dell’Hispania da provincia imperiale a regno visigoto con capitale Toledo. In questo processo, Cordova rivestí un ruolo fondamentale, tanto nella persistenza dell’eredità romana e nella sua trasmissione, quanto come «laboratorio» degli epocali cambiamenti che caratterizzarono il delicato passaggio tra tarda antichità e Alto Medioevo.

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A destra lucerna sulla quale sono rappresentati il Cristo e la menorah. V-VI sec. Cartagine, Museo Nazionale. In basso fibbia da cintura in avorio ornata con la raffigurazione del Santo Sepolcro, parte delle reliquie di san Cesario. VI sec. Arles, Musée Départemental Arles Antique.

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mostre cordova

Un particolare della lussureggiante decorazione architettonica della moschea-cattedrale di Cordova. La costruzione dell’edificio fu avviata nel 786, per volere dell’emiro ‘Abd al-Rahman, sui resti dell’antica basilica visigota. La trasformazione in cattedrale giunse nel 1236, all’indomani della Reconquista della Spagna e la costruzione della chiesa cristiana fra le navate del tempio islamico fu autorizzata nel Cinquecento da Carlo V.

pastori come «guida delle anime», ma nel contempo allude alla figura di Gesú cosí come viene descritta nel Vangelo di Giovanni: «Il buon pastore che dà la vita per le sue pecore» (Gv 10, 11). Molto frequenti appaiono anche alcune selezionate scene dell’Antico Testamento, quali, per esempio, le storie di Adamo ed Eva – in mostra, un sarcofago da Ceheguin riporta la cacciata dal Paradiso, mentre un’interessante lucerna di provenienza nordafricana raffigura Eva che si copre pudicamente il sesso – oppure la vicenda di Giona inghiottito dalla balena, che allude alla salvezza e alla resurrezione ed è raffigurata in due sarcofagi provenienti da Toledo e Elda. Non va dimenticato poi il sacrificio di Isacco, prefigurazione di

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quello di Cristo, che appare su una placca da cintura cartaginese, né Daniele nella fossa dei leoni, protagonista di una bellissima placca in avorio ancora da Cartagine e di una splendida lucerna da Antequera.

Un salvataggio miracoloso

Infine, citiamo i tre giovani Ebrei nella fornace di Babilonia, rimasti illesi grazie all’intervento divino, a testimoniare la perseveranza della fede che conduce alla salvezza: li troviamo per esempio su un frammento di sarcofago del Museo di Cadice. A tutti questi rimandi si aggiungono i Vangeli, la base fondante per il futuro sviluppo dell’iconografia cristiana in quanto forniscono una lettura «visiva» e dettagliata della vita, dei miracoli e delle Passione di Cristo, riprodotta tanto sui sarcofagi – emblematico il bassorilievo dai Musei Vaticani che sciorina una teoria di personaggi, tre dei quali offrono doni alla Vergine con Bambino, episodio interpretato come l’Epifania o l’adorazione dei Magi – quanto, ancora una volta, sugli oggetti semplici, quali le lucerne africane, che illustrano la resurrezione di Lazzaro e il Cristo in Maestà. novembre

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Intorno al 520 i territori dell’ex impero, in particolare quelli gravitanti intorno al Mare Nostrum, sembravano aver raggiunto una fase di stabilità grazie all’equilibrio dei rapporti che intercorrevano tra l’impero e il regno ostrogoto di Teodorico (493-526), lo Stato allora piú potente d’Occidente. Ma a Costantinopoli una nuova classe di letterati, alti funzionari, senatori e ufficiali dell’esercito stava iniziando ad attribuire la perdita militare e morale della parte occidentale dell’impero all’avvento dei «barbari». Ritenendo che il suo potere emanasse dalla grazia divina e che l’impero rappresentasse lo strumento prescelto da Dio allo scopo di perfezionare il proprio disegno di salvezza, Giustiniano I (527-565) si fece promotore dell’ideale di Renovatio imperii teso proprio a ricostituire l’unità territoriale, giuridica, politica, morale e religiosa perduta attraverso una serie di campagne militari contro i Vandali in Africa e i Goti in Italia. L’azione bellica dell’imperatore fu affiancata da una zelante politica di riforme fiscali e dalla codificazione di un sistema legislativo nelle intenzioni destinato a essere universale, raccolto nel Corpus Iuris Civilis. Sul piano artistico e architettonico, infine, Giustiniano fu protagonista di una straordinaria stagione edilizia che raggiunse il vertice con la costruzione della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, una delle chiese piú impegnative mai realizzate nell’antichità, destinata a imporsi come punto di riferimento della futura architettura religiosa mediterranea.

trici e vegetali provenienti dall’Andalusia, dalla Tunisia e dalla Macedonia o le lapidi musive che coprivano le tombe di personaggi notevoli delle città. Di taglio piú propriamente archeologico è la sezione della mostra allestita nella Sala Vimcorsa, nel centro della città: qui sono riuniti numerosi reperti legati all’ambito funerario ed ecclesiastico provenienti dalla città di Cordova, dal Sud della penisola iberica e, piú in generale, dal mondo mediterraneo. Riportati alla luce nei cimiteri sorti, come a Roma, già nel III secolo – e quindi prima della costruzione delle chiese – su terreni acquistati per iniziativa dei vescovi allo scopo di seppellirvi i fedeli, questi ritrovamenti permettono di cogliere le trasformazioni vissute dalla città tra l’epoca romana e la fine del VI secolo attraverso il processo di cristianizzazione e i suoi principali protagonisti. Anche a Cordova, capoluogo della provincia romana della Betica, le prime testimonianze legate al cristianesimo provengono dall’ambito funerario e sono rappresentate da sarcofagi decorati con temi, simboli e formule cristiani – pezzi di alto livello qualitativo, a volte importati da Roma, che riflettono lo status dei personaggi sepolti – e da iscrizioni che ci restituiscono i nomi di alcuni di essi: Anerio, Vittoria, Fortuna. Alla guida della comunità nel 355 c’era il vescovo Osio, che, secondo Atanasio di Alessandria (Padre e Dottore della Chiesa, 295 circa-373), reggeva la sede episcopale cordovese da oltre sessant’anni: una circostanza che ne riconduce l’elezione intorno al 294

Monili preziosi

Fibula circolare in oro sulla quale è raffigurata l’Adorazione dei Magi, da una sepoltura visigota femminile scoperta a Turuñuelo. VI sec. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

L’impatto dell’occupazione bizantina nella penisola iberica è stato oggetto di dibattito accademico a partire dall’inizio del XX secolo. La mostra ne ripercorre i momenti principali attraverso alcune testimonianze significative. Una di esse è l’iscrizione che commemora i lavori realizzati nel 589-90 a Carthago Spartaria dal magister militum Spaniae Comenciolo per edificare (o restaurare) la porta monumentale della città: un’epigrafe di natura propagandistica simile a quelle inserite dalle autorità militari della prefettura d’Africa in epoca giustinianea nelle opere di munizione delle città e dei castelli. Vi sono poi le oreficerie, fra cui spicca la fibula femminile di Turuñuelo, che rappresenta l’Adorazione dei Magi e reca un’iscrizione in greco che invoca la protezione della Vergine per chi la indossa. Un oggetto molto prezioso, che dimostra l’entità dei rapporti culturali e commerciali esistenti tra il Mediterraneo orientale e il Mezzogiorno iberico nel VI secolo, rapporti ribaditi dalle straordinarie lastre in argilla cotta decorate con motivi biblici, geome-

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mostre cordova la mostra

Un progetto espositivo ambizioso e articolato La mostra «Cambio de era. Córdoba y el Mediterráneo cristiano entre Constantino y Justiniano» («Il cambio di un’epoca. Cordova e il Mediterraneo cristiano fra Costantino e Giustiniano») presenta oltre 200 opere, provenienti da 36 istituzioni spagnole e da una dozzina di enti internazionali, fra i quali figurano i Musei Vaticani, il Museo Nazionale di Cartagine, il Museo di Narbona, i Musei Archeologici Nazionali di Roma, Aquileia, Madrid e Tarragona, il Museo Nazionale d’Arte Romana di Mérida e il Museo di Belle Arti di Bilbao e intende raccontare l’origine e lo sviluppo del primo cristianesimo evidenziandone l’impatto sulla storia e sulla cultura mediterranea, con particolare attenzione al sud della penisola iberica e alla città di Cordova. Le sei sezioni che compongono la mostra sono allestite in due sedi principali – il Centro di Cultura Contemporanea dell’Andalusia-

C3A e la Sala Vimcorsa –, alle quali si affianca un percorso all’interno della grande moschea di Cordova, oggi cattedrale dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, dedicato ai ritrovamenti archeologici effettuati in occasione degli scavi realizzati nella moschea-cattedrale e nei suoi immediati dintorni. La mostra, che si avvale di un prestigioso comitato scientifico internazionale, è accompagnata da un ampio catalogo che per la vastità del tema trattato e l’originalità del taglio si impone come un’opera di riferimento sulla cultura materiale cristiana tra tarda antichità e Alto Medioevo. L’esposizione è aperta dal prossimo 16 dicembre al 15 marzo 2023 ed è accompagnata da diversi eventi collaterali. Sarà inoltre possibile seguire gratuitamente un corso on line in lingua inglese ospitato sulla piattaforma Futurelearn (www.futurelearn.com): curato

Lapide sepolcrale a mosaico di Optimus, dalla necropoli paleocristiana del Francolí (Tarragona). Inizi del V sec. Tarragona, Museo Archeologico Nazionale.

e fa di lui il primo vescovo documentato di tutta la Betica. Attraverso l’analisi della scultura liturgica e architettonica si ricostruisce poi la topografia cristiana della città: dal complesso episcopale, oggetto di interventi archeologici recenti nel cortile della moschea, ai complessi suburbani con funzioni martiriali citati dalle fonti scritte, ma la cui ubicazione precisa ancora non è stata ben definita dagli studiosi. Senza dimenticare la cristianizzazione dello straordinario complesso architettonico di Cercadilla a nord-ovest della città, ora interpretato come palazzo imperiale, ora come edificio amministrativo o villa, ma che di sicuro diventa un importante complesso funerario nel VI secolo come rivelano alcuni degli oggetti esposti. La grande mostra di Cordova si chiude con la sezione allestita nella splendida moschea-cattedrale, che raccoglie una selezione di materiali provenienti

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dall’Università di Padova, introduce e contestualizza tramite video lezioni, letture ed esercitazioni i temi e gli oggetti presentati nella mostra.

dagli scavi archeologici realizzati (e tuttora in corso) sia nel luogo di culto che nelle sue adiacenze e che hanno consentito di ricostruire la complessa storia del monumento. L’attuale edificio fu infatti costruito nel 785 dall’emiro ‘Abd al-Rahman I sui resti dell’antica chiesa visigota di S. Vicente, coincidente con il primo complesso episcopale della città e databile tra il IV e il VI secolo. Questa costruzione fu successivamente ampliata fino alla radicale e definitiva trasformazione, avvenuta nel 1236 a opera di re Ferdinando III di Castiglia a seguito della Reconquista, in cattedrale dedicata a santa Maria Assunta. I reperti esposti, corredati anche in questo caso da una proiezione video che mostra le fasi principali dello scavo e prova a interpretare i dati raccolti, consentono di cogliere tutte le trasformazioni dell’edificio da complesso vescovile tardo-antico a chiesa tardomedievale, passando per moschea islamica. Un caso emblematico di quell’intreccio di culture e religioni che da sempre sta alla base della storia iberica, del Mediterraneo e piú in generale dell’Europa. novembre

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costume e società

di Firma Autore

Non per

di Alessandro Bedini

ignoranza, né per oscurità...


Con la cristianizzazione dell’Occidente euromediterraneo prende avvio la fondamentale cesura tra pensiero religioso e mondo magico: un processo di trasformazione spirituale e antropologica profonda, dalle infinite implicazioni dottrinali e politiche, svoltosi sullo sfondo dei secoli dell’età di Mezzo. E mai del tutto compiuto…

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i sono dato pertanto alla magia, se mai il potere o la parola dello spirito mi rivelassero qualche segreto», fa dire Goethe al dottor Faust. Dopo aver sudato e faticato sui testi di filosofia, di teologia, di letteratura, egli si accorge di non essere riuscito a scoprire ciò che nel profondo tiene insieme l’universo. È amara per lui questa certezza, e allora si volge verso quel mondo magico che consiste nell’innata tentazione dell’uomo di piegare il divino alla sua volontà attraverso precisi rituali, che varcano le diverse epoche e civiltà. Storici e antropologi hanno sottolineato come la magia e, per molti aspetti, anche la stregoneria, siano fenomeni comuni alle differenti culture Particolare di una miniatura raffigurante Alberto Magno intento all’osservazione degli astri celesti, dall’edizione di un’opera scritta dallo stesso filosofo e teologo tedesco proveniente dall’abbazia di Saint-Amand. XIII sec. Valenciennes, Bibliothèque municipale.

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costume e società Una strega, particolare delle Tentazioni di sant’Antonio, olio su tavola di Joachim Patinir. 1520-1524. Madrid, Museo del Prado.

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e si rintracciano come costanti della storia dell’umanità. Il Medioevo non fa eccezione, ma sarebbe fuorviante assegnare alla sola età di Mezzo la presenza di pratiche magico-superstiziose dovute, come alcuni hanno affermato con sconcertante semplificazione, a ignoranza e oscurità. Quello che noi definiamo Medioevo è, per cosí dire, debitore per ciò che attiene alla magia, al mondo antico, in particolare greco-romano, mentre la stregoneria, che con gli aspetti magici ha comunque un’evidente attinenza, ha la sua età privilegiata tra il XV e il XVII secolo. Occorre tuttavia evidenziare come ciò che si affermerà in quel periodo, sia già presente nell’età di Mezzo. La complessità del fenomeno presenta diversi aspetti a cui fare riferimento. In primo luogo la conversione di intere popolazioni dell’Occidente euromediterraneo alla fede cristiana. Ciò ha senza

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dubbio rappresentato una linea di frattura con il mondo magico, in quanto ha provocato scandalo e creato una profonda cesura tra sfera magica e sfera religiosa. Almeno per ciò che attiene la dottrina ufficiale.

Contro le malattie

Sant’Agostino pone bene in luce come l’acculturazione germanico-cristiana lasci comunque sopravvivere il pensiero magico. Si pensi, per esempio, al mondo celtico, nel quale la Croce, le invocazioni alla Vergine, ai santi e ai martiri, vengano spesso utilizzate come vere e proprie formule magiche contro le malattie. Comunque la Chiesa altomedievale sembrò non preoccuparsi troppo del permanere di pratiche considerate pagane. Taumaturgia e rituali divinatori continuavano a far parte del vissuto di popolazioni solo superficialmente cristianizzate. Semmai la diffidenza, se non

Credenze popolari

Animali tentatori In epoca medievale si era diffusa la credenza secondo la quale i demoni potevano trasformarsi in animali per indurre al peccato e alla perdizione la brava gente. Ne è un esempio la Vita Sancti Antonii: secondo la tradizione, il santo veniva costantemente tormentato da demoni che assumevano, di volta in volta, le sembianze di vipere, lupi, leoni e serpi velenose. Spesso sant’Antonio è ritratto accanto a un cinghiale, considerato il piú impuro e addirittura demoniaco tra tutti gli animali. In alto Le tentazioni di sant’Antonio (particolare), olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1510-1515. Madrid, Museo del Prado.

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costume e società La bolla Super illius specula

Quel morbo pestifero... Nella bolla Super illius specula (1326 o 1327), papa Giovanni XXII prende duri provvedimenti contro quelli che: «Stringono un patto con la morte e con l’inferno, fanno sacrifici ai diavoli, li adorano, fabbricano e fanno fabbricare immagini, anelli o specchi o ampolle e qualsiasi altra cosa per legare magicamente a sé i diavoli, a essi chiedono responsi. O quanto dolore! Un tale morbo pestifero si diffonde per il mondo piú ampiamente, contagia sempre piú gravemente il gregge di Cristo». Le pene previste per i maghi e le streghe sono identiche: la morte per impiccagione, il rogo del cadavere e la confisca dei beni. Streghe dalle fattezze animali volano a cavallo di una scopa, xilografia. 1508. Nella pagina accanto Il sabba delle streghe, incisione di Hans Baldung detto Grien. 1510 circa. San Francisco, Palazzo della Legione d’Onore.

addirittura l’esclusione dalla comunità, riguardava certe categorie di persone, come per esempio i fabbri, considerati alla stregua di stregoni, poiché erano a contatto con le viscere arcane della terra, dominatori di quelle forze terribili legate al ferro e al fuoco, assimilati dalla cultura popolare ai demoni o ai nani. Si credeva, tra l’altro, che durante il loro lavoro recitassero antichi carmina. Dal punto di vista dottrinale la Chiesa restava sulle posizioni a suo tempo espresse da sant’Agostino: la magia non è altro che un inganno attraverso il quale il demonio induce l’uomo verso la rovina spirituale. Con il Canon Episcopi – un testo di origine carolingia risalente al IV secolo – la

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categoria delle persone che hanno a che fare con pratiche turpi, si arricchisce con l’ingresso dell’elemento femminile. Una torma di donne volano nei cieli in compagnia dei demoni e cosí il volo magico diventerà un topos nell’ambito dell’universo femminile. Non a caso, a proposito di ciò, si parlerà di «società di Diana», la dea che già in epoca classica era associata al mondo delle ombre e alla magia. Legato ancora una volta all’elemento femminile, il sabba sarà uno degli esiti di un simile impianto dell’immaginario collettivo. Tornando al Canon Episcopi, che ci permette di comprendere piú a fondo la mentalità che sta alla base di tali credenze, occorre sottolineare come nel testo venis-

se operata una netta distinzione tra chi credeva alla realtà del volo magico e chi invece si riteneva capace e adeguato a prenderne parte. Nel primo caso c’è in fondo la credulità, l’illusione; nel secondo, invece, si individua la volontà di partecipare a un evento considerato demoniaco. Medichesse e indovine alimentarono le superstizioni sopravvissute a una spesso approssimativa cristianizzazione, soprattutto in area germanica.

Magia popolare e magia colta

A partire dall’XI secolo e fino alla metà del XIII, quel mondo magicopopolare, caratterizzato da un misto di superstizioni, folklore, credulità, subisce una evidente eclisse. Parallelamente, nello stesso periodo si andò invece affermando quella che storici e antropologi hanno definito magia colta. L’intensificarsi dei traffici mediterranei, il contatto con l’Oriente bizantino e poi arabo, gli esiti stessi delle crociate «ponevano l’Occidente – sottolinea Franco Cardini – in stretto contatto con la scienza ellenistica e con quella araba che ne era la diretta erede». Nelle neonate università si cominciavano a studiare le scienze naturali, la medicina, l’astronomia. Discipline che indirizzarono verso novembre

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costume e società studi e testi che hanno a che fare con la magia. Al contempo, si innescarono fenomeni quali l’urbanizzazione, l’accresciuta mobilità delle popolazioni in ambito euromediterraneo e la mutazione stessa del paesaggio rurale, a cui erano legate antiche superstizioni: una

fonte, una roccia, una montagna o un bosco dove si praticavano rituali pagani, erano venuti meno con l’avanzare del disboscamento, delle bonifiche, dell’affermarsi della città, che caratterizzò i secoli centrali del Medioevo. A proposito di magia colta, emblematico è l’esempio di Gerber-

to d’Aurillac, detto il «ponteficemago», che divenne papa nel 999 con il nome di Silvestro II. Grande studioso di astronomia, autore del De Astrolabio, il trattato che introdusse in Occidente l’uso di questo strumento, Silvestro, secondo il racconto di Guglielmo di Malmesbury, avrebbe sottratto a un non precisato musulmano un libro di magia. Per questo, secondo la leggenda, sarebbe diventato egli stesso un cultore delle arti magiche.

«Studiare» da mago

Ruggero Bacone nel suo osservatorio al Merton College, Oxford, olio su tela di Ernest Board (1877-1934). Londra, Wellcome Collection.

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Nella pagina accanto frontespizio di un’edizione inglese delle opere dedicate da Alberto Magno ai «segreti» della natura. 1599. Londra, Wellcome Collection.

Tra il IX e il X secolo era nata la Scuola di Medicina di Salerno, la piú importante d’Europa, mentre a Chartres la celebre Scuola Episcopale era la culla degli studi filosofici di impronta neoplatonica. Tali istituzioni, corroborate dagli studi approfonditi di intellettuali tra i piú prestigiosi dell’Occidente, finirono per creare una certa familiarità con la magia e, soprattutto, con l’astrologia. Da Costantinopoli era giunta un’opera medico-naturalistica in traduzione latina: i Kiranides, che riguardava le proprietà magiche delle cose: gemme, piante, animali, legati probabilmente all’ermetismo. I centri propulsori di Toledo, Alessandria e, in generale, quelli castigliani, diedero un impulso decisivo alle traduzioni di testi arabi e ellenistici: da quelli di Avicenna al famoso Almagesto di Tolomeo, oltre alle opere mediche e naturalistiche di Aristotele. In questo contesto le espressioni scientifiche e filosofiche piú elevate provocano il ritorno in Occidente della magia. «Proprio nella seconda metà del XII secolo – scrive Cesare Vasoli – magia, astrologia e chimica acquistano un peso determinante nello studio della natura; sotto l’influsso di taluni scritti di al Kindi, come la Teoria dell’arte magica, o del fortunatissimo Secretum secretorum». Vissuto nel IX secolo, il grande filosofo musulmano mette bene in evidenza le relazioni della novembre

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magia con l’astrologia e, soprattutto, i significati filosofici e teologici dell’arte magica e la ricerca delle cause occulte dei processi naturali. Nel XIII secolo alla corte di Palermo di Federico II erano presenti alcuni degli intellettuali piú autorevoli dell’epoca, tra i quali Michele Scoto, celebre «mago» e astrologo, proveniente da quella Toledo divenuta centro propulsore della magia colta. Dalla città castigliana e dalla sua scuola aveva avuto origine quella che, con un ampliamento semantico, si chiamava nigromantia, che avrebbe poi assunto la denominazione di magia nera. Essa si fondava su di una vasta letteratura fatta da veri e propri manuali di magia: a partire dall’Introductorium di Albumasar e dal Tetrabiblos di Tolomeo. Sta di fatto che astrologi e negromanti erano di casa in numerose corti europee e il ricorso alla divinazione era un fatto consueto, per esempio, in occasione di battaglie ma anche di inaugurazioni di edifici. Cosí come erano usuali le reciproche accuse di magia e negromanzia tra avversari politici, specie nel periodo che va dal Duecento al Quattrocento. Luigi d’Orleans, reggente del regno di Francia, a dire del suo avversario Giovanni Senza Paura, duca di Borgogna e suo cugino, era un cultore della magia nera. Ancora piú famose le accuse di magia nera rivolte a Giovanna D’Arco. Prima ancora i seguaci dell’imperatore Enrico IV avevano accusato papa Gregorio VII di essere un praticante delle arti magiche. Nel Basso Medioevo i prodigi, le apparizioni angeliche, gli eventi miracolosi o se si vuole magici, facevano parte a pieno titolo dell’immaginario dell’epoca. L’indagine sulla struttura del cosmo, sulle corrispondenze occulte fra le

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pietre, i metalli e gli altri elementi, volta a cogliere la volontà di Dio, puntava alla comprensione delle leggi che regolano la salute, la malattia, perfino la vita e la morte; ma l’idea che la profonda, magica conoscenza della natura e dei suoi piú intimi meccanismi fosse sufficiente all’essere umano, finiva per affermare implicitamente che il Dio cristiano, Creatore e Signore di tutte le cose e dunque onnipotente, non aveva piú spa-

San Vittore insisteva non soltanto sull’illusiorietà delle pratiche magiche, ma soprattutto sulla demonicità di queste oltre che sulla loro intrinseca immoralità. Tommaso D’Aquino condannò senza appello ogni forma di magia, marchiata come scienza diabolica e il mago era il primo soggetto a essere ingannato dai demoni. A Parigi, dove le scienze naturali, l’astrologia e l’alchimia venivano studiate con particolare impegno, il vescovo Stefano Tempier pose sotto accusa un certo numero di proposizioni, libri e scritti di magia e negromanzia. Insomma, la tesi che si andava sempre piú affermando era che demonolatria e magia fossero la medesima cosa.

Un doctor mirabilis

zio, era di fatto posto ai margini dell’avventura umana. Di fronte a ciò la Chiesa era ovviamente preoccupata; una cosa erano le superstizioni popolari di rustici e muliercole, altro era invece la circolazione di testi di magia scritti da raffinati intellettuali. Se la magia veniva bollata come falsa e ingannevole, come aveva fatto Giovanni di Salisbury, vescovo di Chartres e filosofo, Ugo di

Una simile posizione metteva in serio imbarazzo tutti gli studiosi che si erano avvicinati alla cultura magica, in particolare all’astrologia e all’alchimia, sulla scia della scuola di Chartres, allo scopo di conoscere i piú profondi segreti della natura, ma senza l’intendimento di mettere in discussione i principi della dottrina cristiana. Tra questi, uno dei nomi di spicco è quello di Ruggero Bacone, il doctor mirabilis, filosofo della scolastica e frate francescano, fra i massimi pensatori dell’epoca – siamo nel XIII secolo –, il quale proponeva la distinzione tra quella che definiva magia cerimoniale, in cui intervenivano forze demoniache attraverso precisi rituali e invocazioni, e la magia naturale, che, grazie alla comprensione dei meccanismi che regolano la natura e delle forze che la muovono, contribuisce a elevare lo spirito dell’uomo e ad avvicinarlo a Dio. Bacone aggiunge inoltre che proprio la magia buona smaschera le insidie del demonio.

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costume e società Miniatura raffigurante i catari messi al rogo, da un’edizione delle Grandes chroniques de Saint-Denis. 1400 circa. Tolosa, Bibliothéque municipale.

Non avrà influito sulla sua visione la cultura francescana? «Non era forse un mago bianco Francesco, che parlava ai lupi e agli uccelli e ammansiva il fuoco?», si chiede Franco Cardini. Tuttavia, anche il Domenicano tedesco Alberto Magno, studioso di fisica, mineralogia, nonché di filosofia, condivideva i principi baconiani. Egli sottolineava tra l’altro come i Magi, scrutando il cielo, fossero venuti a conoscenza della nascita del Salvatore. La sapienza delle parole – aggiunge – e la conoscenza astrologica, rappresentano la potenza che l’uomo possiede per entrare in quella rete di corrispondenze cosmiche che gli permettono di dominare la natura, ma non forzandola, bensí assecon-

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dandone i principi che la caratterizzano. Alla base della tradizione magica c’è l’unità sostanziale tra tutti gli elementi del cosmo, senza distinzione tra spirito e materia.

E che dire degli eretici?

Quella che possiamo definire magia medievale, sulla scia di quella antica, pone al centro l’uomo come autentico microcosmo che possiede in sé tutti gli elementi. L’uomo come universo contratto, questa era stata la teoria uscita dalla scuola di Chartres: «Il medico sa guarire i corpi in quanto conosce le stelle; l’alchimista – conclude Cardini – domina il corso degli astri perchè scruta le viscere della terra e i segreti dei fuochi e dei metalli.

Tutto si riflette in tutto». La magia bianca sarebbe quindi un antidoto contro la stregoneria, i maleficia, le superstizioni. Raimondo Lullo, Arnaldo da Villanova, Pietro d’Abano sono gli esponenti piú celebri di questo pensiero. Cecco d’Ascoli salí sul rogo a Firenze nel 1327. Aveva osato, sulla scia delle sue profonde conoscenze astrologiche, tracciare l’oroscopo di Gesú Cristo: la sua vita sulla terra sarebbe dipesa dalla posizione degli astri alla sua nascita. Dal canto suo, Albumassar, nel De magnis coniunctionibus, aveva stilato un vero e proprio oroscopo delle religioni: «Il succedersi delle religioni – come afferma in un esauriente studio Marco Bertozzi – dipendeva novembre

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dalla congiunzione di Giove (la cui funzione di sovranità stava a rappresentare la religione), con gli altri sei pianeti». Il cristianesimo sarebbe nato sotto il segno della congiunzione tra Giove e Mercurio, l’Islam da quello di Giove con Venere, mentre la lex iudaica tra Giove e Saturno. Naturalmente la Chiesa guardava con grande sospetto a simili teorie. L’astrologia non poteva certo esaurire il corso della storia, in questo caso la storia della salvezza; inoltre, sempre secondo Albumassar, quella che egli definisce la lex lunae sarebbe quella dell’Anticristo, in quanto la luna è corruttrice di tutte le cose.

Trionfo di San Tommaso d’Aquino (particolare), affresco di Andrea Bonaiuti. 1366-1368. Firenze, S. Maria Novella. Cappellone degli Spagnoli.

Le paure di papa Giovanni

Alcuni erano addirittura ossessionati dalle pratiche magiche e dalle teorie che ne fornivano una giustificazione. In particolare, papa Giovanni XXII fu letteralmente tormentato da quelle che riteneva pratiche magiche indirizzate ai suoi danni. Il suo timore era quello di trovarsi al centro di congiure e di malefici negromantici che lo avrebbero colpito. Pertanto scatenò una serie di processi e ampliò i poteri degli inquisitori: i maghi avrebbero dovuto essere puniti come eretici. Non a caso, i processi per magia o stregoneria vennero celebrati proprio in quelle regioni dove, tra XII e XIII secolo, i catari avevano esercitato una grande influenza sulle popolazioni locali. Il suo successore Benedetto XII, seppur meno ossessionato, non fu meno duro con maghi ed eretici. Nel 1335 furono messi in piedi due grandi processi, a Tolosa e a Carcassonne. Si poneva a quel punto un delicato problema: quello del rapporto tra stregoneria, magia e eresia. A giudizio di alcuni, azioni come per esempio la confezione di filtri amorosi o di effigi di cera, non potevano essere considerate pratiche eretiche, sebbene doves-

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sero comunque essere condannate. Mentre la divinazione, che attribuiva al demonio una certa giurisdizione sul futuro, era senz’altro eretica, in quanto si assegnava alla creatura ciò che spettava esclusivamente al creatore. Anche l’evocazione del demonio per ottenerne l’aiuto era considerata eresia. È la strada che porta verso quella che sarà definita caccia alle streghe e, di conseguenza, ai maghi, ovvero a coloro che esercitino, in varie forme, dei maleficia. Nel 1329 un monaco venne condannato al carcere a vita per aver utilizzato strumenti magici allo scopo di giacere con donne, offrendo al demonio statuette di cera, ma non si riuscí a trovare alcuna prova di ciò e, dopo molti anni, l’imputato ritrattò la con-

Da leggere Franco Cardini, Magia, stregoneria, superstizioni nell’Occidente medievale, La Nuova Italia, Firenze, 1986 Marina Montesano, Streghe. Origini, mito, storia, Giunti Editore, Firenze, 2020 Richard Kieckhefer, La magia nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 2004

fessione e fu liberato. È solo un esempio di quanto, da lí a poco, in tutta Europa si sarebbero accesi i roghi sui quali salivano povere donne e uomini vittime di quella cultura popolare che era sopravvissuta all’affermazione del cristianesimo e che durerà ancora per molti secoli a venire.

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vita da conquistare Una

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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All’epoca del Decameron anche il solo venire al mondo era un’impresa non priva di rischi, tanto per le puerpere quanto per i neonati. E l’infanzia, soprattutto per le classi piú povere, poteva essere appesa a un filo. A chi, però, aveva avuto la fortuna di sopravvivere a quegli attimi cruciali, la vita riservava momenti d’amore e di svaghi

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Giochi di bambini, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1560. Vienna, Kunstihistorisches Museum.

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el Bucolicum Carmen, raccolta di liriche in latino che Giovanni Boccaccio scrisse a piú riprese fra il 1346 e il 1374, la piú commovente è Olympia, dedicata alla figlia Violante, scomparsa nel 1358 all’età di soli sei o sette anni. Nel testo, il protagonista Silvio (lo stesso Boccaccio), mentre sta per rincasare al tramonto, scorge una luce intensissima nel bosco, decide di avvicinarsi e scopre la figlioletta Olympia (Violante): crede si tratti di un sogno, ma le chiede perché non si sia piú fatta né vedere né sentire. Con dolci parole, Olympia rivela di essere volata in cielo, racconta dell’incontro con Dio, con la Madonna e con il nonno. Infine saluta il padre con un sorriso angelico, ma, prima di tornare nei Campi Elisi, lo conforta dicendogli che prima o poi si sarebbero ritrovati e avrebbero vissuto insieme per l’eternità. La disgrazia di perdere uno o piú figli era molto frequente ai tempi di Boccaccio: da uno studio effettuato sulla realtà fiorentina fra il Trecento e il Quattrocento, a partire dai diciott’anni la donna aveva in media una gravidanza ogni due anni; a trentasette aveva partorito dieci volte ma, oltre agli aborti spontanei, un bambino su tre moriva entro i cinque anni di vita. Un esempio di amore filiale ci viene dalla nona novella della quinta giornata, già ricordata in una delle puntate precedenti (vedi «Medioevo» n. 304, maggio 2022; anche on line su issuu. com): a Firenze, la ricca Giovanna è rimasta vedova con un figlio ancora piccolo e «come usanza è delle nostre donne, l’anno di state [tutti gli anni durante l’estate] con questo suo figliuolo se n’andava in contado [campagna] a una sua possessione». Suo vicino di casa è Federigo degli Alberighi, che ha dissipato la sua fortuna per conquistare Giovanna, ma senza successo. Al giovane cavaliere è rimasto solo un falco,

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Lorella questa è una foto molto piccola

con cui si reca a caccia. Il «garzoncello s’incominciò a dimisticare con Federigo e a dilettarsi di uccelli e di cani; e avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente piacendogli [piacendogli oltremodo], forte disiderava d’averlo ma pure non si attentava [osava] di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro».

L’ultimo desiderio

Purtroppo il fanciullo si ammala «di che la madre dolorosa molto, come colei che piú no’ n’avea [non aveva altri figliuoli] e lui amava quanto piú si poteva tutto il dí standogli dintorno non restava di confortarlo e spesse

volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, ché per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l’avesse». Il bambino le rivela che se possedesse il falcone forse guarirebbe, ma all’inizio Giovanna è titubante, non osa chiederlo a Federigo: «Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone, che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse e oltre a ciò il mantiene nel mondo [in vita]? E come sarò io sí sconoscente [indiscreta] che a un gentile uomo al quale niuno altro diletto è piú rimaso, io questo gli voglia torre?». Ma poi «tanto la vinse l’amor del novembre

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Pagina di un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Le vignette illustrano la nona novella della quinta giornata: Federigo degli Alberighi mostra il suo falcone a monna Giovanna e a un’altra donna e poi lo serve alla prima come pietanza. Nella pagina accanto una madre allatta il suo bambino, particolare dell’affresco di Cenni di Francesco raffigurante la Strage degli Innocenti, nella Cappella della Croce di Giorno a Volterra. 1410.

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vivere al tempo del decameron/11 La terza novella della settima giornata in un’edizione del Decameron illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Da sinistra, frate Rinaldo giace con la madre del proprio figlioccio e viene quindi ricompensato dal marito della donna per la presunta guarigione del bambino. Nella pagina accanto la stessa novella in un’altra edizione del Decameron, illustrata da un miniatore fiorentino. 1427-1430. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La vignetta raffigura frate Rinaldo che finge di guarire il figlio di donna Agnesa mentre il marito sta per entrare in casa.

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figliuolo» che il giorno dopo si reca a pranzo da Federigo e al termine gli chiede il falco per amore del figlio. A quella richiesta, il cavaliere si dispera: non avendo null’altro da offrirle, le aveva servito il falco. La donna rimane stupita dall’altezza dell’animo di Federigo, disposto a sacrificarle quanto di piú caro aveva al mondo. Giovanna torna a casa a mani vuote e il figlio «o per malinconia [dolore] che il falcone aver non potea o per la ’nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto [che a ogni modo lo avrebbe condotto a quel punto], non trapassare molti giorni che egli con grandissimo dolore della madre di questa vita passò». Qualche tempo dopo, Giovanna si impunta con i fratelli, sceglie il nullatenente Federigo come marito e vivono felici per sempre. Grande è dunque l’amore che lega Giovanna al figlio: pur di soddisfarne il capriccio è disposta a chiedere l’estremo sacrificio all’uomo che oltre ad avere respinto, deve ulteriormente ferire. Questo sentimento filiale nel Medioevo affiorava in tutta la sua intensità quando il bambino aveva imparato a esprimersi, come in questo caso, perché si sperava che avesse superato l’età critica dei cinque anni

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quando, come abbiamo visto, piú frequenti erano i casi di mortalità infantile. Oltre alle malattie, le cause di morte prematura erano varie. A volte le madri tenevano l’infante nel letto per non doversi alzare ad allattarli e i piccoli morivano soffocati sotto il peso della madre.

Affidati alle balie

Spesso i bambini, ma soprattutto le bambine – la cui sopravvivenza era considerata meno importante per le famiglie – venivano affidati alle nutrici: in questo modo la madre era libera di affrontare un’altra gravidanza. Inoltre si credeva che il latte di una donna incinta fosse nocivo e quindi non dovesse essere somministrato ai neonati. Le balie vivevano in campagna, nutrivano di piú i propri figli rispetto a quelli che venivano loro affidati, erano esse stesse malnutrite e avevano ben poco da dare ai piccoli: è stato calcolato che il diciassette per cento dei bimbi dati a balia moriva. Per questo motivo i genitori mettevano al collo dei piccoli amuleti di corallo e altri talismani per preservarli da sciagure impreviste. Data la frequente mortalità infantile, la continuità della famiglia era ricercata nell’elevato numero di figli maschi.

All’epoca di Boccaccio, il parto e il post parto rappresentavano un pericolo mortale sia per la madre che per il bambino, a causa della scarsa igiene e per la mancanza di medicine efficaci in caso di infezioni o altri mali. A volte le ostetriche praticavano il taglio cesareo per salvare e battezzare il bambino. Se la madre e il figlio morivano, non venivano sepolti in terra consacrata perché la donna era considerata colpevole di portare in grembo un essere non battezzato: stessa sorte del bambino nato morto. Appena nati, i bambini sopravvissuti al parto erano avvolti in strette fasciature come piccole mummie, solo gli occhi e la bocca rimanevano liberi: si pensava che le loro ossa fossero fragili e, se non sorrette, si sarebbero piegate o deformate. Per questo motivo prima si faceva assumere al bimbo la posizione degli arti desiderata e poi si procedeva rapidamente alla stretta fasciatura: in realtà era una concezione ortopedica del tutto errata perché aumentava i casi di lussazione dell’anca. Si utilizzava una benda lunga almeno due metri, per i figli dei ricchi in lino o cotone di colore bianco e rosso: il rosso aveva un significato apotropaico, pro-

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vivere al tempo del decameron/11 teggeva cioè dalle malattie come la rosolia e il morbillo che causano sfoghi rossastri sulla pelle; i figli dei poveri dovevano accontentarsi di una stoffa in ruvida canapa non tinta e perciò a buon mercato. Quando finalmente i bambini sopravvissuti erano in grado di stare in piedi da soli, venivano liberati dalle fasce e avevano diritto al loro primo e unico vestitino: un camicione rosso senza biancheria intima sotto, con due grandi spacchi laterali per facilitare i movimenti. Per insegnargli a camminare venivano utilizzati due tipi di girelli: il primo era una sorta di carrello con le ruote al quale il bambino si appoggiava per spingere, mentre l’altro era un cubo, anch’esso a rotelle, in cui si infilava il bambino che si sosteneva ai bordi. Una volta capaci di camminare e poi di correre, i pargoli avevano a disposizione un’ottantina di giochi – rappresentati nel dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio Giochi di bambini (vedi alle pp. 54/55) – soprattutto all’aperto. Per le strade medievali si potevano vedere i bambini giocare a nascondino, a moscacieca, oppure mentre facevano rotolare il cerchio in metallo delle botti. Bande di monelli prendono in giro i disgraziati, come il prevosto di Fiesole [VIII, 4]. Il sacerdote ama un’avvenente vedova che non vuole saperne di lui, ma è decisa a smascherarlo davanti al vescovo per porre fine a quella corte incessante e indesiderata. Un giorno monna Piccarda fa credere al prevosto di cedere alle sue avances, ma gli mette nel letto e al buio la sua cameriera «alquanto maliziosetta». La fantesca aveva «il piú brutto viso e il piú contraffatto che si vedesse mai: ché ella aveva il naso schiacciato forte e la bocca torta e le labbra grosse e i denti mal composti e grandi, e sentiva del guercio [era piuttosto guercia], né mai era senza mal d’occhi, con un color verde e giallo che pareva che non a Fiesole ma a Sinagaglia

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avesse fatta la state [avesse trascorso l’estate a Senigallia, cioè in una regione all’epoca malarica e dove nella stagione calda si prendevano le febbri] e oltre a questo era sciancata e un poco monca dal lato destro; e il suo nome era Ciuta [diminutivo di Bencivenuta], e perché cosí cagnazzo [di colore verde e giallo] viso aveva, da ogni uomo era chiamata Ciutazza». Il vescovo scopre il prevosto a letto con la Ciutazza, gli fa una lavata di capo, ma ancora peggio «per un gran tempo egli non poteva mai andar per via che egli non fosse da’ fanciulli mostrato a dito, li quali dicevano “Vedi colui che giacque con la Ciutazza”; il che gli era sí di gran noia, che egli ne fu quasi in su lo ’mpazzare». Ovviamente Piccarda si è tolta di torno il fastidioso spasimante per sempre.

Tre noccioli per giocare

Un divertimento piú innocente per i bambini medievali consisteva nel gonfiare la vescica del maiale come un palloncino. D’estate questa vescica era utilizzata come galleggiante per imparare a nuo-

In basso testa di bambola in piombo. Fine del XIII-inizi del XIV sec. Parigi, Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo. Nella pagina accanto un bambino gioca con un cavalluccio di legno, particolare di un trittico raffigurante la Presentazione al Tempio. Fine del XV sec. Parigi, Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo.

tare. Quando nevicava, i fanciulli andavano a giocare a palle di neve e se i corsi d’acqua ghiacciavano, le mandibole degli equini venivano utilizzate per costruire i pattini. Uno dei giochi piú conosciuti era quello dei tre noccioli, solitamente di pesca o di susina, come rivela Calandrino [IX, 5] riferendosi ai giovani incapaci: «In mille anni non saprebbero accozzare tre man di noccioli». Il gioco consisteva nel porre tre noccioli per terra, con una mano se ne lanciava uno in aria, con la stessa se ne afferrava un altro prima di prendere il primo che doveva ricadere dentro la mano. Si tenevano cosí tutti e due i noccioli. Poi se ne lanciava uno e se ne raccoglievano due insieme, in modo da averne tre in mano quando ricadeva quello lanciato. A volte i bambini erano utilizzati per coprire le marachelle degli adulti. A Siena, Rinaldo «giovane assai leggiadro e di onorevole famiglia» [VII, 3] ama Agnesa, una sua vicina di casa sposata con un uomo ricco ma sprovveduto. La donna è incinta, ma questo non ferma l’innamorato che per poterla frequentare piú facilmente diventa amico e compare del marito. Nel Medioevo il comparatico stabiliva un legame molto stretto, quasi un vincolo di sangue: sposare o avere rapporti con la comare era considerato quasi un incesto. Nonostante lo stratagemma, la donna non mostra particolare interesse nei confronti dell’avvenente corteggiatore. Forse mosso dalla delusione, novembre

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Rinaldo diventa frate francescano, ma, nonostante l’abito, continua a insidiare Agnesa che alla fine cede. Un giorno «frate Rinaldo venuto a casa la [della] donna e vedendo quivi niuna persona essere altri che una fanticella della donna, assai bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco dei colombi [nella colombaia, in soffitta] a insegnarle il paternostro [allusione sessuale], egli colla donna, che il fanciullin suo aveva per mano, se ne entrarono nella camera e dentro serratisi sopra un lettuccio da sedere [divano], che in quella era si incominciarono a trastullare». All’improvviso torna il marito che, non trovando nessuno in casa, comincia a battere forte sulla porta chiusa della stanza. Rinaldo

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si riveste in fretta e furia, intanto Agnesa elabora un piano per non essere scoperta. Mette il bambino in braccio a Rinaldo, apre la porta e va incontro al marito: «Ben ti dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, e Iddio il ci mandò; ché per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro». Il marito «bescio santo [sciocco bigotto]» a queste parole «tutto svenne [si spaventò]», chiede ad Agnesa cos’è successo a loro figlio.

Parole rassicuranti

«“Oh marito mio” disse la donna “e’ gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti ch’e’ fosse morto e non sapeva né che mi far né che mi dire, se no che

frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella [in quel momento] e recatoselo in collo [preso in braccio] disse: Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, gli quali gli s’appressano al cuore e ucciderebbolo troppo bene [sicuramente]; ma non abbiate paura, ché io gl’incanterò e farogli morir tutti, e innanzi che io mi parta di qui voi vederete il fanciul sano come voi vedeste mai”». Preghiere e scongiuri contro i vermi sono frequenti nel Medioevo, esistono anche raccolte di tali formule. Agnesa rincara la dose: «Per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sí [cosí Rinaldo] le fece dire al compagno suo nel piú alto luogo della nostra casa, e egli e io qua entro

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vivere al tempo del decameron/11 Capolettera miniato raffigurante un insegnante con i suoi studenti, da un’edizione dell’opera di Valerio Massimo Factorum ac dictorum memorabilium libri IX tradotta in catalano dal frate domenicano Antoni Casals. 1408. Barcellona, Arxiu Municipal de Barcelona.

ce n’entrammo. E per ciò che altri che la madre del fanciullo non può essere a cosí fatto servigio, perché altri non c’impacciasse, qui ci serrammo; e ancora l’ha egli in braccio, e credendom’io che egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l’orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è già tutto tornato in sé». Il marito sempliciotto crede alla fandonia «tanto l’affezion del figliuolo lo strinse, che egli non pose l’animo allo ‘nganno

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fattogli dalla moglie». Anche Rinaldo esce dalla stanza col bambino che quando vede il padre «corse a lui e fecegli festa come i fanciulli piccoli fanno; il quale reacatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che della fossa il traesse, il cominciò a basciare e a rendere grazie al suo compare che guerito l’avea». Nel frattempo arriva il compagno di frate Rinaldo che sta al gioco e gli dice: «Quelle quattro orazioni

che m’imponeste le ho dette tutte» e Rinaldo risponde: «Fratel mio, tu hai buona lena e hai fatto bene. Io per me, quando mio compar venne, no’ n’aveva dette che due, ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatto grazia che il fanciullo è guerito». In questa novella i due frati non dimostrano nessun rimorso per aver infranto il voto di castità, anzi la «fatica» per loro è stata solo quella del rapporto sessuale! novembre

MEDIOEVO


La conoscenza dei giocattoli utilizzati forse anche dal bambino di questa novella è in gran parte dovuta a una scoperta del secolo scorso. A Strasburgo vennero rinvenuti numerosi oggetti in terracotta nella bottega di un vasaio del XIII secolo: fischietti a forma di uccello, piattini e brocchette, piccoli salvadanai, cavalieri a cavallo, bamboline. Un’altra testimonianza è stata scoperta nel 2005: durante gli scavi nella cattedrale di Magdeburgo (Germania) vennero trovati gli stampi di pietra per realizzare giocattoli in stagno. Sono stati ricostruiti un pavone, un boscaiolo con la scure in mano, un cavaliere con scudo, corazza ed elmo. Basandosi sulle caratteristiche dell’armatura, è stato possibile datare i giocattoli al 1200.

La piú antica famiglia di Firenze

Come avviene anche oggi, i bambini medievali amavano disegnare. Michele Scalza «il piú piacevole e il piú sollazzevole uom del mondo» [VI, 6] dimostra agli amici che la famiglia Baronci è la piú antica di Firenze: «Voi dovete sapere che i Baronci furono fatti da Domenedio al tempo che egli aveva cominciato d’apparare [imparare] a dipignere, ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe dipignere. E che io che dica di questo il vero, ponete mente a’ [e per convincervi che io dico la verità attorno a questa questione, osservate bene i] Baronci e agli altri uomini: dove [mentre] voi tutti gli altri vedrete co’ visi ben composti e debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre a ogni convenienza largo, e tal v’è col naso molto lungo e tale l’ha corto, e alcuni col mento in fuori e in sú rivolto e con mascelloni che paiono d’asino; e èvvi tale che ha l’uno occhio piú grosso che l’altro, è ancora chi ha l’un piú giú che l’altro, sí come sogliono essere i visi che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare». Michele conclude

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sostenendo che Dio fece i Baronci quando ancora stava imparando a dipingere, per questo sono i piú antichi gentiluomini del mondo e vince cosí la scommessa. Superata la prima infanzia, giungeva il momento per i bambini vissuti ai tempi del Decameron di imparare a leggere e a scrivere. In ambito familiare il metodo utilizzato era quello di allettare il fanciullo con un premio, per esempio biscotti o dolcetti a forma di lettera: se diceva quella giusta come premio poteva mangiarsi il dolciume. Le lettere erano anche incise su tazze in peltro che servivano per la pappa. Nelle famiglie meno abbienti si utilizzava una mela come premio: veniva incisa la lettera con un coltello sulla buccia, se il bambino la indovinava il frutto era suo. Lo ricorda il burlone Buffalmacco, riferendosi allo sciocco medico Simone Villa: «Voi non apparaste miga l’abicí in su la mela» [VIII, 9]. Verso i cinque anni i fanciulli andavano a scuola: passare dall’insegnamento dei genitori basato sulla ricompensa a quello del severo maestro, risultava traumatico perché erano all’ordine del giorno castighi corporali con frequentissime scudisciate. Lo strumento per imparare a leggere consisteva in una tavoletta in legno ricoperta di gesso: vi era dipinto l’alfabeto e i piccoli scolari potevano impugnarla mettendo pollice e indice in due fori laterali. Dopo aver imparato le lettere dell’alfabeto, il passo successivo consisteva nell’abbinare consonanti e vocali e leggere a sillabe. Come letture venivano utilizzati testi religiosi: i dieci comandamenti, alcuni salmi adatti ai bambini e le preghiere come l’Ave Maria e il Padre Nostro. In maniera del tutto simile a oggi, i bambini aspettavano le vacanze con trepidazione e sfogliavano «il calendaro buono per fanciulli che stanno a leggere e forse già stato fatto a Ravenna» [II, 10]. Nel Medioevo

Da leggere Chiara Frugoni, Vivere nel Medioevo, Il Mulino 2017

si diceva che le chiese a Ravenna erano cosí numerose come i giorni dell’anno, ogni giorno corrispondeva alla festa di un santo e i ragazzi consultavano il calendario sperando di avere presto vacanza.

Venduti come schiavi

I bambini e le bambine che non andavano a scuola e neppure in monastero erano avviati al lavoro verso i sei-sette anni: garzoni di bottega i maschi, piccole servette le femmine. A Siena nell’affresco del Buongoverno dipinto da Ambrogio Lorenzetti nel 1338-39 vediamo spuntare la testina bionda di un bambino da dietro il banco di un calzolaio. Ma poteva anche andar peggio, per esempio che i bambini fossero venduti come schiavi. In Sicilia, Amerigo Abate da Trapani «di figliuoli assai ben fornito» [V, 7] aveva bisogno di servitori e «venendo galee di corsari genovesi di Levante, li quali corseggiando l’Erminia [Armenia] molti fanciulli avevan presi, di quegli, credendoli turchi, alcuni comperò». Da queste parole, deduciamo che il gentiluomo non si pone alcuna remora a sottoporre i bambini a una vita dura e senza svaghi. Nel Decameron, l’infanzia è solo accennata ma Boccaccio rende immortale la figlia Violante chiamando cosí la protagonista dell’ottava novella alla seconda giornata. Violante «bella e gentilesca [di gentile e nobile aspetto] e avvenente» entra in scena a sette anni, l’età di sua figlia quando morí. Dopo diverse traversie, da adulta Violante sposa l’uomo amato e avrà una vita felice, quella preclusa alla figlioletta dello scrittore.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Gli animali

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testi di Cristina Ferrari, Matteo Ferrari e Giuliano Milani

Una grande mostra allestita nel complesso museale di Santa Giulia ripercorre le vicende della città lombarda nel periodo compreso tra l’avvento dei comuni e il successivo instaurarsi delle signorie. Un’epoca cruciale, testimoniata anche dai molti monumenti tuttora facenti parte del tessuto urbano

Raffigurazione della città di Brescia, definita Civitacula Nova, in un registro d’estimo del 1588. Brescia, Archivio di Stato, Archivio Storico Civico. In basso compare il leone rampante, scelto come stemma comunale.

BRESCIA

«Leonessa d’Italia»


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D D

a alcuni anni la Fondazione Brescia Musei è impegnata nel comunicare al pubblico un’identità bresciana basata su tutte le epoche storiche, dall’età antica fino all’Ottocento. Fra gli obiettivi di questo disegno strategico rientra la valorizzazione di periodi poco conosciuti e dei «patrimoni minori», ovvero l’età dei comuni e delle signorie, oltre all’epoca veneta. «E proprio per valorizzare questi tasselli di storia e cultura – spiega Stefano Karadjov, direttore della Fondazione – si è deciso di ricorrere a mostre temporanee, la prima delle quali, “La città del Leone: Brescia nell’età dei comuni e delle signorie”, è stata appena inaugurata a fine ottobre. Si tratta di una mostra che potremmo definire “sussidiaria”, in quanto pensata e organizzata per rilanciare e raccontare ai cittadini, soprattutto ai bambini e ai ragazzi delle scuole, un periodo sostanzialmente poco noto e poco studiato. Questo è dovuto anche alla scarsa continuità, in quanto a Brescia, a differenza di altre città, si è assistito al continuo avvicendamento di diverse famiglie, invece che all’instaurarsi di un’unica casata in grado di mantenere solidamente il potere per secoli». «Il progetto – spiega Matteo Ferrari, curatore della mostra – è stato avviato nel 2019 e inizialmente si trattava di un evento per celebrare i 500 anni della Compagnia dei Custodi delle Sante Croci, Ordine nato nel 1520 appunto con lo scopo di custodire il Tesoro delle Croci della città. Il tesoro, comprendente anche la reliquia della Santa Croce e la Croce del Campo (quella che, secondo la tradizione, veniva issata sul Carroccio), viene citato per la prima volta

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nel 1250 circa negli Statuti cittadini, che menzionano sia la Croce del Campo che la reliquia della croce di Cristo. Nel 2020 però, con il COVID, si è subito un arresto e quando i lavori sono ripresi nell’autunno del 2021 la ricorrenza era ormai non piú attuale». Si è scelto quindi di far «evolvere» la mostra per dipingere un piú esaustivo ritratto di Brescia bassomedievale.

Una svolta decisiva

«I secoli finali del Medioevo – prosegue Ferrari – costituiscono del resto una fase storica fondamentale per la costituzione della forma organica e materiale (mura, palaz-

zi, chiese) e immateriale (identità) della città e del suo territorio, che si è qui voluto esaminare alla luce degli orientamenti piú recenti della storiografia, analizzando in particolare il ruolo delle magistrature comunali prima e delle signorie dopo. Lo studio, affrontato in modo organico e approfondito, prende in esame le istituzioni civiche bresciane, gli uomini che ne diressero l’azione, le forme di governo e gli strumenti di comunicazione, oltre al ruolo svolto da Brescia sulla scena politica del Nord e Centro Italia». La forma urbana e la cultura immateriale sono infatti i due principali poli della mostra.

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Grande importanza ricoprono i «segni civici tangibili», quali lo stemma comunale con il leone blu rampante, citato anche nel titolo della mostra (solo nell’Ottocento Brescia diventerà la «Leonessa d’Italia», titolo attribuitole da Aleardo Aleardi nei suoi Canti Patrii e ripreso da Giosuè Carducci nella poesia Alla Vittoria), e i culti civici. «Tra questi ultimi bisogna citare in primis quelli delle Sante Croci e dei santi patroni Faustino e Giovita, protettori della città, ma anche figure in cui i cittadini (e quindi le autorità che li rappresentano) si identificavano, il cui culto prima affiancò a poi sostituí quello dei precedenti patroni sant’Apollonio e san Filastrio». Faustino e Giovita vengono riprodotti sugli edifici pubblici, nelle chiese, sulle porte della città, sulle monete (già nel XIII secolo) e sul sarcofago di Berardo Maggi, vescovo-signore che deteneva la «balia» sulla città, conservato nel Duomo Vecchio (1308).

I luoghi del potere

«Poteri civici e religiosi erano strettamente uniti tra loro, le cattedrali erano di fatto edifici pubblici in cui si tenevano riunioni civiche e si siglavano patti. Erano veri e propri monumenti nei quali le magistrature cittadine manifestavano il proprio potere, come testimonia un’iscrizione oggi murata sopra lo scalone di accesso al palazzo della Loggia, ma in origine inserita sopra il portale maggiore della cattedrale di S. Pietro de Dom (distrutta all’inizio del Seicento per costruire il Duomo Nuovo)». «L’iscrizione riporta una sentenza del 1177 dei Consoli in un processo giudiziario contro due persone accusate di omicidio (in mostra presentata da un disegno realizzato da Sebastiano Aragonese alla metà del Cinquecento).

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In alto stauroteca (reliquiario della Santa Croce), XI-XII sec. Brescia, Duomo Vecchio, cappella delle Sante Croci, tesoro delle Sante Croci.

A sinistra la Croce del Campo. XI-XII sec. Brescia, Duomo Vecchio, cappella delle Sante Croci, tesoro delle Sante Croci. Nella pagina accanto matrice sigillare del Comune di Gavardo. Seconda metà del XIV sec. (?). Bruxelles, Archives générales du Royaume.

Nel 1520 per la custodia del Tesoro delle Croci della città venne creato un apposito Ordine 67


Dossier Via ia L. Da Viinnci Via ia Pu steria ia

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In alto pianta del centro di Brescia, con l’indicazione dei piú importanti luoghi e monumenti citati nel testo.

Inoltre, le manifestazioni religiose che coinvolgevano maggiormente la popolazione venivano regolarmente impiegate dalle istituzioni urbane per forgiare l’identità cittadina e per organizzare il consenso». Nell’antica cattedrale distrutta veniva conservato anche il Carroccio e si potevano tenere le riunioni dei consigli. «La mostra copre un arco cronologico che va dalla seconda metà del XII secolo, con le prime for-


me di governo autonomo (i consoli), fino al 1426, data che segna la fine della dominazione viscontea e la dedizione di Brescia alla Repubblica di Venezia, con un excursus che tocca il 1438, anno dell’assedio di Niccolò Piccinino e della leggendaria comparsa dei santi Faustino e Giovita in difesa della città, fatto che li consacrò definitivamente a suoi unici patroni».

A sinistra rovescio di un grosso bresciano con i santi Faustino e Giovita emesso dal Comune di Brescia sotto la signoria di Berardo Maggi, tra il 1308 e il 1313. Sulle due pagine piazza della Loggia in una incisione del 1754. Londra, British Library.


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Sulle due pagine il sarcofago del vescovo Berardo Maggi, opera di un anonimo scultore veronese indicato come Maestro di Santa Anastasia. 1308. Brescia, Duomo Vecchio. Nel particolare qui sopra sono raffigurati i santi patroni Faustino e Giovita.

«La Brescia che conosciamo, come quasi tutte le città italiane, nasce infatti nell’età comunale, epoca di grandi operazioni architettoniche urbanistiche, che possono talvolta apparire anche sovradimensionate rispetto ai bisogni dell’epoca. Si data al 1223 l’inizio della costruzione, a opera del Comune, del palazzo del Broletto, ancora oggi tra i monumenti piú sorprendenti e noti della città, che, a partire da quegli anni, andò assumendo l’aspetto (e

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l’assetto) che ancora lo contraddistingue. Nel 1237 viene progettato l’ampio circuito di mura che racchiuderà la città, che verrà rifatto a partire dalla metà del XV secolo sotto il dominio della Serenissima (da alte e sottili, le mura diventano terrapieni) e che sarà superato solo nell’Ottocento. Tutto questo rientrava in un’operazione di pianificazione urbanistica che, tra il 1237 e il 1254, disegna il nuovo volto di Brescia e porterà alla costruzione di nu-

merosi edifici (secolari ed ecclesiastici), cosí come a interventi urbani e opere d’arte di varia natura, testimonianza di una fase monumentale che si protrae fino alla piena età viscontea, e alla costruzione del castello sul colle Cidneo». Alla metà del Duecento la città si espande fino a ricoprire l’estensione dell’attuale centro storico, che ha il suo confine nel cosiddetto «ring», ovvero i viali di circonvallazione aperti dove un tempo correvano le mura urbane. novembre

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«In questo periodo Brescia è un centro di primo piano nello scacchiere economico, politico, culturale e artistico nazionale, ruolo che si ritaglia già nella seconda metà del XII secolo quando le autonomie comunali furono minacciate dalle pretese imperiali. Come città aderente alla prima Lega Lombarda, Brescia partecipò alla scorta armata che consentí ai Milanesi di rientrare nella città distrutta dal Barbarossa nel 1162, mentre nei due secoli seguenti

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forní molti magistrati (Podestà e Capitani del Popolo) ai principali centri guelfi dell’epoca (Bologna, Firenze, Milano, Perugia), al punto che alcune famiglie bresciane arrivarono a specializzarsi nel fornire “magistrati itineranti”».

Cantieri importanti

«Tra le famiglie che si specializzarono in questo campo vanno segnalati sicuramente i Maggi, e tra questi quel Matteo (fratello di Berardo Maggi) che è oggi con-

siderato come un “modello” del podestà dell’Italia comunale. Altri magistrati di origine bresciana sono invece ricordati per aver promosso importanti cantieri architettonici in diverse città: basta pensare ad Aliprando Faba, che iniziò la costruzione del Broletto di Milano, e a Laudarengo Martinengo, che fece costruire il Palazzo del Podestà di Mantova. Brescia può inoltre vantare uomini di legge (per esempio Albertano da Brescia) che contribuirono in modo determinante

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Dossier alla formazione della cultura e del pensiero comunale, mentre alcuni dei suoi dirigenti politici lasciarono una traccia profonda nella loro epoca, come il già citato Berardo Maggi, e Tebaldo Brusato, morto durante l’assedio dalle truppe di Arrigo VII nel 1311». I magistrati comunali, prima, e le corti signorili, poi, erano anche i committenti di artisti. «Si tende spesso a dimenticare che Brescia, nei secoli finali del Medioevo, ha ospitato personalità artistiche di primo piano, quali il Maestro di Santa Anastasia, l’anonimo scultore veronese che realizzò il sarcofago di Berardo Maggi e i rilievi della Loggia delle Grida, oltre al grande pittore Gentile da Fabriano, chiamato alla corte di Pandolfo III Malatesta. Signore di Fano, Pandolfo III aveva ottenuto il dominio sulla città da Caterina Visconti e aveva instaurato la sua corte nel Broletto (che viene in parte rinnovato) per poi espandere la sua signoria (che dura dal 1404 al 1421) a Bergamo e a Lecco, facendo cosí di Brescia una sorta di capitale del suo dominio».

Da Venezia a Brescia

«Gentile da Fabriano giunge nella città da Venezia alla fine del 1413 per dipingere la cappella del palazzo del Malatesta, che si trovava alle spalle dell’attuale ex chiesa di S. Agostino nel Broletto. Di queste pitture, ammirate dai contemporanei, purtroppo restano solo pochi lacerti nel sottotetto», ma l’andamento del costosissimo cantiere può essere ancora oggi dettagliato grazie alle informazioni contenute nei Registri contabili della corte malatestiana conservati a Fano, di cui un esemplare è esposto in mostra.

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In basso statua per fontana con ritratto di vescovo (Berardo Maggi?) attribuita al Maestro di Santa Anastasia. 1308-1311. Brescia, Musei Civici, Museo di Santa Giulia. Nella pagina accanto Madonna dell’Umiltà, tempera e oro su tavola di Gentile da Fabriano. 1420-1423. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.

L’esposizione si articola inoltre in due «momenti forti»: «Il primo è dedicato all’analisi delle vicende delle istituzioni della fase propriamente detta comunale (XII-XIII secolo), delle persone che ne facevano parte (i podestà, i capitani del popolo, i giudici, i notai) e dei luoghi (primo fra tutti il Broletto, ma anche le cattedrali) che ne hanno costituito la sede privilegiata d’azione delle magistrature urbane. Il secondo riguarda invece le tre signorie che hanno marcato la storia cittadina (e il suo assetto urbanistico e monumentale) nel corso del Trecento e del primissimo Quattrocento, ovvero quella dei Maggi, quella dei Visconti e quella di Pandolfo III Malatesta». Le fasi storiche analizzate vengono raccontate in modo originale, non semplicemente allineando una serie di opere e di reperti lungo il percorso espositivo. «Le principali difficoltà sono state la carenza di documenti materiali da esporre e la necessità di raccontare le trasformazioni urbanistiche e architettoniche visibili nelle costruzioni ancora oggi esistenti, ma per loro natura inamovibili». Per questo si è fatto ricorso anche a opere piú recenti (spesso ottocentesche) che parlano del periodo, degli edifici e dei personaggi che hanno avuto un ruolo importante per la città. «I pezzi esposti sono stati selezionati per dare concretezza visiva all’operato delle istituzioni civiche bresciane, cercando di dare risalto alle diverse forme di comunicazione (verbali e, soprattutto, visive) elaborate dai novembre

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Dossier Tabernacolo con Cristo in passione tra la Madonna e San Giovanni evangelista, scultura del Maestro di Santa Anastasia, 1320 circa. Verona, Palazzo Maffei Casa Museo.

Nella pagina accanto medaglia con Domenico Malatesta Novello, opera del Pisanello. Ante maggio 1444. Brescia, Musei Civici, Medagliere.


ceti dirigenti cittadini nell’arco di quasi tre secoli, mettendo in rilievo il peso di temi quali l’araldica e la religiosità civica».

Una società in mostra

Oltre a reperti di grande effetto, quali le opere che compongono il Tesoro delle Sante Croci o quelle che provengono dalle collezioni permanenti e dai depositi del Museo di Santa Giulia, sono esposti anche oggetti privi di un valore artistico evidente, ma comunque di grande importanza per la loro singolarità ed eccezionalità: «Nella mostra sono presentati piú di un centinaio di reperti estremamente vari per natura, formato ed epoca ma tutti accomunati dal fatto di documentare la società bresciana nelle sue molteplici sfaccettature: registri e carte d’archivio, manoscritti miniati, quadri (quasi tutti ottocenteschi), iscrizioni su pietra, sculture, oltre a una cinquantina di monete e sigilli, a creare una mostra atipica, documentaria, ma anche di storia, arte, architettura e numismatica». «Si parte dalle opere che illustrano le guerre contro Federico I Hohenstaufen, meglio noto come Federico Barbarossa, rappresentate in gran parte da quadri ottocenteschi, ma anche da una copia del Diploma di Costanza, datata 1223». I quadri introducono quindi ai documenti in pergamena: «Di eccezionale importanza è un diploma originale concesso a Brescia da Enrico VI (figlio del Barbarossa) nel 1192, che conserva ancora il suo sigillo originale (fatto molto raro, perché nel XIX secolo si era diffusa la «moda» di staccare i sigilli e conservarli separatamente)». Dal Museo di Santa Giulia pro-

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vengono anche le pitture strappate dal Broletto e alcune sculture monumentali, quali il San Faustino di Porta Pile, la statua fontana di Berardo Maggi già in S. Barnaba e quattro telamoni di provenienza ignota in veste di notai. «Oltre a questi reperti nella mostra vengono esposte altre opere preziose e insolite, in gran parte provenienti dalle collezioni cittadine (Archivio di Stato, Biblioteca Civica Queriniana, Museo Diocesano) e da altre collezioni del territorio (come la Fondazione Ugo da Como), contribuendo in questo modo allo studio e alla valorizza-

zione del ricco patrimonio artistico e storico-documentario locale, spesso poco noto sia al grande pubblico che agli stessi specialisti. Il percorso espositivo è inoltre integrato da alcuni prestiti mirati da istituzioni italiane e straniere, essenziali per mettere in luce l’irradiamento della presenza bresciana e l’operato dei suoi uomini». Tra questi, «vanno citati un sigil-

lo del Comune di Cremona, alcuni manoscritti dalla Biblioteca Trivulziana di Milano e un De Civitate Dei di sant’Agostino dalla Biblioteca civica Gambalunga di Rimini, prezioso codice miniato che illumina sui caratteri della committenza malatestiana negli anni bresciani».

La città e le sue mura

«Non meno straordinario è un codice manoscritto dalla Bibliothèque nationale de France realizzato nel 1346 per Bruzio Visconti, figlio naturale di Luchino Visconti, il cui frontespizio miniato mette in scena un’esaltazione del potere visconteo e dello stesso committente, all’interno di una cornice in cui sono rappresentate tutte le città sotto il dominio milanese, tra cui Brescia. Si tratta della prima veduta della città circondata da un circolo di mura che racchiude varie costruzioni e un colle con sopra un edificio, forse un’allusione al Castello (il mastio venne completato nel 1343)». «Altri reperti degni di nota sono la matrice del Comune di Gavardo in bronzo del XIV secolo, conservata a Bruxelles, e la matrice del sigillo del Comune di Orzinuovi, conservata invece a Gavardo. Quest’ultima, rinvenuta su un colle sopra il paese, era stata defunzionalizzata e trasformata in un monile (forse per la presenza della raffigurazione di san Giorgio), fatto comunque non insolito dal momento che le matrici venivano spesso sostituite perché deteriorate o in quanto veniva modificato il disegno originale». Infine l’opera di Gentile da Fabriano è testimoniata dalla Madonna dell’Umiltà da Pisa, splendido dipinto su tavola databile ai primi anni Venti del Quattrocento. Cristina Ferrari

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Dossier Piazza della Loggia. Realizzata in epoca rinascimentale, è subito divenuta il cuore pulsante della città di Brescia.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Alla scoperta della città bassomedievale

Oltre la mostra La mostra «La città del Leone» non si esaurisce all’interno del Museo di Santa Giulia, ma, tramite una app che fornisce testi di presentazione degli edifici, invita il visitatore a proseguire a esplorare la Brescia del comune e delle signorie attraverso i luoghi legati alla mostra stessa, di cui viene ricordata la funzione nell’epoca interessata. Il percorso urbano porta alla scoperta del Palazzo comunale, delle cattedrali, ovvero il perduto S. Pietro e la Rotonda o Duomo Vecchio (che conserva il sarcofago di Berardo Maggi e la Cappella del Tesoro delle Sante Croci) e della relativa piazza del Duomo (oggi piazza Paolo VI), del

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castello, delle torri «civiche» (Pallata e Porta Bruciata), del Broletto, delle chiese conventuali degli Ordini Mendicanti, in parte finanziate dalle autorità comunali, di cui restano S. Barnaba (oggi auditorium e sala conferenze) e S. Francesco. Della perduta chiesa di S. Domenico è esposta nella mostra la lapide con l’iscrizione che celebra la fine dei lavori (1254) e il ruolo delle istituzioni. Importante è anche piazza Tebaldo Brusato, prima opera urbanistica del comune, in cui in origine si svolgeva il mercato settimanale, sorta in prossimità della porta di Torrelunga (sede della dogana).

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NUOVA LUCE PER L’ORATORIO

N

ello scorso marzo, l’oratorio romanico di S. Maria in Solario si è dotato di un nuovo impianto illuminotecnico, la cui realizzazione è stata promossa dalla Fondazione Brescia Musei e dal Comune di Brescia con il sostegno dei Rotary Club Bresciani. «Il progetto – spiega Stefano Karadjov, Direttore della Fondazione – rappresenta un importante passo per celebrare il decennale del sito UNESCO “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)”, di cui l’oratorio stesso costituisce un elemento fondamentale, anche in vista del 2023, anno in cui Brescia sarà Capitale della Cultura, insieme a Bergamo». La nuova illuminazione è, di fatto, un vero e proprio «restauro percettivo», che permette al pubblico di ammirare interamente e nella sua complessità e bellezza un luogo rilevante del complesso monumentale di Santa Giulia, sia per il ciclo di affreschi dell’aula superiore, per la prima volta com-

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di Cristina Ferrari

pletamente leggibili, che per il monumento stesso. L’Oratorio, infatti, è uno splendido esempio di architettura romanica, e viene inoltre a collocarsi in posizione centrale lungo il cosiddetto «Corridoio UNESCO», il percorso pedonale che unirà il Parco Archeologico di Brescia Romana con il Museo di Santa Giulia (entrambi siti UNESCO, appunto).

Sul sito delle terme

Inserito nel percorso del Museo di Santa Giulia, antico monastero benedettino femminile fondato dalla regina Ansa, moglie dell’ultimo re longobardo Desiderio, l’Oratorio, unico edificio romanico del complesso, è stato individuato come «edificio civico speciale», un vero e proprio scrigno e gemma d’arte e a sua volta «contenitore» di preziosi reperti, un tempo strettamente legato alla vita liturgica delle religiose. Edificato verso la metà del XII secolo su un’area occupata da terme di epoca romana, è a pianta

Sulle due pagine veduta d’insieme e un particolare degli affreschi dell’oratorio di S. Maria in Solario. La foto in alto si riferisce alla parete nord dell’aula superiore e mostra gli ultimi due riquadri del ciclo raffigurante il martirio di santa Giulia, opera di Floriano Ferramola. 1520. La teca al centro dell’ambiente custodisce la celebre Croce di Desiderio, uno dei piú importanti reperti del patrimonio bresciano.



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quadrata, in pietra locale con ampio riutilizzo di materiali antichi, sormontato da un tiburio ottagonale a sua volta sovrastato da una loggetta cieca sorretta da colonnine e capitelli altomedioevali di reimpiego (VIII-IX secolo), e presenta un’Aula inferiore e una superiore.

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I materiali di reimpiego, comprendenti blocchi lapidei lisci, decorati e iscritti, sono stati selezionati con grande accuratezza, forse per conferire maggiore sacralità e dignità alla muratura esterna dell’edificio. Nell’Aula inferiore, utilizzata dalle monache appunto come ora-

torio, sono oggi esposti tre preziosi reperti, strettamente collegati al culto delle reliquie: la Lipsanoteca, un contenitore per reliquie formato da placche in avorio montate su anima di legno del IV secolo, realizzato probabilmente da una bottega milanese e finemente decorato a novembre

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Sposalizio mistico di santa Caterina, affresco di Floriano Ferramola che orna l’abside centrale dell’oratorio. 1510-1512. Nel dipinto sono ritratte dieci sante legate all’Ordine benedettino e alle reliquie conservate nel monastero. Le figure sono abbigliate con vesti eleganti e preziose acconciature alla moda del tempo, familiari alle giovani aristocratiche destinate a prendere i voti.

rilievo con scene del Nuovo e del Vecchio Testamento. Tra le scene riprodotte si riconoscono Gesú che predica al tempio, numerosi miracoli, Giona e il mostro marino, mentre nei clipei sono scolpiti i volti degli apostoli e degli evangelisti e sui pilastrini angolari sono

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raffigurate immagini simboliche. Il coperchio è invece ornato con scene della Passione di Cristo, ovvero l’arresto e il giudizio al cospetto di Pilato. In origine, tre lastre di marmo decorate a rilievo con fregio di fiori da cui fuoriescono animali (si riconoscono un cavallo, un le-

opardo, un’antilope e un leone), erano forse parte della scena del teatro romano del II-III secolo, per poi venire riutilizzate nella tomba della regina Ansa e divenire infine altare con due fori ovali frontali per consentire ai fedeli il contatto con le reliquie. L’ultimo reperto è una crocetta d’oro del X secolo con perle, rubini, smeraldi e agate, reliquiario di un frammento del Sacro Legno della Croce. Il nome «in Solario» è probabilmente dovuto a un’ara votiva romana recante l’iscrizione «DEO SOLI / RES PVBL(ICA)» («la comunità [dedica] al Dio Sole»), utilizzata come elemento di reimpiego e che costituisce la pietra portante dell’architettura, in quanto inserita nel pilastro centrale della sala su cui insistono le volte a crociera.

Da un’aula all’altra

Una ripida scala scavata nello spessore del muro settentrionale unisce l’Aula inferiore con quella superiore, ambiente inizialmente accessibile alla sola badessa tramite una porta di ferro che lo collegava con la sala del Capitolo e gli appartamenti della badessa stessa, e poi dedicato alla preghiera individuale delle religiose, in cui, in armadi di ferro, veniva custodito il tesoro del monastero. Tale tesoro comprendeva preziosi reliquiari, arredi liturgici, codici miniati e abiti sacri, che venivano periodicamente esposti nella basilica di S. Salvatore o portati in processione nel monastero. Tre pareti dell’aula superiore sono ornate da un vasto complesso di affreschi, quasi tutti realizzati dall’artista bresciano Floriano Ferramola (1478 circa-1528), di cui fu collaboratore il giovane Alessandro Bonvicino (detto il Moretto), e dalla sua bottega. «L’esecuzione – spiega Roberta D’Adda, conservatrice delle collezioni storico-artistiche presso la Fondazione Brescia Musei – è documentata dalle date 1513, 1519,

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

1520 e 1524, inserite nelle pitture stesse, che scandiscono le fasi di realizzazione degli affreschi; probabilmente sovrammessi a una precedente decorazione, databile fra il XIV e l’inizio del XV secolo, di cui restano alcuni lacerti visibili sul muro dell’abside. Sui pilastri laterali delle tre absidi si possono invece ammirare figure risalenti al XV secolo raffiguranti l’Arcangelo Gabriele e San Bartolomeo a sinistra, la Vergine annunciata e uno scheletro incoronato con falce (la Morte) a destra». Al Ferramola e bottega si devono anche le decorazioni di vari ambienti del monastero, quali il Coro delle Monache, il Refettorio della foresteria e gli arconi delle gallerie su cui si aprivano le celle delle monache. «Gli affreschi del Ferramola sono articolati in due cicli principali, dedicati alla vita di Cristo e alle Storie di Santa Giulia, ma pre-

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sentano numerose immagini di santi e di sante, accostati senza un programma iconografico preciso, secondo la tradizione delle chiese medievali. L’insieme mantiene una certa omogeneità di linguaggio e di stile in cui emerge, soprattutto nelle pitture piú antiche quasi interamente attribuibili al maestro (gli interventi della bottega riguardano soprattutto gli affreschi piú tardi), il suo inconfondibile lessico classico, chiaro e piano contraddistinto da un’intonazione elegiaca e da una facile vena narrativa».

Figure esemplari

«La presenza delle figure dei santi slegate dai due cicli principali è forse dovuta alla destinazione dell’aula, luogo di preghiera e meditazione, in cui l’attenzione delle religiose era costantemente chiamata a esempi di santità e virtú. Le scene sono incorniciate da elemennovembre

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ti decorativi, molto precisi e raffinati, che tradiscono un’attività del Ferramola come orafo (attestata, peraltro, dai documenti)». Straordinaria è anche la decorazione della volta interna del tiburio, un cielo blu lapislazzulo su cui sono incastonate stelle in ottone dorato e al cui centro è dipinto il Padre Eterno benedicente. Il lato orientale dell’ambiente è articolato in tre absidi, in cui la tradizione colloca altari dedicati ai santi Scolastica, Agata e Benedetto, richiamati anche dagli affreschi, databili tra il 1520 e il 1527. L’abside sinistra con la Madonna in trono tra i santi Sebastiano, Scolastica, Rocco e Antonio vescovo riporta la data del 1513, mentre l’abside destra con le Storie di san Benedetto è del 1519. «Nell’abside centrale, sotto la Crocifissione del catino, è invece raffigurato lo Sposalizio mistico di santa Caterina, con una teoria di dieci sante legate all’Ordine benedettino e alle reliquie conservate nel monastero, tra le quali è possibile ri-

conoscere Cecilia, Giulia e Agnese, mentre le tre sante bambine sono Pistis (Fede), Abape (Carità) ed Elpis (Speranza), accompagnate dalla madre Sofia (Sapienza), come rappresentazione allegorica delle virtú che premettono di raggiungere la santità attraverso il martirio. Le figure sono abbigliate con vesti eleganti e preziose acconciature alla moda del tempo, familiari alle giovani aristocratiche destinate a entrare come monache nel convento», continua D’Adda.

Scene da un martirio

Sulla parete nord dell’aula superiore si dispiegano quattro riquadri che, in sequenza, illustrano i principali episodi del martirio di santa Giulia, eponima del convento, a partire dal suo arrivo in Corsica da Cartagine, con Giulia colta in preghiera mentre accanto a lei si compie un sacrificio agli idoli pagani e poi la sua condanna a morte per aver rifiutato di abiurare. Il supplizio occupa le ultime due scene: Sulle due pagine scene delle Storie della vita di Cristo affrescate da Floriano Ferramola. 1524.

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Dossier nella prima la vergine, appesa a un albero per i capelli e torturata, volge lo sguardo a un angelo che dal cielo le porge la palma del martirio, per arrivare alla scena finale della Crocifissione. «I riquadri con la leggenda della santa, datati 1520, sono stati quasi sicuramente commissionati dalla badessa Adeodata Martinengo, come si legge nella scritta “adio data” riportata in una cornice superiore, allusiva sia al nome della badessa stessa che al La lipsanoteca, un reliquiario formato da placche in avorio montate su anima di legno e decorate a rilievo con scene del Nuovo e del Vecchio Testamento. IV sec.

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sacrificio di Giulia (che si è data a Dio)». Nel registro superiore sono affrescate le Storie della vita di Cristo, intervallate dai simboli dei quattro Evangelisti e da otto tondi con Profeti nei pennacchi della cupola. Infine, sulla parete meridionale sono raffigurati vari santi ed episodi della loro vita, opera principalmente della bottega. Seicentesco è invece il grande affresco con il Trionfo della Vergine che occupa la parete occidentale dell’aula, da alcuni attribuito ad Antonio Gandino (1560-1631). La scena, scarsamente leggibile, rappresenta una processione in onore della Vergine, seduta su un carro con il Bambino in braccio, in assi-

se divina con Dio Padre e lo Spirito Santo, e alla presenza di religiosi e prelati. Il dettaglio di un gruppo di monache musicanti che si affacciano da una balaustra fa pensare che l’affresco rappresenti una delle processioni che coinvolgevano il complesso monastico. Al centro della sala, una teca custodisce uno dei piú importanti tesori del Museo, ovvero la cosiddetta Croce di Desiderio, capolavoro di oreficeria carolingia, una delle piú grandi croci astili (da processione) gemmate giunte fino a noi, ornata con 212 gemme di varia natura, da cammei a vetri a stampo, cristalli di rocca, pietre semipreziose, di cui molte

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di reimpiego di epoca imperiale e tardo-antica. «Realizzata tra il IX e il X secolo, e piú volte arricchita di nuovi elementi fino al XVI secolo (oltre all’inserimento di 17 pietre nel 1812 per sostituire alcune gemme asportate dalle religiose), la croce, in lamina metallica su anima di legno, è un vero e proprio palinsesto storico unico, anche per le dimensioni», afferma Francesca Morandini, archeologa della Fondazione Brescia Musei. All’incrocio dei bracci sono inseriti due grandi medaglioni: sul recto il Cristo Pantocratore (IX-X secolo), circondato da quattro miniature (X-XVI secolo), mentre sul verso si può ammirare il Cristo in Croce (XVI secolo). Tra le gemme di epoca imperiale e tardo-antica, ricche di immagini storiche e mitologiche e collocate principalmente sul verso, vanno citati anche un

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cammeo in sardonica con incise le Muse, uno con il mitico cavallo alato Pegaso, uno con aquila, un calcedonio con scena di lotta tra Eracle e la regina lidia Onfale, un’onice con ritratto di una principessa giulio-claudia ma anche un cammeo con una Vittoria coronata d’alloro. «È invece collocato sul fronte, dove prevalgono pezzi di epoca medievale, il celebre «vetro aureografico», costituito dalla sovrapposizione di due dischi di vetro con al centro una foglia d’oro incisa e dipinta, con una madre e due figli di alto rango, databile al III secolo».

Gemme in pasta vitrea

Tra le gemme altomedievali, forse contemporanee alla croce stessa, spiccano due pseudo-cammei a doppio strato dell’VIII-IX secolo e 18 gemme in pasta vitrea decorate a stampo realizzate nella stessa bottega. «Da segnalare so-

L’Aula inferiore di S. Maria in Solario, che le religiose insediate nel monastero utilizzavano come oratorio.

no anche un ritratto di Federico II di Svevia (XIII secolo) e due rarissime Alsengemme, gemme in pasta vitrea derivanti da calchi di cammei romani prodotte nel nord Europa di cui si conoscono solo 7 esemplari in Italia (di cui ben 6 a Brescia, 2 nella Croce di Desiderio e 4 nella Croce del Campo)», conclude Morandini. Per l’occasione è stata ripristinata anche l’antica uscita dell’Aula superiore, la porta utilizzata dalla badessa, con il restauro delle colonnine del portale medievale strombato e dipinto, ora integrata nel percorso per permettere ai visitatori di camminare sul loggiato superiore del chiostro e ammirare la sequenza delle chiese del monastero da una prospettiva diversa.

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Dossier

IL MESSAGGIO È NELLA BORSA di Matteo Ferrari e Giuliano Milani

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ra coloro che entrano ogni giorno negli uffici del Comune di Brescia, per ottenere un certificato o richiedere una carta d’identità, sono in pochi a sapere che sopra le loro teste è conservato un vasto ciclo pittorico medievale. Nell’attuale sottotetto di quello che un tempo era chiamato il Palatium novum maius – il Broletto, che il comune medievale cominciò a costruire nel 1223 – sono infatti conservate decine e decine di metri quadri di pitture di soggetto diverso, sacro e profano, stratificatesi tra XIII e XIV secolo. Le pitture restarono visibili ai visitatori fino alla fine del Cinquecento, quando Brescia fu conquistata

dalla Repubblica di Venezia. Fu allora che i nuovi dominatori decisero di ridimensionare quella che un tempo era stata un’aula dalle pareti alte, adatta a ospitare i vasti consigli cittadini, abbassandone il soffitto e contribuendo, allo stesso tempo, a nascondere e a conservare le tracce pittoriche di un’epoca trascorsa. Nei secoli seguenti il sottotetto fu quindi adattato a soffitta; sulle mura dipinte fu steso uno strato di calce e lungo le pareti si addossarono scaffalature per conservare i documenti dell’archivio. Solo durante la seconda guerra mondiale, quando, nel timore di bombardamenti, si decise di sgomberare quell’archivio, le pitture riaffiorarono. Si


provvide allora a staccare alcuni affreschi, a «restaurare» gli altri, riportando alla luce lo strato piú antico, quello che da allora occupa la maggior parte delle pareti. Il risultato è un esempio pressoché unico nel panorama dei palazzi comunali: una lunga sfilata di cavalieri di grandi dimensioni che, da destra verso sinistra, procedono lungo le pareti lunghe, uniti tra loro da catene. I cavalieri sono disposti su registri sovrapposti. Lo spazio della rappresentazione è sormontato da fasce piú strette che riportano i nomi degli individui raffigurati. Oltre al nome, contribuisce all’identificazione di ogni cavaliere anche lo stemma, che indicava agli

Uno scorcio del cortile interno del Broletto, l’antico Palazzo comunale oggi sede della Provincia di Brescia. Sulla destra, svetta la Torre del Pegol (1187, i merli ghibellini sono ottocenteschi) mentre al centro si riconosce la cupola della cattedrale di S. Maria Assunta.


Dossier Una quadrifora del Broletto, nella cui lunetta sono dipinti, da sinistra, lo stemma del podestà Ramengo Casati, il biscione visconteo e lo stemma della città di Brescia con il leone rampante. In basso la stessa quadrifora nel rilievo del prospetto nord (interno) del corpo meridionale del Broletto realizzato da Giovanni Tagliaferri. 1915. Lonato del Garda, Fondazione Ugo Da Como, Museo Casa del Podestà.

osservatori contemporanei la famiglia di appartenenza. Sopra la fascia piú alta su cui sono scritti i nomi restano in alcuni punti frammenti di ulteriori iscrizioni, che costituivano intitolazioni piú generali.

Contro la patria

Sulle intitolazioni si è concentrata l’attenzione degli studiosi, che hanno cercato di interpretare le pitture. Il fatto che esse definiscano i personaggi rappresentati come coloro che agirono contro la loro stessa «patria» e il «Popolo di Brescia», ha portato Giancarlo Andenna, profondo conoscitore della Lombardia medievale, a datare il dipinto agli anni intorno al 1270 quando il Comune, sotto la signoria di Carlo I d’Angiò, visse la presenza

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La pittura infamante

Condannati al vituperio Con il termine moderno di pittura infamante si indica una pratica ideata nei comuni italiani retti da un regime di Popolo che si affermarono negli ultimi decenni del Duecento, e visibile in Italia nei secoli successivi. Come ha chiarito Gherardo Ortalli nel suo libro La pittura infamante (che ha voluto assimilare a questo genere anche le pitture bresciane), si trattava di una pena volta al tempo stesso a rendere visibile la condanna e a macchiare la reputazione della persona colpita. Talvolta costituiva una misura straordinaria contro gli autori di delitti giudicati come particolarmente scandalosi (per esempio chi aveva

preso parte a una congiura contro i governanti), in altri casi era una pena accessoria prevista per crimini specifici come i reati finanziari (la bancarotta fraudolenta su tutti), il falso in atto pubblico o il tradimento. In questi casi era obbligatorio dipingere un’immagine del reo in un luogo visibile della città. A questo scopo si prestavano le pareti interne o esterne del palazzo pubblico, ma poteva andar bene, a sottolineare ulteriormente l’infamia del condannato, anche il bordello. L’immagine aveva spesso tratti denigratori, offensivi (in molti casi il condannato era rappresentato appeso a testa in

di un regime popolare. Lo stesso studioso, osservando che nelle intitolazioni si faceva riferimento ai cavalieri come a un «esempio» e che la pittura era accompagnata dai loro nomi scritti a chiare lettere, ha ricondotto queste immagini all’ambito della «pittura infamante», la pratica di punire in effigie gli autori di alcuni crimini particolarmente gravi, dipingendone l’immagine sulle pareti del palazzo in cui si riunivano i grandi consigli cittadini (vedi box in questa pagina). Da queste intuizioni ha preso avvio il recupero del vasto ambiente e dell’intera decorazione promosso dal Comune di Brescia, che ha posto fine a decenni di abbandono ed è stato seguito dal restauro vero e proprio. Si è cosí creata l’occasione perché storici, storici dell’arte e storici delle tecniche artistiche si impegnassero in un nuovo e piú approfondito studio dei dipinti, intrecciando le diverse competenze nel comune obiettivo di dare soluzione ai numerosi quesiti che ancora attendevano risposta.

Alcuni elementi hanno precisato quanto emerso in precedenza e confermato il carattere esemplare e infamante della raffigurazione. Le figure e le scritte furono scontornate, «scialbando» (cioè coprendo con un tono bianco) il fondo della rappresentazione, affinché figure e scritte emergessero con maggiore evidenza e la lettura fosse immediata e priva di incertezze. Il fatto che la pittura sia stata pensata in primo luogo come applicazione di una sentenza collettiva, spiega perché a un primo sguardo essa sembri monocroma e ripetitiva, giocata sulla successione di personaggi a cavallo dalla gestualità costante e standardizzata.

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Cavalli rossi e neri

Questi procedono verso una meta incerta, in atteggiamento mesto e dolente, con la mano destra al volto, vestiti di lunghe e ampie tuniche – che oggi appaiono a tinta unita, ma che in origine dovevano avere colori vari e accesi – sotto le quali si scorgono braghe nere attillate, di-

giú), o tali da rendere evidente la colpa commessa, ed era corredata da iscrizioni che identificavano il condannato e il suo delitto. L’immagine poteva essere anche arricchita da elementi accessori che descrivevano l’episodio cui si riferiva la punizione, o che anticipavano le pene infernali che il condannato aveva dimostrato di meritare. Proprio per il loro stretto legame con il provvedimento giudiziario che le aveva originate, le pitture infamanti sono in rarissimi casi giunte sino a noi. Perché fossero coperte o cancellate, in molti casi fu sufficiente la revoca del provvedimento o la morte del condannato. sposti su due fasce lungo la parete meridionale e almeno in parte su tre lungo quella settentrionale della sala, montando cavalli dalla livrea alternativamente rossa e nera. Basta un secondo sguardo perché le pitture prendano vita e si possa cogliere sotto questa apparente uniformità particolari di sferzante ironia: cosí alcuni cavalieri sembrano sul punto di essere disarcionati dalla rottura delle redini o dalla perdita di un ferro del loro animale, in un paio di casi imbizzarritosi alla vista di uno scorpione. O, ancora, si scorgono piccole scene curiose: un cavaliere che si trastulla nell’aizzare un gatto, tenuto sul braccio quasi fosse un falcone, contro un topo che tiene nella mano libera, mentre a breve distanza un altro beve con avidità da un orciolo. Tutti i cavalieri hanno un elemento in comune: un piccolo triangolo nero dotato di fili e pendagli che, legato a un anello della catena che li aggioga, volteggia alle spalle di ciascun personaggio, sospinto dal procedere della caval-

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A sinistra, in alto particolare dell’Allegoria del Cattivo Governo affrescata da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena. 1338-1339. La Tirannia appare dominata da una triade di vizi, composta dalla Vanagloria, dalla Superbia e dall’Avarizia: quest’ultima esibisce tra i suoi attributi due borse gonfie di monete. A sinistra il poeta Dietmar von Aist in una miniatura del Codice Manesse, una collezione di ballate e componimenti poetici redatta a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università. Il personaggio è ritratto nei panni di un mercante che, a cavallo di un asino, mostra alla sua amata il proprio campionario di merce, tra cui figurano alcune borse.

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Una veduta esterna del Broletto (al centro della foto), con la Torre del Pegol. Sulla destra, la cattedrale di S. Maria Assunta.

cata. Chi aveva osservato i dipinti in precedenza si era domandato di cosa si potesse trattare. Difficilmente poteva essere privo di significato: perché mai sarebbe stato ripetuto con tale costanza ed evidenza? Alcuni, notando che la forma era, in piccolo, la stessa degli stemmi, avevano pensato a una banderuola. Altri, interpretando la scena come la realistica descrizione di una fila di condannati, avevano ipotizzato che si trattasse di un drappo o di una cappa impiegata per coprire il volto del condannato al momento della decapitazione, perché non vedesse la mannaia del boia. Altri ancora l’avevano letto come un’insegna luttuosa, impie-

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gata per conferire un’ulteriore nota di mestizia al corteo.

La prova regina

Proprio dalla lettura di questo che ne costituiva il particolare piú misterioso è giunta la rivelazione piú importante per l’interpretazione del dipinto. E come talvolta avviene in questi casi, la soluzione è stata trovata simultaneamente nel corso di due analisi parallele basate su tipologie diverse di fonti: i testi scritti e le immagini. Una serie di confronti rivelano infatti che ciò che pende dal collo dei cavalieri è una borsa, e per la precisione una borsa adatta a contenere danaro. Nel Duecento questa aveva in-

fatti forma trapezoidale o triangolare, una lunga corda la assicurava alla cintura, mentre due lacci scorrevano nel bordo superiore permettendone la chiusura. Infine, alcune graziose frangette – di solito tre – ne decoravano il margine inferiore. Potevano variare il colore e il tessuto, un disegno geometrico poteva impreziosire la stoffa, ma la forma rimase inalterata per decenni, cosí come la funzione di portamonete di questo accessorio di uso quotidiano. Basta confrontare, per esempio, una miniatura del cosiddetto Codex Manesse. Fra le sue pagine troviamo il «ritratto» del poeta Dietmar von Aist, rappresentato con un cappello

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

a larghe falde tipico del mercante, mentre a cavallo di un asino è intento a mostrare alla sua amata il proprio campionario di merce (vedi foto a p. 90, in basso). Il pezzo forte è costituito da una bella esposizione di borse, tra cui ne riconosciamo alcune molto simili a quelle rappresentate nelle pitture del Broletto: quella trapezoidale già descritta e una piú piccola, di forma rettangolare, che ricorda molto quella che nella pittura bresciana porta al collo il cavaliere «Ziliolus». Nel dipinto bresciano il movimento l’ha fatta capovolgere e aprire, e dal suo interno cadono cinque monete dorate. A questo punto l’associazione tra borsa e denaro si è fatta certa e la strada interpretativa in discesa. La borsa piena di denari al collo è un elemento iconografico ricorrente nelle rappresentazioni di Giudizi Universali, impiegato per additare gli usurai e quanti, piú in generale, si sono macchiati del peccato di avarizia (basti pensare a Dante). La condanna di questo vizio fu un punto fermo della dottrina cristiana

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per tutta l’epoca medievale: l’avarizia era vista come un desiderio di possedere smodato che portava a tesaurizzare risorse, interrompendo quel continuo flusso distributivo che i teologi pensavano procedesse dal Creatore alle creature. Per questa ragione l’avarizia arrivò a com-

petere con la superbia per il titolo di origine e radice degli altri peccati, e per la stessa ragione nelle masse dei dannati, che nelle cattedrali di mezza Europa popolano le innumerevoli rappresentazioni del Giudizio, gli avidi sono quasi sempre presenti e distinguibili dalla borsa che li accompagna all’Inferno. Dalle rappresentazioni dei peccatori, la borsa passò ad attributo fondamentale del peccato stesso, come accade, per esempio, a Siena nell’Allegoria del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. Qui la demoniaca Tirannia è dominata da una triade di vizi, composta dalla Vanagloria, dalla Superbia e per l’appunto dall’Avarizia: quest’ultima esibisce come attributi un arpione, per arraffare i denari, e due borse gonfie di monete, che pendono da una pressa che ne serra il collo, impedendo al prezioso metallo di uscire. È dunque evidente che la decisione di dipingere una borsa al collo dei cavalieri bresciani rispose alla volontà di veicolare un preciso messaggio: coloro che erano stati condannati a essere dipinti novembre

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Da leggere Giancarlo Andenna, La storia contemporanea in età comunale: l’esecrazione degli avversari e l’esaltazione della signoria nel linguaggio figurativo. L’esempio bresciano, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350), Atti del XIV Convegno Internazionale di Studi del Centro Italiano di Studi di Storia ed Arte di Pistoia, Pistoia 14-17 maggio 1993, Pistoia 1995; pp. 345-360 Matteo Ferrari, La «politica in figure». Temi, funzioni, attori della comunicazione visiva nei Comuni lombardi (XII-XIV secolo), Viella, Roma 2022 Giuliano Milani, L’uomo con la borsa al collo. Genealogia e uso di un’immagine medievale, Viella, Roma 2017 Gherardo Ortalli, La pittura infamante. Secoli XIII-XVI, Viella, Roma 2015 (ed. or. 1979) Sulle due pagine particolari della teoria di cavalieri affrescata nel Broletto di Brescia. Il ciclo dipinto è databile intorno al 1270 e, sulla base degli studi e dei confronti illustrati nell’articolo, costituisce un raro esempio di pittura infamante di quel tempo.

nel palazzo si erano macchiati del peccato di avarizia. Ma nel mondo comunale, specialmente nei regimi di Popolo della fine del XIII secolo, come quello che promosse la pittura, riferirsi a questo peccato significava chiamare in causa per contrasto la nozione di bene comune, un ideale che da sempre costituiva l’aspirazione dei governi cittadini e che trovava la sua concretezza nella difesa delle risorse comuni della città: i pascoli, i boschi, i terreni collettivi, ma anche, piú in astratto, la capacità di imporre tasse nel contado, la partecipazione di tutti ai lavori pubblici, alla difesa, alla guerra. Alcuni statuti di Padova, un Comune che verso la fine del Duecento fu strettamente alleato con quello di Brescia, prevedevano che chi si fosse appropriato in maniera indebita delle risorse comunali sarebbe stato condannato a essere dipinto sulle pareti del palazzo con una borsa al collo. Ora, per quanto a Brescia non sia conservata una norma del genere, è molto probabile che la pittura sia stata eseguita per una ragione simile.

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L’analisi dei nomi rivela, infatti, che molti tra i cavalieri dipinti appartenevano a famiglie di signori dotati di possessi e giurisdizioni nel contado di Brescia, stirpi che, pur avendo venduto al Comune parte delle loro terre, mantenevano in queste località clientele e basi d’appoggio da usare in caso di contrasto con il governo cittadino. Costoro, in occasione dei periodici conflitti che provocavano, a Brescia come altrove, una frattura nell’aristocrazia urbana, si alleavano con i milites cittadini ribelli, coloro che per essere usciti dalla città, subivano il bando e cercavano appoggio in campagna.

Un Inferno profano

Anche contro questi signori, il regime di Popolo che governò il Comune di Brescia nell’ultimo trentennio del Duecento provò ad attuare una politica di recupero dei beni e dei diritti collettivi. La resistenza che i signori rurali e i loro alleati cittadini opposero a questo tentativo attirò provvedimenti punitivi, talvolta piú talvolta meno efficaci. Le pittu-

re del Broletto bresciano si spiegano bene alla luce di un regime intenzionato a mettere alla berlina, quasi collocandoli in un Inferno profano, quanti, cedendo castelli comunali al nemico, magari per denaro, o impedendo la corretta riscossione delle imposte nelle zone da loro controllate di fatto, avevano dimostrato di tenere piú al proprio tornaconto che al bene comune. Da queste considerazioni, scaturite dall’identificazione di un triangolo nero, occorre ripartire per interpretare uno dei rari esempi di pittura infamante duecentesca giunti sino a noi.

Dove e quando «La città del Leone. Brescia nell’età dei comuni e delle signorie» Museo di Santa Giulia fino al 29 gennaio 2023 Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 Info tel. 030 2977833/834; e-mail: cup@bresciamusei.com; www.bresciamusei.com

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medioevo nascosto piemonte

Un tesoro «alla

romana»

di Chiara Parente

Roccaverano, nell’Astigiano, vanta una magnifica chiesa, S. Maria Annunziata, alla quale potrebbe aver lavorato Donato Bramante. Un’ipotesi corroborata dall’aspetto del tempio, le cui caratteristiche, soprattutto in facciata, echeggiano le soluzioni adottate per la basilica vaticana di S. Pietro

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ono almeno tre i buoni motivi per visitare Roccaverano (Asti): godere degli spettacolari paesaggi collinari dell’Alta Langa, dal 2014 Patrimonio mondiale dell’UNESCO; assaggiare la Robiola di capra DOP, tutelata come Presidio Slow Food; e ammirare la chiesa di S. Maria Annunziata, considerata il monumento piú puro e organico del primo Rinascimento in Piemonte. Questo straordinario edificio religioso, nascosto nel tessuto edilizio del centro storico ed estraneo alla tradizione architettonica locale per la sua evidente «romanità», fu innalzato tra il 1509 e il 1516. A commissionarne la costruzione nella piazza del villaggio, dinnanzi alla duecentesca torre cilindrica e ai resti del trecentesco palatium dei nobili Scarampi, fu il vescovo Enrico Bruno, che, nato a Roccaverano e feudatario del borgo, svolse le funzioni di novembre

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Roccaverano (Asti). Una veduta aerea e un suggestivo scorcio della facciata della chiesa di S. Maria Annunziata. Realizzata fra il 1509 e il 1516 è considerata la testimonianza piú autentica del primo RInascimento in Piemonte.

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medioevo nascosto piemonte La sommità della facciata della chiesa di S. Maria Annunziata, realizzata in pietra calcarea e caratterizzata dal timpano nel quale è inserita l’immagine dell’Eterno nell’atto di benedire (vedi particolare a p. 100).

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MEDIOEVO


tesoriere e segretario del papa Giulio II, il ligure (era di Albisola) Giuliano della Rovere. Amante dell’arte e affezionato al paese natío il presule, con l’esplicita intenzione di onorare la memoria dei genitori, volle edificare S. Maria Annunziata all’interno dell’insediamento bassomedievale di «Rocca», forse nel luogo in cui si trovava già una preesistente cappella.

Autocelebrazione e pubblica utilità

Ricolmo di simboli e insegne araldiche della famiglia Bruno, il monumento aveva un duplice obiettivo: rendere un servizio ai Roccaveranesi, fino ad allora costretti a servirsi della vecchia parrocchiale di S. Giovanni Battista, esistente dal XIII secolo e distante qualche chilometro dal nucleo abitato, e celebrare in patria l’ascesa sociale del committente e il prestigio acquisito. Il nome del progettista non appare in alcun documento archivistico sinora rinvenuto. I legami di Enrico Bruno con Giulio II, l’analisi planime-

sia

Se

Biella

Novara Milano

Vercelli Casale Monferrato

Torino Carmagnola

Asti Bra

Cuneo

MEDIOEVO

novembre

Mondoví

Alessandria

Roccaverano MAR LIGURE

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medioevo nascosto piemonte L’architettura del monumento

Uno schema in cinque punti La parrocchiale di Roccaverano venne realizzata seguendo uno schema edilizio che, definito con il termine quincunx, risale all’architettura medio-bizantina. Con esso, generalmente, si definisce un edificio ecclesiastico a pianta quadrata, suddiviso a croce per mezzo di quattro sostegni, in modo tale che gli spazi angolari si aprano sui bracci della croce. Sia la crociera che le campate angolari sono voltate da cupole, presentando appunto la configurazione di una «quincunx», cioè di un’antica moneta di bronzo da cinque once con cinque punti

raggruppati come su un dado. Nella critica italiana la definizione è però ugualmente applicata a luoghi di culto in cui gli ambienti angolari possono essere voltati in modo diverso, prevalentemente a crociera. Sarebbe quindi piú corretto utilizzare l’espressione «chiesa a croce greca iscritta su pianta tetrastila». Tale «famiglia tipologica», tornata a fiorire nel tardo Quattrocento nell’Italia settentrionale, fu protagonista di una rinascita particolarmente importante nelle architetture religiose progettate a Roma dal Bramante e dalla sua scuola.

Sulle due pagine uno scorcio del palazzo degli Scarampi. XIV sec. A destra lo stemma della famiglia Bruno, alla quale apparteneva Enrico, committente della chiesa di S. Maria Annunziata.

trico-spaziale della costruzione e i rimandi alle novità del lessico bramantesco attuate in ambito milanese, suggeriscono tuttavia che possa trattarsi dell’architetto Donato Bramante, in quel periodo impegnato nell’ampliamento del nuovo S. Pietro a Roma. Punto di vista privilegiato per osservare l’armonico ed elegante prospetto della parrocchiale di Roccaverano, penalizzato se visto dal basso, sono le bifore al primo piano del castello, sul lato affacciato verso lo slargo. Solo in questo modo si comprende a pieno la preziosa fattura scultorea dei portali e del timpano, abitato da un immenso Eterno benedicente affiancato dai cherubini, dal sole e dalla luna, arrivando perfino a giustificare l’ornato sul laternino, altrimenti ben poco visibile.

Rileggere l’antico

La facciata in pietra calcarea, però, non vive soltanto in funzione della sua decorazione scolpita. Il frontespizio rientra infatti fra le cosiddette «reinvenzioni dell’antico». Reso «moderno» dall’ingresso monumentale, esso presenta la matura elaborazione del maestro urbinate sul tema della facciata a ordini intersecati, in cui con un perfetto rigore matematico il corpo al centro è definito da un grande ordine con frontone triangolare che contiene l’arco centrale su un secondo ordine inferiore, mentre nelle ali archi minori s’innalzano su un terzo e piú piccolo ordine, privo di trabeazione e inquadrato dalle paraste del secondo. I

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salienti del tetto, che si sovrappongono alle campate laterali, possono cosí formare l’ideale immagine di un secondo frontone di tempio intersecato con il primo. Successivamente tale modulo stilistico fu reinterpretato nelle facciate delle chiese palladiane. Modanature e rifiniture, come la cornice dentellata del portale principale, gli altissimi semicapitelli corinzi delle due lesene centrali, la cornice a ovoli e le mensoline del fregio sottostante il timpano contribuiscono a esaltare il disegno della facciata, conferendole calore e movimento. Particolare rilievo assumono nella retorica comunicativa i soli raggianti dalle otto fiamme mosse che, scolpiti a traforo, rappresentano l’emblema della famiglia Bruno trasformato in partito decorativo all’esterno nel fregio sotnovembre

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il paliotto bruno

Una severa solennità Coevo alla parrocchiale, l’altare maggiore, commissionato dalla famiglia Bruno e perciò denominato paliotto Bruno, è ora collocato nella cappella a destra del presbiterio. Motivi ordinatori della composizione lapidea sono tre dischi in porfido rosso, che appaiono incastonati entro due losanghe allungate, mentre al centro si nota una croce raggiata a sua volta inquadrata da due bastoni pastorali. Regolano la composizione degli elementi due lesene piatte dalle cornici modanate, sintomo di una solennità nuda e severa e di un ricercato pauperismo. Curiosa l’iscrizione che, incisa sopra i tre dischetti, forse provenienti dalla basilica costantiniana di S. Pietro e donati da Enrico Bruno alla parrocchiale, promette l’indulgenza a chi li veneri.

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Il paliotto Bruno, già utilizzato come altare maggiore di S. Maria Annunziata. Reca un’iscrizione che promette indulgenza a chi ne veneri i tre dischi in porfido rosso che lo impreziosiscono.

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medioevo nascosto piemonte Enrico Bruno

Un uomo di cultura al servizio del papato Enrico Bruno, presente a Roma dal 1476, fu uno dei personaggi piú importanti della corte papale dal finire del Quattrocento agli inizi del Cinquecento. La sua carriera ecclesiastica attraversò con immutata fortuna i pontificati di papi dagli orientamenti politici molto diversi: da Sisto IV della Rovere (1471-1484) a Innocenzo VIII Cybo (1484-1492) ad Alessandro VI Borgia (14921503) sino a Giulio II della Rovere (1503-1513). Proprio durante il

regno giuliesco il cursus honorum di Enrico Bruno giunse al culmine con la nomina a pro-tesoriere, e quindi a tesoriere generale della Chiesa romana nel 1505. Pratico di fabbriche e di maestranze egli fu presente, con altri prelati, quando Giulio II pose la prima pietra del pilone della nuova basilica di S. Pietro e, nelle sue vesti di tesoriere, vigilò sulle opere eseguite da Bramante, sovrintese all’acquisto dei materiali e dispose personalmente il pagamento di alcuni

tostante il timpano di facciata e all’interno a rilievo sul cornicione che ne delimita l’unità spaziale. Alla ricerca di Bramante sull’incrocio degli ordini si relaziona quella sulla corrispondenza tra l’esterno e l’interno dell’edificio, realizzata in quest’architettura a pianta centrale ricorrendo all’impiego e alla manipolazione dell’arco trionfale con la sua articolata struttura sintattica. L’elaborata gerarchia tra nicchie, volte Particolare del rilievo raffigurante l’Eterno benedicente inserito nel timpano della facciata della chiesa.

artisti – tra i quali Giuliano del Toccio, Raffaello, Giovanni Ruisch, Michele del Becca, Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, Lorenzo Lotto – che lavorarono per il pontefice. La carriera di Enrico lascia presumere che avesse ricevuto una educazione umanistica e che, pertanto, fosse un uomo di cultura. Ciò è anche dimostrato dalla sua nomina a prefetto della Biblioteca Vaticana nel 1501 e dalla presenza di una collezione di antichità nella sua abitazione romana.

e cupola conferisce infatti coesione e continuità di lettura tra l’organizzazione spaziale esterna e interna. Essa, spia della presenza di elementi bramanteschi nell’architettura del Piemonte «lombardo» tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, rende singolare la parrocchiale di Roccaverano fra tutte le altre chiese della regione, rilevando immediatamente la provenienza non locale del progetto.



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Storie, uomini e sapori

«Dove con salsicce le vigne son legate» di Sergio G. Grasso

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uccagna è un paese immaginario, un universo parallelo, un’utopia popolare medievale che autorizzava miserabili, servi della gleba e plebei a sognare un perpetuo carnevale che allontanasse lo spettro della fame e della fatica della vita contadina. Il sostantivo Cuccagna (col francese Cocagne, e lo spagnolo Cocaña) deriverebbe dal latino còquere= cuocere, passato poi all’inglese (Cokaigne) e al fiammingo (Kokanje, Cockaengen) attraverso il tedesco koken= cuocere e küken= focaccia, pasticcio. In questo luogo fiabesco il lavoro era tassativamente bandito, le case erano costruite con biscotti e dolcetti d’orzo e zucchero, strade e piazze erano lastricate di pasticci, il vino scorreva nei fiumi e le botteghe regalavano ogni genere di merci; chi avesse alzato gli occhi al cielo poteva scorgere stormi di oche arrostite, nugoli di allodole imburrate e una moltitudine di altri pennuti fasciati di lardo che cadevano dal cielo come manna, implorando di essere mangiati. Questo paradiso in terra si rifaceva ai racconti orali che circolavano in Europa tra l’XI e il XII secolo, in un momento in cui, nonostante un discreto sviluppo economico e sociale, la carestia e la fame erano

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Il Paese di Cuccagna (particolare), olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1567. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek. all’ordine del giorno per gran parte del popolo. Si idealizzava cosí quel mito dell’età dell’Oro, l’aurea aetas di Esiodo, un tempo leggendario di felicità, tranquillità e abbondanza in cui gli uomini vivevano in pace, liberi da ogni fatica e al riparo da ogni pericolo, nutriti dalla generosa terra che procurava loro ciò di cui avevano bisogno. Di questo tòpos sovversivo si appropriarono anche la parodia mitologica e la commedia greca. Cosí, tra il V e il IV secolo a.C., Ferecrate mette in scena nei Minatori un illusorio paese del godimento in cui «i fiumi sono pieni di polenta e di brodo nero».

Fiumi di brodo di carne Gli fa eco ne Le Sirene, il suo contemporaneo Nicofonte, incastrando nell’universo leggendario dell’Odissea un luogo di opulenza in cui piovono leccornie, si nuota in fiumi traboccanti di brodo di carne e nevicano focacce che si contendono il palato dei buongustai. Con le Bestie di Cratete e gli Anfizioni di Teleclide (autori attivi anch’essi nel V secolo a.C.), i pesci si cuociono da soli prima di

disporsi ordinatamente nei piatti, rendendo superflua non solo la presenza degli schiavi, ma anche l’utilità medesima del lavoro. Un primo riferimento alla Cuccagna medievale si ritrova nei Carmina burana, una collezione di componimenti satirici, amorosi e bacchici raccolti nel Codex Latinus Monacensis 4660 dell’abbazia di Benediktbeuern, l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata attorno al 740 da san Bonifacio nei pressi di Bad Tölz in Baviera. Al foglio 222 del Codex manoscritto, l’anonimo estensore novembre

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fa parlare in prima persona un sedicente «abbas cucaniensis» (abate di Cuccagna) che afferma il proprio seguito nei bibulis (assetati) e nei giocatori d’azzardo, che cercano un profitto facile e veloce nelle taverne. Merita sottolineare come i Carmina – scritti in gran parte in un latino, anche «maccheronico», probabilmente tra il 1162 e il 1164 – scaturiscano quasi certamente dalla penna di studenti di teologia, giovani ecclesiastici, clerici vagantes e «goliardi» (dal nome del gigante Golia e, per traslato, di un

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demone) insofferenti alla routine dei conventi e delle università, che sceglievano di professare la loro attività intellettuale senza vincoli istituzionali e regole sociali, affrontando un nomadismo culturale ricco di esperienze fantastiche e irripetibili.

Intenti moraleggianti Non si tratta, dunque, di componimenti dettati solo da un estremismo ribelle e frivolo, ma anche da un chiaro biasimo contro la degenerazione dei costumi e

dei rapporti sociali, la corruzione, l’avarizia e l’immoralità delle istituzioni e del clero del tempo. La piú antica invenzione letteraria della Cuccagna apparve alla metà del Duecento nel testo francese intitolato Le Fabliau de Coquaigne. Lí si descrive un fiabesco paese in cui tutto è comune a tutti, la vita scorre tra baldorie, lusso, ozio, peccati di gola e chi piú dorme piú guadagna. Quasi un terzo dei 188 versi del Fabliau riguardano il cibo, il sogno dell’abbondanza celeste in una terra in cui fame, paura

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delle guerre, delle carestie e delle pestilenze non esistono: «È una verità pura e provata Che in questa terra benedetta Scorre un fiume di vino I calici appaiono da soli Cosí come le coppe d’oro e d’argento Questo fiume di cui sto parlando È mezzo vino rosso Il meglio che si possa trovare A Beaune e oltre il mare L’altra metà è vino bianco Il perfetto tra i migliori Che è cresciuto ad Auxerre, La Rochelle o Tonnerre». Il calendario di Coquaigne, dove nessuno lavora e il denaro non si esaurisce mai, contempla solo due mesi: maggio per le messi e settembre per il vino. Non manca nemmeno una fonte miracolosa che guarisce il corpo e dona l’eterna giovinezza, mentre uomini e donne si abbandonano senza restrizioni

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morali o legali a libidini e cupidigie. Nel Fabliau emergono il potere e la goffa ingenuità di perenni tematiche consolatorie, orientati a temperare le dure realtà della vita contadina dell’epoca. A ben guardare, sono le stesse che fanno da sfondo all’epica di Gilgamesh, che ritroviamo in Platone, Luciano e Ovidio, che si agitano nelle leggende di san Brandano e del Prete Gianni, nel Bengodi del Boccaccio e nelle Maccheronee del Folengo.

La versione di frate Michael... Di ben altro intento vive un poema in lingua gaelica scritto intorno al 1330 (ritenuto la ripresa di un testo anteriore di un secolo) da un monaco francescano, identificato in frate Michael di Kildare e intitolato The Land of Cockaygne. Il formato tascabile dell’unico pergamenaceo miscellaneo che lo include con altri

testi latini, francesi e inglesi (Harley MS 913, della British Library), autorizza a pensare che facesse parte del necessaire di un frate minore che si spostava a piedi da convento a convento per predicare e istruire. Si tratta non tanto di una parodia del Giardino dell’Eden, quanto di una audace satira sulla vita e i costumi dei facoltosi monaci cistercensi che i Francescani accusavano di sontuosità, gola, edonismo e cattiva condotta sessuale. Dopo aver collocato Cockaygne da qualche parte a ovest della Spagna, frate Michael descrive strade lastricate d’oro, piazze selciate con pietre preziose, fontane e sorgenti da cui sgorgano fiumi di vino. A Cockaygne tutte le case, inclusa l’abbazia: «hanno i muri fatti di triglie, salmoni e aringhe. Le travi sono fatte di storioni, i tetti di pancetta e le recinzioni di salsicce (...) Arrosti di novembre

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Nella pagina accanto La Venerabile Poltroneria Regina di Cucagna, incisione di Niccolò Nelli. 1565. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso Il Paese di Cucagna, incisione di Niccolò Nelli. 1564. Washington, National Gallery of Art.

«mogli» all’anno. Purtroppo, per raggiungere questo Paradiso, avverte fratello Michael, l’aspirante cittadino di Cockaygne dovrà sottostare a una severa penitenza: camminare per sette anni nello sterco dei suini fino al mento.

carne e prosciutti ricoprono i campi di grano. Ad ogni passo oche grassocce si infilano da sole sugli spiedi dopo essersi rotolate in di salsa d’aglio; e cotte che siano volano all’abbazia gridando ai monaci di essere mangiate». Anche i monaci (i detestati Cistercensi) sono in grado di volare, e non presenzierebbero alle funzioni se l’abate non li chiamasse alle preghiere «sculacciando le natiche bianche di una giovane fanciulla come un tamburo». A Cockaygne esiste anche un convento di monache dentro al quale novizie e professe trascorrono la giornata nuotando nude nel fiume di latte; trastullo perfetto per i monaci che, con un breve volo, le raggiungono e scelgono quelle con cui vogliono fare sesso: avranno 12 diverse

...e quella di Boccaccio

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L’utopia cuccagnesca si diffuse in tutta Europa tra il Tre e il Quattrocento, anche con nomi diversi. La versione italiana è quella del Paese di Bengodi contenuta nella III novella dell’VIII giornata del Decamerone di Giovanni Boccaccio, composto verosimilmente tra il 1349 (anno successivo alla peste nera in Europa) e il 1351. Il racconto viene posto in bocca al furbo Maso, mentre spaccia a Calandrino notizie circa l’origine di certe pietre prodigiose che: «si trovano in Berlinzone, terra de’ Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legavano le vigne con le salsicce e avevasi un’oca per un denaio e un papero per giunta. Ed eravi una montagna tutta

di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli, e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gettavan quindi giú, e chi piú ne pigliava piú se n’aveva. E ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si beve, senza aver di dentro goccio d’acqua». Non mancano gli epigoni, o presunti tali, come Alessandro da Siena, il quale, verso la fine del Quattrocento, scrive una Historia nuova della Città di Cuccagna, o come Tommaso Garzoni che, nella Piazza universale di tutte le professioni e mestieri, rappresenta il paese di Cuccagna come una delle fanfaluche narrate dai pellegrini di ritorno da fantastici viaggi. Una interessante rappresentazione di Cuccagna è contenuta nel Capitolo di Cuccagna, apparso nel 1581 forse per la penna di tal Mariano de Patrica: «Son stato nel paese di Cuccagna: o quante belle usanze son fra loro! quello che piú ci dorme piú guadagna. Io ci dormí sei mesi, o sette sono, solo per arrichire in quel paese: pensate io guadagnai un gran tesoro! Per arrivarci stei per strada un mese, con meco mi portai sei chiavarini, e per la via mi feci buone spese. O quanta bella grascia e buoni vini, starne, fagiani, e carne di porcelli, grechi, vernaccia, malvasia, e latini! Si batton con le pertiche gli uccelli, e poi si danno alli porci a mangiare, e le Civette cacano mantelli». Tra le narrazioni del tempo, particolare fortuna ebbe la descrizione contenuta nella Storia di Campriano contadino contenuta nei Capricciosi Ragionamenti di Pietro Aretino. Vi si legge come il villano truffatore affascinava le sue future vittime narrando di un paese favoloso in cui era stato: «Io andai giú e ‘ntrai in un bel giardino: con salsiccie le vigne son legate; un fiume v’è ch’è d’un perfetto vino! Io n’ho bevuto certe corpacciate! E cappon cotti van per quel confino; montagne, v’è di cacio grattugiato,

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La terza novella dell’ottava giornata del Decameron in un’edizione illustrata da un miniatore francese. 1425-1450. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Da sinistra, Calandrino e i suoi amici cercano l’elitropia; vittima della beffa di cui è stato vittima, Calandrino bastona sua moglie. et una donna che fa maccheroni, e favvisi la giú di gran bocconi! Et in sul pal della vite v’è un tordo cotto, con una arancia sotto el pie; e un bicchier di cristal, s’io mi ricordo di malvagia pieno certo v’è; e i letti sprimacciati, che balordo istetti un pezzo, per la pure fé! Migliacci bianchi, torte e marzapani, e pinocchiati acconci in modi strani! Ed evvi ancora di molte zitelle che seco stanno sempre a sollazzare, che non vedesti mai forse piú belle! I’ so che vi faran maravigliare con loro acconciature e con gonnelle che ‘n quel paese l’uson di portare, con balli e gentilezze che ti fanno, da non partirsi da lor di quest’ anno! Come tu giungi ti lavano i piedi con un gentile c prezioso cotto e poi ti rizzi et a tavola siedi e ti pongon innanzi pan biscotto

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tortore e quaglie; e questo vo’ che creda che la non vi si paga poi lo scotto! Cappon, starne, piccion grossi e bastardi a porti innanzi le non son mai tardi! Non vi rotrei contar poi nei dí neri come il venerdl e ‘l sabato mattina: storion grossi proprio come ceri vi son o acconci, dico, in gelatina, e gli erbolati corron per sentieri, di uova fresche v’è piena la tina, e tinche e lucci e muggini e lamprede et altri pesci ancor cotti si vede».

Le scimmie e i pigri ghiottoni Nel Cinquecento Cuccagna cambia nome in Germania, dove diventa Schlaraffenland (Paese delle scimmie oziose) e nelle Fiandre sarà battezzata Luilekkerland (Terra dei pigri-ghiottoni). Tale sarà anche il titolo del celebre quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, noto ai piú come Il Paese di Cuccagna (vedi foto alle pp. 102/103). Ispirato a una stampa del suo ex datore di lavoro Pieter Balten, il quadro mette in scena, in un clima fiabesco e visionario, tre uomini (i ceti della società feudale: il borghese, il contadino e il cavaliere) sdraiati, sazi e intorpiditi, ai piedi di un albero su cui poggia una tavola imbandita; uno scudiero

veglia sul loro riposo al di sotto di un tetto ricoperto di focacce e, dietro l’albero, un pollo arrosto si sdraia su un piatto d’argento pronto per essere mangiato; sullo sfondo, un maiale arrostito corre incurante del coltello infilato nelle carni e in primo piano, tra il contadino e il borghese, campeggia un uovo mezzo mangiato che saltella sulle zampe da pulcino. Completano la visione bruegeliana una recinzione di salsicce intrecciate, una forma di formaggio parzialmente mangiata e un cespuglio di pagnotte. Tema, stile e paesaggio si ripetono spesso nell’intera opera di Bruegel, che, ispirato dalla lezione di Hieronymus Bosch, indulge a visioni allucinate, a mondi paranoici che sembrano scaturiti da sogni inquietanti. Questa che a prima vista sembrerebbe poco piú che una rappresentazione comico-farsesca ha invece un chiaro scopo moraleggiante: evocare il vuoto spirituale di chi indulge nei peccati capitali della gola e della pigrizia. Vi è anche chi vede nell’opera la satira politica nei confronti dei primi partecipanti alla lunghissima (1568-1648) rivolta olandese contro il dominio spagnolo. In questo senso il contesto generale descriverebbe il popolo olandese, appagato della propria ricchezza e dai fiorenti commerci, satollo e incapace di ribellarsi al giogo spagnolo; il pollo arrosto che coscientemente si offre per essere mangiato rappresenterebbe l’umiliazione e il fallimento delle inerti classi dirigenti del paese. La Cuccagna di Bruegel è distante anni luce dall’utopia campestre dei fabliaux medievali. In soli tre secoli la metafora del paradiso contadino si è trasfigurata in un’allegoria di accidia, malizia e avidità. Passerà ancora un secolo e quel miraggio, prima agognato e poi imputato, svanirà del tutto, rimpiazzato dalla Cuccagna aristocratica del banchetto rinascimentale. novembre

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Quando i santi prendevano le armi

Una notte d’inverno un cavaliere... di Paolo Pinti

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an Martino di Tours non morí martirizzato, ma di morte naturale: uno dei pochi. Il riferimento a Tours associato al suo nome è fuorviante, perché porta a crederlo nativo della città francese, mentre nacque a Sabaria Sicca (l’odierna Szombathely, in Ungheria) in un avamposto militare romano alle frontiere con la Pannonia. Il nome gli fu dato dal padre, tribuno militare della legione, in onore di Marte, il dio della guerra. Ancora bambino si trasferí con i genitori a Pavia, dove a suo padre, in quanto veterano, era stato assegnato un terreno, e lí trascorse l’infanzia. Vedremo fra breve come arrivò a Tours, ma ricordiamo fin d’ora che anche altri santi vengono denominati con località diverse da quelle di nascita, come il famosissimo Antonio da Padova, nato a Lisbona il 15 agosto 1195, o Nicola da Tolentino, nato nel vicino paese di Sant’Angelo in Pontano (Macerata) nel 1245.

Arruolamento coatto Nel 331 un editto imperiale impose a tutti i figli di veterani l’arruolamento nell’esercito romano e cosí Martino venne reclutato nelle Scholae, che erano un corpo scelto di cinquemila uomini perfettamente equipaggiati, dotati di un cavallo e di uno schiavo. Fu assegnato in Gallia, presso la città di Ambianum

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San Martino divide il mantello col povero, affresco di Simone Martini facente parte del ciclo con episodi della vita del santo. 1313-1318. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, cappella di S. Martino. La spada con la quale Martino taglia il mantello presenta un elso assai lungo, leggermente arcuato verso la lama, tipico del periodo in cui l’artista senese visse e operò. novembre

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(oggi Amiens), non lontano dal confine, e lí trascorse gran parte della sua vita militare. Faceva parte di reparti non combattenti, preposti a mantenere l’ordine pubblico, alla protezione della posta imperiale e al trasferimento dei prigionieri. In qualità di circitor, aveva il compito di fare la ronda di notte e d’ispezionare i posti di guardia. Durante una di queste ronde avvenne l’episodio che lo ha reso celebre e che ricorre con maggior frequenza nell’iconografia. Nel rigido inverno del 335 Martino incontrò un mendicante, coperto da pochi stracci e, non disponendo di danaro, tagliò in due il suo mantello militare (la clamide bianca della guardia imperiale) dandone la metà al poveretto. La notte seguente gli apparve in sogno Gesú, coperto della metà del suo mantello militare, che disse ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Al suo risveglio, trovò il mantello integro.

Un altro episodio del ciclo affrescato ad Assisi da Simone Martini: si tratta, in questo caso, dell’Investitura a Cavaliere di san Martino. 1313-1318. È una scena rara, nella quale compare l’imperatore Giuliano che stringe la cintura della spada ai fianchi del santo.

Battesimo a Pasqua Martino, che era già catecumeno, rimase molto impressionato da questo fatto e si fece battezzare la Pasqua seguente, pur rimanendo nell’esercito ancora per una ventina d’anni e raggiungendo il grado di ufficiale. Verso i quarant’anni, si risolse ad abbandonare la carriera militare, secondo quanto afferma Sulpicio Severo, dopo uno scontro con Giuliano, il Cesare delle Gallie in seguito noto come Apostata. Sappiamo che lottò contro l’eresia ariana, vivendo varie avventure, dandosi per un periodo all’eremitaggio e poi, fattosi monaco, fondando un monastero. Nel 371 i cittadini di Tours lo vollero loro vescovo, nonostante alcuni chierici si fossero opposti, poiché non lo vedevano bene in tale carica per il suo aspetto trasandato e le sue origini plebee. A Tours, nel 375, fondò un altro monastero e si

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dedicò all’evangelizzazione e alla lotta contro le eresie. Martino morí l’8 novembre 397 a Candes-Saint-Martin, dove si era recato per mettere pace nel clero locale. La sua santità era nota a tutti e divenne uno dei santi piú venerati, con una enorme diffusione del suo culto e la dedicazione di un numero infinito di chiese. Di certo, fu il santo del mantello, con migliaia di quadri

e sculture che lo rappresentano nel gesto di tagliarlo con la spada. Ed è proprio la spada che qui interessa, indissolubilmente legata al personaggio, anche se, per una volta tanto, non come strumento del martirio. Come abbiamo già piú volte sottolineato, gli artisti erano soliti raffigurare l’arma cosí com’era al loro tempo, moderna, e questo ci consente di disporre di un’immensa panoplia di tipologie, un vero e

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San Martino e il povero, scultura collocata sopra la porta dell’Oratorio della Scuola di San Martino, a Venezia. Inizi del XIV sec. Si nota la morfologia della spada, che ancora richiama quella dei secoli precedenti, con lama larga sgusciata al centro, elso robusto con bracci non molto accentuati, e pomo a disco. proprio catalogo di spade formatosi nel corso dei secoli. Raramente troviamo una spada «classicheggiante» o di fantasia, e prevalgono invece, quasi sempre, modelli reali, perfettamente corrispondenti ad armi in uso al momento della realizzazione dell’opera d’arte. La presenza di queste in dipinti o sculture è dunque importante perché consente di datare le opere stesse, in quanto gli studiosi di oplologia (la scienza che si occupa delle armi) possono quasi sempre classificare cronologicamente e con notevole precisione ogni

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Particolare del Polittico di San Martino, di Bernardino Butinone e Bernardo Zenale. 1505. Treviglio, basilica di S. Martino e S. Maria Assunta. La lama della spada è accuratamente descritta, con la forte costolatura centrale, mentre pomo ed elso hanno forme moderatamente fantasiose.

tipo di arma, mettendo in grado lo storico dell’arte di verificare la datazione dell’opera, che non potrà, ovviamente, essere piú «vecchia» rispetto agli oggetti che rappresenta.

Un soggetto di successo E proprio san Martino costituisce una delle fonti piú ricche per riscontri iconografici di spade. Basterà sfogliare un qualsiasi catalogo di pinacoteca per incontrare questo soggetto e, magari avvalendosi del web, si potrà constatare quanti siano e quanto diverse siano le spade. Ecco, per esempio, il San Martino

del Polittico di Monte san Martino (1477-1480) di Carlo e Vittore Crivelli, conservato a Monte san Martino (Macerata), con una spada dotata di lama a sezione rombica ed elso con estremità dei bracci allargata sul piano della lama, visitato il 10 maggio 1988 dall’allora principe Carlo d’Inghilterra, che si recò appositamente nella località marchigiana; quello, famosissimo, di El Greco, conservato nella National Gallery of Art di Washington (vedi foto qui accanto); molto noto è anche l’affresco di Simone Martini, Cappella di S. Martino della Chiesa Inferiore della basilica novembre

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San Martino e il mendicante, olio su tela del Greco (al secolo, Domínikos Theotokópoulos). 1597-1599. Washington, National Gallery of Art. La preziosa armatura indossata dal santo è tipica della fine del XVI sec.: il pittore non ha mancato di rappresentare la «resta» fissata sul petto e che serviva ad appoggiare la lancia negli scontri. di S. Francesco ad Assisi, con Storie di San Martino e La divisione del mantello (vedi foto a p. 108) in cui la spada presenta una lama larga e un elso con bracci molto lunghi, leggermente arcuati verso l’alto. A Simone Martini si deve anche una Investitura di san Martino a cavaliere, sempre ad Assisi nello stesso ciclo d’affreschi, nella quale compaiono una spada al fianco del santo e un’altra, nel suo fodero, tenuta in mano da un personaggio sulla sinistra, con la quale sorregge un copricapo a punta, del tipo di quelli universitari: quindi, l’arma è ben presente anche in questa scena, tanto è legata alla figura di Martino.

Spade e dolcetti Scultore e architetto, Guidetto da Como scolpisce, nei primi anni del XIII secolo, un San Martino che divide il mantello col povero, sulla facciata del Duomo di Lucca, mentre a Venezia, sopra la porta dell’Oratorio della Scuola di San Martino abbiamo un bassorilievo raffigurante San Martino che dona il mantello al povero, ritenuta opera quattrocentesca, ma con una spada a lama assai larga e pomo a disco rilevato al centro, che farebbe pensare a un’epoca piú alta (vedi foto a p. 110, a sinistra). Come curiosità, ricordiamo la «Spada di San Martino», dolce tipico di Piove di Sacco (Padova) dalla forma, appunto, di una spada, a volte col santo e a volte composto della sola arma, a dimostrazione di quanto il gesto di pietà sia entrato nella vita di ognuno di noi. Wikipedia ci ricorda che «L’estate di San Martino è il nome con cui

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viene indicato un eventuale periodo autunnale in cui, dopo il primo freddo, si verificano condizioni climatiche di bel tempo e relativo tepore» e questo perché la leggenda vuole che, dopo che Martino aveva dato mezzo mantello al povero, la temperatura si fece di colpo piú mite. Nei Paesi anglossasoni

questo fenomeno è chiamato Indian summer (estate indiana), che ha dato il nome a una delle piú belle storie a fumetti di tutti i tempi, firmata da Hugo Pratt e Milo Manara, del 1983-84. Prima di questa, c’era solo la arcinota poesia di Giosuè Carducci, San Martino, quella de «La nebbia a gl’irti colli...».

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Silvia Corsi Andreani (a cura di) La Divina Commedia di Antonio Maria Esposito Tra miniatura, scultura e spiritualità Leo S. Olschki, Firenze, 199 pp., ill. col.

50,00 euro ISBN 978-88-222-6822-8 www.olschki.it

La Divina Commedia in quarantadue gusci di noce: è questa la straordinaria rivelazione offerta

dal volume che documenta l’impresa, è il caso di dirlo, compiuta da Antonio Maria Esposito (19017-2007). Nato, cresciuto e vissuto a Castellammare di Stabia ed entrato nell’Ordine dei

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Barnabiti, il religioso ha coltivato una profonda e sincera passione per la scultura in miniatura e, oltre a cimentarsi con Natività e presepi, decise di mettere il suo talento anche al servizio del poema dantesco. Esposito mise a punto una tecnica originale, di sua invenzione, utilizzando per i corpi dei personaggi filamenti di pittura a olio, fatti poi essiccare

e modellati con bisturi e altri strumenti. Nel volume, le creazioni ispirate alla Commedia vengono presentate per la prima volta nella loro totalità, documentate fotograficamente da Giorgio Cossu

e sono proprio le immagini a rendere evidente l’eccezionalità dell’opera. Affiancano la documentazione e la descrizione dei gusci una serie di saggi critici, che indagano alcune delle numerose riletture e interpretazioni artistiche delle terzine di Dante, spaziando dalle miniature medievali alle creazioni

di Auguste Rodin, William Blake o Gustave Doré. Una scelta che, grazie ai possibili confronti, sottolinea il valore del lavoro di Antonio Maria Esposito, che sarebbe riduttivo considerare soltanto come il frutto di una notevole maestria e di una non meno considerevole pazienza. Stefano Mammini

Alcuni dei quarantadue gusci di noce realizzati da Antonio Maria Esposito e ispirati a episodi della Divina Commedia.

novembre

MEDIOEVO



GIULIO CESARE L’ultimo dittatore

Nato da una delle piú illustri famiglie di Roma, la gens Iulia, Gaio Giulio Cesare non tarda a far valere le sue eccezionali doti di stratega e uomo d’azione. I successi colti alla testa dei legionari lo proiettano da protagonista sulla scena politica capitolina e la sua ascesa sembra destinata a non incontrare ostacoli. In realtà, piú d’uno manifesta diffidenza, se non aperta ostilità, e le lotte intestine culminano nella guerra civile, preceduta dal fatidico passaggio del Rubicone. Uscito vincitore, Cesare diviene, di fatto, l’arbitro supremo dei destini della repubblica e ne rinsalda la supremazia sullo scacchiere mediterraneo. Riesce a superare indenne anche il malcontento generato dai favori concessi a Cleopatra, regina d’Egitto, ma nulla potrà contro la congiura infine ordita contro di lui. Il suo destino, preceduto da foschi segni premonitori, si compie nel marzo del 44 a.C., quando, colpito da ventitré pugnalate, si accascia nella Curia di Pompeo. La straordinaria parabola umana, politica e militare viene ripercorsa nella nuova Monografia di «Archeo»: il racconto avvincente delle gesta di un personaggio che piú di altri ha contribuito a fare la storia.

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