Medioevo n. 296, Settembre 2021

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CA VIT XI PIT ER II S A B EC LE D O OL E O L

MEDIOEVO n. 296 SETTEMBRE 2021

EDIO VO M E www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

COSTANTINOPOLI 1204

LOMBARDIA QUANDO LA PIANURA PADANA ERA UNA FORESTA DOSSIER ALLA SCOPERTA DELLE PIEVI BRESCIANE

OLTRE LO SGUARDO L’ALBERO DELLA VITA DONNE GUERRIERE LA VENDETTA DI OLGA 10296 9

771125

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€ 5,90

COSTANTINOPOLI 1204 OLGA VITERBO PIANURA PADANA L’ALBERO DELLA VITA DOSSIER PIEVI BRESCIANE

Mens. Anno 25 numero 296 Settembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

LA VERA STORIA

IN EDICOLA IL 2 SETTEMBRE 2021



SOMMARIO

Settembre 2021 38 CALEIDOSCOPIO

ANTEPRIMA UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Morte a Ravenna

MODE I malanni della vanità

di Federico Canaccini

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ITINERARI Passaggio obbligato

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di Chiara Parente

APPUNTAMENTI Medioevo Oggi L’Agenda del Mese TUTELA L’UNESCO «salva» il Medioevo renano

di Andreas M. Steiner

di Elena Percivaldi

STORIE, UOMINI E SAPORI Spezie e schiavi per Enrico il Navigatore 106

di Sergio G. Grasso

QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Con la spada e il cannone 110

10 16

COSTUME E SOCIETÀ 12

PIANURA PADANA C’era una volta un bosco...

di Corrado Occhipinti Confalonieri

60

60

STORIE QUARTA CROCIATA La vera fine di Costantinopoli 26

OLTRE LO SGUARDO/8 L’albero della Vita Al centro dell’Eden di Furio Cappelli

68

68 DONNE GUERRIERE/2 Una barcaiola di nome Olga 38 di Federico Canaccini

VITERBO CAPITALE/1 La nascita del conclave 50 di Luca Salvatelli

LIBRI Lo Scaffale

Dossier di Cristina Ferrari

26

di Agostino Paravicini Bagliani

di Paolo Pinti

55

114

ANDAR PER PIEVI NEL BRESCIANO 79

incontro con Marina Montesano, a cura di Roberto Roveda

La città della scienza

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C VI XII APITTER I S AL B EC E D O OL E O L

MEDIOEVO n. 296 SETTEMBRE 2021

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

COSTANTINOPOLI 1204

LOMBARDIA QUANDO LA PIANURA PADANA ERA UNA FORESTA DOSSIER ALLA SCOPERTA DELLE PIEVI BRESCIANE

OLTRE LO SGUARDO L’ALBERO DELLA VITA DONNE GUERRIERE LA VENDETTA DI OLGA 10296 9

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COSTANTINOPOLI 1204 OLGA VITERBO PIANURA PADANA L’ALBERO DELLA VITA DOSSIER PIEVI BRESCIANE

Mens. Anno 25 numero 296 Settembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

LA VERA STORIA

Hanno collaborato a questo numero: Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Cristina Ferrari è archeologa. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Agostino Paravicini Bagliani è storico del Medioevo e presidente della Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino. Chiara Parente è giornalista. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Roberto Roveda è cultore della materia in storia medievale all’Università di Bergamo. Luca Salvatelli è docente di storia dell’arte.

IN EDICOLA IL 2 SETTEMBRE 2021

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03/08/21 09:27

MEDIOEVO Anno XXV, n. 296 - settembre 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e pp. 31) e pp. 12 (alto), 13 (alto), 27, 30, 32-37, 44, 50/51 (alto), 58, 60/61, 63, 71, 72-73, 86/87, 102-104, 110 – Shutterstock: pp. 5, 40, 42/43, 45, 50/51 (basso), 56/57, 62 (alto), 64/65, 65, 74, 79 – Cortesia Ufficio IAT di Avigliana: pp. 6-9 – Archivio Festival del Medioevo: pp. 10-11 – da: www.archaeologie-online.de: p. 12 (basso) – da: https://schumstaedte.de: Architectura Virtualis: p. 13 (basso) – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: pp. 28, 53, 54; Album/Oronoz: pp. 28/29; Album/Fine Art Images: pp. 38/39; Erich Lessing/Album: pp. 41, 106; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 46/47; AKG Images: pp. 52, 55, 67, 70, 75 (basso), 76, 106/107, 108-109, 112 (alto), 113 (alto); Album/Prisma: pp. 66/67; Electa/Sergio Anelli: p. 69 – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: p. 62 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 68, 75 (alto), 80, 80/81 (alto), 82-85, 88, 89 (basso), 90-97, 98, 99 (alto), 100-101, 111, 112 (basso), 113 (basso) – da: Guida alle chiese romaniche di Ascoli Piceno: Domenico Oddi: pp. 76/77 – Luca Giarelli: cartina a p. 81 – Dario Gallina: elaborazioni grafiche alle pp. 80/81 (basso), 81 – da: Andrea Breda et alii, San Pietro in Mavinas a Sirmione, in Nuove ricerche sulle chiese altomedievali del Garda, 2011: tavola a p. 89 – da: Civethate: l’abitato e il territorio di Cividate Camuno in età medioevale, 1999: tavola a p. 99 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 42.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano In copertina miniatura raffigurante un’imbarcazione crociata sotto le mura di Costantinopoli nel 1203, da un manoscritto francese del 1300 circa.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero donne guerriere

Jeanne de Clisson

venezia

Il Gran Priorato dell’Ordine di Malta

oltre lo sguardo

Il re David, musicista e profeta


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

Morte a Ravenna

S

iamo nel 1321 e Dante vive ormai da alcuni anni a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta. Ha 56 anni e ha finalmente completato la terza cantica: il signore di Ravenna, pur rispettandone il lavoro – volto a concludere l’opera che l’avrebbe reso immortale –, non rinunciò talvolta a impegnare l’Alighieri in ambascerie e relazioni cancelleresche. Il sogno di rientrare a Firenze non aveva mai abbandonato Dante e, quando il Polentano gli propose di recarsi a Venezia come paciere, potè forse immaginare che, se avesse risolto la annosa controversia, sarebbe stato finalmente accolto in patria come vero latore di pace, ben diverso dal polemico priore di venti anni prima (vedi «Medioevo» n. 294, luglio 2021; anche on line su issuu.com). L’Alighieri partecipò effettivamente a un’ambasciata diretta a Venezia, ma ciò che accadde nell’estate del 1321 è ancora controverso. Non è possibile stabilire una data esatta della missione, da porsi tra la fine di luglio e i primi di agosto: a complicare le cose, un documento attesta che gli ambasciatori ravennati – tutti fuorché l’Alighieri – riuscirono a comporre la pace con Venezia solo il 20 ottobre. Si trattò di un’unica missione diplomatica, o ve ne furono due? Si può ipotizzare che il poeta, direttosi a Venezia in agosto, avesse contratto nel corso del viaggio di andata il morbo che gli sarebbe stato fatale, oppure che si fosse ammalato una volta giunto nella città lagunare: in ogni caso, prese ben presto la via del ritorno «d’ambasceria da Vinegia in servigio e’signori da Polenta», scrive Giovanni Villani. Dunque non sappiamo se il poeta giunse mai a Venezia e che cosa riuscí a realizzare della missione affidatagli dal Polentano: la sua ars loquendi era talmente nota da aver fatto nascere il mito che fosse in grado di persuadere chiunque e, forse per questo, Filippo Villani (nipote del piú noto Giovanni) inventò la leggenda secondo la quale i Veneziani gli avrebbero impedito di tenere il proprio discorso, timorosi di restarne persuasi, negandogli persino di tornare a Ravenna via mare, paventando che avrebbe «ammaliato» il comandante della flotta veneta.

In qualche modo la colpa della morte dell’Alighieri ricadde sui Veneziani, i quali, stando a questa leggenda, avrebbero costretto il poeta a percorrere la via terrestre, contraendo fatalmente febbri malariche che lo condussero rapidamente alla morte. Gli epitaffi recano la data del 13 settembre, septembris idibus, mentre il Boccaccio riporta che il poeta sarebbe defunto «nel dí che la esaltazione della Santa Croce si celebra della Chiesa», cioè il 14. Oggi si opta per fissare la morte di Dante alla domenica 13 settembre: ma fu probabilmente solo l’indomani che i figli ebbero modo di annunciare agli amici, e in primis al signore di Ravenna, che il sommo poeta era morto. E poi, stando al Villani, Dante «in Ravenna, dinanzi alla porta della chiesa maggiore, fu seppellito a grande onore, in abito di poeta e di grande filosafo».

Ravenna. La tomba di Dante Alighieri, con l’arca sepolcrale realizzata dallo scultore Pietro Lombardo nel 1483.

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ANTE PRIMA

Passaggio obbligato

ITINERARI • La storia

plurisecolare di Avigliana, nel Torinese, si dipana nel segno della sua felice ubicazione. Che, nel corso del Medioevo, ne fece un luogo di transito assai frequentato da crociati, pellegrini, pastori e mercanti

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a cittadina di Avigliana (Torino) si ammira di solito dall’alto, visitando la Sacra di S. Michele che, fondata da Ugo d’Alvernia tra il 983 e il 987 sull’orlo del monte Pirchiriano, dove la valle di Susa si apre alla pianura torinese, è tra i monumenti piú visti del Piemonte. Dall’abbazia fortificata, a 900 m di quota, lo scenario naturale sulle Alpi Cozie appare meraviglioso. Di Avigliana si scorgono il piccolo e il grande lago, tutelati in un Parco naturale regionale, i numerosi campanili delle chiese e le suggestive rovine del castrum Avilianae che, ritenuto tra i piú antichi castelli della regione, fu costruito nel 924 sul colle Pezzulano dal marchese di Torino Arduino In alto una veduta panoramica di Avigliana (Torino). A sinistra uno scorcio del centro storico della cittadina, con i resti del castrum Avilianae sullo sfondo.

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il Glabro e concesso ai Savoia nel Mille. Sviluppatasi su grandi arterie di comunicazione internazionali dirette ai valichi del Moncenisio e del Monginevro e già in epoca romana statio ad fines, ossia dogana di confine nella strada delle Gallie, Avigliana – bandiera arancione del Touring Club Italiano – va scoperta passo passo, camminando fra le sinuose stradicciole del Borgo Vecchio (IV-V secolo) e del Borgo Nuovo (XII secolo). Oltrepassate le turrite porte d’accesso, stupisce la varietà delle tipologie edilizie medievali. Caseforti e vestigia di chiese romaniche si alternano a torri isolate, luoghi di culto in stile

I tesori di S. Giovanni La chiesa di S. Giovanni Battista si trova ai margini di piazza Conte Rosso, nella zona di Avigliana che, denominata Borgo Nuovo, si sviluppò dal XII secolo. Fondata nel 1248 e divenuta parrocchia nel 1324, in sostituzione della chiesa ormai solo cimiteriale di S. Pietro – eretta prima dell’anno Mille –, è abbellita in facciata da un affresco con un San Cristoforo, protettore dei viandanti, un rosone centrale e una ghimberga con decori in cotto. Particolarmente interessante è il campanile gotico, ornato da 27 bacini di ceramica graffita (25 scodelle e 2 piatti), prodotti tra il 1280 e il 1330, alcuni ornati con disegni di strani volatili, figure umane maschili e immagini femminili terminanti a coda di pesce. Un atrio a pianta trapezoidale, impreziosito da affreschi del Quattrocento e diviso in due campate da volte a crociera con archi ogivali, introduce i fedeli all’interno. L’edificio, a navata unica, conserva un pulpito ligneo cinquecentesco splendidamente intagliato e una notevole raccolta di tavole del primo Cinquecento dipinte da Defendente Ferrari (1490-1540) e Gerolamo Giovenone (1490-1555). S. Pietro, antica chiesa cimiteriale di Avigliana. Fondata prima del Mille, venne ampliata e abbellita in stile gotico tra il XIV e il XV sec.

gotico e architetture residenziali che, caratteristiche della cosiddetta «civiltà del cotto», appaiono decorate da cornici marcadavanzale a denti di sega e fregi in terracotta. Leggendo i nomi di vie, slarghi e palazzi, incuriosiscono i continui rimandi a esponenti di casa Savoia: piazza Conte Rosso, largo Beato Umberto, casaforte del Beato Umberto III di Savoia. Nel Medioevo l’espansione territoriale sabauda, anche basata sulla protezione di uomini fedeli

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entro nuclei abitativi chiusi, procedette parallelamente in Valle d’Aosta e in Val di Susa.

L’ampliamento dell’abitato A istituire nel 1183 la villanova di Avigliana fu Tommaso di Savoia, conte di Moriana. Si trattava di un ampliamento del preesistente nucleo demico, ingranditosi attorno alla pieve, in cui il conte offriva – si intuisce a mercanti e imprenditori – la protezione di un castello innalzato sulla cima della collina e case

modeste (3,50 x 7 m circa) gravate dal solo censo annuo di sei denari. Oggi questi elementi non sopravvivono nella distribuzione urbanistica e nelle singole architetture a suggerire l’origine dell’insediamento preordinato. Le case primitive sono state infatti sostituite da dimore che, databili fra il XIV e il XV secolo, sin dal 1341, anno a cui risalgono i consegnamenti feudali al conte Aimone di Savoia – ritenuti una sorta di catasto descrittivo trecentesco di Avigliana –, possedevano facciate maggiori di 3,5 m, poiché tutte le famiglie residenti pagavano piú dei sei denari stabiliti all’atto di fondazione. Inoltre dalle autodenunce immobiliari si intravede una forma urbana complessa che, articolata fra la via del Fossato, la via Superiore, la via al Castello e la platea mercati (ora piazza Conte Rosso), conferma l’attuale struttura tentacolare, innestata sull’imbocco della strada verso il castello. Nasce un dubbio: forse il borgo previsto dalle franchigie del 1183 non è mai stato realizzato oppure è stato presto modificato in misura sostanziale? Certo è che i meccanismi del popolamento rimandano a vari nuclei sempre abitati, di tempo in

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ANTE PRIMA

In alto una suggestiva veduta notturna di Avigliana. A destra un’immagine ravvicinata dei resti del castrum Avilianae, eretto nel 924 sulla sommità del colle Pezzulano per volere del marchese di Torino Arduino il Glabro; sulla destra, il campanile della chiesa di S. Pietro.

Un articolato sistema difensivo Una massiccia macchina difensiva, realizzata tra l’XI e il XV secolo, proteggeva il borgo medievale da orde di predoni ed eserciti in assetto di guerra di passaggio sulla via Francigena. Porta San Giovanni, inglobata nella trecentesca casa Riva, Porta San Pietro, coronata da una merlatura ghibellina, Porta Ferronia che, detta anche Porta delle Braide, dà sulla regione omonima, e Porta Santa Maria, abbellita con decori in cotto dagli effetti chiaroscurali, insieme ai consistenti resti di torri e murature ne sono le sopravvissute testimonianze. È probabile che la struttura fortificata di Avigliana, dominata dal castello, interessasse, all’inizio, solo la rocca e l’altipiano corrispondente al castrum e coincidente con Piazza Conte Rosso. Poi, per effetto del potere accentratore esercitato dal fortilizio sabaudo, intorno alla rupe si addensarono nuclei abitativi piú fitti. Si formarono cosí borghi e burgeti progressivamente inglobati in cinte murarie disposte «in profondità» su successivi cerchi concentrici e dotati di relativa autonomia difensiva.

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tempo favoriti o declassati, spinti a un rapido ampliamento o quasi abbandonati.

Un crocevia strategico Indagini archeologiche hanno individuato il fulcro insediativo di età romana nell’odierna borgata Malan, a 3 km da Avigliana. L’impaludamento dell’area nell’Alto Medioevo giustificherebbe lo slittamento della strada e dell’abitato a una quota leggermente piú elevata, sulle pendici del Pirchiriano. Lí, nel IX secolo, si stabilirono la pieve e l’hospitale, centri di servizi territoriali estesi al nuovo villaggio, agli abitati sparsi tra Malan e i due laghi e a un intenso flusso di viandanti che, seguendo la via Francigena, percorrevano la valle della Dora Riparia.

In alto i portici del centro di Avigliana. Qui sopra la vista panoramica di cui si gode dal castello della cittadina.

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Vi transitavano crociati diretti ai porti delle città marinare italiane, pellegrini in viaggio verso i luoghi della cristianità, mercanti genovesi, lombardi e toscani che per i loro traffici commerciali raggiungevano gli empori di Fiandra, Champagne e Inghilterra, e pastori giunti dalle terre lombarde per migrare con le loro greggi ai pascoli dell’alta valle. Ben presto l’inclusione di Avigliana in una frastagliata rete di itinerari, non solo commerciali, ma anche di fede, portò all’erezione di nuovi edifici cultuali, che oggi documentano la pietas e la potenza delle famiglie cittadine allora dominanti. Chiara Parente

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ANTE PRIMA

EDIOEVO MOGGI

I I

l Festival del Medioevo è la sola rassegna in Europa interamente dedicata a Dante Alighieri, dal primo all’ultimo appuntamento. A partire dai titoli delle lezioni di storia, tutti contrassegnati dagli immortali versi del grande poeta. «Il tempo di Dante» è il titolo della settima edizione del Festival del Medioevo, in programma a Gubbio dal 22 al 26 settembre 2021. La manifestazione, ormai riconosciuta come il piú importante appuntamento nazionale sulla storia dell’età medievale, quest’anno si aprirà con un omaggio speciale: il festival è dedicato alla memoria di Marco Santagata, lo scrittore e storico della letteratura scomparso nel novembre del 2020, considerato uno fra i piú grandi studiosi mondiali della poesia trecentesca e della vita e dell’opera di Dante Alighieri. Sarà lo storico Franco Cardini ad aprire la manifestazione, mercoledí 22 settembre, con la lectio magistralis «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». Alessando Barbero chiuderà il festival nella serata di domenica 26 settembre con «La

vita politica al tempo di Dante». Come ogni anno, protagonisti dell’evento saranno molti tra i maggiori storici italiani e europei. Conferme e ritorni, da Chiara Frugoni a Massimo Oldoni, fino a Maria Giuseppina Muzzarelli, Mariateresa Fumagalli, Gabriella Airaldi, Gabriella Piccinni, Alberto Grohmann, Matteo Saudino, Amedeo Feniello, Chiara Mercuri e Paolo Golinelli, insieme a un altro centinaio di docenti di letteratura, scrittori, saggisti, storici dell’arte, filosofi, scienziati, architetti e giornalisti. Fra i dantisti, i filologi e gli storici della letteratura saranno presenti a Gubbio alcuni fra i principali studiosi della vita e dell’opera del grande poeta: Mirko Tavoni, Alberto Casadei, Claudio Giunta, Luca Serianni, Claudio Marazzini, Federico Maria Sanguineti, Massimo Arcangeli, Aldo Onorati e Giulio d’Onofrio. Almeno tre gli appuntamenti da segnalare legati a Dante e alla storia dell’arte con protagonisti Serena Romano, Alessio Monciatti e Jacopo Veneziani.

Cinque appuntamenti speciali Altri importanti appuntamenti arricchiscono i cinque giorni del Festival del Medioevo. A partire dalla Fiera del libro medievale, con tutto quel che c’è da leggere sul Medioevo, fino a cinque speciali appuntamenti, tutti legati a Dante e al suo secolo: l’evento sul Poeta e Gubbio con lezioni su Cante Gabrielli, il podestà eugubino di Firenze che condannò Alighieri all’esilio, Oderisi, «l’onor d’Agobbio» e il misterioso poeta Bosone de’ Raffaelli (giovedí 23 settembre); il focus sui Medievalismi, che descrive la ricezione, l’utilizzo e la rappresentazione postmedievale dell’età di Mezzo, tra film, saghe televisive, letterature, musiche, fumetti e videogiochi (venerdí 24 settembre); il Medioevo da leggere, con una selezione dei volumi dedicati a Dante nell’anno del settecentesimo anniversario dalla morte (sabato 25 settembre), fino a Dante e Tolkien, un approfondimento mirato a esplorare le analogie fra due mondi letterari che affrontano in modo nuovo e profondamente diverso tra loro, la storia della salvezza dell’uomo. I segreti di uno scriptorium medievale rivivranno per cinque giorni in uno degli appuntamenti piú attesi: miniatori e calligrafi dal mondo, l’evento dedicato all’arte paziente dei miniaturisti, dei calligrafi e degli

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A destra realizzazione di miniature nello scriptorium allestito in occasione del Festival del Medioevo. In basso Federico Fioravanti, ideatore e direttore della rassegna eugubina. Nella pagina accanto, in basso uno scorcio del Palazzo dei Consoli di Gubbio.

amanuensi e organizzato in collaborazione con la casa editrice Arte del Libro-unaluna. La manifestazione prevede anche mostre, eventi teatrali, recital, concerti di musica medievale, lezioni-spettacolo, laboratori di danza e visite guidate alla scoperta dell’Umbria medievale insieme a spazi particolari dedicati alla rievocazione storica, all’artigianato e agli antichi mestieri.

Patrocini e collaborazioni Il Festival del Medioevo gode di importanti patrocini scientifici: Accademia della Crusca; Società Dantesca Italiana; Società Dante Alighieri; Istituto Storico Italiano per il Medio Evo (Isime); Enciclopedia Treccani; Fondazione umanitaria e culturale Giancarlo Pallavicini Onlus, Società Italiana Storici Medievisti (Sismed); Società degli Archeologi Medievisti Italiani (Sami); Pontificio Consiglio della Cultura in Vaticano; Centro Studi Longobardi; Centro di studi storici mediterranei «Marco Tangheroni» e Centro di Cultura e Storia Amalfitana. La RAI, con RAI Cultura e i canali RAI Storia e RAI Radio3 è il principale media partner della manifestazione, insieme alle riviste di divulgazione storica «Medioevo» e «Archeo». Collaborano in modo stabile con il Festival del Medioevo anche Italia Medievale, portale web impegnato da molti anni nella promozione del patrimonio storico e artistico del Medioevo italiano, MediaEvi, pagina Facebook specializzata nell’analisi dei cosiddetti medievalismi, il sito Medievaleggiando, Feudalesimo e Libertà, fenomeno social di goliardia e satira politica, il sito e la casa editrice Enciclopedia delle donne, un’opera

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collettiva sul web, che raccoglie biografie di donne di ogni tempo e paese, e Radio Francigena, la voce dei cammini. Il sito della manifestazione www.festivaldelmedioevo. it e la relativa pagina Facebook @FestivalDelMedioevo (65mila followers) sono gli indirizzi on line dedicati alla divulgazione storica del Medioevo piú visitati in Italia. Grazie alla partnership con Libera Università Santissima Maria Assunta (LUMSA) e Fondazione Mazzatinti di Gubbio, enti accreditati presso il MIUR, la partecipazione alle sessioni di convegnistica dà diritto al rilascio di attestati di partecipazione a studenti e docenti, con possibilità di esonero dal servizio secondo la normativa attualmente in vigore. Il programma completo con l’elenco dei protagonisti e tutti gli aggiornamenti sono consultabili sul sito www.festivaldelmedioevo.it

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ANTE PRIMA

L’UNESCO «salva» il Medioevo renano

TUTELA • Fiorite nei

secoli X e XI, le comunità giudaiche delle città di Spira, Worms e Magonza rappresentano la culla dell’ebraismo europeo. Oggi, una decisione dell’UNESCO ne tutela il patrimonio monumentale

S

chUM è l’acronimo con cui, a partire dal XII secolo, erano conosciute le comunità giudaiche della Renania. È composto dalle iniziali dei nomi ebraici di tre città renane: Šin (pronunciato «shin») sta per la città di Schpira, l’odierna Spira, Waw (pronunciata «u») sta

per Warmisa, oggi Worms, e mem («emme») indica Magenza, Mainz in tedesco, in italiano Magonza. Le fonti medievali menzionano esplicitamente le comunità Schum (da pronunciare «scium»), spesso note anche solo come «le comunità», con riferimento a

In alto una veduta del cimitero ebraico di Worms, il piú antico d’Europa. A destra lapidi funerarie ebraiche di epoca medievale, rinvenute nello scorso novembre durante lavori edili nel centro storico di Magonza.

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una realtà sociale, economica e culturale profonda e unica, quella dell’ebraismo ashkenazita renano, a ragione considerato la culla dell’ebraismo europeo. Qui, negli insediamenti lungo le rive del Reno e alla confluenza del Meno con il grande fiume, arrivarono – già nel I-II secolo d.C. sull’onda dell’espansione di Roma – i primi Ebrei, provenienti dall’Italia. Le comunità ebraiche di Spira, Worms e Magonza (ma poi vi erano anche quelle minori di Colonia, Treviri, Bonn, Metz, Coblenza, Strasburgo…) fiorirono nei secoli X e XI, dando vita a un universo culturale – giuridico, religioso, architettonico – che fu determinante per l’evoluzione dell’ebraismo dell’Europa centrale, settentrionale e orientale, attraverso i secoli fino al Novecento. Di questo mondo si hanno, ancora oggi, testimonianze monumentali, nonostante le vicende drammatiche con le quali le comunità renane hanno dovuto fare i conti. Migrazioni forzate e persecuzioni sono, infatti, parte integrante della storia di queste comunità,

A destra cimitero ebraico di Worms. La lapide di Jacob ha Bachur, defunto nell’anno 1076/77, è considerata (insieme alla lapide vicina, anonima) il piú antico cippo funerario giudaico ancora conservato in Europa. In basso ricostruzione virtuale della sinagoga medievale di Spira.

tanto quanto gli insegnamenti di Gershom ben Judah (960-1040), il celebre rabbino di Metz noto come «il Luminare dell’Esilio». Risale alla fine dello scorso luglio la decisione del Comitato del Patrimonio Mondiale UNESCO – riunitosi per la sua quarantaquattresima sessione nella città cinese di Fuzhou – di includere nel suo elenco gli edifici e i luoghi simbolo di quel «luminoso» momento del Medioevo centroeuropeo: le sinagoghe, le scuole talmudiche, quelle per le donne, i bagni rituali e, non ultimo, i cimiteri. Un patrimonio non solo monumentale, quello delle comunità SchUM, che proprio negli ultimi decenni è riemerso grazie a una intensa attività di indagini, scavi archeologici e tutela. Andreas M. Steiner

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ANTE PRIMA

Insieme per il patrimonio A

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

ttenzione alla valorizzazione del patrimonio culturale del territorio, sinergia di studio e ricerca, tensione alla sperimentazione e all’innovazione. Su queste direttrici si muove la collaborazione nata da tempo tra l’Università degli Studi di Salerno e il Parco Archeologico di Paestum e Velia. Il rinnovo dell’accordo tra i due enti (il primo era stato sottoscritto nel 2018), disegna nuove prospettive di cooperazione interistituzionale, alla luce della sinergia operativa già sviluppata negli anni e di cui sono testimonianza diverse iniziative congiunte messe in campo. Il progetto del monitoraggio sul tempio di Nettuno è una tra queste. Frutto di un programma di ricerca realizzato dal Parco Archeologico in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria Civile dell’ateneo salernitano, con il coordinamento di Luigi Petti, il progetto utilizza sensori di ultima generazione e consente di misurare in tempo reale ogni minimo movimento che investe il tempio meglio conservato della Magna Grecia. La realizzazione della rete di monitoraggio ha visto il coinvolgimento di Fabrizio Barone, con l’impiego di sensori del tipo

Due immagini del tempio di Nettuno a Paestum, oggetto del progetto di monitoraggio condotto dal Parco Archeologico di Paestum e Velia in collaborazione con l’Università di Salerno.

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In alto il direttore della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, Ugo Picarelli (primo, a sinistra), con Vincenzo Loia, rettore dell’Università degli Studi di Salerno (al centro) e Massimo Osanna, direttore generale dei Musei del Ministero della Cultura. UNISA Folded Pendulum, sviluppati dallo stesso presso l’ateneo di Salerno. Il monitoraggio del tempio trova origine e ispirazione nel progetto «Seismic Response Control of Rigid Block Systems by using Tendon SystemTeSSPACS» (responsabile scientifico del progetto è Uwe Dorka, dell’Università di Kassel, mentre responsabile scientifico locale è Luigi Petti), che ha visto anche il coinvolgimento di 8 studenti salernitani, che hanno sviluppato un tirocinio e la tesi a Kassel, godendo del programma Erasmus. Per lo studio del tempio, sono state messe in campo anche iniziative interdisciplinari, con la partecipazione del gruppo di ricerca UNISA coordinato da Salvatore Barba e la partecipazione di esperti nel settore del rilievo e restituzione di beni architettonici e monumentali. Altro capitolo significativo della sinergia UNISAParco è la pubblicazione nel 2019 del primo bilancio sociale del Parco Archeologico. Lo studio, tra i primi in Italia per quanto attiene ai beni culturali, ha visto il coinvolgimento di quattro Dipartimenti dell’Università di Salerno e rappresenta un importante strumento di comunicazione, teso a favorire e stimolare un sistematico dialogo sui temi della ricerca, della tutela, della valorizzazione e fruizione, evidenziando i risultati raggiunti e segnalando le direttrici da percorrere per gli sviluppi futuri. A queste attività si aggiungono le indagini (coordinate da Fausto Longo) presso l’Athenaion e lo scavo didattico per gli alunni della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, che sarà esteso alla istituenda Scuola Interateneo. L’Università di Salerno sarà presente con il Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale alla XXIII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, che avrà luogo dal 25 al 28 novembre presso il Tabacchificio Cafasso e il Parco Archeologico, che dell’evento è promotore unitamente alla Regione Campania e alla Città di Capaccio Paestum. Info www.borsaturismoarcheologico.it settembre

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AGENDA DEL MESE

Mostre RAVENNA DANTE NELL’ARTE DELL’OTTOCENTO. UN’ESPOSIZIONE DEGLI UFFIZI A RAVENNA Chiostri Francescani fino al 5 settembre

Dante in esilio è un olio su tela di Annibale Gatti, pittore forlivese che si formò a Firenze, raggiungendo l’apice della sua carriera artistica nel momento in cui la città divenne la nuova capitale del Regno. Proveniente dagli Uffizi di Firenze, è un’opera notevole sotto il profilo artistico e fondamentale per valore simbolico. La sua presenza a Ravenna nasce, infatti, dal progetto di stretta collaborazione pluriennale tra il Comune di Ravenna e le Gallerie degli Uffizi, definito con un protocollo ufficiale di intesa. Il documento prevede prestigiosi prestiti per la mostra «Dante. Gli occhi e la mente. Le Arti al tempo dell’esilio» e la concessione da parte degli Uffizi – in un deposito a lungo periodo – di

a cura di Stefano Mammini

un nucleo di opere ottocentesche dedicate alla figura di Dante Alighieri, da esporre a Ravenna come parte integrante del progetto Casa Dante. Inoltre ogni anno, in concomitanza con l’annuale cerimonia del dono dell’olio da parte della città di Firenze, gli Uffizi presteranno alla città di Ravenna un’opera a tema dantesco. Rinnovando, cosí ancora una volta, il profondo legame tra Firenze, città natale del sommo poeta, e Ravenna, città che lo accolse e suo «ultimo rifugio». All’interno di questo accordo ha preso forma anche il progetto che ha portato all’esposizione della tela a tema dantesco di Annibale Gatti nei Chiostri Francescani. Nel dipinto il poeta è ritratto in un momento di intima riflessione, in compagnia del figlio, nella pineta di Classe, citata da Dante nel Purgatorio e luogo a lui caro. E la pineta classense rivive, in questa mostra, oltre che nel dipinto, anche in una selezione di fotografie storiche provenienti dal Fondo «Corrado Ricci»

della Biblioteca Classense. info tel. 0544 482.477-356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it URBINO SUL FILO DI RAFFAELLO. IMPRESA E FORTUNA NELL’ARTE DELL’ARAZZO Palazzo Ducale fino al 12 settembre

Realizzata in collaborazione con i Musei Vaticani e con il Mobilier National di Parigi, la mostra è dedicata a Raffaello e al mondo degli arazzi e indaga sia l’apporto che il pittore forní in questo specifico settore – per il quale sperimentò invenzioni e realizzò cartoni poi tessuti nelle botteghe

fiamminghe –, sia la fortuna che le opere dell’Urbinate conobbero nel corso dei secoli nella produzione di arazzi. Con dodici grandiose pezze tessute nelle migliori arazzerie europee, raffiguranti principalmente le pitture delle Stanze Vaticane, Urbino può esibire, nel maestoso salone del Trono, tutta la monumentale opera pittorica del suo cittadino piú illustre, la potenza e l’equilibrio classico che Raffaello raggiunse a Roma, circa 25 anni dopo aver lasciato la sua città natale. Gli spazi nei quali l’artista aveva camminato da bambino accompagnato dal padre Giovanni Santi accolgono la sua opera piú

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grandiosa, realizzata a Roma per i papi, apprezzata da artisti, critici, conoscitori e dai turisti di tutte le epoche. info www.galleria nazionalemarche.it UDINE ZVAN DA VDENE FVRLANO. GIOVANNI DA UDINE TRA RAFFAELLO E MICHELANGELO (1487-1561) Castello-Gallerie d’Arte Antica fino al 12 settembre

Giovanni Ricamatore, o meglio, Giovanni da Udine «Furlano», come si firmò all’interno della Domus Aurea, riuniva in sé l’arte della pittura, del disegno, dell’architettura, dello stucco e del restauro. Il tutto a livelli di grande eccellenza. A Roma, dove era stato uno dei piú fidati collaboratori di Raffaello, rimase anche dopo la scomparsa dell’Urbinate. Conquistandosi, per la sua abilità, dapprima il titolo di Cavaliere di San Pietro e quindi una congrua pensione da pagarsi sull’ufficio del Piombo. Alla metà degli anni Trenta del Cinquecento, Giovanni decise di abbandonare la città che gli settembre

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aveva garantito fama e onori e rientrare nella sua Udine con il proposito di «non toccar piú pennelli». Preceduto dalla fama conquistata a Roma, una volta tornato in Friuli si trovò pressato dalle committenze e venne meno al suo intento. Tra le realizzazioni di maggiore importanza vanno annoverate la decorazione di due camerini in Palazzo Grimani a Venezia e l’esecuzione di un lungo fregio a stucco e ad affresco nel castello di Spilimbergo. info www.civicimuseiudine.it/ CLASSE (RAVENNA) CLASSE E RAVENNA AL TEMPO DI DANTE Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio, Parco Archeologico di Classe fino al 26 settembre

Quale città incontra Dante quando arriva a Ravenna nel 1318? Il rapporto con il mare e con le vie d’acqua riveste ancora la stessa importanza che aveva durante l’epoca romana? Che cosa è cambiato e qual è la relazione con Classe? Qual è la città e quali sono i monumenti che Dante

vede? Queste sono le domande alle quali intende rispondere la mostra documentaria allestita al Museo Classis Ravenna. All’epoca di Dante il centro

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abitato distava circa due miglia dalla costa, era delimitato a est dalla fitta fascia dei pineti, a nord dal fiume Montone, a sud dal Ronco e a ovest da terreni solo in parte bonificati; attraversata da una fitta rete di fiumicelli e canali limacciosi, la città viveva in una sorta di precario equilibrio fra acque dolci e acque marine. La pineta costituiva una vasta area boschiva che dal Reno arrivava fino a Cervia, correndo parallelamente alla costa adriatica. Alle case povere e per lo piú pedeplane, si affiancavano i rari palazzi signorili, quelli dei Traversari e dei Polentani. Le chiese sono numerosissime, per una popolazione di circa 10 000 abitanti. Ravenna, che aveva tratto profitto dall’attività edilizia in epoca romana, conservava un complesso, unico nel suo genere, di monumenti del V e VI secolo di cui non esisteva l’eguale in altra città. L’unicità, di cui godiamo tuttora, considerando la quasi totale scomparsa delle chiese erette in quei secoli a Costantinopoli, in Palestina e in Siria, era al tempo di Dante ancora piú significativa. La mostra si propone di ricostruire, anche attraverso una ricerca originale e mirata, monumenti e paesaggi di Ravenna e di Classe ai tempi di Dante. Oltre al recupero e alla interpretazione/sistemazione dei documenti disponibili, vengono proposte anche ricostruzioni complessive sia della città che di singoli monumenti, allo scopo di fornire un quadro generale della città e delle sue strutture urbanistiche e architettoniche ai tempi di Dante, con soluzioni fortemente evocative. info https://classisravenna.it/

MILANO LA FORMA DEL TEMPO Museo Poldi Pezzoli fino al 27 settembre

Tema della mostra è il rapporto dell’uomo con il tempo, dall’antichità alle soglie dell’età moderna, sviluppato attraverso una trentina di opere tra orologi, sculture, codici e dipinti (tra gli autori: Tiziano, Gian Lorenzo Bernini, Andrea Previtali, Bernardino Mei e Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio). Fulcro dell’esposizione – che si articola in tre sezioni: La misura del Tempo e dello spazio, Le immagini del Tempo e Nottetempo – è una serie di preziosi orologi notturni italiani del Seicento, invenzione dei fratelli Campani per papa Alessandro VII Chigi, con i quadranti dipinti con allegorie del tempo da famosi artisti barocchi. Accanto ai due esemplari del Museo Poldi Pezzoli, l’uno di Giovan Pietro Callin e l’altro di Wendelinus

Hessler, dodici sono provenienti da collezioni private. Da segnalare, nella prima sezione, dedicata alle tappe fondamentali dell’evoluzione tecnologica degli strumenti di misurazione del tempo, la presenza di un rarissimo – praticamente l’unico – svegliatore monastico originale risalente al XV secolo, l’antenato dei primi orologi a pesi e di una replica dell’Astrario di Giovanni Dondi, la piú complicata macchina astronomica ideata nel Medioevo europeo. Per tutta la durata dell’esposizione sono in programma attività didattiche collaterali: visite guidate con tagli diversi su prenotazione, itinerari didattici e laboratori per bambini e famiglie, un ciclo di conferenze sui temi della mostra affidate a specialisti degli argomenti affrontati. Il calendario degli appuntamenti è consultabile sul sito web del Museo. info www.museopoldipezzoli.it

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AGENDA DEL MESE BOLOGNA DANTE E LA MINIATURA A BOLOGNA AL TEMPO DI ODERISI DA GUBBIO E FRANCO BOLOGNESE Museo Civico Medievale fino al 3 ottobre 2021

Richiamandosi al rapporto, intenso e fecondo, che Dante Alighieri ebbe in vita con la città di Bologna, le ragioni della mostra muovono dallo sguardo curioso e dalla attenta sensibilità critica che egli dovette rivolgere verso le arti figurative, di cui dimostrò di

essere a conoscenza nei piú importanti sviluppi coevi al suo tempo. Il sommo poeta soggiornò a Bologna in piú occasioni: una prima volta probabilmente intorno al 1286-87, quando forse frequentò, come studente «fuori corso», l’Università. Piú prolungato dovette essere invece il secondo soggiorno, che lo vide trattenersi in città per almeno due anni, dal 1304 al 1306. Dopo aver lasciato Verona, e poi Arezzo, Dante ricercava ora nella scrittura e nello studio il motivo del suo riscatto che l’avrebbe risollevato dall’ignominia dell’esilio, iniziato nel 1302. Ed è

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probabile che in queste circostanze abbia scelto proprio Bologna come possibile nuova meta, atta a garantirgli le necessarie risorse per vivere e anche per studiare e scrivere. Una presenza che dovette consentirgli di entrare in contatto con alcuni di quei luoghi deputati alla produzione e alla vendita dei libri, dove probabilmente aveva avuto notizia dello stesso miniatore Oderisi da Gubbio di cui racconta l’incontro, tra i superbi, nell’XI canto del Purgatorio: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’ Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’ all uminar chiamata è in Parisi?” / “Frate”, diss’elli, “piú ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”». info tel. 051 21939.16-30; e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo; www.museibologna. it; instagram: @bolognamusei VERONA TRA DANTE E SHAKESPEARE. IL MITO DI VERONA Galleria d’Arte Moderna A. Forti fino al 3 ottobre

L’esposizione è uno dei fulcri dell’articolata mostra diffusa ideata per le celebrazioni del centenario del 2021, che

prevede il duplice omaggio al Poeta e alla città di Verona, che gli diede «lo primo tuo refugio e ’l primo ostello» (Paradiso, XVII, 70). La città scaligera, infatti, non è semplicemente lo sfondo della vicenda dantesca, ma ne diventa essa stessa protagonista. Questa specificità, che la caratterizza rispetto alle altre città dantesche, viene valorizzata attraverso un itinerario cittadino che, tramite l’ausilio di una mappa cartacea, porta il visitatore alla riscoperta di ventun luoghi – tra piazze, palazzi, chiese, emergenze monumentali in città e nel territorio – direttamente legati alla presenza del poeta, dei suoi figli ed eredi, e a quelli di tradizione dantesca. La Galleria d’Arte Moderna propone una selezione di oltre 100 opere, tra dipinti, sculture, opere su carta, tessuti e testimonianze materiali dell’epoca scaligera, codici manoscritti, incunaboli e volumi a stampa in originale e in formato digitale provenienti dalle collezioni civiche, dalle biblioteche cittadine, da biblioteche e musei italiani ed esteri. Nel percorso espositivo, che copre un arco cronologico compreso tra Trecento e Ottocento, c’è spazio per la fortuna iconografica dei personaggi danteschi, a partire da Beatrice e Gaddo, ma anche di altre figure femminili

e delle tragiche vicende, legate al tema dell’amore e degli amanti sfortunati, di Pia de’ Tolomei e Paolo e Francesca. E proprio quest’ultimo tema introduce il mito di Giulietta e Romeo, giovani innamorati nati dalla penna di Luigi da Porto nel Cinquecento e resi celebri da William Shakespeare in tutto il mondo. info www.danteaverona.it, gam.comune.verona.it PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi fino al 3 ottobre

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la

Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro – piú nota come Conestabile –, l’affresco di San settembre

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Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neorinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte. it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria

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SUSA-TORINO IL RINASCIMENTO EUROPEO DI ANTOINE DE LONHY Susa, Museo Diocesano fino al 10 ottobre 2021 Torino, Palazzo Madama, Sala Senato fino al 9 gennaio 2022 (dal 23 settembre 2021)

L’esposizione punta a ricomporre la figura di Antoine de Lonhy, un artista poliedrico – era pittore, miniatore, maestro di vetrate, scultore e autore di disegni per ricami – che ebbe un impatto straordinariamente importante per il rinnovamento del panorama figurativo del territorio dell’attuale Piemonte nella seconda metà del Quattrocento. Venuto a contatto con la cultura fiamminga, mediterranea e savoiarda, fu portatore di una concezione europea del Rinascimento, caratterizzata dalla capacità di sintesi di diversi linguaggi figurativi. Lonhy visse e lavorò in tre Paesi diversi. Originario di Autun, in Borgogna, si formò sui testi della pittura fiamminga, tra Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. Prima del 1450 era già in contatto con uno dei piú straordinari mecenati di ogni tempo, il cancelliere del duca di Borgogna Nicolas Rolin, per il quale eseguí delle vetrate istoriate, purtroppo perdute. Si conoscono poi tutte le tappe del suo percorso attraverso l’Europa, che si concluse nel ducato di Savoia, dove lavorò per la corte e per numerose chiese e monasteri del territorio e dove si spense, probabilmente, prima della fine del secolo. Il percorso espositivo della mostra, articolato nelle due sedi di Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica di Torino e del Museo Diocesano di Susa,

vuole mettere in evidenza i viaggi, gli spostamenti e la carriera itinerante attraverso l’Europa di un artista che nelle sue opere riuní insieme elementi e influssi dalla Borgogna, dalla Provenza, dalla Catalogna e dalla Savoia. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it NEW YORK I MEDICI: RITRATTI E POLITICA, 1512-1570 The Metropolitan Museum of Art fino all’11 ottobre

Fra il 1512 e il 1570, Firenze visse una stagione tumultuosa della sua storia e, da repubblica governata da funzionari eletti, si trasformò in un ducato, retto dalla famiglia Medici. Figura chiave di questo passaggio fu Cosimo I, il quale, all’indomani della morte del

suo predecessore, Alessandro, divenne duca nel 1537. Per rafforzare l’immagine di uno Stato dinastico, il nuovo signore della città si serví della cultura anche in chiave politica, ingaggiando le migliori menti e i piú valenti artisti del tempo. Riflesso di questa temperie è la nuova mostra allestita dal Met, nella quale sono riunite opere di maestri del calibro di Raffaello, Jacopo Pontormo, Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini, solo per citare alcuni dei nomi piú illustri. Oltreoceano è giunto anche il pregevole ritratto della poetessa Laura Battiferri, un olio su tavola dipinto da Agnolo Bronzino fra il 1555 e il 1560, concesso in prestito dal Museo di Palazzo Vecchio e restaurato per l’occasione grazie al supporto di Friends of Florence. info www.metmuseum.org

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AGENDA DEL MESE TIVOLI ECCE HOMO: L’INCONTRO FRA IL DIVINO E L’UMANO PER UNA DIVERSA ANTROPOLOGIA Villa d’Este-Santuario di Ercole Vincitore fino al 17 ottobre

Ecce homo: sono le parole dette da Pilato nel Vangelo di Giovanni (XIX, 5) nel presentare alla folla Gesú, dopo averlo fatto flagellare e lasciato rivestire per dileggio con un manto rosso e una corona di spine. La scena, sommamente tragica, diviene una delle piú rappresentate della Passione, il cui racconto si snoda in mostra attraverso opere e prestiti illustri da prestigiose collezioni pubbliche e private. L’esposizione intende infatti accostarsi al significato profondo e universale dell’incarnazione e della morte di Cristo, consentendo di intrecciare a essa differenti percorsi antropologici e artistici, trasversali alle epoche e alle sensibilità culturali. Al centro della mostra si pongono la fragilità e la ricerca di senso, quali condizioni

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profondamente connaturate all’essere umano e al rapporto con il divino. Il ciclo statuario antico dei Niobidi, rinvenuti a Ciampino (Roma) e ora nelle collezioni dell’Istituto Villa Adriana e Villa d’Este, consente di esplorare il tema del dolore e del lutto, raccontando la strage dei figli di Niobe, uccisi per punire l’alterigia della madre. L’innocenza delle vittime e il trauma della perdita sono il cuore di un racconto che ha attraversato i secoli giungendo ai nostri giorni e interpellando la coscienza e la sensibilità dei moderni. All’opposto cronologico, Nicola Samorí (Forlí, 1977), rappresentato da Monitor, indaga i temi della vulnerabilità, della debolezza della carne, della rottura dell’integrità, lavorando su uno stratificato archivio iconografico, depositato per accumulo nella memoria collettiva e profondamente rielaborato dall’artista attraverso squarcianti intuizioni. info www.coopculture.it; e-mail: villaexhibitions@ beniculturali.it

politica. Dall’altra Masaccio, un giovanissimo artista che sta affermandosi faticosamente sulle piazze artistiche di Firenze e della Toscana». info https://operaduomo.siena.it ROMA

SIENA MASACCIO, MADONNA DEL SOLLETICO. L’EREDITÀ DEL CARDINAL ANTONIO CASINI, PRINCIPE SENESE DELLA CHIESA Cripta del Duomo fino al 2 novembre

Antonio Casini, vescovo di Siena tra il 1408 e il 1426, fu un principe della Chiesa al centro della politica religiosa del suo tempo, tanto da essere definito «l’altro papa» da un diplomatico. Insigne umanista e teologo, possedette numerose opere, tra cui la Madonna col Bambino, detta «del solletico», di Masaccio, tangibile segno del suo intenso legame con la Vergine Maria. Antonio Casini nacque, per via paterna, da una eminente famiglia di archiatri pontifici, mentre la madre era imparentata con la famiglia Colonna, la medesima di Martino V, il papa dal quale fu creato prete cardinale del titolo di San Marcello nel 1426. Come ha osservato Antonio Paolucci, «è ragionevole pensare che la Madonna del solletico sia stata dipinta in quella occasione o poco dopo. In quel dipinto si incontrano due destini. Da una parte il potente prelato, ricco e sagace protagonista del suo tempo, già vescovo di Siena che con la nomina cardinalizia tocca il culmine della sua fortuna

IL MONDO SALVERÀ LA BELLEZZA? PREVENZIONE E SICUREZZA PER LA TUTELA DEI BENI CULTURALI Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 4 novembre

In un momento cosí particolare e delicato, nel quale tutto il mondo si trova a convivere con una pandemia, cercando gli strumenti per vincere questa «guerra invisibile», è sembrato opportuno mettere in risalto come la bellezza, intesa come il meglio della produzione artistica e spirituale, sembri

essere l’unica arma utile a salvare le nostre coscienze e saziare il nostro innato desiderio di bello. In un certo modo oggi sembra necessario che la bellezza salvi il mondo. Ma siamo in grado, noi, di salvaguardare questo prezioso bene? E in che modo mettiamo in sicurezza questo immenso patrimonio, del quale siamo custodi, per poterlo tramandare nel futuro? settembre

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Rivisitando il concetto, ci chiediamo: il mondo salverà la bellezza? Da questa domanda è nata l’idea di realizzare questa mostra, che vuole essere non solo una esposizione di reperti recuperati dal Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri, da anni in prima linea nella difesa dei nostri tesori storico-artistici, ma anche la presentazione dei sistemi di prevenzione e salvaguardia adottati dai Musei e dai luoghi della cultura di appartenenza statale. La scelta del materiale esposto, con opere importanti attribuite ad artisti come Brueghel, all’ambito del Veronese e affascinanti reperti come un frammento dell’obelisco collocato a Montecitorio, frutto del lavoro svolto dal Comando TPC dell’Arma dei Carabinieri, rispecchia proprio quest’idea di percorso narrativo. info www.castelsantangelo. beniculturali.it SPOLETO INCANTO TARDOGOTICO. IL TRITTICO RICOMPOSTO DEL MAESTRO DELLA MADONNA STRAUS Museo Diocesano fino al 7 novembre

In occasione del restauro dei due sportelli laterali della Collezione Vaticana, raffiguranti due sante poco note – Paola Romana ed Eustochio –, madre e figlia che vissero all’epoca di san Girolamo (fine del IV secolo), se ne è approfondito lo studio e si è cercato di trovare lo scomparto centrale perduto: ora individuato al Museo Diocesano di Spoleto in una tavola frammentata, che raffigura una Madonna in trono col Bambino tra due angeli reggicortina. Sebbene mutilo della parte inferiore, il dipinto

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BRESCIA DANTE E NAPOLEONE Palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 15 dicembre

appare stilisticamente affine ed è stato riconosciuto come centro del trittico. L’opera ornava in origine l’altare della cappella di S. Maria presso il castello di Abeto di Preci, da cui l’appellativo di «Maria Santissima di Piè di Castello». Al fine di approfondire lo studio di un pittore di elevatissima qualità non abbastanza noto, è stata selezionata anche un’opera piú tarda da mettere a confronto, la Madonna in trono col Bambino tra due angeli, oggi custodita nel Museo di Arte Sacra e Religiosità Popolare «Beato Angelico» di Vicchio del Mugello. E proprio grazie a questo accostamento è possibile intuire le dimensioni originarie della Madonna di Spoleto, gravemente danneggiata nel terremoto del 1703. Due momenti del percorso del Maestro della Madonna Straus, attivo a Firenze tra il 1385 e il 1415, un pittore che, da un iniziale neogiottismo, lentamente si apre al nuovo stile internazionale, accogliendo in parte i modi di Lorenzo Monaco e di Gherardo Starnina, ma mantenendo sempre una sua originale arcaicità. info tel. 0577 286300; e-mail: duomospoleto@operalaboratori. com; www.duomospoleto.it

La mostra è compresa nel piú vasto programma di iniziative organizzate dall’Ateneo di Brescia-Accademia di Scienze Lettere e Arti con Fondazione Brescia Musei per celebrare due miti, a 700 anni dalla morte di Dante e, al contempo, a 200 da quella di Napoleone. Il progetto indaga valori, ideali e sentimenti che si addensarono intorno ai due personaggi, descrive un’epoca, i suoi protagonisti, il collezionismo, le tendenze, all’insegna di un comune denominatore: l’Europa. Per la mostra «Dante e Napoleone» sono state riunite oltre 80 opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e medaglie, provenienti da collezioni pubbliche e private, in dialogo

con il percorso permanente della casa-museo di Paolo Tosio. Opere che documentano l’interesse largamente diffuso per i due grandi personaggi: Alighieri in quanto riferimento delle aspirazioni civili e identitarie della nazione, della quale il poeta era considerato l’unificatore dal punto di vista linguistico; Bonaparte in quanto percepito come colui che, grazie alla costituzione della Repubblica prima e del Regno italico poi, aveva avviato

un processo di formazione della coscienza nazionale che diede vita al Risorgimento e all’unificazione della Penisola. info www.ateneo.brescia.it, www.bresciamusei.com AREZZO OMAGGIO AL SOMMO POETA. PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI Palazzo della Fraternita dei Laici fino a dicembre

La mostra propone documenti d’archivio e testi a stampa che inseriscono a pieno titolo la città di Arezzo nell’itinerario delle vicende dantesche. Il percorso, volutamente circoscritto, ma scientificamente documentato, è organizzato nelle sale del prestigioso e antico palazzo di Fraternita (XIV-XV secolo). L’esposizione si apre con una sezione che, attraverso documenti notarili e autorevoli fonti, illustra il legame di Dante e della sua famiglia con Arezzo: il soggiorno del poeta tra il 1303 e il 1304 e la presenza del fratello Francesco in città per la stipula di un contratto. Nel nucleo centrale appare egemone il ruolo svolto in quegli anni dall’antica Fraternita dei Laici, che vive allora il passaggio da istituzione religiosa e assistenziale a organismo laico riconosciuto dal Comune. Sono quindi esposti gli antichi Statuti, l’elenco dei confratelli iscritti, le riforme e i lasciti testamentari. È poi la volta dalle splendide edizioni a stampa della Commedia e volumi un tempo appartenuti alla stessa Fraternita che, riccamente illustrati, testimoniano dal XV al XVI secolo, l’enorme fortuna dell’opera dantesca. Tra queste, spicca la pregiata edizione della Commedia (1481), illustrata, secondo

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AGENDA DEL MESE l’attribuzione di Giorgio Vasari, da Sandro Botticelli. L’esposizione si conclude con il ritratto a stampa di Dante proveniente dalla Collezione Bartolini ed eseguito da Angelo Volpini nel XIX secolo (stampa di Carlo Lasinio), icona e simbolo della mostra: l’immagine si distingue da altre effigi del poeta in virtú del cartiglio esplicativo, che ne ricorda la genesi da una maschera originale del poeta. info e-mail: info@ fraternitadeilaici.it; www. fraternitadeilaici.it; Fb: Fraternita dei Laici FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 16 gennaio 2022

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi

torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione

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ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it

Appuntamenti MODENA, CARPI, SASSUOLO FESTIVALFILOSOFIA 2021 «LIBERTÀ» 17, 18, 19 settembre

Dedicata al tema della libertà, la ventunesima edizione del Festivalfilosofia prevede, come sempre, lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, attività per ragazzi e cene

filosofiche. Gli appuntamenti saranno oltre 150 e tutti gratuiti. In particolare, in 45 lezioni magistrali saranno affrontate le varie declinazioni di questo tema: discutere i modelli della libertà individuale e partecipativa nel quadro delle trasformazioni dei sistemi politici, sul crinale tra libertà e sicurezza, che comporta anche una rivoluzione nella soggettività e nella vita privata. All’evoluzione delle neuroscienze ci si rivolgerà per domandare quali siano i margini della libertà entro i processi biologici che costituiscono la mente. Piú in

generale, si interrogherà la filosofia rispetto a un’esperienza tanto essenziale, quanto enigmatica, come quella del cercare di essere liberi. La rassegna si terrà adottando tutti i protocolli e i dispositivi previsti dall’emergenza Covid-19, per garantire la massima sicurezza di pubblico e operatori. La partecipazione alle lezioni sarà gratuita e avverrà tramite sistemi di ingresso regolato, nel pieno rispetto delle linee guida e delle normative che saranno in vigore. Informazioni sulle modalità di accesso alle lezioni, aggiornate in base all’evoluzione del quadro dei protocolli, saranno sempre disponibili sul sito del festival. info www.festivalfilosofia.it PISTOIA DIALOGHI SULL’UOMO XII EDIZIONE «ALTRI ORIZZONTI: CAMMINARE, CONOSCERE, SCOPRIRE» 24-26 settembre

I Dialoghi riprendono il loro cammino di conoscenza e di approfondimento sui temi di antropologia del

contemporaneo, finalmente in presenza. Il tema sarà “Altri orizzonti: camminare, conoscere, scoprire”. È stato questo anelito di ricerca a caratterizzare l’intera evoluzione del genere umano. Dalle esplorazioni della terra e dello spazio, che hanno consentito di creare nuovi habitat e di sviluppare nuove conoscenze, all’esigenza di trascendere la quotidianità. Negli incontri si avvicenderanno studiosi di diverse forme di spiritualità, tanto religiosa quanto laica, al

fianco di scienziati che esplorano la materia, alla ricerca di una chiave di comprensione della vita, di viaggiatori ed esploratori che tentano di superare i limiti e i confini, cosí come di artisti e studiosi d’arte, per comprendere cosa li spinge a creare nuove realtà. Il festival richiama, nella scelta del tema, anche i festeggiamenti dell’anno iacobeo e l’apertura della Porta Santa a Pistoia in onore della reliquia di san Jacopo, conservata nel Duomo da nove secoli, che collega il percorso di Santiago di Compostella a Pistoia stessa. Un festival che avrà dunque come fil rouge il cammino verso nuovi e altri orizzonti, il cammino dei pellegrini di tutto il mondo e di molte religioni, quello dei migranti che fuggono dalla povertà e dalla morte, quello avventuroso degli esploratori, quello di ricerca di scienziati, artisti e filosofi. info www.dialoghisulluomo.it PAVIA PROGETTO DANTE Castello Visconteo e Broletto fino al 22 ottobre

Pavia rende omaggio al sommo poeta con un ricco calendario di iniziative, fra cui un ciclo di incontri, organizzato con la consulenza del Comitato di Pavia della Società Dante Alighieri, che mira ad approfondire la figura dell’autore della Divina Commedia e a scoprire le ragioni del suo successo, immutato dopo 700 anni. 9 settembre, ore 21,00, Broletto: «DIVINARMONIA. Il viaggio di Dante nella conoscenza», con Vincenzo Zitello (arpista) e Davide Ferrari (attore). info tel. 0382 399343; e-mail: cultura@comune.pv.it; www.vivipavia.it settembre

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

VIAGGIO NELLE TERRE LEGGENDARIE Geografie immaginarie, dalla mitica Atlantide al favoloso Eldorado

Ricostruzione immaginaria di una città antidiluviana, ispirata dai brani del Timeo e del Crizia in cui Platone descrive la perduta Atlantide.

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a perduta Atlantide è la piú famosa, ma non certo la sola: sono infatti innumerevoli le terre immaginarie la cui storia leggendaria è nata e si è alimentata nel corso dei secoli. Vicende di volta in volta associate a personaggi reali, come nel caso del filosofo Platone – primo «testimone» del continente scomparso –, oppure fantastici, quale il misterioso Prete Gianni, potente re delle «tre Indie». Mondi che hanno composto una geografia immaginaria, ma non troppo, se pensiamo ai navigatori partiti alla loro ricerca al tempo delle grandi esplorazioni o ai cartografi che non mancarono di segnalarne la presenza nelle loro mappe. E poi universi fiabeschi, culle di utopie a lungo

vagheggiate, come il Paese di Cuccagna, che per il popolino del Medioevo divenne simbolo della piú ambita delle aspirazioni, cioè quella di vivere senza dover faticare, ma, soprattutto, avendo sempre qualcosa da mettere sotto i denti… In altri casi ancora, furono luoghi piú che tangibili ad assumere i contorni della leggenda, come accadde alla rocca di Alamut, passata alla storia per essere stata la base della Setta degli Assassini, le cui imprese, nelle cronache del tempo, si colorirono di toni mirabolanti. Il nuovo Dossier di «Medioevo» tratteggia dunque un panorama variegato e vivace, riproponendo il fascino senza tempo di saghe sospese fra mito e realtà.

GLI ARGOMENTI

MEDDosIOsierEVO

A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

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MEDIOEVO DOSSIER

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GEOGRAFIE IMMAGINARIE, DALLA MITICA ATLANTIDE AL FAVOLOSO ELDORADO

VIAGGIO NELLE TERR E

Rivista Bimestrale

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N°45 Luglio/Agosto 2021

€ 7,90

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VIAGGIO NELLE TERRE LEGGENDARIE

IN EDICOLA IL 17 LUGLIO 2021

LEGGENDARIE

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• Atlantide • L’ultima Thule • I luoghi di re Artú • L’isola Martana • Il Purgatorio di San Patrizio • Alamut • L’Oriente del Prete Gianni • Il Paese di Cuccagna • Shangri-La • Felik e Rosengarten • Eldorado MEDIOEVO

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quarta crociata

La vera fine di

Costantinopoli incontro con Marina Montesano, a cura di Roberto Roveda

Un attacco premeditato, il saccheggio selvaggio e una parziale distruzione della metropoli sul Bosforo. Fu questa la vera caduta della capitale d’Oriente, dovuta non alla spada dell’Islam, ma alle armi dei Latini di Occidente. Ce ne parla la storica Marina Montesano

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ulla quarta crociata si dibatte da oltre ottocento anni, da quel fatidico 1204 in cui la spedizione promossa da papa Innocenzo III, e che puntava ufficialmente a Gerusalemme, finí per prendere la Nuova Roma, greca e cristiana. La storiografia si è interrogata sull’episodio con esiti differenti. I bizantinisti hanno generalmente considerato la conquista del 1204 come un atto deliberato ai danni di Costantinopoli, mentre gli studiosi della crociata sono stati piú cauti, fino a sposare il punto di vista dei protagonisti: come il cronista Goffredo di Villehardouin, il quale presenta una concatenazione di incidenti casuali che avrebbero condotto al sacco della città. Nel saggio Dio lo volle? (Salerno editrice, 2020), Marina Montesano ha proposto un approccio piú complesso ai fatti del 1204, un approccio che, alla luce delle numerose fonti dell’epoca, restituisce un quadro preciso della vicenda, non esita a chiamare in causa volontà e comportamenti dei tanti protagonisti della quarta crociata e identifica nel sacco di Costantinopoli per mano dei Latini la vera caduta di Costantinopoli. Per meglio com-

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prendere il quadro storico in cui si inseriscono i fatti raccontati nel suo volume, abbiamo dunque incontrato la studiosa. rofessoressa Montesano, qual era P lo stato dei rapporti tra Occidente e impero bizantino all’inizio del XIII secolo? «Dalla fine del XII secolo, i rapporti fra Occidente e impero bizantino erano peggiorati. Nell’Adriatico si era creata un’area di scontro: fra il 1173 e il 1174 i Veneziani contribuirono, al fianco delle truppe dell’imperatore Federico I Barbarossa, all’assedio della filobizantina Ancona, mentre la diplomazia veneta spingeva i Serbi contro le frontiere dell’impero greco. Inoltre, la guerra tra Genova e Pisa creava tensioni anche a Costantinopoli. In gioco vi era soprattutto la questione del predominio sulle isole del Tirreno. Il basileus Michele Comneno rendeva difficile la vita dei coloni pisani a Costantinopoli, vessandoli dal punto di vista fiscale, e finalmente, nel 1167, privandoli del quartiere. Man mano che Pisa cadeva in disgrazia, il sovrano bizantino sentiva crescere le proprie buone di-

In alto Marina Montesano. Professoressa di storia medievale all’Università di Messina e fellow di Villa I Tatti-The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, si occupa di storia culturale e, in particolare, di stregoneria, di studi di genere e dei rapporti fra Occidente e Oriente. Fra le pubblicazioni piú recenti, Classical Culture and Witchcraft in Medieval and Renaissance Italy (Palgrave, Londra 2018) e Ai margini del Medioevo. Storia culturale dell’alterità (Carocci, Roma 2021). Nella pagina accanto la richiesta d’aiuto di Alessio Comneno, giunto a Zara, al doge Enrico Dandolo, in un dipinto di Andrea Vicentino. 1578. Venezia, Palazzo Ducale.

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quarta crociata sposizioni verso i Genovesi, che proprio allora cominciavano a farsi largo nella capitale bizantina. Tuttavia, l’accordo che nel 1164 l’ambasciatore genovese riuscí a sottoscrivere con il basileus non piacque affatto a Genova, perché poneva condizioni troppo gravose contro il Barbarossa e offriva insoddisfacenti vantaggi negli stanziamenti. Solo mediante continue pressioni e concessioni, il basileus, nel luglioagosto del 1170, poté ottenere che il comune genovese ratificasse il trattato; nello stesso periodo, approfittando di un loro breve screzio con il Barbarossa, Manuele era riuscito anche a rappacificarsi con i Pisani. Questa nuova situazione non poteva che acuire le tensioni già esistenti con i Veneziani. I cronisti greci sostengono che questi ultimi, nel maggio 1170, assalirono il quartiere genovese a Costantinopoli e, distrutti gli averi dei suoi occupanti, si rifiutarono di rifondere loro i danni; il basileus dovette pensare con calma alla mossa successiva, perché l’ordine di imprigionare i cittadini della Serenissima presenti nei territori bizantini e confiscarne i beni partí solo nel marzo del 1171. Alcuni di essi riuscirono a fuggire e a riparare nelle altre colonie veneziane e immediata fu la reazione della madrepatria, che si tradusse nell’organizzazione di una grande spedizione contro Manuele. Alla fine di settembre, la flotta poteva salpare, ma l’operazione si risolse in un autentico fallimento. Il nuovo doge Sebastiano Ziani preferí correggere leggermente l’atteggiamento antibizantino della politica veneziana e, pur agendo anch’egli contro i Greci, fece intendere che esisteva ancora una possibilità di tornare ai rapporti amichevoli d’un tempo». questo serví ad allentare la tensioE ne tra Latini e Greci? «Nei circa dieci anni che da allora trascorsero fino alla morte di Ma-

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In alto miniatura raffigurante l’imperatore bizantino Alessio I Comneno insieme a Cristo. XIII sec. A destra, sulle due pagine miniatura con Leone II d’Armenia al cospetto di Andronico I Comneno, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

nuele, nel 1180, si ebbe un lustro di rinnovato predominio latino a Costantinopoli; il basileus sapeva di aver bisogno di mercanti latini non solo dal punto di vista economico, ma anche politico, in quanto doveva impedire l’eccessivo avvicinamento delle città marinare all’imperatore tedesco, che stava ormai risolvendo le sue controversie con il papato, con i comuni e con i Normanni, e c’era quindi pericolo di vederlo volgersi, libero da ogni altra preoccupazione, contro Bisanzio. D’altra parte, la famiglia imperiale stessa era piena di Franchi: verso il 1158, la basilissa Irene (cioè la principessa tedesca Berta di Sulzbach) era morta, e il basileus si era risposato con Maria d’Antiochia, figlia di Raimondo di Poitiers e di quella Costanza i cui i nonni erano stati Boemondo di

Taranto e Costanza, figlia del re di Francia Filippo I. Tuttavia, nell’intera Romània, ma soprattutto a Costantinopoli, si era creata una larghissima opinione pubblica nazionalista, che abbracciava i piú disparati sentimenti e interessi, raccogliendo membri di tutte le classi sociali, eccetto i nobili vicino a Manuele. I funzionari di palazzo e gli alti ufficiali dell’esercito vedevano la loro potenza e il loro prestigio compromessi da un gran numero di dignitari dello stesso rango giunti al seguito dei principi e delle principesse franche; l’alto clero ortodosso vedeva minacciata la causa della Chiesa greca, per la cui difesa aveva operato uno scisma che non intendeva affatto ricomporre a rinnovato vantaggio del vescovo di Roma; i borghesi e i commercianti mal sopsettembre

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Bisanzio

Gli ultimi fuochi All’alba del XII secolo l’impero d’Oriente si presentava molto indebolito. Alla fine del secolo precedente, le lotte tra l’aristocrazia militare e terriera e quella burocratica della capitale provocarono gravi sconfitte all’esterno. I Bizantini persero definitivamente i domini in Italia e, dopo la sconfitta di Romano IV a Manzikert, videro l’insediamento dei Turchi selgiuchidi in Anatolia, nel medesimo anno 1071. A salvare l’impero fu la reazione dell’aristocrazia militare, che portò al trono Alessio I Comneno (1081-1118), fondatore della dinastia dei Comneni (1081-1185), che fece vivere a Bisanzio i suoi ultimi splendori. Grazie alle sue doti di comandante militare e a un’abile attività diplomatica, Alessio I salvò Bisanzio dai Normanni di Puglia, da nuovi nemici calati dal nord (Peceneghi e Comani), dai Selgiuchidi dell’Anatolia. Durante la prima crociata, l’impero d’Oriente riuscí a recuperare alcuni territori, ma al prezzo di una difficile convivenza con gli Stati latini

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formatisi in Oriente, a cui si aggiunse il peso, molto oneroso, della progressiva avanzata commerciale delle repubbliche marinare italiane nell’impero. I successori di Alessio I, Giovanni II (1118-43) e Manuele I (1143-80), dovettero fronteggiare la crescente invadenza dei mercanti latini e le difficoltà economiche in cui l’impero versava, due fattori che impedirono di fatto ai sovrani di Bisanzio una efficace politica antiturca. Manuele I vide crollare nella battaglia di Miriocefalo (1176) la speranza di sottrarre tutta l’Anatolia ai Selgiuchidi. Dopo il breve regno di Alessio II (1180-83), Andronico I (1183-85) ritirò tutti i privilegi ai mercanti italiani, odiati profondamente dai Greci, e cercò di risollevare lo Stato bizantino con una oculata amministrazione. Venne però deposto e ucciso nel corso di alcuni disordini fomentati dai Latini. Fu la fine dei Comneni a cui fece seguito la dinastia degli Angeli (1185-1204), funestata da continue lotte intestine.

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quarta crociata Mappa di Costantinopoli, da un’edizione del Liber Insularum Archipelagi di Cristoforo Buondelmonti. 1490 circa. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

portavano i sempre crescenti privilegi accordati ai mercanti venuti dall’ovest, dalla cui concorrenza rischiavano d’essere rovinati; i monaci e il basso popolo, infine, odiavano i Latini e i Franchi, orgogliosi ed eretici, d’un odio vecchio di generazioni e rinfocolato dallo scisma religioso del 1054». hi fu il motore della spedizione culC minata con la conquista di Costantinopoli del 1204? «Fu il conte Tebaldo III di Champagne, che avrebbe dovuto prenderne la guida. Nel mese di novembre del 1199, nel suo castello di Écrysur-Aisne, ospitò un torneo, al quale intervennero molti nobili del Nord-Est della Francia. Tebaldo era nipote del re di Francia Filippo Augusto: sua madre, infatti, era Maria di Francia, scrittrice e mecenate, figlia di Luigi VII e della sua prima moglie Eleonora d’Aquitania. Suo padre era invece Enrico di Blois, conte di Champagne e di Brie. In quell’occasione, il giorno 28, Tebaldo e molti altri cavalieri fecero voto di pellegrinaggio per recarsi in crociata. La famiglia del giovane conte, d’altra parte, poteva vantare altri membri che avevano seguito lo stesso percorso: suo fratello Enrico era stato re di Gerusalemme, sebbene per pochi anni, poiché aveva sposato la regina Isabella di Lusignano (erano per lei le terze nozze) nel 1192, dopo aver preso parte nel 1190 alla terza crociata. Nel 1197, era però morto, cadendo accidentalmente da una finestra ed era normale che il giovane fratello volesse seguirne le tracce: era stato lui a dare il via e, dinnanzi al suo giuramento, gli altri giovani cavalieri avevano deciso di seguirne l’esempio. Questo, almeno, è il resoconto dei cronisti: Goffredo di

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Villehardouin, il principale cronista della spedizione insieme a Robert de Clari, era presente e sarebbe divenuto uno fra i principali testimoni della crociata. Certamente erano presenti anche gli ecclesiastici, ma l’iniziativa sembra esser stata di Tebaldo: ci si può chiedere se il torneo non fosse stato convocato proprio per quello scopo. Tuttavia, Tebaldo morí improvvisamente nel 1201 e si dovette trovare un sostituto individuato, in Bonifacio di Monferrato. A lui, ai Veneziani e soprattutto a papa Innocenzo III, si deve guardare per comprendere le ragioni profonde della spedizione». Quale fu il ruolo di Innocenzo III?

«Il ponteficie era ben deciso a orientare le sorti della spedizione, in accordo con il programma enunciato nella bolla Post miserabile, con la quale si affermava la centralizzazione della propaganda, che rispondeva solo alla sede apostolica. Nel 1199 il papa aveva poi promulgato la Graves orientalis terrae, con cui imponeva alla Chiesa una tassa sul reddito, ma nella quale si invitavano anche i laici a raccogliere il denaro necessario a finanziare la spedizione. Per ogni spedizione, il pontefice definiva i privilegi spirituali e temporali dei quali i crociati avrebbero goduto e stabiliva i particolari relativi alla sua predicazione, alla raccolta dei fondi necessari a settembre

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Un’imbarcazione crociata sotto le mura di Costantinopoli nel 1203, particolare di una miniatura da un manoscritto francese del 1300 circa.

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quarta crociata A sinistra mosaico raffigurante Enrico Dandolo che guida l’assalto di Zara. 1231 circa. Ravenna, basilica di S. Giovanni Evangelista. Nella pagina accanto crocifisso ligneo. XIII sec. Zara (Croazia), chiesa dei Francescani. In basso mosaico raffigurante un marinaio che suona un corno dalla coffa di una nave, in segno di allarme. 1213 circa. Ravenna, basilica di S. Giovanni Evangelista. Potrebbe trattarsi di un episodio accaduto il 1° gennaio 1204, quando Alessio V Ducas «Murzuflo», alla rada del Corno d’Oro, tentò di dar fuoco alla flotta nemica con navi incendiarie che i Veneziani riuscirono a neutralizzare, grazie alla vigilanza dei propri uomini, rimorchiandole al largo del Bosforo.

finanziare le spese, alle “decime” e alle elemosine che avrebbero contribuito a questi finanziamenti. Nessun iter ultramarinum sarebbe stato lecito se non bandito attraverso un documento ufficiale pontificio e garantito dal voto religioso dei partenti. Nasceva cosí, gradualmente, un’organizzazione giuridica della crociata, il cui nome veniva assunto dal distintivo (una croce cucita o ricamata sugli abiti), indossato da chi aveva formulato il voto di partire e combattere per il Santo Sepolcro». a dove nacquero queste scelte del D pontefice? «In generale, due grandi preoccupazioni turbavano i suoi sonni: che la cristianità fosse divisa in due obbedienze, la latina e la greca, e Gerusalemme venisse riconquistata dai musulmani; che troppe “eresie” circolassero per l’Europa, mentre la Chiesa era incapace di dar loro una risposta adeguata; la crociata contro i catari, a partire dal 1209, avrebbe per cosí dire “risolto” una parte del problema. Per questo egli scrisse ripetutamente all’imperatore di Bisanzio, proponendo la conciliazione tra Latini e Greci secondo un piano già accarezzato da Manuele Comneno. Tuttavia, lo scoglio in questa direzione era il fatto che il papa non aveva alcuna intenzione di rinunziare al primato della Chiesa di Roma, che i Greci non intendevano accettare. La conquista del 1204 avrebbe comportato la fine dello scisma fra Chiesa orientale e occidentale che si era aperto nel 1054: Costantinopoli si sarebbe dovuta sottomettere all’autorità di Roma, una soluzione a lungo cercata e fortemente voluta dal papato». uale fu il ruolo di Venezia e, in parQ ticolare, del doge Enrico Dandolo? «Il doge, all’epoca anziano e semicieco, prese la croce e accompagnò i suoi uomini e gli altri crociati nella spedizione, a patto che questi, du-

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li, in particolare, venivano esclusi i loro odiati avversari genovesi».

rante l’attraversamento dell’Adriatico, s’impegnassero nell’intimidire le città della costa dalmata, sottomesse riottosamente a Venezia, e aiutassero a riprendere Zara, che si era ribellata pochi anni prima e si era data al re Emerico d’Ungheria. Le mire ungheresi nella regione erano motivo di preoccupazione per Venezia, ma Emerico aveva a sua volta preso la croce: un attacco contro le sue terre significava infrangere uno dei privilegi crociati, ossia la protezione accordata dalla Chiesa, pena la scomunica. La tradizione veneziana attribuisce ai disordini avvenuti a Costanti-

uale fu il ruolo di Bonifacio di MonQ ferrato, guida dei pellegrini-crociati? «Bonifacio I di Monferrato, che aveva all’epoca una cinquantina d’anni e una grande esperienza militare, proveniva da una famiglia che aveva rapporti stretti con il Vicino Oriente: suo nipote Baldovino e suo fratello Corrado avevano cinto la corona di re di Gerusalemme, mentre sua nipote Maria, figlia di Corrado e Isabella I, era erede al trono. C’erano tuttavia problemi che riguardavano il rapporto con

nopoli nel 1171 la cecità di Enrico Dandolo, ma si tratta di una notizia costruita ad arte al fine di trasformare il sacco di Costantinopoli del 1204 in un giusto risarcimento per il male fatto ai Veneziani. In generale, con la presa di Costantinopoli, Venezia vedeva aumentare esponenzialmente il suo potere nel Mediterraneo orientale; e fu probabilmente questa la ragione per cui il doge preferí non prendere direttamente in mano il governo della città, dove un accordo fra le varie parti portò sul trono uno dei capi crociati, Baldovino conte di Fiandra. Le terre che erano appartenute a Bisanzio venivano cosí divise: per un terzo andavano a Baldovino; per un terzo spartite fra gli altri capi crociati; infine, la parte restante ai Veneziani, che si appropriavano delle isole greche e degli scali navali piú importanti, assicurandosi cosí il monopolio dei traffici orientali dai qua-

Innocenzo III, dal momento che, come tutti i marchesi del Monferrato, Bonifacio era alleato dell’impero e, in particolare, aveva avuto stretti rapporti con Enrico VI, figlio di Federico I Barbarossa, ed era alleato di Filippo di Svevia, fratello di Enrico, in Germania pretendente alla corona contro Ottone di Braunschweig duca di Sassonia, figlio di Enrico il Leone (ch’era stato cugino e rivale del Barbarossa). Innocenzo aveva appoggiato Ottone al fine di indebolire il potere svevo in Italia, e dunque doveva avere piú di qualche remora verso la scelta del nuovo condottiero. Tanto piú che, prima di tornare nel Monferrato, Bonifacio fece una deviazione in Germania e s’incontrò ad Hagenau con Filippo di Svevia, con cui passò il Natale. Presso di lui aveva trovato il cognato, il principe bizantino Alessio, “profugo” da Costantinopoli».

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quarta crociata innocenzo iii

Un riformatore dal pugno di ferro Figlio di Transmondo, conte di Segni, Innocenzo III (al secolo, Lotario), nacque nel 1260. Studiò nelle Università di Parigi e Bologna e divenne cardinale nel 1190. Fu eletto al soglio di Pietro nel 1198, alla morte di Celestino III, e avviò una politica di riforma morale e disciplinare della Chiesa. A Roma e nello Stato Pontificio ripristinò l’autorità del papa e si affermò come grande sostenitore della teocrazia pontificia, nel solco di Gregorio VII. In quest’ottica, il papato si pose al di sopra di qualsiasi autorità politica e Innocenzo agí per contrastare ogni forma di dissenso interno ed esterno alla Chiesa. Oltre alla quarta crociata, promosse la cristianizzazione nei Paesi baltici e la riscossa degli Stati cristiani di Spagna. Contrastò con forza la diffusione dei movimenti ereticali, avviando una dura repressione contro i valdesi, i catari e, in particolare, gli albigesi (1208) contro i quali bandí una vera e propria crociata. Nel 1215 convocò a Roma il IV Concilio Lateranense, nel corso del quale emanò vari canoni disciplinari e proibí la costituzione di nuove regole religiose. All’interno della Chiesa la sua opera fu decisiva, in quanto instaurò il pieno accentramento monarchico e burocratico dell’istituzione ecclesiastica e avviò una profonda riforma dei costumi del clero. Riformò, infatti, la Curia romana, curò la formazione dei vescovi e ne rafforzò l’autorità, promosse il rinnovamento dei monasteri, favorí il sorgere di nuovi Ordini religiosi dediti alla cura dei poveri e dei malati e sostenne l’affermazione dell’Ordine dei frati predicatori (domenicani) e dell’Ordine dei frati minori (francescani). Dal punto di vista politico intervenne nelle vicende dei maggiori Stati europei. In particolare, favorí in Germania l’ascesa al trono imperiale di Ottone di Brunswick, ma in seguito lo scomunicò, preferendo al suo posto Federico II di Svevia, figlio del defunto imperatore Enrico VI. a conquista del 1204 fu il frutto di L un complotto contro Costantinopoli oppure il risultato di una concatenazione accidentale di eventi? «La tesi della concatenazione accidentale è stata sposata da una parte della storiografia, ma a me pare poco credibile. Per comprenderne le ragioni, dopo aver parlato dei protagonisti e dei loro interessi, seguiamo gli eventi. Il piano prevedeva la partenza da Venezia e un’azione militare contro l’Egitto, in modo da poter negoziare la liberazione di Gerusalemme; dopo lunghe trattative, nella prima metà del 1201 la Serenissima si impegnò ad allestire le navi per oltre 30 000 crociati, fra i quali 4500 cavalieri, il resto scudieri e fanti. L’allestimento della flotta richiedeva dunque un grande sforzo da

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parte della città. Nel frattempo, nel maggio 1201, il conte Tibaldo, che aveva dato inizio all’impresa e avrebbe dovuto guidarla, morí. Al suo posto venne scelto il marchese Bonifacio I di Monferrato. Nel marzo 1202 i crociati si ritrovarono a Venezia per la partenza. Erano molti di meno rispetto al previsto, sembra 12 000 circa. Altri gruppi avevano infatti preferito seguire rotte differenti, ed è comunque probabile che, alla fine, gli appelli alla crociata avessero avuto minor presa sul mondo cavalleresco europeo. Tuttavia, a Venezia le navi e i marinai erano pronti. La richiesta dei Veneziani per i costi dell’allestimento e della spedizione ammontava a 85 000 marchi d’argento, che i crociati erano ben lontani dal poter paga-

re; ne offrirono 35 000, ai quali ne aggiunsero poi, dopo trattative e minacce, altri 14 000. Ma a quel punto erano ridotti praticamente in miseria, e comunque le risorse non erano ancora sufficienti». Che cosa accadde a questo punto? «Si giunse a un accordo inedito: la presa di Zara. A quel punto, ogni parte in causa sembrò prendere decisioni di comodo. Bonifacio I si sfilò dalla presa di Zara per evitare la scomunica, e cosí fecero altri; ma la gran parte dei cavalieri accettò il diktat di Venezia e, nel novembre 1202, pose l’assedio alla città, che capitolò dopo pochi giorni. Il comportamento degli aggressori fu tutt’altro che moderato: scoppiarono risse per il bottino e i Veneziani rasero al suolo le mura cittadine. Pietro Capuasettembre

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A sinistra affresco che ritrae Innocenzo III. XIII sec. Subiaco, monastero del Sacro Speco, Chiesa Inferiore. Il cardinale Lotario dei conti di Segni fu eletto papa nel 1198, alla morte di Celestino III. In basso Il doge Enrico Dandolo nonagenario e i capitani dei Crociati giurano in S. Marco i patti, olio su tela al quale lavorarono Carlo Saraceni e Jean Le Clerc, ma portato a termine dal solo artista francese per la morte del collega italiano. 1621 circa. Venezia, Palazzo Ducale.

no aveva dato il suo appoggio alla presa della città, probabilmente per evitare che l’impresa crociata finisse sul nascere, ma tornò a Roma prima che essa avvenisse. Da parte sua, Innocenzo III sconfessò l’operato del suo cardinale e scomunicò tutti coloro che avevano partecipato alla presa, ma poco dopo tolse la scomunica ai crociati, lasciandola solo ai Veneziani. Se non un gioco delle parti, certamente un atteggiamento molto prudente». he cosa succedeva, intanto, a CoC stantinopoli? «A Bisanzio, una lotta sanguinosa per la corona dilaniava la dinastia regnante degli Angeli. Il basileus Isacco II era stato accecato e detronizzato dal fratello Alessio III, che aveva preso il potere. Il figlio di

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nocenzo III protestò senza troppa veemenza, e il 23 giugno 1203 la flotta si presentò dinanzi al porto di Costantinopoli». L’assedio fu quindi inevitabile? «Per i Veneziani, gli interessi in gioco erano enormi: impadronirsi della città significava garantirsi l’ingresso nel Mar Nero, dove vi erano enormi possibilità industriali e commerciali, legate soprattutto all’estrazione dell’allume, essenziale nelle manifatture tessili. Dopo ripetuti attacchi e dopo che i crociati ebbero appiccato il fuoco a numerosi edifici, Alessio III abbandonò la città. A quel punto, i vertici dell’esercito preferirono riportare al potere Isacco II, cosí da arginare la minaccia dei Latini. Alessio IV venne associato al trono, ma le possibilità di ricompensare i Latini come promesso erano al di là delle sue capacità economiche. Ordinò quindi che fossero prelevati i materiali preziosi che si potevano trovare in città, inclusi gli oggetti religiosi, affinché fossero fusi o venduti; un’azione che gli costò l’odio dei suoi sudditi, e che comunque era

Isacco, Alessio IV, era fuggito verso l’Europa, dove cercava alleati per riconquistare il trono. Presso la corte di Filippo di Svevia, fratello del Barbarossa e pretendente al trono di Germania, il principe incontrò il marchese Bonifacio, che lí si era recato mentre Zara cadeva. In cambio di aiuto, Alessio IV promise al marchese del Monferrato il pagamento del debito contratto dai crociati con i Veneziani, oltre a molti altri compensi. Quando Bonifacio raggiunse la spedizione crociata, Alessio lo seguí per patteggiare direttamente anche con i Veneziani. I propositi erano ormai chiari: dopo Zara, le navi si sarebbero dirette verso Bisanzio, lasciando cosí da parte la guerra per Gerusalemme. Qualcuno fra i crociati abbandonò l’impresa, In-

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quarta crociata

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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L’assalto di Costantinopoli, dipinto di Palma il Giovane (al secolo Jacopo Negretti). 1587 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio. Sede delle assemblee della piú importante magistratura della Repubblica, la sala era ornata da opere che celebrano gli episodi principali della storia della Serenissima, le gesta dei suoi cittadini piú valorosi e gli episodi bellici di maggiore rilievo.

ancora ben lontana da poter soddisfare le richieste dei Veneziani e dei crociati. Moti di rivolta scossero la città, culminando nell’uccisione di alcuni Latini. Approfittando della situazione, crociati e Veneziani presero d’assalto una moschea, che venne difesa strenuamente da cristiani greci e musulmani insieme; a quel punto i Latini appiccarono incendi che portarono a distruzioni immani: si calcola che circa un quinto della popolazione di Costantinopoli rimase senza casa. Ormai privo di ogni appoggio, Alessio IV fu strangolato per ordine di un nobile, Alexios Doukas, che si fece poi nominare imperatore. A lui, dunque, i Latini chiesero il pagamento del debito e, dinanzi al rifiuto, dettero l’assalto definitivo a Costantinopoli. Il 12 aprile 1204 riuscirono a penetrare in città e per tre giorni massacrarono, distrussero e saccheggiarono. Il clero latino non fece nulla per fermarli». uella del 1204 fu quindi una croQ ciata contro Bisanzio? «Non si può parlare propriamente di una crociata contro Bisanzio, bensí di una crociata volutamente deviata per mettere le mani sulla città e sull’impero. Il problema di fondo che la quarta crociata pone agli storici è la sua singolarità: una spedizione partita con l’ormai consueto scopo di riprendere Gerusalemme o almeno rafforzare la presenza latina in Terra Santa, si conclude invece con la conquista di Costantinopoli e la fondazione di un “impero latino d’Oriente”. I contemporanei sentirono a lungo il bisogno di giustificare quanto era succes-

Da leggere Marina Montesano, Dio lo volle? 1204: la vera caduta di Costantinopoli, Salerno Editrice, Roma

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so. Bisanzio restava all’epoca non soltanto un impero cristiano, ma anche l’erede diretto della tradizione romano-imperiale, anche se l’espansione latina a Oriente aveva innescato un processo nuovo; il mondo latino aveva acquisito ricchezze e potenza che gli consentivano di confrontarsi con Bizantini e Arabi, vecchi dominatori del Mediterraneo; si era dotato di un’istituzione imperiale che, da Carlo Magno in poi, si era costruita una autocoscienza nuova; per non parlare del papato, che ormai si considerava autorità superiore a tutte le altre del mondo cristiano. Furono queste forze congiunte ad abbattere l’impero». S ul lungo periodo, quali furono le conseguenze degli eventi del 1204? «L’impero latino entrò in crisi pochi decenni piú tardi e, nel 1261, un’alleanza fra Greci e Genovesi lo rovesciò. In conseguenza dell’appoggio fornito, Genova guadagnò nel Levante una posizione di preminenza; ma anche per Venezia i vantaggi non si risolsero nel breve dominio dell’impero latino; dopo l’iniziale rovescio, molti Veneziani tornarono a colonizzare Costantinopoli e il Mar Nero, sia pure in un regime concorrenziale con i nemici genovesi. Bisanzio, tuttavia, era ormai duramente provata, e nei due secoli successivi sarebbe sopravvissuta solo come economia dominata dai mercanti stranieri, veneziani e genovesi in testa, sviluppando tuttavia un fiero risentimento verso i cristiani latini e la Chiesa di Roma. Costantinopoli, in particolare, aveva sofferto delle spoliazioni e delle distruzioni subite e soltanto con la conquista ottomana del 1453 sarebbe tornata centro pulsante di un vero impero, anche se con una religione differente, ma in un contesto multiconfessionale, a differenza di quello auspicato dai cristiani che l’avevano conquistata nel 1204».

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donne guerriere/2

Una barcaiola di nome Olga di Federico Canaccini


Mentre in Occidente l’impero carolingio iniziava il suo rapido declino, nelle fredde terre slave prendeva le mosse un lento processo di aggregazione politica, da cui, ben presto, sarebbe nata la Russia. In quegli anni emerge la figura di una donna, moglie e vedova del signore di Kiev: una principessa implacabile con gli uccisori del marito, ma anche abile diplomatica e perfino... santa!

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ella metà del IX secolo l’area del Mar Baltico fu travolta da un’ondata migratoria di popolazioni scandinave, i Variaghi. Nella zona della Rus’, attorno al lago di Ladoga, i pirati-mercanti (questo è il significato del termine norreno Varingr) si stabilirono presso Novgorod, sotto la guida del principe Riurijk e poi, piú a sud, nella città di Kiev, situata sull’alta riva destra del fiume Dnepr, in una posizione strategica da cui si controllavano le vie fluviali che connettevano il Mar Baltico col Mar Nero, la cosiddetta «Via dai Variaghi ai Greci», in quanto giungeva sino ai confini dell’impero bizantino. Al principe Riurijk († 879) – le cui vicende sono parzialmente leggendarie – si deve la fondazione del primo regno di Rus’: con lui ebbe inizio la cosiddetta dinastia dei principi Riurikidi, signori scandinavi che, nel tempo, si divisero in vari rami, unificando le tribú slave orientali, oppure dando vita a principati autonomi. La dinastia si estinse nel 1598, quando ormai però, con Ivan il Grande († 1505), la Russia aveva già il suo zar e la capitale era divenuta Mosca. Il figlio di Riurijk, Oleg († 912; vedi box a p. 44), ampliò il territorio paterno e spostò la capitale del principato a Kiev, dopo essersi piú volte scontrato con Bisanzio. Alla morte di Oleg ascese al trono del principato Igor I († 945; vedi box a p. 41). Il nuovo signore, grazie al suo esercito privato, la cosiddetta Druzina, rafforzò i confini orientali e poi si spinse verso i territori bizantini, ottenendo favorevoli accordi commerciali con l’imperatore Costantino VII. Tra i vari reparti dell’esercito di Oleg vi era anche quello composto dalla tribú dei Drevljani (vedi box a p. 43). La tribú era stata sottomessa già da

Il primo incontro fra il principe Igor e Olga, olio su tela di Vasily Sazonov. 1824. Mosca, Galleria Tretjakov.

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donne guerriere/2 Oleg, il quale era riuscito a imporre loro un tributo e a farli combattere già nel 907 contro Bisanzio. Principale fonte per la storia di questi eventi è la cosiddetta Cronaca dei tempi passati, già attribuita al monaco Nestore di Kiev e oggi ritenuta una collazione di diversi materiali, alcuni dei quali attribuibili a Silvestro di Kiev, altri al principe Mstislav il Grande, e forse risistemati dal monaco Nestore. Nel testo della Cronaca si mescolano storia e leggenda, prosa e poesia, al punto che si ritiene che alcune sezioni siano tratte da poemi epici slavi, ormai perduti, i cosiddetti Byliny. La prima sezione dell’opera, relativa alla nascita della Russia, è ricca di queste leggende: vi si narra dell’arrivo di tre fratelli variaghi, Kij, Scek e Choriv, della fondazione di Kiev per volere del leggendario principe Kij, e poi di una serie di morti eccellenti, come quella di Dir, ucciso nell’assedio posto da Oleg; la scomparsa dello stesso Oleg, profetizzata da un mago; nonché quella di Igor di Kiev, ucciso per mano dei Drevljani; e la terribile vendetta perpetrata da Olga, la vedova implacabile di cui il cronista narra le gesta.

Una vita leggendaria

Protagonista di queste vicende è dunque Olga, forse nata a Pskov o nel vicino villaggio di Izborsk, attorno all’890. La biografia della principessa russa è stata oggetto di varie manipolazioni, soprattutto dopo la canonizzazione, e attorno sono fiorite numerose leggende. Un racconto popolare vuole che Olga fosse nata da una semplice famiglia e che trasportasse su una chiatta coloro che desideravano attraversare il fiume. Un giorno, a bordo della chiatta sarebbe salito il principe Igor, che sarebbe rimasto folgorato dalla bellezza della giovane barcaiola. Un’altra leggenda vuole invece che la giovane fosse di nobili origini e nipote del mitico principe

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Gostomysl, colui che avrebbe cacciato i Variaghi dalla Russia. Appare tuttavia piú ragionevole ipotizzare che la donna fosse legata alla nobiltà, forse dell’area baltica, forse dell’area slava. La Cronaca degli anni passati ne fissa le nozze al 903 e segnala come gli sposi vivessero separati: Olga, ai tempi ancora adolescente, risiedeva a Vyshgorod, mentre Igor, con altre mogli, a Kiev. Va del resto ricordato che la vicenda si snoda in seno a una civiltà ancora pagana e per nulla influenzata dalla Chiesa di Roma o di

Bisanzio. I due, comunque, avrebbero avuto almeno un figlio, di nome Svyatoslav, nato quando Olga era ormai adulta: il futuro principe di Kiev, detto «il Coraggioso», non avrebbe però avuto una vita facile. Intorno al 941, Igor discese il Danubio con un grande esercito. Sbarcati sulle coste della Bitinia, presero a saccheggiare la parte asiatica del Bosforo, ma la reazione di Bisanzio non si fece attendere: capeggiati dal parakoimomenos (capo degli eunuchi) Teofane, i vascelli bizantini sorpresero i Russi settembre

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Igor I

Un principe ambizioso Salito sul trono di Novgorod, Igor I si mosse nel solco del suo tutore, il principe variago Oleg († 912), che mirava a unificare i popoli slavi. Dopo aver sposato Olga, si preoccupò dapprima di organizzare le frontiere orientali, per poi intraprendere campagne di espansione verso sud, scontrandosi contro Bisanzio nel 941 e nel 943. Con il suo esercito di Russi e Peceneghi, discese il Danubio, giungendo nei territori bizantini: queste spedizioni, pur non ottenendo i successi militari sperati, gli consentirono di pretendere la concessione di alcuni preziosi accordi commerciali. In questa politica fatta di guerre e trattati, Igor tentò di sottomettere alcune tribú slave tra cui quella dei Drevljani che, in precedenza avevano pagato tributi al principe Oleg. Nel 945, quando tentò di imporre gli stessi tributi, la popolazione gli si rivoltò contro e fu assassinato. La reggenza sarebbe dovuta passare al figlio minorenne, ma la moglie Olga prese le redini del principato e attuò la propria vendetta. A sinistra miniature tratte dalla Cronaca Radziwill. Fine del XV sec. San Pietroburgo, Accademia delle Scienze. In alto, Olga ordina di dare alle fiamme le terme nelle quali ha invitato gli ambasciatori dei Drevljani a ristorarsi prendendo un bagno; in basso, la principessa fa costruire una tomba per dare sepoltura al marito, Igor. Nella pagina accanto Novgorod. Particolare del Monumento per il Millennio della Russia: in secondo piano, fra i santi Metodio (seduto) e Vladimiro il Grande, è ritratta Olga. 1862.

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donne guerriere/2 Cartina storica dell’Ucraina, con i territori abitati dalle tribú slave orientali fra l’VIII e il IX sec. e con le direttrici delle loro espansioni.

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in ritirata e li misero in fuga, ricorrendo all’impiego del fuoco greco (una miscela incendiaria composta da pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva, n.d.r.). Nel 943 Igor ritentò l’impresa, mobilitando 2000 imbarcazioni fluviali per il trasporto delle truppe: 80 000 uomini circa, provenienti dalla Scandinavia e dalla Rus’, nonché dalle aree re-

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Impero bizantino

centemente conquistate. La poderosa armata giunse davanti alle mura di Costantinopoli e l’imperatore, per evitare il peggio, preferí pagare un pesante tributo ai piratimercanti, stimato in 100 carri d’oro, argento, e poi ancora olio, vino, spezie, pietre preziose, tessuti e manufatti di ogni sorta. Nel corso della campagna Igor

si era fatto piú volte sostituire nel comando da Sveneld, un nobile scandinavo. Nel 914, su richiesta di Oleg, Sveneld aveva già intrapreso una campagna militare contro la tribú degli Ulichi, combattendo per tre lunghi anni. Nonostante la caduta della loro capitale, Peresicen’, la tribú preferí riparare oltre il Dnestr, piuttosto che pagare, ma, settembre

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Korosten (l’antica Iskorosten), Ucraina. Il monumento in onore di Mal, principe dei Drevljani.

i drevljani

Gli uomini degli alberi La tribú dei Drevljani si era stabilita nel territorio della Polesia, un’area paludosa e pianeggiante compresa fra la Bielorussia, l’Ucraina e la Polonia. Il loro nome andrebbe collegato al termine slavo «drevo» (albero), a motivo della boscosità dell’area da loro abitata. Stando alla Cronaca degli anni passati (1116), i Drevljani avrebbero dato vita, verso il VI secolo, a un proprio principato, con capitale Iskorosten: il territorio era costellato di villaggi fortificati, come Vrucij e Malyn, necessari per contrastare la

vicina tribú dei Poljani, con cui guerreggiavano in continuazione. La storia dei Drevljani si intreccia drammaticamente con quella di Oleg e di Igor, principi di Kiev, per concludersi nel modo piú tragico, quando si incrocia con quella della principessa vedova Olga. Nell’883, infatti, il principe Oleg riuscí a costringerli a pagare un tributo al neonato principato di Kiev, coinvolgendo poi i Drevljani nella campagna militare contro l’impero bizantino del 907. Tuttavia, quando Oleg morí, i Drevljani, anziché pagare i tributi al nuovo principe Igor, preferirono versarli al nobile variago Sveneld, l’uomo che, fra l’altro, aveva sottomesso gli Ulichi e gli stessi Drevljani per volere di Igor. Alla richiesta di una nuova tassa, i Drevljani si rivoltarono contro Igor, uccidendolo e decretando, in sostanza, la propria fine. Dopo la violenta repressione ordinata dalla principessa Olga, i loro territori furono devastati e divennero proprietà dei principi di Kiev. La capitale, Iskorosten, fu distrutta e il nuovo centro amministrativo divenne Vrucij. L’ultimo atto della loro storia fu quando, nel 1136, il figlio di Vladimiro II Monomaco, Jaropolk II, donò le terre drevljane alla chiesa della Dormitio Virginis di Kiev. alla fine, furono comunque assoggettati. Negli stessi anni Sveneld era riuscito a sottomettere anche i Drevljani, ai quali Oleg impose un tributo. Alla morte di Oleg, questi ultimi iniziarono a pagare il condottiero che li aveva piegati, ormai ricco e dotato di una temibile Druzina, in grado di competere con quella del nuovo principe di Kiev. E forse proprio per questo motivo, Igor avrebbe chiesto

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donne guerriere/2 Oleg

Morire per un cavallo Figura in parte leggendaria, il principe Oleg, del quale si ignorano le origini, divenne il primo signore di Russia, ma, essendo nativo della Scandinavia, fu celebrato anche da alcune saghe vichinghe. Il futuro principe di Kiev, infatti, era uno dei capi dell’esercito variago giunto sulle coste russe nel corso delle migrazioni partite dai Paesi scandinavi nel IX secolo. Nell’879, quando assunse la reggenza di Novgorod per il giovane Igor, aveva già le idee molto chiare: nell’882, infatti, sottomise le tribú slave della regione del Dnepr, conquistando la strategica città di Kiev, di cui divenne signore. La città, infatti, era posta sulla principale strada che collegava i Paesi scandinavi a Bisanzio, passando per il Baltico e la Russia. Grazie a Oleg, in sostanza, furono poste le basi per la nascita di quello che sarebbe divenuto il futuro Stato russo. Con il suo potente esercito, rinforzato dalle milizie giunte dalle nuove conquiste, Oleg si spinse fino al Mar Nero, al punto da minacciare la stessa capitale dell’impero bizantino: nel 907 apparve infatti con una potente flotta davanti alle mura di Costantinopoli. Fu quindi la paura a indurre l’imperatore Leone VI a riconoscere, nel 911, il principato di Kiev, che, da allora, ebbe anche il diritto di partecipare alle campagne militari dell’impero bizantino. Emissari dell’imperatore avrebbero anche tentato di avvelenarlo, ma Oleg avrebbe rifiutato la coppa di vino Miniatura raffigurante Oleg con le sue truppe sotto le mura di Costantinopoli, deciso ad assediarla, dalla Cronaca Radziwill. Fine del XV sec. San Pietroburgo, Accademia delle Scienze.

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adulterato probabilmente grazie al suo intuito, piú che alle doti profetiche di cui si parla nelle fonti. La sua morte, infine, è avvolta nel mistero e anche la data non è certa, oscillando tra il 912, il 922 e addirittura il 945. Una leggenda vuole che per evitare l’avverarsi di una profezia che legava la sua morte al proprio cavallo, se ne liberò. Una volta morta la sua amata

cavalcatura, Oleg sarebbe andato a vederne i resti e, calciandone le ossa, avrebbe destato un serpente il cui morso lo avrebbe ucciso. Altre fonti, invece, attribuiscono la sua morte a uno scontro avvenuto addirittura in Persia, forse collegabile con il racconto dello storico Ibn’ Miskawahya che parla di un attacco russo condotto contro il regno di Arran verso il 945. settembre

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ai Drevljani il pagamento di un tributo piú pesante: la pretesa venne sdegnosamente respinta e, per tutta risposta, il principe venne assassinato. Igor lasciava la moglie, un giovane erede, ancora troppo piccolo per poter governare, ma, sopratutto, un principato che faceva gola a molti nobili locali. Poco tempo dopo l’assassinio, i Drevljani mandarono a Kiev un’ambasciata composta da 20 nobili, che propose alla principessa di convolare a nozze con il principe Mal, l’uomo che ne aveva fatto assassinare il marito. Cosí facendo, il trono di Kiev sarebbe passato, per via matrimoniale, nelle mani dei sicari di Igor, estromettendo il piccolo Svyatoslav, figlio di Igor ed Olga. La principessa aveva però pianificato una vendetta terribile.

Dopo la morte del marito, a Olga fu proposto di sposare l’uomo che l’aveva assassinato...

Trappola mortale

Dopo aver fatto credere agli ambasciatori di essere intenzionata ad accettare la proposta, li invitò a tornare a bordo della propria imbarcazione e ad attendere lí il suo omaggio: a un ordine di Olga, il battello venne trasportato da decine di suoi sudditi fin dentro la città. Gli ambasciatori non potevano sospettare che quello che a loro sembrava un enorme baldacchino, si sarebbe trasformato in una gigantesca tomba. L’imbarcazione, infatti, venne fatta scivolare in una fossa, appositamente scavata, nella quale gli arroganti notabili furono sepolti vivi. Ignari di quanto era accaduto alla prima ambasciata, i Drevljani ricevettero un messaggero che invitava «i migliori uomini a recarsi da lei a Kiev, cosí che lei potesse recarsi dal loro principe con un adeguato onore». Mal organizzò una nuova ambasciata con «i migliori uomini che governavano la terra di Dereva», i quali, giunti a Il monumento eretto in onore della principessa Olga, a Kiev.

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donne guerriere/2

Kiev, furono accolti con tutti gli onori e invitati a fare un bagno caldo prima di incontrare la principessa. Entrati nell’edificio termale, le porte furono sbarrate, e il palazzo dato alle fiamme. Olga inviò quindi un nuovo messaggio ai Drevljani, pregandoli di «preparare grandi quantità di idromele per celebrare un rito funebre cosí che possa piangere sulla sua tomba». A quel che narra il cronista, Olga raggiunse effettivamente la città e inscenò tanto il rito quanto le lacrime: quando però l’idromele iniziò a scorrere e i Drevljani, ingannati, crollarono nel sonno, i soldati ne fecero stra-

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ge, mentre la principessa «andava con loro incitandoli a massacrarli». La Cronaca riporta che in una notte vennero uccise circa 5000 persone.

La resa dei conti

Lo scontro con Mal e i suoi fedeli si era ormai trasformato in guerra aperta. Nel 946, a un anno dalla morte di Igor, Olga aveva vendicato il marito, spazzando via la nobiltà nemica e molti abitanti della regione. Si era arrivati alla stretta finale: alla testa di un esercito e con accanto il figlio Svyatoslav, la principessa marciò contro la capitale nemica, Iskorosten (oggi Korosten), là dove Igor era stato ucciso. L’assedio durò

per circa un anno, senza giungere ad alcun risultato utile, finché, stando ancora alle parole del cronista, Olga non escogitò uno stratagemma diabolico. Mostrandosi clemente, la principessa mandò un messaggio agli assediati: «Perchè vi ostinate a resistere quando tutte le altre vostre città si sono arrese? I loro cittadini hanno pagato il tributo e ora, a differenza di voi, coltivano in pace i loro campi». Gli abitanti si dissero disposti a pagare il tributo, ma temevano la repressione di Olga, la quale li rassicurò, dichiarando che quanto aveva fatto ai loro danni nel passato l’aveva soddisfatta e che ora settembre

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Miniatura raffigurante Olga in visita dall’imperatore Costantino VII, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

si sarebbe accontentata di un tributo simbolico, consistente in «tre piccioni e tre passeri per ciascuna casa». La popolazione obbedí all’ordine, sperando cosí di essere liberata dall’assedio. In realtà, sempre secondo la Cronaca, Olga ordinò di legare alle zampe degli uccelli uno zolfanello, avvolto da un panno ed erba secca e di rilasciare gi uccelli, a notte fonda, armati con queste terribili «bombe incediarie». Abilissimi nell’orientamento, i piccioni e i passeri tornarono ciascuno al proprio nido, appiccando il fuoco a tutte le case della città, al punto che «non c’era una casa che non

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fosse bruciata, ed era impossibile domare le fiamme, perchè tutte presero fuoco all’unisono». La principessa fece catturare chi cercava scampo dalle fiamme, ordinando di ucciderne alcuni e di ridurre gli altri in schiavitú per venderli. I pochi sopravvissuti furono obbligati a pagare i tributi e la città venne infine rasa al suolo. La vendetta di Olga fu tanto terribile, quanto grandiosa la sua amministrazione della nascente Russia. La principessa riuscí infatti a soggiogare le tribú slave della zona orientale, organizzandole in unità amministrative dipendenti da Kiev, con a capo singoli governanti, detti Tiuns. Diede vita a una riforma fiscale, riorganizzò le aree cimiteriali e le leggi sulle sepolture, nonché una sorta di piano regolatore delle città russe da edificarsi finalmente in pietra. Sotto le sue direttive, Kiev ebbe il proprio castello con annessa un’alta torre campanaria. Ma la svolta politica decisiva fu la decisione, tra il 955 e il 957, di recarsi a Bisanzio e convertirsi alla fede cristiana ortodossa. Sedeva allora sul trono Costantino VII, il cui regno fu caratterizzato da intensi rapporti diplomatici con le corti straniere: furono infatti scambiate ambascerie con il califfo di Cordova, Abd-am-Rahman, e con l’imperatore Ottone I. Ma, ancor piú importante per il futuro dei Rus’, fu l’accoglienza straordinaria tributata alla principessa di Kiev, che soggiornò diversi mesi alla corte di Bisanzio. Il monaco Nestore narra che

l’imperatore Costantino VII Porfirogenito si era invaghito della principessa, che però, essendo pagana, avrebbe dovuto prima ricevere il battesimo da lui, in qualità di padrino. Olga, che aveva dunque assunto il nuovo nome cristiano di Elena, avrebbe rifiutato l’ennesima proposta di matrimonio, facendo notare a Costantino che, avendola battezzata, era divenuto suo padre e lei sua figlia. L’imperatore si rese conto d’essere stato ingannato da Olga, ma ormai non poteva fare piú nulla.

Uguale agli apostoli

Rientrata a Kiev, la principessa si adoperò per diffondere la nuova fede, edificando numerose chiese, ma incontrò molta resistenza sia tra i nobili che tra la popolazione: persino suo figlio rifiutò di accettare il battesimo. Olga resse il trono fino al 959, mentre Svyatoslav era impegnato in campagne militari: solo dal 964 il figlio assunse il pieno controllo del principato. Nel 969, l’11 luglio, la principessa di Kiev moriva malata, ammantandosi però ben presto di un’aura di santità. La prima sovrana convertita al cristianesimo, benchè spietata con i suoi avversari, sarebbe divenuta una delle sante cristiane della frontiera slava: nel 1547 ascese infatti gli altari per la Chiesa ortodossa russa, che, per la sua opera di proselitismo, la assimilò agli apostoli, dandole il titolo onorifico di Isapostolos («uguale agli apostoli»). Il divertente aneddoto circa il suo battesimo, narrato nella Cronaca degli anni passati, nasconde in fondo una parziale verità, giacché grazie al sacramento, Olga aveva legato indissolubilmente «la figlia Rus’ al padre Bizantino», aprendo una nuova era nelle relazioni tra le due potenze e dando un nuovo e importante stimolo alle missioni della Chiesa Ortodossa nelle fredde terre di Russia.

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VITERBO, UNA CAPITALE DEL XIII SECOLO

La nascita del conclave

di Agostino Paravicini Bagliani

La storia delle elezioni pontificie visse una svolta decisiva nella città della Tuscia, a partire dal 1269. Quando, visti gli indugi, i cardinali furono di fatto privati della libertà e chiusi «cum clave» nel palazzo papale, affinché trovassero finalmente l’accordo sul nome del nuovo titolare della cattedra di Pietro. Che fu individuato solo nel 1271 in Gregorio X

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ra il 1227 e il 1271, in meno di mezzo secolo, il papato rimase vacante per piú di quattro anni: piú di diciotto mesi tra la morte di Celestino IV (10 novembre 1241) e l’elezione di Innocenzo IV (25 giugno 1243); quattro mesi tra la morte di Urbano IV (2 ottobre 1264) e l’elezione di Clemente IV (5 febbraio 1265) e trentasei mesi tra la morte di Clemente IV (29 novembre 1268); e l’elezione di Gregorio X (1° settembre 1271). Già nel 1241, per forzare la mano ai cardinali che non riuscivano ad accordarsi sul nome del nuovo pontefice, il senatore di Roma Matteo Rosso Orsini li rinchiuse nel palazzo romano del Septizonium, una sorta di fortezza nella quale si erano tenute le elezioni di Innocenzo III (1198) e di Gregorio IX (1227). Una situazione ancor piú drammatica si ripresentò alla morte di Clemente IV, avvenuta a Viterbo il 29 novembre 1268. Dopo un anno di vacanza della sede apostolica, le autorità della città rinchiusero, prima del 16 novembre 1269, i cardinali nel palazzo papale. All’inizio dell’anno successivo (8 gennaio 1270), i porporati riuscirono però a indurre il podestà di Viterbo Corrado d’Alviano – che avevano scomunicato per


In alto miniatura raffigurante il conclave di Viterbo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Sulle due pagine una veduta di Viterbo.


viterbo capitale/1 A sinistra l’aula del Palazzo Papale di Viterbo in cui i cardinali si riunirono in conclave nel 1269. Pur di sbloccare lo stallo dei lavori, le autorità viterbesi arrivarono perfino a rimuoverne il tetto, esponendo i porporati alle intemperie. Nella pagina accanto disegno su pergamena raffigurante la processione in onore del nuovo papa, dal cerimoniale di Gregorio X. XIII sec.

averli «rinchiusi nel palazzo di Viterbo» – a giurare di «obbedire a tutti gli ordini del medesimo collegio». Il 10 aprile il consiglio della città e il podestà Alberto de Montebono confermarono l’impegno, ma, un mese piú tardi, rinchiusero nuovamente i cardinali nel palazzo papale, facendo persino scoperchiare il tetto della sala delle loro riunioni. L’accesso alle camere private e l’invio di vettovaglie fu severamente limitato. Con il prolungarsi della sede vacante, le autorità della città di Viterbo vedevano svanire i vantaggi economici derivanti dalla presenza della corte papale in città, che, vivente il pontefice, era fonte di ricchezza e di prosperità. Basti pensare che, per esempio, gli affitti aumentavano del 300 per cento quando la curia si stabiliva in una città come Viterbo. Ne è prova, fra i tanti, un contratto di affitto stipulato il 4 maggio 1267 dal priore di S. Angelo di Viterbo per alcune botteghe situate presso la chiesa Santa Croce. Il contratto prevedeva che l’affitto di 28 lire all’anno potesse essere quadruplicato «se il papa fosse venuto a Viterbo». Verso il 1280, l’arciprete di S. Lorenzo di Viterbo prescrisse una clausola analoga: l’affitto della sua casa presso l’ospedale sarebbe passato da 38 a 96 soldi annui in caso di arrivo della corte papale a Viterbo. All’inizio di giugno il tetto era ancora scoperto. Il 6 del mese i cardinali chiesero al podestà Alberto de Montebono e al capitano del popolo Raniero Gatti la soppressione delle sanzioni. In un lungo documento esigevano che i cardinali malati potessero lasciare il pa-

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lazzo e gli altri rientrare in possesso delle loro camere; il tetto doveva essere coperto e i danni rimborsati. I cardinali minacciavano di lanciare l’interdetto sulla città e lasciarono intendere che dopo l’elezione del nuovo papa sarebbero partiti da Viterbo per non tornarvi piú. Dal 19 giugno 1270 all’elezione del nuovo papa, Gregorio X (1° settembre 1271), non abbiamo piú notizie di altre clausure. I cardinali continuarono a risiedere nel palazzo, senza piú subire alcun isolamento.

La vacanza piú lunga della storia

Eletto dopo una vacanza di quasi tre anni – la piú lunga nella storia del papato – Gregorio X presentò il 7 luglio 1274 ai quindici cardinali presenti a Lione, dove aveva convocato un concilio, una bozza di riforma, destinata a diventare, nella sua versione definitiva, il decreto di elezione papale Ubi periculum. La parola periculum rievoca le vicissitudini della lunga vacanza apertasi a Viterbo con la morte di Clemente IV. Il decreto contiene una serie di inediti provvedimenti: i cardinali dovevano iniziare le trattative per l’elezione di un nuovo pontefice dieci giorni dopo la morte del predecessore e radunarsi nel palazzo in cui questi era morto, facendosi accompagnare da un solo servitore. Insistendo sul fatto che i prelati dovevano risiedere nel palazzo in cui era morto il papa, il decreto usa – ed è la prima volta in un documento pontificio – il termine di conclave, che significa letteralmente che si dovevano «chiudersi a chiave» (cum clave). La claususettembre

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viterbo capitale/1 Papa Celestino V in una stampa da una miniatura tratta dai Vaticinia de Pontificibus di Gioacchino da Fiore. XVI sec.

sospesa dal nuovo papa (Giovanni XXI) due settimane dopo la sua elezione. Dopo la sua morte, avvenuta incidentalmente già il 20 maggio 1277, i cardinali attesero sei mesi prima di eleggere Nicolò III. Anche allora i cardinali non si rinchiusero in «conclave» come chiedeva l’Ubi periculum, che fu però rispettata su un punto: le riunioni si tennero nel palazzo del vescovo in cui era morto il predecessore.

Un «detestabile abuso»

ra era totale. Gli alimenti dovevano passare attraverso una sola finestra e l’apertura doveva essere cosí stretta da impedire a chicchessia di entrare in conclave. Se tre giorni dopo l’inizio del conclave l’elezione non fosse ancora avvenuta i cardinali avrebbero ricevuto un solo piatto a pranzo e a cena, e dopo cinque giorni, soltanto pane, vino e acqua. A Lione i cardinali reagirono con sdegno, ma la maggioranza dei vescovi presenti al concilio non si lasciò impressionare. Quasi tutti, infatti, apposero il proprio sigillo alle cosiddette cedule, datate 13 e 14 luglio, contenenti il testo dell’Ubi periculum che fu letto pubblicamente il lunedí successivo, 16 luglio, nel corso della quinta e ultima sessione del concilio, insieme a tutti i decreti conciliari. L’Ubi periculum venne rispettata alla morte di Gregorio X (Arezzo, 10 gennaio 1276): i cardinali attesero dieci giorni e si riunirono in conclave, sembra, nel palazzo del vescovo, dove elessero l’indomani, 21 gennaio, Innocenzo V. Anche alla sua morte (22 giugno 1276) i cardinali si rinchiusero nel palazzo del Laterano, ma, non riuscendo a mettersi d’accordo sul nome di un nuovo papa, il senatore di Roma Carlo I d’Angiò ordinò (intorno al 2 luglio) che fossero messi a pane e acqua. Un mese dopo (11 luglio) i cardinali elessero Adriano V, il quale, però, morí, a Viterbo, già trentasei giorni dopo la sua elezione. I cardinali – nove in tutto – non osservarono allora l’Ubi periculum, che fu del resto

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Dopo la morte di Nicolò III (22 agosto 1280), trascorsero sei mesi prima dell’elezione di Martino IV. I cardinali – tredici in tutto – non si riunirono nel palazzo in cui il papa era spirato – il castello di Soriano –, ma nella vicina Viterbo, dove le restrizioni previste dall’Ubi periculum non furono rispettate. Anche dopo la morte di Martino IV, avvenuta a Perugia il 29 marzo 1285, i diciotto membri del collegio si riunirono per eleggere il nuovo papa (Onorio IV) nel palazzo del vescovo di Perugia, dove era morto il papa, ma senza rinchiudersi come voleva l’Ubi periculum, che il nuovo papa sospese nuovamente, giudicando il conclave un «detestabile abuso». Dopo la sua morte (3 aprile 1287), i cardinali si riunirono nel palazzo Savelli sull’Aventino, ma non sappiamo se vi fu allora un vero e proprio «conclave», di completa clausura. Con l’avvento dell’estate, a causa della malaria romana, morirono ben sei cardinali, il che contribuí a prolungare la vacanza della sede apostolica, che si concluse solo il 15 febbraio 1288 con l’elezione di Niccolò IV. Il nuovo pontefice, l’eremita della Maiella Pietro del Morrone, eletto papa Celestino V il 5 luglio 1294, tentò di porre rimedio a questa nuova serie di prolungate vacanze, confermando la validità della costituzione Ubi periculum. Lo fece dapprima il 28 settembre, poi il 10 dicembre 1294, qualche giorno prima di rinunciare al papato nel concistoro del 13 dicembre 1294. Dopo le dimissioni di Celestino V, rispettando l’Ubi periculum, i cardinali si riunirono il 23 dicembre 1294 in conclave a Napoli, nel palazzo Castelnuovo, dove Celestino V aveva risieduto fino al momento del suo «gran rifiuto». L’indomani, vigilia di Natale, Benedetto Caetani fu eletto papa come Bonifacio VIII e inserí la costituzione gregoriana nel Liber Sextus (1298), conferendole cosí una solenne conferma. Da allora, dopo vent’anni di continue resistenze da parte dei cardinali e di sospensioni pontificie, la chiusura «in conclave» dei cardinali voluta dall’Ubi periculum fu sostanzialmente rispettata fino ai giorni nostri, ossia per piú di sette secoli, sebbene non nella forma austera voluta da Gregorio X. settembre

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LA CITTÀ DELLA SCIENZA

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el XIII secolo, fra le élites curiali si radicarono profondamente un particolare interesse verso gli studi inerenti le scienze della natura e, innanzitutto, per la luce, la visione, la cosmologia, la fisiognomica, nonché verso le tematiche della recreatio corporis e della prolongatio vitae. Uno degli esempi piú eclatanti è quello di Giovanni da Toledo († 1275), cardinale della basilica romana di S. Lorenzo in Lucina. Infatti, l’anziano Cardinal albo («bianco», cosí soprannominato per via del candido saio ch’era solito indossare), prelato cistercense di origine inglese, oltre a essere decano del collegio cardinalizio nel conclave viterbese del 1268-1271, protettore del suo Ordine, fondatore dei monasteri femminili di S. Maria del Paradiso a Viterbo e di S. Giuliana a Perugia, nonché personaggio in odore di pontificato, fu anche una figura di spicco nel campo della medicina e operò come medico alla corte papale sotto Innocenzo IV (1243-1254) e Urbano IV (1261-1264). La sua esperienza è piú volte menzionata dal medico e riformatore catalano Arnaldo da Villanova († 1312), nonché dalle numerose edizioni manoscritte,

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Pianta prospettica della città di Viterbo, affresco realizzato su cartone di Egnazio Danti. 1580-1585. Città del Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche.

risalenti al XIV e XV secolo, del Liber de conservanda corporis sanitatis, un trattato di medicina e di igiene che gli viene solitamente attribuito. Lo scritto appartiene a quella categoria di vademecum che miravano a coadiuvare il mantenimento della salute della persona, attraverso una serie di specifici precetti macrobiotici e igienici e grazie all’assunzione di elixir, quali l’oro potabile, l’oro alchemico e l’aqua balsami, utili a conservare l’equilibrio umorale galenico. Qualche tempo dopo, di una vicenda simile si rese protagonista un illustre scienziato, filosofo e teologo portoghese, Pietro di Giuliano (o Pietro Ispano; † 1277), esperto nell’arte di Ippocrate, che non solo soggiornò a Viterbo dagli anni Sessanta del Duecento, ma, seppur per un breve lasso di tempo, sedette sul trono di Pietro come Giovanni XXI (1276-1277). Incluso fra i dodici beati spiriti sapienti della Com-

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Il Palazzo dei Papi e la Loggia delle Benedizioni a Viterbo, città che, tra il 1260 e il 1280, ospitò la sede della Curia pontificia.

media dantesca (Paradiso, XII, vv. 136-137), il suo ricordo si conserva nel sacello lapideo tra le navate della cattedrale di S. Lorenzo. Pietro Ispano era stato infatti autore di numerosi trattati medici, nei quali, abbracciando, compendiando e ampliando i trattati della pratica salernitana, avalla il primato della scienza medica nel consentire, mantenere o ripristinare non soltanto gli equilibri naturali e fisiologici, ma anche morali del corpo e dell’anima. Pietro fu anche redattore di ricettari atti a ribadire ancora una volta l’importanza delle abitudini sanitarie e dietetiche, come nella Summa de conservanda sanitate o nel Thesaurus pauperum, che ebbe una straordinaria diffusione fino al XVII secolo, con traduzioni in differenti volgari, o, ancora, nel Liber de morte et vita et de causis longitudinis ac brevitatis vitae, dove gli aspetti medico sanitari scientifici circa la longevità, corruzione e brevità della vita, vanno di pari passo con argomentazioni filosofico-teologiche.

Una felice congiuntura

Quelli fin qui ricordati sono solo alcuni segnali, prodromi – ai quali si può aggiungere la dedica al cardinal Raniero Capocci del Flos solutionibus querendam questionum ad numerum et ad geometriam vel ad utrumque pertinentiam di Leonardo Fibonacci –, nel quadro del processo, accennato in apertura, che si sviluppò proprio durante il soggiorno viterbese della curia e in particolare nello Studium papale del convento domenicano di S. Maria in Gradi. Nel variegato e cosmopolita circolo intellettuale sorto durante il soggiorno viterbese della curia papale si produsse, infatti, un terreno d’indagine particolarmente favorevole, una congiuntura propizia per lo sviluppo di tali nuove teorie e la loro connessione con la gestione del governo. Questa nuova attenzione deve essere infatti interpretata come parte di quell’ambizioso progetto teso a far divenire la corte pontificia un polo culturale capace di sostenere il ruolo di guida nel campo del sapere scientifico, come già aveva fatto la Magna curia federiciana per tutta la prima metà del XIII secolo. Ma non solo. In un simile disegno culturale e politico, il pontefice poteva infatti essere considerato, a ragione, il protagonista della ricerca, dal momento che egli non era solo l’animatore, ma il destinatario principale delle indagini. Quale vicario di Cristo, quale sua immagine vivente sulla Terra, il pontefice incarnava in sé due corpi: uno personale, destinato a perire, e uno collettivo, immortale e destinato a perpetuare la perennità della Chiesa stessa. Se dunque il papa incarnava il corpo pulsante della Chiesa universale, la sua esistenza fisica e biologica non solo doveva essere prolungata il

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viterbo capitale/1 piú possibile, ma anche purificata, sostenuta, oggetto delle massime cure, in quanto il benessere fisico del pontefice coincideva con quello dell’intera cristianità. Cosí medicina, alchimia o perspectiva divengono strumenti, discipline al servizio del corpo del papa.

I migliori ingegni a confronto

In virtú di tale premessa, il titolare della cattedra di Pietro, paragonato a un novello Socrate, sollecitava i suoi principali ministri – tra i quali possiamo annoverare il penitenziere papale e traduttore Guglielmo da Moerbeke, il matematico e astronomo Campano Novara, l’ambasciatore di Turingia e Polonia Erasmo Ciolek Witelo, il futuro arcivescovo di Canterbury Giovanni Peckham – a disputare, confrontarsi, influenzarsi vicendevolmente su tali questioni, facendo della corte pontificia una delle culle della speculazione nel

panorama europeo della seconda metà del XIII secolo. Centro che acquisí un rilevo essenziale nella definizione occidentale dell’ottica e delle caratteristiche della luce, come esplicitato, per esempio, nel De Radiis baconiano. Oppure dei principi fisici di rifrazione e riflessione, come testimoniano, in particolare, la descrizione dell’arcobaleno e delle leggi che lo regolano nella Persectiva maior di Witelo, ma anche nella definizione della sua componente metafisica, elemento mediatore tra il mondo lunare e quello sublunare. Una temperie in cui obiettivo dello studio delle scienze della natura, e dell’ottica in particolare, era quello, da una parte, di facilitare la riunione dei raggi stellari e solari, mitigando il progredire della senescenza, e, dall’altra, di contribuire alla stessa ricerca teologica e spirituale, grazie alla conoscenza piú profonda del mondo sensibile, del creato, attraverso le leggi

A destra Viterbo, cattedrale di S. Lorenzo. Il monumento funerario di Giovanni XXI.

A sinistra ritratto di papa Giovanni XXI (al secolo, Pietro di Giuliano o Ispano), da La storia dei papi del cardinale Joseph Hergenröther. 1898. Collezione privata.

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che lo governano. Quello riassunto in queste pagine è dunque il quadro che caratterizzò lo Studium viterbese e che, durante il pontificato di Bonifacio VIII (12971304), raggiunse, nel segno della teocrazia medievale, il suo culmine. Una tendenza confermata anche durante il pontificato avignonese, come prova l’attenzione per le discipline scientifiche di Giovanni XXII (1316-1334), e Clemente VI (1342-1352). Luca Salvatelli settembre

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pianura padana

C’era una volta un bosco... di Corrado Occhipinti Confalonieri

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e nei secoli dell’Alto Medioevo (tra il V e l’XI circa) un osservatore avesse potuto guardare dal cielo la Pianura Padana, avrebbe visto una foresta lussureggiante, tagliata dal Po e punteggiata dai tetti rossi di qualche città. In mille anni, quel panorama cambiò molto gradualmente, poiché il disboscamento fu lento e progressivo e proseguí fino alla metà del secolo scorso. Durante l’età romana era stata promossa la massiccia messa a coltura delle terre padane, ma, fra il IV e il V secolo, con la caduta

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dell’impero, si assistette al processo inverso: il ritorno di un ambiente caratterizzato da terre incolte, dall’abbandono del suolo e dallo spopolamento dei centri abitati. All’inizio dell’età di Mezzo, l’uomo assistette cosí all’avanzare progressivo di boschi, brughiere e acquitrini. La Lomellina, regione già colonizzata dai Romani e in cui sorgeva la città di Lomellum (l’odierna Lomello), aveva subito un processo di inselvatichimento, come buona parte delle città dell’Italia padana. La foresta si espandeva in vaste chiazze dalle diverse

sfumature di verde, attorno alle quali sorgevano i villaggi, e le città stesse erano invase dagli alberi selvatici: la natura aveva preso il sopravvento sull’opera dell’uomo. Nei boschi, i contadini si dedicavano quasi esclusivamente al pascolo di suini, di pecore e di capre, alla caccia e alla pesca. Le dimensioni degli appezzamenti erano vastissime: ancora nell’XI secolo, la corte di Formigosa, a 8 km circa da Mantova, si estendeva per 2400 ettari, dei quali appena 25 erano coltivati. Nei boschi si trovavano fonti di sostentamento come settembre

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La Pianura Padana è oggi sinonimo di terre coltivate che si succedono a perdita d’occhio. Ma non fu sempre cosí: nell’Alto Medioevo, infatti, là dove oggi crescono cereali e prosperano i frutteti, il paesaggio era dominato dalla foresta, di cui si sfruttavano comunque le risorse, ma della quale si aveva anche grande timore

il miele, i frutti selvatici, le noci, le castagne, anche se l’alimentazione degli abitanti della Pianura Padana si basava quasi esclusivamente su proteine di origine animale.

Vivere tra gli alberi

A quel tempo, il rapporto fra uomo e foresta era molto stretto: da lí proveniva anche il legname per costruire (e riscaldare) le case, le suppellettili, le armi, gli attrezzi per i contadini e gli artigiani. E una variegata popolazione aveva fatto della foresta la propria dimora. Anche santi come Colombano

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(fine del VII-inizi dell’VIII secolo) e san Francesco (XIII secolo) avevano scelto i boschi, alla ricerca di un luogo in cui poter avere un dialogo diretto con Dio. I briganti e i fuggitivi vi trovavano rifugio e nascondiglio; i pastori portavano al pascolo le mandrie composte anche da migliaia di capi. Nei boschi i nobili potevano dedicarsi al loro passatempo preferito: la caccia, intesa come la simulazione di una battaglia con vincitori e vinti. Tutto ciò dimostra l’intenso legame dell’uomo con la foresta padana che supera l’aspetto puramente

Caccia notturna, tempera e olio su tavola di Paolo Uccello. 1465-1470. Oxford, Ashmolean Museum. La battuta si svolge in una foresta lussureggiante, e il fatto che la scena sia ambientata nella notte suggerisce che la composizione rappresenti una caccia simbolica, con l’intento di evocare il valore rituale che la nobiltà attribuiva all’attività venatoria. Non molto diversa doveva apparire la Pianura Padana in età altomedievale.

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pianura padana Nella pagina accanto Milano, basilica di S. Eustorgio, Cappella Portinari. Il martirio di san Pietro, particolare delle Storie di san Pietro Martire affrescate da Vincenzo Foppa. 1464. Il dipinto evoca l’agguato di cui il religioso fu vittima, il 2 aprile 1252, in una zona boscosa fra Como e Milano.

Chiaravalle Milanese Morimondo Chiaravalle della Colomba Fontevivo

economico per lasciare spazio a quello dell’immaginario collettivo, come il culto della luna, rito pagano per propiziare l’uso della foresta e la crescita della vegetazione. A partire dal Mille l’Italia del Nord fece registrare una lenta crescita demografica. Nel Basso Medioevo (XII-XV secolo circa) le città padane crebbero di numero, grandezza e popolazione e, per sfamare quella moltitudine di persone, fu necessario abbattere la foresta, per lasciare spazio ai campi, coltivati a cereali. Lo scarso bestiame forniva quantità limitate di concime e per questo fu necessario estendere la superficie coltivata, dissodare nuove terre e rinunciare a boschi e pascoli. Si trattava di un tipo di coltivazione estensiva che

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In alto un campo di frumento in Lomellina. A sinistra foto satellitare della Pianura Padana con le principali abbazie cistercensi.

dava poca resa: si pensi che quella del frumento era pari alla metà dell’attuale. L’agricoltura cominciò comunque a prevalere sull’economia silvo-pastorale, anche se l’attacco agli alberi fu generalmente contenuto: per essere efficace, il disboscamento doveva prevedere strumenti solidi, come seghe, zappe e accette, ma il ferro era molto raro e solo i profili degli attrezzi erano in metallo, cosicché, oltre all’immane fatica che il loro uso comportava, si consumavano e si rompevano con molta frequenza.

Monaci lavoratori

Grande impulso alle opere di disboscamento e bonifica delle terre padane venne dato dai complessi agricoli organizzati dai Cistercensi,

come l’abbazia di Chiaravalle, fondata nel 1135 a soli 5 km dal centro di Milano, e l’abbazia di Morimondo del 1134, a 6 km da Abbiategrasso. I monaci possedevano le competenze tecniche necessarie per procedere alla bonifica delle paludi, e i monasteri, nei momenti di carestia, disponevano di scorte alimentari sufficienti a soddisfare le necessità della popolazione. Fra il 1177 e il 1179 venne creato il Naviglio Grande, derivato dal Ticino, che serviva a irrigare l’alta pianura milanese occidentale, bisognosa d’acqua. Nel XIII secolo fu scavato nel Lodigiano il canale della Muzza, lungo 58 km e attivo ancora oggi, che serviva a regolarizzare i flussi d’acqua naturali, soggetti a piene e a secche. Tutti questi interventi si inserivano nel quadro di una conversione all’agricoltura del territorio, avviata per ottenere una maggiore produttività e, di conseguenza, maggiori profitti. Il progressivo distacco dalla foresta come madre generosa, fonte di vita, fece crescere nell’uomo medievale padano l’idea che essa rappresentasse il diverso, il pericolo. Simbolo di questo terrore era il lupo, tanto temuto da assumere quasi un’immagine demoniaca: dapprima presente in modo difsettembre

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fuso, venne cacciato con tecniche sempre piú sofisticate. Del resto, la selva in cui Dante si smarrisce è oscura, simbolo dell’angoscia e della disperazione. Nella Divina Commedia, al canto XIII dell’Inferno, incontriamo la selva dei suicidi, una boscaglia spaventosa e allucinante, nella quale si trovano alberi lividi e velenosi che simboleggiano l’assenza di vita, la terribile solitudine che conduce al suicidio i dannati. La conseguenza del disboscamento della Pianura Padana alterò l’equilibrio ambientale: fra l’XI e il XIV secolo centinaia di migliaia di ettari di boschi e paludi furono distrutti, sia in montagna, sia in pianura. Si elevò la soglia del pericolo delle alluvioni fluviali, perché, per

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A sinistra l’abbazia di Chiaravalle, fondata nel 1135 in un’area originariamente paludosa e incolta, pochi chilometri a sud delle mura di Milano. Nella pagina accanto, in basso particolare di una mappa tardocinquecentesca nella quale è riportato il castello di Calendasco, nei pressi di Piacenza. In basso il canale della Muzza, scavato nel Lodigiano nel XIII sec. e tuttora attivo.

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effetto della deforestazione, le piogge non trovarono piú barriere naturali nelle radici degli alberi e negli alberi stessi. I cronisti dell’epoca, inconsapevoli di quanto l’uomo avesse modificato la natura, riportavano sbigottiti la frequenza di questi eventi, ogni tre o quattro anni, che non attribuivano alle variazioni climatiche e ai fenomeni metereologici, ma a castighi divini.

Una spirale perversa

Le alluvioni padane si estendevano per migliaia di ettari, e il ristagno dell’acqua rendeva i suoli improduttivi, distruggendo le colture. Il castello di Calendasco, edificato all’inizio del XIII secolo nei pressi di Piacenza, sorge su una prominenza artificiale del terreno proprio per evitare gli allagamenti causati dalle esondazioni del Po. Queste anomalie climatiche creavano un circolo, difficile da spezzare: intemperie, carestie, impennata dei prezzi, epidemie. Il rincaro delle derrate alimentari fece crescere la povertà e, costretta a nutrirsi anche di cibo guasto, la gente si ammalava spesso. I contadini malnutriti erano i piú esposti alle conseguenze della carestia e, indebolendosi, non po-

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In alto miniatura raffigurante Dante e Virgilio nella selva dei suicidi, mentre osservano i dissoluti inseguiti dai diavoli, da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Priamo della Quercia. 1442-1450. Londra, British Library. A sinistra miniatura raffigurante un poeta in cerca d’ispirazione dentro un giardino recintato, da un’edizione dell’opera Un songe mis en livre di George de Chasteaulens. XV sec. Chantilly, Musée Condé.

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tevano lavorare. Uno dei motivi del diffondersi della peste del 1348 fu proprio che trovò terreno fertile in una grande massa di popolazione, debole e malnutrita.

La beata pastorella

Lo scatenarsi di questi eventi naturali, di fronte ai quali l’uomo era del tutto impotente, spaventava a tal punto da indurre a cercare una soluzione nei miracoli. La storia della beata Giovanna da Signa, una pastorella vissuta intorno alla metà del XIII secolo, inizia proprio con la scoperta che pioggia e grandine non cadevano nei luoghi dove la piccola portava a pascolare il suo bestiame. I pastorelli, custodi di suini e ovini, quando il tempo era brutto, portavano da lei le greggi e le mandrie. Davanti allo stupore dei genitori, che domandavano loro come mai non si fossero bagnati e il bestiame fosse in salvo, rispondevano: «Perché siamo stati da Giovanna!». L’uomo medievale aspirava al controllo della natura selvaggia rappresentata dalla foresta e per questo motivo prese a realizzare e curare i giardini – piccoli eden privati –, in cui i fiori e gli alberi ricreavano il vagheggiato Paradiso Terrestre. L’idealizzazione in senso positivo del paesaggio può avvenire soltanto a

condizione di non sentirsi schiacciati dall’ambiente; bisognava potersi considerare al centro dello spazio e da qui volgere intorno lo guardo per misurarlo, dominarlo. Ecco perché in questi secoli non sono rappresentati spazi aperti, bensí un giardino ben chiuso; uno steccato lo ritaglia dal fuori, selvaggio e nemico: tipica, per esempio, nel Roman de Thèbes (1155-1165), è la descrizione del verziere che i due eroi protagonisti incontrano, dopo avere a lungo e penosamente cavalcato: era meraviglioso, nessuno mai avrebbe potuto descrivere o vederne di migliori: «era molto ben chiuso il giardino, da tutte le parti con forti palizzate». Un atteggiamento particolare e innovativo nell’apprezzamento della natura si coglie, forse per la prima volta, in Francesco d’Assisi, il quale tributa a ogni essere, anche inanimato, una grande considerazione, in quanto creato da Dio, del quale riflette la grandezza e bellezza: un insegnamento che ancora oggi è di stretta attualità.

Da leggere Chiara Frugoni, Paure Medievali, il Mulino, Bologna 2020 Vito Fumagalli, Storie di Val Padana, il Mulino, Bologna 2007

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oltre lo sguardo/8

Al centro dell’Eden

di Furio Cappelli

Le Sacre Scritture evocano a piú riprese una pianta portentosa, capace di donare l’immortalità, ma alla quale nessun uomo avrebbe avuto il diritto di accostarsi. È l’Albero della Vita, un tema iconografico declinato in forme molteplici e originali e destinato ad avere grande fortuna, ben oltre l’età antica. Un simbolo eminentemente cristiano, ma con importanti e significativi parallelismi perfino nell’ambito delle produzioni artistiche islamiche

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l racconto biblico della tentazione a cui non seppero resistere i progenitori Adamo ed Eva, con la conseguente cacciata dal Paradiso terrestre, ossia l’Eden – nome che sta a significare «(luogo di) delizie» –, viene narrato nel libro della Genesi e si impernia sull’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, da cui viene colto il frutto fatale. Nello stesso paradiso c’è però un altro albero che non entra «in scena», proprio perché il Creatore ne preclude tassativamente la fruizione: l’Albero della Vita. Prima di serrare l’accesso all’Eden, mettendo un angelo di guardia alla soglia, Dio si rivolge infatti allo sventurato Adamo, dicendogli che, per via della sua protervia, non potrà mai avvicinarsi a quell’albero, dal quale avrebbe potuto trarre il dono dell’immortalità (Genesi, 3:22). Non c’è alcuna indicazione su quale tipo di pianta fosse, ma, nel Libro di Enoch, un apocrifo dell’Antico Testamento, la si ritrova in una visione del paradiso degli eletti, e si legge che essa fornisce «frutti belli come datteri» (24:4), il che significa che veniva spesso intesa come un palmizio. Si trattava, d’altronde, di un tipico albero da frutto isolato, ben presente nel paesaggio del Medio Oriente e nell’immaginario delle sue genti.

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A sinistra seta istoriata con figure di cacciatori disposte simmetricamente ai lati di un Albero della Vita, dal «Tesoro» della Cappella del Sancta Sanctorum in Laterano, Roma. VIII-IX sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella pagina accanto Albero della Croce, affresco di Taddeo Gaddi. 1355 circa. Firenze, Santa Croce, refettorio.

Posto proprio al centro dell’Eden, nel punto da cui si dipartono i quattro fiumi del paradiso, l’Albero della Vita riappare infine nel Nuovo Testamento, all’estremo opposto della storia umana, nell’Apocalisse (22:2). Si trova infatti al centro della Gerusalemme celeste, ma non è chiaro se sia abbinato o meno a un’altra pianta, ai lati di «un fiume di acqua di vita splendente come il cristallo». È invece certo che, come

«A colui che vince darò da mangiare del legno dell’Albero della Vita, che è nel paradiso di Dio». (Apocalisse, 2:7) settembre

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oltre lo sguardo/8 Particolare di una pittura murale della tomba di Pashedu a Deir el-Medina (Tebe, Egitto) raffigurante un palmizio, ai piedi del quale l’anima del defunto si abbevera alla fonte della rigenerazione. XIX dinastia, 1200-1150 a.C. circa.

Se, naturalmente, lo sconfitto era Adamo, ossia colui che non poté accedere al premio dell’immortalità, il vincente è chi crede in Dio e obbedisce alle sue direttive, potendo cosí ottenere, alla fine dei tempi, ciò che fu precluso al progenitore.

L’ultimo desiderio di Seth

l’acqua sottostante scorre ininterrotta per effetto della volontà divina, cosí il lignum vitae sfoggia di continuo una profusione di frutti, di un tipo diverso dall’altro a seconda del mese. Prima di comparire nella piazza della città di Dio, l’albero viene però menzionato già agli inizi del libro, proprio quando Giovanni riceve, nell’isola di Patmos, le istruzioni da impartire ai sette vescovi dell’Asia, tramite i rispettivi angeli. Nel concludere il primo messaggio, da inviare all’angelo della Chiesa di Efeso, Dio promette al «vincente» che potrà nutrirsi dei frutti dell’Albero della Vita (Apocalisse, 2:7).

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Il quadro si fa ancora piú intrigante se coinvolgiamo i testi leggendari che si sviluppano anche in pieno Medioevo sulla falsariga della Bibbia. La Leggenda che ha per protagonista Seth, terzo figlio di Adamo, presenta il progenitore in punto di morte. Questi, per avere un po’ di conforto, chiede a suo figlio di procurargli «l’olio della misericordia e di vita che cola dall’Albero della Misericordia del paradiso terrestre», ma un angelo gli spiega che l’impresa è vana, dal momento che l’olio desiderato non è al momento disponibile. Scaturirà dall’acqua del battesimo di Cristo e, per ottenere quel balsamo, occorre quindi attendere la rivelazione. Nel Vangelo apocrifo di Nicodemo (IV-V secolo), l’angelo specifica a Seth che ciò avverrà 5500 anni dopo la creazione. In una piú tarda Leggenda (XI secolo), Dio comanda a Seth di procurarsi tre semi dell’Albero della Vita, in modo da porli sotto la lingua di Adamo, già deceduto. Dal cranio del progenitore scaturiscono cosí le tre varietà (pino, cedro e cipresso) che forniscono i legni della croce di Cristo. In alcune fonti si aggiunge (o si sostituisce) la palma, cosicché i quattro elementi della croce (ossia le due assi, la tabella culminante e il basamento) risultano realizzati ciascuno con un legno diverso, oppure è la sola palma a costituire la croce nella sua interezza. Si esalta cosí il nesso-contrasto tra gli «antipodi» Adamo e Cristo. Il teschio che si trova alla base del patibolo in tante Crocifissioni sta appunto a indicare la tomba di Adamo, che sarebbe stato sepolto proprio nel Golgota (toponimo che gli evangelisti interpretano come «luogo del teschio»). Questa convinzione era nutrita dall’idea che Cristo fosse il nuovo Adamo, capace di cancellare ogni peccato con il sangue del proprio sacrificio. Tant’è vero che, per esempio, nel crocifisso del duomo di Spoleto (1187), quello stesso teschio riceve proprio il sangue che sgorga dalle ferite del Messia, in modo da eliminare l’onta del peccato originale. Il legame tra la croce e l’Albero della Vita era assai sentito. I pellegrini che si recavano al Santo Sepolcro, d’altronde, riportavano l’«olio del legno della vita», come recitava un’iscrizione in greco che si leggeva su quasi tutte le ampolle appositamente fabbricate, in piombo, stagno e argento. In alcuni esemplari conservati a settembre

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Iconografie

Alberi secchi, alberi in fiore Quando i due alberi simmetrici sono differenziati, in modo da presentare un aspetto spoglio da un lato, prorompente dall’altro, il simbolo suggerisce una trasformazione. L’abbinamento ha una lontana rispondenza nel motivo dell’albero senza foglie affrontato all’albero frondoso, già diffuso nell’arte antica (per esempio in Persia) per evocare il ciclo delle stagioni. Nell’iconografia cristiana, i due alberi cosí caratterizzati stanno a significare fasi storiche ben definite, in rapporto alla redenzione. L’albero rinsecchito (arbor mala) allude all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, alla tentazione di Adamo quindi. L’albero rigoglioso (arbor bona) allude all’Albero della Vita che si ritrova nella Gerusalemme celeste, alla fine dei tempi. Ma una lettera di san Paolo permette di andare oltre. Dall’ulivo domestico ormai esangue, simbolo dei patriarchi del Vecchio Testamento, germoglia con vigore l’ulivo selvatico dei seguaci di Cristo (Lettera ai Romani, 11:16-18). Questo aggancio testuale ha permesso a Chiara Frugoni di interpretare un’opera singolare, ossia l’affresco della Madonna in trono col Bambino della chiesa catalana di Sant Pere de Sorpe (1120 circa), oggi conservato a Barcellona. L’ulivo frondoso, a destra della Vergine (a sinistra di chi osserva), nasce proprio da un moncone dell’albero antico, esattamente come Cristo è nato dal suo grembo («da santa Maria», come sottolinea l’epigrafe di corredo), da colei che discendeva dalla stirpe di re David. In questo modo la contrapposizione tra la vecchia e la nuova Legge, tra la Sinagoga e la Chiesa di Cristo, si esprime con sorprendente sottigliezza, centrando perfettamente il significato salvifico del Messia. Bobbio (Piacenza), databili per lo piú al VII secolo, la decorazione presenta per giunta la croce con gli assi di legno vivo, formati da tronchi di palma (bugnati). Il nesso tra la morte di Cristo e la rinascita dei credenti era insomma evidente, attraverso una concatenazione di concetti e di immagini di forte presa. Il Calvario poteva essere percepito come una tomba e come una sorgente di vita al tempo stesso, grazie, peraltro, all’associazione del patibolo con un albero rigoglioso, che, a sua volta, rimandava a un corso d’acqua purissima.

Un gioco di rimandi simbolici

In diverse circostanze di notevole interesse, la croce o l’immagine stessa di Cristo in gloria (alla fine dei tempi) è affiancata da due alberi. Nella lastra di Sigualdo, a Cividale (756-786), che abbiamo già incontrato in merito al tema del grifone (vedi «Medioevo» n. 294, luglio 2021; anche on line su issuu.com), la croce centrale è inoltre affiancata da due rosette di significato

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Madonna in trono col Bambino, affresco dalla chiesa catalana di Sant Pere de Sorpe. 1120 circa. Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya.

solare e da due candelabri (a loro volta fonte di luce). Nel settore inferiore corrispondente, un Albero della Vita «presidiato» dai grifoni è perfettamente in asse alla croce, con un gioco di rispondenze di una chiarezza estrema. Completano l’insieme, ai vertici della composizione, i simboli dei quattro evangelisti. La simbologia è connessa alla collocazione originaria della lastra in un recinto liturgico o su un fronte d’altare, a indicare il percorso di salvezza del fedele. I due alberi, in un simile contesto, sono dunque quelli della Gerusalemme celeste, evocati in modo non limpidissimo nell’Apocalisse (per taluni illustratori c’è un solo albero in quel frangente). E sono questi stessi alberi – in una versione «naturalistica» e frondosa – ad affiancare il Cristo nella sua appa-

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oltre lo sguardo/8 rizione apocalittica di S. Pietro al Monte di Civate (Lecco), nell’affresco di controfacciata della chiesa monastica (seconda metà dell’XI secolo). L’albero singolo poteva facilmente associarsi alla croce con un intimo legame tra i due elementi, e nacque cosí una nuova iconografia. Lo spunto venne fornito da un trattato del francescano Bonaventura da Bagnoregio (1221 circa-1274) dedicato proprio all’Albero della Vita e intitolato infatti Lignum vitae. Per rappresentarne figurativamente i concetti essenziali, ci si poté allineare al sempre piú diffuso impiego dell’albero come schemabase per esprimere relazioni concettuali o legami genealogici. Lo stesso Albero di Jesse (vedi «Medioevo» n. 295, agosto 2021; anche on line su issuu.com) costituiva già una fonte di ispirazione in tal senso.

La versione di Pacino

Pacino di Bonaguida forní una prima versione del Lignum vitae nella tavola oggi conservata presso la Galleria dell’Accademia di Firenze (inizi del XIV secolo). Dalla croce si irraggiano rami lungo i quali scorrono i medaglioni con le Storie della Passione di Cristo. I rami sono 12, esattamente come le varietà dei frutti dell’Albero della Vita nella Gerusalemme celeste, ma anche come il numero dei capitoli dell’opera di Bonaventura, ciascuno dedicato a una specifica qualità o virtú del Redentore. Nell’ultima fase della sua attività, Taddeo Gaddi (morto nel 1366) – tra i piú ispirati seguaci di Giotto – dette una monumentale interpretazione del soggetto nell’affresco noto come Albero della Croce, nel refettorio della chiesa francescana di Santa Croce a Firenze. Lo schema generale è quello già sperimentato da Pacino, ma è risolto piú elegantemente grazie a un gioco di bianchi cartigli iscritti, che si concludono in girali d’acanto racchiudenti le immagini dei Profeti. Di partico-

lare impatto drammatico è poi la relazione che si stabilisce tra il Crocifisso e san Francesco, che abbraccia l’albero-patibolo alla base. In linea con i suoi originari significati cosmici, come «ponte» tra la terra e il cielo, l’Albero della Vita ha acquistato forte significato nella cultura ebraica, in quella cristiana e in quella islamica, trovando ampio

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In alto, sulle due pagine particolare del mosaico pavimentale dell’abside della cosiddetta chiesa dei Leoni di Umm al-Rasas (Kastron Mefaa, Giordania). Fine del VI sec. Qui sopra particolare del mosaico pavimentale del battistero del cosiddetto memoriale di Mosè, sul Monte Nebo (Giordania), con figure di alberi carichi di frutta e animali. 530. settembre

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spazio nell’iconografia religiosa, il piú delle volte però in forma astratta o in forma di tralcio fiorito, d’acanto o di vite. Vanta una tradizione millenaria in Mesopotamia e sulle sponde stesse del Nilo: basti ricordare la tomba del nobile Pashedu, a ovest di Tebe, realizzata durante la XIX dinastia faraonica, tra il 1200 e il 1150 a.C. In uno dei dipinti di corredo della camera funebre, l’anima del defunto si abbevera alla fonte della rigenerazione, ai piedi di un palmizio che è proprio l’antenato dell’albero biblico. L’aspetto interessante di questa iconografia è la sua sostanziale estraneità al mondo greco-romano, che naturalmente conosce la simbologia fitomorfa anche ai fini della celebrazione politica (basti pensare al ruolo dell’acanto come segno di rinascita nell’Ara Pacis di Augusto), ma non visualizza mai un albero come tema centrale in ambito religioso. La centralità dell’albero si fa strada, semmai, nel campo delle sete istoriate, co-

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me è documentato, almeno dal VI secolo, nell’ambito di Alessandria d’Egitto, sotto l’effetto delle «mode» orientali. A questa centralità si abbina subito la presenza di due animali posti in posizione simmetrica, secondo lo schema che giunge poi nella già ricordata lastra di Sigualdo a Cividale.

Echi del mondo greco-romano

Il cristianesimo arabo aveva già elaborato il «suo» Albero della Vita in età giustinianea, recependo con una sensibilità originale gli impulsi che provenivano dal mondo greco-romano, tramite Bisanzio e le altre importanti città costiere dell’impero. Un particolare richiamo merita al riguardo un mosaico pavimentale dell’abside della cosiddetta chiesa dei Leoni di Umm al-Rasas (Kastron Mefaa, Giordania), risalente alla fine del VI secolo. Entro un tappeto finemente decorato, il motivo è espresso da tre alberi da frutto interpunti

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Damasco. L’immagine dell’Albero della Vita in un pannello a mosaico della Cupola del Tesoro nella Grande Moschea degli Omayyadi. 788 circa, con ampie integrazioni ottocentesche.

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Nella pagina accanto, in basso mosaico absidale della basilica di S. Clemente a Roma, con girali fioriti che si sviluppano ai fianchi del Cristo morto. 1118-1119.

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modelli universali

L’eterno ritorno Secondo un concetto ben radicato nell’estremo Oriente, la ripetizione speculare di una scena era finalizzata a esprimere un movimento circolare senza fine, e quindi una eterna ripetizione. In questo modo, il soggetto si perpetuava in una dimensione mitica, assumendo un connotato esemplare. Orbene, il gusto della iterazione simmetrica delle figure si riscontra nell’arte serica cinese già nel periodo Han, tra il secolo I a.C. e il secolo I d.C. La diffusione dello schema lungo la via della seta, verso gli empori della Persia, favorí naturalmente il suo approdo nel Mediterraneo. Ed è impressionante notare la rispondenza reciproca tra le sete siriache di Bahram e un’opera come l’enorme stendardo dell’imperatore Shomu (724-748 d.C.), conservato al Museo Nazionale di Nara (Giappone). La tipica scena dell’abbattimento del leone ruota intorno a un Albero della Vita sotto forma di stelo fiorito, in linea con l’iconografia buddhista, mentre

Stendardo dell’imperatore Shomu. 724-748. Nara (Giappone), Museo Nazionale.

i contrassegni apposti sull’anca del cavallo racchiudono i caratteri shan («montagna») e ji («felicità»). È quindi evidente il significato benaugurante della rappresentazione, come pure la sua implicazione religiosa. La montagna, intesa in senso cosmico, si associa proprio all’Albero della Vita a indicare il percorso che conduce alle vette del cielo. da figure simmetriche di animali, leoni al centro, gazzelle ai lati. In tal modo, alcuni elementi dei mosaici ellenistici con scene agresti vengono chiaramente «ritagliati» e disposti a comporre una scena del tutto astratta anche se costituita da «pezzi» di realtà. La rappresentazione è infatti mirata a evocare lo scenario paradisiaco che si avvererà alla fine dei tempi, quando la pace regnerà su tutte le creature, cosicché le belve possano convivere con le loro prede: «Il leone si ciberà di paglia come il bue» (Isaia, 11:7).

Come un cervo alla fonte

Dal canto suo, il mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (425-450) sfoggia sui bracci laterali elaborati cespi di acanto sui quali si stagliano monogrammi di Cristo in posizione centrale (sul soffitto) e duplici immagini di cervi in modalità simmetrica (nelle lunette). L’immagine di questi animali mansueti – talvolta simbolo di Cristo stesso in lotta contro il demonio, impersonato dal serpente – rimanda al fedele che si abbevera alla fonte di verità e di giustizia. In questo caso i cervi si nutrono della linfa che scorre lungo i girali, e rimandano a un preciso passo biblico: «Allo stesso modo in cui il cervo brama di giungere alla fonte d’acqua, cosí l’anima mia brama di giungere a te, o Dio» (Salmo 42, 1). Va sottolineato che il tema dei girali fioriti può avere una doppia valenza, esattamente come la natura può assumere due volti, nell’intrico della foresta e nella realtà ordinata del giardino (l’Eden è appunto un par-

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Gerico, Palazzo di Hisham (Khirbat al-Mafjar). Il mosaico della Sala delle Udienze, nel quale un grande albero di cotogne troneggia fra due gruppi di figure. 724-743.

co recintato, e il termine paradiso deriva dal persiano paridaiza, che designava le riserve destinate all’attività venatoria dei sovrani). Tuttavia, in un caso come il mosaico absidale di S. Clemente a Roma (1118-19), il significato positivo e trionfale dell’acanto, già ripreso in chiave cristiana a Ravenna, è di una chiarezza e di una potenza estreme. I girali si sviluppano ai fianchi del Cristo morto, e sotto la sua figura si custodisce persino un frammento della Vera Croce. In realtà, l’acanto raffigura un enorme viticcio, che rappresenta a sua volta la Chiesa «che la Legge (di Mosè) fa disseccare, ma che la Croce vivifica», come recita una epigrafe di corredo.

Visioni del paradiso

Particolari sviluppi del tema dei girali paradisiaci si ebbero nell’Islam omayyade, ossia nella prima fase del califfato, che aveva Damasco come capitale. Artigiani cristiani misero al servizio dei nuovi committenti forme e tecniche dell’arte ellenistica nei mosaici della Cupola della Roccia di Gerusalemme (685-691), dove la proibizione della figura umana o animale lasciava spazio a vaste ed elaboratissime fantasie di

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acanto (cariche però di grappoli d’uva), che si sviluppano da vasi o da cespi, e dove trovano spazio ghirlande e coppie di palmizi. Analogamente, la Grande moschea di Damasco (706-714/15) proponeva nei suoi mosaici (oggi frammentari) un interminabile paesaggio lambito da un fiume, scandito da alberi e da vedute di palazzi, città e villaggi, con il corredo (oggi perduto) di iscrizioni coraniche sul tema della fine dei tempi e della salvezza dell’anima in paradiso, dal che si desume che proprio di una visione del paradiso si trattava (non casualmente nelle fasi successive dell’arte islamica le iscrizioni coraniche sostituiranno del tutto immagini di tal fatta). Vero è che gli stessi concetti potevano essere adattati in un contesto profano, per trasmettere una immagine di fasto e di potenza, ma anche per invitare a godere dei frutti della terra, in linea con il dettato coranico: «O voi che credete! Mangiate delle cose buone che la Provvidenza Nostra v’ha dato, e ringraziatene Iddio, se Lui solo adorate!» (Sura 2, 172; traduzione di Alessandro Bausani). Un bell’esempio è costituito, in Cisgiordania, dal mosaico nella sala delle udienze del Palazzo di Hisham (Khirbat al-Mafjar; 724-743), dove un enorme cotogno si staglia tra due gruppi di figure. Da un lato due gazzelle si cibano delle sue fronde, dall’altro un leone si avventa proprio su una gazzella. Si raffigura cosí l’eterno gioco della vita. Il drappo di Sant’Emidio, sciamito con scene di caccia entro clipei, dalla Siria. Fine dell’VIII-inizi del IX sec. Ascoli Piceno, Museo Diocesano.

Gli stessi concetti di base si ritrovano infine nel famoso mosaico di manifattura bizantina della Sala di Ruggero, nel Palazzo Reale di Palermo, che mostra un palmizio piú volte replicato tra coppie di animali esotici e di centauri. Il gusto della simmetria e della raffigurazione «araldica» era giunto a un culmine di proverbiale finezza, in un contesto di raffinata imagerie che aveva perso l’originaria valenza sacra dell’albero. Il discorso vale anche per il celebre mantello da parata dello stesso Ruggero (11331134), nel quale gli animali in lotta si imperniano su un albero stilizzato centrale, che potrebbe tuttavia esprimere una valenza cosmologica. D’altro canto, proprio nell’immaginario cristiano scene violente, con leoni che sottomettono le loro prede predilette o con cavalieri che abbattono a loro volta un leone, possono trovare spazio per evocare la lotta contro il male. Si ha in tal senso una sintesi appassionante nelle sete istoriate di Bahram, prodotte in Siria tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, e subito ampiamente diffuse nell’Europa carolingia. In questi capolavori di arte tessile, si narra la prodezza di un cacciatore a metà tra realtà e leggenda, il re persiano Bahram V (421-439 d.C.), e la scena si ripete ai lati di un maestoso Albero della Vita, un palmizio carico di frutti. I temi dell’iconografia venatoria e delle zoomachie (combattimenti tra animali) sono uniti in maniera perfetta: il cavaliere abbatte il leone che, a sua volta, ha assalito un onagro (asino selvatico). E la lettura in chiave cristiana è chiaramente suggerita dalle croci che fanno da pendant all’albero, come si vede nell’esemplare meglio conservato, ossia il drappo di sant’Emidio del Museo Diocesano di Ascoli Piceno. Per giunta, il cespo d’acanto che si trova sull’asse dell’albero, in basso, compare talvolta proprio ai piedi della croce per esaltare il concetto di Cristo come lignum vitae.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Davide re, musicista e profeta

Da leggere Chiara Frugoni, Alberi (in paradiso voluptatis), in L’ambiente vegetale nell’alto Medioevo. Atti della Settimana di studio, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1990; pp. 725-762 Christine Lapostolle, Arcangela Santoro, Albero, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991; anche on line su treccani.it Antonio Iacobini, L’albero della vita nell’immaginario medievale. Bisanzio e l’Occidente, in Aa. Vv., L’architettura medievale in Sicilia: la cattedrale di Palermo, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994; anche on line su academia.edu Fawzi Zayadine, La concezione iconografica bizantina e omayyade, in Aa. Vv., Gli Omayyadi. La nascita dell’arte islamica, Electa, Milano 2000; pp. 102-105

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Il Cammino dei NURAGHI

ALLA RISCOPERTA DEI TESORI DELLA SARDEGNA PREISTORICA Case delle fate, tombe di giganti… l’archeologia della Sardegna preistorica e protostorica sembra voler evocare un mondo fiabesco e forse alcune delle sue testimonianze suscitano atmosfere sospese e irreali. Poi, però, subentra la concretezza della ricerca sul campo e cosí fate e giganti lasciano il campo a uomini e donne in carne e ossa, dei quali il ricco e variegato patrimonio sardo è la magnifica eredità. E protagonista principe di queste vicende millenarie è la civiltà nuragica, le cui inconfondibili costruzioni punteggiano ogni angolo del paesaggio isolano. A loro è innanzi tutto dedicata la nuova Monografia di «Archeo», che ricostruisce e illustra nel dettaglio l’intero fenomeno, affiancando all’excursus storico una serie di itinerari di visita ai nuraghi piú importanti. Si ha cosí modo di percepire la sapienza e la maestria con cui torri e bastioni vennero innalzati, dando vita a complessi che tuttora impressionano per la loro imponenza. Al contempo, si coglie il ricco tessuto culturale dei gruppi nuragici, che non furono soltanto abili costruttori, ma si applicarono con risultati eccellenti anche in molti altri campi, come testimonia la copiosa produzione di sculture in bronzo. Una vera e propria guida, insomma, dedicata a una civiltà fra le piú importanti del bacino mediterraneo.

IN EDICOLA


di Cristina Ferrari

La pieve di S. Pietro di Mavinas, a Sirmione. La chiesa, di probabile origine tardo-antica, venne riedificata già a partire dalla seconda metà dell’XI sec.

Andar per pievi nel Bresciano Eredi della riorganizzazione ecclesiastica verificatasi nel Nord della Penisola a partire dal V secolo, con l’età carolingia le ecclesiae plebane diventano i luoghi per eccellenza in cui celebrare i sacramenti della fede cristiana. Un fenomeno tipico ed esclusivo dell’Italia centro-settentrionale, mirabilmente dimostrato dalle numerose testimonianze ancora oggi attestate nel territorio della diocesi di Brescia


Dossier

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partire dal V secolo, la cristianizzazione delle campagne favorí lo sviluppo di nuove strutture ecclesiastiche e amministrative, che nell’Italia centrosettentrionale si sono spesso evolute in un modello unico: le pievi. All’indomani del disfacimento del sistema tardo-imperiale e dell’organizzazione territoriale civile e con il contemporaneo affermarsi della fede cristiana, si assiste alla progressiva riorganizzazione delle campagne intorno alle ecclesiae baptismales (chiese battesimali), edifici di culto rurali destinati ad amministrare il battesimo e a celebrare la liturgia ecclesiastica, ma che avevano anche funzione di centri religiosi e amministrativi territoriali, distinti dagli oratori o basiliche privati. Questi edifici sorsero, come detto, dalla fine V secolo, al fine di cristianizzare le aree rurali, dove i servi dei signori, anche cristiani, continuavano ad adorare idoli e altari di divinità pagane, cioè le «manifestazioni del demonio». Erano, tuttavia, anche strumenti di controllo del territorio, della popolazione e delle risorse, in un

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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A sinistra l’abside della pieve di S. Bartolomeo di Bornato, edificata, fra il VII e l’VIII sec., sui resti di un abitato longobardo che, a sua volta, insiste su quelli di una villa romana. A destra cartina con la distribuzione delle pievi attestate nella diocesi di Brescia. Nella pagina accanto, in basso l’interno della pieve di S. Bartolomeo di Bornato al termine degli scavi archeologici di cui l’edificio è stato fatto oggetto.

Qui sopra e a destra assonometrie ricostruttive del probabile aspetto della pieve di S. Bartolomeo di Bornato. Si trattava di una struttura ad aula unica, con una grande abside, un atrio e due annessi laterali, probabilmente adibiti a cappelle funerarie.

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Dossier processo che giunse a compimento nella prima età carolingia. Le chiese battesimali sorgono nell’ambito dell’insediamento sparso, spesso in siti coincidenti o prossimi alle villae romane e/o vicino ad abitati longobardi (i quali, a loro volta, si innestavano su insediamenti di epoca precedente). Erano quindi molto spesso costruite in luoghi centrali rispetto alla maglia dell’insediamento, per permettere alla popolazione di raggiungerle agevolmente. Tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, con l’arrivo dei Carolingi, si assiste a una differenziazione istituzionale del ruolo degli edifici di culto e al diffondersi, nell’Italia centro-settentrionale, delle ecclesiae plebane (chiese plebane, dette pievi), secondo un modello importato d’Oltralpe. Si tratta di circoscrizioni religiose, territoriali, giurisdizionali ed economiche, intese sia come strutture materiali (gli edifici) che come entità geografiche ben delimitate, in cui risiedevano i fedeli (plebs), facenti capo a una chiesa rurale con a capo un arciprete, dotata di battistero esterno (spesso costruito di fronte alla chiesa stessa) e che deteneva i diritti di sepoltura (amministrazione dei sacramenti relativi alla nascita e alla morte), direttamente dipendente dal vescovo. Solo le pievi, infatti, avevano il diritto di celebrare i sacramenti (battesimi, nella notte del Sabato Santo e a Pentecoste, funerali, penitenza, matrimoni), ed erano i luoghi in cui venivano insegnati i rudimenti della fede, mentre nelle cappelle, nei tituli e negli oratori minori (da cui derivano le attuali parrocchie), succursali delle istituzioni plebane stesse, si potevano celebrare solo le funzioni liturgiche. Le pievi, quindi, ereditano, e ampliano, le funzioni delle precedenti chiese battesimali, alcune delle quali, a loro volta, diventano pievi. Emblematico è il caso del Bresciano, dove, secondo un cen-

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simento effettuato negli anni Cinquanta del Novecento, si contano non meno di 50 siti con chiese che hanno svolto il ruolo di pieve almeno per un certo periodo, alcune delle quali ancora esistenti.

Una dinamica ricorrente

Nel territorio bresciano, la maggior parte delle pievi deriva proprio da precedenti chiese battesimali fondate tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, ma forse anche piú antiche, in quanto insistevano probabilmente su «domus ecclesiae» del IV secolo, come nel caso della pieve di S. Maria Nascente (detta della Formigola) a Corticelle di Dello (vedi box alle pp. 90-91) e della pieve di S. Andrea a Rodengo Saiano. L’avvicendamen-

to fra villa o edificio rurale d’età tardo-romana ed ecclesia cristiana (con o senza le fasi intermedie di un edificio abitativo e/o di un oratorio tardo-antico o altomedievale) non è peraltro un fatto insolito nel Bresciano, soprattutto nei siti plebani, quali S. Maria di Manerba, S. Cassiano e S. Emiliano di Padenghe, S. Maria di Corticelle di Dello, S. Stefano/S. Maria della Neve d’Iseo e S. Maria di Cividate Camuno, mentre le pievi di S. Stefania di Nuvolento, S. Salvatore di Saiano, S. Maria di Asola, S. Maria e S. Lorenzo (detta anche S. Maria del Bigolio) di Orzivecchi e S. Maria di Cividate Camuno sono collocate presso o all’interno di abitati longobardi. Anche nel caso di S. Pietro in settembre

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Sulle due pagine immagini degli scavi condotti nella pieve di S. Bartolomeo di Bornato. A sinistra, la sequenza delle diverse opere murarie succedutesi nelle varie fasi di vita dell’edificio, e, in basso, al

Mavinas, a Sirmione, l’edificio, databile tra la fine del V e la prima metà del VI secolo, viene costruito nel cuore dell’area fortificata tardo-antica, mentre a Cazzago San Martino, la pieve di S. Bartolomeo di Bornato sorge su un abitato longobardo che, a sua volta, insiste su una villa romana; infine, a Bedizzole (S. Maria di Pontenove), si assiste a una sostanziale continuità dell’insediamento e del popolamento dell’area. Rilevante è il caso di sei pievi che, oltre a una storia evolutiva molto simile, presentano identiche caratteristiche strutturali, a documentare le evidenti affinità strutturali e del rango architettonico che accomunarono fin dal V secolo

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centro, una sepoltura altomedievale; in basso, resti di abitazioni databili al VI sec., ricavate all’interno delle strutture della villa romana sulla quale sorsero dapprima l’abitato longobardo e poi la pieve.

e nel corso dell’Alto Medioevo le sedi plebane e le maggiori chiese del territorio, mentre i pochi edifici altomedievali sopravvissuti in alzato sono rappresentati da S. Eufemia di Nigoline, dai Ss. Nazzaro e Celso di Leno e da S. Stefano di Rogno. Quest’ultimo, pur essendo in provincia di Bergamo, rientra nella diocesi bresciana.

Chiese ad aula unica

I sei edifici a cui abbiamo appena accennato – le chiese plebane di Bedizzole (S. Maria di Pontenove), Desenzano (S. Lorenzo), Nave (S. Maria della Mitria), Orzivecchi (S. Maria del Bigolio), Sirmione (S. Pietro in Mavinas) e Cazzago San Martino (S. Bartolomeo in Bornato) –

sorgono tutti intorno alla fine del V e gli inizi del VI secolo (eccetto S. Bartolomeo di Bornato, databile al VII-VIII secolo) su precedenti edifici longobardi, a loro volta insistenti o nelle immediate vicinanze di ville romane (almeno in quattro casi). Tutte le pievi presentano una pianta ad aula unica, di circa 22 m di lunghezza per 20 di larghezza (quasi quadrangolare), con una grande abside, un atrio e due annessi laterali, che svolgevano molto probabilmente la funzione di cappelle funerarie. Davanti alla chiesa doveva inoltre sorgere un battistero, come nei casi di Bedizzole (edificio con vasca battesimale ottagonale della fine dell’VIII-inizi del IX se(segue a p. 87)

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Dossier Il nome da un cappello Il magnifico complesso della chiesa plebana di S. Maria Annunciata, nota come pieve della Mitria (nome dovuto, secondo la tradizione, a un copricapo vescovile dipinto sull’insegna di una locanda per i pellegrini costruita in una vicina contrada), sorge sulla riva sinistra del fiume Garza, a 2 km circa da Nave, al centro di un territorio molto popolato, senza soluzione di continuità, già da prima della romanizzazione. Attestata per la prima volta nel 1047, la chiesa, posta a capo di un ampio distretto esteso nell’area montana a nord di Brescia, sorge probabilmente su un antico tempio romano (testimoniato dal reimpiego di are e iscrizioni votive e funerarie, oltre che da un bassorilievo raffigurante Eracle). Non è stata ancora stabilita la datazione esatta del primo edificio ecclesiastico medievale, epoca alla quale viene ascritto anche l’edificio quadrilatero, oggi corrispondente al settore estremo orientale degli ossari, che doveva aggettare rispetto alla navata della chiesa medievale, simmetrico rispetto all’attuale campanile, e interpretato come un annesso liturgico o come un braccio di transetto, che porterebbe a ipotizzare un edificio con pianta a «T», di larghezza pari a quella dell’aula odierna, secondo un modello ben noto e diffuso, con numerose varianti, nell’arco alpino centro-orientale e in area medio e alto adriatica tra la fine del IV secolo e l’età longobarda. L’edificio doveva comprendere anche un’abside a ferro di cavallo, con un diametro massimo di 10,5 m, posta sotto l’attuale presbiterio. Durante il Basso Medioevo e prima della costruzione del campanile, l’abside venne modificata, eliminando il sedile per il clero e il podio e alzando il pavimento di 30 cm. In età romanica, la chiesa venne probabilmente ricostruita quasi interamente e forse

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ECCLESIA TARDO-ANTICA/ALTOMEDIEVALE

Nella pagina accanto, dall’alto immagini della pieve di S. Maria della Mitria di Nave: l’esterno, l’interno e i resti dell’altare e del podio della chiesa di epoca tardo-antica. In questa pagina assonometrie ricostruttive che mostrano l’evoluzione della pieve di S. Maria della Mitria e, in basso, la planimetria dell’edificio con l’indicazione delle sue diverse fasi costruttive, comprese tra l’età tardo-antica e i primi del Cinquecento.

PIEVE ROMANICA

PIEVE TARDO-QUATTROCENTESCA N

Fienile

ADDIZIONI RINASCIMENTALI E POSTERIORI

Ossari

Chiesa tardo-antica/altomedievale Fase romanica Corpo di Cristo

Strutture bassomedievali (XIII-XIV sec.) Ricostruzione rinascimentale (prima metà del XV sec.-1501)

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Dossier

Particolare dell’affresco raffigurante l’Ultima Cena, realizzato nella seconda cappella di destra di S. Maria della Mitria. Ultimi decenni del XIII sec. Insieme al ciclo con le Storie di Sant’Orsola (metà del XIV sec.), si tratta delle pitture piú antiche fra quelle che impreziosiscono la pieve.

l’aula ripartita in tre navate. Alla stessa epoca vanno infine assegnati un piccolo vano quadrangolare edificato a sud del campanile (sul luogo dell’annesso meridionale preromanico) e il lungo ambiente addossato al lato nord della chiesa, che probabilmente comprendeva l’area poi occupata dalla cappella del Corpo di Cristo.

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L’edificio plebano attuale, interamente affrescato, è frutto della riedificazione del XV secolo, che mantenne e sopraelevò i muri d’ambito dell’aula romanica, escludendo però l’antico annesso settentrionale, che fu incorporato nei corpi rustici e demolí completamente l’antica abside semicircolare, sostituendola con un alto e profondo presbiterio di poco piú stretto, lungo quasi 14 m e articolato internamente su due livelli. Allo stesso periodo risale anche l’edificazione del presbiterio e delle murature perimetrali della navata, mentre non è ancora chiaro se risalga a questa fase anche l’apparato

delle volte dell’aula o se sia da attribuire a un momento posteriore, comunque nell’ambito del XV secolo. Ulteriori ristrutturazioni sono databili probabilmente ai primi decenni del XVI secolo La chiesa attuale è costituita da un’ampia aula unica (22 x 11 m), ripartita in quattro cappelle per lato coperte da volte a crociera impostate su profondi fornici laterali a sesto acuto, preceduta da una larga facciata a capanna e conclusa a oriente da un lungo presbiterio rilevato, a terminazione poligonale. Costruito sull’angolo meridionale, tra navata e presbiterio, il campanile, è a canna rettangolare, e risale settembre

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probabilmente al XII o agli inizi del XIII secolo. Su entrambi i lati della struttura si conservano fabbricati di varia epoca, alcuni dei quali risalenti a fasi costruttive medievali. All’esterno del lato nord, in continuità con la cappella quattrocentesca del Corpo di Cristo si aprono vari vani, utilizzati come ossari, e un fienile di XV secolo. Sul versante sud il campanile e il presbiterio sono parzialmente coperti da un piccolo ambiente bassomedievale e dalla sagrestia del XVII secolo, mentre il muro della navata è seminascosto da un’ala con corte residenziale e rustica costruita e trasformata piú volte tramite l’aggregazione di vari corpi di fabbrica tra il Basso Medioevo e il XVII secolo. Splendido e ricchissimo è l’apparato decorativo, che ricopre interamente i pilastri, i muri perimetrali e quelli delle cappelle e che comprende sia cicli di ampio respiro che ex voto, generalmente datati a partire dal 1446. Gli affreschi piú antichi si trovano nella seconda cappella a destra e sono costituiti dai resti di due cicli narrativi raffiguranti l’Ultima Cena (degli ultimi decenni del XIII secolo) e le Storie di Sant’Orsola (metà del XIV secolo), in parte coperti dal pilastro divisorio. Nella stessa cappella vi sono anche affreschi cinquecenteschi, che in parte integrano precedenti raffigurazioni, come nel caso della Madonna con Bambino e i santi Rocco, Giacomo e Bernardino (XV secolo) a cui nel Cinquecento è stato aggiunto un ulteriore San Rocco (forse opera di Altobello Melone). Nella stessa cappella si può ammirare la Pietà tra i Santi Rocco e Sebastiano, datata 1512 e variamente attribuita a Vincenzo Civerchio, a Girolamo Romanino, a Francesco Prata da Caravaggio o al giovane Alessandro Bonvicino (detto il Moretto), ma anche ad Altobello Melone. Nella terza cappella di sinistra si può ammirare una decorazione che mostra, tra gli altri soggetti, parte di una

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Crocifissione (o Trinità) e una figura di giovane in veste di pellegrino da identificare con san Rocco, entrambi quattrocenteschi, oltre alla Madonna in trono col Bambino tra sant’Antonio abate e sant’Ippolito, opera di un artista che accoglie riferimenti da Gentile da Fabriano. Degni di nota sono gli affreschi della cappella di S. Francesco (la terza a destra), interamente dipinta con scene della vita del santo da un unico artista, da alcuni identificato con Paolo da Caylina il Vecchio, cognato di Vincenzo Foppa, o comunque da maestranze a lui vicine, mentre nella cappella della Scuola del Santissimo Sacramento, la prima a sinistra, è affrescato un ciclo con al centro l’Ultima Cena e nelle lunette episodi della Passione. Nell’abside e nel presbiterio sono invece affrescati l’Annunciazione, con Santi e i dodici Apostoli, divisi in due gruppi di sei ciascuno, entro finti absidi. Al primo Cinquecento risalgono infine gli affreschi della prima cappella a destra (detta della Pietà), quali il Compianto sul Cristo deposto tra i santi Rocco e Sebastiano, il Cristo flagellato e la figura isolata di San Rocco (sul pilastro che divide la prima e la seconda cappella), sempre attribuito ad Altobello Melone, e, nella parete sinistra dell’abside ottagonale, l’Adorazione del Bambino con i santi Antonio da Padova e Nicola da Bari (attribuiti a un Maestro bresciano seguace di Girolamo Romanino o del Moretto, ma anche ad Altobello Melone) e I Santi Girolamo, Tomaso di Canterbury e Antonio da Padova che allontanano alcuni soldati, di un seguace locale di Floriano Ferramola. Gli affreschi piú recenti, datati al XVII secolo, sono conservati nella quarta cappella a sinistra, nella quale si possono ammirare anche opere di XV secolo sempre attribuite all’ambito di Paolo da Caylina il Vecchio.

colo) e di Orzivecchi, ma anche di S. Maria di Ripa d’Oglio a Pontevico, la cui attuale struttura cinquecentesca sorge probabilmente sull’antica pieve (post V-ante XI secolo, non ancora ritrovata), che, a sua volta, si innestava su un precedente edificio tardo-antico o altomedioevale, che presenta un battistero ottagonale di 9,5 m di diametro. Anche la chiesa plebana di S. Maria Assunta a Ghedi, fondata anch’essa tra il V e il VI secolo e ricostruita in epoca romanica – su cui oggi si erge la chiesa parrocchiale –, presentava un battistero paleocristiano a pianta quadrata, poi sostituito nell’Alto Medioevo da un edificio battesimale ad aula rettangolare con abside semicircolare, nel quale sono stati rinvenuti il plinto di fondazione dell’altare e il pozzetto circolare in frammenti di tegoloni sottostante la vasca battesimale. Anche a S. Maria della Formigola la prima fase dell’insediamento ecclesiale è testimoniata da un oratorio monoabsidato, precedente la chiesa battesimale altomedievale, inserito fra gli ambienti di una villa romana.

Le tombe nel sagrato

Le primitive chiese battesimali e plebane subiscono una prima importante trasformazione intorno all’XI secolo, con il trasferimento delle sepolture all’esterno dell’edificio ecclesiastico (nel «sagrato», un cortile con il cimitero, che finiva col battistero), mentre gli annessi laterali perdono la loro funzione e vengono di conseguenza eliminati. La nuova chiesa viene a occupare la superficie dell’aula centrale e dell’abside antica, in parte modificandola, generalmente restringendo la pianta originaria, ma talvolta allungandola, assumendo quindi un nuovo impianto sempre ad aula unica o con tre navate, come nel caso di S. Maria di Pontenove, di S. Maria della (segue a p. 92)

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Dossier S. Maria del Bigolio

L’altare di un dio celtico Menzionata nei documenti a partire dal XII secolo, la pieve di S. Maria Assunta e S. Lorenzo (detta del Bigolio) sorge in aperta campagna, a poco piú di 1 km da Orzivecchi, e in origine comprendeva uno dei territori piú estesi del Bresciano, a cui facevano capo le chiese o cappelle di Ludriano, Roccafranca, Orzivecchi, Pompiano, Gerolanuova, Coniolo, Pudiano e Orzinuovi. Il primo complesso battesimale, forse un luogo di culto privato originariamente dedicato a san Lorenzo, presenta due fasi costruttive di epoca tardo-antica e del V–VII secolo, ed era composto da un’aula (l’edificio ecclesiastico) con un ampio atrio e affiancata a nord da un annesso, oltre a un edificio indipendente (presumibilmente il battistero, costruito tra il IV e il VI secolo: date fissate dal fatto che nel legante della facciata dell’edificio sono stati rinvenuti una moneta di Costantino e vari frammenti di ceramica invetriata di VI secolo); dall’area provengono anche alcune sepolture. L’edificio doveva quindi seguire il modello tipico delle chiese battesimali dell’epoca, ovvero un’aula absidata con atrio e annessi alterali e battistero indipendente. Nelle murature sono stati utilizzati vari materiali di reimpiego di epoca romana, tra cui elementi architettonici e iscrizioni votive, in quanto nella zona sono stati rinvenuti moltissimi reperti che coprono un arco di tempo databile tra la tarda età repubblicana e

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il basso impero, suggerendo l’esistenza di un importante insediamento (una villa con annessa area di necropoli e/o un luogo di culto) non ancora individuato. In particolare, nel muro settentrionale era stata reimpiegata una importante ara romana in marmo di Botticino dedicata al dio locale Bolgolius (divinità celtica mai attestata in precedenza, forse assimilabile al Mercurio romano), inserita in corrispondenza dell’angolo con la facciata, che ha permesso di risolvere finalmente la controversia sul nome della pieve, prima spesso identificato come «Vicus olli» (paese dell’olio), anche se gli oliveti sono ad alcuni chilometri dal sito. L’ara di Bolgolius (di dimensioni ragguardevoli: 100 cm di altezza, 53 di larghezza, 45 m di spessore, per uno specchio epigrafico di 56 x 43 cm), forse proveniente dalla villa/luogo di culto nel cui sedime sorge l’edificio plebano, era stata reimpiegata nelle fondazioni del muro, per non essere in vista, in quanto comunque dedicata a una divinità pagana. La prima grande trasformazione avviene in epoca romanica (X-XI secolo), periodo in cui la chiesa subí un radicale intervento di riassetto, che comportò la demolizione dell’atrio e l’avanzamento del muro di facciata. L’aspetto attuale dell’edificio è invece dovuto a una trasformazione avviata nel XVI secolo (e portata a termine nel 1586), con lo spostamento dell’area presbiteriale da est a ovest, mediante l’edificazione di un’abside pentagonale che andò a impostarsi sulle preesistenti murature, e che, a sua volta, si avvalse di vari materiali di reimpiego sia di epoca romana che delle fasi precedenti della struttura plebana. Sempre al XVI secolo, sulla base degli atti della visita pastorale del vescovo Bollani, si data probabilmente la demolizione del battistero, che doveva già essere stato da tempo privato degli annessi laterali. All’interno dell’edificio è conservata la Dormitio Virginis, una formella in cotto considerata un capolavoro del Maestro degli angeli Cantori. settembre

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N

Bedizzole, S. Maria di Pontenove (seconda metà del V-prima metà del VI sec.) Desenzano, S. Lorenzo (V-VI sec.) Nave, S. Maria della Mitria (V-VI sec.) Bedizzole, S. Maria

Desenzano, S. Lorenzo

Orzivecchi, S. Maria del Bigolio (seconda metà del V-prima metà del VI sec.?) Sirmione, S. Pietro in Mavinas (seconda metà del V-prima metà del VI sec.) Cazzago San Martino, S. Bartolomeo di Bornato (VII-VIII sec.) In alto sovrapposizione delle planimetrie di sei pievi del Bresciano che, come appare evidente, risultano accomunate dalla medesima articolazione dei loro spazi.

Nave, S. Maria

Orzivecchi, S. Maria e S. Lorenzo Sirmione, S. Pietro

Cazzago San Martino, S. Bartolomeo Qui sopra e nella pagina accanto immagini della pieve di S. Maria e S. Lorenzo di Orzivecchi, nota anche come S. Maria del Bigolio, per l’altare dedicato al dio celtico Bolgolius (foto alla pagina accanto, in basso).

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Dossier s. maria della formigola

Storie di buoi e affreschi miracolosi La pieve di S. Maria Nascente, detta della Formigola – una delle piú significative testimonianze di architettura quattrocentesca nel Bresciano – sorge in aperta campagna, a 1 km circa da Corticelle (frazione di Dello). L’edificio è stato indagato nel 2002 con uno scavo archeologico all’interno della pieve stessa e in occasione di lavori di ristrutturazione del sagrato antistante (2004), che hanno permesso di individuare, seppur parzialmente, l’articolazione e l’evoluzione degli edifici succedutisi dall’età romana al Basso Medioevo. Ulteriori restauri, eseguiti tra il 2005 e il 2007, hanno riportato alla luce i dipinti murali che ornano sia le pareti che le colonne dell’edificio stesso, databili tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo. La chiesa plebana sorge nel sedime di un’antica ed estesa villa romana rustica, in parte individuata nell’area intorno all’edificio (soprattutto grazie ai materiali affiorati in seguito alle arature), in parte rinvenuta proprio all’interno della chiesa, ovvero un lacerto di muro in ciottoli e un tratto di massicciata o preparazione pavimentale in ciottoli e frammenti laterizi, oltre a una consistente stratificazione di riporti, piani di malta e livelli d’uso, scoperti sia all’esterno

Oratorio tardo-antico (?) Chiesa battesimale altomedievale Pieve romanica (fine dell’XI-inizi del XII sec.)

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Planimetria della pieve di S. Maria Nascente, detta della Formigola, con l’indicazione delle fasi costruttive. settembre

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A sinistra l’esterno della pieve di S. Maria Nascente, o della Formigola, situata in aperta campagna nei pressi di Corticelle. Nella pagina accanto, in alto affresco che mostra una Madonna con Bambino, un uomo inginocchiato e un bue: datato, come si legge, 1539, è un ex voto voluto dal committente (ritratto appunto in ginocchio) per la guarigione del suo animale.

che, per brevi tratti, all’interno della chiesa stessa. All’epoca tardo-antica sono invece riferibili sepolture e murature (musealizzate nei sotterranei della chiesa, insieme ad altre sepolture di epoca successiva) e un edificio absidato con pavimentazione in malta, allettata su una sommaria preparazione di ciottoli e pietrame minuto, ad aula rettangolare di 15 x 6,5 m. La struttura potrebbe essere riferita a un oratorio paleocristiano edificato ex novo sui resti della villa, o alla trasformazione di un ambiente, per adeguarlo a funzione cultuale. All’epoca longobarda risale invece l’ecclesia baptismalis della medesima larghezza della struttura di epoca precedente (non se ne conosce la lunghezza), dotata di due absidi circolari. Alla stessa epoca risale anche il fonte battesimale circolare, rinvenuto nella metà occidentale dell’aula odierna, ma che all’epoca poteva anche trovarsi all’esterno dell’edificio di culto. Resti della chiesa longobarda sono conservati nei muri della pieve e del campanile, tra cui un frammento di cornice del VII-VIII secolo ornata con tre colombe stilizzate. L’edificio attuale è frutto del restauro quattrocentesco, che ha portato alla divisione dell’aula in tre navate separate da sei arcate poggianti su colonne in mattoni con capitelli a scudo. La pieve presentava un gruppo absidale tripartito (corrispondente alle tre navate), poi eliminato in età

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moderna, quando un intervento ha rovesciato l’originale orientamento della chiesa e trasformato l’ingresso nell’attuale presbiterio. Risale invece al XVII secolo il campanile, che poggia però su una base romanica costruita con materiali di spoglio, forse dalla villa romana. La decorazione interna è composta da pregevoli affreschi, quasi tutti ex voto realizzati a partire dal Quattrocento, tra cui l’immagine collocata sull’altare, raffigurante una Madonna con Bambino circondata da un volo d’angeli, probabile opera di un artista della cerchia dei Bembo. Tale immagine, molto venerata, fu protagonista di un evento miracoloso nel 1625, quando fu vista aprire e chiudere gli occhi. La maggior parte degli affreschi, del XVI secolo, rappresenta Madonne con il Bambino, immortalate come maestà in trono, Madonne del latte o in adorazione del Bambino, talvolta stanti, spesso opera di Pietro Giacomo Zanetti, mentre un San Simonino, dipinto nel 1506, è opera di Floriano Ferramola, maestro del Moretto, a cui sono attribuite anche due Madonne stanti su un pilastro. Curioso è invece un affresco datato 1539 (con numeri arabi) raffigurante il committente inginocchiato di fronte alla Vergine con il Bambino, vicino a un bue: si tratta infatti di un ex voto commissionato per la guarigione di un bue, come esplicitamente riportato nell’iscrizione che lo accompagna.

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Dossier Fonte battesimale Focolare

Basamento altare?

Edificio romano

Sagrato

N

Strutture aggiunte alla chiesa paleocristiana Chiesa romanica

vatorio ideale per apprezzare l’architettura e la ricchezza degli apparati decorativi, analoghi a quelli delle cattedrali urbane che dovevano distinguere, fin dal V secolo, le ecclesiae baptismales dai luoghi di culto minori del territorio. La chiesa originaria (23 x 22 m) consiste in una vasta aula monoabsidata, affiancata a nord e sud da due annessi laterali di pari lunghezza (con funzione funeraria) e preceduta in facciata da un atrio o portico. Tale impianto, che in Italia (ma anche Oltralpe e in Dalmazia) appare discretamente diffuso – con numerose varianti tra V e IX secolo –, trova riscontro in altre pievi e chiese tardo-antiche e altomedievali del Bresciano e del Veronese, quali, oltre a quelle già citate, S. Bartolomeo di Bornato (VIII secolo), S. Giovanni di Bovolone (Verona; tardo VIII secolo) e forse S. Maria di Palazzolo sull’Oglio. Nell’annesso nord è stato rinvenuto il primo fonte battesima-

In alto planimetria della chiesa plebana di S. Maria di Pontenove a Bedizzole, con l’indicazione delle fasi costruttive e la distribuzione degli ambienti. In basso veduta dall’alto della pieve di S. Maria di Pontenove in una foto scattata in occasione degli scavi archeologici condotti all’esterno della chiesa per indagare l’edificio battesimale di epoca altomedievale.

Mitra, di S. Pietro in Mavinas, ma anche di S. Lorenzo a Desenzano. Gli edifici subirono nuove importanti trasformazioni in epoca romanica, tra il XII e il XIII secolo, quando viene spesso aggiunto un campanile (la maggior parte delle pievi si presenta oggi nella sua «veste romanica») e nei secoli successivi, fino alla soppressione delle istituzioni plebane con il Concilio di Trento del 1563. Un’altra fondamentale trasformazione avviene in età barocca (XVII-XVIII secolo): molte chiese, che originariamente presentavano l’abside rivolta a est e la facciata a ovest, vengono ruotate di 360 gradi, per spostare la facciata sulla strada principale. L’antica pieve di S. Maria di Pontenove di Bedizzole è un osser-

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le (V-primi decenni del VI secolo), il cui mosaico policromo è finora un unicum in Italia. Ma di grande interesse è anche la presenza di un embrice con bollo identico a quello di un tegolone proveniente dalla cattedrale paleocristiana di S. Maria a Brescia (il cosiddetto «Duomo Vecchio»), che suggerisce l’efficiente organizzazione produttiva e logistica delle officine episcopali. La monumentalizzazione del complesso avviene presumibilmente in occasione dell’istituzione della pieve (IX secolo): di fronte alla chiesa antica, al di là dell’ampio sagratocimitero (delimitato da una recinzione in muratura), si costruisce un nuovo edificio tripartito di notevoli dimensioni, largo quanto l’intera chiesa, e l’ambiente centrale ospita

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la nuova ampia vasca battesimale ottagonale, rivestita di lastre marmoree e dotata di una canaletta di scarico che smaltiva l’acqua del battesimo in un sacrarium sotterraneo esterno. Il riscaldamento dell’acqua e dello stesso ambiente era assicurato da una stufa posta in un angolo.

Una posizione inedita

In origine, anche la pieve di S. Maria Maggiore di Erbusco presentava quasi certamente un impianto analogo a quello delle sei pievi precedentemente citate. L’edificio attuale sorse nel XII secolo (probabilmente sulla struttura piú antica di cui mantiene la pianta) e fu modificato solo nella seconda metà del XIII secolo per costruire l’abside, di semplici forme tipicamente roma-

Immagini delle indagini condotte nella pieve di S. Maria di Pontenove, a Bedizzole. A sinistra, lo scavo dell’annesso nord della chiesa paleocristiana; in alto, i resti del fonte battesimale altomedievale.

niche, ma già con influssi goticheggianti. La pieve presenta inoltre la particolarità di essere stata costruita all’interno del centro abitato, fatto molto raro nella pianura e nella fascia pedemontana e montana. È invece piú diffusa la presenza di edifici plebani nei centri abitati o in loro prossimità sul lago di Garda, quali le pievi di Sirmione e di S. Andrea a Toscolano Maderno, forse per via della particolare conformazione del territorio, che ha portato la popolazione a concentrarsi principalmente lungo la riviera lacustre,

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Dossier

Chiesa tardo-antica

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Chiesa romanica

In alto fotoelaborazione in 3D dell’interno della pieve di S. Pietro di Mavinas a Sirmione, nella quale sono state rinvenute numerose sepolture altomedievali. In basso planimetria della medesima pieve, con l’indicazione delle sue fasi e la distribuzione delle sepolture.

Nella pagina accanto, in alto planimetria della pieve di S. Pietro di Mavinas sulla quale è sovraimposta la foto zenitale delle sepolture altomedievali scoperte nell’aula. Nella pagina accanto, in basso l’abside e il campanile della pieve di S. Pietro di Mavinas.

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con continuità di insediamento fin dall’età antica, come attestano le numerose ville di epoca romana rinvenute all’interno o nei pressi degli attuali paesi. Significativo è il caso di S. Pietro di Mavinas, a Sirmione, di probabile origine tardo-antica, ma riedificata già dalla seconda metà dell’XI secolo, quando l’abside originaria venne abbattuta e sostituita con tre nuove absidi piú piccole, pur mantenendo il podio (che si trovava al centro dell’abside originaria) a terminazione curvilinea, in origine alto piú di 1 m, che doveva ospitare l’altare maggiore e forse anche alcuni seggi del clero. Tra il podio e l’abside correva un deambulatorio. La peculiarità piú rilevante sta nel fatto che, a fronte di una significativa somiglianza nell’architettura e nella storia dell’edificio con le altre sedi plebane, S. Pietro in Mavinas non risulta aver mai svolto la funzione di pieve.

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Dossier Il tentativo di riaffermazione del potere vescovile nel settore giurisdizionale e sociale e sull’economia si manifesta, tra la fine dell’XI e la metà del XII secolo, anche nella costruzione (o ricostruzione monumentale) delle chiese plebane dei centri maggiori della diocesi di S. Andrea di Iseo, S. Maria in Silvis di Pisogne (costruita ex novo, a cui viene trasferita la giurisdizione della pieve della bassa Val Camonica, originariamente a S. Stefano di Rogno, Bergamo) e S. Pancrazio di Montichiari.

La versione camuna

Attestata a partire dal XIII secolo, la pieve di Sirmione è tradizionalmente identificata con l’attuale chiesa parrocchiale di S. Maria Maggiore, ma tale edificio non è citato nella Donazione di Cunimondo del 765, atto in cui il donatore offriva post obitum parte dei suoi possedimenti alle chiese di Sirmione (tra cui le scomparse chiese di S. Vito e S. Martino). È quindi molto plausibile che la chiesa plebana fosse in realtà proprio S. Pietro.

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Un altare analogo a quello di S. Pietro in Mavinas si trovava anche nella pieve di S. Maria della Mitria di Nave (ved box alle pp. 84-87), sempre di origine pre-longobarda (e in varie altre strutture sacre dell’Italia settentrionale, tra cui la pieve di S. Maria di Palazzolo sull’Oglio), ma il podio e il banco del clero sono stati smantellati al momento della costruzione del campanile romanico, mentre l’abside originaria è sopravvissuta fino al XV secolo.

Sempre in Val Camonica vengono fondate la chiesa plebana monumentale di S. Siro di Cemmo e S. Maria Nascente di Edolo. La prima insiste quasi sicuramente su un tempio di epoca romana trasformato in luogo di culto cristiano intorno all’VIII-IX secolo e presenta ancora splendidi affreschi quattrocenteschi (da qui proviene il polittico del Maestro Paroto, firmato e datato 1447, realizzato su commissione di Francesco Afro da Treviso arciprete della pieve stessa, riacquistato nel 2012 dalla Fondazione CAB in un’asta della sede londinese di Sotheby’s e riconsegnato a

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Brescia), mentre S. Maria Nascente (attuale chiesa parrocchiale) prende probabilmente il posto di un precedente edificio del VII-IX secolo non ancora individuato. Il potere dei vescovi è comunque spesso contestato sia da altre istituzioni religiose, sia da privati. Basti pensare alla contesa tra il Vescovo di Brescia e i monaci benedettini di Leno, che nel XII secolo amministravano il sacramento battesimale nella chiesa abbaziale, sacramento che, come già detto, poteva avvenire solo nelle chiese plebane in quanto vescovili. La contesa fu risolta solo nel XIII secolo con l’intervento della Santa Sede, che tolse ai monaci il diritto ad amministrare il battesimo. Si trattava di una contesa non di poco conto: le pievi, infatti, potevano contare su grandi rendite in termini di terre, villaggi, mulini, ecc., in parte dovute anche al prestigio derivato dall’esclusiva dei sacramenti, ricevevano le elemosine destinate ai poveri e ai pellegrini e la «decima», una tassa sacramentale inventata in Gallia (che consisteva nel versamento della decima parte dei prodotti agricoli e degli animali dei fedeli che abitavano nel territorio della pieve) e potevano

appartenere non solo a istituzioni religiose, ma anche a privati e/o a intere comunità, oltre a essere «in comproprietà» (come avveniva anche per i castelli), e, come tale, essere vendute e comprate, con tutti gli interessi sociali ed economici che ne derivavano. Anche per quanto riguarda la fondazione della pieve di S. Pancrazio a Monti-

In alto le absidi della cripta altomedievale della chiesa di S. Salvatore a Sirmione. In basso assonometrie ricostruttive della medesima chiesa, considerata uno degli esempi piú interessanti di architettura tardo-longobarda.

Nella pagina accanto, in alto scavo di una sepoltura longobarda nella pieve di S. Pietro di Mavinas a Sirmione. Nella pagina accanto, in basso lacerto di un affresco rinvenuto nella chiesa di S. Salvatore a Sirmione, messo a confronto con il suo restauro virtuale.

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chiari (prima metà del XII secolo), l’episcopato bresciano si trovò ad affrontare nel territorio, fin dall’XI secolo, la concorrenza della potente consorteria dei conti Longhi. La monumentalizzazione degli edifici sacri riguarda anche la splendida pieve di S. Andrea di Toscolano-Maderno, costruita in due fasi tra l’XI e il XII secolo – ma la cui intitolazione ne fa supporre l’origine tardo-antica –, che sorge all’interno del paese, accanto alla chiesa parrocchiale di Maderno. L’edificio attuale, che ha subito profonde trasformazioni fino al XVI secolo, presenta un impianto basilicale a tre navate scandite da pilastri e presbiterio rialzato su una cripta a oratorio, e una facciata costruita di marmi policromi e, sul portale, una lunetta affrescata del XV secolo. Degni di nota sono i capitelli, sia interni che esterni, decorati con una vasta gamma di motivi figurativi e zoomorfi, nonché il pregevole apparato scultoreo.

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Significativo è il fatto che a Toscolano la pieve dei Ss. Pietro e Paolo, forse risalente all’VIII secolo, distrutta e oggi sostituita dalla chiesa parrocchiale intitolata anch’essa a Pietro e Paolo (detta la «Sistina di Andrea Celesti»), sorgeva a pochi metri dalla villa romana (visitabile) dei Nonii Arii, che un’iscrizione permette di attribuire a Marco Nonio Macrino, console nel 154, proconsole d’Asia nel 170-171 e legatus e comes dell’imperatore Marco Aurelio, la cui tomba monumentale si trova a Roma, sulla via Flamina. Si tratta peraltro, del Macrino piú volte paragonato a Massimo Decimo Meridio, il gladiatore interpretato da Russel Crowe nell’omonimo film di Ridley Scott.

Un campanile imponente

Nello stesso periodo, sul lago d’Iseo, oltre alla già citata fondazione di S. Maria in Silvis di Pisogne, venne ricostruita nell’XI secolo la grande pieve di S. Andrea a Iseo,

che, verso la metà del secolo successivo, subí un radicale intervento di ristrutturazione, con la costruzione di una monumentale torre campanaria, alta quasi 40 m, al centro della facciata. La torre, larga quanto la navata centrale e impostata su un atrio a volte, presentava un complesso organismo tripartito, con ogni probabilità una cappella per conservare le reliquie e/o un sepulchrum per le funzioni pasquali (le reliquie venivano portate in processione fino all’altare maggiore nelle funzioni del venerdí e del sabato santo e della domenica di Pasqua). Si tratta di un unicum in Italia, che forse poteva trovare il confronto piú diretto con il campanile del Duomo Vecchio di Brescia, crollato nel 1708. La monumentalizzazione è senza dubbio frutto di un intervento vescovile e, d’altra parte, a Iseo, presso la pieve, il vescovo di Brescia possedeva una vasta curia, che tra i vari edifici annoverava una turris, settembre

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A destra i resti della cripta della pieve di S. Maria in Silvis di Pisogne. XI sec. Nella pagina accanto la chiesa plebana di San Siro di Cemmo, in Val Camonica. In basso pianta a volo d’uccello della pieve di S. Maria di Cividate Camuno.

Case occidentali

Cimitero

Battistero di S. Giovanni

Porta del castello

Case orientali

Fossato

Muro del castello

Palazzo del vescovo Cortile superiore della pieve Chiostro e case della pieve

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Casa dei Da Palazzo (XIII sec.), poi casa dell’arciprete (XIV sec.)

Chiesa di99 S. Maria Assunta


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Stefania, la santa che non c’era La prima fabbrica della pieve di S. Stefania, con ogni probabilità una chiesa battesimale, potrebbe risalire al V secolo ed essersi innestata su un precedente luogo di culto pagano. Se poco o nulla sappiamo delle costruzioni piú antiche, l’edificio attuale risale al XIII-XIV secolo (ma è soprattutto del XV secolo) e presenta una pianta a navata rettangolare, divisa in quattro campate con archi a timpano e abside circolare, con un alto campanile. Nei muri della chiesa e nel campanile si trovano anche numerose pietre di riutilizzo, probabilmente recuperate dall’antico tempio pagano e dalla vicina villa romana (visitabile). L’interno presenta una ricca decorazione pittorica di XV secolo, tra cui l’Annunciazione raffigurata sull’arco trionfale, secondo un’iconografia neoclassica, e del XVI secolo, tra cui una pregevole Madonna in Trono con Bambino e San Bartolomeo, attribuita al frate carmelitano Giovanni Maria da Brescia. Nella cappella di destra (decorata con affreschi del XVII-XVIII secolo) è conservata l’immagine miracolosa del Compianto sul Cristo Morto, realizzata nella seconda metà del XVI secolo da Paolo da

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una magna domus e la cappella di S. Silvestro, al cui interno si può ammirare una splendida danza macabra della fine del XV secolo.

Il declino

Caylina il Giovane (nipote di Vincenzo Foppa), mentre la cappella di sinistra, costruita su commissione della famiglia De Facchis intorno al 1500, presenta un’originalissima copertura a valva di conchiglia. La cappella è interamente affrescata con una Madonna in trono con Bambino e figure di santi, oltre a scene di martirio, ed è sovrastata da un’Annunciazione. Nelle valve della «conchiglia» si trovano invece busti di Apostoli e di Profeti (sotto la lunetta è conservata la tomba del notaio Antonio Facchi, probabile committente della cappella stessa, morto nel 1520). Molto interessante è il soffitto, realizzato tra la seconda metà del XVII e la prima metà del XVIII secolo con tavelle in cotto inserite tra le travi, interamente decorate con motivi ornamentali, geometrici, simboli della passione, iscrizioni, date e una particolarissima raffigurazione di un uomo con tre teste, a simboleggiare la Trinità, del 1627. Curiosa è anche l’intitolazione a Stefania, una santa non attestata da alcuna fonte, dovuta al fatto che nella pieve si svolgevano le «Stefanie», ovvero le celebrazioni in onore di santo Stefano protomartire e santo Stefano I papa, nome che la fantasia popolare ha trasformato in una nuova santa.

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Sulle due pagine immagini della pieve di S. Stefania di Nuvolento. Dalla pagina accanto, in alto, in senso orario: l’interno della chiesa; il soffitto, caratterizzato dalle tavelle in cotto decorate inserite fra le travi che sostengono le falde; la decorazione a valva di conchiglia della cappella della famiglia De Facchis, con busti di Apostoli e Profeti nelle baccellature.

Nonostante le importanti opere di monumentalizzazione e gli sforzi dei vescovi per preservare l’honor e il districtus sul territorio, a fronte del crescente potere dei dominati locali, le pievi iniziano a perdere parte del loro potere già dall’XI secolo, con la crescente richiesta delle popolazioni delle campagne all’amministrazione dei sacramenti anche presso altre strutture dipendenti dalle chiese plebane (ovvero le attuali chiese parrocchiali), spesso collocate all’interno dei centri abitati. Nel 1400 le pievi avevano ormai già perso gran parte del loro potere sugli edifici sacri dei territori da loro dipendenti (sebbene continuassero a riscuotere le decime), anche a causa di leggi canoniche del XII e XIII secolo che avevano fissato lo smembramento delle circoscrizioni, quindi ben prima della soppressione cinquecentesca. Il processo di soppressione fu comunque graduale e si concluse solo alla fine del XVII secolo, con la riorganizzazione e la divisione del territorio in parrocchie che persiste tutt’oggi, anche se l’antica nomenclatura di «pieve» si utilizza tuttora per indicare le chiese (attualmente dipendenti dalle parrocchie stesse) che ne hanno anticamente svolto la funzione e presso le quali, in molti casi, continuano a essere celebrate funzioni religiose. L’autrice ringrazia Andrea Breda, già ispettore della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Bergamo e Brescia, e Alberto Crosato, archeologo che in collaborazione con la Soprintendenza ha diretto gli scavi in alcuni dei siti citati, per le informazioni e i testi forniti, fondamentali per la realizzazione di questo Dossier.

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I malanni della vanità MODA • Studiosi britannici hanno scoperto la relazione tra alluce valgo e altre

patologie e l’utilizzo delle calzature a punta, diffuse in Europa negli ultimi secoli del Medioevo. Un’abitudine scomoda e pericolosa, ma amata da nobili e borghesi per ragioni estetiche e in quanto indice di ricchezza e status

In alto miniatura raffigurante Jean Waquelin che dona a Filippo il Buono la sua traduzione in francese delle Chroniques de Hainaut, da un’edizione dell’opera illustrata da Rogier van der Weyden. 1447-1448. Bruxelles, KBR. Si notino le poulaines indossate dal re e dagli altri personaggi che assistono alla scena.

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nche nel Medioevo essere alla moda aveva il suo costo. E a farne le spese non erano solo la borsa e le tasche, ma pure la salute. Lo ha dimostrato un’équipe di studiosi del Regno Unito che, esaminando i resti di quasi duecento individui adulti provenienti dai cimiteri medievali di Cambridge, ha riscontrato un’incidenza sorprendentemente alta di patologie podaliche. La ricerca suggerisce che, a causare i dolorosi disturbi fosse l’abitudine, diffusa in Europa dal XII-XIII secolo, di indossare le poulaines, bizzarre calzature di cuoio con la punta allungata tanto da superare, nei casi piú eclatanti, la lunghezza del piede stesso. I primi esemplari di queste scarpe, di chiara ispirazione orientale, furono realizzati in Polonia, alla corte di Cracovia – da cui il nome, poulaines, ossia polacche, o crackowes nel mondo anglosassone – e da lí, tra Due e Trecento, si diffusero nel resto del Continente. Si trattava di calzature unisex, ma, se a calzarle era un uomo, la punta era decisamente piú lunga, con chiaro riferimento alla sfera sessuale e alle dimensioni del membro virile. Le poulaines quasi impedivano di camminare, ma poco importava: averle ai piedi costituiva uno status symbol, giacché, creando impaccio, impedivano i lavori manuali e rendevano evidente il fatto che chi le indossava poteva farne a meno. La dimensione della punta variava in base al ceto: quella per i borghesi si aggirava sui 15 cm, mentre i nobili si permettevano misure ai limiti del parossismo, arrivando a superare il mezzo metro. Per mantenerla rigida ed evitare che si afflosciasse, la si imbottiva con muschio, pelo o lana, talvolta aggiungendo intelatature in legno e stecche di balena. Indossare un paio di poulaines era una moda, ma anche un vezzo scomodo, impegnativo e non privo di rischi per la salute. La

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In alto particolare di una miniatura raffigurante un banchetto, con servitori che indossano le poulaines. 1462-1470. Parigi, Bibliothèque nationale del France.

Nella pagina accanto, in basso una poulaine di fabbricazione spagnola. XV sec. Francoforte sul Meno, Museo delle Arti Applicate.

rigidità delle calzature, unita alla posizione innaturale imposta al piede, provocava, alla lunga, calli ossei e alluce valgo, una patologia caratterizzata dallo spostamento verso l’esterno della base dell’alluce, con deviazione della punta verso le altre dita. Si tratta di una deformazione anche oggi comune e che causa dolori intensi, inficiando la capacità di movimento fino a risultare addirittura invalidante.

Giovanni Evangelista, il convento degli Agostiniani e la chiesa di Church End a Cherry Hinton, un sobborgo 6 km a sud-est della città. E hanno riscontrato che ben il 18% di essi presentava alluce valgo e altre patologie podaliche. Il disturbo appare meno frequente (6%) tra gli individui vissuti tra il Mille e il 1200 e molto piú diffuso (27%) tra chi era stato sepolto nel Tre e Quattrocento, epoca che fa registrare la massima diffusione delle calzature a punta. Curiosamente, a presentare la maggiore occorrenza di patologie erano i frati del convento (43%), seguiti dagli individui deposti nel cimitero dell’ospedale (23%) e da quelli della parrocchia di Ognissanti (10%). Solo il 3% degli scheletri inumati a Cherry Hinton ne era affetto, a conferma di come la problematica affliggesse soprattutto i cittadini e i benestanti, ossia coloro che avevano i mezzi e l’occasione per indossare calzature «di grido».

Il campione esaminato La conferma è dunque venuta dallo studio di un team di archeologi (Jenna M. Dittmar, Piers D. Mitchell, Craig Cessford, Sarah A. Inskip e John E. Robb, in forza alle Università di Cambridge, Aberdeen e Leicester), che, come accennato, hanno esaminato i resti di 177 individui di ambo i sessi deposti tra l’XI e il XV secolo in quattro cimiteri di Cambridge e dintorni: la parrocchia di All Saints (Ognissanti) by the Castle, l’ospedale di San

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CALEIDO SCOPIO L’alta incidenza dell’alluce valgo presso i membri del clero – ne erano affetti ben 5 scheletri su 11 – non deve stupire: anche gli ecclesiastici seguivano le mode e, a quanto pare, aggiravano il divieto espresso formalmente dalla Chiesa nel Quarto concilio lateranense (1215) di indossare calzature «a punta» o ricamate. Per contenere le eccessive libertà nell’abbigliamento del clero, furono necessari vari interventi normativi (nel 1281 e nel 1342) e persino Geoffrey Chaucer, fine osservatore della realtà a lui contemporanea, dovette registrare, nel prologo dei Racconti di Canterbury, che il monaco della brigata, amante del lusso e dei cavalli di razza, indossava abiti

A destra replica moderna di una poulaine. In basso l’armatura di Massimiliano I d’Asburgo, con la versione «corazzata» delle poulaines. 1485. Vienna, Kunstihistorisches Museum.

e instabile, creavano difficoltà di deambulazione e aumentavano il rischio di inciampi e cadute, con conseguenze potenzialmente anche gravi. A confermarlo sono anche in questo caso gli scheletri inglesi: molti individui affetti da alluce valgo presentano infatti, contestualmente, soprattutto nel caso di persone in età avanzata, fratture agli arti superiori, provocate, con ogni probabilità, dal tentativo di attutire rovinose cadute. Per fortuna il piú delle volte gli esiti non furono fatali.

Opera del diavolo

foderati di pelliccia e un paio di stivaloni di pelle fine. Dolori ai piedi, calli e alluce valgo non erano però le sole controindicazioni provocate dall’utilizzo delle poulaines. La forma antiergonomica e la punta lunga e ingombrante delle calzature rendevano l’andatura precaria

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Nonostante la gran quantità di fastidi e incidenti, il successo delle poulaines perdurò per almeno tre secoli, durante i quali sopravvissero sfacciate e incuranti tanto agli strali dei predicatori quanto alle condanne delle autorità laiche. Se la Chiesa le considerava manufatti del diavolo, giacché palesavano la vanità di chi le indossava, sollevavano sospetti di proibite intemperanze sessuali e impedivano al fedele di inginocchiarsi e pregare, non mancarono i regnanti che cercarono di contenerne la prorompente lunghezza: è il caso di Edoardo

IV d’Inghilterra, che, nel 1463, emanò una legge suntuaria che limitava la dimensione della punta a «soli» 5 cm. Carlo VIII di Francia, invece, le mise fuorilegge: essendo esadattilo – aveva cioè sei dita dei piedi – non poteva indossare le poulaines e ne vietò l’uso anche ai suoi sudditi, preferendo sostituirle con le scarpe «a becco d’anatra», che celavano discretamente la sua malformazione. Non funzionò come deterrente neppure la pericolosità che le poulaines potevano assumere in momenti cruciali, per esempio in caso di fuga o in battaglia, come accadde a Sempach, nel 1386, quando il duca Leopoldo III d’Asburgo cadde sul campo, pare, proprio perché intralciato dalla lunghezza delle sue «scarpe d’arme». La versione «corazzata» delle poulaines si può apprezzare anche nell’armatura di Massimiliano I, realizzata nel 1485 da Lorenz Helmschmied e verosimilmente utilizzata in occasioni di rappresentanza. In ogni caso, a determinare il tramonto delle «scarpe di Cracovia», fu, ben piú prosaicamente, il mutare del gusto e la volubilità della moda. Elena Percivaldi settembre

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CALEIDO SCOPIO

Storie, uomini e sapori

Spezie e schiavi per Enrico il Navigatore di Sergio G. Grasso

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ei quattro anni che precedettero la conquista portoghese della città maghrebina di Ceuta – punta settentrionale del Marocco e posizione strategica per il controllo del traffico marittimo sullo stretto di Gibilterra – il re del Portogallo Giovanni I, detto «il Grande», investí somme enormi per allestire la flotta, le macchine d’assedio, le armi e le armature necessarie. Armò un esercito di 45 000 cavalieri e soldati portoghesi, inglesi e galiziani e partí da Lisbona il 25 luglio 1415 su 212 navi da trasporto e da guerra. La mattina del 22 agosto Ceuta era sotto assedio e, come riporta Gomes Eanes de Zurara nella sua Crónica da tomada de Ceuta, prima del tramonto del sole la città era libera da tutti i «mori» e in preda al saccheggio: «Molti entrarono nei negozi, affondando i loro coltelli nei sacchi di spezie, e gettarono tutto sul pavimento. Grande fu il danno che vi fu fatto in quel giorno. Quelle spezie hanno

molto valore all’ingrosso. Le strade erano piene di spezie». Mai fino ad allora la conquista di una lingua di terra di quindici chilometri aveva richiesto un tale dispendio di forze e denaro, al punto che, vent’anni piú tardi, il Portogallo non aveva ancora onorato tutti i debiti contratti per quella spedizione. A prima vista, l’operazione rientrava nel novero della reconquista dei territori iberici occupati e governati da oltre sette secoli dai musulmani. A differenza degli Spagnoli, i Portoghesi si erano affrancati dal giogo islamico già nel 1242, pur provando l’assillante pressione degli emirati di Cordova ai confini orientali. Da cattolici ferventi, erano convinti che la cacciata dei mori dall’Europa fosse sia un dovere, sia il loro naturale destino e, benché Ceuta si trovasse sulla riva mediterranea del Marocco, la sua presa fu prospettata come

una «crociata», in grado di porre fine anche alle scorrerie dei corsari barbareschi e al dominio musulmano nel Nordafrica. L’accondiscendenza di papa (poi dichiarato antipapa) Giovanni

A sinistra manufatti in bronzo usati dai Portoghesi come moneta per l’acquisto degli schiavi, dal Benin. Vienna, Collezione privata. Con l’esemplare grande, si comprava un adulto, con quelli piú piccoli i bambini.


XXIII, garantiva a Giovanni I l’appoggio militare dei principi cattolici inglesi, galiziani e anche quello degli ex cavalieri templari, che, nonostante la sanguinosa soppressione dell’Ordine nel 1312, furono riformati come Cavalieri dell’Ordine di Cristo nel 1318 da re Dionigi del Portogallo. Tanta ostinazione su Ceuta trovava la sua ragion d’essere anche nel fatto che in quella città confluivano tutte le rotte mercantili dell’Africa occidentale e subsahariana dirette in Europa; da lí si poteva controllare il flusso delle merci che l’Africa riversava in Europa, ma delle quali si ignorava la provenienza. Con Giovanni il Grande, partecipavano all’impresa anche i suoi tre infanti: Duarte (futuro re di Portogallo), Pedro

Belém (Lisbona). Particolare del Monumento alle Scoperte, un gruppo scultoreo a forma di caravella, che raffigura Enrico il Navigatore con altri protagonisti delle imprese portoghesi.

(duca di Coimbra) e il ventenne Enrico (duca di Viseu), passato alla storia come «o Navegador» (il Navigatore), proprietario di una flotta che, secondo il suo cameriere Diego Gomez, si era già spinta sulla costa atlantica del Marocco fino alle Canarie.

Carovane nel Sahara Dagli interrogatori dei prigionieri di Ceuta e dal loro confronto con le informazioni riportate dal viaggiatore marocchino del XIV secolo Ibn Battuta, Enrico comprese che le merci preziose destinate alla Spagna e all’Europa arrivavano a Ceuta a bordo di carovane arabe e berbere che trasportavano il sale estratto dalle depressioni saline (sebkha) e dai laghi salati (chott) sparsi tra Egitto e Mauritania. Quei convogli di dromedari attraversavano migliaia di chilometri di dune riarse, tra tempeste di sabbia e imponenti escursioni termiche fino a raggiungere Timbuctú, il

piú importante polo commerciale e culturale del mondo arabo d’Occidente. Durante l’attraversamento del Sahara, le carovane si fermavano nelle oasi, scambiando una parte di quel sale con avorio e pelli di provenienza tribale e con l’oro raccolto nelle miniere del Ghana e del Mali. In molte di quelle oasi i mercanti arabi facevano arrivare tessuti e spezie (pepe, chiodi di garofano, noce moscata, cannella, mirra, zenzero, cardamomo, ecc.) che acquistavano in India e Cina, traghettavano sul Golfo di Oman fino a Mascate (da cui il nome della noce moscata) e vendevano alle carovane transahariane che le avrebbero portate a Timbuctú e di lí a Ceuta. Alla fine del Trecento erano comparse alcune carte geografiche, redatte in Europa sulla scorta della Geographia di Tolomeo, che tratteggiavano i contorni atlantici dell’Africa fin quasi all’equatore; altre indicavano oasi e piste carovaniere subsahariane a esclusivo uso dei mercanti arabi, i quali, gelosi dei loro commerci col Golfo Persico, avevano diffuso leggende di regni potenti e


CALEIDO SCOPIO misteriosi, di popolazioni feroci, di laghi di fuoco, draghi, uccelli giganteschi e terribili mostri. Nessun mercante europeo avrebbe voluto sfidare quelle insidie terrestri (hic sunt leones!) per raggiungere l’Oriente attraversando l’Africa. Ai tempi di Marco Polo, sete e spezie arrivavano in Europa con estenuanti viaggi a nord del quarantesimo parallelo che attraversavano l’impero ottomano, soggetti ai «pedaggi» e ai pericoli delle carovaniere e soggiacendo alle esose intermediazioni dei commercianti arabi, persiani, turchi e veneziani che agivano in regime di monopolio sulle merci esotiche. Era dunque possibile giungere ad partes Indiae per mare oceanum, ossia arrivare in India circumnavigando

l’Africa? Ci avevano provato anche i genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi, che salparono da Genova nel 1291 con due galee e trecento marinai, ma le loro tracce si persero a Capo Juby, ai confini meridionali del Marocco. Per sfidare quell’enorme continente che si chiamava Oceano, di cui erano signori il buio, la paura e le burrasche, Enrico il Navigatore organizzò due spedizioni alle isole di Porto Santo (1418) e Madera (1419), con l’intento di stabilire porti sulle coste occidentali dell’Africa per dar modo alle navi portoghesi di fare scalo verso le Indie. Rientrato in patria nel 1420, fissò il suo quartier generale in Algarve, nella Vila do Infante a Sagres, sull’estrema punta sudoccidentale del Portogallo, dove si circondò dei migliori cartografi, scienziati e astronomi, anche arabi, del suo tempo.

Un grande organizzatore Pur non partecipando mai ad alcuna spedizione, ne progettò e organizzò almeno quaranta, concentrando la potenza e le risorse del Portogallo nell’esplorazione delle coste dell’Africa occidentale; in quanto Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Cristo, disponeva anche delle ricchezze e delle rendite accumulate dai Templari. A Sagres fondò una scuola nautica e un osservatorio, edificò un grande arsenale addetto alla costruzione di vascelli con scafo panciuto, poppa quadrata A sinistra placca in ottone raffigurante un soldato portoghese, dal Benin. Fine del XVI sec. Berlino, SMB, Ethnologisches Museum. In alto, sulle due pagine la città di Ceuta, dal Civitates Orbis Terrarum, opera dei geografi tedeschi Georg Braun e Franz Hogenberg pubblicata tra il 1572 e il 1617.

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e prua rotonda, forse sul modello dei piccoli qarib (pescherecci a remi) nordafricani. Le sue «caravelas» – fornite di bussole, astrolabi e portolani – erano robuste, grandi e maneggevoli, dotate di vele latine e timone di poppa con cui affrontare l’oceano anche con vento contrario. Riuní al suo servizio i migliori comandanti del tempo: Dinis Diaz, João Zarco, Tristan Tejeira, Bartolomeu Perestrelo (suocero di Cristoforo Colombo), Gonzalo Velho, Alfonso Baldaya, Nuño Tristão, Dionisio Diaz, ma anche il genovese Antonio da Noli e il veneziano Alvise Da Mosto. Nel 1394 le caravelle comandate da Gil Eanes riuscirono a superare di cinquanta leghe il Cabo Bojador – fino ad allora considerato la fine del mondo occidentale –, dimostrando l’infondatezza delle superstizioni sui territori ignoti oltre le Colonne d’Ercole. Nel 1443 la Corona portoghese aveva già settembre

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occupato le coste di Senegal, Guinea, Capo Verde e Sierra Leone. Lo stesso anno una carta regia di suo fratello e reggente di Portogallo Pedro de Coímbra concedeva a Enrico l’esclusiva dell’esplorazione delle coste africane e di ogni commercio relativo ai territori a sud di Cabo Bojador. Sempre nel 1443, uno dei capitani di Enrico, Nuño Tristão, rientrò a Sagres con un carico di 14 nativi africani catturati nei villaggi di pescatori della baia di Arguin (oggi Mauritania). La prospettiva di realizzare remunerative incursioni schiaviste in Africa, con l’appoggio dei capi tribú profumatamente remunerati, spinse un gruppo di avventurieri a richiedere e ottenere da Enrico una concessione commerciale che autorizzava la vendita di schiavi «negreschi» in Portogallo. La prima spedizione negriera a Cabo Branco – alla quale partecipò anche il veterano Gil

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Eanes – causò piú di 500 morti tra gli indigeni e procurò 235 schiavi, un quinto dei quali – all’uso musulmano – spettarono a Enrico per contratto.

Una sostanziale tolleranza Informato del fatto, papa Eugenio IV indirizzò al vescovo di Lanzarote la bolla Sicut Dudum, con la quale condannava la schiavitú delle popolazioni indigene. La reprimenda papale, con tanto di scomunica per i colpevoli, sortí lo stesso effetto di un rimbrotto. Provvidenziale (per gli schiavisti lusitani) giunse, nel 1452, la bolla di Niccolò V Dum Diversas, che assegnava al re del Portogallo il dominio su tutte le terre a sud di Capo Bojador e autorizzava la riduzione in schiavitú di qualsiasi «saraceno, pagano o senza fede». Iniziava cosí quella industrializzazione della «tratta»

che, nei quattro secoli successivi, movimentò 24 milioni di africani a bordo delle navi negriere portoghesi, francesi, britanniche, spagnole e olandesi. Nel 1460, anno della morte di Enrico, la costa africana era stata esplorata fino all’attuale Sierra Leone. Benché non fosse riuscito a stabilire una rotta alternativa per le spezie e gli altri tesori d’Oriente, il Navigatore che disdegnava viaggiare poteva dirsi soddisfatto dei suoi successi nell’esplorazione e nella colonizzazione delle coste africane alla ricerca del finis terrae australis. Grazie a lui il Portogallo, fino ad allora privo di una tradizione marinara paragonabile a quella dei Veneziani, divenne il punto di riferimento per tutti i navigatori europei e il precursore (nel bene e nel male) di tutti gli imperi coloniali. Ventotto anni dopo, un portoghese doppiò per primo il Capo di Buona Speranza e giunse a Mosselbaai, duecento miglia a est di Città del Capo, dimostrando senza ombra di dubbio che l’Africa era circumnavigabile. Si chiamava Bartolomeo Diaz e veniva dalla stessa famiglia di navigatori che aveva servito Enrico con la scoperta di Capo Verde (Dinis Diaz nel 1444) e l’esplorazione del Senegal (Vicente Diaz nel 1445). Il progetto di Enrico il Navigatore poté dirsi concluso solo il 20 maggio 1498, quando il lusitano Vasco da Gama raggiunse l’Asia (Calcutta) dall’Europa, collegando per la prima volta via mare l’Occidente e l’Oriente. Finiva cosí l’epoca delle antichissime rotte terrestri della seta, dell’incenso e delle spezie e iniziava la decadenza di fiorenti città mercantili, come Antiochia e Alessandria. Cessava anche il monopolio commerciale di Veneziani, Turchi e Arabi nel commercio delle spezie, il cui repentino calo dei prezzi provocò l’esplosione della domanda e dell’offerta.

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Quando i santi prendevano le armi

Con la spada e il cannone di Paolo Pinti

I

l culto di santa Barbara era diffuso fin dal VI-VII secolo secolo in Egitto e a Costantinopoli e, in Occidente, in Italia e Francia, per attestarsi nel Medioevo in virtú della Legenda Aurea. Nel 1969 la santa è stata tuttavia rimossa dal Calendario Romano Generale, perché la sua concreta storicità non risulta documentata. Le sue biografie sono numerose, spesso molto diverse tra loro e tutte molto tarde rispetto alla sua epoca. In ogni caso, Barbara è ritenuta figlia di tal Dioscoro (o Dioscuro), convintamente pagano, il quale decise di rinchiudere la figlia in una torre, per metterla al sicuro dal mondo e dai suoi pretendenti, sicuramente numerosi, data l’incredibile bellezza della fanciulla, la quale, però, li respingeva tutti.

Nella pagina accanto Santa Barbara, affresco di Domenico Ghirlandaio. 1472 circa. Cercina (Firenze), pieve di S. Andrea. In entrambe le opere, la santa, identificata dalla torre, schiaccia un uomo che indossa un’armatura, da identificare con il padre Dioscoro, ma la scena vuole anche simboleggiare il trionfo della fede cristiana.

dida da scrivere miniatura raffigurante il gioco dei dadi, da un’edizione manoscritta delle opere sull’etica di Aristotele tradotte da Nicola d’Oresme. 1455. Digione, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto, scena associata al mese di gennaio ne Les Très riches Heures du Duc de Berry, Libro d’ore illustrato dai celebri fratelli Limbourg. 1413 circa. Chantilly, Musée Condé.

La terza finestra Sembra che la stessa Barbara avesse sovrinteso ai lavori di costruzione della torre (e la torre sarà il suo simbolo principale, insieme alla palma del martirio) e, dal momento che il progetto prevedeva due sole finestre, ne fece aprire una terza, come richiamo alla Trinità. S’impone, a margine, una breve considerazione: una torre è tale se piuttosto alta e, quindi, a piú piani; ebbene la leggenda parla di due finestre, esposte a nord e a sud del progetto iniziale, alle quali fu aggiunta la terza, voluta appunto

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dalla ragazza (non sappiamo con quale orientamento) e dobbiamo pensare che tali aperture fossero previste per ciascun piano, altrimenti la gran parte delle stanze non avrebbe avuto luce, né aria. Possiamo insomma dire di trovarci di fronte al primo esempio storico di una «variante in corso d’opera» nella costruzione di un edificio.

A destra Santa Barbara punisce il padre infedele ed è pregata da un donatore, dipinto su tavola di Domenico Ghirlandaio. 1473 circa. Collezione privata.

Dallo studio alla conversione Secondo altre versioni, la segregazione in una torre era una punizione paterna per la disobbedienza di Barbara, che, però, poteva farvi accedere filosofi, poeti ed eruditi di vario genere. Di qui il simbolo del libro che pure accompagna l’iconografia della santa. Proprio a seguito di tali studi (s’interessò in particolare ai testi del teologo alessandrino Origene, vissuto tra il II e il III secolo), scelse di abbracciare la religione cristiana: una scelta che il padre non dovette evidentemente gradire, né approvare, visto che tentò di ucciderla. Barbara riuscí a salvarsi passando attraverso le mura della torre o, secondo altre versioni, volando su una montagna. Mentre si librava in cielo, venne scorta da un pastore, che, subito maledetto dalla giovane, fu trasformato in pietra e le sue pecore in locuste. E c’è da chiedersi se Barbara, nei suoi studi, non avesse trascurato il passo in cui Gesú predicava il perdono... Ma, soprattutto, non si capisce quale colpa potessero mai aver commesso le pecore per diventare insetti! Fatto sta il pastore, prima di cambiare fattezze, aveva avvertito il padre, il quale trascinò la figlia davanti a un magistrato/prefetto di nome Martiniano o Marziano. Si ripete a questo punto la scena comune a tanti casi del genere: Barbara si rifiuta di abiurare e il magistrato/prefetto escogita le piú efferate torture per costringerla a farlo. Non è qui importante elencare nel dettaglio le sevizie a cui, secondo

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i vari estensori della sua storia, la ragazza sarebbe stata sottoposta e basterà ricordare che il padre, alla fine, la portò su una montagna e la decapitò personalmente.

La punizione divina Resosi finalmente conto della malvagità di Dioscoro, Iddio lo uccise con un fulmine, che colse l’uomo una volta sceso dalla montagna. E proprio la saetta legherà alla santa il suo simbolo piú caratteristico insieme alla torre, vale a dire il cannone, correlato al fumo, alle esplosioni, al fuoco. Di qui il patronato per gli artiglieri, insieme ai vigili del fuoco, alla marina militare, agli artificieri, ai genieri, ai minatori, agli architetti, agli stradini, ai tagliapietre, ai muratori, ai cantonieri, ai campanari. Il legame piú stretto e noto è con gli esplosivi e tutti sappiamo che

il deposito di munizioni, sia nelle caserme che sulla navi, è ancora oggi chiamato «santabarbara». È interessante sottolineare la sovrapponibilità della storia di santa Barbara con quella di santa Cristina: la vicenda risulta identica praticamente in ogni particolare, dalla torre di segregazione, al padre psicopatico, ai supplizi per ottenere l’abiura. L’unica differenza è che, nel caso di Cristina, non fu il padre, di nome Urbano, a ucciderla, bensí un altro persecutore, Dione, con due frecce. Dopo aver visto che la bambina – che aveva all’epoca undici anni – gettata nel lago di Bolsena con una pietra al collo, s’era salvata, Urbano morí di dolore, non sappiamo se per aver visto le torture inflitte a sua figlia o per averne constatata l’inutilità. Riconoscere santa Barbara nei dipinti è piuttosto facile: se la foglia

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CALEIDO SCOPIO di palma indica solo la sua entità di martire (elemento molto comune), la presenza di un libro specifica la sua sapienza, mentre una torre (spesso con tre finestre), raffigurata come modellino tenuto in mano dalla santa, oppure a grandezza naturale, sullo sfondo, ne delinea in modo inequivocabile la figura. La presenza di una spada (strumento del martirio, usata dal genitore) è pure indicativa, ma, essendo comune a tante altre martiri, non è dirimente, come invece il cannone, quando è presente.

Spade, storte e scimitarre Occorre a questo punto precisare meglio cosa debba intendersi con il termine spada. Viene cosí definita solo l’arma bianca manesca lunga, con lama dritta a doppio filo: se la lama è curva, tagliente solo nel lato convesso, siamo di fronte A destra Decapitazione di Santa Barbara, olio su tela di Jacopo da Empoli (al secolo, Jacopo Chimenti). 1600-1640. Firenze, Galleria degli Uffizi. Il personaggio sulla sinistra, vestito da antico romano oppure «all’eroica», dovrebbe essere il magistrato/prefetto Martiniano (o Marziano), affiancato da un musulmano; alle sue spalle, armati europei, con armi in asta molto approssimative. Per contro, la spada brandita dal personaggio centrale (il padre della santa) corrisponde perfettamente a modelli europei dell’epoca.

Una scimitarra di produzione turco-ottomana, conosciuta come qilid, kılıç o kilij. XVI sec.

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Qui sopra una storta di produzione italiana. 1530 circa. Praga, Istituto Storico dell’Esercito. settembre

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a un’arma diversa, che, molto grossolanamente, rientra nel modello della storta, se europea, o della scimitarra, se orientale. In Europa, un’arma del genere è anche la sciabola, ma nelle raffigurazioni sacre non compare quasi mai. Nella pittura non vediamo mai (o quasi) spade (con lama dritta a doppio taglio) in mano a personaggi orientali, mentre sono frequentissime per quelli occidentali, che, però, possono talvolta impugnare una storta. In piú di un caso gli artisti dimostrano scarsa attenzione per le tipologia delle armi associate ai martiri, ma, di solito, con la spada s’intende indicare un’arma europea (cristiana), mentre con la scimitarra ci si riferisce al mondo islamico (infedele). La storta può far nascere In alto La fuga di Santa Barbara dalla torre, una delle scene del ciclo dipinto dal Pinturicchio nella Sala dei Santi dell’Appartamento Borgia, in Vaticano. 1492-1494. Il padre Dioscoro compare qui in abiti orientali e, di conseguenza, impugna una scimitarra. A sinistra santa Barbara in una stampa novecentesca. La martire appare qui con il solo simbolo del cannone (si tratta, piú esattamente, di un trabucco) e la nave a vela sullo sfondo la lega all’ambito marinaresco.

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qualche dubbio, visto che la sua morfologia appartiene – nelle linee generali – a entrambi gli ambiti.

Il trionfo della fede In due opere di Domenico Ghirlandaio – Santa Barbara punisce il padre infedele (vedi foto a p. 111) e l’affresco nella pieve di S. Andrea a Cercina (vedi foto a p. 110) – vediamo la santa che schiaccia un uomo in armatura, da identificare con il padre Dioscoro, a simboleggiare il trionfo della vera fede. In vari altri dipinti (Lorenzo Lotto nella Cappella Suardi a Trescore Balneario, in provincia di Bergamo; Pinturicchio nell’Appartamento Borgia, in Vaticano, ecc.), il padre della santa è raffigurato in abiti di foggia orientale, con una scimitarra in mano, coerente con la veste, mentre si accinge a uccidere la figlia. Per santa Barbara, dunque la presenza della sola arma con la quale è stata uccisa – spada, storta o scimitarra che sia – non è di per sé indicativa, ma se troviamo raffigurato anche un cannone, possiamo essere certi che di lei si tratta.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Beatrice Borghi Il Mediterraneo di Anselmo Adorno Una testimonianza di pellegrinaggio del tardo medioevo Pàtron, Bologna, 562 pp.

56,00 euro ISBN 978-88-555-3397-3

Il protagonista di queste preziose pagine di storia del Quattrocento ha un cognome italiano, ma, in realtà, era un illustre personaggio nella realtà economica e sociale delle Fiandre. La sua era una stirpe di mercanti e banchieri genovesi che ebbe modo di fare affari e di stabilirsi all’estero. Fu il suo avo Oppicino a porre la propria residenza in terra fiamminga, nel 1269, e fu lui a inaugurare una consuetudine di pellegrinaggi in Terra Santa che accomunò i suoi discendenti, a tal punto che il nonno e il padre di Anselmo edificarono a Bruges (Belgio) la Jerusalemkerk (chiesa di Gerusalemme), ossia una «copia» del Santo Sepolcro. Lo stesso Anselmo la portò a termine nel 1471, di ritorno dalla sua esperienza nei luoghi santi della Palestina. Personaggio in stretto contatto con le corti di Borgogna e di Scozia, Anselmo era

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partito l’anno prima con istruzioni segrete, visto che il suo non era un semplice pellegrinaggio. Lo spirito della crociata pervadeva ancora le potenze europee all’indomani della caduta di Costantinopoli, e le informazioni raccolte dal letterato e diplomatico fiammingo potevano essere utili a dare corpo alla tanto invocata, ma mai

concretizzata, alleanza degli Stati euroasiatici ostili alla potenza ottomana. A tal fine una sua successiva missione si spinse sino in Persia, alla corte dell’emiro Uzun Hasan. Beatrice Borghi compie con questo volume un’ampia e meticolosa disamina dell’impresa, sulla scorta di una relazione in latino redatta da Giovanni Adorno, figlio e compagno di viaggio di Anselmo, il cui testo viene integralmente

riproposto e tradotto. Si tratta di una testimonianza dettagliata, preziosa e coinvolgente, sia per l’attenta evocazione dei luoghi e degli ambienti, sia per lo spirito nuovo che pervade il viaggiatore. Anche se permangono le inevitabili riserve nei riguardi del mondo islamico, soprattutto sul fronte religioso, la concretezza del racconto avvolge l’itinerario in un’atmosfera nuova, senza lasciare spazio a racconti leggendari e a fantasticherie. Le disavventure sono narrate con la precisione di un giornale di bordo, e la stessa intensità con cui si descrivono le disavventure in mare aperto, o le non facili contrattazioni per i salvacondotti, viene riservata al fasto delle corti e a una descrizione attenta delle popolazioni beduine, colte con una certa simpatia nella loro diversità, ma anche nella loro comunanza d’animo con i viaggiatori europei. Tutto ciò fa di questo viaggio l’estremo frutto di un’antica tradizione e, al tempo stesso, il segno dell’affermarsi di una sensibilità moderna verso i

mondi esterni, sia in senso geografico che antropologico. Furio Cappelli Massimiliano Caldera, Giovanni Murialdo, Magda Tassinari I Del Carretto Potere e committenza artistica di una dinastia signorile tra Liguria e Piemonte (XIV-XVI secolo) Scalpendi Editore, Milano, 475 pp., ill. col. e b/n

55,00 euro ISBN 978-8832203769 www.scalpendi.eu

Questo corposo volume nasce nell’ambito del progetto MUDIFMuseo Diffuso del Finale, che, attivo dal 2018, si è posto l’obiettivo di diffondere la conoscenza del patrimonio storico e paesaggistico di questa zona della Liguria. Che, a partire dal Medioevo, divenne il cuore di un marchesato destinato a svolgere un ruolo di primo piano nel panorama non soltanto locale. E artefice principale delle sue fortune fu la famiglia dei Del Carretto, che vantava antiche e nobilissime origini. Il ramo finalese della dinastia fu uno dei piú importanti e la presente pubblicazione ne offre un saggio eloquente, attraverso

la documentazione dell’imponente produzione artistica di cui i suoi membri si fecero committenti. Nella prima parte viene ripercorsa la storia dei Del Carretto, che si intreccia con quelle dei maggiori protagonisti del Medioevo e del Rinascimento italiani ed europei. Per poi passare, grazie ai contributi dei molti studiosi coinvolti nell’iniziativa, alle testimonianze materiali

di una stagione lunga e gloriosa: la rassegna è vasta e sistematica, spaziando dall’architettura alle arti figurative, dalla produzione di armi all’emissione di monete medaglie, solo per fare gli esempi piú significativi. Ne scaturisce un quadro davvero completo, che, avvalendosi di un ricco corredo iconografico, propone un ritratto a tutto tondo di una delle piú prestigiose famiglie nobili italiane. Stefano Mammini settembre

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