Medioevo n. 328 - Maggio 2024

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SOMMARIO

Maggio 2024 ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE Due volte santo di Federico Canaccini

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Antichi rimedi naturali di Elena Fiorin ed Emanuela Cristiani

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MOSTRE Il Rinascimento era nell’aria Attualità di Marco Polo

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MUSEI Una città si racconta

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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EVENTI Festival

Federico II Stupor Mundi

Genesi di un mito

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STORIE

di Fulvio Delle Donne

MEDIOEVO TRANSUMANISTA Esseri straordinari, anzi «piú che umani»

COSTUME E SOCIETÀ

di Lorenzo Lorenzi

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IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/2 Mercanti dalle mani bucate di Corrado Occhipinti Confalonieri

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MEDIOEVO NASCOSTO Campania

A difesa del ducato

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CALEIDOSCOPIO QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Esattore, martire e (forse) evangelista di Paolo Pinti 106 LIBRI E MUSICA Lo Scaffale La Discoteca

LA DONNA NELL’ISLAM Aysha e le altre di Biancamaria Scarcia Amoretti

LUOGHI di Domenico Camardo, Luca Di Franco e Mario Notomista

Dossier

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MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 328 - maggio 2024 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Domenico Camardo è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Emanuela Cristiani è professoressa associata di archeologia preistorica presso il Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche e Maxillo Facciali della «Sapienza» Università di Roma. Fulvio Delle Donne è professore ordinario di letteratura latina medievale e umanistica presso l’Università degli Studi della Basilicata. Luca Di Franco è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli. Elena Fiorin è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche e Maxillo Facciali della «Sapienza» Università di Roma. Lorenzo Lorenzi è storico dell’arte. Mario Notomista è archeologo dell’Herculaneum Conservation Project. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Marino Pagano è giornalista. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Biancamaria Scarcia Amoretti è stata docente di islamistica presso «Sapienza» Università di Roma. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 5, 9, 33, 34, 37, 38/39, 39, 46/47, 57, 59, 60-61, 63, 66/67, 74, 76-77, 78, 80/81, 84-85, 87, 88, 90 (alto, a sinistra), 92-93 – Cortesia degli autori: pp. 6-7, 62, 106-109 – York Archaeology: p. 8 – Ufficio stampa Musée de ClunyMusée national du Moyen Âge, Parigi: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Stéphane Maréchalle: p. 10 (alto); RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Tony Querrec: p. 10 (basso); Bibliothèque nationale de France: pp. 13 (alto), 14; RMN-Grand Palais (Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge)/Jean-Gilles Berizzi: p. 13 (basso) – Ufficio Stampa Fondazione Torino Musei: pp. 16-17 – Comune di Rimini, Ufficio Stampa: pp. 18, 19 (sinistra, alto e centro), 20 – Ufficio Stampa ADD Comunicazione ed Eventi: p. 19 (destra) – Mondadori Portfolio: Album/ British Library: pp. 32, 91; per concessione MiC/Musei Reali/Biblioteca Reale: p. 35; Album/Collection Jonas/ Kharbine-Tapabor: p. 38; Electa/Sergio Anelli: pp. 40/41; Erich Lessing/K&K Archive: pp. 42/43; Album/Oronoz: pp. 48-51; Album/Prisma: p. 52; Fototeca Gilardi: pp. 64/65, 89; AKG Images: pp. 73, 75, 79, 82-83, 90 (destra) – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 36, 44-45, 86 – Alamy Stock Photo: p. 40 – Shutterstock: pp. 58, 81 – Museo Federico II Stupor Mundi, Jesi: Stefano Binci: pp. 68 (alto), 69, 70 – Cortesia Francesco Varone: pp. 94/95, 96-105 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 68, 94.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina particolare di una miniatura raffigurante una scena di mercato, da un manoscritto del Codex Iustiniani. XIII-XIV sec.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente arte e architettura

costume e società

L’Europa delle cattedrali

Un giorno alle terme

dossier

Le origini di Firenze


LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini

MAGGIO

Due volte santo

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a festa di san Giuseppe si celebra il 19 marzo: per lo sposo di Maria, la Chiesa dei primi secoli scelse una data vicina a una festività pagana, cosí come accadde per molte altre ricorrenze, incluso il Natale, che andò a sostituire la festa del Sol Invictus. In attesa della primavera, infatti, nella civiltà romana avevano luogo i baccanali e i riti dionisiaci utili a propiziare la fertilità in concomitanza con il riesplodere della vita in tutto il creato. Verso il IV secolo ebbe inizio la tradizione di festeggiare Giuseppe come simbolo di umiltà e dedizione, anche se la prima celebrazione attestata è databile al 1030, per volere dei Benedettini. Nel corso del XIV secolo, poi, fu ripresa prima dai Servi di Maria e poi dai Francescani: si deve però attendere il 1621 perché Gregorio VI la ufficializzi in maniera solenne, rendendola obbligatoria. Nel 1870, infine, papa Pio IX lo dichiarò Patrono della Chiesa Universale, con un grado superiore a tutti gli altri santi! Giuseppe, però, è festeggiato addirittura due volte in un anno: dal 1955, infatti, il Primo Maggio si onora san Giuseppe Artigiano, protettore dei lavoratori, la cui festa è stata fissata proprio in quella data in memoria di una manifestazione operaia repressa nel sangue a Chicago il 1° maggio del 1886. Istituendo la nuova solennità, la Chiesa ha cosí voluto cristianizzare la festa laica, dando un protettore ai lavoratori. Di san Giuseppe non esistono reliquie legate al suo corpo e la sua vicenda terrena è limitata, nella narrazione dei Vangeli, a pochi episodi dei primi anni di vita di Gesú, dopo di che il falegname esce di scena. In compenso, di reliquie legate alla vita di Giuseppe si conoscono l’anello nuziale, una cintura, le bende che avrebbe ricavato dalle sue calze e con le quali avrebbe fasciato Gesú neonato, un mantello e un bastone miracoloso. Nel 985 un orafo di Chiusi avrebbe acquistato da un mercante di Gerusalemme l’anello in onice, oggi conservato a Perugia. Dalla chiesa perugina, gestita dai Francescani, l’anello fu rubato nel 1473 da un monaco tedesco che voleva portarlo in Germania: il piano criminale, però, fu fermato da una nebbia prodigiosa, che bloccò il ladro nella città di Perugia. Per evitare altri furti, nel 1487, fu fondata la Compagnia del Santo Anello di San Giuseppe che conserva la preziosa reliquia in uno scrigno per aprire il quale occorrono ben 14 chiavi. Esistono però altri due anelli attribuiti a Giuseppe: uno di fidanzamento, conservato nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi, e uno d’uso quotidiano, esposto a Messina. La cinta di San Giuseppe, intessuta di canapa piuttosto grossolana, è invece conservata a Joinville, in Francia, dove giunse a seguito della settima crociata, portata dal cronista Jean de Joinville, storico della corte di Luigi IX, re di Francia. Le bende ricavate dalle calze dello sposo di Maria, invece, sarebbero arrivate alla corte di Carlo Magno direttamente da Gerusalemme e ancora oggi, ogni sette anni, vengono esposte ai fedeli, cosí come fu stabilito a partire dal 1349, quando in Europa imperversava la peste. A Roma, sulle pendici del Palatino, nella chiesa di S. Anastasia, sono conservate, dai primi del IV secolo, le reliquie del mantello di Giuseppe e del velo della sua sposa. Secondo i vangeli apocrifi, il sacerdote Zaccaria convocò tutti i figli di stirpe reale – e quindi anche Giuseppe –, tra i quali sarebbe stato scelto lo sposo di una giovane di nome Maria. Dopo essersi fatto consegnare i bastoni dai giovani nobili, il sacerdote si ritirò in preghiera e, al momento di restituire le verghe ai legittimi proprietari, quella di Giuseppe era miracolosamente fiorita!

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In alto Sposalizio della Vergine, olio su tela di Jean-Baptiste Wicar. 1825. Perugia, Duomo. In basso il reliquiario nel quale si custodisce il Santo Anello, identificato dalla tradizione con quello nuziale di Maria e Giuseppe. Perugia, Duomo.

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il medioevo in

rima

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Antichi rimedi naturali

ARCHEOLOGIA • A partire dall’XI secolo si moltiplicarono in Europa le strutture

destinate alla cura dei lebbrosi. Per i quali fu sperimentato il trattamento con preparati a base di zenzero: una rivelazione scaturita dall’analisi del tartaro depositatosi sui denti di malati seppelliti nel cimitero di un lebbrosario inglese La pianta dello zenzero (Zingiber officinale), di cui è stato provato l’impiego nella cura della lebbra.

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ovità di estremo interesse sulla pratica medica nell’Europa medievale sono scaturite da uno studio condotto nell’ambito del progetto di ricerca MEDICAL (Medical Treatments in Medieval Leprosaria. Exploring Healing Remedies through Dental Calculus Analysis). In particolare, attraverso l’analisi del tartaro dentale, è stato possibile fare luce sulle cure prestate agli individui che vivevano nei lebbrosari medievali esaminando i resti umani recuperati nei cimiteri di due siti: il lebbrosario di St Leonard a Peterborough, in Inghilterra, e quello di Saint-Thomas d’Aizier, in Francia. Oggi conosciuta come malattia di Hansen (vedi

In alto miniatura raffigurante un medico (al centro), tra uno speziale che pesta nel mortaio un preparato e un erbolaio che raccoglie piante officinali. 1461. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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box a p. 8), la lebbra fu un vero flagello per l’Europa medievale. Solo in Inghilterra, dalla fine dell’XI secolo, vennero fondati oltre 300 ospedali, cosí da poter fornire uno spazio ai malati che ne erano stati colpiti. A partire dal XIV secolo, il numero di queste strutture iniziò però a diminuire e gli studiosi associano il fenomeno a una riduzione del numero di persone infette, forse dovuta all’impatto delle misure mitigative attuate dagli stessi lebbrosari, ma anche ad altre ragioni, come l’alta mortalità registrata durante la peste nera del 1348 e l’aumento dei casi di tubercolosi. Le informazioni pervenute dai documenti ritrovati nei lebbrosari riguardano soprattutto le donazioni ricevute, la contabilità e alcuni aspetti della vita quotidiana, ma indicazioni esplicite sui trattamenti, sui farmaci o sull’esperienza dei pazienti sono piuttosto rare, se non del tutto assenti.

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Quando gli scheletri diventano archivi Per comprendere al meglio la natura delle cure mediche a cui erano sottoposti gli individui ospitati nei lebbrosari è dunque fondamentale ricorrere alle evidenze archeologiche fornite dai resti umani. L’analisi dei resti scheletrici, e in particolare, come accennato in apertura, del tartaro dentale, è una fonte preziosa di informazioni sulle sostanze a cui un individuo è stato esposto e che si sono accumulate nel suo corpo durante la vita. Analizzando i resti scheletrici degli individui sepolti nel lebbrosario di Peterborough, lo studio, coordinato dalla Sapienza Università di Roma, ha individuato per la prima volta in Eu-

In alto immagini microscopiche che mostrano la presenza di amidi archeologici e amidi moderni (nei riquadri neri) appartenenti allo zenzero. In alto denti di uno degli individui del lebbrosario di Peterborough sui quali appare evidente la presenza del tartaro. A destra un frammento di tartaro dentale in vista anteriore e posteriore.

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ropa la prova archeologica dell’uso della radice dello zenzero (Zingiber officinale) come ingrediente medicinale. I risultati sono stati ottenuti grazie all’identificazione dei microresti di questo vegetale intrappolati all’interno del tartaro dentale. Un ulteriore dato interessante emerso dallo studio è che questo trattamento medico fu riservato soprattutto alle donne ospitate in questa struttura tra l’XI e il XIII secolo.

Una pianta con molte qualità Lo zenzero è una spezia di origine esotica che in passato era difficile da reperire e quindi particolarmente costosa; veniva impiegato nella composizione di preparati medicinali poiché si riteneva possedesse proprietà terapeutiche utili per la cura di diverse malattie e in particolare della lebbra. A oggi, però, non erano mai state individuate tracce del suo uso in associazione della lebbra. Lo zenzero compare in molte ricette medievali di preparati medici, nelle quali si raccomandava

Goccioline fatali La malattia di Hansen, meglio conosciuta come lebbra, è un’infezione batterica cronica, ancora presente in alcune regioni del mondo. È causata dal Mycobacterium leprae o dal piú recentemente identificato Mycobacterium lepromatosis. L’inalazione di goccioline cariche di batteri è il metodo di trasmissione piú comunemente accertato. Per la trasmissione della lebbra è necessario un contatto stretto e prolungato con una persona infetta di almeno settimane o mesi. Durante il periodo di incubazione, che di solito va dai 2 ai 10 anni, una persona può non mostrare alcun segno o avvertire alcun sintomo. La malattia colpisce i nervi periferici, la pelle, le vie respiratorie e altre parti del corpo, come lo scheletro. I bioarcheologi sono in grado di riconoscere la lebbra nei resti umani grazie alla presenza di alcune specifiche alterazioni scheletriche visibili sulle ossa del viso, delle mani e dei piedi. Nella pagina accanto i resti della cappella del lebbrosario di Saint-Thomas d’Aizier (Normandia, Francia). In basso gli scavi nel cimitero del lebbrosario di St Leonard a Peterborough.

Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

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di strofinare o tenere la medicina sui denti, sulla lingua e sulle gengive. Lo zenzero era altresí impiegato come ingrediente all’interno di medicine per gli occhi, preparati da utilizzare con gargarismi contro la tosse e la raucedine o la perdita della voce, o come mezzo per spurgare il naso. È interessante notare che le parti del corpo da trattare menzionate nei manoscritti sono le stesse che vengono gravemente colpite dalla lebbra (bocca, occhi, naso e le corde vocali). I risultati dello studio sono l’ulteriore conferma di come il tartaro restituisca dati di notevole importanza, grazie ai quali si può non solo ricostruire la dieta delle popolazioni antiche, ma anche ottenere informazioni sui rimedi medici e curativi del passato, difficilmente identificabili nei reperti archeologici. La presenza di zenzero nel tartaro dentale degli individui sepolti nel lebbrosario di St. Leonard a Peterborough apre dunque nuove, straordinarie prospettive nella ricerca archeologica sulla medicina medievale e antica. Il progetto di ricerca MEDICAL è finanziato dall’UE ed è stato intrapreso con il sostegno del programma di azioni Marie SklodowskaCurie. Lo studio sul tartaro di denti rinvenuti

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Quando lo «sporco» diventa una risorsa Il tartaro dentale umano, un deposito di placca mineralizzata che si forma sui denti, è composto da componenti inorganici (sali di fosfato di calcio) e organici (lipidi, carboidrati, molecole di DNA e proteine). Il suo accumulo, cosí come la sua composizione e quantità, varia tra le persone ed è influenzato da fattori quali l’igiene orale, la dieta, l’età, il profilo genetico e le malattie. L’analisi del tartaro antico si è rivelata una tecnica analitica molto promettente e informativa in bioarcheologia, poiché il tartaro intrappola e conserva particelle di cibo e altre sostanze ingerite o inalate durante la vita dell’individuo. Queste analisi consentono anche l’identificazione di specie vegetali, che potrebbero riflettere rimedi medicinali piuttosto che il consumo di cibo. nel cimitero di St Leonard è frutto della collaborazione tra il laboratorio DANTE (Diet and Ancient Technology) del Dipartimento di Scienze odontostomatologiche e maxillo facciali della Sapienza Università di Roma, l’Università di Roma Tor Vergata e le università inglesi di Durham, Warwick e Nottingham. Elena Fiorin ed Emanuela Cristiani

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ANTE PRIMA

Nel segno di un grande condottiero E

dizione speciale per Perugia1416, la rievocazione storica che dal 14 al 16 giugno trasformerà l’acropoli del capoluogo umbro in un teatro a cielo aperto per celebrare, con giochi medievali, un sontuoso corteo storico, conferenze, taverne, visite guidate a tema, presentazione di libri e altri eventi collaterali, le gesta del valoroso condottiero e signore di Perugia Braccio Fortebracci, nell’anno in cui ricorre il sesto centenario della morte. Per l’occasione, cittadini e studiosi di storia e amanti dell’arte attendono la ricollocazione dell’urna con le spoglie di Braccio nella cappella del Crocefisso di S. Francesco al Prato, dove è stata per secoli. Nei giorni della manifestazione, Perugia si offre a turisti e visitatori in una versione inedita e ancora piú vivace. Bandiere colorate e stendardi a finestre e balconi dei 5 rioni cittadini, centinaia di figuranti in costume che passeggiano sul corso e tra i vicoli della città, atleti che dal venerdí alla domenica si sfidano ai giochi medievali – Tiro con l’arco, Mossa alla torre, Corsa del drappo –, la Pax Perusina il venerdí, ossia il suggestivo ingresso in notturna di Braccio, in pace dopo la battaglia, e un sontuoso corteo storico con abiti d’epoca la domenica pomeriggio, che concorre, anch’esso, alla sfida per il Palio: l’allegoria di quest’anno sarà ispirata al tema del viaggio. E inoltre appuntamenti con la musica antica, una video installazione ad accesso gratuito nella città sotterranea che introduce al centro storico, artisti di strada e altre iniziative collaterali che animano l’acropoli perugina per un intero fine settimana.

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Anche il cibo è cultura Invitante anche il programma gastronomico, tra ristoranti e pizzerie, gelaterie e pasticcerie, senza contare il fiore all’occhiello dell’evento: le taverne con tanti piatti della tradizione locale di sapore medievale. Ci sarà persino una tavola rotonda e la finale di un concorso gastronomico quest’anno incentrato sulla ciaramicola, popolare dolce medievale tipico perugino le cui origini sembra risalgano al XV secolo. Il tutto tra i monumenti e alcuni dei luoghi simbolo

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Un momento delle rievocazioni allestite per Perugia 1416. di Perugia, come i sotterranei della Rocca Paolina e della cattedrale di S. Lorenzo, tra volte, logge, i collegi medievali del Cambio e della Mercanzia pozzi etruschi e la fontana Maggiore, a cui si aggiunge un tour speciale sui «Luoghi di Braccio2»: due visite guidate nel centro storico di Perugia venerdí 14 e domenica 16 giugno. Perugia1416 rievoca in particolare gli avvenimenti del 1416, quando Braccio Fortebracci, vittorioso nella battaglia di Sant’Egidio, il 12 luglio rientrò a Perugia dopo un lungo esilio, accolto dalla Reggenza, che gli consegnò le chiavi della città acclamandolo signore e tributò copiosi festeggiamenti. Braccio prese cosí il governo di Perugia, iniziando la sua signoria de facto, che portò pace e buongoverno in una Perugia protagonista del suo sogno, breve e incompiuto, di un regno italico di cui sarebbe dovuta essere capitale… Lasciò a Perugia segni importanti del suo mecenatismo, tuttora tangibili; preceduto dalla sua fama, continuò a combattere conquistando nuovi territori: la sua morte avvenne otto anni dopo, durante l’assedio dell’Aquila. L’evento coinvolge i cinque magnifici Rioni cittadini – Porta Sant’Angelo, Porta San Pietro, Porta Santa Susanna, Porta Eburnea, Porta Sole – ciascuno con il proprio colore e la propria effige. Protagonisti i Rionali di ogni età, bambini e ragazzi affascinati da dimostrazioni di vita medievale, storie e cantastorie, letture, laboratori, trampolieri e mangiafuoco, artigiani rievocatori dei mestieri del tempo tra cui quelli che battono l’antica moneta perugina, forgiano armi, tessono e dimostrano, sfide a duello di scherma medievale e giochi storici, danze e canti, musici, sbandieratori, tamburini e arcieri: l’atmosfera di un Medioevo in festa! Programma e approfondimenti: www.perugia1416.com maggio

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ANTE PRIMA

Il Rinascimento era nell’aria MOSTRE • Negli spazi

del Museo di Cluny, a Parigi, una ricca selezione di opere di grande pregio documenta la brillante stagione artistica vissuta dalla Francia negli anni in cui Carlo VII cinse la corona di re

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iglio di Carlo VI e di Isabella di Baviera, Carlo VII, quattordicenne, divenne delfino di Francia per la morte dei fratelli maggiori nel 1417 e venne anche nominato luogotenente del regno. Tre anni piú tardi, fu però diseredato dal padre – reso incapace dalla pazzia –, alla cui morte, nel 1422, fu riconosciuto re dagli Armagnacchi e riuscì a stabilire a Bourges una parvenza di governo (per scherno, fu appunto soprannominato il «re di Bourges»). Infuriava da tempo la Guerra dei Cent’anni e, in realtà, gli Inglesi dominavano tre quarti della Francia e Carlo VII mancava dell’energia e dei mezzi necessari a un forte

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In alto il baldacchino realizzato per il trono di Carlo VII. 1430-1440 circa. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra ritratto di Carlo VII, olio su tavola di Jean Fouquet. 1450-1455 circa. Parigi, Museo del Louvre. governo e alla ripresa militare. Le sue truppe subirono ripetute sconfitte, fino a che, nel 1429, Giovanna d’Arco riuscì a condurle alla liberazione di Orléans e, nello stesso anno, Carlo poté finalmente essere incoronato a Reims. Come racconta la nuova mostra allestita nel Museo di Cluny, a Parigi, lo stato di belligeranza non ostacolò il fiorire delle arti, anche nelle regioni settentrionali del maggio

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regno, occupate dagli Inglesi e dai Borgognoni. Una fioritura che si fece ancor piú vistosa all’indomani dell’incoronazione di Carlo: grandi mecenati, come Jacques Cœur, si rivolsero a una nuova generazione di artisti, che fecero propria la lezione del realismo fiammingo, in pieno sviluppo soprattutto grazie a Jan van Eyck. Altrettanto decisiva fu l’influenza italiana, rinnovando il tributo all’eredità dell’antico sviluppato da maestri come Filippo Brunelleschi, Donatello o Giovanni Bellini. Nel complesso, la creazione artistica ruppe progressivamente il legame con il gotico internazionale, volgendosi verso una nuova visione della realtà, nella quale si colgono i primi embrioni del Rinascimento.

Un momento di svolta Il percorso espositivo offre dunque una panoramica approfondita del contesto artistico e storico in cui Carlo VII cinse la corona francese. Come accennato, furono anni turbolenti, segnati dal protrarsi della Guerra dei Cent’anni, che si concluse solo nel 1453. La consacrazione di Carlo a Reims, nel 1429, segnò comunque un momento di svolta: ebbe infatti inizio In alto una pagina miniata delle Grandi Ore di Rohan. 1440 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra insegna in piombo del Delfino di Francia. Inizi del XV sec. Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge.

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DOVE E QUANDO

«Le arti in Francia sotto Carlo VII (1422-1461)» Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 16 giugno Orario ma-do, 9,30-18,15; chiuso il lunedí Info www.musee-moyenage.fr

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ANTE PRIMA

una stagione di riforme militari e istituzionali che portarono alla progressiva riconquista dei territori occupati dagli Inglesi e alla riorganizzazione del regno. Il nuovo sovrano si distinse anche come mecenate e attorno a lui si raccolse una corte illuminata, i cui membri si dimostrarono particolarmente sensibili nei confronti delle avanguardie artistiche del tempo. E mentre Parigi si confermava come polo creativo di primaria importanza, altri centri emersero grazie al patrocinio della nobiltà, della borghesia e del clero. La circolazione degli artisti favorí lo scambio di stili e modelli, anche se alcuni centri si rivelarono piú permeabili di altri alla modernità. Di fatto, è opinione condivisa che la produzione culturale e artistica del regno di Carlo VII ha contribuito all’avvento della Rinascenza

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in Francia, aprendo la strada a una nuova visione della realtà e sviluppando la ricerca di una propria modernità.

Pagine di un Libro dei Tornei riccamente decorato dalle miniature di Barthélémy d’Eyck. 1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Prestiti importanti

dei piú grandi pittori francesi del XV secolo, a cui si deve il celebre ritratto dipinto su legno di Carlo VII. Quella del sovrano è una presenza che potremmo peraltro definire pervasiva, perché molteplici sono i riferimenti alla sua persona e al suo ruolo contenuti in molte delle opere esposte. Ricorrono, per esempio, il motivo dei cervi alati e quello del sole d’oro, associato, quest’ultimo, agli esordi del suo regno. E anche dal punto di vista cromatico non mancano i messaggi: come nel caso del suo motto, rappresentato dal rosso, dal bianco e dal verde, cioè dai colori dominanti nel ritratto realizzato per lui da Fouquet. (red.)

La mostra riunisce una ricca e prestigiosa selezione di opere, che comprendono manoscritti miniati, dipinti, sculture, opere d’oreficeria, vetrate e arazzi. Spiccano, fra gli altri, il baldacchino realizzato per il trono di Carlo VII, il manoscritto noto come Grandi Ore di Rohan – un Libro d’Ore realizzato da un maestro anonimo e che da esso ha preso nome –, o il trittico della Passione e Resurrezione di Cristo attribuito ad Andrea d’Ypres, ricomposto per la prima volta nella sua interezza, grazie ai prestiti del Louvre, del Getty Museum e del Museo Fabre. Un’intera sezione è poi dedicata a Jean Fouquet, uno

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ANTE PRIMA

Attualità di Marco Polo MOSTRE • Nel settecentesimo

anniversario della morte del mercante e viaggiatore veneziano, Torino gli rende omaggio rinnovando l’allestimento di un’esposizione declinata nel segno dello scambio e del dialogo tra Oriente e Occidente

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poco piú di sei mesi dalla prima inaugurazione, il Museo d’Arte Orientale ha svelato il riallestimento di «Tradu/izioni d’Eurasia», la mostra che racconta, attraverso una rinnovata e puntuale selezione di ceramiche, tessuti, metalli e manoscritti, l’affascinante storia del viaggio dell’arte, della cultura, delle tradizioni, della lingua dall’Asia Orientale al bacino mediterraneo (e ritorno). Un’iniziativa pensata come celebrazione del settecentesimo anniversario della morte di Marco

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In alto sciamito in seta con tori e leoni. Asia centrale, civiltà sogdiana, VII-VIII sec. Genova, Fondazione Bruschettini per l’Arte Islamica e Asiatica.

Bruciaprofumi in bronzo fuso, traforato, inciso e ageminato in argento a forma di felino. Iran, XII-XIII sec. The Aron Collection.

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Polo, al pari del quale, per migliaia di anni, gli esseri umani si sono spostati lungo le vie carovaniere che univano Asia ed Europa. Insieme a loro hanno viaggiato idee, motivi, conoscenze, un intero patrimonio migrante – materiale e immateriale – che, in ogni luogo, ha saputo mettere radici attraverso un costante processo di adattamento. «Tradu/izioni d’Eurasia» racconta questa storia, fatta di storie, di innesti, di contaminazioni e di tradimenti: è la nostra storia, una narrazione che accomuna angoli lontani del continente eurasiatico piú di quanto siamo disposti a credere e che dimostra quanto il concetto di confine sia sempre stata un’idea illusoria e arbitraria.

Nel segno del blu Nel nuovo allestimento, che si apre con una installazione dello studio berlinese Zeitguised, esplode il tema del blu, spesso accostato per contrasto al bianco: accanto ad alcuni preziosi vasi, piatti e ciotole dalla provenienza piú diversa (dalla Cina a Delft, passando per l’Iran), giunti in prestito dal Museo delle Civiltà di Roma, dal Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza e dal Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina di Napoli, trovano spazio due capolavori della pittrice Giovanna Garzoni, appartenenti alla collezione delle Gallerie degli Uffizi di Firenze. Al tema dell’uva e, per estensione, al vino è dedicata la sezione successiva: importantissimo per i Sogdiani, il vino era utilizzato non solo per libagioni e durante la celebrazione dei rituali zoroastriani, ma anche come merce di scambio. L’elemento decorativo del grappolo d’uva è presentato in mostra attraverso una selezione di ceramiche provenienti da Cina, Turchia e Iran – a testimonianza della

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sua diffusione – e attraverso uno straordinario obi giapponese del maestro Yamaguchi Genbei, un tessuto di quasi 5 m di lunghezza dove ritorna il motivo beneaugurale dei grappoli.

Regalità e buon auspicio Il cuore del reload è dedicato alle opere site specific dell’artista franco-marocchina Yto Barrada, ospite d’onore del progetto espositivo. In dialogo con le opere di Yto Barrada sono posti alcuni tessuti e ceramiche, in prestito dalla Fondazione Bruschettini per l’Arte Islamica e Asiatica. La nuova selezione presente in mostra propone raffinati esemplari di produzione ottomana decorati con il simbolo del cintamani, un antico motivo religioso di origine buddhista che, rielaborato e reinterpretato, finirà per diventare un simbolo di Bottiglia in ceramica tipo ladjvardina dipinta in bianco, rosso e oro su invetriatura blu. Iran, forni di Kashan, dinastia ilkhanide, fine del XIII-inizi del XIV sec. Roma, Museo delle Civiltà.

regalità, potere e buon auspicio soprattutto in Iran e Turchia e, piú in generale, in ambito islamico; a questi manufatti è accostato il prezioso manoscritto illustrato del XVI secolo Shanameh, Il libro dei re, opera del poeta persiano Ferdowsi, proveniente dalla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze: in alcune delle sue numerose e finissime illustrazioni si può osservare l’eroe persiano Rustam vestito con un manto decorato con motivo a cintamani. Il motivo delle squame trova spazio nella sezione successiva, dove è esposto vasellame in metallo e ceramica proveniente da India, Turchia, Iran, Cina e Italia in prestito al MAO dai Musei Civici di Bologna e da alcune importanti collezioni private. Legato alla buona salute e alla ricchezza, il tema iconografico delle squame è frutto di molteplici incontri culturali e artistici e può essere considerato emblema dei «mondi in connessione» a cui la mostra è dedicata. La mostra si chiude con la poetica installazione immersiva Shimmering Mirage (Black), 2018, di Anila Quayyum Agha, che trasporta il pubblico in un altrove immaginario, e con la sala di consultazione affidata alla curatela di Reading Room, spazio milanese dedicato alle pubblicazioni indipendenti e alle edizioni d’artista, dove è collocata anche un’opera video dell’artista libanese Ali Cherri, The Watchman (2023). (red.)

DOVE E QUANDO

«Tradu/izioni d’Eurasia Reloaded. Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale» Torino, MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre Orario ma-do, 10,00-18,00; lunedí chiuso Info www.maotorino.it

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ANTE PRIMA

Una città si racconta MUSEI • È stato svelato il nuovo allestimento delle sezioni del Museo della Città

di Rimini che documentano la produzione artistica compresa fra l’Alto Medioevo e il Quattrocento. Riflesso di una stagione assai fiorente per il capoluogo romagnolo

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innovate negli spazi e arricchite nella proposta artistica e divulgativa, sono state riaperte le sezioni del Museo della Città «Luigi Tonini» di Rimini che riuniscono opere e reperti dall’Alto Medioevo al Quattrocento. È stato cosí restituito ai visitatori un segmento fondamentale della storia dell’arte riminese e l’iniziativa ha assunto un valore particolare, poiché l’inaugurazione è avvenuta a 100 anni dalla creazione della Pinacoteca, al tempo allestita presso l’ex convento di S. Francesco, poi sede dell’intero Museo fino ai tragici bombardamenti del 1943-44. Un compleanno speciale, quindi, che il Comune di Rimini ha festeggiato svelando quattordici nuove sezioni tematiche, quattro stazioni multimediali a contenuto diversificato e oltre 170 opere tra sculture, dipinti, medaglie e ceramiche: un patrimonio

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A sinistra Storie della Passione di Cristo (particolare), tempera e oro su tavola Giovanni Baronzio. 1330-4130. In deposito dalla Fondazione Cassa Risparmio di Rimini al Museo della Città. A destra Pietà: Cristo morto con quattro angeli (particolare), tempera e olio su tavola di Giovanni Bellini, dal Tempio Malatestiano. 1475 circa. Rimini, Museo della Città. che permette di ripercorrere la storia delle chiese paleocristiane del territorio, della Rimini della Pentapoli e di quella Comunale, e della grande stagione del Trecento fino al Quattrocento malatestiano.

Inediti accostamenti L’intervento di rigenerazione espositiva ha coinvolto oltre un quarto del percorso del Museo. Inediti accostamenti, l’aggiornamento dell’illuminazione, maggio

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Giocare con i Longobardi

In alto un momento delle indagini diagnostiche sul Giudizio Universale (1315 circa) di Giovanni da Rimini curate da Università Ca’ Foscari in collaborazione col Museo. In basso frammento di pluteo con motivi vegetali, pavone e fiori. VIII-IX sec. Rimini, Museo della Città.

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l’integrazione con sistemi tecnologici rendono la visita di questa porzione del Museo un’esperienza piú moderna e coinvolgente. Grazie al racconto, al tempo stesso cronologico e tematico, sono ora rievocate le storie, i luoghi, i personaggi e i protagonisti della Rimini che fu. Per guardare con occhi diversi le opere già note e scoprire manufatti in alcuni casi invisibili da decenni, come il sarcofago del duca Martino e del figlio Agnello (III e VIII-IX secolo) già in S. Colomba, o il pluteo con croci del VI secolo, proveniente dalla chiesa dei Ss. Andrea, Donato e Giustina, ricomposto per l’occasione dopo le distruzioni belliche. Tornano cosí a parlare le sculture e i rilievi provenienti dalle chiese scomparse d’età paleocristiana e medievale, in particolare quelli della cattedrale di S. Colomba, tesoro sacro scomparso e sconosciuto al grande

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ue Mappe Longobarde aricchiscono il catalogo del videogioco Minecraft. Scaricabili gratuitamente, sono state realizzate da Maker Camp per l’Associazione Italia Langobardorum, ente di gestione del sito seriale UNESCO «I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)». L’avventura virtuale porta i ragazzi in una tipica città longobarda dell’VIII secolo in cui prendono vita i sette monumenti storici sparsi per la Penisola, ricreando atmosfere e architetture di un tempo in stile Minecraft. Dotato di una bussola, il protagonista viene guidato attraverso antiche strade e botteghe, dove missioni speciali come il restauro della chiesa di S. Sofia (Benevento), la protezione degli affreschi nella basilica di S. Salvatore (Brescia), la rimozione della vegetazione invadente al Tempietto del Clitunno (Campello sul Clitunno) o affrontare strane presenze all’interno della grotta del santuario di S. Michele (Monte Sant’Angelo), diventano occasioni uniche per interagire con la storia. Sarà anche necessario rinforzare le porte della città, creare mattoni al forno, raccogliere carbone per la forgiatura del ferro, tra le altre azioni, per contribuire al restauro e alla difesa dei monumenti. Queste attività non solo permettono ai monumenti di riacquistare il loro splendore originale all’interno dell’esperienza di gioco, ma offrono ai ragazzi l’opportunità di imparare giocando, facendo rivivere l’eredità culturale dei Longobardi.

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ANTE PRIMA Giudizio Universale (particolare), affesco (strappato) di Giovanni da Rimini, dalla chiesa di S. Agostino (S. Giovanni Evangelista). 1315 circa. In deposito dall’Ente Diocesi di Rimini.

DOVE E QUANDO A sinistra portastemma acefalo in marmo, opera di Agostino di Duccio, dal Tempio Malatestiano. 1450 circa. Rimini, Museo della Città.

Museo della Città «Luigi Tonini» Rimini, via Luigi Tonini 1 Orario ma-do e festivi, 10,00-13,00 e 16,00-19,00 chiuso i lunedí non festivi Info Tel. 0541 793851; e-mail: musei@comune.rimini.it; www.museicomunalirimini.it

pubblico; tornano a farsi ammirare, sotto nuova luce, le preziose tavole dell’incantevole Trecento riminese di Giovanni, Giuliano e Pietro da Rimini, i capolavori del Quattrocento, come le medaglie malatestiane di Matteo de’ Pasti, la straordinaria Pietà di Giovanni Bellini e la grande tavola di Ghirlandaio.

A tu per tu con il Giudizio E torna anche il Giudizio Universale di Giovanni da Rimini, esposto nella sala omonima, nel contesto di un importantissimo cantiere di studio diagnostico curato dall’Università Ca’ Foscari (Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali, assistenza tecnica di Madatec Milano) in collaborazione col Museo e finalizzato alla conoscenza delle vicende conservative e tecniche dell’affresco strappato. In questa fase, sarà possibile ammirare da vicino, come mai accaduto sinora, il capolavoro iconico della storia dell’arte riminese. (red.)

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ANTE PRIMA

Ecco il vino del re!

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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iamo a Caserta, nel cuore di quello che era il regno borbonico e qui Vinum Fabulas, in collaborazione con la Zecca di Lucca, la piú antica d’Europa, ha provato a coronare il sogno di re Ferdinando IV: unire in un unico progetto il vino del re e la moneta Quattro Cavalli fatta coniare dal sovrano nel 1788. Ci piace immaginare che se questa iniziativa fosse stata realizzata due secoli fa, il re avrebbe omaggiato i suoi ospiti di una bottiglia di Pallagrello, con incastonata sulla stessa la moneta voluta per celebrare appunto il suo vitigno preferito. Una bottiglia destinata a diventare da collezione, la prima del progetto Vinum Fabulas. Vinificato nelle varianti Nero e Bianco, il Pallagrello avrà una tiratura regionale limitata a soli 9999 esemplari, ciascuno numerato e certificato cosí come la moneta che lo accompagna. I collezionisti che avranno il privilegio di possedere questo unico pezzo di storia, potranno completare la collezione con l’uscita periodica a cadenza annuale di nuove bottiglie e nuove monete ispirate a personaggi che hanno fatto la storia. Nella mente del re il progetto però era ancora piú grande e importante, tanto che nel 1788 fece coniare una moneta con un grappolo d’uva, simbolo di fecondità, con un emblematico profilo del grappolo stesso che ricorda la forma di un cuore. Cosí Domenico Cuozzo, founder di Vinum Fabulas, racconta come è nato il progetto e la sua mission: «Ci siamo ispirati a una storia vera di 300 anni fa. Il Pallagrello era il vino preferito della famiglia reale dei Borbone, immancabile sulla tavola di Ferdinando IV, che si vantava di offrirlo nei pranzi di corte a re e regine, poiché lo riteneva eccelso. I Borbone ne avviarono la produzione anche nei dintorni della Reggia di Caserta. Nel 1788 “il vino del Re” ebbe un riconoscimento unico: Ferdinando IV fece coniare una moneta con un grappolo d’uva – il Quattro Cavalli di Ferdinando IV – per celebrarne il valore». Oggi Vinum Fabulas, in collaborazione con la Zecca di Lucca dà vita al sogno di Ferdinando IV offrendo una bottiglia di Pallagrello accompagnata da una riproduzione del Quattro Cavalli realizzata dal conio presente presso la stessa Zecca toscana.

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In alto la reggia di Caserta. A sinistra una delle bottiglie di Pallagrello Nero a tiratura limitata. In basso Domenico Cuozzo, founder di Vinum Fabulas. «Siamo davvero orgogliosi – prosegue Cuozzo – di essere i primi e gli unici a offrire una bottiglia di vino con una moneta incastonata. Una moneta con una storia cosí importante! Pochi gli esemplari realizzati, tutti numerati e certificati dalla zecca che li ha coniati. Questo rende il nostro Ferdinando IV esclusivo e ancor piú unico; possiamo dire un vino da collezione. Vinum Fabulas offre quindi una doppia esperienza di collezione: sia da un punto di vista numismatico che da un punto di vista enologico. Proprio per far sí che il vino si esprima a 360 gradi e venga quindi anche degustato, ogni bottiglia da collezione è accompagnata da un’altra bottiglia da poter degustare per riscoprire anche tutto il portato visivo, olfattivo e gustativo del vino tanto amato dalla famiglia Borbone». «Stiamo inoltre lavorando a un nuovo progetto, in cui il connubio tra storia e vino darà ancora un risultato di altissimo livello. Verranno confermati i tre pilastri della nostra filosofia aziendale: una storia vera, un vino importante e la partnership con la zecca piú antica d’Europa. Avremo come protagonista il vino piú famoso al mondo, anche questo a tiratura limitata, per cui sarà data possibilità di prelazione ai collezionisti che hanno già acquistato il Pallagrello Ferdinando IV». Info e-mail: info@vinumfabulas.it; vinumfabulas.it maggio

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AGENDA DEL MESE

Mostre VENEZIA-BASSANO DEL GRAPPA RINASCIMENTO IN BIANCO E NERO. L’ARTE DELL’INCISIONE A VENEZIA (1494-1615) Venezia, Ca’ Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano fino al 3 giugno Bassano del Grappa, Museo Civico

fino al 23 giugno

Due sedi per un’unica grande mostra, dedicata alle «felicissime linee nere» dell’incisione veneziana e a

quell’autentica rivoluzione mediatica che fu la nascita e la diffusione della stampa, fenomeno epocale che investí l’Europa e trasformò Venezia in un imprescindibile crocevia di esperienze artistiche, generando alcune delle piú affascinanti realizzazioni di tutto il Rinascimento. L’esposizione propone oltre 180 capolavori grafici, circa 90 opere per sede, appartenenti al ricco corpus grafico delle raccolte civiche di Bassano del Grappa e a rilevanti collezioni pubbliche e private. Nei due percorsi viene presentata una significativa selezione di capolavori di artisti italiani ed europei del XVI secolo che rivoluzionarono il modo stesso

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a cura di Stefano Mammini

di guardare alla realtà: Andrea Mantegna, Albrecht Dürer, Jacopo de’ Barbari, Tiziano e le botteghe dei suoi incisori, Tintoretto, Veronese, Benedetto Montagna, Ugo da Carpi, Domenico Campagnola, Agostino Carracci e Giuseppe Scolari. In un percorso cronologico-tematico articolato in dieci sezioni, le due esposizioni trasportano i visitatori nell’universo monocromatico della stampa grazie anche a un allestimento che conduce alla scoperta di

un’arte raffinata e sorprendente, ricercata da tutti i collezionisti, volano per la diffusione delle piú importanti novità artistiche del tempo, e lo fa svelando i segreti delle sue differenti tecniche e l’articolazione delle botteghe di stampatori dell’epoca. info www.museibassano.it, carezzonico.visitmuve.it

Francesco, la mostra documenta l’attività dell’artista convenzionalmente designato come Maestro di San Francesco, una delle figure piú importanti del Duecento, dopo Giunta Pisano e prima di Cimabue. Dalla raccolta perugina, che conserva il principale nucleo delle opere su tavola del maestro, il percorso si estende idealmente al ciclo con Storie del Cristo e storie di san Francesco da lui eseguito nella Chiesa Inferiore della basilica di Assisi, anche in virtú dell’accordo di valorizzazione che lega il Sacro Convento alla Galleria Nazionale. Cardine dell’esposizione è la Croce datata 1272, proveniente dalla

chiesa perugina di S. Francesco al Prato, uno dei pezzi in assoluto piú importanti della Galleria, attorno alla quale ruotano gran parte delle opere del pittore, che tornano in Umbria da vari musei del mondo. In una vetrina climatizzata è collocata la sezione superstite del dossale opistografo (dipinto su entrambi i lati) che sull’altare maggiore di S. Francesco al Prato integrava visivamente la grande Croce e di cui la GNU conserva il maggior numero di frammenti. info tel. 075.58668436; e-mail: gan-umb@cultura.gov.it; www. gallerianazionaledellumbria.it; facebook @GalleriaUmbriaPerugia; instagram @ gallerianazionaledellumbria

BOLOGNA STREGHERIE. ICONOGRAFIA, FATTI E SCANDALI SULLE SOVVERSIVE DELLA STORIA Palazzo Pallavicini fino al 16 giugno

Dopo essere stata proposta con successo a Monza, «Stregherie» giunge a Bologna, in una nuova e piú ricca edizione. Alla collezione di stampe e incisioni di Guglielmo Invernizzi, famoso «collezionista dell’occulto», si aggiungono nuove opere

PERUGIA L’ENIGMA DEL MAESTRO DI SAN FRANCESCO. LO STIL NOVO DEL DUECENTO UMBRO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 9 giugno

Organizzata nell’ambito delle celebrazioni per l’ottavo centenario dall’impressione delle stigmate a san maggio

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d’arte, provenienti da collezioni private, italiane ed estere, e oggetti legati al mondo della stregoneria, concessi in prestito dal Museum of Witchcraft and Magic in Cornovaglia, e dal Museo delle Civiltà di Roma, che per la prima volta presenta la sua straordinaria collezione di amuleti in argento ottocenteschi, veri e propri gioielli, utilizzati dalle donne definite streghe o, piú spesso, contro di loro. Accanto alle opere d’arte, sono stati riuniti per l’occasione preziosi manuali di esorcismo e trattati storici imprescindibili in un percorso dedicato alla stregoneria. Fra tutti, spicca il Malleus Maleficarum, il manuale sulla caccia alle streghe piú utilizzato dalla Chiesa, che indicava, caso per caso, i supplizi e le pene da infliggere a chi era accusato di stregoneria, del quale si può ammirare la seconda edizione, stampata nel 1520. Il progetto espositivo mira a ricostruire una cultura dispersa e oppressa, ma che risorge continuamente, partendo dalle sue origini e raccontandone la storia attraverso una ricerca iconografica rigorosa, che ne attesta tutti gli aspetti. info www.stregherie.it PARIGI LA ARTI IN FRANCIA SOTTO CARLO VII (1422-1461) Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 16 giugno

Dagli anni Venti del Quattrocento, mentre ancora si combatte la guerra dei Cent’anni (1337-1453), il regno di Francia subisce profonde mutazioni politiche e artistiche. Nel Nord, occupato dagli Inglesi e dai Borgognoni, emergono molteplici centri artistici. Quando il delfino

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legno di Carlo VII, presentato nel giusto contesto nell’esposizione. info musee-moyenage.fr FORLÍ PRERAFFAELLITI. RINASCIMENTO MODERNO Musei San Domenico fino al 30 giugno

Carlo riesce a riconquistare il suo trono, grazie soprattutto a Giovanna d’Arco, e successivamente il suo regno, si creano le condizioni per un rinnovamento. Grandi committenti, come Jacques Cœur, richiamano una nuova generazione di artisti. Questi si convertono al realismo fiammingo, definito «ars nova», in pieno sviluppo soprattutto con Jan van Eyck, mentre attraverso l’influenza italiana si impregnano dell’eredità antica sviluppata da artisti come Filippo Brunelleschi, Donatello o Giovanni Bellini. La creazione artistica si distacca progressivamente dal gotico internazionale e si orienta verso una nuova visione della realtà, preludio del Rinascimento. Il percorso espositivo documenta dunque la multiforme produzione artistica fiorita durante il regno di Carlo VII. Per l’occasione sono stati riuniti manoscritti miniati, dipinti, sculture, opere di oreficeria, vetrate e arazzi, che comprendono opere eccezionali, come il baldacchino di Carlo VII, il manoscritto delle Grandi Ore di Rohan o l’Annunciazione di Aix di Barthélémy d’Eyck, pittore del duca Renato d’Angiò che realizzò le miniature per il suo Libro dei tornei. Infine, un’intera sezione è dedicata a Jean Fouquet, autore del ritratto dipinto su

Tra gli anni Quaranta dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, l’arte storica italiana, dal Medioevo al Rinascimento, ha un forte impatto sulla cultura visiva britannica, in particolare sui preraffaelliti. Questo movimento artistico, nato nell’Inghilterra vittoriana di

britanniche, grazie ai generosi prestiti concessi dai musei europei, in particolare inglesi e italiani, nonché americani, una consistente rappresentanza di modelli italiani, tra cui opere di antichi maestri; ma anche dipinti di artisti italiani della fine dell’Ottocento ispirate ai precursori britannici. info www.mostremuseisandomenico.it

NEW YORK VOLTI NASCOSTI: RITRATTI COPERTI DEL RINASCIMENTO The Metropolitan Museum of Art fino al 7 luglio

Tema della nuova esposizione proposta dal Met è una

metà Ottocento a opera di alcuni artisti ribelli – William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti – aveva lo scopo di rinnovare la pittura inglese, considerata in declino a causa delle norme eccessivamente formali e severe imposte dalla Royal Academy. Attraverso circa 300 opere – dipinti, sculture, disegni, stampe, fotografie, mobili, ceramiche, opere in vetro e metallo, tessuti, medaglie, libri illustrati, manoscritti e gioielli – l’esposizione forlivese racconta questa storia, affiancando per la prima volta alle opere

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tradizione affascinante, ma ancora poco indagata, della pittura rinascimentale: quella che consisteva nel realizzare ritratti progettati come oggetti a piú lati in cui le immagini dei soggetti erano nascoste dietro una copertura incernierata o scorrevole, all’interno di una scatola oppure adottando il formato recto/verso. Il retro e le coperture di questi ritratti erano ornati con emblemi a forma di puzzle, iscrizioni, allegorie e scene mitologiche che riflettevano il carattere dei soggetti, cosí come il piú ampio contesto culturale in cui le opere erano state realizzate. Firmate da maestri italiani e del Nord Europa – quali Hans Memling, Lucas Cranach, Lorenzo Lotto e Tiziano –, i dipinti scelti per la mostra rappresentano i momenti salienti del ritratto rinascimentale insieme ad alcune delle immagini piú originali del periodo. Si possono dunque ammirare dittici incernierati, pannelli a doppia faccia presumibilmente legati a un gancio e una catena, dipinti provvisti di coperture scorrevoli, scatole e medaglie. Gli oggetti hanno varie funzioni: dai ritratti intesi come strumenti di propaganda a quelli progettati per nascondere le identità degli amanti, pensati come segni di affetto o di fedeltà politica. info www.metmuseum.org MASSA MARITTIMA IL SASSETTA E IL SUO TEMPO. UNO SGUARDO ALL’ARTE SENESE DEL PRIMO QUATTROCENTO Musei di San Pietro all’Orto fino al 14 luglio

Dopo Ambrogio Lorenzetti, il Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, propone un altro grande appuntamento con l’arte senese, questa volta con Stefano di Giovanni,

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meglio noto come il Sassetta (attivo a Siena dal 1423 al 1450), l’artista che immise i fermenti del Rinascimento nella grande tradizione trecentesca senese. Come per Lorenzetti, anche questa mostra prende spunto da un’opera facente parte della collezione permanente del Museo di San Pietro all’Orto: l’Arcangelo Gabriele, piccola tavola del Sassetta un tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare. La Vergine Annunciata, protagonista della stessa pala, non ha potuto fare ritorno, sia pur temporaneamente per ritrovare il suo Angelo Annunciante, essendo oggi patrimonio della Yale University Art Gallery a New Haven. Accompagnano l’Angelo una cinquantina di opere, ventisei delle quali firmate dal maestro senese e le altre da artisti attivi in quegli anni nel medesimo contesto. Fra di loro vi sono il Maestro dell’Osservanza, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Pietro Giovanni Ambrosi e Domenico di Niccolò dei

Cori. Si può inoltre ammirare una importantissima «prima», scoperta dal curatore della mostra, Alessandro Bagnoli: una Madonna con Bambino, proveniente dalla pieve di S. Giovanni Battista a Molli (Sovicille), ma originariamente realizzata per una chiesa senese, probabilmente S. Francesco. info tel. 0566 906525; e-mail: accoglienzamuseimassa@gmail.com; www.museidimaremma.it

LONDRA MICHELANGELO: LE ULTIME DECADI British Museum fino al 28 luglio (dal 2 maggio)

È dedicata agli ultimi tre decenni della vita e della carriera di Michelangelo Buonarroti – il periodo piú significativo e forse piú impegnativo della vita dell’artista – la mostra proposta dal British Museum, che si concentra su come la

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sua arte e la sua fede si siano evolute attraverso la comune sfida dell’invecchiamento in un mondo in rapido cambiamento. Per l’occasione, dopo l’intervento di restauro di cui è stata fatta oggetto nel 2018, viene esposta per la prima volta la monumentale Epifania (alta oltre 2 m): databile fra il 1550 e il 1553, è il solo cartone completo sopravvissuto di Michelangelo ed è una delle piú grandi opere rinascimentali su carta. Il disegno è peraltro affiancato al dipinto realizzato sulla sua base dal biografo di Buonarroti, Ascanio Condivi. Tornano in esposizione dopo oltre vent’anni anche molte altre opere della collezione permanente del museo londinese, fra cui alcuni disegni preparatori per il Giudizio Universale, che illustrano come Michelangelo avesse elaborato una nuova visione di come la forma umana sarebbe stata rimodellata alla fine del mondo. info britishmuseum.org BERLINO IL FASCINO DI ROMA. MAARTEN VAN HEEMSKERCK DISEGNA LA CITTÀ Kulturforum fino al 4 agosto

Il pittore e incisore olandese Maarten van Heemskerck (1498-1574) soggiornò a lungo a Roma, tra il 1532 e il 1538 e affidò la memoria di quegli anni a studi e disegni poi confluiti in due album, che complessivamente riuniscono oltre 150 opere e sono oggi conservati presso il Kupferstichkabinett di Berlino, che li acquisí nel 1886 e nel 1892. Da allora, le due raccolte non sono mai state esposte nella loro interezza e la mostra in programma al

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Kulturforum è dunque un’occasione da non perdere per ammirare vedute panoramiche e vedute della città, cosí come studi di rovine e sculture. Per motivi di conservazione, la rilegatura del cosiddetto primo album romano, rinnovata negli anni Ottanta, è stata aperta, cosí che 66 pagine del taccuino con le loro 130 pagine disegnate sul recto e sul verso possono essere mostrate al pubblico per la prima volta. Il secondo album, contenente solo venti fogli di Van Heemskerck, viene invece esposto in forma rilegata e le pagine potranno essere sfogliate. info www.biblhertz.it, www.smb.museum TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre

Oggetto della mostra, terzo

esito del ciclo espositivo «Frontiere liquide e mondi in connessione», sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia. Fra i materiali riuniti per l’occasione si possono ammirare splendide sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it

FIRENZE PULCHERRIMA TESTIMONIA. TESORI NASCOSTI NELL’ARCIDIOCESI DI FIRENZE Basilica di S. Lorenzo, Salone di Donatello fino all’8 settembre

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AGENDA DEL MESE Le oltre duecento opere selezionate per la mostra sono una significativa sintesi dell’immenso patrimonio artistico conservato e custodito nel territorio della diocesi che si estende dalle pendici dell’Appennino toscoemiliano fino a lambire la provincia di Siena. Il progetto espositivo è nato da un importante lavoro di inventariazione e catalogazione avviato nell’ottobre del 2009 che si è concluso dopo dieci anni, nel dicembre del 2019. La ricognizione, che ha portato alla compilazione di oltre 271 000 schede, è stata possibile grazie a una parte dei fondi 8xmille che la diocesi ha destinato a questo scopo. Si possono dunque ammirare autentici capolavori, provenienti dalla città, frutto di ricche committenze, ma anche di oggetti piú semplici, realizzati per piccole parrocchie di campagna. Opere quindi molto diverse fra loro, non solo per qualità artistica, ma anche per tecniche di esecuzione e materiali utilizzati: dipinti su tavola e su tela, crocifissi, statue, oreficerie, reliquari, arredi e paramenti, tabernacoli, libri e codici, fino a umili rosari. info www.diocesifirenze.it ALESSANDRIA ALESSANDRIA PREZIOSA. UN LABORATORIO INTERNAZIONALE AL TRAMONTO DEL CINQUECENTO Palazzo del Monferrato fino al 6 ottobre

Dopo «Alessandria scolpita» (2019), esposizione dedicata al contesto artistico alessandrino tra Gotico e Rinascimento, questa nuova mostra racconta la civiltà creativa della città piemontese tra Cinque e primo Seicento,

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sfiguravano al confronto di altre piú gloriose città padane, ma anzi rappresentava una felice eccezione, in cui influenze nordiche si misuravano con quelle provenienti da Firenze e Roma. Alessandria e il suo territorio fungevano da cerniera tra Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro, mentre proprio alle porte della città era sorto il convento di Santa Croce a Bosco Marengo, voluto da papa Pio V, che racchiudeva in sé il clima artistico di provenienza tosco-romana. info e prenotazioni e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it PARIGI focalizzandosi in particolare sulle arti suntuarie, a ridosso dell’avvento del manierismo internazionale negli anni della Controriforma cattolica. «Alessandria preziosa» si articola in sette sezioni composte da circa ottanta opere, in cui protagoniste sono le sculture in metallo prezioso, evidenziando il ruolo determinante svolto dalle arti suntuarie, dall’oreficeria alla toreutica, dall’arte degli armorari all’intaglio delle pietre dure. L’obiettivo della mostra è duplice: da un lato delineare l’avvento del manierismo internazionale foriero di un nuovo senso della realtà e della forma, attraverso una selezione di oreficerie e oggetti in metallo, ma anche dipinti su tela e tavola e sculture in legno e marmo che meglio dialogano con le arti preziose; il secondo focus del progetto è quello di mostrare e dimostrare come l’attuale territorio della provincia di Alessandria fosse luogo di convergenza di forze e culture diverse, che non

IL MERAVIGLIOSO TESORO DI OIGNIES: BAGLIORI DEL XIII SECOLO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 ottobre

Una delle sette meraviglie del Belgio, il Tesoro di Oignies, viene per la prima volta concesso in prestito quasi

integralmente dal Musée des Arts Anciens du Namurois di Namur e approda a Parigi. Della trentina di pezzi giunti in Francia fanno parte oreficerie – per lo piú reliquiari, come quelli del latte della Vergine e della costola di san Pietro – e una selezione di tessuti. La mostra ripercorre la storia del priorato di Saint-Nicolas d’Oignies, una comunità di canonici agostiniani fondata alla fine del XII secolo, intorno a tre figure centrali: Maria d’Oignies (1177-1213), Jacques de Vitry (11851240) e il talentuoso orafo Hugues de Walcourt, detto Hugo d’Oignies († 1240 circa). Le sue creazioni e quelle del suo laboratorio, riconoscibili per l’abbondanza di nielli, filigrane, motivi naturalistici e di caccia, costituiscono una testimonianza virtuosa del lavoro sui metalli preziosi. Alcuni anni dopo la fondazione del priorato, la mistica Maria d’Oignies vi si stabilisce e piú d’una delle

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MEDIOEVO


intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara, senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr

Tema dell’edizione 2024 dei Dialoghi, festival di antropologia del contemporaneo, è: «Siamo ciò che mangiamo? Nutrire il corpo e la mente». Un titolo che riprende un’affermazione del filosofo tedesco Ludwig

ecologiche, per norme sociali o mode e, nel tempo, ogni comunità umana costruisce una propria idea di gusto condiviso. Siamo anche, quando è possibile, consumatori «culturali» di cibo, che, come diceva il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss (1908-2009), deve essere «buono da pensare» oltre che capace di sfamare il corpo: infatti non nutriamo il corpo solo con cibo, acqua, vino… ma anche con la cultura, le passioni e il gioco. La scelta del cibo è anche indicativa di gusti, ideologie, mode e persino di prospettive sul futuro. Oltre a dividerci in «tribú» alimentari – vegetariani, vegani, fruttariani, strenui difensori dell’onnivoro – il ricorso a cibi tradizionali o innovativi è oggi piú che mai causa di fratture politiche. Ecologia, cibo e politica si intrecciano piú di quanto non si immagini, visto che la produzione di cibo è la maggiore responsabile di emissioni di Co2

Feuerbach (1804-1872), all’apparenza cinica, ma che, in realtà, non è cosí distante dal vero. Non basta, infatti, che una pianta o un animale siano commestibili per annoverarli nella lista dei cibi che ogni società ritiene buoni da mangiare: scegliamo per tabú religiosi, per motivazioni

nell’atmosfera. Ciononostante, milioni di persone soffrono ancora di denutrizione o di malnutrizione, mentre in alcune parti del mondo si spreca e si getta via il cibo in abbondanza, e le malattie legate all’alimentazione sono sempre piú frequenti. info www.dialoghidipistoia.it

Appuntamenti PISTOIA DIALOGHI DI PISTOIA XV EDIZIONE 24-26 maggio

opere esposte evoca il destino di quella che è stata dichiarata beata poco dopo la sua morte e che è ancora venerata oggi. Nello stesso periodo, Jacques de Vitry, brillante predicatore e per un certo tempo vescovo di Acri, in Terra Santa, diventa il principale mecenate del priorato e fornisce reliquie e materiali preziosi. Il suo sostegno permette al priorato di diventare un importante centro di produzione di oggetti d’oreficeria e prima Hugo d’Oignies, e poi il suo laboratorio, sviluppano un’arte in costante evoluzione, come emerge dalla mostra. info musee-moyenage.fr TOLOSA «CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025

MEDIOEVO

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Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande respiro, distribuita in due sedi: il Musée Saint-Raymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), un episodio che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati provenienti dal Nord, il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto espositivo si sofferma da un lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno caratterizzato la crociata contro gli Albigesi,

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MEDIOEVO NASCOSTO LUOGHI · STORIE · ITINERARI PARTE I: ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE

Una veduta del borgo di Castell’Arquato (Piacenza), che conserva una evidente impronta architettonica medievale.


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N°61 Marzo/Aprile 2024

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ll’ombra dei grandi monumenti medievali italiani, dei celeberrimi gioielli delle città d’arte conosciuti in tutto il mondo, la nostra Penisola ospita uno straordinario e infinito patrimonio architettonico e artistico, talora definito, a torto, «minore». Centinaia, migliaia di borghi e interi quartieri cittadini, pievi e abbazie, castelli e fortificazioni compongono il «Medioevo nascosto» a cui è dedicata la nuova edizione del Dossier di «Medioevo», realizzata a oltre dieci anni dalla prima rassegna sull’argomento: una rassegna di monumenti probabilmente meno noti e inseriti in contesti paesaggistici che ne esaltano la suggestione e il fascino. A guidare la redazione dell’opera non è stata soltanto la volontà di valorizzare questi beni, ma anche l’auspicio che, scorrendo le pagine del Dossier, nasca il desiderio

di vederli da vicino. Il viaggio si snoda attraverso le regioni del Settentrione e del Centro del Paese, dalla Valle d’Aosta all’Umbria e, naturalmente, al resto d’Italia sarà riservata la seconda parte del progetto. Qui, dunque, ci si muove dai castelli sorti lungo l’arco alpino agli insediamenti sviluppatisi nell’area padana, dalle rocche che punteggiano gli Appennini ai borghi della Maremma tosco-laziale... Un palinsesto di eccezionale ricchezza, le cui storie raccontano di ignoti cavalieri, mercanti, contadini, che però hanno spesso intrecciato le loro esistenze con le gesta di molti celebri protagonisti del Medioevo italiano ed europeo, come il re longobardo Desiderio o come san Colombano, il grande evangelizzatore irlandese. Storie avvincenti, che attendono solo di essere lette...


medioevo transumanista

Esseri

di Lorenzo Lorenzi

straordinari,

anzi «piú che

umani»

N N

el canto I del Paradiso (vv. 70-71), Dante dice che trasumanare, cioè la facoltà di trascendere il mondo dell’uomo, è un’esperienza possibile, ma non spiegabile con ragione e linguaggio («Trasumanar significar per verba / non si poria...»). Il concetto di elevazione e oltrepassamento situa il testimone-poeta (autore, narratore e protagonista di regni dell’aldilà) oltre i limiti dell’orizzonte fisico per attingere una realtà divina rappresentata dall’entrata dell’uomo in Dio (Par IV, 28). Scopo della poesia, pertanto, è quello di favorire questo «farsi altro» nella prospettiva di una comprensione del reale che proceda per intuizioni. Dante distoglie lo sguardo dal sole e osserva Beatrice, che, a sua volta, medita il cielo stellato: lo smarrimento causato da questa emozione contemplativa è analogo

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La trasformazine dell’uomo in supereroe mediante l’utilizzo della tecnologia è uno dei temi affrontati da due correnti di pensiero contemporanee, il transumanesimo e il postumanesimo. Ma la speranza di superare i limiti imposti dalla genetica trova inaspettati punti d’appoggio già in età medievale

all’esperienza di Glauco, mitico pescatore della Beozia, nel momento in cui viene trasformato in una creatura marina dopo aver ingurgitato un’erba miracolosa: «Nel suo aspetto tal dentro mi fei, / qual si fé Glauco nel gustar de l’erba / che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi» (Par I, 67-69). Presentato da Ovidio nelle Metamorfosi (XIII, 898968), quel mito delinea un’esperienza assai simile all’orizzonte transumanista che caratterizza l’epoca attuale. Glauco vide un giorno i suoi pesci tornare in vita dopo aver assaggiato una imprecisata pianta: affascinato da tanto incantamento, volle anch’egli provare; istantaneamente, i suoi piedi mutarono in pinne e una coda di pesce prese il posto delle gambe; sconvolto, ebbe a rasserenarsi solo quando Oceano e Teti lo accolsero per sempre tra le divinità oceanine. maggio

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Glauco, il mitico pescatore della Beozia, in un’incisione di Philips Galle, facente parte della serie Semideorum Marinorum amnicorumque sigillariae imagines perelegantes. 1586. Amsterdam, Rijksmuseum. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una rappresentazione schematica del Paradiso, con Glauco nel «mar de li altri dèi» e Dante e Beatrice che ascendono verso il Sole (Paradiso, canto I) da un codice della Commedia illustrata da Giovanni Di Paolo. 1450 circa. Londra, The British Library.

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medioevo transumanista L’evoluzione di un’idea

Dall’homo faber al cyborg Indicato con la sigla >H oppure con H+, il transumanesimo è un movimento culturale e filosofico, nato negli anni Sessanta del Novecento, che sostiene l’uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche al fine di aumentare le capacità fisiche, cognitive ed estetiche, in vista di una dimensione postumana della vita. In questo contesto, entrano in gioco le biotecnologie, le nanotecnologie, l’ingegneria genetica, la chirurgia estetica e ricostruttiva, l’intelligenza artificiale e le neuroscienze. L’obiettivo è la totale congiunzione e intersezione uomo-tecnologia. Prende vita ufficialmente nel 1980 all’interno degli studi epistemologici della Los Angeles University; è del 1982 il primo manifesto transumanista a cura di Natasha Vita Moore; successivamente, nuove prospettive al manifesto sono fornite da John Spencer e Max More. Il postumano (o postumanesimo) rappresenta l’evoluzione del transumanesimo e mira a realizzare un essere ultraumano intrecciato e condizionato da elementi cyborg. Cosí facendo, si attua il definitivo superamento della tradizione umanistica occidentale centrata sull’homo faber, creatura del divino; l’obiettivo è la creazione di un essere liberato dalla tradizione etica del limite imposto dalla natura o dalla tradizionre religiosa; questo essere senziente-intelligente, artificiale, robotizzato, non differente, non binario (dunque né uomo, né donna), multiplo, non territorializzato, estremamente adattabile a tutte le situazioni geografiche, sarà capace di rispondere ottimamente alle molteplici sfide della nostra contemporaneità, quali invulnerabilità, inclusività, complessità, totalità, mobilità, fluidità esistenziale. Sostenitrici di questa rivoluzione dell’umano sono Judith Butler, Rosi Braidotti, Donna Haraway, Luce Irigaray, filosofe reduci dall’impegno femminista degli anni Settanta. Similmente al trasumanare dantesco, il transumanesimo sostiene la super umanità, il «piú-che-umano» dell’uomo, capace di trascendere i limiti della rigida condizione «naturale», assurgendo a dimensioni di perfezione grazie ai ritrovati della scienza e della tecnica; di conseguenza il postumano promuove la creazione di un essere tecnologico, un’entità non piú binaria ma indifferente, uomo e donna contemporaneamente oppure né l’uno, né l’altro: un ente cognitivamente dotato e longevo, del quale non si esclude l’immortalità, perché immunizzato dalla sofferenza e

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dalle malattie. La sua residuale carica umana è intrecciata a chip e a supporti meccanici, al fine di superare ogni avversità e ogni ostacolo, diventando un misto di umano, robot e animale. Il farsi divino dell’uomo è un desiderio che attiene all’inconscio collettivo e ogni epoca presenta mitologie varie con mirabolanti trasformazioni fisiche e dislocazioni mentali. Molti vedono in Leonardo da Vinci l’iniziatore moderno di questa aspirazione, essendo stato l’artefice di macchine e sistemi complessi, capaci di creare orizzonti inaspettati. Se l’esperienza della «trasumanazione» maggio

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Una pagina del Codice sul Volo degli Uccelli e altre materie, manoscritto cartaceo di Leonardo da Vinci. 1505. Torino, Biblioteca Reale. Nella pagina accanto ricostruzione della macchina volante ideata dall’astronomo andaluso ‘Abbas ibn Firnas (810-888), al quale la tradizione attribuisce la realizzazione del primo attrezzo per volare piú pesante dell’aria, del quale lui stesso avrebbe sperimentato il funzionamento nell’875, nei pressi di Cordova.

dantesca assume le forme di un fenomeno di dilatazione e superamento delle capacità umane, il postumano sostiene il valore di questa dimensione come realtà certa, in cui l’ente-uomo supera il concetto tradizionale e condizionante di finitezza.

Aviatori coraggiosi

Nel 1490, lo scienziato inizia gli studi sugli uccelli, disegnando, nel Codice sul volo (Biblioteca Reale di Torino), un uomo con ali artificiali simili a quelle di un rapace per fluttuare nell’aria. L’ulteriore evoluzione dell’uomo volante, allo scopo di superare la pesantezza del corpo, fu l’«ornitottero»: una tavola su cui si stende l’aviatore a manovrare due grandi ali membranose mosse da pedali e leve, un vero e proprio aeromobile il cui organo sostentatore è costituito da ali mobili battenti. Nell’età medievale, prima ancora della nascita della scienza sperimentale moderna, fiorisce la propensione al trasumanare mediante riflessioni e inusuali rappresentazioni, ritrovati meccanici e scoperte tecnologiche. Il primo tentativo empirico di volo meccanico è attribuibile all’astronomo andaluso ‘Abbas ibn Firnas, che, nell’875, lanciò un rudimentale aliante dai monti di Rusafa, vicino Cordova. Seguirono, tra il 1002 e il 1010, la messa a punto di ali meccaniche da parte del monaco benedettino Eilmer, con le quali si lanciò dalla torre dell’abbazia di Malmesbury, rimanendo semiparalizzato a vita. Sul versante teorico, fondamentali furono le riflessioni del filosofo inglese Ruggero Bacone (1214-1292), sostenitore della scienza sperimentale di cui il volo aereo costituiva l’apice di ogni risultato: nell’Opus maius profetizza come in un futuro si potranno costruire «macchine per volare, per modo che l’uomo, sedendo nel centro dell’apparecchio, lo guidi attraverso l’aere come un uccello in volo. Inoltre si potranno fare strumenti, che siano piccoli in sé (...) sufficienti a sollevare ed a premere giú grossi pesi». A Ismail Ibn al-Razzaz al-Jazari, ingegnere ed esper-

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to di meccanica, nato nella Turchia centro-meridionale nell’anno 1136, si deve un’opera densa di progetti e disegni di macchine fantastiche, quali un enorme orologio ad acqua sulla groppa di un elefante, dotato di meccanismi interni che fanno sí che un uccellino alla cima di una cupola riesca, ogni trenta minuti, a fischiare, e un automa umano, muovendosi, faccia scivolare una pallina nelle fauci di un drago (vedi foto a p. 36).

Concerto per automi

Questo avveniristico sistema rappresenta un passo significativo rispetto al concetto di arto artificiale, poiché siamo ormai all’interno di una dimensione sopraffina, in cui la macchina ha una sua autonomia. Di sua invenzione, è pure un sistema robotico con avviamento manuale, nella fattispecie un gruppo di 4 musici, quali un suonatore d’arpa, un flautista e due batteristi in grado di eseguire una varietà di spartiti: l’intento era quello di sostituire l’uomo nella dimensione ludica; tale aspirazione fu ripresa in età moderna

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medioevo transumanista da Jacques de Vaucanson (1709-1782), autore di un piccolo flautista automatizzato dotato di labbra mobili, lingua meccanica, dita mobili (realizzate in pelle) per aprire e chiudere i registri dello strumento. Nell’arte sacra si trovano ugualmente sculture meccaniche, la piú famosa delle quali è il crocifisso realizzato per l’abbazia di Boxley nel Kent, denominato «Rood of Grace»: questo stupiva gli astanti per essere composto da un congegno di fili e verghe che faceva muovere gli occhi del Salvatore, quasi fosse un essere vivente; per questo motivo, divenne meta prediletta di pellegrini di ogni ordine sociale che si accostavano alla contemplazione dell’opera con grande reverenza e partecipazione emotiva (alcuni documenti ricordano i frequenti pellegrinaggi di Enrico VIII).

La Madonna che si muove

Un robot iberico ancora integro è il gruppo ligneo della Virgen de los Reyes, una Madonna in trono col Bambino custodita nella Cattedrale di Siviglia (vedi foto a p. 40): la testa è in legno dipinto, le braccia lignee sono invece ricoperte di pelle di capretto, mentre i capelli sono fili dorati: il tutto decorato da un sontuoso abito ricamato. L’opera poteva compiere un numero notevole di gesti, come girare la testa, piegare le braccia, ruotare le mani; segni che per i devoti fungevano da fantasmagorie simboliche e miracolose del dio vivente. Disegno di un orologio ad acqua montato sulla groppa di un elefante e dotato di complessi meccanismi interni, da un manoscritto del Kitab fi ma’rifat al-hiyal al-handasiyya (Libro della conoscenza delle apparecchiature meccaniche ingegnose) dell’inventore e ingegnere Ismail Ibn al-Razzaz al-Jazari. XIII sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

tecnologia medievale

Superare le leggi della natura Se «tecnica» deriva dal greco «téchne», ovvero artefatto manuale, «macchina» ha origine da «mechanomai» e, nel mondo medievale, significava arte del costruire o del macchinare, nell’accezione di ingannare la natura al fine di superarne le leggi e imporre quelle umane della sperimentazione. La leva si oppone alla natura facendo oscillare i corpi verso l’alto, sfidando le leggi della fisica. La carrucola, l’asse della ruota, il piano inclinato, il

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cuneo, furono scoperte tecnologiche dell’antichità, ma nel Medioevo ebbero una diffusa applicazione, con metodologie strutturate, realizzando cosí un miglioramento importante nella vita quotidiana. Se i mulini fanno capo a Vitruvio (De architettura), la diffusione della ruota ad acqua si data tra il V e il IX secolo d.C., mentre dall’XI secolo (con la rinascita delle città e dell’economia comunale) nacque l’esigenza di disporre di una forza motrice continua, al fine di rendere il

mulino sempre funzionante. Villard de Honnecourt, ingegnere francese del XIII secolo presenta lo schizzo di una sega idraulica (mossa a sua volta da una ruota idraulica; vedi disegno alla pagina accanto, in basso), che studi successivi di Leonardo e Francesco di Giorgio Martini hanno messo a punto con maggiore precisione. Nel Medioevo si produssero diverse innovazioni nel campo della navigazione. Le piú decisive furono: il dritto di poppa, che maggio

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Il golem in un’illustrazione realizzata da Hugo Steiner-Prag per l’omonimo romanzo fantastico di Gustav Meyrink (1915).

L’uomo medievale non è l’essere rinchiuso nel recinto delle possibilità che la natura gli offre: è aspirazione al di piú e a un oltre, è avvicinamento al dio, trascendendo l’umanità stessa, e colloquio con esso. Nell’Itinerarium mentis in Deum, Bonaventura da Bagnoregio (1217 circa-1274) afferma come l’anima umana debba trascendere se stessa e tutte le sue attività intellettuali, accostandosi al divino mediante un atto estatico di alterità. Il superamento della razionalità è reso possibile dallo Spirito Santo, ove in esso e per esso l’uomo è affrancato dal mondo, innalzato verso una dimensione che supera il logos. Un aspetto precipuo del postumano riguarda l’eliminazione del genere binario (maschile e femminile) nella prospettiva di una identità sessualmente sfumata, alla stregua di un robot. Tale questione, in realtà, ha origini antiche: infatti questo delicatissimo aspetto identitario è stato esplorato dalla letteratura medievale fornendoci simbolismi e figurazioni interessanti.

E venne il golem

Il Sefer Yetzirah (Libro della Creazione), testo qabbalistico scritto tra la fine del III e l’inizio del VI secolo, propone l’immagine del golem, umanoide e macchina artificiale insieme, senza una sessualità strutturata, incapace di riprodursi, bensí di imporsi come essere potente e combattivo in ogni suo impegno. Il cronista Ahimaaz ben Paltiel (vissuto nel XII secolo) scrive della presenza a Benevento, nei secoli prima del Mille, di un go-

In basso disegno di una sega idraulica, dal Carnet di Villard de Honnecourt. 1230 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

rendeva le navi piú maneggevoli; la vela latina che permetteva di navigare controvento; la chiglia, che serviva da contrappeso alla forza del vento e aumentava la stabilità delle imbarcazioni, senza contare la grandiosa innovazione della bussola magnetica, al fine di orientarsi in mare aperto. Tutto ciò rese la navigazione molto piú affidabile e sicura e, di conseguenza, se ne giovarono il commercio marittimo e l’esplorazione di nuove rotte e luoghi sconosciuti.

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medioevo transumanista Ibridazioni

Di anatre, agnelli e altre creature Tutti gli animali mostruosi, aggressivi e fantastici ritratti nei libri miniati oppure dipinti e scolpiti sono frutto di commistioni tra animali reali, esseri mitici e specie umana. I primi esempi di ibridismo risalgono alla civiltà sumerica, caratterizzata da una teofania di spiriti maligni intermediari nella forma di rettili o draghi dai volti umani. Nella cultura classica, ibridi famosi sono il centauro, la sirena, la chimera, le arpie, ecc., caratterizzati da aggressività e irrequietezza. Un ibrido medievale è l’anatra vegetale, attestata in letteratura nel 1188, precisamente nella Topographia Hibernica di Giraldus Cambrensis e

lem avente le sembianze di un ragazzo a cui era stata donata la vita eterna per mezzo di una pergamena. I golem erano solitamente descritti come esseri d’argilla giganti, forti, dotati di superpoteri, senza anima, lontani dalla possibilità di cadere in tentazioni, di avere dubbi e di tradire. La sfocatura identitaria golemica trova nella angeologia patristica cristiana un corrispettivo, con interessanti evoluzioni e numerose sfumature: Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nissa descrivono gli angeli come esempio di vita ideale senza identità sessuale; tali presenze superiori, a metà fra l’uomo e il divino creatore, vivono nella dimensione ascetica, lontani da ogni binarietà maschile-femminile, tentazione carnale e riproduzione. Nel XIII secolo, l’attraversamento del maschile e del femminile coinvolge la figura del dio neotestamenta-

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In alto tavola ottocentesca che immagina l’inventore francese Jacques de Vaucanson (1709-1782) nel suo studio, con il suo flautista automatizzato.

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Disegno raffigurante anatre vegetali generate da una pianta, da un codice della Topographia Hibernica di Giraldus Cambrensis. 1196-1223. Londra, British Library.

nello Speculum naturale (XIII secolo) di Vincent de Beauvais. Generato dai tronchi e sviluppato entro una conchiglia marina, questo essere piumato diffuso in territorio irlandese costituiva il cibo prediletto di molti prelati nel periodo quaresimale. Similmente all’anatra fa la sua comparsa, nei bestiari dell’XI secolo, l’agnello vegetale, essere vivente sulla parte apicale di una pianta costituita da un fusto sostentatore, che funge da cordone ombelicale vegetale; l’arbusto poteva A sinistra l’agnello vegetale, dall’Histoire admirable des plantes et herbes esmerveillables & miraculeuses en nature di Claude Duret. Parigi, 1605.

anche piegarsi per permettere all’animale di brucare. Una descrizione specifica e approfondita di questo essere post-arboreo si deve a Oderico da Pordenone nel 1330. L’ibridazione uomo-animale passa oggi attraverso la manipolazione genetica. È recente la creazione di embrioni «chimera uomo-scimmia», precisamente embrioni di macaco prodotti in vitro in cui sono state inserite cellule staminali umane simil-embrionali: il risultato è lo «scimpanzuomo». Nell’XI secolo, Pier Damiani, nel suo De bono religiosi status et variorum animantium tropologia…, riferisce di come la moglie del Conte Gulielmus, spinta dalla lussuria, avrebbe copulato con una scimmia, partorendo appunto uno scimpanzuomo.

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medioevo transumanista A sinistra la Virgen de los Reyes, gruppo in legno policromo raffigurante la Madonna in trono con il Bambino. XIII sec. Siviglia, Cattedrale, Cappella Reale. L’opera poteva compiere numerosi gesti, come girare la testa, piegare le braccia o ruotare le mani. A destra un angelo, particolare degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. 1303-1305. Queste creature soprannaturali erano spesso viste come esempio di vita ideale senza identità sessuale.

rio grazie agli scritti di Mechthild von Hackeborn (Liber specialis gratiae, II, 16) e di Gertrude di Helfta, mistiche convinte della maternità di Cristo nella specifica caratura di essere amorevole, alla stregua di una madre che accudisce i suoi figli. Similmente, Ildegarda di Bingen (1098-1179) pone l’essere umano alato al centro del cosmo, come ente potente e ardimentoso, al tempo stesso associa il corpo della donna al corpo di Cristo attribuendo a quest’ultimo qualità somatiche e riproduttive squisitamente femminili. Riflessioni non dissimili furono sviluppate da Mar-

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guerite d’Oingt (1240-1310) e Giuliana di Norwich (1342-1416), che descrivono la figura del Cristo-madre in un misto di uomo-donna, mettendo in risalto le parti del corpo responsabili della riproduzione e del nutrimento, quali utero e seni. Con l’immagine del Cristo femmina, ogni donna del Medioevo poteva immedesimarsi pienamente in lui, trovandovi armonia, serenità, inclusività e colmando lo spazio della differenza sessuale e della superiorità maschile a cui spettava il privilegio del sacerdozio (Florinda Fusco). Non meno forti – in ambito italiano – risuonano maggio

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Da leggere le parole di Angela da Foligno (1248-1309), Caterina da Siena (1347-1380), Domenica del Paradiso (1473-1553), Brigida Morello (1610-1679) e Maria Arcangela Biondini (1641-1712), che, tutte impegnate nella difesa della doppia natura sessuale di Cristo, rovesciano la tradizionale ripartizione dei ruoli maschile-femminile; le mistiche ora citate immaginano tutte un nazareno fecondo e gestante, che dispensa infinita carità mediante amorose mammelle colme di latte. Una propensione naturale e armonica alla fluidità di genere oggi tanto avversata.

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Enrica Perucchietti, Cyberuomo. Dall’intelligenza artificiale all’ibrido uomo-macchina. L’alba del transumanesimo e il tramonto dell’umanità, Arianna Editrice, Bologna 2020 Rosi Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte (Vol. 1), DeriveApprodi, Roma 2020 Donna J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 2018 Florinda Fusco, Corpo e performance nella mistica femminile medievale e moderna, disponibile on line su www.gianfrancobertagni.it

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il novelliere di giovanni sercambi/2

Mercanti dalle mani

bucate D D

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Alla morte del padre, un facoltoso uomo di commercio, i tre figli non rispettano fino in fondo le sue volontà testamentarie. Uno, in particolare, cerca di arricchirsi alle spalle dei fratelli. La mossa viene però scoperta e Giovanni Sercambi fa dell’intera vicenda una delle sue «parabole», volta ad ammonire i lettori del Novelliere su quali comportamenti si debbano tenere nella pratica degli affari

opo essere scappati da Lucca, flagellata dalla peste provocata dai peccati degli uomini, la brigata del Novelliere di Giovanni Sercambi fa tappa in varie città italiane: vive in penitenza e castità per purificarsi e ritrovare gli antichi valori di misericordia, prudenza e morigeratezza. Nelle pause del cammino, il gruppo partecipa alle funzioni religiose dei sacerdoti, si distrae con la danza e ascolta gli exempla, racconti esemplari del narratore (Sercambi), intesi come ammonimenti per i potenziali trasgressori. Gli exempla raccontano di eventi eccezionali, situazioni fiabesche per poi riportare i protagonisti alla normalità, vista come un valore. Alla fine del Trecento, l’epoca in cui è ambientato il Novelliere, la classe sociale dei mercanti è quella dominante e, non a caso, è la prima che l’autore sceglie di prendere di mira.

Un elenco preciso Sulle due pagine miniatura raffigurante mercanti che partecipano alla fiera di Lendit (che si svolgeva in giugno, fra Parigi e Saint-Denis), da un codice delle Grands Chroniques de France. Fine del XV sec. Castres, Musée Goya.

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Nel primo exemplum il mercante Alvisir dalla regione del Don (Russia sud-occidentale) «omo ricchissimo» ha tre figli: Arduigi, Scandalbech e Manasse. Quando l’uomo d’affari si sente prossimo alla fine, divide i suoi beni, ma «prima tre pietre presiose di stima ciascuna di ducati XXX maggio

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il novelliere di giovanni sercambi/2 mila nascose in un luogo secreto, e circa ducati CXX mila si riserbò in una cassa, e sensa [e senza dire di] alquante possesioni e arnesi». Sercambi è assai preciso nello specificare anche i valori in gioco, al fine di rendere il racconto piú realistico possibile. Sul letto di morte, Alvisir chiama a sé i tre figlioli e fa promettere loro che non avrebbero mai toccato questi gioielli e neppure ne rivela il valore. Poi «fé venire dinanti da sé li ditti ducati CXX mila e quelli divize per terso, asegnandone a ciascuno XL mila. E questo fatto, il ditto suo figliuolo maggiore nomato Arduigi giurò e promise osservare [promise di rispettare la volontà paterna]; e similmente sacramento [giuramento] fece Scandalbech; e appresso Manasse suo figliuolo minore». Trascorso qualche giorno, Alvisir passa a miglior vita e alla salma «i figliuoli feron grande onore , secondo li costumi dei mercan-

ti del paese». Il motivo dell’eredità divisa fra i tre figli è tipico della novellistica orientale, come prova, per esempio, Il Soldano dello Yemen e i tre figli, racconto contenuto nelle Mille e una notte (notte 458).

Eredi scapestrati

Ben presto anche Arduigi e Sandalbech si ritrovano a corto di soldi e chiedono al fratello minore se è d’accordo a prelevare il tesoretto dei tre gioielli che, come raccomandato dal padre, poteva avvenire solo con l’accordo di tutti e tre. Manasse è in difficoltà, ma rispon-

I tre fratelli però non si dedicano all’attività mercantile come il padre, ma «continuo [continuamente] in sul godere [a divertirsi] in femmine e in cavalli e altri piacevoli diletti», tanto che il minore, Manasse, consuma ben presto la sua parte di quarantamila ducati e anche gli altri due ne consumano un terzo «avendo sempre speransa che ’l gioiello de ducati XXX mila fusse [fosse] in loro susidio [a loro disposizione]». Senza consultare i fratelli, Manasse preleva uno dei tre gioielli e lo vende ad alcuni mercanti veneziani per trentamila ducati.

Cofanetto in avorio dipinto e ageminato in argento con inserti di pasta vitrea, quarzo e turchesi. Produzione siciliana (?), fine del XII-inizi del XIII sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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Gioielli con castoni in argento parzialmente dorato nei quali sono montate pietre preziose. Produzione francese, 1300 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Manasse, il fratello minore, si appropria di uno dei gioielli e lo rivende a mercanti veneziani de: «Io non voglio aconsentire, però io veggo che a me vorreste tollere [portare via] il mio gioiello; ma se sete [siete] contenti che io abbia la mia parte (...) io sono contento». Quando i fratelli si accorgono che manca uno dei gioielli, Manasse finge di cascare dalle nuvole: «Bello dico io che voi m’avete ingannato; e però veniste a me a dirmi che volavate [volevate] il gioiello perché n’avete tolto uno! E però vi dico, sia come vuole, io arò [avrò] uno di questi due perché mi tocca in parte». Manasse si dimostra cosí falso e arrogante. Il fratello maggiore Arduigi replica con buon senso: «Di vero dobbiamo credere, ché nostro padre non disse mai bugia, che veramente li gioielli denno esser tre. E se noi volessimo dire altri che noi tal gioiello ha tolto, dico non esser vero; e prima, che neuna persona lo sapesse se non noi; appresso, se alcuno li avesse trovati , el-

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li li arebe tutti e tre portati via e non ce n’are’ [ce ne avrebbe] lassato veruno [nessuno]. E pertanto io conchiudo di vero che uno di noi è stato quello che ha preso il gioiello. E perché noi siamo fratelli e dobianci amare insieme e non corucciarsi, vi dirò il mio parere; e quando l’arò ditto potete prendere quello vi parrà».

Missione in Manciuria

Arduigi propone ai due fratelli di rimettere la decisione sulla scomparsa del gioiello a Calí, signore della Manciuria, uomo di grande saggezza nonché amico di loro padre; poi consiglia di lasciare gli altri due gioielli nel luogo segreto in cui il genitore li aveva riposti e i fratelli accettano. Si dirigono tutti insieme in Manciuria: il viaggio si rivela piacevole, dividono le spese da sostenere e non litigano sulla que-

stione del gioiello scomparso. Dopo venti dei quaranta giorni di viaggio che occorrono per raggiungere la regione, Arduigi nota un particolare: «Fratelli miei, acorgetevi voi [vi siete accorti] che per questa pianura è passato una gamella [cammella] che non ha se non l’occhio manco [cieca da un occhio]?». I fratelli gli chiedono da cosa lo abbia capito, ma Arduigi non risponde. Trascorsi alcuni giorni, i tre si fermano a mangiare all’ombra di un albero e il fratello di mezzo, Scandalbech, dice: «Fratelli miei, io vi dico che in questo luogo s’è posto a giacere una gamella carica di mèle [miele] e d’aceto», ma anch’egli non rivela ai fratelli come abbia potuto stabilirlo. Quando si rimettono in cammino, Manasse nota: «Per certo qui è stata una gamella sensa coda», ma anch’egli non dà spiegazioni sul-

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il novelliere di giovanni sercambi/2 Miniatura raffigurante una carovana di mercanti in viaggio verso il Catai, particolare dell’Atlante catalano del geografo e cartografo maiorchino Abraham Cresques. 1375. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

la sua affermazione. Quando sono ormai quasi arrivati dal saggio Calí, si imbattono in un cocchiere dedito al trasporto delle merci che chiede loro se abbiano visto una cammella con del carico addosso. Tutti e tre i fratelli dicono di non averla vista, però, secondo loro, l’animale deve avere un occhio in meno, trasporta un carico di miele e di aceto ed è privo di coda. Il cocchiere conferma che la sua cammella è proprio cosí e li accusa di averla rubata «ma io farò che a me la ristituerete [restituirete] con ogni danno e interesse».

Al cospetto del sultano

Il cocchiere porta i tre fratelli al cospetto del suo signore Calí «narrando i segni che a lui per loro li erano stati contati [raccontati]». Il sultano chiede ai fratelli di rivelare i segni, pena il risarcimento del danno e degli interessi. Arduigi spiega: «Signore, passando tra du’ prati d’erba e vedendo l’orme di gamella e vedendo che solo da l’uno de’ lati l’erba era morsa, stimai tal gamella aver meno un occhio però che [poiché] l’uso [l’abitudine] de gamelli è che l’uno boccone prende da l’uno de’ lati e l’altro da l’altro». Scandalbech rivela: «Signore, essendo noi sotto un arboro posti per riposo, vedendo quine essere radunate in sul terreno alquante mosche da l’uno de’ lati e d’altra parte moscioni [moscerini] stimai quine essere stata una gamella caricata di mèle e d’aceto, però che [poiché] al mèle tragano [sono attratti] le mosche e a l’aceto tragano i moscioni: e per questo modo li disse; ma ch’io mai la vedessi non li crediate». Manasse che ha immaginato la cammella senza coda, dichiara: «Perché le gamelle poste a giacere, volendo orinare fanno colla coda una

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il novelliere di giovanni sercambi/2 fossa in nella rena [sabbia] e quine orinano e poi colla coda ricopreno colla rena l’orina; e io, vedendo l’orina esser sparta [sparsa] per la rena, stimai la gamella non aver la coda». Anche la straordinaria capacità d’osservazione dei protagonisti, che consente d’indovinare cose non viste, fa parte della tradizione novellistica orientale, ma evidentemente è conosciuta da quella occidentale e dal Sercambi stesso.

Il rispetto per l’Islam

Calí giudica che quanto raccontato dai tre fratelli risulta essere la verità, ordina al cocchiere di andare a cercare la sua cammella e libera i giovani. Poi li chiama a sé, chiede loro come mai si trovino nelle sue terre. Arduigi risponde a nome dei fratelli: «Noi siamo tre fratelli nati della buona memoria di Alvisir della Tana, li quali volendo ubidire il comandamento di nostro padre, ci siam derissati [indirizzati] dinanzi alla vostra magnifica signoria e prudensia, acciò che voi, in tutte sciensie amaestrato, dobiate cognosere e terminare alcuno dubio tra noi nato; pensando che quello ne direte serà tutto vero e buono giudicio, per noi non s’aporrà [da parte nostra non si troverà da censurare]. E di questo sommamente vi preghiamo, cognoscendo noi non esser sofficienti [capaci] a dovervi ripremiare in alcuna cosa, ma pregando il vostro e nostro Idio che vi dia lunga vita». Da questo passaggio, notiamo come i mercanti medievali avessero rispetto della fede musulmana, non solo per motivi di opportunismo commerciale, in quanto i tre fratelli si rimettono al giudizio del sultano. Calí capisce che i tre giovani di «bella aparensia [di bell’aspetto]» sono i figli del suo grande amico Alvisir, si fa spiegare la diatriba sul gioiello mancante, accetta di dirimerla e li invita ad alloggiare nel suo palazzo. Il sultano però è sospettoso, e dice fra sé: «Costoro faranno tra loro questione di tal gioiello, e s’io intendo

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Miniatura raffigurante una carovana di pellegrini, da un manoscritto delle Maqamat (componimenti in prosa rimata) del filologo e letterato arabo musulmano al-Hariri illustrato da Yahya ibn Mahmoud al-Wasiti. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

[ascolto] quello che tra loro diranno potrò meglio sentensiare». Decide cosí di alloggiare i tre fratelli in una camera al centro della quale c’è una colonna scavata all’interno, in cui si può nascondere, ascoltare e vedere tutto quello che i tre fanno; poi si domanda: «Costoro sono venuti a me che io dichiari [chiarisca] loro la quistione, ed ellino [essi] hanno ditto la interpretasione delle cose non vedute, come della gamella, e a me vegnan [vengono] per interpretare le cose che hanno veduto del gioiello? Per certo il modo preso d’averli in tal camera mi farà di questo fatto aver onore [prestigio]».

Una colonna sospetta

All’ora di cena i tre fratelli si mettono a tavola nella stanza loro riservata. Manasse «vedendo tale colonna in nella ditta camera e non parendo a lui la ditta colonna necessaria in sí fatto luogo, stimò subito quella il Calí aver fatta per poter saper quello che in tal camera si facea, stimando il Calí in quella dentro essere», ma non dice nulla ai fratelli. Quando arrivano le vivande a tavola, Arduigi sostiene che «la carne fu allevata a latte di cagna»; il Calí nascosto nella colonna si mette a ridere, aspettando di ascoltare dell’altro. Scandalbech nota: «Fratelli miei io mi sono acorto che questo vino che il Calí ci ha dato è nato dove si sotterrano i corpi morti». Il sultano pensa: «Costoro hanno nuovi pensieri: stando a scoltare [ascoltare] sentirò della loro questione». Manasse interviene: «Fratelli miei, voi avete ditto [detto] l’uno della carne e l’altro del vino: e io vi vo’ dire che veramente questo Calí che ci ha qui invitati e fattoci onore è bastardo». I fratelli si stupiscono di maggio

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Miniatura raffigurante le operazioni di carico delle balle di lana a bordo di una nave, da un codice delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.

questa affermazione, Manasse però non dice come faccia a saperlo. Non appena il sultano ode l’offensiva affermazione di Manasse, indaga sulla provenienza della carne e viene a sapere dal produttore: «Avendo una pecora pregna e parturendo uno agnello, morio la ditta pecora e io avendo una cagna che avea fatto i cagnuoli questo agnello lo feci alevare a latte di tal cagna»; poi si informa dal cantiniere, scopre che il vino proviene «di quella vigna dove si seppelliscono i corpi morti». A questo punto il sultano si convince di essere effettivamente illegittimo come sostiene Manasse: interroga la madre, che dapprima si mostra reticente, ma poi gli confessa che suo padre è il conte di Ragusa in Dalmazia.

Una notte agitata

La notte Calí non chiude occhio per la rivelazione; la mattina convoca i tre fratelli; chiede ad Arduigi come abbia fatto a capire che la carne era allevata a latte di cagna: «Perché di tal carne l’uomo non se ne vede mai sasio; e vedendo io avere mangiato presso a uno agnello, stimai cosí». Il sultano annuisce, chiede a Scandalbech perché sostiene che il vino provenga da un cimitero: «Signore, noi della Tana [nome medievale della regione del Don, dal fiume Tana] abiamo buone teste; di che io stimai tale vino esser nato dove si soppelliscono i corpi morti, perché naturalmente il corpo dell’uomo è grave [pesante] e alla testa dà impaccio». Calí conferma l’ipotesi, poi si rivolge a Manasse: «O tu che dicesti che io era bastardo, che sciensia hai apparato [imparato] che le cose fatte innanti al tuo nascimento possi [possa] sapere?». Il giovane risponde: «Stimando io tu doverci stare a vedere e a

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udire, stimando non esser atto di buono omo ma di bastardo, ma stimandoti a udire e a vedere, stimai tu esser bastardo: il qual dire ti prego mi perdoni». Calí ammette che tutti e tre hanno ben giudicato, ma ora tocca a lui fornire una soluzione alla loro diatriba sul gioiello e per questo racconta una novelletta ai fratelli: «Una bellissima giovana, nata d’un gentil conte e maritata a uno gentile uomo, è a passare per lo terreno di tre giovani come voi siete, ciascuno potente a tenere il passo [capace di controllare il passaggio]. Stimando tu, Arduigi, essere il primo signore là u’ tal giovana acompagnata a marito n’è menata e passa per lo tuo terreno, i tuoi famigli [le tue guardie] quella conduceno a te. Dimmi che faresti d’essa? E tu Scandalbech, rispondi: per lo tuo terreno è presa dalle tuoi brigate e condutta in tua forsa: che faresti di tale giovana? E tu, Manasse: la donna ditta t’è rapresentata [ti si presenta] bella e pulcella e hai di le’ tutto il tuo dominio. Dimando: che ne terresti?». La questione d’onore con cui Calí mette alla prova i tre giovani è tipica della tradizione cortese dei racconti. Arduigi sostiene che avrebbe protetto la fanciulla e avrebbe impedito a chiunque di vituperarla; Scandalbech rivela che «avuta tale giovana quella uzare [userebbe sessualmente], e prenderebene piacere, e dapoi onorevilmente ne lla mandare’ al suo marito». Manasse confessa: «Quando a me fusse presentata, io ne farei mia volontà; e dapoi vorrei che tutti i miei famigli l’avesseno e che sempre tra loro si tenesse senza mandarnela». Da queste risposte sincere, la fanciulla è metafora del gioiello, Calí sentenzia che Manasse si è appropriato del bene comune: «Tu dí il vero», confessa subito il giovane. Il sultano è stupito di quell’immediata assunzione di responsabilità, gli chiede come mai non abbia negato; Manasse risponde: «Come confessasti tutto [subito] ch’eri bastardo». I fratelli prendono commiato

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il novelliere di giovanni sercambi/2 Miniature raffiguranti un battello di tipo mercantile e, in basso, banchieri e mercanti che effettuano transazioni, da un codice delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.

da Calí e tornano a casa d’amore e d’accordo: uno dei due gioielli viene dato a Arduigi e l’altro a Scandalbech; e «fattone denar» si danno tutti e tre all’attività mercantile, «avansando [facendo economia] e vivendo onorevilemente sensa gittar [sprecare] piú né fare male spese, lassando li atti giovinili [giovanili]».

La sincerità innanzitutto

Al termine della novella, viene dato un giudizio sul comportamento dei tre fratelli mercanti dal preposto, il capo brigata dei Lucchesi, che loda la loro avvedutezza per avere indovinato cose non viste. Da questa novella cosí ben architettata dal Sercambi, possiamo trarre alcune considerazioni sui mercanti del tardo Medioevo. I protagonisti partono da una motivazione pratica: il bisogno di denaro e di altri vantaggi materiali che li portano alla disubbidienza perché non rispettano la volontà paterna. Grazie alla loro straordinaria capacità analitica, che ha qualcosa di fiabesco, si salvano dalle situazioni incresciose. Ma solo con l’osservanza di un valore quale la sincerità nelle risposte al sultano si arriva alla verità. Grazie alla sincerità, l’amore fraterno si rafforza: i tre diventano saggi e scoprono i giusti valori e gli obiettivi da perseguire: una vita prudente e morigerata che si basa sull’onesto lavoro mercantile. Grazie all’exemplum dei tre fratelli, la brigata riprende il cammino a cuor leggero.

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eventi festival federico ii

CHE COSA SAPPIAMO VERAMENTE DELLA NASCITA DI FEDERICO II A JESI?

Genesi di un mito

di Fulvio Delle Donne

Sebbene raccontata da piú di un cronista, la venuta al mondo dello Stupor Mundi conserva non pochi elementi d’incertezza, tanto da aver perfino suscitato dubbi sulle reali circostanze dell’evento e sull’identità della vera madre. Perplessità alimentate anche da uno svolgersi dei fatti che sembra dettato da una regia sapiente, quasi a voler «mettere in scena» i primi attimi di vita del futuro imperatore, sotto una tenda, in una pubblica piazza...

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ederico II di Svevia nacque a Jesi, nella Marca Anconetana, il 26 dicembre 1194. Si tratta di un dato apparentemente incontrovertibile, uno di quei punti fermi su cui si basano tutte le nozioni storiche. Eppure non è cosí scontato come ci si immaginerebbe. Sono solo due, infatti, le fonti che lo forniscono, e non sono neppure del tutto coeve, risalendo almeno a diversi decenni dopo. Una è la Cronaca di Riccardo di San Germano (ed. Carlo Alberto Garufi, Bologna 1937-1938; RIS2 VII/2, p. 17), l’altra è il Breve chronicon de rebus Siculis (ed. Fulvio Delle Donne, Firenze 2017; ENTMI 42, cap. V 3, p. 64). Entrambe specificano sia il luogo che la data, indicata, come di consueto, secondo il calendario della liturgia cristiana: il giorno della festa di santo Stefano. Ma sono cronache che si limitano a elencare notizie nella maniera secca, asettica e distaccata tipica della tradizione annalistica. Nessuna delle due aggiunge ulteriori dettagli o particolari, nessuna commenta o arricchisce l’informazione con aggettivi o caratterizzazioni. Se ci limitassimo a leggere solo questi testi, non potremmo immaginare l’atmosfera di attese e timori che da subito avvolse quell’evento: era nato il nipote di Federico Barbarossa, il figlio dell’imperatore Enrico VI, il quale, con sorprendente coincidenza, era stato incoronato re di Sicilia appena il giorno prima. La madre era Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II, il primo re di Sicilia. La nascita sanciva l’unione di due dinastie, quella imperiale degli Hohenstaufen, ben

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Nella pagina accanto particolare del ritratto di Federico II di Svevia dipinto dal pittore tedesco Philipp Veit. 1843. Francoforte sul Meno, Municipio, Salone imperiale.

radicati nella regione sveva della Baviera, e quella dei Normanni, che pure provenivano dalle lande settentrionali, ma ormai da circa un secolo si erano insediati anche in Italia meridionale.

Un erede a lungo desiderato

Si trattava di una convergenza perfetta, subito annunciata con enfasi e venerazione da Pietro da Eboli, che salutava la nascita del fanciullo a lungo desiderato come quella di chi veniva a rinnovare i fasti di entrambi i nonni: «Exhinc Rogerius, hinc Fredericus eris» dice (vedi box a p. 59), forse con riferimento a una iniziale decisione di chiamare il neonato col nome di Federico Ruggero, cosí come viene ricordato anche da una versione degli Annales Casinenses (ed. Georg Heinrich Pertz, Hannover 1866; MGH SS XIX, p. 318, r. 8). Questa informazione è dubbia, cosí come quella secondo cui fu scelto inizialmente il nome Costantino (quello del primo imperatore cristiano), riportata dai piú tardi Annales Stadenses (ed. Johann Martin Lappenberg, Hannover 1859; MGH SS XVI, p. 353, r. 16). Pietro da Eboli è allo stesso tempo poeta e cronista, ma, soprattutto, è molto vicino a Enrico VI e offre, quindi, una testimonianza diretta del clima di aspettative e speranze. Nel suo Liber ad honorem Augusti (o, per memaggio

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Gli antenati di Federico II Hohenstaufen Federico I Barbarossa † 1190

Enrico VI 1165-1197 imperatore nel 1191; sposa Costanza d’Altavilla nel 1186; re di Sicilia nel 1194

Altavilla Ruggero II 1095-1154

Filippo † 1208

Guglielmo I † 1166

Costanza 1154-1198

Guglielmo II † 1189

Federico II 1194-1250

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Nella pagina accanto Palermo, chiesa della Martorana (S. Maria dell’Ammiraglio). Mosaico di età normanna raffigurante l’incoronazione di Ruggero II (avvenuta nel Natale del 1130) da parte del Cristo.

L’annuncio di Pietro da Eboli «O fanciullo desiderato, compimento di un tempo destinato a rinnovarsi in te rivivranno assieme Ruggero e Federico, dei tuoi avi ancora piú grande! (...) La pace nasce con te, e con la tua nascita veniamo al mondo anche noi; con la tua nascita siamo ciò che invocano le devote preghiere; con la tua nascita il giorno non nasconde le stelle del cielo; con la tua nascita le stelle hanno luce propria; con la tua nascita la terra si copre di messi (...). Sole senza nube, fanciullo destinato a non essere mai oscurato, che uno splendido giorno ha portato al mondo. D’ora in poi non avrò piú timore del tempo dell’oscura notte: vado sicuro per le selve, per la terra, per il mare. Non dell’aquila gli uccelli, non del leone gli armenti, non dei feroci lupi avranno timore le nostre pecore» (Petrus de Ebulo, De rebus Siculis Carmen, ed. Fulvio Delle Donne, Potenza, BUP-Basilicata University Press, 2020, vv. XLIII 15-32; testo disponibile in modalità open access sul sito http://web.unibas.it/bup/evt2/pde/index.html; traduzione di Fulvio Delle Donne).

glio dire, De rebus Siculis carmen), non si limita solo ad annunciare o a ricordare l’avvenimento, ma si lascia andare a una lunga celebrazione, in cui si rivolge al fanciullo come a una sacra divinità per chiedergli la pacificazione di ogni conflitto. Con l’insistita anafora di «con la tua nascita» («te nascente»), ripetuta 5 volte, Federico è invocato come apportatore di pace e benessere, di luce e abbondanza, come guida sicura per chi è timoroso. In quegli anni l’Italia meridionale era travagliata da violenti scontri tra la fazione sveva e quella normanna. Il 18 novembre 1189, giovane e senza eredi, il re di Sicilia Guglielmo II era morto improvvisamente, seguíto, il 10 giugno 1190, anche dall’imperatore Federico Barbarossa. Contestualmente, nel Regno di Sicilia si aprí la guerra di successione tra chi difendeva i diritti del normanno Tancredi, conte di Lecce, e chi, invece, sosteneva quelli dello svevo Enrico VI, che frattanto era stato eletto all’impero. Il matrimonio con Costanza, che fino a quel momento era rimasto infruttuoso e privo di esiti prevedibili, con la nascita di Federico apriva improvvisamente nuove prospettive e nuovi interessi: l’Italia meridionale, col suo clima mite, le sue ricchezze e la sua posizione di pontile naturale nel mezzo del Mediterraneo, era l’ombelico del mondo, la terra da tutti desiderata.

Quasi come un messia

Secondo Pietro da Eboli, Federico avrebbe ricondotto sulla terra l’età dell’oro: assecondando i desideri primordiali di ciascuno, avrebbe fatto tornare l’era che aveva reso beati gli albori del mondo, quando uomini e animali potevano convivere felicemente senza temersi

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Miniatura raffigurante Pietro da Eboli tonsurato e vestito da frate che, in qualità di poeta offre il suo Liber ad honorem Augusti sive de rebus Siculis all’imperatore Enrico VI di Svevia seduto in trono, dal manoscritto dell’opera. 1196. Berna, Burgerbibliothek.

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a vicenda e senza mai provare fatica. Probabilmente il poeta si era ispirato dalla IV ecloga di Virgilio, dedicata alla nascita del puer, che piú tardi (dall’età dell’imperatore Costantino in poi) sarebbe stato identificato con Cristo. Ma, al contempo, si rifaceva anche alla profezia sul virgulto di Jesse, nel Libro di Isaia, in cui si annunciava l’avvento del messia. Il clima di pace universale è assolutamente identico e alcune immagini rendono evidente la comune derivazione. La stessa atmosfera mistica accompagnava, però, anche le profezie sull’imperatore della fine dei tempi. A lui Dio avrebbe affidato il compito di riunificare l’intero mondo, pacificato sotto la sua guida. Una volta sconfitto ogni nemico, avrebbe deposto la corona sul Golgota, ma in quello stesso momento avrebbe preso avvio anche l’Apocalisse: all’avvento di quell’imperatore era, infatti, sin dal X secolo, associato indissolubilmente quello dell’Anticristo. Cosí, ci fu chi rappresentò la nascita del fanciullo con toni ben diversi da quelli festosi visti finora. Federico non era l’imperatore della

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fine e apportatore dell’età dell’oro, ma il figlio del demonio ingannatore; simulato era dunque il parto della madre, vecchia e infeconda.

Un parto avvolto da dubbi e sospetti

Costanza d’Altavilla, in realtà, aveva quarant’anni: età che, ai giorni nostri, non sorprende piú, ma che oltre otto secoli fa doveva apparire straordinaria e inverosimile. Tanto incredibile che, secondo il cronista Ruggero di Howden (ed. William Stubbs, London 1871, IV, p. 31), la stessa Costanza, nel 1198, non molto prima di morire, dovette giurare sui Vangeli che il figlio era davvero suo, cosí che gli fosse consentita la successione e l’incoronazione a re di Sicilia, avvenuta a Palermo il 17 maggio dello stesso anno, domenica di Pentecoste. Se, dunque, la madre era tanto anziana da non essere piú fertile, il piccolo figlio non poteva essere stato procreato dalla coppia imperiale. Il francescano Salimbene de Adam, nella sua Cronaca (ed. Giuseppe Scalia, Bari 1966, pp. 58-59), maggio

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La versione di Boccaccio

Da monaca a regina madre «L’abate calabrese Gioacchino, dotato di spirito profetico, disse a Guglielmo che la figlia, con la sua nascita, avrebbe apportato rovina al regno di Sicilia. Il re stupefatto e atterrito da quella profezia, prestando fede al vaticinio, cominciò a pensare con ansietà al modo in cui ciò potesse avvenire a causa di una donna; e ritenendo che non poteva derivare se non dal marito o dal figlio, avendo compassione del suo regno, decise di allontanare con previdenza, per quanto possibile, quel pericolo. Al fine di levarle la speranza del matrimonio e dei figli, rinchiuse quella verginetta in un chiostro di monache, per farle promettere a Dio perpetua castità. (...) Ma perché, noi che siamo deboli e fiacchi, tentiamo di opporci a Dio, che fa espiare agli uomini gli scellerati delitti? (...) Una volta morti il padre e il fratello, (...) a causa degli scontri tra le fazioni dei nobili, il Regno appariva ormai messo tutto a ferro e fuoco, e perciò ad alcuni venne in mente di dare Costanza in sposa a un illustre principe (...) e fu sposata a Enrico, imperatore dei Romani, figlio del defunto Federico I. E cosi la rugosa vecchia, avendo abbandonato il santo chiostro e le bende monacali, ornata di regali vesti, maritata e imperatrice si manifestò pubblicamente. E colei che aveva consacrato a Dio perpetua verginità, suo malgrado la depose, una volta entrata nella camera del principe e salita sul letto matrimoniale. Perciò accadde, non senza ammirazione di quelli che

lo vennero a sapere, che, all’età di cinquantacinque anni, carica d’anni partorí. Siccome quasi da nessuno era data fede a quella gravidanza, e molti credevano che fosse un inganno, a togliere via il sospetto si procedette provvidamente a che, appressandosi il tempo del parto, per ordine dell’imperatore fossero chiamate le signore piú nobili del regno di Sicilia, cosí che tutte quelle che volessero fossero presenti al futuro parto. Esse vennero anche da

lontano, e, messe le tende nei prati all’esterno di Palermo, e, secondo alcuni, dentro la città, al cospetto di tutti la vecchia imperatrice partorí un figlio, cioè Federico, il quale poi divenne un uomo mostruoso, peste di tutta l’Italia, e non solo del regno di Sicilia, acciò che non fallisse il vaticinio dell’abate calabrese» (Giovanni Boccaccio, De mulieribus claris, a cura di Vittorio Zaccaria, Milano 1967, pp. 428-430; traduzione di Fulvio Delle Donne).

In alto miniatura raffigurante Costanza d’Altavilla, da un codice del Des cleres et nobles femmes (traduzione francese del De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio). 1488-1496. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la nascita di Federico II a Jesi, dal codice della Nuova Cronica di Giovanni Villani denominato Ms Chigiano L VIII 296, fol. 65v. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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tiene a ricordare la voce secondo cui Federico era il figlio di un beccaio di Jesi e che Costanza aveva simulato il parto: si era messa in grembo quel bimbo appena nato, per far credere che ne fosse lei la madre. La malizia del cronista, vissuto qualche decennio dopo, è assai sottile: egli costruisce con sapienza la sua narrazione con un susseguirsi di «si dice», che servono a insaporire con un condimento di verosimiglianza una vicenda altrimenti improbabile. Salimbene conosceva a perfezione le regole che conferiscono effetto di realtà, cosí, dà avvio a un arguto ragionamento basato su tre argomenti: innanzitutto, non ci sarebbe niente di sorprendente, perché le donne sono ben abituate a fingere e a simulare; poi, persino Merlino aveva profetizzato che la nascita del secondo Federico sarebbe stata insperata e prodigiosa, dunque oscura; infine aggiunge – come se fosse una prova dirimente – che, in un diverbio con Federico, il suocero Giovanni di Brienne (padre di Iolanda o Isabella, regina di Gerusalemme, sposata nel 1225) lo chiamò proprio «figlio di beccaio». I tre argomenti sono, com’è ovvio, privi di alcun fondamento, ma il loro numero aiuta e l’importante è, in ogni caso, seminare il dubbio, che poi si autoalimenta: «fama crescit eundo», diceva Virgilio. I meccanismi che regolano la disinformazione sono sempre gli stessi e li troviamo identici anche nella nostra epoca dominata da fake news diffuse ad arte. È evidente che Salimbene non era un sostenitore dell’imperatore: egli, del resto, veniva da Parma, il comune contro cui Federico aveva combattuto a lungo, subendo il 18 febbraio 1248 una catastrofica sconfitta. Ma le voci che lo Svevo fosse un figlio il-

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Veduta panoramica di Jesi, città natale di Federico II di Svevia. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Costanza d’Altavilla che affida il figlio Federico alla duchessa di Spoleto, dal manoscritto del Liber ad honorem Augusti sive de rebus Siculis di Pietro da Eboli. 1196. Berna, Burgerbibliothek.

legittimo, o che addirittura fosse stato procreato dal demonio, erano ormai diffuse. Perciò si sentí la necessità di contrastarle con gli stessi mezzi.

Sotto gli occhi di tutti

Bisognava innanzitutto smentire la diceria infondata che Costanza aveva simulato il parto. E in quale modo lo si poteva fare, se non inventando che era avvenuto sulla pubblica piazza, sotto una tenda e, dunque, alla presenza di un intero popolo che potesse testimoniare? La vista non può ingannare e una miniatura della meravigliosa cronaca figurata di Giovanni Villani (vedi foto a p. 60) lo chiarisce icasticamente: la tenda (che, attualizzando la vicenda, reca le insegne aragonesi e non sveve) è totalmente aperta, per invitare chiunque a vedere la madre e il neonato. Villani, cronista fiorentino che forse fu amico di Dante (col quale condivide molte notizie, cosí come con Ricordano Malispini, la cui narrazione coincide perfettamente), racconta che, quando Costanza era incinta, molti, nel Regno di Sicilia, sospettavano che fosse una menzogna: «per la qual cosa quando venne a partorire fece tendere uno padiglione in su la piazza di Palermo, e mandare bando che qual donna volesse v’andasse a vederla, e molte ve n’andarono e vidono, e però cessò il sospetto» (Nuova cronica, ed. Giuseppe Porta, Parma 1990, I, lib. VI, 16, pp. 246-247). La descrizione del Villani può ben documentare lo maggio

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Le date di Federico

Un memorabile cinquantennio 1194 Nasce il 26 dicembre a Jesi, nella Marca Anconetana 1211 Viene eletto re di Germania 1215 Viene incoronato re dei Romani ad Aquisgrana 1220 Onorio III lo incorona a Roma imperatore del Sacro Romano Impero 1224 Fonda lo Studium di Napoli, la piú antica università «statale» del mondo 1228 Viene scomunicato da Gregorio IX 1229 Si incorona re di Gerusalemme 1231 Emana le Costituzioni Melfitane 1237 Vittoria di Cortenuova sulla Lega Lombarda 1245 Seconda scomunica a opera di Innocenzo IV 1249 Sconfitta di Fossalta • 1250 Muore il 13 dicembre a Castel Fiorentino, presso San Severo (oggi in provincia di Foggia) Federico II di Svevia raffigurato alla sommità della ruota della Fortuna, stampa ottocentesca da una miniatura contenuta in un manoscritto dei Carmina Burana redatto fra il XIII e il XIV sec. e conservato presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera.

sviluppo ipertrofico del mito federiciano, che, sorprendentemente, non ebbe origine in Italia meridionale, ma nella Toscana dei decenni a cavallo tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, quando si consumò in maniera piú esplosiva lo scontro tra il fronte guelfo e quello ghibellino (per usare definizioni approssimative, ma piú facilmente riconoscibili). Che la notizia del parto pubblico, sotto una tenda aperta, sia una costruzione tarda è dimostrato non solo dalla circostanza che nessuna fonte contemporanea ai fatti la menzioni, ma anche dall’evidente errore sul nome della città: l’evento è trasformato in una rappresentazione scenica, sul cui fondale è raffigurata la capitale del Regno, Palermo.

Ad Assisi per il battesimo

A distanza di almeno un secolo, Jesi era ormai lontana dagli orizzonti e non era facilmente associabile alle vicende federiciane: del resto, il futuro imperatore vi era nato per ventura, perché Costanza era stata presa dai dolori del parto mentre dalla Germania si recava a Palermo dove si sarebbe dovuta ricongiungere col marito, che aveva seguito una strada piú rapida, ma piú scomoda. A lei era legata la legittimazione della fazione normanna, dunque doveva proseguire in fretta e a tutti i costi per la Sicilia. Ma il figlio era ancora troppo piccolo per intraprendere viaggi impegnativi: fu, dunque, affidato dalla madre alla duchessa di Spoleto, che aveva residenza a Foligno; all’età di due anni, fu battezzato ad Assisi. Quale fosse la funzione narrativa del parto pubblico, sotto una tenda, nella piazza cittadina, viene ribadito con chiarezza anche dal piú tardo Pandolfo Collenuccio, nei primissimi anni del XV secolo: «Per levar via la suspizione di ciascuno, fece Constanza, come prudentissima donna, ponere un pavaglione ne la piazza pubblica di Jesi e in esso si condusse a l’ora del suo parto e volse che fusse lecito a tutti li baroni e nobili, maschi e femine, andar lí a vederla partorire, a fine che ciascuno intendesse quello non esser parto suppositizio» (Compendio de le istorie del Regno di Napoli, ed. Alfredo Saviotti, Bari 1929, ed. pp. 112-113). Collenuccio scrisse la prima storia sintetica dell’Italia meridionale, suscitando le reazioni sdegnate dei «regnicoli», rappresentati come antropologicamente infedeli e sleali. Ma forní, in generale, un punto di riferimento per tutti gli storiografi successivi, mettendo a confronto le fonti con nuovo metodo critico, sebbene ancora non scientifico: riprendendo la notizia fantasiosa della nascita pubblica, la corresse indicando il luogo esatto. La vicenda, con tutti i suoi condimenti immaginifici, risulta ampiamente nota anche a Giovanni Boccaccio, che la rammenta in diverse sue opere. Con maggiore dovizia di particolari e piú raffinata costruzione narrativa la descrive nel cap. 104 del De mulieribus claris. Egli parte con l’affermazione che Costanza rifulse come

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eventi festival federico ii imperatrice, ma che fu resa illustre soprattutto dal suo eccezionale parto. Prosegue, poi, raccontando che ella fu figlia di re Guglielmo II (in realtà fu figlia di Ruggero II, ma queste confusioni erano assai comuni) e che la sua nascita (non solo quella del figlio) fu segnata da una terribile profezia. Il re suo padre era venuto a sapere che l’abate Gioacchino da Fiore, «di spirito profetico dotato» secondo la definizione dantesca, aveva vaticinato che da Costanza sarebbe derivata grande rovina per il Regno. In qual altro modo una fanciulla, a quei tempi, poteva arrecare danno? Solo come sposa e madre di eredi: questo è dichiarato da Boccaccio senza mezzi termini. Perciò, è sacrificata a una vita di clausura e di castità in convento, perché l’unica maniera per allontanare il pericolo è di impedirle a tutti i costi di procreare: e cosí avviene per molti anni. Costanza è ormai anziana, addirittura una vecchia decrepita («rugosa anus»), quando il Regno sembra andare in rovina per la mancanza di eredi al trono. Nonostante sia monaca, viene allora data in moglie all’imperatore Enrico VI. Boccaccio insiste molto sulla vecchiezza di Costanza, che ne rende stupefacente e innaturale la maternità: ha ben 55 anni. Ancora pochi per il cronista Bartolomeo di Neocastro (Historia Sicula, ed. Giuseppe Paladino, Bologna 1921-1922; RIS2 XIII 3, p. 2), che gliene attribuisce addirittura 60!

Scomunica di Federico II da parte di Gregorio IX, affresco di Giorgio Vasari. 1572-1573. Città del Vaticano, Sala Regia del Palazzo Apostolico.

La «nostra Betlemme»

Insomma, la nascita di Federico, a distanza di circa un secolo, divenne oggetto di fantasiose ricostruzioni e di suggestive rielaborazioni letterarie, dando spunto a quelle riconversioni mitopoietiche che a volte rendono impossibile distinguere tra realtà e invenzione, tra vero e falso, tra certo e verosimile. Fu spesso ricordata come miracolosa o prodigiosa; e al suo processo di trasfigurazione contribuí, almeno in parte, lo stesso Federico, che certamente lasciò di sé un’immagine destinata a insinuarsi nelle pieghe insondabili dell’immaginario collettivo. La lettera che, presumibilmente nell’agosto del 1239, inviò alla sua città natale, è estremamente eloquente. Rivolgendosi direttamente a Jesi, definita nobile città e insigne principio della sua nobile origine, la chiama «Bethleem nostra» (Huillard-Bréholles, Historia diplomatica, V, p. 378): «tu non sei la piú piccola tra le principali della nostra stirpe». Jesi è la sua Betlemme, dove è nato dalla «diva» Costanza. E incitando la città a scuotersi di dosso il dominio altrui e a rompere il giuramento prestato alla Chiesa, dichiara perentoriamente: «Da te è uscita la guida, il principe dell’impero romano, che reggerà e proteggerà il tuo popolo, non permettendo che in futuro sia sottoposto a un potere esterno». In quel momento si era fatto particolarmente aspro lo scontro col papa. Federico proprio allora era stato da Gregorio IX paragonato alla bestia apocalittica venuta dal mare per distruggere il mondo. E la strategia

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che l’imperatore decise di seguire fu quella «cristomimetica», sperimentata già in occasione della sua «crociata della pace» del 1228-1229 (vedi «Medioevo» n. 327, aprile 2024; anche on line su issuu.com): paragonandosi a Cristo, egli volle offrire di sé un’immagine soprannaturale e sovrumana. Del resto, egli era nato il giorno dopo quello in cui si festeggia il Natale del Signore. La lettera è trasmessa solo da un ramo secondario del cosiddetto epistolario di Pier della Vigna: il protonotaro e logoteta imperiale fu anche il principale maggio

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artefice della costruzione ideologica federiciana. Certo non viene esplicitata, ma non ce n’è bisogno, perché l’equiparazione con Cristo è sin troppo evidente. E non tanto per l’attributo diva che caratterizza la madre Costanza, quanto per la citazione chiarissima dal Vangelo di Matteo (II 6), là dove si dice: «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le sue città piú importanti; da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele». La terra di Jesi è eletta e Federico è il Cristo destinato a guidare il popolo prescelto da Dio.

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Federico, insomma, si presentò come il nuovo messia, la nuova guida del mondo, il Cristo e il Cesare, il salvatore e il signore dell’universo. Forse, in tal modo, volle rispondere agli assalti della cancelleria papale, che lo dipingeva come l’Anticristo, ovvero come il falso Cristo. Ma, allo stesso tempo, contribuí a offrire di sé un’immagine portentosa, posta al limite indistinguibile tra bene e male, tra cielo e inferi: fu l’artefice della trasfigurazione mitica che accompagna, sin dalla nascita, ogni momento della sua vita.

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Il Museo Federico II Stupor Mundi S. Marino

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Sulle due pagine immagini dell’allestimento del Museo Federico II Stupor Mundi di Jesi. Inaugurato nel 2017, ha sede in Palazzo Ghislieri Nuovo.

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EMILIA ROMAGNA

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«Cittadini di Jesi, amici dell’impero...Esultate! Oggi, il 26 dicembre 1194, in questa piazza è nato lo Stupor Mundi». Cosí l’ancella di Costanza d’Altavilla accoglie i visitatori che si accingono a visitare il Museo Federico II Stupor Mundi. Il teatrale e innovativo spazio espositivo è stato inaugurato il 1° luglio 2017 a Jesi, città natale dello Svevo. Si trova all’interno della splendida cornice settecentesca di Palazzo Ghislieri Nuovo, proprio nella piazza Federico II dove, secondo la tradizione, nacque l’imperatore. Ricostruzioni plastiche di monumenti e di abiti medioevali, ologrammi, docu-fiction create appositamente, animazioni di miniature e interfaccia grafici permettono ai visitatori di intraprendere un viaggio nel tempo alla scoperta della storia e del mito dell’erede degli Hohenstaufen. L’intento divulgativo che si cela dietro alla realizzazione del museo prende vita da una intuizione dell’ideatore e finanziatore del progetto, il mecenate jesino Gennaro Pieralisi, recentemente scomparso. Un imprenditore,

Ascoli Piceno

ABRUZZO

innamorato della propria città e della poliedrica figura dello «Stupor Mundi» che ha voluto donare ai propri concittadini un luogo di incontro didattico dove poter conoscere una figura di cosí grande fascino nei minimi particolari e in stretta connessione con tutto il territorio

Teramo

circostante. La Fondazione Marche ha cofinanziato e gestito in modo attivo l’iniziativa alla quale hanno collaborato anche la Regione Marche, il Comune di Jesi, la Fondazione Cassa di Risparmio, la Fondazione Pergolesi Spontini e la Fondazione Federico II Hohenstaufen. maggio

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William Graziosi, artefice e a lungo amministratore della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, ha coordinato l’inaugurazione e l’avvio gestionale del museo dal 2010 al 2018. La curatela scientifica è affidata ad Anna Laura Trombetti Budriesi, docente di Storia medievale all’università di Bologna, alla storica dell’arte Laura Pasquini e al medievista Tommaso Duranti. GLI SPAZI ESPOSITIVI La poliedrica personalità dell’imperatore svevo viene ricostruita grazie a una monumentale raccolta di fonti storiche lungo un percorso che si dipana attraverso sedici stanze tematiche. Testimonianze, corrispondenze, miniature, dipinti, codici e arazzi: piú di 700 documenti provenienti da archivi pubblici e privati, sia in

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Italia che all’estero e difficilmente consultabili dal grande pubblico, sono stati digitalizzati e resi fruibili

attraverso narrazioni animate e proiezioni tridimensionali. Cosí, in un affascinante gioco virtuale al di là del tempo, i visitatori possono ritrovarsi faccia a faccia con gli antenati di Federico II, partecipare alla cerimonia dell’incoronazione, venire catapultati all’interno della basilica di S. Pietro del XIII secolo ricostruita con minuzia di particolari e passeggiare tra le sale di Castel del Monte, la celebre fortezza che Federico volle costruire nel cuore della Murgia. Fino a partire per la crociata in compagnia di Ermanno di Salza, quarto Gran Maestro dell’Ordine Teutonico e fedele generale dello Svevo. Oppure sfogliare le pagine del De Arte Venandi Cum Avibus per ammirare i particolari di tante straordinarie miniature o ascoltare poesie d’amore al seguito della corte itinerante dell’imperatore. Un museo dinamico e multidisciplinare che punta al coinvolgimento emotivo ed esperenziale dei visitatori. Oltre alle installazioni immersive i curatori hanno elaborato forme modulari di comunicazione, dirette sia ai «nativi digitali» e agli studenti di scuole di ogni ordine e grado che agli studiosi e ai tanti appassionati cultori della storia medievale. La suddivisione tematica delle sedici stanze permette

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eventi festival federico ii Un altro particolare dell’allestimento del Museo Federico II Stupor Mundi di Jesi.

al visitatore di approfondire in modo accurato le varie sfaccettature della straordinaria vicenda storica dell’imperatore. Una tipologia di racconto che ha ispirato William Graziosi anche nell’ideazione del Festival Stupor Mundi (www.festival. stupormundi.it) che quest’anno celebra il mito di Federico II di Svevia: la rassegna si è aperta ad Ancona (dall’11 al 14 aprile), con un incontro che ha avuto per tema la ricerca della pace attraverso il difficile dialogo con il nemico; il secondo appuntamento, a Jesi (dal 9 all’11 maggio) è invece dedicato alla condivisione dei saperi tra Oriente e Occidente. L’ALLEANZA CON IL TERRITORIO Il museo è inserito all’interno di una rete museale cittadina ed è gestito dal 2020, a seguito di un bando pubblico da Rnb4Culture, una impresa emergente di giovani marchigiani che progetta e promuove

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eventi, laboratori didattici, mostre temporanee e visite guidate destinate alle scolaresche, alle famiglie e a tutta la cittadinanza di Jesi. Differenti pubblici hanno aspettative, interessi e bisogni differenti. Da qui i tanti servizi diversificati, in stretta collaborazione con gli altri enti presenti sul territorio

visibili nella sezione «Didattica» del sito www.federicosecondostupormundi.it La Rnb4Culture ha anche progettato e realizzato Emma, un software gestionale e di bigliettazione che ha vinto il premio Innova Musei 2021, in grado di facilitare l’operatività degli operatori museali ma anche di consentire la profilazione degli utenti. I modelli statistici elaborati da Emma hanno evidenziato come il segmento di pubblico meno presente all’interno del Museo Federico II Stupor Mundi, nonostante il linguaggio e la struttura altamente tecnologica e innovativa, fosse quello dei giovani compresi nella fascia di età 16-30. Per gli addetti alla sezione educativa è stato il punto di partenza su cui lavorare. Sono stati cosí realizzati progetti con le scuole del territorio, con i ragazzi della Consulta dei Giovani del comune di Jesi, con i giovani del servizio civile e del PCTO. Il museo ha poi arricchito la sua attività con corsi di yoga, serate di giochi da tavola animati e statici, aperitivi culturali, sessioni di giochi di ruolo e laboratori creativi. Il tempo per una visita completa è di circa 90 minuti. Oltre alle aperture normali, da settembre a maggio, in ogni fine settimana il museo propone laboratori educativi per le famiglie e almeno un evento al mese aperto alla cittadinanza. (a cura di Lucia Basili)

Dove e quando Museo Federico II Stupor Mundi Jesi (AN), Palazzo Ghislieri, piazza Federico II n. 3 Orario da settembre a giugno: gioven, 15,00-20,00; sa-do, 10,00-20,00; luglio e agosto: ma-do, 10,00-20,00 Info tel. 0731 084470 oppure 348 775 7859; e-mail: biglietteria@ federicosecondostupormundi.it; sito web: www. federicosecondostupormundi.it;

Facebook, Instagram, X: Museo Federico II Festival Federico II Stupor Mundi Jesi, 9-11 maggio Info Associazione culturale Sulvic, tel. 071 55165; e-mail info@festival-stupormundi.it, ufficiostampa@florabant.com www.festival-stupormundi.it Note l’ingresso alla manifestazione è libero, ma è richiesta la prenotazione on line maggio

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di Biancamaria Scarcia Amoretti

Aysha e le altre Miniatura raffigurante un gruppo di donne velate, da un manoscritto dello Shahnameh (Libro dei Re) del poeta Firdusi. 1549. Istanbul, Museo di arte turca e islamica.

Le fonti sono prodighe di notizie sulle mogli del Profeta Maometto, alcune delle quali ebbero importanti ruoli politici. Tuttavia, intorno a queste figure di spicco, qual era la condizione femminile nel mondo islamico? Le risposte non mancano e un quadro attendibile passa anche attraverso il superamento di numerosi stereotipi


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ra le idee piú diffuse a proposito delle donne musulmane è che esse siano state estraniate dal mondo esterno, chiuse nei loro ginecei, dove al massimo potevano aspirare a ordire, dietro le quinte, qualche complotto, usando della seduzione nei confronti del loro signore e padrone come dell’unica arma loro disponibile. Quanto abbiamo sott’occhi oggi – non importa se limitato a determinati contesti e in ben definite aree geografiche – funziona da conferma: una conferma accreditata anche in ambienti islamici e da parte di studiosi di cultura musulmana. In questo caso, si teorizza una distinzione tra i primi tempi dell’Islam, quelli che coincidono con la vita di Muhammad (Maometto), e le epoche successive, quando si avvia un precoce e irreversibile processo involutivo: le prime donne musulmane avrebbero contato non poco nell’affermazione socio-politica della neonata comunità, le altre, fatte salve poche eccezioni, sarebbero state volutamente e pervicacemente allontanate dall’arena pubblica. C’è molto di vero sul piano politico, se per politica si

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intende la partecipazione attiva e diretta alla vita istituzionale dello Stato; la cosa è meno vera, se la sfera socio-politica si allarga a includere quanto incide, in maniera generale, sul sociale. Certamente, non si può prescindere, soprattutto parlando di donne, dalla storia di quelle che sono state piú intimamente legate al Profeta, la cui vita costituisce il modello referenziale, quando non vincolante, per il credente.

Uguali di fronte a Dio

Partiamo da quel che c’è di storicamente attendibile. Quando Muhammad incomincia a diffondere il suo messaggio alla Mecca – siamo nel VII secolo – le donne, alcune donne, sono tra le prime ad abbandonare il politeismo. Non seguono necessariamente le scelte di mariti o figli. Anzi, è piuttosto il contrario. Molte di loro faranno opera di proselitismo nei confronti degli uomini di casa. Un debito che il Profeta non dimentica; sul piano religioso, prima di tutto. Il Corano riconosce alle donne la stessa posizione degli uomini nei confronti di Dio, la cui incommensurabile trascendenza pone obiettivamente

tutte le creature, senza distinzione di sesso, sullo stesso piano. Non è raro che il testo sacro si rivolga esplicitamente «ai credenti» e «alle credenti», gli uni e le altre chiamati alla stessa stregua a perseguire la via della salvezza. Anzi, per un gruppo di musulmani, sia pure minoritario, gli sciiti, la figlia del Profeta, Fatima, è ricettacolo e trasmettitrice alla sua progenie del quid divino, la «luce muhammadica», che rende Muhammad unico e diverso dagli altri uomini, tanto che alcuni studiosi cristiani, tra cui Louis Massignon (18831962), non hanno esitato a paragonarla a Maria. Quando, ciò nonostante, il Corano afferma la superiorità maschile, come fattore di ordine indispensabile alla realizzazione del progetto divino sulla terra, Dio, contestualmente, consiglia tenerezza, comprensione, pazienza nei riguardi delle donne. Il Profeta è il primo a rispettare la volontà divina. La tradizione è ricca di aneddoti in cui Muhammad riceve donne di tutti i ceti che gli si avvicinano per chiedergli la riparazione di un torto, un consiglio pratico, un aiuto in una difficile situazione coniugale. Agiografia,

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Replica settecentesca di una vignetta raffigurante, sulla sinistra, Maometto che chiede alla figlia Fatima se sia contenta del marito, ‘Ali ibn Abi Talib, da un manoscritto del Siyer i-Nebi, biografia romanzata del profeta. 1595 circa. Istanbul, Museo di arte turca e islamica. Nella pagina accanto pagine di un Corano copiato in lingua bihari (India) con annotazioni in persiano. XVI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Miniatura raffigurante una predica, da un manoscritto delle Maqamat (componimenti in prosa rimata) del filologo e letterato arabo musulmano al-Hariri illustrato da Yahya ibn Mahmoud al-Wasiti. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto miniatura persiana raffigurante la moglie prediletta di Maometto Aysha (è la figura nascosta nel baldacchino, in alto) che assiste alla «battaglia del cammello» (656), nella quale, ormai vedova del Profeta, fu sconfitta da ‘Ali ibn Abi Talib, da un manoscritto del Rawdat as-safa’ (Il giardino della purità), una storia del mondo dalla creazione fino al regno timuride redatta dal persiano Mirkhwand. 1571-1572. Washington, Smithsonian’s National Museum of Asian Art.

forse, ma significativa di un atteggiamento che non vuole distinguere sulla base del sesso i destinatari della nuova fede.

Il ruolo delle mogli

Le richieste femminili riguardano spesso la vita quotidiana, questioni spicciole di abbigliamento, di purità rituale, di etichetta. L’attenta risposta di Muhammad serve sia da referente per i posteri sia da giustificazione del fatto che l’Islam presta analoga attenzione a raffinati problemi teologico-giuridici e alle questioni pratiche di tutti i giorni. Ovviamente, alle mogli del Profeta sono riservati una visibilità e un ruolo eccezionali. Il ruolo è strettamente collegato alle modalità con cui l’Islam avvalora la verità storica di un fatto: la testimonianza, che quanto piú è diretta, tanto piú risulta attendibile. E chi piú delle mogli del Profeta può garantire di quello che ha detto e ha fatto? Un ruolo dai molti risvolti, giuridici, teologici, e indubbiamente anche politici. Non è un caso che la moglie prediletta, Aysha, una delle grandi trasmettitrici della tradizione profetica, trovi naturale interloquire sulle decisioni dei califfi

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che si susseguono, dopo la morte di Muhammad, a capo della comunità, forte della sua conoscenza della vita di Lui anche nella sua dimensione privata. E non stupisce che uno dei califfi, ‘Ali, verso cui Aysha si dimostra cosí ostile da partecipare a una rivolta che si conclude con una disfatta militare dei ribelli, sanzioni pesantemente il suo operato e dichiari che la politica non è cosa da donne, se la stessa moglie dell’Inviato di Dio ha dato una prova di sé tanto poco edificante. I musulmani sono tutti concordi nel ritenere ancor piú essenziale nell’affermazione dell’Islam il ruolo di Khadija, la prima moglie di

Muhammad, vedova, piú anziana e benestante di lui. Credendo nella sua missione e garantendogli la sicurezza economica, lo convince a iniziare la sua predicazione pubblica e a non cedere alla campagna di diffamazione che la sua stessa tribú gli scatena contro. In pratica, Khadija offre l’esempio piú completo dell’ideale di «moglie». Senonché le fonti storiche ci dicono che è Khadija ad aver voluto, organizzato e portato a termine il matrimonio con Muhammad da cui, in qualche modo, la vicenda storica dell’Islam ha inizio. L’intraprendenza di Khadija è a tutto tondo. Quando incomincia a

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Dossier Miniatura raffigurante Aleppo, dal Beyan-ı Menazil-i Sefer-i Irakeyn-i Sultan Süleyman Han (Descrizione delle fasi della campagna del sultano Solimano nei due Iraq) di Matrakçi Nasuh. 1537. Istanbul, Biblioteca Universitaria. Nella pagina accanto una scena di parto in un’altra miniatura di Yahya ibn Mahmoud al-Wasiti per le Maqamat di al-Hariri. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Dayfa Khatun

50 000 dinari per un matrimonio La storia non è mai lineare. Qualche eccezione all’assenza femminile dalla politica che abbiamo denunciato, esiste. Esemplare, in tal senso, la vicenda di una principessa della dinastia curda degli Ayyubidi, fondata da Saladino. Nel 1212, la nostra principessa, Dayfa Khatun, va sposa a un cugino, figlio di Saladino, al-Zahir, sovrano di Aleppo, di tredici anni piú anziano di lei. Il contratto di nozze, approntato dai massimi giurisperiti dell’epoca, prevede da parte del marito un dono nuziale di 50 000 dinari, cifra strabiliante, a detta degli storici. La famiglia paterna non è da meno. Ci vogliono 400 cammelli e 50 mule per trasportare da Damasco ad Aleppo la sua dote in gioielli, vasellame e tessuti preziosi. Altri 100 cammelli accompagnano, nella sua nuova dimora, il seguito costituito da schiave, che le fonti ci dicono specializzate nell’arte del canto o in una qualche attività artigianale. Il momento pubblico di Dayfa Khatun non è, però, ancora arrivato, sebbene, alla morte del marito, riesca a fargli succedere il figlio al-’Aziz. Quando il potere tocca al nipote, al-Nasir, un fanciullo di sette anni, inizia finalmente a governare. Assume la reggenza insieme a quattro uomini, di cui due liberti, scelti per le loro competenze specifiche. La decisione finale spetta, però, alla principessa, ed è il suo sigillo che appare sui documenti ufficiali.

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interessarsi a Muhammad, lo mette alla prova; si dichiara a lui; con un sotterfugio, vince l’ostilità del padre che vorrebbe per lei un marito piú degno, o quanto meno piú affidabile sul piano economico; lo sposa e, finché ella vive, il Profeta le resterà fedele. Khadija non mette a repentaglio, nella versione che i musulmani danno della sua vita, la sua rispettabilità. Al contrario, gioca all’interno delle regole della società del tempo, ma sa usarne gli spazi che le sono concessi: quegli stessi spazi che l’Islam, in linea di principio, manterrà accessibili alle donne, ampliandoli. Le madri – lo dice il Corano stesso – hanno una posizione di privilegio. Ma sono madri in quanto mogli di qualcuno. La politica matrimoniale, anche se, per lo piú, giocata all’ombra di qualche uomo, è appunto una delle prerogative femminili, delle madri, in particolare.

Il microcosmo familiare

La famiglia estesa, almeno nel Medioevo, è la cellula primaria su cui si strutturano le società musulmane a tutti i livelli, dalle dinastie regnanti alle comunità di villaggio, per non dire dei clan tribali. Il contesto familiare è il luogo in cui si compongono conflitti altrimenti insanabili; in cui funzionano solidarietà economiche; in cui si tramandano cultura ed esperienze professionali; in cui la socialità è possibile perché protetta. Un microcosmo la cui stabilità e funzionalità sta nelle mani delle donne. La stessa poligamia che, raramente praticata dalla gente comune, a detta dei piú, era costume delle sole classi abbienti, era, essa stessa, oggetto di contrattazione. Il contratto matrimoniale, stipulato dal tutore nel caso di una vergine, concordato con la donna, se questa era vedova o divorziata, poteva prevedere la clausola della fedeltà. Se il marito non manteneva l’immaggio

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pegno, la donna poteva pretendere il divorzio. Non è l’unico diritto che la legge le garantisce. Il Corano stesso stabilisce, infatti, come un uomo debba cautelare economicamente la propria moglie, e, se ne ha piú d’una, come debba dimostrarsi equo con ognuna di loro indicando anche come «dividere» le sue notti. Posizione subalterna, certamente, ma non fuori dal mondo, almeno per le donne libere.

Oltre i cliché

Lo stereotipo che vuole le musulmane – tutte, sempre e senza distinzione – chiuse in casa istiga a cercare le eccezioni. La piú straordinaria è senza dubbio quella delle «donne guerriere». Ci racconta alcuni casi del genere, nella sua autobiografia, Usama ibn al-Munqidh, un principe del XII

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Miniatura raffigurante i crociati che danno l’assalto a Damietta (1249), da un codice delle Chroniques de France ou de Saint Denis. 1340 circa. Londra, British Library.

shajar al-durr

La concubina che diventò sultano Un altro ritratto di donna che seppe dare la scalata al potere è quello della concubina turca Shajar al-durr. Di lei si dice che «nessuna donna poteva esserle rivale nella bellezza e nessun uomo nella determinazione». Comincia la sua carriera come favorita di un principe ayyubide, al-Salih Ayyub, sultano d’Egitto, con cui divide un periodo di cattività a Karak. Siamo nel 12391240. La nascita di un figlio rappresenta il primo gradino della sua ascesa sociale. Viene affrancata e poi sposata dal sultano. Questi l’ama e la stima. La considera seconda solo al suo generale in capo. La vicenda crociata è tutt’altro che conclusa. Nel 1249 si attende una nuova ondata franca: sarà la crociata di san Luigi. Il sultano muore, il momento è critico, e la sua morte viene tenuta nascosta. Shajar al-durr fa parte del triumvirato che si assume la responsabilità di gestire la crisi. Fatto quasi imprevedibile, maggio

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A destra il mihrab (la nicchia che indica la direzione della Mecca) all’interno del complesso formato dal mausoleo e dalla madrasa (scuola coranica) del sultano al-Salih Ayyub, al Cairo.

viene nominata, nel 1250, sultana dagli emiri e dalle truppe mamelucche, i mercenari turchi addestrati per servire la dinastia. Il califfo, da Baghdad, esprime il suo disappunto, in un messaggio al comandante militare, restato famoso: «Se non c’è al Cairo un uomo degno di diventare sultano d’Egitto, ditecelo, perché possiamo provvedere. Non ricordate il detto del Profeta: un popolo che confida il governo a una donna, non troverà salvezza?». Shajar al-durr non solo resta al potere, ma assume titoli e prerogative sovrane, fino ad allora mai assunti da una donna. D’altronde, molti storici le riconoscono il merito d’aver contenuto l’attacco crociato e, di conseguenza, l’Egitto le dovrebbe il fatto di essere rimasto sotto la bandiera dell’Islam. Shajar al-durr non si accontenta di ciò che ha ottenuto. Fa di piú. Sposa il capo militare, Aybak, potente ma che alcuni definiscono di basso profilo. La fine degli Ayyubidi è decretata. Il nuovo sovrano

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d’Egitto è Aybak, e con lui inizia la dinastia mamelucca che governerà il Paese per quasi tre secoli. Il ripristino dell’ordine delle cose, un uomo al potere, sia pure per merito di una donna, coincide con la fine di Shajar al-durr. Accortasi di non potersi fidare del marito, lo fa uccidere a tradimento nel 1257, ma qualche settimana piú tardi il suo corpo, senza abiti, viene trovato fuori delle mura della Cittadella del Cairo. C’è chi dice che la vera ragione della tragedia sia la passione. Shajar al-durr non accetta di dividere Aybak con un’altra donna, una principessa di Mossul che Aybak vuole sposare, forse per riaffermare il suo ruolo di maschio.

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Sulle due pagine altre miniature tratte dal manoscritto delle Maqamat di al-Hariri illustrato da Yahya ibn Mahmoud al-Wasiti. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra, una donna con uno scrivano; nella pagina accanto, una scena di vita campestre nei pressi di un villaggio.

secolo che, tra l’altro, ci dà non poche informazioni di prima mano sui rapporti tra musulmani e crociati in Siria. Uno degli episodi che riguardano il coraggio delle donne ha come protagonista una sua parente. Oltre che contro i Franchi, nella regione si combatte contro altri nemici, musulmani anch’essi ma eretici e, apparentemente, bellicosi, gli Ismailiti. Un cugino di Usama incontra il loro capo in una delle loro fortezze. Questi gli consiglia di fuggire, se vuole salva la vita. Il cugino torna a casa, racimola quel che può, ma, mentre sta per andarsene, arriva qualcuno «con corazza ed elmo, spada e scudo in mano». Ed ecco che poveretto si sente perduto. Ed ecco che il guerriero si toglie l’elmo e si scopre che è sua zia. Ovvia la ramanzina al codardo, al quale, per di piú, si ricordano i doveri di protezione verso le donne di casa. Interessante la conclusione di Usama: «Questa donna impedí a mio cugino di fuggire e diventò, da allora, uno dei nostri migliori cavalieri». Un altro atto di guerra compiuto da una donna riguarda la moglie di un compagno di Usama. La donna partecipa a una sortita, contro i Franchi questa volta. Ne cattura uno e lo porta prigioniero a casa sua; esce e ne prende un altro; e poi un altro ancora. A quel punto, rientra, si impadronisce di quanto i prigionieri hanno con sé, poi va a chiamare un gruppo di vicini perché facciano «il lavoro sporco». Poco edificante, forse, ma certamente incongruo con l’immagine di donna passiva e dipendente cui siamo abituati.

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Ci sono settori, per cosí dire, piú neutri e tranquilli, dove la presenza femminile non è solo episodica. Uno di questi è il commercio, attività nobile per eccellenza nella mentalità dell’Islam medievale. Esso, da un lato, è stato praticato dallo stesso Muhammad e – fatto qui ancor piú pertinente – dalla sua prima moglie, Khadija; dall’altro, è professione che può coniugarsi con lo studio e la ricerca, con l’ascesi e l’attività religiosa.

Mercantesse e imprenditrici

Le donne – e lo dice lo stesso Corano – sono autorizzate a possedere e gestire beni in proprio. Raro, ma documentato almeno in epoca mamelucca, il caso di vedove che

non si risposano per poter conservare l’usufrutto delle proprietà terriere attribuite al marito, e che, in teoria, dovrebbero, alla di lui morte, essere rimesse nelle mani dello Stato. Normale, invece, che pratichino il commercio. Se appartengono alla ricca borghesia urbana o sono collegate agli ambienti di corte, soprattutto dopo il X secolo, quando si assiste a una decentralizzazione del potere califfale, molte donne sono mercantesse, e il loro giro d’affari è, talvolta, cospicuo. Ciò significa che fanno parte dei grandi circuiti internazionali, in quanto ricche imprenditrici. Per lo piú non trattano direttamente i loro affari. Si servono di intendenti e mediatori, (segue a p. 87)

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Dossier Letteratura «alta» e letteratura popolare Le informazioni relative a una produzione di romanzi, e piú in generale di letteratura d’intrattenimento (oggi la chiameremmo fiction), purtroppo andata perduta, che animava il panorama librario di Baghdad intorno al X secolo, ci giungono dal Catalogo redatto da Ibn al-Nadîm intorno al 987. Questo testo è molto piú di un ricco elenco dei libri presenti a Baghdad nel periodo del suo massimo splendore; l’autore, forse il piú importante fra i tanti librai che promuovevano con le loro botteghe la circolazione libraria della capitale dell’impero musulmano, ci ha lasciato, infatti, una fonte estremamente preziosa per la storia sociale e culturale di quell’epoca. La sezione che Ibn al-Nadîm dedica a questo versante letterario (piú di ottanta titoli, da cui si deduce una sovrabbondanza di narrativa a carattere amoroso) ci dice molto sui gusti letterari e sul tipo di pubblico, per lo piú legato agli ambienti di corte, fruitore di generi letterari che, a dire il vero, erano guardati con un certo disprezzo dai circoli accademici: quel

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fitto corpo intellettuale di filologi, grammatici e retori che stabiliva le regole di appartenenza di un’opera al canone letterario, infatti, non rivolgeva la minima attenzione a un pur cospicuo spazio di produzione letteraria che incontrava, sul mercato, un notevole successo di pubblico. Ibn al-Nadîm condivide quello sguardo un po’ sprezzante, e forse anche un po’ snob: a proposito delle Mille e una notte (di cui è proprio questo Catalogo a fornirci le informazioni piú antiche sulle sue origini, sulla sua composizione, e sulla sua sostanziale estraneità al canone letterario «alto» di quei tempi), il libraio sembra non apprezzare affatto la preponderanza dell’elemento favolistico che contraddistingue la natura dell’opera, e afferma che quel tipo di letteratura risulta gradito alle donne e ai fanciulli. Quello che appare essere semplicemente un giudizio di valore, espresso magari secondo un codice misogino tipico di ogni Medioevo, che lega in un’equazione frivolezza e gusti femminili, prende invece la forma, in un altro passo del Catalogo

– sempre dedicato alla produzione romanzesca cortese –, di una vera e propria constatazione dell’incidenza, nel panorama editoriale rivolto alle classi vicine alla corte, di quel genere particolare di fiction. Ibn al-Nadîm ci racconta come quel genere letterario fosse stato inaugurato dalle storie piú antiche che facevano parte delle Mille e una notte e da un’altra raccolta di narrazioni di provenienza persiana, Kalîla e Dimna, che prende il titolo dai nomi dei due saccenti sciacalli parlanti che ne costituiscono la cornice. Testi, questi, che compaiono nell’orizzonte delle letture baghdadine dalla seconda metà dell’VIII secolo, e che, stando sempre a Ibn al-Nadîm, hanno dato vita nei due secoli successivi a continui rifacimenti, imitazioni – addirittura traduzioni nella vicina Costantinopoli. Col tempo, questo genere letterario di intrattenimento si è arricchito di nuove narrazioni, alcune delle quali riflettono il viaggio di testi fra Bisanzio, l’impero musulmano e la Spagna cristiano-moresca, come per esempio il ciclo romanzesco di Sindibad (da non confondere col

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marinaio delle Mille e una notte), noto anche come I sette vizir, circolante a Bisanzio col titolo greco di Syntipas, e nella corte spagnola di Alfonso il Savio come Libro degli inganni delle donne. Si tratta di una letteratura in prosa che, secondo Ibn al-Nadîm, andava a soddisfare le richieste di un pubblico appartenente alle classi abbienti, legate alle corti, i cui temi amorosi – una delle tante forme di parentela culturale dei due medioevi, islamico e bizantino – risultavano assai graditi tanto ai cortigiani quanto alle dame di corte. C’è di piú. Fra gli autori di fiction piú in voga nell’ambiente di corte fra VIII e X secolo a Baghdad, Ibn al-Nadîm fa il nome di ‘Alî ibn Dâwûd, segretario personale di Zubayda, consorte del califfo Hârûn al-Rashîd e protagonista di una fitta letteratura aneddotica che testimonia le sue attitudini di generosa mecenate. La califfa ci fornisce forse l’esempio meglio documentato di un simile panorama letterario oscurato dalle scelte e dai criteri di cultura «alta» rigidamente fissati dai circoli intellettuali, in cui le donne – donne di corte, dunque generalmente colte – non solo sono le principali destinatarie, ma anche parte consistente di un pubblico socialmente influente che determina le richieste e l’andamento del mercato editoriale. La corte privata di Zubayda era costituita quasi esclusivamente da donne; la sovrana, tuttavia, si distingueva anche per la divertita disponibilità ad accogliere e proteggere personaggi fra i piú stravaganti della capitale: basti pensare a ‘Ibâda, forse il piú famoso dei non pochi transgender del Medioevo islamico. L’orizzonte culturale di questa corte al femminile, comunque, non sembra esaurirsi in quella che potremmo definire, sulla base delle indicazioni di Ibn al-Nadîm, una letteratura di consumo. Alla richiesta di romanzi d’appendice – Mille e una notte e rifacimenti vari, come appunto

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Sulle due pagine miniature tratte da due codici del Kalîla e Dimna, una raccolta di narrazioni di provenienza persiana. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Dall’alto, in senso orario, I gufi e i corvi, La volpe e il tamburo, Il cormorano e il gambero.

quelli eseguiti su commissione da ‘Alî ibn Dâwûd per la sua regale patrona –, fanno da contraltare i contatti che la stessa Zubayda manteneva con i musicisti; fra le mansioni di questi artisti (e molti nomi femminili compaiono nelle fonti letterarie), vi era quella di mettere in musica i versi dei poeti piú prestigiosi. Ciò

fa pensare che all’interno di questi ambiti di palazzo al femminile vi fosse normalmente posto per un tipo di fruizione letteraria sicuramente «alta», e che però le cronache registrano solo in un contesto di corte dominato dalle presenze maschili del califfo (o del visir mecenate) e dei dignitari. Leonardo Capezzone

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Miniatura raffigurante la spia Zambur che porta in città una serva di nome Mahiya su un asino, da un codice di probabile produzione indiana dello Hamzanama (Libro di Hamza), opera che racconta la fantastica storia di Hamza, uno zio del Profeta, che viaggiò per il mondo diffondendo gli insegnamenti dell’Islam. 1570 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

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bile della cultura islamica nei confronti delle donne, ovviamente appartenenti per classe e censo agli ambienti di potere, in particolare alle corti, riguarda, tuttavia, un altro settore, il mecenatismo: protettrici di poeti e di scienziati, ma, soprattutto, promotrici e finanziatrici di opere pubbliche che, non di rado, portano il loro nome.

Opere pie

talvolta di donne con funzione di segretarie. Il commercio, però, non è prerogativa esclusiva delle donne abbienti. Come succede spesso per gli uomini, le donne si pongono come produttrici di merci che poi vendono direttamente. Artigiane, per il consumo familiare, lo sono da sempre. Per lo smercio esterno, le testimonianze sono piú sporadiche. Ad Aleppo, nel XII-XIII secolo, ci sono donne impiegate nella filatura e tessitura delle stoffe di cotone e di lino. Si sa altresí che hanno accesso come venditrici al mercato dei tessuti, con qualche restrizione: non sedersi davanti alla propria bottega e non rivolgere la parola a maschi. L’abitudine femminile di frequentare il mercato delle stoffe è tollerata alla stessa stregua di quella di andare al bagno pubblico, di visitare i cimiteri, di pregare in moschea, sia pure in un’area separata da quella maschile, e addirittura, se non si può evitare per ragioni economiche, di andare a lavare i panni al fiume. Il debito piú direttamente visi-

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Qui sopra il mercato degli schiavi in un’altra miniatura tratta dal manoscritto delle Maqamat di al-Hariri illustrato da Yahya ibn Mahmoud al-Wasiti. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In alto miniatura raffigurante Bayad che suona l’oud (strumento cordofono noto anche come liuto arabo) per la sua signora, da un codice dell’Hadith Bayad wa Riyad (La storia di Bayad e Riyad). XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Accanto alla costruzione di moschee, promuovono quella di scuole e, ancor piú, di ospedali. Le aiuta il fatto che il diritto musulmano prevede un’istituzione simile alla nostra «manomorta», il waqf. Esso funziona come una fondazione pia, il cui capitale non è alienabile e i cui proventi sono devoluti alla realizzazione degli scopi designati dal fondatore stesso, nella fattispecie il mantenimento e il funzionamento della scuola o dell’ospedale o di quant’altro mai. In genere, le donne non sono le sole destinatarie di tali istituzioni. Anzi, sono per lo piú gli uomini a beneficiarne in prima battuta. A meno che non si tratti di opere per le quali la divisione tra i sessi è prevista a monte, come è per i luoghi di ritiro spirituale, sorta di conventi, non di rado legati a determinate confraternite mistiche, dotate di una «sezione» femminile, che sappiamo particolarmente numerose, per iniziativa femminile appunto, nell’Aleppo ayyubide. O di case che ospitano vedove e divorziate che non intendono, o non possono, tornare in famiglia o risposarsi, di cui esiste qualche testimonianza nel Cairo mamelucco. Non è, però, sulla funzione sociale che, obiettivamente, le mecenate svolgono che si vuole attirare l’attenzione, bensí sul fatto che esse non potevano non partecipare della cultura dell’epoca, se è vero che loro era il progetto e loro la scelta degli artisti e degli artigiani cui commissionarne l’esecuzione.

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LE REGOLE DELL’AMORE

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a sessualità ha diritto di cittadinanza nell’Islam. L’uomo ne è certamente il soggetto principale. Le donne non ne sono, però, escluse, se non altro perché la tradizione vuole che, se non soddisfatte sessualmente, creino problemi, inneschino conflitti, rompano l’armonia che dovrebbe regnare nella comunità dei credenti. Medici, filosofi e giuristi si occupano, quindi, del sesso, ognuno nel suo ambito specifico. Quello che l’Occidente legge come un’affascinante perversione che pone i piaceri della carne a un livello uguale, se non superiore, a quelli dello spirito è, nella mentalità medievale islamica, un necessario presupposto dell’ordine sociale, di cui la stabilità familiare è garanzia primaria. L’erotologia rientra in questa prospettiva. Insegnare al maschio le tecniche amatorie, cosí come svelargli le eventuali astuzie femminili in campo amoroso, significa lavorare per il bene comune.

Ritratto dello shah Abbas I con il suo paggio, miniatura del pittore persiano Muhammad Qasim. 1627. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto miniatura di scuola francese raffigurante Maometto attorniato dalle uri, termine che designa le vergini, amabili compagne dei beati nel paradiso islamico, dall’arabo al-hur, «(le fanciulle) dagli occhi neri». XV sec.

I precetti di al-Ghazali

Meglio di chiunque altro ce lo dice un giurista e teologo che occupa nell’Islam un posto analogo a quello di san Tommaso nel cristianesimo, Abu Hamid Muhammad al-Ghazali (1111). In una celebre opera dedicata alla «rivificazione delle scienze religiose», egli tratta «delle relazioni intime», come della preparazione al matrimonio. I suoi consigli sulla scelta della sposa mettono, certo, al primo posto la fermezza nella religione e il buon carattere. Ma subito dopo viene la bellezza, essendo determinante a stabilire un «buon rapporto e l’affetto nella coppia». La verginità non è essenziale, ma presenta alcuni vantaggi: un attaccamento maggiore da parte del marito, una piú facile assuefazione

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della donna a lui, non avendo ella rimpianti per l’amore precedente, «poiché in genere il primo amore non si scorda mai». La conoscenza carnale di altri uomini è addirittura prevista dalla legge nel caso in cui la donna abbia avuto il cosiddetto «triplice ripudio», che dovrebbe essere inappellabile. Il marito che eventualmente cambiasse idea, può riprendersi la moglie solo a condizione che questa abbia contratto un matrimonio intermedio che

gliela renda di nuovo lecita, matrimonio da consumarsi debitamente. Il risultato voluto lo si ottiene, infatti, solo se entrambi, nel nuovo matrimonio, hanno gustato reciprocamente del «piccolo miele». Il Profeta appare prodigo di esortazioni: «Che nessuno di voi si getti sulla propria donna come fanno le bestie. Per iniziare ci sarà un messaggero tra voi». Alla domanda: «Chi è questo messaggero?» avrebbe risposto: «Dolci frasi e baci». Dolci parole e baci da maggio

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parte dell’uomo devono anche seguire l’orgasmo, perché la donna si senta amata, visto che l’accoppiamento non deve soddisfare gli istinti maschili, senza fare la donna partecipe del piacere. Piacciono la pelle fine e chiara, gli occhi neri e grandi da gazzella, la chioma fluente, i seni turgidi, una figura flessuosa che ricordi la palma. Non stupisce, quindi, l’attenzione per il corpo, che Dio ha voluto, creandolo, strumento di piacere. Profumarsi, usare creme e unguenti, depilarsi e quant’altro mai fa parte di un rituale amoroso condiviso da tutti i livelli sociali.

La cura del corpo

Il luogo per eccellenza a ciò deputato è il bagno, l’hammam. Ci si può trascorrere un’intera giornata. Il mattino, dopo una bella sudata, si passa al massaggio, alla levigatura dei piedi, al lavaggio dei capelli con la henna; il pomeriggio, dopo uno spuntino e un buon riposo, ci si depila, braccia, ascelle, gambe e sesso; il pomeriggio termina con la depilazione del viso e il trucco: si sbiancano i denti con guscio d’uovo tritato, si rendono brillanti le gengive masticando betel o qualche altro prodotto vegetale che abbia

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lo stesso effetto, ci si incipria, badando bene a far risaltare gli zigomi, si anneriscono le sopracciglia, si passa il kohl sulle ciglia e si bistrano gli occhi, se si ha una carnagione particolarmente pallida un neo la metterà in risalto. Un paradiso terrestre! Senonché alle donne viene concesso di

godere di un sol uomo per volta, agli uomini di «dividersi» tra quattro mogli legittime e tutte le concubine che può permettersi. Le concubine sono schiave, donne vittime di razzie o prigioniere di guerra. Di regola, già al momento dell’acquisto, è chiara quale sarà la loro funzione, se di domestiche maggio

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Miniatura raffigurante una scena di corte, da un codice del Majalis al-’Ushshaq (Le assemblee degli amanti) del sultano Husayn Mirza. 1590-1600. Londra, British Library. Nella pagina accanto, a sinistra miniatura di Abdullah Buhari raffigurante una donna al bagno. 1741-1742. Istanbul, Biblioteca del Palazzo di Topkapi. Nella pagina accanto, a destra miniatura raffigurante un gruppo di bagnanti, che un uomo osserva di nascosto, da un codice del Khamsa, raccolta di cinque poemi di argomento epico-romanzesco del poeta persiano Nizami. 1485. Istanbul, Biblioteca del Palazzo di Topkapi.

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Dossier il velo

Un pianeta da esplorare Libere o schiave, sovrane o donne di piacere, nel nostro immaginario almeno, le musulmane sono tutte accomunate dal velo. Una contraddizione, se dessimo per buono il fatto che la segregazione sia la norma, visto che, nello spazio protetto della casa, e ancor piú dell’harem, l’accesso è consentito ai soli maschi che hanno il diritto di frequentarlo legittimamente. Comunque, il velo, nel nostro immaginario, curiosamente non ha niente di simile ai manti delle matrone romane o bizantine, che sono poi quelli che entrano nell’iconografia, per esempio, della Madonna. A prescindere da quanto dice il Corano che consiglia il pudore e prevede una forma di segregazione per le sole spose del Profeta, come è la realtà? Le testimonianze storiche ci dicono che, nella Penisola Araba, già prima dell’Islam esisteva l’uso di coprirsi i capelli e, in taluni casi, il volto. Non era tuttavia regola generalizzata. Con la conquista che mette gli Arabi a contatto con la raffinata cultura urbana del Vicino Oriente bizantino, il velo, per imitazione delle mode dei popoli conquistati, le matrone bizantine appunto, si diffonde negli ambienti cittadini e tra i ceti piú elevati, diventando segno di promozione sociale. Ma in concreto sappiamo qualche cosa? Possiamo avvalerci di due tipi di documentazione: il primo è costituito dalle miniature di cui, però, abbiamo esempi significativi solo a partire dal XII-XIII secolo. Le donne vi appaiono velate nei modi piú disparati; raramente, specie nelle raffigurazioni piú antiche, con il viso coperto; il secondo ci offre informazioni indirette, vale a dire deducibili da quanto documenti notarili o testi, per esempio, di storia o di lessicografia ci dicono in fatto di vestiario. Qui la tipologia è ancora piú varia. Da un lato, si

sa con certezza che il dono nuziale da parte del marito, senza cui un contratto matrimoniale non è valido, prevede spesso elementi di vestiario, dettagliatamente descritti. In alcune regioni dell’ecumene islamica, per esempio in al-Andalus, e secondo alcune scuole giuridiche, la donna, anche se vergine, ne entra subito in possesso, mentre non le è concesso gestire direttamente il denaro della dote stessa. Mantelli con o senza cappuccio, veli di varia qualità sono spesso menzionati ma, quando si precisa la finalità cui quel particolare indumento è destinato, prevale la funzionalità: un mantello o una cappa sono invernali; una tunica o una camicia sono l’equivalente della biancheria intima, in taluni casi da indossarsi durante il periodo mestruale; piú rari gli esempi – quello cui si fa riferimento è ancora un testo giuridico, del XIV secolo, e riguarda la regione di Almeria – in cui si specifica anche l’occasione in cui un particolare abito va indossato, per stare in casa, per uscire, per andare al bagno. Le fonti piú ricche di informazioni sono quelle che trattano delle materie prime, lino, cotone, lana, seta, del modo di trattarle e della collegata industria tessile. Di qui veniamo a sapere che gli abiti femminili erano spesso di colori vivaci, che la seta era in voga, nonostante il Profeta l’avesse bandita, che le stoffe lavorate avevano un buon mercato. Di tutto un po’, a seconda del ceto sociale, e, dunque, delle borse. I veli seguono la moda, le tradizioni locali, le necessità climatiche, i gusti e la fantasia individuale. In questa prospettiva, possono rappresentare un elemento identitario, di appartenenza, piú che a una confessione religiosa – anche cristiane ed ebree si velano –, a un’etnia, a un gruppo sociale, a una professione. Fatti concreti, fuori dall’astrazione del nostro immaginario, oggi, come detto, purtroppo condiviso da molti musulmani. Farne la storia, ancora da scrivere, significherebbe aggiungere un tassello alla conoscenza delle società musulmane e, al loro interno, delle donne, un pianeta tuttora ampiamente inesplorato. Donne velate, particolare di una miniatura del codice delle Maqamat di al-Hariri, illustrato da Yahya ibn Mahmoud al-Wasiti. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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mittente, la reazione dell’uditorio. Il successo consiste nell’aver saputo padroneggiare ed equilibrare tecnica, tradizione, intervento personale, nella piena corresponsione alle attese di chi ascolta. Si capisce che quelle che emergono siano ricercate e care, guadagnino somme considerevoli che non sono, sempre e comunque, tenute a consegnare al padrone da cui, non di rado, comprano la loro libertà. Sono stelle famose e rispettate. Le corti, prima fra tutte quella del califfo, ne richiedono i servigi. Funzionari e ricchi o di partner sessuali del padrone. Questi è tenuto a trattare con umanità la schiava e a riconoscerle alcuni diritti: se, al momento dell’acquisto, è sposata, il padrone non può possederla, se ha figli, non può esserne separata fino a quando non abbiano compiuto il settimo anno di età. Il Corano auspica che le schiave non vengano costrette alla prostituzione e, nel caso lo siano, Dio non ne farà loro una colpa. Prostituire le proprie schiave non è la norma, ma certo è pratica diffusa. Una volta divenuta concubina, la schiava potrà accedere a una posizione relativamente confortevole se darà un figlio o una figlia al padrone: non potrà, allora, essere rivenduta e, alla morte del padrone, sarà affrancata, mentre la prole avrà gli stessi diritti dei figli legittimi. D’altronde, nella stragrande maggioranza, califfi e sultani sono figli di concubine, anche di colore. Le schiave godono di maggiore libertà di movimento delle donne libere e di ceto elevato, specialmente se al servizio di queste ultime costrette ad affidar loro compiti considerati disdicevoli, come la necessità – per motivi di carattere economico – di interloquire con uomini estranei alla famiglia. Se siamo in un ambiente particolarmente ricco, ci saranno schiave, destinate

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In alto una coppia di amanti abbracciati e intenti a sorseggiare del vino, acquerello e oro su carta di Afzal al-Husaini. 1646. Londra, Victoria and Albert Museum. A destra miniatura persiana raffigurante un’ancella che serve il suo maestro. Filadelfia, Free Library.

alcune alle padrone di casa, altre agli uomini, specializzate in funzioni ricreative. La musica, la danza e soprattutto il canto sono tra queste, specialmente dopo che un famoso musicista, nella Baghdad dell’VIII secolo, inizierà a educare all’arte del canto schiave bianche.

Un lungo apprendistato

Diventare una musicista o una ballerina di talento e, ancor piú, una cantante di grido richiede predisposizione, qualità fisiche, esercizio, oltre che un buon maestro. L’apprendistato è lungo. Oltre alla tecnica, occorre una grande memoria. L’artista deve tenere a mente quanto piú può del repertorio tradizionale. Nel caso del canto, esso è musicale e poetico. Non è che un inizio. Ogni esecuzione è irripetibile. Il repertorio offre il canovaccio, lo spunto su cui costruire l’interpretazione e l’esecuzione che sono estemporanee, nel senso che sono legate e dipendono dal contesto, lo stato d’animo dell’artista, la circostanza, la richiesta del com-

mercanti ne imitano l’esempio. Si tratta di «donne di piacere», ma in un’accezione tutt’altro che spregiativa. Come ovunque, è piú semplice trovare citato il nome di una grande cantante che non quello di una «moglie devota» o di una «madre perfetta». V

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A difesa del ducato

di Domenico Camardo, Luca Di Franco e Mario Notomista, con foto di Francesco Varone

Come si legge in un documento seicentesco, il castello di Pino, nel territorio di Pimonte, sorse nel 949 per irrobustire il sistema difensivo approntato dagli Amalfitani al fine di proteggere le principali vie di transito e fare fronte a eventuali attacchi esterni. Un baluardo cruciale, dunque, del quale si possono oggi ammirare i resti, nel suggestivo paesaggio dei Monti Lattari MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina Benevento CAMPANIA

Caserta Napoli

Avellino

BASILICATA

Pimonte

Eboli Procida Golfo di Ischia Napoli Salerno Sorrento Amalfi Capri

Mar Tirreno Palinuro

Caggiano

Policastro


I

l ducato di Amalfi raggiunse l’apice della sua potenza politica e commerciale nel corso del X secolo. Il suo potere si fondava sui traffici commerciali transmarittimi, che lo portarono a creare fondachi in tutto il Mediterraneo e a tessere intensi rapporti con il mondo islamico, sia in Oriente, sia nel Nord Africa. In queste basi commerciali i mercanti amalfitani, per concessione dell’autorità del luogo, depositavano le merci, svolgevano i loro affari e dimoravano. Dal punto di vista territoriale il ducato rimase sempre limitato al ristretto ambito della costiera amalfitana, giungendo ad avere un dominio diretto solo su una parte della catena montuosa dei Monti Lattari e

sulla fascia litoranea compresa tra gli attuali comuni di Positano e Cetara, oltre che sull’isola di Capri. L’occupazione del versante settentrionale dei Lattari assicurò la protezione di Amalfi da eventuali attacchi alle spalle che potevano giungere dalla piana del fiume Sarno. La scelta di occupare quest’area fu altamente strategica, dal momento che i Monti Lattari sono da sempre poveri di vie di valico e quindi controllare militarmente i pochi passaggi esistenti garantiva una maggiore sicurezza alla stessa Amalfi. Il valico principale, che metteva in contatto l’area amalfitana con quella nocerino-sarnese, era quello di Chiunzi, che fu sbarrato da una fortificazione posta I ruderi del castello di Pino a Pimonte (Napoli), nell’area dei Monti Lattari, fatto realizzare dagli Amalfitani nel corso del X sec.


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Sulle due pagine veduta panoramica della piana del Sarno, con il Vesuvio sullo sfondo, e della parte bassa dei Monti Lattari: sono evidenziati i castelli di Lettere, Gragnano e Pino, costruiti nel corso del X sec. dagli Amalfitani. Nella pagina accanto, in alto il ducato di Amalfi nel momento di massima espansione: in giallo, i suoi confini; in azzurro, le vie di valico tra il golfo di Salerno e la piana del fiume Sarno. Nella pagina accanto, in basso la collina di Pino con i ruderi del castello e la chiesa di S. Maria.

proprio nel punto di valico e poi dal castello di Montalto o Trivento che permetteva di sorvegliare la via che si snodava verso il fondovalle nel territorio di Tramonti e quella a mezza costa che andava verso la città di Ravello, protetta dal castello di Supramonte. L’altra importante via di penetrazione era quella di Pino-Agerola, che permetteva di risalire dal litorale stabiano lungo il corso del torrente Vernotico, nel territorio di Gragnano, e quindi in quello di Pimonte, fino ad arrivare al valico delle Palombelle, nel territorio di Agerola, da cui poi la strada scendeva verso Amalfi. Lungo questa strada furono eretti due villaggi fortificati, che, posti in successione, avevano il compito di sbarrare il passo a qualsiasi nemico fosse risalito dalla piana del Sarno verso i Monti Lattari. Nel territorio di Gragnano il castello fu creato su una collina che sovrasta il corso del fiume Vernotico, a breve distanza dalle sorgenti della Forma. Da qui, percorrendo la via di valico si risaliva verso la collina di Pino, sulla cui sommità fu edificato, alla metà del X secolo, un villaggio fortificato. L’anello fondamentale di questa catena

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difensiva era però il castello di Lettere (vedi «Medioevo», nn. 273 e 289, ottobre 2019 e febbraio 2021; on line su issuu.com), realizzato su di un pianoro a 340 m circa sul livello del mare, in una posizione strategica importantissima, poiché dominava tutta la Valle del Sarno e garantiva quindi un totale controllo su qualsiasi movimento di truppe dirette verso i Monti Lattari.

Le testimonianze delle fonti

Il castrum Pini (castello di Pino), come viene definito dalle fonti medievali, fu la prima roccaforte costruita dagli Amalfitani in questo territorio. Lo attesta un documento contenuto in un manoscritto del XVII secolo in cui si legge che, nell’«anno 949 Costantino episcopio elegitur et amalfitani munierunt castrum Pini ut tutantur oppida Guarani et Pimontis sita in parte occidentalis ipsius ducatis». Il castello di Pino sarebbe stato creato quindi nel 949 dagli Amalfitani, nella parte occidentale del ducato, per difendere gli abitati di Gragnano e Pimonte. Questo villaggio fortificato entrò a far parte, dal 987, del territorio della nuova diocesi di Lettere, creata in quell’anno dall’arcivescovo di Amalfi, proprio per rafforzare i legami tra i due versanti dei Monti Lattari. Nelle fonti medievali il nuovo vescovo Stefano è definito «Episcopus in castellis stabiensibus», proprio per ricordare che il territorio su cui si estendeva la sua diocesi era una parte di quello una volta controllato dall’antica città di Stabia. Sorto come villaggio fortificato, isolato su di una collina a circa 570 m sul livello del mare, il castello fu posto a difesa della strada del valico di Pino-Agerola.

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medioevo nascosto campania A sinistra planimetria di un tratto della fortificazione orientale, con la torretta pentagonale del castello di Pino. Al centro, i ruderi del mastio e, a sinistra, la chiesa di S. Maria. In basso e nella pagina accanto due vedute della chiesa di S. Maria.

In alcuni documenti del 1012 e del 1041, è descritta la presenza nel suo territorio di vigne, querceti, castagneti e case al di fuori del recinto fortificato. Le fonti narrano che il castello dovette fronteggiare nell’XI secolo le scorrerie longobarde, ma il suo valore strategico continuò a essere elevato anche nel XIII secolo, quando, tramontata l’indipendenza amalfitana, il castello di Pino è citato nell’Edictus de reparacione castrorum di Federico II, databile fra il 1241 e il 1246, nel quale si ordina la sua riparazione agli abitanti di Pino e Pimonte. Questa fonte ci informa

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anche che il castello era inserito fra quelli controllati direttamente dalla corona siciliana. Alla metà del XIII secolo abbiamo un altro documento con il quale Federico II ordina che: «inter castra Ducatus Amalfiae castrum Pini potest reparari per homines Pini et Pimontis, nec non Graniani, Licterae, Nuceriae, Solofrae, et Serini». Questa fonte rivela, dunque, la notevole importanza data al castello di Pino, nel cui restauro sono coinvolti i vicini centri di Pimonte, Gragnano e Lettere ma anche paesi piú distanti, posti ai margini della Piana del Sarno, come Nocera, Solofra e Serino. maggio

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Grazie a un documento del 1269, abbiamo anche notizia di alcune importanti famiglie residenti a Pino: D’Auria, De Miro, Mascolo, Balestrieri, Scola, Miranda, Pianella, Riccardo, Attanasio, Cascone, Palumbo, Vespolo, Rufolo, Afflitto, Pironti. Per alcune di esse, appartenenti a ceti sociali elevati, è ricostruibile lo spostamento, nel corso del XIV secolo, verso i vicini centri di Pimonte, Gragnano, Castellammare di Stabia. Questo è un chiaro segno di un progressivo spopolarsi del villaggio di Pino. A partire dal 1283, anche Pino, come gli altri centri amalfitani, subí un processo di infeudazione. Questa situazione diede luogo a una lunga controversia tra Landolfo d’Aquino, che aveva ricevuto in feudo castra Pini et Pimontis et terre Ayrola, e gli abitanti di questi tre centri, che l’accusavano di indebita occupazione di territorio. La disputa si concluse solo nel 1292 a favore del d’Aquino. L’unione amministrativa fra le Università di Pino e Pimonte durò fino al 1297, quando con un atto notarile fu ripristinata la divisione e stabiliti i confini: il territorio di Pino si estendeva dalle mura

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del castello fino al pantano detto Fana e di qui per il corso d’acqua detto Forcella, fino al territorio di Gragnano. Dal lato meridionale fino al territorio della città di Scala e a quello di Agerola, comprendendo anche il casale delle Franche. Il territorio di Pimonte venne a confinare: da un lato con quello di Pino e dall’altro con il monte Sant’Angelo e il corso d’acqua detto Forcella. Quest’atto fu ratificato da parte del sindaco di Pimonte, Sergio Donnarumma, e del sindaco di Pino, Ademario Pironti, alla presenza del notaio di Ravello Pietro de Griffo e di numerosi testimoni di entrambi i centri. Già alla fine del secolo, i castelli di Pino e Pimonte furono dati in feudo a Manfredi Maletta, conte di Mineo e, quindi, nel 1302, a Bartolomeo Siginulfo, conte di Telese. Nel 1311, invece, i castelli di Pino, Gragnano, Lettere e Pimonte furono concessi alla moglie di re Roberto: la regina Sancia. Nel 1329 il territorio di Pino appare infestato da briganti al comando di Francesco Pironti. Spostandosi fra le montagne di Gragnano, Lettere e Pimonte, queste bande rappresentavano un vero flagello per le maggio

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Nella pagina accanto un’altra veduta della collina di Pino con i resti del castello e la chiesa di S. Maria. In basso un tratto delle mura del castello di Pino con, a sinistra, i ruderi di alcuni edifici.

popolazioni, tanto che re Roberto decise di inviare dei soldati, al comando del cavaliere napoletano Guerrasio Piscicelli, per sterminarli. La presenza di bande di briganti fu forse uno dei motivi che, nel corso del XIV secolo, spinsero alcune fra le famiglie piú importanti a lasciare Pino per i piú sicuri centri vicini. La fine del commercio amalfitano e del continuo transito di persone e merci lungo la via di valico difesa dal villaggio fortificato di Pino fece venir meno le condizioni che avevano portato alla nascita del castello che si trovava isolato all’interno dei Monti Lattari. Nel corso del XIV secolo, il diffondersi del brigantaggio e di un lungo periodo di insicurezza determinarono la fine del villaggio in seguito al suo graduale spopolamento, con gli abitanti che si spostarono nei vicini centri di Pimonte, Gragnano e Castellammare di Stabia.

Antichi terrazzamenti

Oggi dell’antico castello di Pino restano numerosi avanzi che costituiscono un giacimento archeologico di notevole interesse per chi voglia approfondire la

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storia medievale dei Monti Lattari. Lungo il tortuoso sentiero che ascende al castello di Pino, sui fianchi della collina ormai coperti da boschi di querce e castagni, si scorgono i muretti a secco di antichi terrazzamenti, destinati a ospitare orti e vigne, elementi superstiti dei poderi coltivati presso il castello ricordati nei documenti medievali. Le mura difensive si sono conservate meglio nel lato meridionale della collina, dove erano piú protette perché praticamente addossate al pendio e sepolte da una fitta vegetazione. Negli ultimi anni, in seguito a grandi incendi e opere di taglio e diserbo, le mura del villaggio sono tornate in parte visibili. Queste erano state realizzate con materiali da costruzione reperibili sul posto: pietre calcaree spaccate, di dimensioni maggiori alla base del muro e piú piccole nella parte superiore, mediamente 20 x 30 cm, con rari inserti di frammenti di laterizi e di piccole pietre utilizzate come zeppe. La tessitura muraria è irregolare e solo sporadicamente si leggono tentativi di regolarizzazione del piano di posa. Le pietre sono cementate con una mal-

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medioevo nascosto campania S. Maria a Pino

Un luogo di culto salvato grazie alla devozione locale Come capita in molti siti medievali abbandonati, gli edifici che piú resistono al passare del tempo sono quelli in cui si perpetuano il culto e la devozione da parte della popolazione; segno tangibile di fede ma anche della resilienza che lega la comunità locale a quel luogo. Non è un caso che anche a Pino, dopo il progressivo abbandono dell’abitato nel XIV secolo, si sia continuato, durante le principali festività del calendario liturgico, a officiare nella chiesa di S. Maria, il principale luogo di culto del castello, posto al centro della fortificazione e databile su basi architettoniche alla seconda metà del XIII secolo. La chiesa si presentava in buone condizioni fino a circa quarant’anni anni fa, quando crollò a seguito dell’incuria e dei danni del terremoto del 23 novembre 1980. Il legame della gente del posto con questo luogo di culto ha permesso la sua totale ricostruzione, partendo dalle parti conservate dei muri perimetrali e dai rilievi esistenti in modo da riportarla alle forme architettoniche che aveva prima del crollo. All’interno è divisa in tre navate, scandite da pilastri, che terminano sul fondo con tre absidi. La zona presbiteriale, sopraelevata rispetto al piano dell’aula, era da questa separata grazie a una transenna in muratura con archi acuti ciechi intrecciati; un modello che trova confronto con quelli ancora visibili nel chiostro del Paradiso del duomo di Amalfi. Al di fuori della cinta muraria, proprio sullo sperone della collina che guarda verso Pimonte, restano i ruderi di un’altra chiesetta: quella di S. Giacomo. Questa è citata nelle fonti solo in una santa visita del vescovo di Lettere Francesco

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La chiesa di S. Maria nel castello di Pino a Pimonte. In alto, lo stato attuale dei luoghi dopo i lavori di recupero; in basso, il rudere dopo il crollo e l’abbandono successivo al terremoto del 1980.

Brusco del 1608 che, trovandola abbandonata e in cattivo stato di conservazione, ordinò il trasferimento dei marmi che la decoravano nella chiesa di S. Sebastiano alle Franche di Pimonte. La chiesetta si presenta ad aula unica con tre piccole absidi sul fondo; attualmente scoperchiata, ne restano in parte i muri perimetrali. Le pareti esterne della chiesa e le tre absidi erano riccamente decorate con cornici e tarsie in tufo e pietra lavica a forma di losanghe e rosoni, di cui

si conservano alcuni elementi. Sulla base di confronti con il campanile dell’antica cattedrale di Lettere, di S. Maria a Gradillo di Ravello e di palazzo Pernigotti a Salerno, la chiesetta è databile alla fine del XII secolo e sarebbe quindi la piú antica tra quelle presenti a Pino. Il precario stato di conservazione dei ruderi richiede un immediato intervento di messa in sicurezza che permetta di conservare le strutture di questo piccolo, ma importante edificio. maggio

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A sinistra e in basso i ruderi della chiesetta di S. Giacomo. Si tratta di un edificio del XII sec., come provano le tarsie di tufo con motivi geometrici e floreali che decorano la parte posteriore delle absidi.

ta grossolana, in cui si nota un ampio uso del lapillo bianco, che è un ottimo legante. I costruttori hanno inoltre cercato, dove possibile, di poggiare le mura direttamente sulla roccia affiorante. L’andamento del circuito murario è ben ricostruibile nel lato occidentale della collina dove, adattandosi alla morfologia del suolo, segue le curve di livello.

Un bastione poderoso

Nel lato orientale le mura sono conservate fino a una torretta pentagonale che rinforza le difese a causa di un breve tratto pianeggiante che si apre al di là delle mura. In questa zona si notano i resti di una robusta struttura, posta a fianco della chiesa della Madonna di Pino, nel punto piú elevato della collina, che potrebbe essere identificata con il torrione o il mastio del castello. Di questo edificio resta, parzialmente conservato in alzato, solo l’angolo occidentale, nonché parte dello zoccolo perimetrale, su cui sono nati numerosi alberi e una rigogliosa vegetazione. Si tratta di una struttura realizzata con pietre calcaree spaccate, cementate con una malta grossolana ma piuttosto resistente. Il paramento è stato realizzato in maniera irregolare utilizzando pietre di circa 20 x 30 cm, miste ad altre di minori dimensioni, con rari tentativi di regolarizzare il piano di posa. Si rileva una maggior cura solo nella realizzazione degli spigoli, dove sono state impiegate le pietre piú grandi, appena sbozzate. La pianta di questa

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medioevo nascosto campania turismo culturale

Un castello «vivo»

Il castello di Pino, posto lungo la via di valico che collega il litorale stabiano con la costiera amalfitana, costituisce una tappa obbligatoria per i tanti appassionati di trekking che frequentano i sentieri dei Monti Lattari nei

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comuni di Amalfi, Positano, Agerola Pimonte e Gragnano. Sono ormai numerosi i visitatori che ogni anno raggiungono il sito per visitarne le vestigia e per sostare in quest’angolo incontaminato.

In alto e in basso immagini di manifestazioni nell’area del castello di Pino e della chiesa di S. Maria, organizzate in collaborazione con l’Istituto Italiano dei Castelli.

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Molte sono le iniziative organizzate ogni anno sulla spianata dominata dalla chiesa di S. Maria e dai ruderi del mastio per valorizzare il luogo e promuovere le eccellenze enogastronomiche del territorio. Tra i vari appuntamenti, spicca quello del Lunedí dopo Pasqua, con il consueto rito della «salita del quadro della Vergine» da Pimonte a Pino; una tradizione che si perpetua da secoli nel ricordo dell’originaria collocazione di questa tavola cinquecentesca, opera del pittore milanese Protasio Crivelli, che era posta sull’altare maggiore della chiesa di S. Maria. Il perpetuarsi di questa manifestazione rivela come nei secoli si sia mantenuto intatto il legame degli abitanti di Pimonte con l’antico castello di Pino.

In basso un momento della manifestazione del Lunedí dell’Angelo, con la tradizionale salita del quadro della Vergine dalla frazione Franche di Pimonte al castello di Pino. La tavola cinquecentesca era posta in origine sull’altare maggiore della chiesa di S. Maria.

struttura è in parte ricostruibile sulla base di un rilievo, realizzato circa quarant’anni fa dal professor Paolo Peduto, che mostra un impianto poligonale, con almeno tre bastioni, terminanti ad angolo acuto. Presso questo bastione si individua un altro elemento della fortificazione dalle forme caratteristiche. Infatti, lungo il tracciato delle mura, è ancora evidente la citata torretta pentagonale, che è confrontabile con altre simili esistenti in Italia Meridionale e riferite all’epoca sveva. La sua costruzione potrebbe quindi essere collegata ai lavori di restauro del castello di Pino che furono ordinati da Federico II. Nel lato settentrionale, alle spalle della chiesa della Madonna di Pino, le mura, che a causa della pendenza della collina erano maggiormente esposte agli agenti atmosferici, sono quasi del tutto scomparse. Nel lato meridionale si individuano ancora ampi tratti delle mura nelle quali è stata individuata una porta larga circa 2 m, successivamente ristretta a poco meno di 1 m e poi totalmente occlusa. In questa zona, immerse nella vegetazione, si notano una torretta quadrangolare e, a fianco, resti di altre strutture. In assenza di un rilievo di dettaglio e di ulteriori indagini è difficile stabilire se appartenessero alla cinta muraria o se siano da identificare con i resti di una domus o della cappella di S. Barbara di cui conosciamo dalle fonti l’esistenza nel castello di Pino, ma non l’esatta ubicazione. All’interno della cinta muraria si individuano diversi ruderi in cui sono riconoscibili i resti di ambienti, cisterne e piani pavimentali in cocciopesto. Le coperture delle abitazioni dovevano essere in diversi casi in tegole, come si ricava dai molti frammenti di laterizi presenti, con controsoffittature in incannucciata, come rivelano diversi pezzi di intonaco, di forma convessa, che conservano sulla faccia superiore l’impronta delle canne su cui era stato poi steso lo strato di malta. Sono state individuate anche due cisterne coperte a volta e intonacate. L’area racchiusa dalle mura nella parte alta della collina è pari a circa 8500 mq e solo con campagne di rimozione della vegetazione, ricognizione archeologica e rilievo si potrà stabilire l’effettiva entità dei ruderi ancora presenti.

Da leggere Domenico Camardo, Matilde Esposito, Le Frontiere di Amalfi, Nicola Longobardi Editore, Castellammare di Stabia 1995 Francesco Di Capua, Le tre chiese dei castra medievali di Lettere, Gragnano e Pino, Napoli 1955 Matteo Camera, Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e ducato di Amalfi, Stabilimento Tipografico Nazionale, Salerno 1881

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Quando i santi prendevano le armi

Esattore, martire e (forse) evangelista di Paolo Pinti

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atteo nacque a Cafarnao, città della Galilea posta sulle rive nord-occidentali del lago di Tiberiade, tra il 4 e il 2 a.C. e morí in Etiopia, nell’anno 70 o nel 74 della nostra era. Fu uno dei dodici apostoli di Gesú ed è ritenuto l’autore del Vangelo, detto, appunto, «secondo Matteo». Sull’argomento, tuttavia, non c’è molta chiarezza, né unanimità

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di opinioni: per lo piú si pensa che il Vangelo in questione sia di opera di uno scrittore sconosciuto, giacché Matteo non fu testimone oculare dei fatti narrati, ma si «appoggiò» al Vangelo di Marco. Fra i quattro evangelisti, in ogni caso, lo riconosciamo dal simbolo dell’angelo (Luca ha il toro, Giovanni l’aquila e Marco il leone). Era un pubblicano ed esattore delle

A destra, sulle due pagine Martirio di San Matteo, olio su tela del Caravaggio (al secolo Michelangelo Merisi). 1601-1601. Roma, chiesa di S. Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli. A sinistra Martirio di San Matteo, tecnica mista su tavola di Stefan Lochner. Post 1435. Francoforte, Städel Museum. Qui l’episodio è particolarmente violento, con ben quattro uomini armati che assalgono il santo. Una spada – con un elso dai bracci arricciati, in verità, non troppo ben reso – lo ha già passato da parte a parte e un’altra sta per essere calata a due mani dall’alto.

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Decollazione di san Giovanni Battista, olio su tela di Matteo Baldini. 16601670 circa. Prato, Museo di Palazzo Pretorio. L’arma che viene infilata nel fodero sembra avere la lama dritta, ma il fornimento la indica come storta, quindi con lama curva, a un solo filo. Il pomo parrebbe essere a testa di leone, come spesso si trova proprio nelle storte.

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Martirio di San Matteo, pannello a tempera facente parte di una tavola con San Matteo e storie della sua vita dipinta da Andrea di Cione (detto l’Orcagna) e da suo fratello Jacopo. 1367. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il soldato che uccide Matteo è dotato di un enorme scudo tondo, del tutto fuori luogo per l’assassinio di una vittima inerme. La spada è ancora squisitamente trecentesca, con lama larga a doppio filo, elso dritto a formare una croce. A differenza di molti altri martiri, Matteo non viene decapitato, ma trafitto con la spada.

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tasse (categoria poco amata dagli Ebrei) e, secondo una tradizione, sarebbe morto per cause naturali, mentre per la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, sarebbe morto martire per volontà di Irtaco, il re d’Etiopia, succeduto sul trono al fratello Egippo, del quale avrebbe voluto sposare la figlia, Ifigenia.

Il voto di Ifigenia Costei non era estranea alla vita di Matteo, giacché fu da questi fatta risorgere, portando suo padre, Egippo, a convertirsi al cristianesimo. Ifigenia aveva scelto di consacrare la sua verginità al Signore e quindi rifiutò le proposte di matrimonio del re (che era lo zio). Irtaco incaricò allora Matteo di convincere Ifigenia ad accettare di sposarlo: per tutta risposta, Matteo invitò il re ad ascoltare con attenzione quanto avrebbe detto nella predica al tempio del sabato successivo. Manco a dirlo, Matteo espresse a chiare parole che il voto di Ifigenia era valido e sacro: non si sa se il re incaricò immediatamente un sicario di uccidere sul posto il predicatore, mentre celebrava la messa, oppure se l’omicidio avvenne nei giorni successivi, sempre durante la messa. Fatto sta che Matteo venne ucciso, trafitto «a colpi di spada». E proprio la spada è uno dei principali «attributi» del santo, anche se, stranamente, non è per nulla facile trovare detto simbolo nell’iconografia che lo riguarda. È però presente nelle scene del martirio, in mano ai sicari ed è da tale arma che Matteo viene trafitto, e non decapitato o colpito con un fendente. La spada lo colpisce sempre di punta, passandolo, a volte, da parte a parte, come nella tavola di Andrea e Jacopo di Cione raffigurante il Martirio di san Matteo, oggi alla Galleria degli Uffizi di Firenze (vedi foto a p. 108). Né si tratta di un caso isolato: anche per altri santi e martiri,

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Martirio di San Matteo, olio su tela di Claude Vignon. 1617. Arras, Musée des Beaux-Arts. Conficcata quasi per intero nel corpo del santo, la spada presenta una lama a sezione lenticolare con forte sguscio centrale; l’elso ha due bracci fortemente arricciati e leggermente piegati rispetto alla lama.

l’arma che simboleggia il loro passato militare e violento, oppure lo strumento del martirio, non accompagna l’iconografia degli stessi, ma è raffigurata solo nella rappresentazione dell’episodio del martirio, in mano agli assassini.

Un equivoco ricorrente Le spoglie di Matteo furono ritrovate in età longobarda: traslate nel 954 a Salerno, sono conservate nella cripta della cattedrale della città, che, secondo la tradizione, fu salvata nel 1544 dal santo, suo patrono, dai pirati saraceni. Non va confuso con l’altro apostolo dal nome simile, Mattia, il quale fu però decapitato con un’alabarda, che infatti figura quasi sempre nelle opere d’arte che rappresentano l’episodio. Non sarà superfluo notare che questo tipo di arma compare solo nel tardo Medioevo e

che, quasi certamente, la strumento del martiro fu una scure, come in effetti vediamo in molti quadri. Forse per confusione fra i due nomi, ovvero fra l’alabarda e la spada, san Matteo è talvolta raffigurato con la prima (come Mattia), invece che con la seconda: un esempio è nel San Matteo (1621) di Giulio Cesare Procaccini, conservato nei Musei di Strada Nuova a Genova. La sua iniziale attività di esattore spiega perché sia patrono di banchieri, impiegati di banca, finanzieri, ragionieri, commercialisti e contabili. Difficile, invece, capire perché lo sia anche degli ammalati molto gravi e degli animali in difficoltà ai quali qualcuno tenga. Quindi, se l’animale con problemi non ha un padrone o, comunque, un essere umano che si preoccupi per lui, l’opera di san Matteo non dovrebbe attivarsi.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Marco Bartoli La forza dei fragili Poveri ed esclusi nel Medioevo Carocci editore, Roma, 144 pp.

12,00 euro ISBN 9788829022557 www.carocci.it

Il volume guarda alla storia con l’occhio dei piú vulnerabili e rivela una inedita prospettiva del Medioevo occidentale. In un

periodo caratterizzato da lotte di potere e conflitti religiosi, l’altro – che fosse l’infedele, il disabile, il bambino, l’eretico o anche la donna – era spesso vittima di emarginazione e violenza. Tuttavia, in questo contesto si sviluppò un nuovo concetto di humanitas, influenzato dalle idee dell’epoca e dalle tensioni sociali e che gradualmente iniziò a riconsiderare coloro che erano culturalmente e fisicamente differenti,

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i «diversi», gli oppositori, i «non allineati». Questo approccio, che oggi definiremmo «inclusivo», ereditato tanto dalla tradizione classica quanto da quella cristiana, contribuí, nel tempo, all’evoluzione delle istituzioni religiose e politiche – come la Chiesa e le corti nobiliari –, fino a ridefinire il concetto di dignità individuale e a favorire forme di aperture culturali e sociali. Marco Bartoli sviluppa dunque l’analisi storiografica dell’arduo percorso compiuto da quanti erano considerati estranei alla società e alle sue regole, accanto alle lotte condotte per ottenere un giusto riconoscimento. Parallelamente alle discriminazioni, si svilupparono anche nuclei di resistenza e solidarietà, come le comunità religiose e i movimenti ereticali, che rappresentarono un tentativo di ridefinire le norme sociali e culturali. L’analisi delle tensioni e delle dinamiche sociali del Medioevo occidentale rivela, cosí, una società complessa in cui, nonostante le discriminazioni, si manifestava anche

il desiderio di quel cambiamento che avrebbe influenzato il corso della storia europea nei secoli successivi. Marino Pagano Jean-Claude Maire Vigueur Cosí belle, cosí vicine: viaggio insolito nelle città dell’Italia medievale il Mulino, Bologna,

448 pp., ill. col.

38,00 euro ISBN 978-88-15-38762-2 www.mulino.it

Tra l’XI secolo e la fine del Medioevo, soprattutto nel CentroNord della Penisola, le città italiane vissero una fase di straordinaria rinascita grazie all’affermarsi del sistema politico comunale, che ridisegnò profondamente la struttura dei centri urbani di origine romana. Ognuno dei 7 capitoli del volume illustra uno o piú aspetti della connessione che lega le vicende della vita

politica delle città medievali italiane ai cambiamenti nelle loro strutture materiali. La prima parte (capp. 1-4) si sofferma sulle iniziative pubbliche e private che hanno rimodellato l’urbanistica delle città comunali italiane, arricchendole di un patrimonio monumentale nuovo. La seconda (capp. 5-7) analizza invece tre settori particolarmente importanti: la gestione delle acque, la difesa militare e le infrastrutture economiche. Titolari inizialmente delle prerogative fiscali, militari e giudiziarie (che poi passarono ai cittadini con la formazione del comune), e dotati delle ingenti entrate provenienti loro dalle signorie rurali di cui erano investiti, i vescovi furono i grandi artefici dello spettacolare rilancio dell’edilizia religiosa: palazzi vescovili e cattedrali sorsero un po’ ovunque. Fenomeno a cui fece seguito, dalla fine del XII secolo – parallelamente al passaggio dal comune vescovile a quello consolare –, la costruzione di palazzi pubblici destinati a ospitare le adunanze delle magistrature

cittadine laiche. Il volume ripercorre quindi lo sviluppo delle città italiane (politico, economico e demografico), mettendo in evidenza i fattori che portarono alla realizzazione dei loro principali edifici (palazzi pubblici, cattedrali, monasteri, ospedali e istituzioni caritativo-assistenziali), infrastrutture (piazze, opere idrauliche, mulini) e fortificazioni (mura e torri). L’ultimo capitolo si sofferma sull’artigianato, i suoi spazi, le sue forme (tessile, metallurgico e armi in particolare, arte conciaria), le sue infrastrutture (folle, mulini, cartiere), la sua organizzazione (manifattura accentrata e disseminata), dedicando numerose pagine anche agli spazi verdi urbani e alle produzioni ortofrutticole. Concludono il libro, corredato da un’ampia bibliografia e da splendide immagini a colori, pagine piacevolissime sulla vita quotidiana: i mercati, col protagonismo delle donne nella vendita dei generi alimentari; la prostituzione; le taverne e il gioco d’azzardo. Maria Paola Zanoboni maggio

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

La discoteca Ensemble Into the Winds Le parfaict danser Dance music 1300-1500 Ricercar, RIC 452, 1 CD https://outhere-music.com

Con una carrellata di musiche per danza composte fra il XIV e il XVI secolo, l’antologia Le parfaict danser ci introduce a un mondo sonoro variegato, fatto di ritmi, stili e generi che provano appieno l’importanza della pratica coreutica tra Medioevo e Rinascimento. Al pari dell’attività musicale principalmente dedita alla vocalità, almeno per i secoli piú antichi, anche la danza si è andata sviluppando, sia a livello popolare, sia come espressione della piú raffinata cultura di corte. Musiche per danza sono già presenti a partire dal Trecento, ma solo nel XV secolo vengono stampati i primi trattati sull’arte coreutica, testimoni della graduale emancipazione della

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musica strumentale nei confronti di quella vocale. L’ascolto inizia con una istampitta del XIV secolo, una danza piuttosto diffusa a corte e la cui trasmissione prevalentemente orale ne ha determinato anche la limitata conoscenza, se non fosse per i pochi esempi presenti nel cosiddetto Manuscrit du Roi (XIII sec.), oggi conservato a Parigi, nella Bibliothèque nationale de France e da cui il brano è tratto. L’itinerario musicale proposto attraversa tre principali aree geografiche: Italia, Francia e Spagna. A rappresentare l’Italia sono Guglielmo Ebreo da Pesaro (1420-1484), Antonio da Cornazzano (1430-1484) e Domenico di Piacenza (1390-1470), compositori legati agli ambienti di corte dell’epoca, e autori di famosi trattati dedicati alla danza. Il genere della bassadanza

è rappresentato da Domenico da Piacenza con un brano dallo stile aulico e solenne, caratterizzato da un movimento lento, su cui si snodano le improvvisazioni della voce superiore. Allo stesso genere ci riconducono l’ascolto di un brano anonimo del XV secolo tratto dal manoscritto Basses danses dites de Marguerite d’Autriche (Ms. 9085, Bruxelles, Bibliothèque royale), da Thoinot Arbeau (XVI secolo), nonché la tourdion C’est grand plaisir – l’equivalente, in termini musicali, del saltarello italiano – del compositore/ stampatore musicale Pierre Attaingnant (1494-1552), che all’epoca rappresentò una vera fucina di produzione musicale. All’area francese appartengono i brani di Gilles Binchois (1400-1460), Claudin de Sermisy (1490-1562), Jean d’Estrées (XVI secolo) e Claude Gervaise, con due suites, di quest’ultimo, di danze in cui sono presenti movimenti di passamezzo, pavana, gagliarda e allemanda. Prendendo lo spunto da una melodia molto diffusa nell’Europa del Quattrocento, detta Spagna, la

raccolta si sofferma su alcune composizioni a essa ispirate, come la bassadanza Re di Spagna di Cornazzano, ovvero gli arrangiamenti strumentali di due brani della Missa La Spagna di Heinrich Isaac (1450-1517) che testimoniano dell’ampio successo che questo tema conobbe. Alla produzione spagnola, appartengono inoltre la Danza Alta di Francisco de la Torre (1460-1504), «alta» perché concepita per un organico di strumenti con un’alta tessitura, e la Recercada Quarta di Diego Ortiz (1510-1570). Mutevoli sono le atmosfere musicali che si respirano in questo florilegio di stili, ritmi e combinazioni strumentali proposto

dall’ensemble Into the Winds, fondato nel 2017 e specialista nell’esecuzione ai fiati del repertorio antico. A sottolineare le peculiarità di ogni brano, un ricco campionario strumentale affidato ai cinque giovani componenti del gruppo che si alternano ai flauti dolci, ciaramella, tromba, trombone, bombarda, dulciana, percussioni, in un vivace tripudio di sonorità e colori. Al suo esordio discografico, questo ensemble mostra una notevole competenza e maestria nel gestire le «complicate» sonorità di questi strumenti antichi, rivelando una sensibilità interpretativa di grande livello. Franco Bruni maggio

MEDIOEVO



COSTANTINO

«Sotto questo segno vincerai»

Le vicende di molti grandi protagonisti della storia antica sono state tramandate attraverso cronache e testimonianze che hanno finito con il consegnare ai posteri stereotipi suggestivi, piú che profili biografici attendibili. E Costantino ne è uno degli esempi emblematici: da sempre, infatti, viene tradizionalmente esaltato e celebrato come il primo imperatore «cristiano», l’uomo saggio e pio grazie al quale i seguaci della dottrina diffusa trecento anni prima da Gesú in Terra Santa avevano finalmente potuto professare il loro culto. Ma fu veramente cosí? Prova a rispondere la nuova Monografia di «Archeo» che ripercorre la lunga vicenda politica e personale di Flavio Valerio Costantino, costellata a piú riprese da episodi quasi romanzeschi. Primo fra tutti, il sogno fatto alla vigilia della decisiva battaglia combattuta contro Massenzio nell’ottobre del 312 d.C. al Ponte Milvio, a Roma, che avrebbe ispirato all’imperatore la decisione di far incidere il monogramma cristiano sugli scudi e sui vessilli delle sue truppe. Accanto a fatti dal sapore leggendario, c’è però la concretezza delle lotte per il potere, della ridefinizione delle strutture amministrative dell’impero, degli intenti autocelebrativi, culminati nella decisione di rifondare nel suo nome Bisanzio, elevandola a seconda capitale imperiale. Mosse che rivelano il carattere volitivo e deciso del personaggio, che, di fatto, suggellò la sua effettiva conversione al cristianesimo solo in punto di morte, accettando di ricevere il battesimo.

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