Medioevo n. 275 Dicembre 2019

Page 1

EL O A

MEDIOEVO n. 275 DICEMBRE 2019

IL D CA I VMED PO INI IOE SS CI VO

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

Mens. Anno 23 numero 275 Dicembre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PALERMO L’ORO DEI NORMANNI MARCO POLO TUTTI GLI ANIMALI DEL MILIONE GIOVANNA D’ARCO UN CASO DI GENERE DOSSIER

GALVANO

UN GUERRIERO AL FIANCO DI RE ARTÚ

www.medioevo.it

€ 5,90

CAPOSSELA MADONNA DI SAN LUCA MEDIEVALISMI/9 GIOVANNA D’ARCO ANTICHE CHIESE DELLA SICILIA DOSSIER GALVANO

ROMA IL MIRACOLO DELLA MADONNA DI SAN LUCA

IN EDICOLA IL 3 DICEMBRE 2019



SOMMARIO

Dicembre 2019 ANTEPRIMA

RESTAURI

IL PROVERBIO DEL MESE

Colei che mostra la via

LUOGHI

Madonna di San Luca

Esser brutto come il peccato

Catechismo per immagini

5

ARCHEOLOGIA Sotto la chiesa dei notai Nella pieve dei pellegrini

6 8

di Mimmo Frassineti

48

ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/13 Sicilia Per la gloria dei conquistatori di Furio Cappelli

RESTAURI L’enigmatico Giudizio del frate pittore

14

MOSTRE Di nuovo insieme

20

APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

24

78

CALEIDOSCOPIO LIBRI Arte sugli scudi Lo Scaffale

110 113

MUSICA Natale in Boemia

114

Dossier

STORIE

GALVANO

Cavaliere solare

MUSICA Vinicio Capossela Cantare il Medioevo

incontro con Vinicio Capossela e Chiara Frugoni, a cura di Corrado Occhipinti Confalonieri 34

48 STORIE Il Milione La marmotta di Marco Polo di Claudio Costa

58

58

COSTUME E SOCIETÀ

34

MEDIEVALISMO/9 La Pulzella del Sol Levante di Riccardo Facchini

68

di Domenico Sebastiani

93


IL

CADI VMED PO INI IOE SS CIOVO EL A

MEDIOEVO n. 275 DICEMBRE 2019

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

Mens. Anno 23 numero 275 Dicembre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PALERMO L’ORO DEI NORMANNI MARCO POLO TUTTI GLI ANIMALI DEL MILIONE GIOVANNA D’ARCO UN CASO DI GENERE DOSSIER

GALVANO

UN GUERRIERO AL FIANCO DI RE ARTÚ

www.medioevo.it

€ 5,90

CAPOSSELA MADONNA DI SAN LUCA MEDIEVALISMI/9 GIOVANNA D’ARCO ANTICHE CHIESE DELLA SICILIA DOSSIER GALVANO

ROMA IL MIRACOLO DELLA MADONNA DI SAN LUCA

IN EDICOLA IL 3 DICEMBRE 2019

med275_Cop.indd 1

25/11/19 12:31

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 275 - dicembre 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Claudio Costa è veterinario. Riccardo Facchini è dottore di ricerca in storia della civiltà europea. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Illustrazioni e immagini: Mimmo Frassineti: copertina (e p. 48) e pp. 51, 52-57 – Shutterstock: pp. 5, 36/37, 50/51, 86 (alto), 94 – Cortesia Università degli Studi di Salerno: pp. 6-7 – Cortesia degli autori: pp. 8 (alto), 10, 75, 76-77 – Cortesia Università di Bologna: p. 9; Andrea Cenerelli: disegno a p. 8 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa Opera Laboratori Fiorentini-Civita: pp. 14-15 – Cortesia Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia: p. 21; Sandro Bellu: p. 20 – Simone Cecchetti: p. 34 – Doc. red.: pp. 35, 37, 38-39, 40/41, 43, 44/45, 78-83, 85, 88, 94/95, 9697, 104 – Cortesia Oskar Cecere: p. 41 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 58-69, 87 (alto), 93, 98-99, 100, 103, 105, 106, 109; Cortesia Everett Collection: pp. 71, 72/73; Collection Christophel/Société Générale des Films: p. 72; Gaumont/Album: pp. 74/75; AGE: pp. 87 (basso), 89; Electa/Sergio Anelli: pp. 90/91; Album/The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 100/101; Erich Lessing/Album: p. 107; Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: pp. 108/109 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Stéphane Maréchalle: p. 102 – Cippigraphix: cartina a p. 84 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 86. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Madonna di San Luca o del Popolo (particolare), dipinto su tavola di Filippo Rusuti. Fine del XIII sec. Roma, S. Maria del Popolo.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Nel prossimo numero restauri

La Porta Sud del Battistero di Firenze

costume e società

Templari e neotemplari

dossier

Rieti e la Valle Santa


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Catechismo per immagini

L

a locuzione «Esser brutto come il peccato», utilizzabile anche in modo scherzoso, sta a significare, in modo abbastanza evidente, essere «bruttissimo, mostruoso, repellente, schifoso». L’espressione ha probabilmente origine nei secoli del Medioevo, quando nelle chiese iniziarono ad apparire rappresentazioni – musive, scultoree o pittoriche – di scene del Vecchio e Nuovo Testamento, finalizzate a catechizzare in modo immediato i fedeli, perlopiú illetterati. Venivano sfruttate tutte le superfici decorabili: dai capitelli delle colonne all’ambone, dal battistero alle pareti. Vi si potevano trovare scene legate alla vita di Cristo, della Vergine o dei santi, ma anche episodi biblici come la Genesi, il Diluvio e le gesta dei re. Tra le piú comuni non mancavano quelle legate alla vita nell’aldilà, la resurrezione della carne e il tema del Giudizio Finale. Se i giusti e i beati venivano raffigurati con volti sereni e serafici, con abiti bianchi, i dannati, i peccatori erano invece dipinti immersi nel fuoco, stravolti nei con-

notati per il dolore lancinante, tra diavoli ripugnanti che li tormentavano con uncini e forconi. A ogni peccatore tocca un tragico destino diverso, commisurato secondo un ben noto contrappasso: vi sono quelli immersi nello sterco, chi nella pece, chi nelle fiamme, chi nel ghiaccio; alcuni vengono scuoiati, altri sbattuti da una tempesta, alcuni hanno i corpi stravolti o dilaniati, tutti risultano deformati per il dolore, con smorfie che li rendono ripugnanti. Si pensi per un istante ai diavoli e ai dannati raffigurati da Giotto, da Signorelli, o a quelli del Battistero di Firenze. L’immagine – eccellente strumento di comunicazione – chiariva insomma quanto fosse brutto (nonché sbagliato e pericoloso) peccare. E il monito risultava talmente esplicito da divenire proverbiale. Orvieto, Duomo. Un gruppo di peccatori, particolare del Giudizio Universale scolpito a bassorilievo su uno dei piloni sottostanti le guglie della facciata. XIV sec.


ANTE PRIMA

Sotto la chiesa dei notai ARCHEOLOGIA • Le piú

recenti indagini nell’area della plebs di S. Maria Rota, nel Salernitano, gettano nuova luce sulla storia dell’edificio di culto e delle fasi di frequentazione precedenti l’avvento delle genti longobarde nella zona

N

uovi scavi archeologici sono stati condotti nella frazione Curteri di Mercato San Severino (Salerno), dove è ubicato il piú antico edificio di culto della valle dell’Irno, la plebs di S. Maria di Rota, oggi nota come S. Marco, il

In alto frazione di Curteri di Mercato San Severino (Salerno). Un momento degli scavi condotti nell’area in cui sorgeva la plebs di S. Maria di Rota. In basso una delle tombe di epoca longobarda individuate grazie alle indagini condotte nel sito della plebs.

cui primo impianto risale all’età longobarda. Presso l’atrio, attestano fonti documentarie, nell’803 già si riunivano i notai per stipulare i vari rogiti, mentre nel catino absidale si conservano due cicli di pitture parietali dello stesso periodo.

Una lunga sequenza insediativa Campagne di scavo sistematiche, condotte con fondi della Scuola di specializzazione in Archeologia dell’Università degli Studi di Salerno in collaborazione con l’Arcidiocesi di Salerno e il Comune di Mercato Sanseverino, sotto la direzione di Rosa Fiorillo, docente di archeologia medievale presso l’ateneo salernitano, hanno finora messo in luce un’articolata sequenza insediativa, che ha evidenziato la continuità della frequentazione del sito dall’età romano-repubblicana fino al primo Medioevo, seppure con notevoli modificazioni nelle destinazioni d’uso dell’area. «Le indagini archeologiche – spiega Rosa Fiorillo – hanno rilevato che la frequentazione piú antica del sito è rappresentata da un edificio, probabilmente una villa romana, di

6

dicembre

MEDIOEVO


Veduta dall’alto dei resti della villa di epoca romana che, a oggi, costituisce la piú antica frequentazione dell’area in seguito occupata dall’edificio di culto di epoca medievale.

cui sono stati messi in evidenza un vano pavimentato in laterizi e un ambiente interrato e intonacato, la cui datazione si pone tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I d.C. In un secondo momento, il piano pavimentale venne rialzato con un riempimento di tufi e materiali di riporto e il fabbricato, presumibilmente di carattere residenziale, fu decorato poi con pavimenti a mosaico e affreschi parietali: a questa fase risalgono anche le strutture rinvenute a sud dell’edificio, come la vasca in cocciopesto e due basi in tufo precedute da un canale e da un peristilio di colonne in laterizio, rinvenute disfatte. In base ai frammenti di decorazione parietale recuperati, l’intervento di ammodernamento della villa può essere collocato verso la fine del I secolo d.C. Gli ambienti subirono successivamente alcuni interventi di restauro e risistemazione riscontrati nell’alloggiamento di un marmo pavimentale al centro del vano occidentale e della preparazione in calce stesa per l’alloggiamento del

MEDIOEVO

dicembre

mosaico, visibile solo alla base dei muri. La villa venne poi dismessa progressivamente: al di sotto di alcuni crolli di tegole non sono stati rinvenuti livelli di frequentazione, e le macerie insistevano su impianti già privati degli arredi architettonici. Dopo l’abbandono, ma prima della definitiva rovina della villa, furono collocate alcune sepolture (T3 e T4) realizzate nel corso del VI secolo d.C., mentre altre due sepolture terragne (T1 e T2) risalgono a un momento successivo, dal momento che furono ricavate in un terreno alluvionale che copriva le macerie crollate e appianate.

Il crollo e lo spianamento Le ultime testimonianze di frequentazione delle strutture della villa prima del loro collasso – forse dovute a un incendio – sono le numerose monete interpretate come nummi di V-VI secolo e rinvenute negli strati di cenere che coprivano i piani pavimentali e piccole fosse di cenere che hanno restituito scorie sferiformi. I crolli e i muri residui dell’edificio furono spianati per ottenere un piano sul

quale realizzare una costruzione con impianto circolare, forse legata ad attività artigianali, attestate dalla presenza di scorie metalliche, residuo di attività di fusione. La presenza di monete che si datano nel corso del VI secolo sulla cresta di alcuni muri suggerisce di datare a tale periodo anche questa fase. Il susseguirsi di eventi alluvionali determinò un primo deposito di sedimenti che obliterò gli strati altomedievali. In seguito l’area fu interessata da sporadiche costruzioni o da lavori agricoli, mentre nuove esondazioni e abbondanti precipitazioni determinarono la copertura e l’innalzamento della quota fino al calpestio attuale, dove, in epoca recente, fu impiantata un’aia circolare prima sostenuta da piccoli barbacani poi innalzata e ricostruita in cemento. Il prosieguo delle indagini potrà chiarire se esiste una continuità tra la fase post-classica e la fondazione della struttura ecclesiastica, gettando cosí nuova luce sulla natura dell’insediamento altomedievale piú importante nella valle dell’Irno». Giampiero Galasso

7


ANTE PRIMA

Nella pieve dei pellegrini

ARCHEOLOGIA • Gli scavi condotti a Toano,

nel Reggiano, confermano l’importanza della chiesa di S. Maria in Castello, sorta in posizione nevralgica rispetto ai cammini di fede e legata alle vicende di Matilde di Canossa

In alto la pieve di Toano (Reggio Emilia). A sinistra disegno ricostruttivo della torre i cui resti sono stati individuati grazie ai recenti scavi.

8

I

ndagini archeologiche condotte nell’estate scorsa sembramo confermare il ruolo di crocevia rivestito dalla pieve di Santa Maria in Castello, a Toano (Reggio Emilia), lungo la Via Matildica del Volto Santo, un itinerario di fede che collega Mantova a Lucca, attraversando Lombardia, Emilia e Toscana. Il luogo di culto svetta sulla sommità di un rilievo appenninico che sovrasta il borgo reggiano: menzionato per la prima volta in un diploma di Ottone II del 980, nell’XI secolo era collocato all’interno della cerchia muraria che circondava il castello voluto da Bonifacio di Canossa, padre di Matilde. La fisionomia attuale della chiesa è riconducibile a quella conferitale dalla contessa che nella lotta per dicembre

MEDIOEVO


A sinistra i resti del paramento murario della torre, conservato per un’altezza di 2 m circa. Al centro una tomba antropomorfa scavata nella roccia. X sec. In basso un settore del cantiere di scavo, con gli archeologi impegnati nel riportare alla luce i resti della torre. le investiture fu decisa sostenitrice del papato. La pieve di Toano sorge lungo il circuito che dalle pianure del Po raggiungeva le valli della Garfagnana, tagliando il territorio controllato da Matilde di Canossa attraverso rapporti feudali.

Il santo consulente Si tratta di «un cammino oggi identificato da un logo e riconosciuto a livello nazionale, con le relative credenziali», spiega Angelo Dallasta, direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Reggio Emilia Guastalla. Che continua: «Durante gli scavi sono state rinvenute circa quaranta monete provenienti dall’Italia settentrionale e centrale: fra le altre ce ne sono una del Volto Santo di Lucca, dell’inizio del Duecento, e una, molto piú tarda, da S. Maria delle Grazie, presso Mantova. E proprio il ritrovamento conferma quanto ipotizzato dalle fonti scritte: il sito era un punto di passaggio, collocato lungo un iter i cui estremi sono legati dalla figura di sant’Anselmo da Lucca, nipote di papa Alessandro II, che diventa consulente della comitissa e vescovo di Mantova». E l’itinerario tocca punti simbolici della storia matildica, con tappe a Mantova, dove è

MEDIOEVO

dicembre

9


ANTE PRIMA di altri edifici, civili o annessi al castello», aggiunge Mancassola. In età canossiana, quando l’aspetto militare riveste per la prima volta un ruolo importante, andando a incidere sugli spazi religiosi, sia a sud che a nord, l’insediamento era organizzato in una compagine imponente.

Una nuova cerchia muraria La rocca viene ampliata anche in una fase successiva, nel Duecento, quando il Comune di Reggio, nel processo di controllo del contado, interviene sistemando il complesso difensivo: alla cerchia muraria se ne sostituisce una nuova che, come sembrano suggerire le tracce rinvenute, doveva avere almeno In alto, a sinistra particolare della decorazione di uno dei capitelli della pieve di S. Maria in Castello. A sinistra l’interno della chiesa, la cui esistenza è attestata almeno a partire dal X sec.

custodito il preziosissimo Sangue, San Benedetto Po (Mantova), con il monastero benedettino del Polirone, caro alla nobildonna, Canossa (Reggio Emilia), teatro dell’umiliazione dell’imperatore Enrico IV, scomunicato dal pontefice Gregorio VII.

Nell’area del maniero Gli scavi hanno fatto luce anche sulle strutture circostanti la pieve, oggetto, nel 1944, assieme ad altri luoghi di preghiera della zona, di un rastrellamento che ne danneggiò tetto, arredi liturgici, absidi. Caratterizzata da facciata a capanna e pianta basilicale a tre navate divise in due campate, con copertura a capriate, la chiesetta si trovava nell’area del maniero danneggiato nel corso del Duecento dagli scontri fra guelfi modenesi e ghibellini reggiani e distrutto da una frana cinque secoli piú tardi. Ora domina in solitaria il colle, sul cui versante, dopo gli scavi, si intravedono i resti delle pertinenze che circondavano la rocca. Ai piedi dell’altura si snodano edifici appartenenti a un abitato rurale che forse affonda le radici nel Medioevo. «Nel corso dei lavori, preceduti da saggi effettuati tre anni fa, sono

10

emerse tracce di fortificazione in legno del primo castello altomedievale e necropoli contemporanee alla pieve, con tombe dalle forme antropomorfe scavate nella roccia alla fine del X secolo, secondo la datazione fatta grazie al carbonio 14», racconta Nicola Mancassola, docente universitario, esperto di storia e archeologia medievale, che ha seguito i lavori per l’Università di Bologna. «Poi sono stati trovati i resti di una cinta in muratura piú strutturata e quelli

una porta d’accesso. Sono emersi anche oltre due metri di paramento murario di una torre, per la quale è in cantiere un progetto di restauro e di valorizzazione. Gli interventi effettuati in estate spiegano quindi il nome della pieve, «che si chiama Santa Maria in Castello proprio perché lí sotto, attorno al luogo di culto, c’era un castello», chiosa Mancassola. (Info: visitemilia.com, sito di Destinazione Turistica Emilia) Stefania Romani dicembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

A tu per tu con la pittura

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

L

a Galleria Fondantico di Tiziana Sassoli rinnova l’ormai tradizionale appuntamento con l’«Incontro con la pittura», proponendo a collezionisti, studiosi e appassionati d’arte antica la mostra «Sguardi sulla pittura. Dipinti dal XVI al XIX secolo». Nella prestigiosa sede di Casa Pepoli Bentivoglio, nel cuore di Bologna (via de’ Pepoli 6/E), sono esposte circa trenta opere – tra dipinti e disegni –, eseguite da maestri attivi a partire dalla seconda metà del Cinquecento, come Lorenzo Sabatini, detto Lorenzino da Bologna, autore di una squisita teletta destinata a un committente colto ed esigente con San Girolamo in preghiera, e Denijs Calvaert, originario di Anversa, che proprio con Sabatini lavorò tra il 1572 e il 1574 nella sala Regia in Vaticano, prima di rientrare definitivamente a Bologna, dove, poco dopo, licenziò l’Adorazione dei pastori in mostra. In apertura del Seicento si colloca la Madonna con il Bambino di Francesco Albani, colui che, tra gli allievi di Annibale Carracci, seppe mantenere piú a lungo una sensibilità per il dato naturale che lo porta a intenerire gli incarnati e a conferire ai suoi personaggi una fresca e spontanea affettività. La scuola ferrarese è rappresentata da Camillo Ricci, l’allievo meglio conosciuto e documentato dello Scarsellino, di cui si espone un inedito dipinto raffigurante la Cena in Emmaus. Esempio dello stile tardo di Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, è la tela, appartenuta alla famiglia di Lady Diana Spencer, con Due cherubini, in origine collocata sopra alla pala con San Luca Evangelista che dipinge la Vergine col Bambino eseguita dal Centese tra il 1651 e il 1653 per l’altare maggiore della chiesa di S. Francesco a Reggio Emilia (oggi al Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City). Tra i piú grandi artisti del Barocco europeo, il Guercino fu anche un abilissimo disegnatore, come dimostra il foglio a penna e inchiostro con Due figure di profilo. Transitando nel XVIII secolo, incontriamo tre elegantissime opere di Donati Creti, concepite come studi preparatori: due, su carta, a monocromo, per alcune figure della monumentale pala con la Vergine in gloria e Sant’Ignazio in S. Pietro, a Bologna, inaugurata con il suo altare il 14 aprile 1737; uno, su tela, per Il sogno di Giacobbe conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini a Roma. Al

12

Due cherubini, olio su tela di Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino. 1651-1653. sofisticato eloquio classicista di Creti si contrappone il gustoso rococò di Francesco Monti, come si vede nella tela con la Madonna in gloria e i Santi Filippo Neri e Barbara, modello per la grande pala custodita nell’oratorio dei Filippini a Bologna. Di alta qualità inventiva ed esecutiva sono poi la coppia di grandi tele di Francesco Lavagna, uno dei protagonisti della natura morta napoletana di inizio Settecento. Segue una vera e propria «mostra nella mostra», dedicata all’arte di due grandi pittori bolognesi – di fama internazionale – attivi nella seconda metà del XVIII secolo, i fratelli Ubaldo e Gaetano Gandolfi, dei quali si espongono ben dodici lavori, tra dipinti e disegni, quasi tutti collegati a opere importanti e documentate. Del piú anziano, Ubaldo, sono i freschi bozzetti per le pale d’altare destinate alla chiesa dello Spirito Santo a Cingoli, a quella di S. Giorgio dei frati minori cappuccini a Castelbolognese e al Duomo di Vercelli (agli ultimi si accompagnano anche i relativi disegni preparatori). Di Gaetano quelli per l’affresco del soffitto di casa Gini a Bologna e per la pala con San Pellegrino dei Laziosi della chiesa dei Servi a Rimini. Di quest’ultimo sono anche due magnifici disegni a penna raffiguranti Capricci di teste, eseguiti nel 1789, quando si trovava a Londra. Chiude la mostra un sofisticato tondo con il Busto di giovane donna eseguito da Mauro Gandolfi, figlio di Gaetano e ultimo esponente della famiglia di artisti. La mostra «Sguardi sulla pittura» è aperta fino al 21 dicembre. Info: tel. 051 265980; www.fondantico.it dicembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

L’enigmatico Giudizio del frate pittore

RESTAURI • Fra il 1425 e il 1428, il Beato Angelico realizzò per la chiesa fiorentina

di S. Maria degli Angeli un Giudizio Universale dai tratti inediti e spiazzanti. Un’opera superba, restituita allo splendore originario dal recente intervento di restauro

I

l museo fiorentino di San Marco ha festeggiato i 150 anni di attività e, in occasione della ricorrenza, è stato presentato il restauro del magnifico Giudizio Universale dipinto dal Beato Angelico, che ha ripreso il suo posto nella Sala dell’Ospizio. Assai particolare nella forma e ricco di novità nel trattamento del soggetto, l’opera – una tavola di 128 x 212 cm – è da sempre una delle preferite e piú largamente popolari del maestro, ma non è realmente conosciuta, nel senso che è ancora carica di interrogativi. La prima domanda riguarda la particolare forma trilobata in alto, che ancor oggi non ha spiegazioni certe. E anche il soggetto dell’opera è particolare: si tratta di un’insolita visione del Giudizio Finale, con il Cristo giudice in tutta la sua gloria, attorniato da angeli, in un cerchio celestiale che domina dalla

14

DOVE E QUANDO

Museo di San Marco Firenze, piazza San Marco, 3 Orario lu-ve, 8,15-13.50; sa-do e festivi, 8,15-16.50; giorni di chiusura: I, III, V domenica e II e IV lunedí di ogni mese; 25 dicembre, 1° gennaio Info tel. 055 0882000; e-mail: pm-tos.mussanmarco-fi@beniculturali.it; www.polomusealetoscana.beniculturali.it

dicembre

MEDIOEVO


Sulle due pagine veduta d’insieme e particolari del Giudizio Universale del Beato Angelico, prima e dopo il recente intervento di restauro. 1425-1428. Destinato alla cappella maggiore di S. Maria degli Angeli, a Firenze, il dipinto su tavola è tornato in esposizione nella Sala dell’Ospizio del Museo di San Marco. sommità. La mano destra levata del Cristo invita i fedeli risorti verso i cancelli della Gerusalemme Celeste; la sinistra, volta verso il basso, consegna i peccatori alle fauci pietrose dell’Inferno. La Madonna e San Giovanni Battista figurano come intercessori in una posizione straordinariamente prossima al Figlio. La schiera celeste è completata da ventiquattro santi e profeti assisi come in tribunale, dodici su ciascun lato. Cosí come la particolare forma trilobata, anche l’intera composizione presenta numerose novità rispetto all’iconografia tradizionale del Giudizio, con l’inserzione di personaggi del Vecchio Testamento – Adamo, Abramo, Mosè, Abele, David – accanto agli apostoli e ai santi fondatori degli Ordini nel tribunale del Giudizio. Vediamo da una parte i dannati, costretti a varcare la soglia di un Inferno cosí letterario che

MEDIOEVO

dicembre

non può non far pensare a Dante, e dall’altra parte l’elegantissima danza di angeli e beati verso il monte della Gerusalemme celeste, interpretata come il luogo della luce divina, che si intreccia con il giardino, espressione simbolica del Paradiso. Al centro della composizione la fuga di tombe scoperchiate, che fa da spartiacque tra gli eletti e i dannati, guida lo sguardo attraverso tutta la profondità dello spazio del dipinto, fino all’orizzonte azzurro pallido nello sfondo, dove termina il mondo sensibile.

La testimonianza del Vasari Ignoto è tuttora lo scopo originale del dipinto, che probabilmente cambiò collocazione al tempo in cui Vasari lo descrive nel convento di S. Maria degli Angeli, vicino all’altare maggiore dove sedeva il prete durante la messa. La notizia suggerirebbe che la tavola costituisse lo schienale del sedile del sacerdote, ma il formato relativamente piccolo delle figure indica una collocazione originale che permettesse di osservarlo ad altezza d’occhio. Databile tra il 1425 e il 1428, il Giudizio Universale fu probabilmente eseguito per la cappella maggiore della chiesa di S. Maria degli Angeli, che sull’altare maggiore già

presentava l’Incoronazione della Vergine di Lorenzo Monaco ora agli Uffizi. A ispirare il programma iconografico della composizione sarebbe stato Ambrogio Traversari, frate e piú tardi priore di S. Maria degli Angeli, studioso di patristica, esperto grecista, aperto propugnatore dell’unità con la Chiesa bizantina. E sempre lui, con ogni probabilità, affidò al pennello dell’Angelico la sua colta visione apocalittica, ispirata a concetti di pace, amore, fratellanza, ben esemplificata nel Giudizio del frate pittore. I colori di questa magistrale opera dell’Angelico, ritrovati in seguito al sapiente restauro di Lucia Biondi, ci consentono ora di contemplare con piú ammirazione e consapevolezza questa visione ultraterrena. (red.)

15




ANTE PRIMA

Il ritorno di Marquardo

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

I

l giorno dell’Epifania, Cividale del Friuli rievocherà i 653 anni di uno dei riti liturgici piú singolari del mondo cattolico, la Messa solenne «dello Spadone». Il particolare rito liturgico prevede che il Diacono, che indossa l’elmo piumato, saluti i fedeli impugnando con la mano destra la spada e con la sinistra l’Evangeliario (simboli del potere temporale e spirituale del Patriarca). Nel tempo, piú di uno storico ha cercato di svelare il mistero che avvolge quest’antica cerimonia con diverse interpretazioni: la tesi piú accreditata attribuisce al rito il doppio significato liturgico e politico, in quanto celebrata dal Patriarca all’atto del suo insediamento. Il Patriarca, infatti, era anche uomo d’arma, in quanto detentore del potere temporale sul vasto territorio del Patriarcato d’Aquileia. A conclusione della messa, come avviene ormai da oltre trent’anni, centinaia di figuranti in costume storico rievocheranno l’entrata a Cividale di Marquardo von Randeck. Il corteo, costituito dalla Comunità di Cividale pronta ad accogliere il Patriarca sfilerà da Porta di Ponte, per percorrere il Corso e congiungersi al corteo di Marquardo, che entrerà a Cividale da Porta san Pietro accompagnato dai Ministeriali Maggiori a cavallo. Il corteo quindi giungerà in Piazza Duomo, dove avrà inizio l’atteso cerimoniale in cui il Patriarca riceverà gli omaggi quale capo spirituale e temporale del territorio. Marquardo von Randeck, Patriarca d’Aquileia, fece il suo ingresso a Cividale del Friuli nel 1366. Si trattava di un evento di grande prestigio per la Città. Tutta la comunità diede lustro all’avvenimento con onori fastosi. La tradizione suggerisce che Marquardo, capo spirituale e temporale del Patriarcato aquileiese, prese possesso di Cividale e del suo territorio e introdusse la Messa dello Spadone. Una cerimonia mutuata dal mondo germanico che unisce forme liturgiche dell’antica Chiesa aquileise-cividalese del XII secolo con una ritualità politica e civile di derivazione imperiale. Da quel lontano 1366 questo rito ancor oggi viene celebrato nel giorno dell’Epifania. Dal 1984, al termine della celebrazione liturgica,

18

centinaia di figuranti rievocano quell’episodio che ha segnato la storia della città. La solenne liturgia della Messa dello Spadone segue un preciso protocollo: inizia con l’ingresso del clero in corteo, aperto da un giovane chierico che porta una croce; seguono i canonici, il diacono, il celebrante con a fianco il maestro delle cerimonie; il corteo è chiuso dagli altri chierici. Durante il rito il diacono indossa un elmo piumato, con la mano sinistra regge un prezioso evangeliario e con la destra impugna una lunga spada, lo «Spadone» che dà il nome alla Messa. Nel corso della liturgia il diacono solleva piú volte lo Spadone e, fendendo l’aria avanti a sé per tre volte, rivolge un segno di saluto al Celebrante, al Capitolo e al clero disposto nel coro e ai tanti fedeli che gremiscono la chiesa. I testi della liturgia sono proclamati o cantati in latino, secondo il Rito del Concilio Vaticano II, mentre risalgono al XII secolo, e fanno parte del patrimonio del canto sacro della Chiesa Aquileiese-Cividalese il canto dell’Epistola, dell’Evangelo e l’Annuncio delle celebrazioni pasquali. La Messa dello Spadone trae origine dal mondo germanico tardo-medievale, dove questa celebrazione religiosa era nata con il nome di Schwertmesse (Messa della Spada). Fu celebrata per la prima volta a Basilea nel 1347, poi in Francia e in Germania e, da qui, venne «importata» in Friuli da Marquardo von Randeck, patriarca di Aquileia. Il 6 luglio 1366, di fronte alla nobiltà e al popolo radunati nella basilica cividalese, Marquardo ricevette dal vicedecano del Capitolo una spada, simbolo della sua signoria spirituale e temporale. Con essa celebrò a Cividale la prima Messa dello Spadone, replicando il rituale della Schwertmesse. Oggi questo antico rito rivive solo a Cividale, dove, forse, si è voluto conservare, anche se in copia, la spada di Marquardo, considerata l’ultimo simbolo dello Stato patriarcale nel quale la città ebbe un ruolo di primo piano. Ancora oggi questa straordinaria liturgia testimonia in modo vivo e vitale il grande patrimonio religioso, spirituale e storico di Cividale. Info www.paliodicividale.net; www.cividale.net dicembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Di nuovo insieme

20

dicembre

MEDIOEVO


MOSTRE • La spettacolare Pala dei Decemviri

del Perugino ritrova, seppur temporaneamente, la sua unità. Un’occasione imperdibile per ammirare una delle piú felici realizzazioni del maestro umbro, caratterizzata dal forte valore identitario espresso dai soggetti inseriti nella composizione

G

razie alla collaborazione con i Musei Vaticani, la Pala dei Decemviri di Pietro Vannucci, detto il Perugino, torna dopo due secoli nello spazio per il quale era stata concepita: la Cappella dei Priori, cuore del principale organismo amministrativo della Perugia comunale. Costruita alla metà del Quattrocento durante i lavori di ampliamento del Palazzo dei Priori, la cappella fu oggetto di interventi decorativi e d’arredo per farne il luogo piú nobile e rappresentativo dell’edificio: il pavimento in maiolica invetriata, decorato con motivi floreali alternati ad angeli in volo, fu realizzato dal derutese Giacomo di Marino, detto il Cavalla, tra il 1455 e il 1457; mentre le pareti con i celebri cicli pittorici dedicati ai due santi protettori, l’uno della città e l’altro del palazzo, Ercolano e Ludovico di Tolosa, vennero affrescate da Benedetto Bonfigli tra il 1454 e il 1469. Il coro ligneo, intarsiato con grifi e motivi vegetali, fu avviato dall’intagliatore Gaspare di Giacomo da Foligno e portato a termine da Paolino di Ascoli. A completare la decorazione della cappella fu chiamato Pietro Perugino, che eseguí per l’altare la Pala dei Decemviri, raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Ercolano, Costanzo, Lorenzo e Ludovico: Ercolano il «defensor civitatis» dall’assedio di Totila morto nel 549; Costanzo il primo vescovo della città martirizzato al tempo di Marco Aurelio; Lorenzo il santo patrono a cui è dedicata la cattedrale di Perugia e Ludovico, il protettore del Palazzo dei Priori, proclamato santo nel 1317. Il tema iconografico rende esplicita la valenza identitaria del dipinto e rimarca il suo stretto legame con la dimensione civica.

Un omaggio al Monte di Pietà L’opera era stata commissionata nel 1479 a Pietro di Galeotto, ma la sua morte determinò nel 1483 l’assegnazione dell’incarico a Pietro Vannucci. Questo secondo progetto prevedeva anche l’aggiunta di una cimasa con la Madonna della Misericordia, per la quale, a causa dell’eccessivo protrarsi dei lavori, venne coinvolto Sulle due pagine veduta d’insieme e particolare della cimasa (in alto) della Pala dei Decemviri, dipinta dal Perugino. 1495. L’opera è temporaneamente esposta nella sua interezza nella Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia.

MEDIOEVO

dicembre

Sante di Apollonio, che la terminò nel 1486. L’anno successivo, tuttavia, Perugino fu chiamato a ridipingere la cimasa, poiché i Decemviri intesero celebrare l’apertura del Monte di Pietà facendo apporre l’immagine di Cristo in pietà. La tavola centrale, che riprende gli schemi compositivi già adottati per la pala di S. Domenico di Fiesole e per quella di S. Agostino di Cremona, fu ultimata da Vannucci nel 1495 ed è firmata sulla pedana del trono «hoc Petrus de chastro plebis pinxit». La pala rimase nella sua collocazione originaria per poco piú di mezzo secolo fino al 1553, epoca del trasferimento della Cappella dei Priori in una nuova sede in altri ambienti del Palazzo. Nel 1797 l’opera venne requisita dalle truppe francesi come conseguenza del trattato di Tolentino e venne condotta Oltralpe nel Musée de la République, (poi Musée Napoleon e oggi Musée du Louvre), in un destino comune ad altre centinaia di opere appartenenti alla Chiesa. Per qualche ragione, però, i Francesi ignorarono la cimasa col Cristo in pietà e la cornice in legno intagliato e dorato opera di Giovanni di Battista di Cecco detto il Bastone, le quali, dopo un soggiorno alla Quadreria dell’Accademia di Perugia, tornarono a Palazzo dei Priori. Nel 1816, tramontata la lunga parentesi di Bonaparte e restaurata la monarchia borbonica, Antonio Canova, inviato a Parigi da papa Pio VII per recuperare il maltolto, riuscí a riportare a Roma la tavola, che – nonostante le vibranti proteste dei Perugini – venne destinata alla Pinacoteca Vaticana. Dopo l’esposizione perugina l’opera verrà presentata – ancora nella sua interezza – ai Musei Vaticani nel 2020, come evento legato alle celebrazioni del cinquecentesimo anniversario della morte di Raffaello. (red.) DOVE E QUANDO

«Il ritorno della Pala dei Decemviri di Pietro Perugino» Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 26 gennaio 2020 Orario ma-do, 8,30-19,30; lunedí chiuso Info tel. 075 58668436; e-mail: gan-umb@ beniculturali.it; www.gallerianazionaledellumbria.it

21


ANTE PRIMA

IN EDICOLA

NOSTRADAMUS IOEVO MED Dossier

N°35 Novembre/Dicembre 2019 Rivista Bimestrale

NOUnSTRADAMUS profeta senza tempo NOSTRADAMUS

igura a dir poco enigmatica, Michel de Nostre-Dame – che scelse il nome di Nostradamus dopo la laurea in medicina conseguita all’Università di Montpellier – suscitò, già presso i suoi contemporanei, un’attrazione irresistibile. Fu per molti aspetti uno scienziato evoluto, un medico in grado di curare malattie all’epoca inguaribili, un ricercatore dedito allo studio profondo degli elementi naturali. Ma fu inesorabilmente attratto dalla vocazione divinatoria, indulgendo a predire il futuro mediante versi divenuti popolarissimi nonostante la loro indecifrabilità, considerata dai detrattori alla stregua di mera astrusità e dagli esegeti come una misura di prudenza, volta a velare verità spaventose. Fu dunque tra i protagonisti di quel Medioevo trasversale a ogni altra età della storia, che nessun evolversi della società e del costume potrà mai sopprimere, trattandosi di una componente naturale dell’animo umano. Venerato finché visse dalle personalità piú potenti di Francia, con in testa Caterina de’ Medici e gli ultimi sovrani della casa di Valois, Nostradamus venne gratificato nei secoli da una popolarità crescente, che non conosce flessioni. Una parabola straordinaria e avvincente, ora ripercorsa dal nuovo Dossier di «Medioevo».

Timeline Publishing S.r.l. – Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento – Aut. n° 0703 Periodico ROC

F

US IE M EZ DA ROF A R P ST I E NOSTER I M

€ 7,90

Nostradamus_2019_cop.indd 1

GLI ARGOMENTI

15/10/19 16:59

• LA FORMAZIONE E GLI STUDI • GLI ANNI AD AGEN • I VIAGGI: IN ITALIA, IN EUROPA E IN ORIENTE • IL SOGGIORNO A ORVAL E LE SUGGESTIONI TEMPLARI • IL RITORNO IN PROVENZA • GLI ULTIMI ANNI E LA CONSACRAZIONE DEFINITIVA • L’ATTUALITÀ DELLE PROFEZIE A sinistra La Torre di Babele, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1563. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto L’alchimista, olio su tavola di Jan Steen. 1668. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro.

22

IN EDICOLA IL 29 OTTOBRE 2019

MEDIOEVO DOSSIER

UN PROFETA SENZA TEMPO

dicembre

MEDIOEVO



AGENDA DEL MESE

Mostre PARIGI CRIMINI E GIUSTIZIA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans peur fino al 29 dicembre

Le fonti giudiziarie risalenti alla fine del Medioevo permettono di venire a conoscenza di numerosi casi

che ridimensionano l’immagine di un sistema violento e sbrigativo che troppo spesso viene associato alla giustizia medievale. E, soprattutto, consentono di fissare una gerarchia dei crimini diversa da quella moderna, in seno alla quale la notorietà (la fama) degli individui coinvolti ha un ruolo importante, a prescindere dalla loro estrazione sociale, cosicché l’omicidio per motivi d’onore diviene spesso tollerabile. Organizzata per celebrare i vent’anni di attività della Tour Jean sans peur come spazio espositivo e a 600 anni dall’assassinio del suo antico proprietario – il duca di Borgogna Giovanni senza Paura –, la mostra offre dunque un quadro per molti aspetti sorprendente della società dell’età di Mezzo, che

24

a cura di Stefano Mammini

vede giudici e imputati ricorrere con frequenza al compromesso e la popolazione farsi parte attiva nel decidere la sorte dei condannati. info www.tourjeansanspeur.com VINCI LEONARDO VIVE Museo Ideale Leonardo da Vinci fino al 31 dicembre

Organizzata per tenere a battesimo la riapertura del Museo Ideale Leonardo Da Vinci e la realizzazione del nuovo Museo Leonardo e il Rinascimento del vino, a Sant’Ippolito in Valle, la mostra esemplifica l’attualità di Leonardo nell’arte e nella cultura contemporanea, e presenta anche i risultati delle ricerche genealogiche attraverso venti generazioni fino al presente e al DNA. Il percorso si articola in cinque sezioni. La prima (Leonardo Heritage) propone documenti d’archivio e reperti frutto di studi genealogici. La seconda riguarda la bottega di Leonardo: la Gioconda nuda, e anche la Santa Caterina nella macchina di tortura di un allievo di Leonardo (Giampietrino), che presenta impronte digitali e palmari. La terza (Leonardo e il Rinascimento del vino)

approfondisce i rapporti di Leonardo con il territorio e con l’agricoltura, che ebbe un ruolo importante nella sua biografia e nei suoi molteplici studi. La quarta (Leonardismi attraverso i secoli) procede dalle cartelle dei Nodi vinciani xilografate da Albrecht Dürer agli inizi del Cinquecento, prosegue tra l’immagine di Leonardo e antiche incisioni d’après, giunge al furto del 1911 e alla Gioconda L.H.O.O.Q. di Duchamp, fino a Dalí, Beuys, Warhol e altri protagonisti delle neoavanguardie internazionali. Per l’Attualità di Leonardo, spicca il Dialogo con il Paesaggio di Leonardo del 1473 del pittore cinese Xu Li giunto da Pechino. info www.museoleonardo.it

pietre incise, oggetti in bronzo recuperati in oltre quattrocento sepolture, attestano la presenza a Bologna di una fiorente comunità, proficuamente inserita nel contesto urbano e sociale fino all’espulsione, avvenuta per volere del papa nel 1569, e offrono lo spunto per ripercorrere, in maniera globale e sistematica, la storia di una minoranza, i suoi usi, la sua cultura e le sue interazioni con la società cristiana del tempo. info www.museoebraicobo.it

BOLOGNA

La Dama e l’Unicorno, uno dei vanti del Museo di Cluny, è ancora una volta al centro di un progetto espositivo temporaneo, questa volta incentrato sulla figura di Jean d’Ypres, il pittore al quale si devono i disegni preparatori del celebre ciclo di arazzi, che furono ripresi anche per una vasta produzione di stampe, molte delle quali destinate a ornare scrigni e cofanetti. Attivo sul finire del XIV secolo, Jean d’Ypres firmò bozzetti per

LA CASA DELLA VITA. ORI

PARIGI SCRIGNI MISTERIOSI. STAMPE AL TEMPO DELLA DAMA E L’UNICORNO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 6 gennaio 2020

E STORIE INTORNO ALL’ANTICO CIMITERO EBRAICO DI BOLOGNA Museo Ebraico fino al 6 gennaio 2020

Gli straordinari reperti di uno dei piú ampi cimiteri ebraici medievali del mondo, rinvenuto alcuni anni fa a Bologna in via Orfeo, poco lontano dalle mura trecentesche, sono finalmente visibili dopo anni di studi e restauri. Gioielli in oro di eccezionale fattura e bellezza, dicembre

MEDIOEVO


stampe, arazzi e vetrate, che hanno in molti casi dato origine ad altrettanti capolavori dell’arte tardo-medievale. Possiamo per esempio citare il San Sebastiano, incollato all’interno di un cofanetto entrato a far parte delle collezioni del Museo di Cluny nel 2007, che rivela uno stile attento ai dettagli, in cui si fondono il realismo dei pittori fiamminghi con le mode dell’arte parigina. Oppure i cartoni per le vetrate dell’edificio nel quale ha oggi sede il museo stesso, una delle quali, raffigurante il Trasporto della Croce, figura in mostra non lontano dalla Dama e l’Unicorno. info www.musee-moyenage.fr FIRENZE LEONARDO DA VINCI E IL MOTO PERPETUO Museo Galileo fino al 12 gennaio 2020

Fin dal Medioevo l’idea di riprodurre con dispositivi meccanici il moto perpetuo delle sfere celesti ha stimolato l’immaginazione e l’ingegno di tecnici, ingegneri e filosofi naturali. Un nodo fondamentale di questa storia plurisecolare è rappresentato dagli studi nei quali Leonardo ha cercato di stabilire se sia davvero possibile realizzare macchine a moto perpetuo. Le sue ricerche mostrano la serietà e l’impegno con i quali il genio di Vinci si applicò nella ricerca di soluzioni praticabili. Egli giunse tuttavia alla conclusione che il moto perpetuo non può esistere in natura, anticipando cosí di oltre tre secoli la dimostrazione definitiva della verità di quel principio fornita da James Clerk Maxwell, protagonista dell’affermazione della termodinamica nella seconda metà dell’Ottocento. La mostra

MEDIOEVO

dicembre

presenta una ricca selezione degli spettacolari disegni di Leonardo e dei principali protagonisti delle ricerche sul moto perpetuo, affiancata dai modelli di alcuni tra i piú intriganti di quei dispositivi e da suggestivi filmati che ne illustrano il presunto funzionamento. info tel. 055 265311; e-mail: info@museogalileo.it; https://www.museogalileo.it NEW YORK IL TESORO DI COLMAR: UN’EREDITÀ DEL MEDIOEVO EBRAICO The Metropolitan Museum of Art fino al 12 gennaio 2020

Un tesoretto di gioielli e monete

rimase per oltre 500 anni celato fra le mura di una casa della città francese di Colmar. Nascosto nel XIV secolo, tornò alla luce nel 1863 ed entrò quindi a far parte delle collezioni del Museo di Cluny, a Parigi. Ne fanno parte anelli con zaffiri, rubini e turchesi, spille tempestate di pietre preziose, una cintura finemente smaltata, bottoni dorati e oltre 300 monete. Doveva trattarsi dei beni piú preziosi di una famiglia che, come suggerisce l’iscrizione mazel tov che si legge su uno degli anelli, doveva far parte della comunità ebraica di Colmar, che, alla metà del Trecento, subí un atroce destino. Gli Ebrei vennero infatti ritenuti responsabili della Peste Nera che flagellò l’Europa fra il 1348 e il 1349 e furono dunque vittime di accanite persecuzioni. Oltre a offrire l’opportunità di ammirare il tesoretto, la mostra allestita presso i Cloisters ripercorre dunque l’intera vicenda storica, sottolineando i drammi vissuti dalle minoranze ebraiche nel XIV secolo. info www.metmuseum.org

URBINO RAFFAELLO E GLI AMICI DI URBINO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 19 gennaio 2020

Promossa e organizzata dalla Galleria Nazionale delle Marche, la mostra «indaga e per la prima volta in modo cosí compiuto racconta – come ha dichiarato Peter Aufreiter, direttore del museo urbinate – il mondo delle relazioni di Raffaello con un gruppo di artisti operosi a Urbino che accompagnarono, in dialogo ma da posizioni e con stature

diverse, la sua transizione verso la maniera moderna e i suoi sviluppi stilistici durante la memorabile stagione romana». Fondamentale fu il ruolo giocato da Pietro Perugino nella formazione e nel primo tratto dell’attività di Raffaello, qui letta in parallelo con quella dei piú maturi concittadini Timoteo Viti (1469-1523) e Girolamo Genga (1476 circa-1551), le ricerche dei quali ebbero a intersecarsi con il periodo fiorentino e con l’attività romana del Sanzio. «La mostra vuole essere – secondo le curatrici, Barbara Agosti e Silvia Ginzburg – un’occasione per misurare, in un contesto specifico di estrema rilevanza quale quello urbinate e nelle sue tappe maggiori, la grande

25


AGENDA DEL MESE trasformazione che coinvolse la cultura figurativa italiana nel passaggio tra il Quattro e il Cinquecento. A queste scansioni corrispondono, nella riflessione storiografica costruita da Vasari e fatta propria dagli studi successivi, il momento iniziale dell’adesione dei pittori della fine del secolo XV alle prime novità introdotte da Leonardo, ovvero alla adozione di quella “dolcezza ne’ colori unita, che cominciò a usare nelle cose sue il Francia bolognese, e Pietro Perugino; et i popoli nel vederla corsero, come matti a questa bellezza nuova e piú viva, parendo loro assolutamente che e’ non si potesse già mai far meglio”». info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it BAGNACAVALLO (RA) ALBRECHT DÜRER. IL PRIVILEGIO DELL’INQUIETUDINE Museo Civico delle Cappuccine fino al 19 gennaio 2020

Sono oltre 120 le opere di Albrecht Dürer selezionate per la mostra allestita nel Museo Civico della Cappuccine, che vuol essere un invito a incontrare le diverse anime del maestro di Norimberga, «padre nobile» del pensiero grafico, capace di innalzare il disegno e l’incisione a espressione artistica non piú ancella della pittura, ma pienamente libera e autonoma. L’avventura artistica di Dürer prende il via in una Germania ancora permeata da uno spirito gotico e medievale e forse, senza l’influenza dell’intellettuale e amico Willibald Pirckheimer, probabilmente l’artista avrebbe orientato i suoi interessi artistici verso Nord, verso la lezione fiamminga, come molti altri artisti suoi conterranei. Invece Pirckheimer lo orientò alla dimensione culturale del

26

NEW YORK

nostro Rinascimento, spalancando la mente dell’artista a ricerche a lui aliene, in primo luogo quella tesa a carpire i segreti della rappresentazione dello spazio e della bellezza. Il percorso espositivo è stato concepito come un vero e proprio racconto, che procede attraverso dieci sezioni tematiche, immergendo il visitatore nel visionario sogno

di perfezione del figlio di un umile orafo di Norimberga, che ha voluto inseguire il suo desiderio di appropriarsi dei segreti della rappresentazione della bellezza. info tel. 0545 280911; e-mail: centroculturale@comune. bagnacavallo.ra.it; www.museocivicobagnacavallo.it

IL RINASCIMENTO DELL’INCISIONE The Metropolitan Museum of Art fino al 20 gennaio 2020

s’arricchirono di stemmi, scene a soggetto religioso e profano. E nel mondo ecclesiastico e presso le famiglie piú nobili e ricche al ricamo si fa ricorso anche per decorare pareti ed elementi d’arredo. L’esposizione presentata al Museo di Cluny offre dunque una rassegna dei principali centri e aree di produzione, dal mondo germanico all’Italia, passando per le Fiandre, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia. Al contempo, definisce un quadro del ruolo sociale e del valore artistico del ricamo medievale, documentando le tecniche, i processi di lavorazione e le relazioni fra committenti, ricamatori e ricamatrici, pittori e mercanti. info www.musee-moyenage.fr

L’introduzione in Europa dell’incisione su carta – la cui tecnica venne mutuata da quelle adottate nelle officine dei decoratori di armi e armature – costituí un passaggio cruciale nella storia della stampa. Un passaggio che la mostra «Il Rinascimento dell’incisione», nata dalla collaborazione fra il Metropolitan Museum e l’Albertina di Vienna (dove l’esposizione verrà ripresentata nella primavera del 2020), documenta attraverso oltre 100 opere realizzate da artisti noti e meno noti, a cui fanno da corredo disegni, matrici di stampe, utensili per l’incisione, libri illustrati e armature. Il percorso espositivo ha inizio con documenti databili alla fine del Cinquecento, quando l’incisione muove i suoi primi passi a opera del tedesco Daniel Hopfer e ripercorre l’evoluzione del fenomeno, che vide coinvolto un numero sempre crescente di artisti non solo in Germania, ma anche nelle Fiandre, in Italia e in

PARIGI L’ARTE RICAMATA Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 gennaio 2020

Il ricamo è un’arte di lusso, per la quale si faceva ricorso a materie prime preziose, come la seta, l’oro e l’argento. Ed è dunque un autentico status symbol, che si ritrovò al centro di intensi scambi commerciali. Grazie alla maestria affinata nel tempo da artigiani attivi in molte regioni d’Europa, gualdrappe per cavalli, scarselle o paramenti liturgici dicembre

MEDIOEVO


Francia. Nel passaggio dalla decorazione delle armature alla stampa, la tecnica messa a punto per realizzare manufatti unici e costosi, destinati a personaggi dei ceti piú elevati e facoltosi, si trasformò in una prassi che permetteva di ottenere prodotti relativamente economici e fruibili da un pubblico piú vasto. La mostra si chiude con materiali prodotti intorno al 1560, quando la tecnica dell’incisione si era definitivamente affermata come una specializzazione professionale vera e propria e lo stampatore olandese Hieronymus Cock prese alle sue dipendenze incisori ai quali affidare la realizzazione di stampe tratte da originali creati da altri artisti. È l’epoca in cui l’incisione ha ormai superato la fase sperimentale ed è entrata a far parte del bagaglio tecnologico di editori e stampatori. info www.metmuseum.org PERUGIA MADONNA COL BAMBINO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 26 gennaio 2020

A coronamento di un’altra brillante operazione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, si può ammirare, fino al prossimo gennaio, la Madonna col Bambino del Pinturicchio trafugata nel novembre 1990 presso un’abitazione privata di Perugia. La preziosa tavola era ricomparsa nel 2018, con una falsa attribuzione a Bartolomeo Caporali, per essere venduta all’asta nel Regno Unito, ma, grazie alla rogatoria internazionale subito presentata, è stato possibile procedere al suo sequestro e al successivo recupero. Prima che venga restituito ai legittimi proprietari, la Galleria

MEDIOEVO

dicembre

MOSTRE • Andrea Mantegna. Rivivere l’antico, costruire il moderno Torino – Palazzo Madama, Corte Medievale e Piano Nobile

fino al 4 maggio 2020 (dal 12 dicembre) info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it

T

orino rende omaggio ad Andrea Mantegna, uno dei piú importanti artisti del Rinascimento italiano, con una ricca rassegna, allestita nelle sale monumentali di Palazzo Madama. La mostra presenta il percorso artistico del grande pittore, dai prodigiosi esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista di corte dei Gonzaga, articolato in sei sezioni che evidenziano momenti particolari della sua carriera e significativi aspetti dei suoi interessi e della sua personalità artistica, illustrando al tempo stesso alcuni temi meno indagati come il rapporto di Mantegna con l’architettura e con i letterati. Viene cosí proposta un’ampia lettura della figura dell’artista, che definí il suo originalissimo linguaggio formativo sulla base della profonda e diretta conoscenza delle opere padovane di Donatello, della familiarità con i lavori di Jacopo Bellini e dei suoi figli (in particolare del geniale Giovanni), delle novità fiorentine e fiamminghe, nonché dello studio della scultura antica. Un’attenzione specifica è dedicata al suo ruolo di artista di corte a Mantova e alle modalità con cui Mantegna definí la fitta rete di relazioni e amicizie con scrittori e studiosi, che lo resero un riconosciuto e importante interlocutore nel panorama culturale, capace di dare forma ai valori morali ed estetici degli umanisti. Il percorso della mostra è preceduto e integrato, nella Corte Medievale di Palazzo Madama, da un apparato di proiezioni multimediali: ai visitatori viene proposta un’esperienza immersiva nella vita, nei luoghi e nelle opere di Mantegna, cosí da rendere accessibili anche i capolavori che, per la loro natura o per il delicato stato di conservazione, non possono essere presenti in mostra, dalla Cappella Ovetari di Padova alla celeberrima Camera degli Sposi, dalla sua casa a Mantova al grande ciclo all’antica dei Trionfi di Cesare. Il Piano Nobile di Palazzo Madama accoglie, quindi, l’esposizione delle opere, a partire dal grande affresco staccato proveniente dalla Cappella Ovetari, parzialmente sopravvissuto al bombardamento della seconda guerra mondiale ed esposto per la prima volta dopo un lungo e complesso restauro e dalla lunetta con Sant’Antonio e San Bernardino da Siena proveniente dal Museo Antoniano di Padova. Il percorso espositivo non è solo monografico, ma presenta capolavori dei maggiori protagonisti del Rinascimento nell’Italia settentrionale che furono in rapporto con Mantegna, tra cui opere di Donatello, Antonello da Messina, Pisanello, Paolo Uccello, Giovanni Bellini, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico e infine il Correggio. Accanto a dipinti, disegni e stampe di Mantegna, saranno esposte opere fondamentali dei suoi contemporanei, cosí come sculture antiche e moderne, dettagli architettonici, bronzetti, medaglie, lettere autografe e preziosi volumi antichi a stampa e miniati.


AGENDA DEL MESE

Nazionale dell’Umbria offre dunque l’occasione di vedere il dipinto, che il Pinturicchio realizzò verosimilmente fra gli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento, e di confrontarlo con le opere del maestro perugino presenti nella sala 24 del museo e con quelle di Bartolomeo Caporali, conservate anch’esse in Galleria. info https:// gallerianazionaledellumbria.it/

natura; La città; Il paesaggio; Le Macchine di pace; Le Macchine di guerra; Il Tavolo anatomico; La pittura. Studio Azzurro ha pensato a uno spazio che immerge i visitatori nel mondo dell’immaginazione di Leonardo. Un mondo di macchine talvolta trasparenti come i suoi orizzonti, talvolta opache come la carta dei fogli di appunti. L’esperienza passa dall’osservazione alla partecipazione, muovendosi tra forme che richiamano il rigore geometrico dei solidi platonici di Luca Pacioli e si rimodulano in strumenti utili. Questo mondo di macchine trasformate in dispositivi

PALERMO LEONARDO. LA MACCHINA DELL’IMMAGINAZIONE Galleria d’arte moderna fino al 26 gennaio 2020

L’omaggio a Leonardo si è in questo caso tradotto in un’esposizione multimediale curata da Treccani e progettata e messa in scena da Studio Azzurro. Il percorso è scandito da sette videoinstallazioni, di cui cinque interattive, che coinvolgono lo spettatore in un racconto di immagini e suoni che, a partire dal multiforme lascito del maestro, ci «parlano» tanto del suo, quanto del nostro tempo. Le grandi macchine scenografiche, la cui struttura è liberamente ispirata a disegni leonardeschi, corrispondono ad altrettante sezioni: Le Osservazioni sulla

28

narrativi, di giganteschi fogli di appunti in attesa di essere risvegliati, accoglie il visitatore in una penombra da cui spiccano i colori del legno, della tela e della carta. L’interazione avviene con sistemi diversi: la modulazione della luce e della voce sono gli strumenti privilegiati. info tel. 091 8431605; e-mail: info@gampalermo.it; www.gampalermo.it

parzialmente. Culla di tre religioni – buddismo, induismo e giainismo – ancora in vigore, l’India ha un patrimonio culturale estremamente ricco, anche se ciò che rimane è composto solo dai materiali piú durevoli. Questa eredità racconta il rapporto dell’umanità con le forze che la sottendono e con l’universo in generale. L’India è un territorio ricco di «divinità» di molti tipi che rappresentano tante forze spirituali e il loro travalicamento. Nonostante le divinità conservino il proprio nome, il loro significato viene continuamente rielaborato e cambiato. E la mostra si concentra proprio sulle trasformazioni che le divinità subiscono dalle loro prime rappresentazioni figurative fino alle loro espressioni esoteriche (tantriche). Gli oggetti esposti – oltre 70 sculture di piccole, medie e grandi dimensioni – sono distribuiti in un percorso articolato in nove capitoli: Metafore poetiche; Animali leggendari; Tradizioni a confronto; Storie narrate; Potere femminile; Elementi esoterici; Miracoli; Coppia divina; Divinità cosmica. Le sculture provengono da diverse regioni dell’India, Pakistan e

Afghanistan e coprono un arco temporale che va dal II secolo a.C. al XII secolo d.C. info http://museo.mendrisio.ch MILANO ORO, 1320-2020. DAI MAESTRI DEL TRECENTO AL CONTEMPORANEO Galleria Salamon fino al 31 gennaio 2020

La mostra nasce con l’intenzione di tracciare una traiettoria diacronica sull’uso (e contestualmente sul significato) dell’oro nelle arti figurative. Vengono messe in relazione opere del XIV e dell’inizio del XV secolo – dalla tradizione giottesca al gotico internazionale a Firenze e in Italia centrale – e lavori di grandi artisti italiani degli ultimi cinquant’anni: da Lucio Fontana a Paolo Londero e Maurizio Bottoni, interpreti, nelle opere presentate in mostra, delle simbologie intrinseche al materiale prezioso. Lo scopo, tuttavia, non è solo quello di condurre una «storia della foglia d’oro nelle arti», mettendo in relazione gli aspetti tematici che ne presupponevano

MENDRISIO (SVIZZERA) INDIA ANTICA. CAPOLAVORI DAL COLLEZIONISMO SVIZZERO Museo d’arte Mendrisio fino al 26 gennaio 2020

L’arte indiana antica possiede un repertorio vario e stratificato che oggi può essere colto solo dicembre

MEDIOEVO


l’utilizzo alla fine del Medioevo e quelli che invece ne contemplano l’impiego ancora oggi: l’obiettivo della rassegna è infatti quello di cercare, in due momenti distanti della storia culturale del nostro Paese, i segni tangibili di una unica tradizione, che emerge con forza esuberante grazie soprattutto al recupero, da parte di autori moderni, di tecniche e procedimenti usati nei secoli trascorsi. info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com; https://salamongallery.com/

visitabile nel nuovo centro «Leo-Lev», complesso culturale nato dall’imponente intervento di recupero architettonico e urbanistico dell’ex villa BellioBaronti-Pezzatini e piazza Pedretti nel centro storico di Vinci. Per far conoscere ai visitatori la pigmentazione originale è esposta anche una copia a grandezza naturale dell’Angelo realizzata dall’Opificio con i materiali e le tecniche pittoriche dell’epoca, oltre a diversi contributi multimediali dedicati alla scultura e al suo recupero. info tel. 0571 1735135 ESTE

VINCI SE FOSSE UN ANGELO DI LEONARDO… Centro espositivo Leo-Lev fino al 2 febbraio 2020

Attribuito da Carlo Ludovico Ragghianti alla scuola del Verrocchio e da Carlo Pedretti al giovane Leonardo da Vinci, l’Angelo Annunciante custodito nella Pieve di San Gennaro in Lucchesia (Capannori, Lucca) è la piú grande fra le sculture ascritte al genio del Rinascimento. L’opera, recentemente restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure, è al centro della mostra

MEDIOEVO

dicembre

VELENI E MAGICHE POZIONI. GRANDI STORIE DI CURE E DELITTI Museo Nazionale Atestino fino al 2 febbraio 2020

favola, riconducendo alla scienza ciò che si ritiene puro frutto della fantasia popolare. Per scoprire che se veramente la principessa avesse baciato il rospo, il bufonide le sarebbe effettivamente apparso come un aitante, giovane cavaliere: in questa mostra veleni, pozioni, medicamenti vengono infatti indagati lungo il loro piú volte millenario stratificarsi. Già nel Paleolitico, migliaia d’anni fa, gli uomini sapevano cercare sostanze utili alla migliore sopravvivenza, ma dobbiamo giungere a Paracelso, quindi al primo Cinquecento, per definire il concetto del dosaggio, elemento che può fare di un farmaco un veleno o viceversa. Il percorso espositivo spazia dai metallurghi dell’antichità, sottoposti ai fumi velenosi emessi dalla fusione e forse per questo deformi o ipovedenti, al mito di Medusa, alle streghe di età medievalemoderna. E poi grandi storie di cure, ma anche di delitti: fu la digitale, che ha dato vita in tempi moderni a farmaci del cuore, a essere fatale nel 1329 a Cangrande della Scala, vittima di un delitto volontario o di un errore nell’assunzione di una sostanza tossica? Accanto a reperti archeologici, sono esposti importanti dipinti con immagini di magie, nonché rare edizioni e manoscritti. info tel. 0429 2085; e-mail: pm-ven.museoeste@beniculturali.it; www.atestino.beniculturali.it BOLOGNA

Un’archeologa e un’esperta di storia della farmacia risalgono alla radice di leggende, storie, tradizioni. Per dare un senso preciso a ciò che sembra

UN PASSATO PRESENTE. L’ANTICA COMPAGNIA DEI LOMBARDI IN BOLOGNA Collezioni Comunali d’Arte fino al 9 febbraio 2020

Grazie all’accordo tra

Compagnia dei Lombardi e Istituzione Bologna Musei, un prezioso nucleo di otto tavole di epoca medievale appartenenti a due perduti polittici di Simone di Filippo detto «dei Crocifissi» e di Giovanni di Pietro Falloppi, detto da Modena, è stato concesso in comodato d’uso gratuito ai Musei Civici d’Arte Antica. Il progetto espositivo ripercorre anche le vicende legate alle origini della Compagnia dei Lombardi – una delle antiche società d’armi sorte in età comunale a Bologna, l’unica ancora oggi

attiva nella sede attigua alla basilica di S. Stefano – e alla formazione di una prestigiosa, seppure quantitativamente esigua, collezione d’arte. Le quattro tavole dipinte da Simone di Filippo con San Giovanni Battista, San Michele Arcangelo, Santa Caterina d’Alessandra e Santa Maria Maddalena, costituivano in origine gli scomparti laterali di

29


AGENDA DEL MESE un unico polittico, forse identificabile con quello che recava al centro l’Incoronazione della Vergine e che venne descritto nel 1686 nella scomparsa chiesa di S. Michele del Mercato dal canonico Malvasia. Le altre quattro tavole con San Giacomo Maggiore, San Pietro, San Nicola da Tolentino e San Francesco, attribuite a Giovanni, sono state ricollegate ai due scomparti di medesima fattura con Sant’Antonio Abate e San Domenico, oggi conservati presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara. I sei manufatti provenivano da un polittico smembrato, verosimilmente commissionato per la chiesa di S. Giacomo Maggiore a Bologna, vista la presenza di diversi santi cari all’Ordine agostiniano. info tel. 051 2193998 oppure 2193631; e-mail: arteanticamuseiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter @MuseiCiviciBolo MILANO LEONARDO E LA MADONNA LITTA Museo Poldi Pezzoli fino al 10 febbraio 2020

Negli anni in cui era attivo a Milano, Leonardo da Vinci dipinse, intorno al 1490, una Madonna con il Bambino oggi nota come Madonna Litta. La tavola, che mostra notevoli affinità stilistiche con la seconda versione della Vergine delle rocce, oggi conservata alla National Gallery di Londra, conobbe subito grande fortuna, come provano le numerose copie e derivazioni eseguite da artisti lombardi pervenuteci. Piú tardi, nell’Ottocento, divenne l’opera piú rinomata di una delle piú importanti collezioni milanesi, quella dei duchi Litta (da cui ha tratto

30

anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico testimoniano i risultati raggiunti. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú

l’odierna denominazione); il Museo dell’Ermitage – che ne è l’attuale proprietario – l’acquistò nel 1865 dal duca Antonio Litta Visconti Arese. Riconosciuta come uno dei capolavori del maestro toscano, la Madonna Litta torna, seppur temporaneamente, nella sua città d’origine ed è protagonista dell’esposizione allestita nelle sale del Museo Poldi Pezzoli. La affianca un altro capolavoro nato da una raffinata composizione di Leonardo, la Madonna con il Bambino del Museo Poldi Pezzoli: il dipinto, eseguito verso il 1485-1487 da Giovanni Antonio Boltraffio – il migliore fra gli allievi di Leonardo a Milano – con ogni probabilità sulla base di studi preparatori messi a punto dal maestro, è accostabile, dal punto di vista stilistico, alla prima versione della Vergine

delle rocce del Louvre. Nella prima metà dell’Ottocento anche la Madonna con il Bambino apparteneva alla collezione dei duchi Litta (fu acquistata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli nel 1864): la mostra ha quindi permesso di riunire nuovamente a Milano, dopo oltre un secolo e mezzo, queste due straordinarie versioni leonardesche della Madonna con il Bambino. info tel. 02 794889 o 796334; www.museopoldipezzoli.it SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

Fulcro della mostra sono alcuni progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura

audaci. Fanno da corredo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 13 aprile 2020

La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e dicembre

MEDIOEVO


propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare

questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

MEDIOEVO

dicembre

Appuntamenti TORINO IL MARE ANTICO. POPOLI, STORIE, CULTURE Musei Reali di Torino, Museo di Antichità fino al 9 dicembre

Prosegue il ciclo di lezioni dedicato alla storia e all’archeologia delle grandi civiltà del Mediterraneo. Archeologi e storici accompagnano il pubblico in un affascinante viaggio intorno all’antico, partendo dalle testimonianze che si conservano al Museo di Antichità. Una rassegna di approfondimenti, spunti, novità, che disegna un periplo alla greca, guida e descrizione dei luoghi e dei costumi dei popoli che si incontrano lungo il percorso, ricco di indicazioni utili alla conoscenza e all’esplorazione. Questi i prossimi appunatmenti: 2 dicembre: Daniele Morandi Bonacossi (Università di Udine), Iraq, culla della civiltà. Una riflessione sulla protezione e valorizzazione del patrimonio archeologico dell’Iraq; 9 dicembre: Luca Bombardieri (Università di Torino) e Giampaolo Graziadio (Università di Pisa), Cipro a Torino: un viaggio inatteso nel Mediterraneo antico. Archeologia di un’isola mediterranea in vista di una grande mostra. info e prenotazioni e-mail: info@coopculture.it; www.museireali.beniculturali.it MILANO MEDIOEVO IN LIBRERIA, XVIII EDIZIONE IL MEDIOEVO DEI CASTELLI Museo Civico Archeologico, Sala Conferenze fino al 4 aprile 2020

«Il Medioevo dei castelli» è il

31


AGENDA DEL MESE APPUNTAMENTI • Luce sull’Archeologia 2020 - Alle origini di Roma. Miti, popoli, culture Roma – Teatro Argentina

fino al 21 aprile 2020 (dal 12 gennaio 2020) info www.teatrodiroma.net

S

i avvicina l’inizio della VI edizione di «Luce sull’Archeologia. Incontri di Storia e Arte», il cui tema, «Alle origini di Roma. Miti, Popoli, Culture», sarà esplorato da storici, filologi, archeologi, storici dell’arte, architetti, epigrafisti, scienziati, ai quali si affiancheranno musicisti e specialisti di strumenti musicali del mondo antico. Tra i numerosi miti legati alla fondazione di Roma, quello del drammatico amore tra Enea e Didone, la regina di Cartagine, morta suicida a seguito dell’abbandono dell’eroe troiano, è senz’altro uno dei piú toccanti e suggestivi. Un viaggio emotivo, quello di «Luce sull’Archeologia» che sta diventando sempre piú un riferimento culturale per la città di Roma, testimoniato dalla numerosa affluenza del pubblico e dal grande interesse riscontrato. Otto gli incontri in programma, dal 12 gennaio al 21 aprile, con i quali si propone un ricco palinsesto dedicato non solo alla storia piú antica di Roma, ma anche alla progressiva conquista del Lazio, analizzando i miti di fondazione e i popoli con i quali Roma si è trovata a confronto. Aver assicurato continuità a questi incontri ha consentito di raggiungere un risultato di eccellenza nella divulgazione e fruizione dei dati scientifici, grazie anche al prosieguo della collaborazione con lo storico dell’arte Claudio Strinati, con il direttore delle riviste «Archeo» e «Medioevo», Andreas M. Steiner, e con il direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, Massimiliano Ghilardi. tema scelto per la XVIII edizione di «Medioevo in Libreria», rassegna che prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Tutti gli incontri pomeridiani hanno inizio alle ore 15,30 con la proiezione del filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo, a cui fanno seguito le conferenze. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: 14 dicembre: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria presso S. Satiro; ore 16,00: Giuseppe Ligato, I castelli della Terra Santa; 11 gennaio: ore 10,00: visita guidata all’abbazia di Chiaravalle; ore 16,00: Marina Uboldi, Ricerche archeologiche in alcuni castra altomedievali

32

della Lombardia settentrionale; 8 febbraio: ore 10,00: visita guidata gratuita alla basilica di S. Marco; ore 16,00: Marco Tamborini, Torri e rocche medievali attraverso le fonti scritte: alcuni casi del tenitorio varesino; 7 marzo: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Incoronata; ore 16,00: Alessandro Bazzoffia, I castelli alla motta dell’Ovest mantovano: risorse culturali e turistiche del territorio tra restauro, riuso e valorizzazione; 4 aprile: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Cristoforo; ore 16,00: Nicolangelo D’Acunto, Castelli reali, castelli immaginati. info tel. 333 5818048; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://

Questi i primi appuntamenti: 12 gennaio, Le origini di Roma tra mito e storia, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Carmine Ampolo, Orietta Rossini e Anna Mura Sommella; 26 gennaio, Enea, Roma e il Tevere, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Antonio Marchetta e Fausto Zevi; 9 febbraio, Per volere degli dèi, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Piero Bartoloni e Annalisa Lo Monaco, nonché un excursus lirico tratto da opere di Vinci, Cavalli, Mercadante, Purcell eseguito da Silvia Pasini, Andrea Fossa e Marco Silvi. medioevoinlibreria.blogspot.com

FIRENZE INCONTRI AL MUSEO. VIII EDIZIONE Museo Archeologico Nazionale fino al 4 giugno 2020

Tornano gli ormai tradizionali incontri del giovedí presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Gli appuntamenti, a ingresso gratuito, sono in programma alle 17,00. Queste le prossime date: 12 dicembre: Diana Perego, La festa greca delle Dionisie Rurali e la falloforia su una celebre coppa del Museo Archeologico di Firenze; 16 gennaio: Luigi Donati, Nunc est bibendum! Simposi etruschi e greci: analogie e differenze nell’uso del vino; 13 febbraio: Stefania Berutti,

Un «addio al nubilato» su una hydria del Museo Archeologico di Firenze. info tel. 055 23575 o 2357717; e-mail: pm-tos. musarchnaz-fi@beniculturali.it; www.polomusealetoscana. beniculturali.it dicembre

MEDIOEVO



musica e medioevo

Cantare il

incontro con Vinicio Capossela e Chiara Frugoni, a cura di Corrado Occhipinti Confalonieri

Medioevo C

antautore, poeta e scrittore, Vinicio Capossela ha scelto il Medioevo come fonte d’ispirazione per il suo ultimo disco, Ballate per uomini e bestie, premiato con la Targa Tenco come miglior album del 2019. Un’opera alla cui realizzazione, per esplicita dichiarazione dell’artista, ha contribuito la lettura dei saggi della storica Chiara Frugoni. Ne abbiamo parlato con entrambi, chiedendogli di approfondire genesi e temi portanti dell’opera

34

Nella pagina accanto miniatura raffigurante un contadino che «pascola» due maiali. XIII sec. L’immagine allude al mese di Novembre e all’allevamento dei suini e correda la pagina di un salterio, una di quelle raccolte in cui i Salmi erano organizzati per essere recitati nel corso della settimana o del mese. In basso Vinicio Capossela.

dicembre

MEDIOEVO


MEDIOEVO

dicembre

35


musica e medioevo

C apossela, il suo ultimo album si intitola Ballate per uomini e bestie: ma chi sono le bestie? «Il termine bestia è molto ampio e si presta a doppi, tripli sensi. Possono essere gli animali non ridotti in cattività, quelli in cui predomina il lato selvaggio, raffigurato per esempio nei bestiari medievali, cosí come gli uomini che si danno alla bestialità. Quegli uomini che fanno prevalere la legge del piú forte sulla cultura. Per la sua ampiezza, la cultura ci permette di vivere in un mondo civile; la legge della giungla scatta invece quando il discorso culturale viene a mancare, quando finisce sott’acqua».

36

L ’unico testo autobiografico del disco è Il testamento del porco, perché questa similitudine? «Il porco è l’animale fisiologicamente piú simile all’uomo, nella storia ha sempre condiviso con lui spazi comuni ed è sulla bocca di tutti piú di altri animali. La convivenza con i maiali è simile a quella fra gli uomini ed è piú difficile, perché, a differenza delle pecore, i suini non ubbidiscono. Per questa somiglianza, il porco accosta a Dio piú di ogni altro animale e Dio spesso è accostato a esso. In una cultura punitiva come quella occidentale che divide il corpo dalla spiritualità, il maiale l’ha pagata cara per essere cosí e infatti rappresenta

l’animale del sacrificio, perché del suo corpo non si butta via niente. Poi è l’animale piú esemplare perché lascia il famoso testamento del porco». C he cosa le piace della Danza macabra medievale a cui ha dedicato un pezzo? «La prima idea è nata quando ho visitato la seicentesca chiesa del Purgatorio di Terracina dove sono conservati otto teschi e le loro ossa. Un esempio di come l’“hodie mihi cras tibi” (“oggi a me, domani a te”) abbia ispirato alcuni devoti a istituire una Compagnia per la sepoltura dei poveri morti, mossa dalla carità e dalla pietà. Nel Me(segue a p. 40) dicembre

MEDIOEVO


In alto Clusone (Bergamo). Particolare della Danza macabra affrescata da Giacomo Busca nell’Oratorio dei Disciplini. 1485. A destra San Francesco d’Assisi, tempera e oro su tavola, aureola raggiata in rilievo, attribuito a Cimabue. 1290 circa. Assisi, Museo della Porziuncola.

MEDIOEVO

dicembre

37


musica e medioevo Il testamento del porco Lamentazione A mia moglie la gran miseria Lascio il trionfo delle budella Ha piú cuccioli che mammella E mai nessuno la può saziar. Lascio il ricordo di quel che è stato Quando di fianco a fianco Pascevamo felici nel fango E di coprirla non ero mai stanco. E se pur non ho visto il sole Pure del mondo ho conosciuto l’odore E se mai non ho visto il cielo Pure è certo, ho vissuto davvero. Nella gioia di divorare E di vivere da maiale Senza mai saziare il ventre Senza un momento di pentimento. E se ho vissuto col muso per terra Senza vedere girare le stelle Pure lo stesso non voglio morire E schiamo forte per non crepare. Ma se è destino morire scannati Voglio pure farvi beati E che non si butti via niente Di una vita in sacrificio per voi Di una vita in sacrificio per voi... Testamento Il maiale fa testamento sulla pellaccia A chi col coltellaccio gli ha dato la caccia

38

Tu che mai vedesti il sole, con la tua faccia. La tua vita di peccatore è alla fine delle sue ore Porco mio è arrivata l’ora e adesso ti scanno per la coda! Finché sei vivo ti chiami maiale Ma quando sei morto ti chiamano porco. Il testamento del maiale Lascia a tutti in parte uguale. Il testamento del porco Che a nessuno vuol fare torto. A chi fa cause e liti e abu-u-uso Lascio la lingua fuori dal mu-u-uso Ai lussuriosi di carne fresca Che passano di tresca in tresca Lascio il grugnito del maiale A chi per fottere deve pagare Ai delusi d’amore Lascio la prova che grufolare E razzolare di fiore in fiore Nella massa è il fine migliore. Ai pavidi lascio la cote-e-enna E le setole per stre-e-enna Ai politici e ai mediatici Lo stomaco coperto di pelo Ai litiganti lascio la lingua Lo stinco lo lascio ai santi E il muso col grugno duro A chi ha la faccia come il culo. La vescica lascio ai bambini Che ci gonfino palloncini Ai commercianti lascio la borsa e alle porcelle l’asta Ai laidi lascio il fango Che ci affondino con le zampe Le unghie per i ladroni

dicembre

MEDIOEVO


E i denti per gli assassini La zampetta ai lesti di mano E il cuore all’anima del villano Al cuciniere lascio la verga Ci si appenda dal peso delle terga Che si impicchi dai cannaroni Con la fune dei miei coglioni. Il sangue lo lascio a fiotti A chi canta sonetti e motti Le budella fatte a strisce A chi se le gode e non si pentisce. Al gaudente ed al sapiente Lascio i rotoli di salsicce Agli infoiati le budella Ai tardi di spirito le cervella. A chi si tiene da parte tutto Lascio la coppa con il prosciutto A chi rimanda per sparagno lascio il lardo per la sugna A chi non mangia per non cacà Non gli lascio che il rimpianto Delle salsicce e del vino santo E della carne mischiata con il canto. Alla comare bisbetica, lascio il rotolo della cotica A chi è felice di stramangiare Per cuscino lascio il guanciale E al posto del costato Sulla croce lascio le spine Per paradiso e gloria Di un rosario di costine. Al curato della chiesa Lascio i vizi capitali La lussuria e la pigrizia

MEDIOEVO

dicembre

In basso, sulle due pagine miniatura che propone come allegoria del mese di Dicembre l’allevamento e l’uccisione del maiale. XV sec. L’esemplare al centro della scena è una «cinta» senese, specie che si distingue per la fascia di pelame piú chiaro, simile appunto a una cintura.

Il piacere e la sporcizia Tutti quanti ce li ho avuti Tutti quanti li ho goduti Lascio gli occhi per chi non vede E la carne per chi non crede L’udito fino che mi è servito A sentire a tutte le ore Il richiamo del ventre Invece di quello del mio Signore. Le ossa le lascio a terra Ma solo dopo che han fatto brodo Prima al ricco e poi a chi ha poco Mano mano che scema la carne Finché non ne rimane niente E fa da minestra per il pezzente Finché non ne rimane niente E fa da minestra per il pezzente. Cosí a tutti lascio in pegno Questo mio corpo tondo In vita disprezzato e immondo A contrastare il regno Del duo che regge il mondo La nostra grande signoria Che domina ogni via: Fame e Miseria E cosí sia.

39


musica e medioevo dioevo, la Danza macabra è invece strumento della paura come esercizio del potere. Della Danza macabra mi colpisce la raffigurazione del corpo umano ancora come essere vivente perché gli dà forma e gioia. Consente inoltre l’esercizio grottesco del linguaggio e, grazie al colore degli affreschi, l’oscurità delle tenebre fa meno paura. I nomi e i nomignoli dati alla morte poi ne fanno quasi uno sberleffo al terrore che inevitabilmente incute. Dal punto di vista antropologico è cosí in molte civiltà, pensiamo, per esempio, ai calaveras messicani, i teschi con il sombrero. Un tempo eravamo piú a contatto con la morte, oggi per l’uomo occidentale rappresenta l’ultimo tabú, è vista come l’ultimo intralcio al sistema produttivo. Questo divario porta alla mancata elaborazione della perdita. Una volta ingigantivano il lutto, ma in questo modo diventava piú familiare. Adesso non esiste piú la compassione dei vivi, occorre invece avere piú cura della morte e amarla come parte della vita». D urante un concerto ad Assisi, ha scoperto il fioretto La perfetta letizia di san Francesco. Come mai gli ha dedicato una canzone? «In quel fioretto ho trovato alcune frasi che possono essere cantate, poi mi ha colpito la lingua e ho provato a replicarla. Mi ha conquistato il paradosso del dialogo tra Francesco e Leone, quando si chiedono cosa può portare la perfetta letizia: resuscitare i morti, insegnare, convertire. In realtà la perfetta letizia, spiega Francesco,

40

è quando di notte, al gelo, arrivi finalmente al tuo convento e il frate guardiano non ti riconosce e anzi ti caccia a bastonate, sembra quasi comico! La conclusione di Francesco è invece sorprendente: se noi questo sosterremo pazientemente sanza turbazioni e sanza mormorazione, ma con allegrezza, qui è perfetta letizia. Il significato è che non hai merito per le cose che vanno bene, ma solo se sopporti quelle che non vanno bene e porti con allegrezza la tua croce. Ci possiamo gloriare solo se superiamo noi stessi». Il messaggio della perfetta letizia di Francesco è oggi attuabile ? «Con molta fatica, ma credo di sí, anche se la chiamerei l’imperfetta letizia». Con Chiara Frugoni avete tenuto una conferenza alla Normale di Pisa dal titolo Pestilenze e speranze. Che ricordo ha di quell’incontro? «In quel contesto accademico mi sono sentito fuori posto e mi sono aggrappato a lei come un naufrago alla scialuppa! Quello che mi ha colpito in particolare è stata la sua capacità di trasmettere il suo sapere quasi con umiltà. A volte la conoscenza può separare le persone, può diventare discriminante. Frugoni invece ha la capacità di rendere a tutti fruibile la cultura, di essere inclusiva».

Da ascoltare Vinicio Capossela, Ballate per uomini e bestie, La Cupa/Warner Music Italy, 2019 disponibile in CD, vinile, MP3 e streaming

dicembre

MEDIOEVO


PESTILENZE E SPERANZE

B

allate per uomini e bestie, l’ultimo disco di Vinicio Capossela, si basa su temi medievali per i testi delle canzoni. Fonte di ispirazione dell’artista, come egli stesso ha dichiarato, sono stati in particolare alcuni saggi di Chiara Frugoni. Alla studiosa abbiamo perciò chiesto di approfondire alcuni dei temi medievali trattati nell’album, dei quali ha discusso insieme a Capossela in un incontro organizzato presso la Scuola Normale di Pisa.

P rofessoressa Frugoni, quale analogia esiste fra la peste del 1348 e la moderna pestilenza cantata da Vinicio Capossela? «Alla metà del 1300 si verifica una profonda crisi, dovuta a cambiamenti climatici e alle continue guerre, che sottraggono soldi e creano povertà. La gente si nutre di meno, si trova cosí piú esposta alle epidemie, non certo contrastate dalle pessime condizioni igieniche del tempo. La peste rompe i rapporti sociali; tutti pensano solo a salvarsi: i genitori non si avvicinano ai figli moribondi per paura del contagio, vengono a mancare l’umanità, la compassione, l’empatia. La peste attuale, veicolata dalla rete, secondo il cantante, rompe anch’essa i rapporti sociali, crea odio, violenza, Innocenzo III conferma la Regola francescana, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. In realtà, la concessione fu accordata da papa Onorio nel 1223.

MEDIOEVO

dicembre

41


musica e medioevo fake news, peggiora cosí il modo di vivere. Anche nel Medioevo esistevano le fake news, pensiamo a quelle messe in moto dai grandi predicatori come Bernardino da Siena, l’inventore delle streghe. Anche le immagini diffondono false notizie. Per esempio, negli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, il cartiglio in mano a Innocenzo III riporta la Regola francescana che in realtà viene concessa da Onorio III solo nel 1223, mentre l’incontro con Innocenzo III avvenne nel 1208. Il pontefice fu molto prudente e non concesse nulla di scritto. Poiché senza documento pontificio scritto non ci può essere un Ordine e poiché dopo il 1215 non potevano piú essere approvate nuove regole, ecco che i Francescani si mettono al riparo dalla loro grave imperfezione giuridica fingendo che già nel 1208 Innocenzo III avesse confermato la Regola del 1223. Quella medievale è comunque solo peste, quella di oggi veicolata dal web, potrebbe essere positiva se utilizzata con consapevolezza e responsabilità individuale». I l Trionfo della Morte e la sua rappresentazione sono riprese nel testo della canzone Danza macabra. Nel Medioevo questi temi sono la conseguenza della peste? «Un tempo si pensava che il macabro fosse conseguenza della peste, ma non è cosí. La Chiesa si appropria del tema laico del macabro per far paura. Con la nascita del Purgatorio, la cui credenza si afferma nel XIII secolo, l’uomo medievale capisce che all’Inferno non va piú nessuno, a meno di essere un omicida. La Chiesa allora, non potendo piú contare sul terrore dell’Inferno, accetta che sulle pareti dell’edificio sacro siano rappresentati i temi macabri, anche se il credente non dovrebbe preoccuparsi del disfacimento corporeo, perché a lui dovrebbe stare a cuore solo la sorte dell’anima. Mostrando i corpi putrefatti, la Chiesa cerca di dimostrare che le azioni umane, i traguardi rag-

42

giunti, in realtà non valgono niente. Nello stesso tempo, proprio perché la carne fa rapidamente una fine cosí triste, è bene che il credente pensi all’aldilà: la vita è un tempo effimero, l’aldilà è eterno. Cronologicamente, il primo dei temi macabri è la Leggenda dei tre vivi e i tre morti. Tre cavalieri incontrano tre scheletri “viventi” che dicono loro: “un giorno sarete come noi”. Seguono il Trionfo della Morte, che miete inesorabile le vite umane, infine la Danza Macabra, dove ogni scheletro è il doppio del vivo costretto a unirsi a lui suo malgrado, in una scomposta sarabanda. Qui molto forte è la protesta sociale. La Danza è una rivincita sulle tante ingiustizie e disuguaglianze della società perché anche i ricchi e i potenti fanno una ben misera fine. Nel testo della sua canzone Vinicio Capossela sottolinea la differenza fra spavento e paura. Lo spavento è la paura popolare dei Krampus, quei mostri folcloristici che accompagnano santa Klaus: spaventano i bambini, ma il loro è un terrore pedagogico. La paura, invece, agisce sul bisogno di sicurezza delle persone, delle masse, rendendole rinunciatarie». I l colore dell’amore è invece ripreso da Vinicio Capossela in un brano ispirato a Francesco d’Assisi: Perfetta letizia, cosa intende il santo con questa? «In uno dei famosi Fioretti, Francesco immagina tutte le cose bellissime che potrebbero capitargli: la conversione dei musulmani, i Francescani che occupano le cattedre a Parigi, la sua capacità di compiere miracoli. Tutti questi eventi, spiega Francesco a frate Leone, non costituiscono la perfetta letizia. Invece se, dopo essere stati al freddo, con il saio pesante per il ghiaccio invernale che si è formato sui bordi, nell’arrivare davanti al convento, di notte, il frate portinaio non aprirà il portone, anzi, li scaccerà a male parole, questa sarà perfetta letizia, a condizione che Francesco e Leone riescano a soppor-

Il lupo di Gubbio, particolare di un polittico del Sassetta. 1347-44. Londra, National Gallery. La prodigiosa vicenda è narrata nei Fioretti, nei quali si legge che Francesco liberò la cittadina umbra dalla minaccia della belva, chiamandola a sé e dicendole: «Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona».

tare tutto questo senza rancore, ma con grande pazienza. Al tempo dei Fioretti, l’Ordine francescano era molto cambiato rispetto alle origini; i frati erano cresciuti di numero a dismisura e volevano studiare, insegnare, non si riconoscevano piú nell’aspro programma di Francesco che pretendeva l’applicazione radicale del Vangelo, per esempio curando i lebbrosi e abitando presso di loro. Morto Francesco, i frati pensarono che la sua santità fosse eccelsa, ma irraggiungibile. Per questo Bonaventura, l’ultimo biografo ufficiale, nella sua Legenda maior, scrisse che Francesco era una figura da ammirare, ma non da imitare. Venivano proposti come esempio altri santi frati francescani, come Antonio da Padova, uomo coltissimo, ma assai piú tradizionale. Succede cosí anche per la pagina della perfetta letizia. La si legge con ammirazione, ma nessuno pensa di mettere in pratica la reazione di Francesco!». I l povero Cristo parla di povertà, un dono difeso non solo da Francesco, ma anche da Chiara d’Assisi. Di che cosa si tratta? «I Francescani sono oggi un Ordine Mendicante, ma Francesco aveva proibito di chiedere l’elemosina, perché diceva che equivaleva a rubare ai poveri. Secondo il santo, i frati dovevano vivere nella povertà assoluta, mantenersi col proprio lavoro assolutamente gratuito, non tenendo scorte per l’indomani ma accettando solo il cibo per la sopravvivenza, giorno per giorno. Francesco non vuole possedere dicembre

MEDIOEVO


MEDIOEVO

dicembre

43


musica e medioevo

Perfetta letizia Quand’anche illuminassi i ciechi distendessi gli attratti e i demoni cacciassi e rendessi l’udire ai sordi l’andare ai zoppi il parlare ai mutoli e che maggior cosa è... Resuscitassi il morto di quattro dí... Non in ciò è perfetta letizia Non in ciò è perfetta letizia. E se sapessi tutte le lingue e tutte le scienzie e le scritture se sapessi profetare e rivelare le cose future e i segreti delle coscienzie e degli animi... Non in ciò è perfetta letizia. E se parlassi con lingua di angeli e sapessi i corsi delle stelle e le virtú dell’erbe e i tesori della terra. E conoscessi le nature degli uccelli e dei pesci e degli animali e degli uomini e delle pietre e delle radici e delle acque... Non in ciò è perfetta letizia. Ma se giugneremo in Santa Maria degli Angeli cosí agghiacciati di freddo e infangati di loto e afflitti e se il portinaio non ci aprirà e faracci stare fuori alla neve e al freddo infino alla notte... In ciò è perfetta letizia. Se noi quelle ingiurie e quei tanti commiati sosterremo sanza turbazione sanza mormorazione e penseremo umilmente e caritativamente... Ecco in ciò è perfetta letizia. E se stretti di fame e freddo piú picchieremo e piú chiameremo e piú pregheremo e quelli uscirà con un bastone e piglieracci per lo cappuccio e invogeracci e batteracci a nodo a nodo con quello bastone... Ecco in ciò è perfetta letizia. Se noi sosterremmo pazientemente e con allegrezza scrivi in ciò è perfetta letizia. Che tra tutti i doni e le grazie che Dio concede si è quello di vincere se medesimi e superare noi stessi. Però che in tutti gli altri doni non ci

44

possiamo gloriare che nostri non sono. Però nell’afflizione e la tribolazione solo ci possiamo gloriare perché nostra è la croce dicembre

MEDIOEVO


La predica agli uccelli, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. Il sermone indirizzato alle piccole creature è uno degli episodi piú famosi della vita del santo, ed è riferito anche nella biografia scritta da Tommaso da Celano.

nulla e quando il vescovo di Assisi gli chiede se non ritenga troppo rigido il divieto di possedere alcunché, risponde che, se possedesse una casa, per difenderla avrebbe avuto bisogno di armi: dal possedere sarebbero derivate liti e guerre. Chiara chiede a Gregorio IX il singolare “privilegio dell’altissima povertà”, vuole cioè che le monache non siano costrette a possedere terre per il proprio mantenimento. Anche lei non vuole nulla. Alla sua morte, il primo papa francescano, Nicolò IV, abolisce questo privilegio e Urbano IV scrive un’altra Regola per le Clarisse, riportandole alla piú stretta clausura».

e il saperla portare... Ecco in ciò è perfetta letizia. Ecco in ciò è perfetta letizia.

A lcune bestie citate nell’album di Capossela (lupi, orsi, maiali) fanno riferimento al suo saggio Uomini e animali nel Medioevo. Quale rapporto c’era fra di loro? «Il lupo è molto temuto dall’uomo medievale: attacca in branco, non solo, ma allora si credeva che fosse invincibile, perché, anche in mancanza di prede, si nutriva di vento. Le scrofe divoravano i lattanti lasciati incustoditi sui prati dalle madri contadine. Si reagiva istituendo processi contro gli animali assistiti da un avvocato, processi che ovviamente finivano malissimo per l’imputato. Se si trattava di una scrofa, all’esecuzione dovevano assistere il padrone, perché stesse piú attento, e il branco dei maiali, perché imparassero. Volpi e lupi venivano impiccati perché servissero d’esempio ai loro “coetanei”». Quale idea si è fatta della capacità di

MEDIOEVO

dicembre

Francesco di parlare agli animali? «Francesco pensa alla parità fra uomo e animale perché li chiama fratelli: frate lupo, frate asino. Secondo il santo, l’uomo non deve dominare gli animali, ma avere rispetto per loro. Il lupo di Gubbio nel racconto dei Fioretti ne è la dimostrazione. Francesco spiega agli Eugubini che il lupo non è cattivo, ma solo carnivoro e che, se fosse stato sfamato, non avrebbe piú costituito un pericolo. Un messaggio chiaro di pacifica convivenza. Nel brano di Capossela Le loup garou viene riportato il senso di fratellanza di Francesco fra uomini e animali. Il santo, per esempio, ributta nell’acqua un pesce che ancora vivo gli era stato offerto da un pescatore, riscatta due pecorelle che stavano per essere condotte al macello, lascia andare una lepre appena catturata che gli era stata donata. Quando parla agli uccelli, Francesco si riferisce ai poveri e ai derelitti, ai contadini. Infatti, nei trattati che mettono in paragone uccelli e uomini, i nobili e l’alto clero sono rappresentati da falchi e da sparvieri, ma proprio gli uccelli citati da Tommaso da Celano, il primo biografo ufficiale – uccelli d’acqua colombe e cornacchie –, rappresentavano la classe sociale dei poveri. Oggi, anche per colpa dell’uso scorretto della rete, mancano umanità, rispetto, empatia nei confronti degli altri. Dobbiamo sperare che arrivi un altro Francesco». F

Da leggere Chiara Frugoni, Quale Francesco?, Einaudi, Torino 2015 Chiara Frugoni, Senza misericordia, Einaudi, Torino 2016 Chiara Frugoni, Le conseguenze di una citazione fuori posto, Edizioni biblioteca francescana, Milano 2018 Chiara Frugoni, Uomini e animali nel medioevo, Il Mulino, Bologna 2018

45




48

dicembre

MEDIOEVO


restauri madonna di san luca

Colei che mostra la via di Mimmo Frassineti

Le immagini della Vergine insieme al figlio o nell’atto di intercedere per l’ottenimento di una grazia, sono uno dei generi piú popolari e piú venerati dell’arte figurativa di tradizione bizantina. Diffuse in Occidente – dove le troviamo spesso racchiuse in esuberanti cornici di fattura barocca – la loro realizzazione viene attribuita, dalla leggenda, all’evangelista Luca, patrono dei medici, e anche degli artisti. Ma ecco cosa ha rivelato il restauro di un piccolo capolavoro conservato in una chiesa di Roma...

N N

el 1099, a Roma, ai piedi della collina del Pincio, fu eretta una cappella dedicata alla Vergine, voluta da papa Pasquale II (1099-1118), il quale si faceva interprete di preoccupazioni e paure diffuse fra la gente. In quel luogo, infatti, si diceva aleggiasse il fantasma di Nerone, le cui ceneri giacevano proprio lí, conservate in un’urna di porfido, nel sepolcro dei Domizi Enobarbi, famiglia paterna dell’imperatore. Un grande albero di noci, cresciuto accanto alla tomba, era infestato dai demoni che, sotto forma di corvi, terrorizzavano i Romani: Nerone era l’Anticristo e i

Particolare della Madonna di San Luca (vedi l’immagine intera a p. 51), conservata nella basilica di S. Maria del Popolo a Roma. Il recente restauro ha svelato la firma dell’autore del dipinto: è Filippo Rusuti, pittore e mosaicista romano attivo negli ultimi decenni del Duecento. A lungo ritenuta opera dell’evangelista Luca, l’icona gode di fama miracolosa ed è stata sempre oggetto di grande devozione popolare.

MEDIOEVO

dicembre

corvi il suo corteggio di spiriti infernali. Consigliato in sogno dalla Vergine, il papa abbatté l’albero, rase al suolo il sepolcro e disperse le ceneri, probabilmente nel Tevere. Si diffuse in seguito la voce che fossero state trasferite fuori dalle mura cittadine, al VI miglio della via Cassia, dove il toponimo Tomba di Nerone designa tuttora l’abitato, nonché un monumento sepolcrale del III secolo, il cui titolare legittimo è però Publio Vibio Mariano, proconsole della Sardegna e prefetto della Legio II italica.

A spese del popolo romano

Il pontefice dunque avviò, a spese del popolo romano, cioè con i fondi del Senato, la costruzione della cappella – che ebbe il nome di Sancta Maria Populi Romani – nel luogo già occupato dal mausoleo neroniano. Ampliata nel 1227 da Gregorio IX (1227-1241), fra il 1472 e il 1477 fu riedificata da Sisto IV della Rovere (1471-1484). A successivi interventi, l’ultimo dei quali di Gian Lorenzo Bernini su incarico di Ales-

sandro VII Chigi (1655-1667), si deve il suo aspetto attuale. Fra le opere d’arte che S. Maria del Popolo tuttora custodisce (la Conversione di San Paolo e la Crocifissione di San Pietro di Caravaggio le piú memorabili) c’è anche, sull’altar maggiore, un’antica e venerata icona, chiamata Madonna di San Luca. Il quadro, una tempera su tavola di eccellente fattura, ha fama d’immagine miracolosa, il cui potere taumaturgico è testimoniato non solo dalla devozione popolare, ma anche dai documenti ufficiali della Chiesa, tanto che ne furono eseguite fedeli repliche, come quella commissionata a Melozzo da Forlí da Alessandro Sforza, signore di Pesaro, o quella che il vescovo di Trento Johann IV Hinderbach volle per il duomo della città. Fu anche portata varie volte in processione per scongiurare le scorrerie dei Turchi. Un recente restauro, oltre a ripristinare la purezza dei colori e la nitidezza del disegno, ha riservato una scoperta inaspettata: il nome dell’autore. All’epoca, verso la fine

49


restauri madonna di san luca

del XIII secolo, apporre la propria firma non era uso generalizzato fra gli artisti. Questa si trova lungo il margine superiore della cornice. Il bianco dei caratteri è lacunoso, ma i contorni lasciano leggere «PHILIPPUS RUSUTI PINXIT», in eleganti maiuscole gotiche. Una nuova attribuzione che ormai non delude i fedeli, e aggiunge una tes-

50

sera al contributo di Roma alla storia della pittura italiana.

Nuove attribuzioni

Di Filippo Rusuti, con Pietro Cavallini e Jacopo Torriti protagonista della scena artistica romana nell’ultimo quarto del Duecento, si conosceva finora solo il mosaico con Cristo in trono fra angeli e santi sulla facciata

di S. Maria Maggiore (la cui visione è parzialmente ostacolata dal portico di Ferdinando Fuga, addossato alla basilica nel 1743), realizzato allo scadere del secolo. L’icona di S. Maria del Popolo veniva finora attribuita dagli studiosi al cosiddetto Maestro di San Saba, per le affinità compositive con uno degli affreschi nella quarta navata dell’omonima dicembre

MEDIOEVO


basilica romana. Ora si affaccia la proposta di assegnare a Rusuti anche quelle pitture. Gli svariati interventi di restauro subiti in passato dall’opera non avevano mai rivelato l’iscrizione con la firma, oscurata non dal fumo delle candele o dal trascorrere dei secoli, ma una spessa mano di vernice nera. L’icona fu probabilmente collo-

MEDIOEVO

dicembre

cata in S. Maria del Popolo da Bonifacio VIII (1294-1303) nel 1299, in occasione del duecentesimo anniversario della fondazione della cappella. Senonché una tradizione, nata intorno alla metà del Trecento (attestata nei Libri Indulgentiarium, presso la Biblioteca Apostolica Vaticana), la voleva invece giunta a S. Maria del Popolo nel 1235.

Nella pagina accanto l’interno della basilica di S. Maria del Popolo: l’edificio originario sorse nell’XI sec., per volere di papa Pasquale II, sul luogo dove un tempo si trovava il sepolcro dei Domizi Enobarbi, al cui interno erano conservate le ceneri dell’imperatore Nerone. In alto la Madonna di San Luca, collocata sull’altar maggiore della basilica di S. Maria del Popolo.

51


restauri madonna di san luca

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A trasferire la tavola, che si credeva dipinta dall’evangelista Luca (ymaginem beate Virgini Marie manibus beatum Luca in tabula depicta), dal Sancta Sanctorum in Laterano all’altare della chiesetta sarebbe stato papa Gregorio IX (12271241), in una solenne processione con il popolo e il clero.

La leggenda del santo pittore

San Luca era considerato l’autore di questo e di numerosi altri dipinti di analogo soggetto, a Roma e altrove. Nata a Bisanzio all’epoca dell’iconoclastia, la leggenda che l’evangelista avesse ritratto dal vivo la madre di Gesú si era diffusa anche in Occidente e in particolare a Roma, dove una quantità d’immagini miracolose raffiguranti la Vergine, da sola o con il Bambino, si attribuivano alla sua mano. Si comprende allora come mai la firma del vero autore, peraltro in bella evidenza, possa essere stata deliberatamente soppressa. L’iconografia è quella tradizio-

52

nale dell’Odigitria: la Vergine «che mostra la via» (dall’unione dei termini greci odos, «via» e ago, egeomai, «guidare, condurre», n.d.r.), cioè Cristo. Avvolta in un maphorion (il manto che le copre il capo e le spalle) azzurro con il bordo ricamato d’oro, guarda il Bambino, che veste una toga rossa e una tunica verde scuro – serrata alla cintola da una cordicella – su una camiciola bianca. Gesú, in atto di benedire con la mano destra, sfiora con la sinistra quella della madre. L’impianto bizantino è temperato, come nell’affresco di S. Saba, da una posizione non rigidamente frontale delle figure, dalla naturalezza dei gesti e da un’atmosfera d’intimità familiare. Nel 730, a Costantinopoli, l’imperatore Leone III Isaurico promulgò un editto con il quale imponeva la distruzione delle immagini religiose (l’iconoclastia, n.d.r.) e la persecuzione di chi ne praticava il culto. Suo proposito era anche quello di arginare lo strapotere dei monasteri, che incoraggiavano la fanatica adorazio-

ne delle icone da parte delle masse popolari, e di spuntare le accuse d’idolatria della propaganda musulmana. Si oppose al decreto la Chiesa di Roma: papa Gregorio III (731-741) minacciò la scomunica per chi avesse distrutto le icone. Costantino V (741-775) e Leone IV (775-780) inasprirono le persecuzioni, infierendo in particolare sugli Ordini monastici. Alla morte di Leone IV, la moglie Irene, che segretamente venerava le icone, assunse la reggenza – data la giovane età del figlio Costantino VI – e ottenne da papa Adriano I (772795) la convocazione a Nicea di un concilio che, nel 787, ristabilí il culto delle immagini sacre. Con Leone V l’Armeno (813-820), Michele II (820-829) e Teofilo (829-842), si ebbe una ripresa dell’iconoclastia fino a quando, nell’843, la basilissa Teodora ne sancí la definitiva condanna.

«Non ti farai idolo...»

Gli iconoclasti trovavano nei testi sacri solide giustificazioni dottrinali: «Non avrai altri dei di fronte a me. dicembre

MEDIOEVO


Sulle due pagine particolari della Madonna di San Luca. Da sinistra in senso orario, la parte di cornice sulla quale è apparso il lacerto di firma di Filippo Rusuti, pittore a cui oggi si attribuisce la paternità dell’icona; la mano della Vergine Odigitria, tipica dell’arte bizantina, che mostra la via, cioè Cristo; il volto del Bambino.

MEDIOEVO

dicembre

53


restauri madonna di san luca Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassú nel cielo né di ciò che è quaggiú sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (Esodo 20, 1-6). «Non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano» (discorso di San Paolo agli Ateniesi, Atti 17, 29). Non sorprende allora che proprio a Bisanzio, nel pieno della disputa, sia nata l’idea dell’evangelista pittore, di san Luca ritrattista di Maria. In realtà, anche agli iconoduli – coloro che praticavano il culto delle immagini sacre – non mancavano gli argomenti. Le icone non rappresentano naturalisticamente figure sacre, ma esprimono verità teologiche. Essendo Gesú uomo e Dio, non vi sono ostacoli per effigiarlo nella sua forma umana. La raffigurazione di Cristo proclama il dogma dell’Incarnazione. Le icone sono oggetti sensibili che permettono di elevarsi verso realtà ultrasensibili. Valgono a istruire nella fede la gente comune e gli analfabeti. Conservano la memoria delle cose sante. Ma, se a dare inizio alla tradizione artistica cristiana era stato addirittura uno degli evangelisti, a maggior ragione ogni divieto poteva considerarsi superato.

Quel «caro medico»...

Ma perché venne scelto Luca? L’autore del terzo e del quinto libro del Nuovo Testamento – il suo Vangelo e gli Atti degli Apostoli – di famiglia pagana (unico evangelista non ebreo), nacque ad Antiochia, in Siria, intorno al 9 d.C. Qui esercitava la professione di medico e conobbe Paolo di Tarso – arrivato a istruire nella fede la nuova comunità cristiana –, convertendosi e diventando suo discepolo. È citato, nelle lettere di Paolo, come «caro medico» (Colossesi, 4,14) e «compagno di lavoro» (Filemone, 24). Compose il Vangelo probabilmente tra il 70 e l’80, dedicandolo a Teofilo, forse un per-

54

sonaggio eminente o forse una figura simbolica (colui che ama Dio). Luca seppe di Gesú dai racconti degli apostoli e di altri testimoni, tra i quali potrebbe esserci stata anche Maria. Dei Vangeli canonici, quello di Luca è il solo che parli di Maria prima della nascita di Cristo, dell’Annunciazione, della visita di Maria a Elisabetta e della nascita di Giovanni Battista. L’unico a raccontarci del ricovero di Gesú appena nato in una mangiatoia – delineando la scena del presepe – e a darci notizie della sua infanzia. Morí nel 93, a 84 anni, e le sue spoglie sono a Padova nella basilica di S. Giustina. La testa, o parte di essa, è custodita a Praga nella cattedrale di S. Vito, portatavi da Carlo IV nel 1354. Patrono degli artisti – dei pittori in particolare – e dei medici, il suo emblema è il toro, la sua festa il 18 ottobre. Gli altri tre Vangeli non sono prodighi di informazioni sulla Vergine. Matteo è assai stringato: «Cosí

In alto icona raffigurante la Madonna Advocata, nell’atto di intercessione per ottenere grazie. Roma, S. Maria in Aracoeli, cappella maggiore. XII sec. A destra la Salus Populi Romani, icona bizantina anch’essa oggetto di grande devozione popolare. VIII-XI sec. Roma, basilica di S. Maria Maggiore, Cappella Paolina. Il dipinto è circondato da angeli bronzei e marmi preziosi.

dicembre

MEDIOEVO


fu generato Gesú Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Matteo 1,18). Marco e Giovanni non danno notizia dell’Annunciazione, del concepimento e della nascita di Gesú. Ma ecco il racconto di Luca: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei disse “Rallegrati piena di grazia: il Signore è con te”. A queste parole ella fu molto turbata».

Un celebre dialogo

Le parole dell’angelo, e quelle che lei gli rispose, soltanto Maria poteva conoscerle. Se prestiamo fede a quanto assicura nel prologo – di scrivere dietro testimonianze dirette – Luca le avrebbe apprese direttamente da lei. Un dialogo messo in scena in innumerevoli capolavori della pittura. Poiché Gabriele l’aveva anche avvertita della miracolosa gravidanza di Elisabetta – anziana e sterile –, la ragazza parte da Nazareth e si reca da lei, che vive in un villaggio a ovest di Gerusalemme. Elisabetta è incinta del Battista, ormai al sesto mese. Esclama: «Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?». La risposta di Maria è un fiume in piena: «Il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente». Parole in cui sentiamo non solo l’umile accettazione della volontà di Dio, ma anche la fierezza di esserne l’interprete. Questo è l’autentico ritratto di Maria di Nazaret che Luca ci consegna. Sugli altri, quelli dipinti, la critica ha da tempo fatto chiarezza: delle tante Madonne di San Luca nessuna può essere di sua mano. Alcune sono probabilmente venute da Costantinopoli durante il periodo

55


restauri madonna di san luca iconoclastico (730-843) per essere messe al riparo dalla distruzione. A Roma sono particolarmente numerose. La piú popolare è probabilmente la Salus Populi Romani, nella Cappella Paolina di S. Maria Maggiore, che contende all’icona di S. Maria del Popolo il primato nella devozione dei fedeli. È considerata opera di un artista bizantino residente a Roma o in Oriente, tra l’VIII e l’XI secolo. Nella cappella edificata nel 1611 da Papa Paolo V Borghese (1605-1621) per ospitarla degnamente, appare circondata da angeli bronzei e marmi preziosi. Sembra essere il destino di quasi tutte le icone piú venerate di ritrovarsi, loro cosí essenziali, incorniciate in esuberanti apparati barocchi. La Vergine ha lo sguardo rivolto allo spettatore e indossa un manto azzurro scuro filettato d’oro su una veste viola. Gesú guarda la madre, regge

un evangelario nella mano sinistra e benedice con la destra. La Salus Populi Romani è stata piú volte condotta in processione. Pio V implorò il suo aiuto nel 1571 per la vittoria nella battaglia di Lepanto, Gregorio XVI, nel 1837, la pregò affinché ponesse fine a un’epidemia di colera.

Protettrice della città

L’antichissima chiesa di S. Maria in Aracoeli sorge sulla sommità del Campidoglio e deve il suo nome alla leggenda secondo la quale in questo luogo la sibilla avrebbe predetto ad Augusto la venuta del figlio di Dio con le parole «Ecce ara primogeniti Dei». Nella cappella maggiore, una tavola del XII secolo rappresenta la Madonna Advocata, nell’atto di intercessione per ottenere grazie. La Vergine indossa un maphorion bordato d’oro e il suo sguardo è rivolto allo spettatore. È stata oggetto di grande L’icona bizantina del Monasterium Tempuli, tra le piú antiche d’Italia, custodita nel convento domenicano annesso alla chiesa di S. Maria del Rosario a Roma, sul Monte Mario. VII-VIII sec. Nella pagina accanto la Madonna Advocata custodita all’interno della chiesa romana di S. Maria in Via Lata. XII-XIII sec.

56

devozione, e invocata come protettrice della città in occasione di terribili epidemie, come la peste nera del 1348. Nel 1948 Pio XII le consacrò la città di Roma. Una Madonna Advocata si trova anche nella chiesa di S. Maria in via Lata (nome medievale della centralissima via del Corso), che sorge sui resti di edifici romani del I secolo, dove, secondo la tradizione, avrebbe dimorato san Paolo, forse tenutovi recluso. Eretta nel 1049, riedificata e ampliata nel 1491, fu trasformata in uno dei capolavori dell’architettura barocca con il portico e la facciata a due ordini di Pietro da Cortona (1658-1662), e l’altar maggiore di Gian Lorenzo Bernini (16391643), che ospita la preziosa icona in un opulento tabernacolo. Alla chiesa di S. Maria del Rosario (o della Febbre), edificata intorno alla metà del XVII secolo sul Monte Mario, è annesso un convento di suore domenicane di clausura, a cui appartiene un’icona bizantina del VII-VIII secolo, detta del Monasterium Tempuli, fra le piú antiche in Italia. Il volto della Vergine, dal vivace colorito, si dice impallidisca nei giorni della Passione. Custodita inizialmente nella chiesa di S. Maria in Tempuli – presso le Terme di Caracalla, oggi sconsacrata e in rovina –, nel 1221 san Domenico la portò nella chiesa di S. Sisto Vecchio, dalla quale le suore si trasferirono presso la chiesa dei Ss. Domenico e Sisto e infine, nel 1931, a S. Maria del Rosario. Anche questa è una Vergine Advocata e somiglia, nella fisionomia oltre che nella composizione, alle due precedenti. In S. Francesca Romana, al Foro Romano, si conserva una Madonna Hodigitria fra le piú antiche, forse quella condotta in processione da san Gregorio Magno (590-604) per implorare la fine della peste: Gregorio, già ambasciatore pontificio a Costantinopoli, succedette a Pelagio II (579-590), morto durante l’epidemia. Il 12 febbraio 590, giorno della sua consacrazione, sette processioni dicembre

MEDIOEVO


da sette diverse chiese raggiunsero S. Maria Maggiore, per tre giorni di fila. Secondo la tradizione la peste ebbe fine e sopra Castel Sant’Angelo apparve alla gente l’arcangelo Michele che rinfoderava la spada, cosí come lo rappresenta la statua in cima al monumento. Se a Roma il loro culto è stato particolarmente sentito, va detto che le Madonne di San Luca sono ovunque, in Italia, in altri Paesi, in Occidente e in Oriente. Ne citiamo solo alcune, a titolo di esempio. La Madonna del Popolo o Maria Santissima del Rosario è conservata nella collegiata di S. Barnaba a Marino, in provincia di Roma. Sarebbe stata portata da Costantinopoli da un esponente dei Colonna. Considerata miracolosa e oggetto di doni e di ex voto, fu piú volte invocata affinché propiziasse un clima favorevole alla viticultura, principale attività del luogo, e anche per porre fine, nel 1656, a un’epidemia di peste e, nel 1837, a una di colera.

E le piogge cessarono

A Bologna è particolarmente venerata la Madonna di San Luca, nell’omonimo santuario sul colle della Guardia, a sud-ovest del centro storico, raggiungibile da Porta Saragozza attraverso una lunga via porticata. L’icona, di stile bizantino, raffigura una Madonna col Bambino secondo la tradizionale iconografia dell’odigitria. Maria indossa una veste di colore blu-verde e tiene in braccio Gesú benedicente. Nel 1433 fu portata in processione in città dal santuario per arrestare le piogge torrenziali che stavano per distruggere i raccolti. Il 5 luglio, quando l’icona varcò le mura cittadine le piogge cessarono. S’indissero allora grandi feste e celebrazioni, che si ripetono ogni anno. Indagini radiografiche hanno rivelato l’esistenza di un dipinto sottostante. Dal 1625 è ricoperta da una lastra d’argento sbalzato che lascia vedere solo i volti. A Mosca, nella Galleria Tret’jakov, la Theotokos (madre di Dio) di

MEDIOEVO

dicembre

Vladimir, chiamata anche Madre di Dio della tenerezza, dipinta a Costantinopoli nel XII secolo, è icona veneratissima, copiata e imitata piú di qualunque altra. Considerata protettrice della Russia, presente alle incoronazioni degli zar e alle elezioni dei patriarchi, le si attribuisce la salvezza di Mosca dall’invasione di Tamerlano nel 1395 e da quella dei Tatari nel 1480. Stalin le avrebbe fatto sorvolare la città su un aereo nel dicembre 1941, quando i Tedeschi erano giunti a minacciare la capitale. La Madonna Nera di Czestochowa, davanti alla quale Giovanni Paolo II si raccolse in preghiera durante il suo primo viaggio in Polonia nel giugno del 1979, fu portata nel

santuario di Czestochowa a Jasna Gòra dal principe Ladislao di Opole nel 1430. Durante le guerre degli Ussiti, l’icona venne profanata a colpi d’ascia, dei quali ancora oggi sono visibili le tracce. Ogni anno è visitata da quattro milioni di fedeli, molti arrivati a piedi in pellegrinaggio da ogni località del Paese. Infine a Freising, in Germania, il Museo Diocesano conserva la magnifica icona bizantina del X secolo che mostra una Madonna nell’atto di intercedere e che è nota come «La speranza dei senza speranza». Un’opera dalla storia avventurosa, raccontata anche su queste pagine (vedi «Medioevo» n. 262, novembre 2018; anche on line su issuu.com). F

57


La marmotta di Marco Polo di Claudio Costa

58

dicembre

MEDIOEVO


Oltre a rappresentare un vero e proprio trattato storico-geografico, il Milione raccoglie una straordinaria messe di informazioni di ordine zoologico. Ecco cosa rivela la celebre opera, se esaminata con la lente di un veterinario di oggi...

MEDIOEVO

dicembre

Miniatura raffigurante Kubilai Khan che partecipa a una battuta di caccia su una portantina trasportata da elefanti, da un’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

59


storie il milione

I

I

l veneziano Marco Polo, autore del famosissimo Milione, è l’emblema stesso del viaggiatore e del mercante italiano. Egli mise a frutto un talento che andava ben oltre le consuete competenze richieste dalla sua professione: fu ambasciatore nelle lontane terre della Cina e, con le sue memorie, si è rivelato uno scrittore di importanza fondamentale, portando a conoscere mondi ancora largamente inesplorati, di cui evidenzia in modo attento preziosi aspetti geografici e antropologici. E, proprio leggendo il Milione, ci si rende conto di come l’importanza del suo lavoro non si fermi all’osservazione dei territori e dei suoi abitanti. Marco Polo può infatti essere considerato come uno dei primi naturalisti al mondo, sebbene legato alla mentalità e alla cultura del suo tempo. Descrive un centinaio di animali, reali e fantastici, e molte sue osservazioni risultano essere ancora oggi assai interessanti dal punto di vista scientifico.

Pecore con la gobba e senza orecchie

I primi animali che il mercante descrive mentre attraversa il Medio Oriente, sono curiose pecore dalla coda molto grossa: «E v’ha montoni come asini, che pesa loro la coda bene trenta libbre (9 kg), e sono bianchi e buoni da mangiare» (Di Camandi, nell’Iran sud-orientale). Ci sono infatti antiche razze di pecora (Awassi, Karakul, somala, persiana e altre ancora) a coda grassa, cioè con un accumulo di grasso (lipoma) simile a quello che forma le gobbe del cammello. A differenza del grande mammifero del deserto, il lipoma di questi ovini non si situa sulla schiena, ma sulla groppa, sopra la coda o nella coda stessa. Solo gli animali ben nutriti sviluppano questa riserva, che permette di far fronte alle stagioni in cui perdura la siccità, quando il cibo scarseggia. Il viaggiatore veneziano rimase colpito anche da un’altra stranezza, cioè dalla vista di pecore prive di orecchie. Riferendosi a una città della costa nel ter-

60

ritorio dello Yemen, annota: «Hanno montoni che non hanno orecchie né foro, e colà dove debbono avere gli orecchi hanno due cornetti e sono bestie piccole e belle» (Della città d’Escier, sull’Oceano Indiano). Questo aspetto si spiega per il fatto che, a volte, a causa di un gene recessivo, nelle greggi delle razze a coda grassa nascono pecore con padiglioni auricolari assenti, o molto piccoli, a punta («orecchie di elfo»), oppure arrotondati («orecchie di topino»), o chiusi e a punta, a formare dicembre

MEDIOEVO


Sulle due pagine miniature tratte dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarina. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto, gli animali della regione di Malabar (India); a sinistra, un accampamento di pastori. Nella prima, si noti la presenza di creature reali e fantastiche, come l’unicorno.

una sorta di cornetti. Queste pecore non sono del tutto sorde perché sentono attraverso la pelle, anche se comunque il loro udito è debole. Due antiche razze mediorientali, la Awassi e la Karakul, rappresentano circa il 10% della popolazione con orecchie ridottissime. Ci sono anche razze piú moderne, come la piccola pecora del deserto e la Zulu, che però derivano anch’esse da antiche razze nordafricane e mediorientali.

MEDIOEVO

dicembre

Nella Penisola araba, l’attenzione di Marco Polo fu attirata dall’uso di nutrire con pesce le pecore e altri erbivori: «E si hanno pesci assai e si hanno tonni assai (...) e sappiate che danno ai buoi e ai cammelli e ai montoni e ai ronzini piccoli, da mangiare pesci, e questa è la vivanda che danno alle loro bestie. E questo perché in loro contrada sí non hae erba (...). Gli pesci di che si pasciano queste bestie, si pigliano di marzo e d’aprile e di maggio, e sí [in cosí] grande quantità che è una meraviglia. E li seccan e li ripongon per tutto

61


storie il milione Sulle due pagine miniature tratte dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra, le genti di Sumatra, che si cibano di carne umana e adorano i cani; nella pagina accanto, il re dell’oro che sorveglia le sue greggi.

l’anno e cosí li danno alle loro bestie. Verità è che le loro bestie vi sono avezze che cosí vivi (...) escono dall’acqua sí [cosí] gli si mangiano (...) hanno di molto buon pesce e ne fanno biscotti (...) e gli fanno seccare» (Della città d’Escier). Probabilmente i pesciolini dati in pasto agli erbivori, nelle città arabe del Golfo Persico, erano esemplari di pesce azzurro, che anche oggi viene pescato ed essiccato al sole, come per esempio la sardina (Sardina pilchardus), l’aringa (Clupea harengus), l’acciuga (Engraulis encrasicholus), lo sgombro (Scomber scombrus) e cosí via. In natura sono stati d’altronde osservati cervi, dunque animali anch’essi erbivori, intenti a divorare uccellini o topini, come pure pesciolini imprigionati nelle pozze. Si può quindi arguire che tutti gli erbivori mangino farine di carne e di pesce, se li si abitua a farlo. I ruminanti le assimilano bene, poiché allevano nel rumine (la prima cavità del loro apparato digerente) un gran numero di batteri e protozoi che hanno una vita molto breve (uno o due giorni). Quando muoiono, questi microrganismi galleggiano e finiscono nell’abomaso, il quarto stomaco degli erbivori, e qui vengono infine digeriti. Il liquido ruminale, ricco di questi batteri e protozoi, se viene essiccato, è del tutto simile alle farine di carne o di pesce. Ecco perché, per aumentare le produzioni, si integrava la dieta degli erbivori con le farine animali.

62

Nel Milione sono descritti gli usi e i costumi di molti popoli, ma soprattutto dei Mongoli, che si cibavano dei «topi dei faraoni». Molti studiosi, a partire da Giovanni Battista Ramusio (1485-1557), hanno cercato di identificare questi roditori, ma invano. Cerchiamo di esaminare alcune possibilità. Scrive Marco Polo: «Egli mangiano di topi di faraone che ve n’ha grande abbondanza da tutte le parti» (Del novero degli Grandi Cani, quanti e’ furono); «hanno assai e rati de faraon grandi, e in grande abondanzia. I ne viveno tutto l’istade [estate], perché sono molto grandi» (Delle parti di verso tramontana).

Roditori, non manguste

Il topo del faraone, che nel testo originale in francese antico (lingua d’oïl) del Milione è citato come «le rat de pharaon», è propriamente la mangusta egizia (Herpestes ichneumon), già venerata nell’antico Egitto, perché mangiava serpenti e topi, proteggendo case e granai. Le manguste sono sí commestibili, ma non sono molto numerose in Mongolia, ancora meno nel Nord della Siberia. Marco Polo, che osservò questi animali proprio sulle montagne, nota inoltre che si trovano solo d’estate, perché vanno in letargo, cosa che non rientra nel comportamento delle manguste. Quindi questa ipotesi è da scartare. I topi dei faraoni potrebbero essere semplicemente piccoli roditori. Nelle dicembre

MEDIOEVO


steppe siberiane ce ne sono molti e di varie specie, come il gerboa maggiore (Allactaga major). È del tutto simile al topo del deserto egizio, ma è piú grande, con grandi orecchie e una coda lunghissima. Il corpo può raggiungere anche i 25 cm di lunghezza e i 450 gr di peso. Tuttavia, è piú probabile che Marco Polo si riferisse alle marmotte siberiane (Marmota sibirica), piú chiare e piú grosse di quelle alpine. Arrivano a pesare fino a 9 kg (contro i 5 kg di quelle alpine) e sono simili alle manguste. Sono presenti a milioni in tutte le steppe asiatiche, e anche sugli altipiani siberiani e tibetani. In effetti, Guglielmo di Rubruck (1215 circa-1295 circa), nel suo Viaggio in Mongolia (Itinerarium, cap. V), ci racconta che i Tartari mangiavano qualsiasi tipo di roditore delle steppe, sia i gerboa che le marmotte. Solo queste ultime però assomigliano alle manguste egizie e sono in grado di sfamare un’orda mongola. Ascoltiamo Guglielmo: «Prendono anche i topi, di cui molti tipi abbondano qui. I topi con la coda lunga non li mangiano, ma li danno ai loro uccelli (rapaci da falconeria). Mangiano topi e tutti i tipi di ratti che hanno la coda corta (lemmings, criceti e pika). Ci sono anche molte marmotte, che si chiamano Sogur, e che si riuniscono in una buca in inverno, venti o trenta insieme, e dormono per sei mesi; ne catturano in gran numero. Ci sono anche dei conigli, con una coda lunga come quella di un gatto, e

MEDIOEVO

dicembre

all’estremità della coda hanno i peli bianchi e neri (questa descrizione corrisponde al gerboa maggiore, che però è un roditore, non un coniglio, n.d.A.)».

Pericolosi per l’uomo

Le marmotte asiatiche vengono tuttora cacciate in Mongolia sia per estrarne l’olio, che contiene un antinfiammatorio naturale, sia per le pelli, ma, soprattutto, per le carni, simili a quelle delle lepri, benché piú grasse. Le marmotte sono animali molto resistenti e pericolosi per l’uomo, perché possono essere portatrici sane di numerose zoonosi (le malattie che dagli animali si trasmettono agli uomini), come la peste, di cui ci parla anche Marco Polo. Egli racconta infatti che il Gran Khan adottava politiche di aiuto con detassazioni e forniture di derrate alle popolazioni dell’impero colpite da maltempo, invasione di locuste e pestilenze: «Il Gran Khan manda sempre ogni anno i suoi nunzi e provveditori per vedere se le genti hanno danno delle loro biade (...) per difetto di tempo (...) di cavallette, di vermi, o altre pistolenze» (Baldelli Boni, p. 209). I vermi che danneggiano i raccolti potrebbero essere i nematodi delle risaie, divoratori di radici e di germogli del riso, e varie specie di parassiti allo stadio larvale, come i bruchi mangiatori di foglie. I danni da cavallette erano dovuti alle locuste mi-

63


storie il milione

gratorie che compiono ancora oggi migrazioni gregarie di milioni di individui, devastando intere coltivazioni. Quando una zona risulta sovrappopolata, per carestie o mancanza di predatori, le forme immature delle locuste, dette ninfe, generano sostanze chimiche chiamate locustoli, che inducono all’aggregazione anche di milioni di individui e alla formazioni di sciami. Queste gigantesche «orde» compiono migrazioni anche di centinaia di chilometri, divorando tutto ciò che incontrano. Le pestilenze che potevano colpire le messi erano molteplici: i «carboni» (macchie nerastre), sia nel riso che nel grano, e vari tipi di muffe e funghi, che distruggevano gran parte dei raccolti. Tuttavia le pestilenze piú dannose erano le epidemie, molto diffuse nel Medioevo, sia per gli uomini che per gli animali: infezioni virali

64

di vaiolo, morbillo e influenza, spesso trasmesse dagli animali come polli, suini e bovini. Molto diffuse nell’età di Mezzo erano anche le epidemie batteriche: lebbra, peste, colera, salmonellosi tifoide e paratifoide, trasmesse soprattutto da quelle che Marco Polo chiamava le «acque ree» (acque colpevoli) cioè le acque superficiali infette.

Epidemie devastanti

Le pandemie, cioè le epidemie mondiali di peste bubbonica e peste polmonare sostenute da due ceppi batterici diversi di Yersinia pestis, furono devastanti nel Medioevo, causando milioni di morti e generando una profonda crisi economica. In particolare, ci fu un’epidemia di peste polmonare, detta «peste nera», una forma molto dicembre

MEDIOEVO


Miniatura raffigurante i dragoni dello Yunnan (Cina), dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

in particolare per il muschio bianco, che veniva fissato, come altre essenze, nell’ambra grigia. L’essenza di muschio bianco, quella vera (rarissima), si estrae dai grani odoriferi emessi, per marcare il territorio, dal mosco, che è un piccolo ruminante, mentre l’ambra grigia o ambracano, altrettanto rara e costosa, è invece un sapone biliare prodotto dai capodogli per proteggere le pareti intestinali dai bordi taglienti dei becchi dei calamari ingeriti, che vengono avvolti da questa secrezione ed espulsi. L’ambra grigia ha due proprietà: rilascia un ottimo profumo, soprattutto se bruciata, e riesce a fissare e trattenere le essenze di altri profumi prolungandone l’effetto. «In questa contrada [Cina, Tibet e Siberia orientale], si trova il piú nobile e fino muschio, che ci sia nel mondo, ed è una bestiola piccola come una gazzella, cioè della grandezza di una capra. Ma la sua forma è tale. Ha i peli a similitudine di cervo molto grossi: li piedi e la coda a modo d’una gazzella. Ha quattro denti, cioè due dalla parte di sopra e due dalla parte di sotto lunghi ben tre dita e sottili, bianchi come avorio e due ascendono in su e due discendono in giú ed è bello animale da vedere. Nasce a questa bestia, quando la luna è piena nell’umbilico sotto il ventre un’apostema di sangue, e ci cacciatori nel tondo della luna escono fuori a prendere detti animali e tagliano quest’apostema con la pelle e la seccano al sole: e questo è il piú fino muschio [muschio bianco] che si sappi, e la carne di detto animale è molto buona da mangiare e se ne piglia in gran quantità, e Marco Polo, ne portò a Venezia la testa e i piedi, (...) secchi» (Baldelli Boni, p. 131).

Il profumo dell’imperatore

piú letale di quella bubbonica, che dalla Crimea arrivò a Genova a metà del XIV secolo e poi in tutta Europa causando milioni di morti. Questa epidemia si trasmetteva con il morso delle pulci o inalando le goccioline degli starnuti dei contagiati. Colpí per primi i Mongoli della Tartaria attraverso le marmotte. Il contagio avvenne mangiando o manipolando le carni crude, e le pelli di marmotte infette, o con il morso delle pulci delle marmotte (Ceratophyllus silantievi), lunghe pochi millimetri e dal tipico colore ambrato. Nel pungere, questi insetti iniettano una saliva anticoagulante, come le zanzare, che può ospitare il batterio della peste. Nel descrivere gli usi e i costumi di Kubilai Khan (1215-1294), l’osservatore veneziano riferisce di una vera e propria passione dell’imperatore per i profumi,

MEDIOEVO

dicembre

Simile a un cerbiatto, il mosco è privo di corna, alto 50 cm per 15 kg. Un tempo diffuso in tutta l’Asia centrale, è dotato stranamente di canini sporgenti verso il basso. Per marcare il territorio il maschio secerne grani molto profumati da alcune ghiandole sul ventre. Bastano tre piccoli grani da un grammo l’uno per fare un litro di muschio bianco alcolico. Nelle foreste, solo i servi dell’imperatore potevano raccogliere i grani del cervo mosco per estrarne un profumo buonissimo, molto amato dall’imperatore, che si chiama muschio bianco. I grani si trovano in terra, oppure si possono estrarre dal cervo con una cannetta di bambú. L’ambra grigia o ambracano, invece, veniva raccolta sulle spiagge o estratta direttamente dai capodogli, come spiegato nel Milione: «Si trova (...) alle rive di quest’isola [Sumatra] molto ambracano, che vien fuori dal ventre delle balene [capodogli] e per essere gran mercanzia [per disporne in quantità tali da farne un ampio commercio] s’ingegnano d’andarle a prendere con alcuni ferri [arpioni] che hanno le barbe [uncini] che ficcati nella balena non si possono piú cavare, alli quali [agli arpioni] è attaccata una corda lunghissima con una botticella che va sopra il mare acciocché come la balena è morta la sappino dove trovare e la conducano al lido

65


storie il milione dove li cavano del ventre l’ambracano e della testa assai botte d’olio» (Baldelli Boni, p. 451). La caccia ai capodogli non era mai stata descritta né praticata in Europa prima che Marco Polo ne desse notizia. E questo è solo uno dei tanti esempi di come il Milione sia un testo ricchissimo di informazioni riguardanti nuove tecniche in svariati settori (caccia, produzione, organizzazione, costruzione edile e navale). Solo nel 1598 l’ammiraglio olandese Corneliz osservò un vascello indiano cacciare una balena con il sistema descritto da Marco Polo, e a sua volta ne diede notizia.

La «lana di salamandra»

Oltre alla seta, nel Medioevo si conosceva un altro tessuto molto prezioso, perché resistente al fuoco e al calore, cioè l’amianto. Allora, in Occidente, si pensava fosse prodotto con la pelle delle salamandre dopo la muta. Veniva infatti denominato lana di salamandra. Il nostro viaggiatore parla anche della produzione dell’amianto, estratto nei monti Altai in Mongolia: «In questa montagna è un’altra vena della quale si fa la [lana di] salamandra. La salamandra non è bestia, come si dice, che viva nel fuoco, ché niuno animale può vivere nel fuoco; ma dirovvi come si fa la salamandra [lana di salamandra] (...). Egli è vero che questa vena [minerale] si cava, e istringesi insieme, e fa fila [i fili] come di lana. E poscia la fa seccare e pestare in grandi mortai di cuoio: poi la fanno lavare e la terra (...) quella che v’è appiccicata (...) si cade [si separa] e riIn basso tavola a colori raffigurante uno yak, da The Naturalist’s Pocket Magazine or compleat cabinet of the curiosities and beauties of nature, opera pubblicata a Londra nel 1798. Nel Milione, Marco Polo scrisse di aver incontrato esemplari della varietà selvatica di questo mammifero bovide, diffuso nella regione tibetana, grandi come elefanti.

66

mangono le fila come di lana. Questa si fila e fassene panno da tovaglie (...) esse sono brune; mettendole nel fuoco, diventano bianche; e tutte le volte che sono sudice si mettono nel fuoco e diventano bianche come neve (...) a Roma hae una di queste tovaglie che ‘l Gran Cane [Gran Khan] mandò al papa» (Chingitalas). La convinzione che l’amianto avesse origine animale nasce probabilmente dall’aspetto setoso e filamentoso della pelle morta della salamandra (Salamandra salamandra), simile al tessuto di amianto anche nel colore. Che la salamandra viva o nasca nel fuoco è un mito antico, e forse trae origine dall’abitudine delle salamandre di scegliere, come luogo di letargo, le legnaie esterne alle case, perché piú riparate. Si infilano nelle crepe dei ceppi, e, quando questi vengono messi sul fuoco, le salamandre escono fuori di corsa, altrimenti morirebbero. La lana di salamandra è citata anche in un altro testo medioevale, cioè la lettera all’imperatore di Costantinopoli del Presbiter Johannes (in realtà Ung Khan, poi storpiato in Prete Gianni, che Marco Polo cita piú volte): «Salamandicembre

MEDIOEVO


Kubilai Khan impegnato in una battuta di caccia al cervo con il falcone in un’altra miniatura tratta dall’edizione del Livre des Merveilles di Marco Polo illustrata dal Maestro di Egerton. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

dre: esse non vivono se non nel fuoco, e per resistere alle fiamme producono una pellicola come quella dei bachi da seta. Gli uomini di quella regione estraggono la pellicola e la lavorano per formare con essa degli abiti da donare al Prete Gianni. Questi abiti non possono essere lavati se non nel fuoco». Il passaggio nel fuoco brucia tutte le sostanze organiche eventualmente presenti. Tra i numerosi animali descritti nel Milione, che hanno tutti una storia interessante, ci sono anche gli animali fantastici, come l’uccello ruc, che si sarebbe potuto vedere nell’odierna isola di Madagascar: «Dicono quelle genti che a un certo tempo dell’anno viene verso mezzodí, una maravigliosa sorte di uccelli che chiamano ruch, quale è della somiglianza dell’aquila, ma di grandezza incomparabilmente grande, ed è di tanta grandezza e possanza che piglia con le unghie dei piedi un elefante e levatolo in alto lo lascia cadere, qual [dove] more. E poi montatoli sopra il corpo si pasce. Quelli che hanno veduto detti uccelli riferiscono che quando aprono le ali da una punta all’altra vi sono sedici passi di larghezza [32 m] e le sue penne sono lunghe ben otto passi [16 m] e la grossezza è corrispondente a tanta lunghezza. E messer Marco Polo credendo che fossero grifoni, che sono dipinti mezzo uccelli e mezzi leoni, interrogò questi che dicevano di averli veduti i quali li dissero [gli dissero che] la forma dei denti esser tutta d’uccello come saria [fosse] di aquila. Avendo il gran Khan

MEDIOEVO

dicembre

inteso di simili cose maravigliose, mandò i suoi nunzi (...) per investigare (...) delle cose meravigliose che erano in quella [isola]. Costui [il nunzio] di ritorno portò al gran Khan una penna di detto uccello ruc, la quale li fu affermato [fu riferito a Marco Polo] che misurata, fu trovata di novanta spanne [34 m] e che la canna della detta penna volgea [era spessa] due palmi [37,74 cm] che era cosa meravigliosa a vederla» (Baldelli Boni, p. 455). I ruc non esistono, sono animali della mitologia araba, citati anche nelle fiabe delle Mille e una notte: Sindbad, per esempio, viene prelevato da un ruc nella valle dei diamanti, infestata dai serpenti. In Madagascar viveva l’uccello piú grande del mondo e cioè l’uccello elefante (Aepyornis maximus), ormai estinto e descritto nel Medioevo dai mercanti arabi. L’uovo fossile di uccello elefante non è raro da trovare e potrebbe avere alimentato il mito, dato che è il piú grande del mondo: può raggiungere fino a 30 cm di altezza e 21 di diametro, pari a 160 volte un uovo di gallina. L’uccello elefante non era simile a un avvoltoio, piuttosto a uno struzzo, alto piú di 3 m, e il suo nome viene proprio dalla leggenda dei ruc che mangiavano gli elefanti. Sempre dal Madagascar e dall’Africa orientale provengono le foglie di una palma da rafia (Raphia farinifera) lunghe fino a 20 m e le cui fibre sono utilizzate per produrre la rafia: una corda molto resistente. Probabilmente il Gran Khan ricevette in regalo proprio una foglia di palma da rafia. In effetti sembra una penna e ha esattamente le dimensioni descritte nel Milione. Nel presentare l’uccello ruc, Marco Polo cita il grifone. Si tratta di un animale mitologico con il corpo di leone e la testa d’aquila. Probabilmente prende origine dall’avvoltoio monaco (Aegypius monachus), uno degli uccelli piú grandi del mondo, con un’apertura alare fino a 3 m, e presente in tutta l’Asia. F

Da leggere Marco Polo, Il Milione, a cura di Marcello Ciccuto, BUR, Milano 2003 Giovan Battista Baldelli Boni, Il Milione di Messer Marco polo viniziano illustrato e comentato secondo la lezione ramusiana, Tomo secondo, Firenze 1827; disponibile anche on line su Archive.org Gioia Zaganelli (a cura di), La Lettera del Prete Gianni, Carocci, Roma 2000 Guglielmo di Rubruck, Viaggio in Mongolia, a cura di Paolo Chiesa, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 2011

67


costume e societĂ

La Pulzella del

Sol Levante di Riccardo Facchini

68

dicembre

MEDIOEVO


Fra Otto e Novecento, la figura di Giovanna d’Arco ha goduto di grande popolarità in tutto l’Occidente. La sua avventurosa e drammatica vicenda esistenziale, variamente riletta, ne ha spesso esaltato le doti di paladina del patriottismo. In anni piú recenti, il mito della Pulzella è stato, invece, quasi del tutto dimenticato. Per trovare nuova e sorprendente linfa in Giappone...

Metz, S. Martino. Vetrata policroma raffigurante l’incoronazione di Carlo VII di Francia, avvenuta nel 1429, alla presenza di Giovanna d’Arco. L’opera fu realizzata dall’atelier Thiria, nel 1910.

MEDIOEVO

dicembre

69


costume e società

N N

ei due secoli che ci hanno preceduto, la figura di Giovanna d’Arco (1412-1431) è stata sognata e reinterpretata dalla cultura occidentale nei modi piú disparati, in un processo che ha spesso visto la storiografia e le rappresentazioni della cultura popolare intrecciarsi profondamente. La miriade di immagini che la tragica sorte della santa francese ha prodotto è stata, quindi, una delle principali ragioni del suo successo postumo, ma anche, in parte, la causa di un limite metodologico per alcuni degli studiosi che ne hanno investigato le rappresentazioni. Molte indagini, anche autorevoli, hanno infatti quasi unicamente analizzato il singolo prodotto – soprattutto pellicole cinematografiche –, limitandosi a investigare l’iconografia di Giovanna in esso contenuto e tralasciando il ruolo della storiografia e dell’immaginario medievalista all’interno del processo creativo. Dietro il mito della «Pulzella d’Orléans» è infatti radicata una precisa idea di Medioevo, di cui gli stessi artisti, consciamente o meno, sono stati e sono ancora oggi debitori. Non a caso, quindi, durante l’Ottocento e il primo Novecento – periodo in cui Medioevo e nazionalismo hanno spesso rappresentato un binomio inscindibile –, è stata concepita l’immagine di una santa patriota, mentre il secondo Novecento – epoca d’oro di un Medioevo dalle tinte spesso «disneyane» –, ha raccontato in certi casi le gesta di un’eroina hollywoodiana, fino ad arrivare alle rappresentazioni postmoderne di una donna vittima di crisi di fede o di una fanatica religiosa con problemi di schizofrenia.

Figure standardizzate

Le diverse «Giovanne» cinematografiche concepite durante il XX secolo possono essere ridotte sommariamente ad alcune figure standardizzate, come la patriota, la mistica e la fanatica religiosa.

70

Le «parodie» occidentali

Una teen ager del terzo millennio Fatta eccezione per un musical incentrato sull’infanzia di Giovanna (Jeannette, Francia 2017), sembra che i produttori occidentali abbiano di recente rinunciato ad avventurarsi in progetti riguardanti la Pulzella, reputata forse un filone creativo ormai esaurito, un vero e proprio «genere» cinematografico incapace di rinnovarsi. Quando, agli inizi degli anni Duemila, si è infatti tentato di raccontare Giovanna uscendo fuori dalla grande tradizione novecentesca, si è giunti tutt’al piú alle parodie – come nella puntata Tales From a Public Domain, contenuta nella XIII stagione della serie animata I Simpsons, o in un episodio di Buffy the Vampire Slayer – o ai tentativi di attualizzare la sua figura calandola nella realtà di una adolescente del terzo millennio, come nel caso della serie televisiva statunitense Joan of Arcadia. Utilizzare Giovanna solo per narrare le vicende di una teen ager, rappresentata qui come la sua reincarnazione, non è stato però sufficiente per ricreare un fondamentale nesso tra mito e storiografia, nonché quella che Franco Cardini ha definito «giovannadarcomania», che l’hanno resa uno dei personaggi storici maggiormente rappresentati dalla cultura popolare del XX secolo. Tra le prime grandi pellicole del XX secolo sull’argomento spicca Joan the Woman (USA, 1916), di Cecil B. DeMille. In essa, o almeno nella sua versione francese, emerge chiaramente quella interpretazione del Medioevo in chiave nazionalista che fu una delle principali cause della fortuna, nonché della canonizzazione, di Giovanna agli inizi del Novecento. Girata durante la prima guerra mondiale, la pellicola vede infatti come protagonista un soldato inglese, Eric Trent, il quale, dopo aver sognato – durante una notte passata in trincea – di vestire i panni di un milite della Guerra dei Cent’Anni e di essersi infatuato della Pulzella, giungerà a sacrificare se stesso per la Francia. Le due differenti versioni del film, una per il mercato francese e una per quello statunitense, tradiscono in questo caso non solo le diverse sensibilità di due pubblici tuttora a volte lontani nonostante i processi di globalizzazione, ma anche due modi diversi di guardare al Medioevo e, di conseguenza, ai suoi santi e ai suoi eroi. In Francia,

la trama venne infatti adeguata ai desideri nazionalistici di un popolo in piena guerra mondiale, che perseverava in quegli anni nell’utilizzo del proprio passato medievale per legittimare le azioni politiche del suo presente. Nella costruzione della Giovanna nazionalista fu fondamentale, a dimostrazione dell’intreccio tra storiografia e cultura audiovisiva, quella che Nadia Margolis ha definito «l’invenzione moderna» di Giovanna, compiuta nei decenni precedenti da Jules Michelet (1798-1874) e, in seguito, dal suo allievo Jules Quicherat (1814-1882). Saranno in particolare i lavori di quest’ultimo, su tutti l’edizione degli atti del processo, a influenzare un altro capolavoro del Novecento: la Passione di Giovanna d’Arco, diretta da Carl Theodor Dreyer (Francia, 1928).

Sulla base delle fonti

Il regista danese scelse di prendere le mosse dal lavoro degli studiosi succitati non per proporre al pubblico d’Oltralpe una Giovanna patriota: al contrario, mirava a inverdicembre

MEDIOEVO


Secondo Franco Cardini, la vicenda della Pulzella ha dato origine a un’autentica «giovannadarcomania»

L’attrice e soprano statunitense Geraldine Farrar interpreta Giovanna d’Arco in Joan the Woman (1916) di Cecil B. DeMille, la prima grande opera cinematografica dedicata alla Pulzella d’Orléans.

tire il processo mitopoietico, a de-nazionalizzare la sua immagine, servendosi a tal fine di un uso meticoloso degli atti del processo. Dreyer si basò sulla centralità delle fonti, con lo scopo di ricostruire gli ultimi giorni di vita della santa, senza però indugiare su una raffigurazione agiografica. In questo caso Giovanna viene presentata come una mistica, come una vittima degli eventi e del potere dai manifesti tratti cristo-mimetici, piú che come l’eroina della vulgata nazionalista. Le scelte di Dreyer, che riflettevano a suo modo i mutamenti in atto nella storiografia europea e francese in particolare – nel 1929, un anno dopo l’uscita del film, Marc Bloch e Lucien Febvre fondavano infatti Les Annales –, suscitarono la reazione della destra francese, che cercò di boicottare, unitamente al clero, la prima parigina della pellicola. Settant’anni piú tardi, nel 1999, esce nelle sale The Messenger: the Sto-

MEDIOEVO

dicembre

71


costume e società rivisitazioni

L’omaggio dei menestrelli di oggi La figura della Pulzella ha penetrato a fondo anche il mondo della musica, spaziando tra generi diversi tra loro. Tra i molti artisti possiamo ricordare Angelo Branduardi, che nel 1994 pubblicava una canzone intitolata Giovanna d’Arco, a cui seguí, nello stesso anno, un brano omonimo di Fiorella Mannoia scritto da Francesco De Gregori. Nel 2005 toccò invece a Elton John, con la sua Did Anybody Sleep with Joan of Arc?, un outtake (cioè un brano eliminato dalla versione finale di

un album) del suo lavoro Songs from the West Coast; nel 2013 il gruppo canadese Arcade Fire le ha dedicato questi splendidi versi: «You’re the one that they used to hate But they like you now And everything that goes away Will be returned somehow They’re the ones that spit on you ‘Cause they got no heart I’m the one that will follow you You’re my Joan of Arc»

A destra ancora un’immagine tratta da Joan the Woman (1916) di Cecil B. DeMille. A sinistra una celebre immagine de La passione di Giovanna d’Arco (1928), capolavoro di Carl Theodor Dreyer, nel quale la vicenda dell’eroina, interpretata dall’attrice francese Renée Falconetti, viene narrata con rigore storico e senza indugiare sulla raffigurazione agiografica.

ry of Joan of Arc, film francese dal cast hollywoodiano diretto da Luc Besson. La Pulzella di Besson è un soggetto pienamente post-moderno: la sua infanzia traumatica sarebbe la causa del suo atavico odio anti-inglese; la sua fede è continuamente messa in crisi dalla «Coscienza», personaggio magistralmente interpretato da Dustin Hoffman,

72

dicembre

MEDIOEVO


che sostituisce le voci divine che la Giovanna storica avrebbe avuto la facoltà di ascoltare. Nonostante le aspre critiche rivolte a Besson da autorevoli medievisti, è indubbio che il Medioevo del cineasta francese combaci con un sentire comune, a cavallo tra XX e XXI secolo, riguardo ai Secoli di Mezzo. Tale percezione, tipica

MEDIOEVO

dicembre

degli ultimi due decenni, fa infatti guardare a esso a volte con nostalgia, ma gli riserva al tempo stesso anche e soprattutto giudizi severi, in particolare per quanto riguarda la sacralizzazione della violenza, paragonata a quella compiuta dell’estremismo religioso contemporaneo. Il Novecento si chiudeva cosí con una Giovanna che dubita di se stessa

e della sua missione, che trasmetteva al pubblico forti incertezze sulla propria vocazione divina. Il lavoro di Besson non ha soltanto posto il sigillo alla produzione cinematografica novecentesca sulla Pulzella ma, probabilmente, anche alla serie di lavori sul tema degni di un’indagine di carattere storiografico. Dagli inizi del nuovo millennio a oggi, infatti,

73


costume e società L’attrice ucraino-statunitense Milla Jovovich in The Messenger: The Story of Joan d’Arc (1999) di Luc Besson, una Pulzella d’Orléans riletta in chiave post-moderna: la causa dell’atavico odio anti-inglese sarebbe da ricercare nella sua infanzia traumatica.

non si è finora assistito alla nascita di creazioni audiovisive rilevanti, soprattutto ai fini di un’analisi che abbia come scopo lo studio dei nessi tra storiografia, immaginario medievale e rappresentazioni della santa.

L’approdo in Giappone

Allargando lo sguardo a realtà extraeuropee, il discorso si fa però piuttosto diverso. La vicenda di Giovanna ha per esempio sedotto, a partire almeno dal 2000, l’immaginario di non pochi creativi giapponesi. La consacrazione di Giovanna come icona pop si compie da Jeanne, manga di Yoshikazu Yasuhiko, che la rappresenta con tratti pacifisti e nazionalisti. A seguire, invece, piú di un autore di manga e anime ha inserito la Pulzella in un pantheon di eroi guerrieri, molti dei quali di matrice medievale e fantasy. Le caratteristiche piú marcatamente guerriere di Giovanna sono evidenti nell’anime Rage of Bahamut: Genesis, dove i suoi attributi mistici sono posti in secondo piano rispetto a quelli eroici. La Pulzella, infatti, guida l’esercito dei «Cavalieri di Orléans» all’interno di una guerra perpetrata contro il demone Bahamut: al grido di «la benedizione degli dei è con noi», Giovanna incarna qui alla perfezione alcuni aspetti della tradizione epica e cavalleresca europea: sono molti, infatti, gli elementi mutuati dal ciclo carolingio, traslati in tal caso in un contesto fantastico e attribuiti alla figura di una santa del XIV secolo. Giovanna, per esempio, impugna durante i suoi scontri sia la lancia Maltet che la spada Précieus, armi entrambe possedute dell’emiro Baligante all’interno della Chanson de Roland.

74

Un altro elemento che lascia trasparire la percezione «eroica» di Giovanna nel Giappone contemporaneo è riscontrabile in altri due prodotti: Fate/Apocrypha e Drifters. Il concetto alla base di questi due anime è infatti simile: in un contesto fantastico sono evocati eroi del passato, anche mitici, al fine di combattersi tra loro. In particolar modo in Fate/Apocrypha, la santa viene inserita in un conflitto tra maghi denominato «Guerra del Graal», dove ricopre un ruolo da protagonista positiva: insieme a lei agiranno all’interno dell’intreccio altri eroi come Mordred o

Artú (entrambi rappresentati come donne), il paladino Astolfo, Vlad III o Sigfrido. In Drifters, al contrario, Giovanna – anche in questo caso coinvolta in uno scontro tra personaggi come Scipione l’Africano, Gilles de Rais o eroi del Giappone feudale – è rappresentata come un villain, in possesso dell’abilità magica di ardere sul rogo i propri nemici. In queste produzioni appare evidente il tentativo, non troppo celato, di sradicare quasi del tutto la dimensione mistico-religiosa dalla figura di Giovanna. Nonostante non si nascondano, come in Fate/ Apocrypha, il tragico destino a cui il dicembre

MEDIOEVO


afferma che «se non mi avessero condannata al rogo, avrei continuato a lottare per il Signore e a uccidere per onorarne il nome». Anche laddove Giovanna sembra essere stata caratterizzata maggiormente con degli attributi sacrali – «signora benedetta dagli dèi», «custode della luce» – gli autori hanno invece preferito rovesciare nettamente la sua figura. In Rage of Bahamut: Genesis, infatti, accetta sul rogo le tentazioni di un demone e si traforma in demone ella stessa, seminando morte e distruzione tra i suoi ex commilitoni. Una versione malvagia di Giovanna è inoltre riscontrabile nel videogioco Bladestorm: The Hundred Years’ War, anch’esso di produzione nipponica, dove la troviamo a

capo di un esercito diabolico composto da draghi e stregoni. Il lato del tutto umano e femminile di Giovanna non è un elemento trascurato dagli anime presi in esame, sebbene non sia il principale. Oltre ai riferimenti alla sua mitica relazione con Gilles de Rais (14051440) contenuti in Makai Ouji Devils and Realist e Drifters, in molti casi viene raffigurata una Giovanna innamorata, come si può osservare in Fate/Apocrypha – dove si infatua di Sigfrido – o in Ulysess: Jeanne d’Arc and the Alchemist Knight, dove si abbandona a lascivi baci. La purezza di Giovanna, in piena linea col suo processo di de-sacralizzazione, viene quindi quasi del tutto ignorata e anzi ribaltata, con l’eccezione di Giovanna d’Arco, una delle protagoniste della serie di romanzi illustrati Fate/ Apocrypha, nella quale l’eroina viene raffigurata in chiave eroico-mitica in un contesto fantastico.

personaggio storico andò incontro e la sua successiva canonizzazione, gli autori non perdono infatti occasione di porre in bocca all’eroina battute mirate alla sua de-sacralizzazione; tra queste ricordiamo frasi come «non sono un tipo cosí speciale da meritare un simile appellativo (santa, n.d.a.)», «devi smettere di pensare che io sia una santa», «bene e male non esistono» o ancora «io stessa non mi sono mai considerata una santa». La Giovanna di Fate/Apocrypha sembra addirittura in un caso mostrare una critica non troppo velata nei confronti del fanatismo di matrice religiosa, quando

MEDIOEVO

dicembre

75


costume e società A destra un’immagine tratta dall’opera rock Joan of Arc: Into the Fire (2017), scritta dal musicista ed ex leader dei Talking Heads David Byrne e interpretata dalla cantante statunitense Jo Lampert. Nella pagina accanto una Giovanna d’Arco malvagia è ritratta nel videogioco Bladestorm: The Hundred Years’ War, di produzione nipponica, a capo di un esercito diabolico composto da draghi e stregoni.

una battuta, contenuta in Makai Ouji, dove ella attribuisce i suoi poteri magici alla propria verginità. Durante il XX secolo, il mito di Giovanna è stato ampiamente assimilato anche dalla cultura femminista. Dalle suffragette, fino alla nascita del bob – il taglio di capelli «a caschetto» tipico degli anni Venti –, l’immagine della Pulzella ha rappresentato per parte delle donne del Novecento un modello di emancipazione, lotta e autonomia. Gli ultimi vent’anni hanno visto in Occidente il ritorno di questa tematica, che rappresenta forse l’unico recente contributo originale offerto dall’industria dello spettacolo al suo mito. Nel 2017, a Broadway, debuttava infatti Joan of Arc: Into the Fire, opera rock scritta da David Byrne – già leader dei Talking Heads – con Jo Lampert, attrice e cantante statuni-

76

tense dal look androgino e sensibile alle tematiche queer, nei panni della protagonista. La sua Giovanna, che canta «Take my dress / take my hair» o «I’m not a boy / and I’m not a girl», ha quindi cercato di impressionare il pubblico giocando sulla propria ambiguità sessuale – tema molto caro alla comunità LGBTQ, che vede in lei una «queer saint» ante litteram –, evitando di esaltare la dimensione religiosa delle proprie battaglie.

Un’accoglienza fredda

Stando però alla critica, il tentativo non sembra essere però pienamente riuscito. La reazione della stampa è stata infatti piuttosto fredda: il New York Times, per esempio, ha sollevato forti dubbi sul fatto che la Pulzella di Lampert possa essere presa come modello di impegno civile, poiché Giovanna, secondo

alcuni osservatori, era un’integralista religiosa, schizofrenica e una pericolosa demagoga nazionalista. Nello stesso anno si è assistito a un altro tentativo di porre il mito di Giovanna nel solco delle recenti battaglie del movimento femminista. Mi riferisco al video musicale Hey Hey Hey, tratto dall’omonimo singolo pubblicato dalla cantante pop Katy Perry alla fine del 2017. Nella clip, l’artista interpreta due figure femminili reputate antitetiche: da un lato, una nobile francese alla corte di Versailles intrappolata nei doveri e nelle nevrosi imposte dal suo rango, e dall’altro una Giovanna d’Arco in cotta di maglia e fluttuante gambesone arcobaleno. La Pulzella rappresenta in questa circostanza un simbolo di emancipazione e liberazione femdicembre

MEDIOEVO


minile e queer. Sarà lei, infatti, prima sognata e poi evocata come per magia dalla Katy/Nobile, a liberare quest’ultima dalla gabbia del conformismo, tagliando a metà con la sua spada un corsetto, preso a simbolo della costrizione patriarcale, e sconfiggendo a duello un arrogante nobilotto, incarnazione della piú stereotipata toxic masculinity.

Quasi dimenticata

La scarsa presenza di Giovanna nel panorama audiovisivo occidentale delle ultime due decadi ci può dire molto su quale parte ricopra oggi la sua figura nella nostra società. Lungi dall’essere considerato soltanto un filone creativo ormai esaurito, un ruolo rilevante nell’allontanamento dal mito novecentesco è sicuramente stato giocato dal sostrato post-ideologico del contesto culturale dell’attuale Occidente. Giovanna ha infatti attraversato il Novecento e le sue ideologie, senza però uscirne del tutto vincitrice. Il tramonto delle ideologie e, paradossalmente, anche lo stesso utilizzo ideologico della sua figura operato ancora oggi, soprattutto dalle destre, non sono però le uniche cause di questo semi-oblio. Un ruolo non indifferente ha sicuramente avuto l’avvento del terrorismo di matrice religiosa, un fenomeno assimilato, da una certa vulgata, alla sacralizzazione della violenza di età medievale, di cui Giovanna viene considerata come una delle maggiori rappresentanti. Non è un caso, quindi, che in un Occidente in cui la stessa storiografia ha lavorato e lavora oggi per decostruire il nesso Medioevo-destrenazionalismo, l’unico approccio originale al mito di Giovanna sia stato quello contaminato dalle tematiche post-femministe, soprattutto nel contesto anglosassone, dove gli studi di genere hanno fortemente influenzato molti dei recenti lavori accademici sulla Pulzella, a riprova dell’esistenza di un motivo di circo-

MEDIOEVO

dicembre

larità tra la storiografia e le rappresentazioni popolari. Laddove la pesante eredità novecentesca non è invece stata avvertita, come in Giappone, il mito di Giovanna ha trovato nuova linfa, ridefinendosi e dando origine a produzioni che hanno raggiunto milioni di persone, fissando nel loro immaginario una Giovanna eroica ed epica. I manga e gli anime, paragonabili a veri e propri romanzi popolari per la cultura nipponica, sono ormai il veicolo prediletto attraverso cui il Medioevo europeo viene comunicato al grande pubblico nel Sol Levante e in Asia e, paradossalmente, nello stesso Occidente, dove si assiste spesso a un medievalismo «di ritorno», filtrato attraverso lo sguardo di una cultura altra. Il Medioevo europeo, nella cultura popolare nipponica, sembra rappresentare un luogo e un tempo mitico, una frontiera sia cronologica che geografica. Immune dalle derive ideologiche tipiche del Vecchio Continente, esso si tramuta facilmente in questo caso in qualcosa di fluido, esotico, dove collocare, senza troppe remore di carattere filologico, sia elementi fantasy, sia eroi provenienti da secoli diversi. Nonostante alcuni dei prodotti fin qui analizzati possano strapparci piú di un sorriso, non si può negare quindi che, in una terra da noi lontana, il mito di Giovanna abbia trovato quella fortuna di cui in Occidente non sembra ormai piú pienamente godere, soprattutto a causa della «nostra» incapacità di ridefinirlo uscendo fuori dai rigidi schemi del XX secolo. L’articolo pubblicato in queste pagine è tratto da un contributo che sarà prossimamente pubblicato nel volume Personaggi storici in scena (EUM, Macerata), contenente gli atti dell’omonimo convegno svoltosi presso l’Università di Macerata dal 22 al 23 marzo del 2018. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Templari e neotemplari

77


l’arte delle antiche chiese /13

Per la gloria dei

conquistatori di Furio Cappelli

Dopo due secoli e mezzo di dominazione araba, la riconquista cristiana della Sicilia apre a una rinnovata stagione artistica e architettonica. I nuovi edifici ecclesiastici accolgono l’eredità dell’arte bizantina e, senza dimenticare gli apporti dell’arte decorativa islamica, raggiungono vette di grandiosa raffinatezza. Un viaggio da Palermo a Cefalú, alla scoperta dell’«oro dei Normanni» 78

dicembre

MEDIOEVO


L

a conquista normanna della Sicilia (1091) segnò la conclusione di un lungo periodo di dominazione islamica, che aveva preso avvio nell’827, con lo sbarco dei Saraceni nei pressi di Mazara del Vallo. E la fine dell’Islam nell’isola significò la ripresa dell’arte figurativa negli spazi sacri, perché le moschee e i santuari musulmani, quand’anche presentino raffinati aspetti ornamentali, sono privi di immagini «animate» di ogni genere. Nella Sicilia islamica permanevano cospicue chiese con le relative decorazioni, come quelle realizzate nei secoli VI e VII sotto la dominazione bizantina, ma sotto la legge coranica ogni iniziativa di rilievo in fatto di arte cristiana dovette cessare. La presa dell’isola da parte del Gran conte Ruggero I Altavilla e di suo fratello Roberto il Guiscardo, instaurò un nuovo assetto politico-religioso, nel segno della cristianità. La situazione fu rovesciata, e scaturí una lunga e florida stagione di imprese proprio nel campo dell’edilizia sacra cristiana: sorsero nuove chiese, che raggiunsero culmini di grandezza e di raffinatezza del tutto sconosciuti localmente. Occorreva risalire ai fasti

MEDIOEVO

dicembre

del mondo greco-romano per trovare sul suolo siciliano momenti di cosí grande forza evocativa. L’arte bizantina fu riaccolta con grande impatto nella realizzazione di programmi figurativi a mosaico. Gli architetti e gli scultori romanici introdussero le esperienze piú avanzate nello slancio verticale delle strutture e nella «cesellatura» dei capitelli istoriati. Né mancarono gli aspetti piú sfavillanti, propri della civiltà islamica, anche nell’ambito delle stesse chiese: maestranze musulmane, forse reclutate in Egitto, vennero impegnate per decorare i soffitti lignei delle realizzazioni piú importanti, a partire dalla Cappella Palatina di Palermo. L’interno della Cappella Palatina, situata al primo piano del Palazzo dei Normanni. La chiesa, riservata alla famiglia reale, fu commissionata dal sovrano normanno Ruggero II, re di Sicilia dal 1130 al 1154, e dedicata a san Pietro Apostolo nel 1140. Presenta pianta basilicale articolata in tre navate divise da archi a ogiva su colonne di spoglio in granito e marmo cipollino, sormontate da capitelli compositi dorati.

79


l’arte delle antiche chiese /13 Palermo, Cappella Palatina La storia

Palermo fu conquistata dai Normanni nel 1072. Il centro del potere fu stabilito nel «recinto» (Halqa, come era denominato in arabo), su un punto estremo del nucleo urbano fortificato, vale a dire il Cassaro (da qasr). Lí si era insediato l’emiro locale (poi trasferitosi in altro luogo nel 937), e sotto la dominazione bizantina lí aveva sede il governo cittadino. Ma la stratificazione storica del luogo va ancora piú indietro nel tempo, poiché alle origini vi si trovava una porta urbica rinserrata tra due torri, risalente al V secolo a.C. La residenza prese poi le fattezze del Palazzo reale (o dei Normanni), che è oggi sede dell’Assemblea Regionale della Sicilia. L’incoronazione di Ruggero II (1130), figlio del Gran conte Ruggero I, segnò la promozione dell’edificio a reggia e trasformò la città nella capitale di uno Stato che dall’isola si estendeva sino a gran parte del Mezzogiorno peninsulare. La Cappella palatina, che della reggia doveva essere l’elemento piú fastoso e significativo, fu iniziata da Ruggero proprio intorno al 1130. Venne consacrata con la dedica a san Pietro il 20 aprile 1140, ma i lavori di decorazione richiesero ancora tempo, poiché l’iscrizione voluta dal re alla base della cupola si data al 1143. Un importante intervento di rielaborazione fu promosso dal figlio di Ruggero, il re Guglielmo I (11541166). Egli infatti dispose l’ampliamento della decorazione delle pareti a mosaico istoriato, che nella prima fase era limitata solo al blocco presbiteriale. L’assetto attuale della tribuna riservata al sovrano, in controfacciata, si deve invece, probabilmente, a Guglielmo II (1166-1189).

In basso un suonatore di tunbur (strumento musicale arabo simile alla lira), dipinto in una nicchia del soffitto ligneo.

La visita

La struttura è parte integrante del palazzo, al primo piano del seicentesco Cortile Maqueda, e non si segnala in modo evidente all’esterno. Il loggiato moderno fa da elegante cornice al portico di ingresso, sul lato meridionale della Cappella. Gli archi a sesto acuto in laterizio su colonne marmoree, sullo sfondo della parete rivestita a sua volta di marmi e di mosaici (quelli attuali, del XIX secolo, si trovano sul luogo di mosaici originali già perduti nel XVI secolo), non lasciano presagire l’effetto che suscita l’entrata in chiesa. L’unico elemento di spicco è costituito semmai dall’epigrafe trilingue (in latino, greco e arabo) che Ruggero II fece eseguire nel 1142 per ricordare l’installazione di un orologio meccanico ad acqua. Proprio perché l’ingresso avviene di fianco, anziché in facciata, l’ambiente viene percepito in modo progressivo, senza la possibilità, nell’immediato, di una visione prospettica unitaria. I dettagli colpiscono subito l’attenzione, grazie alla loro singolarità e al

80

dicembre

MEDIOEVO


In alto il soffitto ligneo della navata centrale della Cappella Palatina, caratterizzato dalla decorazione a muqarnas, gli alveoli tipici della tradizione architettonica islamica. A destra il Peccato Originale, particolare del mosaico parietale della navata centrale della Cappella Palatina. 1154-1166.

prorompente cromatismo di ogni componente. Ogni superficie è rivestita di materie preziose o di manifatture di alto pregio, dal pavimento al soffitto. Quando si arriva sull’asse dell’edificio, di fronte alla tribuna regia, avendo di fronte il Cristo Pantocratore (giudice) che campeggia nell’abside centrale, si ha la nettissima sensazione di essere in un ambiente trasfigurato, dove tutto è dominato dai riverberi della luce sulle tessere musive e sulle superfici marmoree. Proprio la sgargiante decorazione, in particolare lo sviluppo delle figurazioni a mosaico, rende oggi la sensazione di un ambiente pressoché unitario. La variazione delle coperture (lignee sull’aula a tre navate, a volta sul coro e sul transetto) rimane però a rimarcare la presenza di due blocchi spaziali distinti. Uno, di tipo bizantino, nella zona presbiteriale, incentrato sulla campata quadrata centrale coperta da una cupola, l’altro, di tipo occidentale, nella «classica» aula suddivisa

MEDIOEVO

dicembre

in tre navate da due file di colonne. In questo modo erano ben distinti gli spazi della celebrazione (a cui accedevano solo i sacerdoti e i membri della corte) e quelli accessibili ai laici. Vi furono, poi, varianti in corso d’opera, per cui la tribuna del sovrano, dapprima posta (o immaginata) nel braccio sinistro del transetto, venne trasferita in fondo all’aula, in controfacciata, secondo gli usi introdotti dall’edilizia carolingia (la tribuna del sovrano, nella Cappella palatina di Aquisgrana, è situata a ovest). Sin dall’origine, comunque, l’opera fu determinata dall’idea di un rispecchiamento tra corte terrena e corte celeste, e dall’esigenza di una sintesi unitaria e «imperialistica» di tutte le identità culturali del mondo mediterraneo, creando un sincretismo tra mondo greco, mondo latino e Islam. Di stretta aderenza bizantina (e con l’apporto diretto (segue a p. 84)

81


l’arte delle antiche chiese /13

Le meraviglie di un capolavoro

Il soffitto della navata centrale. I soffitti dipinti della navata centrale e delle due navate laterali della Cappella Palatina costituiscono il piú vasto corpus conservato di pitture islamiche a carattere profano. Il tetto ligneo a muqarnas (alveolato e intagliato con stalattiti pendenti) è decorato, in rosso, oro e azzurro, con pitture a tempera tipicamente arabe che presentano scene di vita cortigiana, di battaglia e di caccia, danzatori e musici.

La pavimentazione. Il pavimento della Cappella Palatina, realizzato in opus sectile, presenta nella zona presbiteriale un grande quinconce (rappresentazione simbolica del numero 5 attraverso cinque punti disposti come il 5 nei dadi) formato da ruote in porfido e in serpentino, con la centrale di dimensioni maggiori, intorno alle quali si sviluppa un fitto ornato musivo ad andamento circolare.

82

dicembre

MEDIOEVO


Spaccato dell’interno della Cappella Palatina, ripreso dall’angolo sud-occidentale. Nell’estremità orientale, il presbiterio coperto della cupola.

I mosaici. Tra i piú importanti in Sicilia, i mosaici che ornano le pareti, gli archi, gli intradossi, la cupola e il presbiterio della Cappella Palatina, sono opera di maestranze locali e bizantine. Sebbene siano raffigurati in prevalenza temi religiosi, quali la Genesi, la Vita di Cristo e degli Apostoli Pietro e Paolo, i Santi, gli Angeli e i Profeti, i mosaici contengono anche raffigurazioni di flora e fauna, rappresentando, forse, le uniche testimonianze cosí estese di decorazioni musive profane di scuola bizantina. I cicli che raffigurano gli episodi della Vita di Cristo e dei santi Pietro e Paolo si concludono, contrariamente alla norma, non con il martirio ma con scene di trionfo: L’ingresso a Gerusalemme per Gesú, La caduta di Simon Mago per gli Apostoli. Richiamati dalla presenza del Cristo in gloria sopra il trono reale e del Cristo Pantocratore benedicente circondato da angeli e arcangeli nella cupola (sopra) e in posizione centrale sul catino dell’abside maggiore, queste scene alludono al trionfo terreno del re.

MEDIOEVO

dicembre

83


l’arte delle antiche chiese /13 Via

i rin Ca Via

pe nci Pri

ari

. Am

a

M Via

oS

no

San Giorgio Castello dei Genovesi a Mare La Cala

Teatro Massimo

San Domenico

Via

Piazza Pretoria

e

a

Em

S. Maria della Catena

e

el nu

Palazzo Chiaramonte

S. Francesco d’Assisi

Palazzo Abatellis

La Magione Palazzo Palazzo Aiutamicristo ln co S. Croce Lin ia

qu

o

V

ed

Piazza Giulio Cesare

a

V Palazzo str i Ca od dei Normanni ort P Cappella Via Palatina S. Giovanni degli Eremiti Corso

Ma

Palazzo Sciafani

Via

ia

Vit

to Vit

San Giuseppe dei Teatini S. Cataldo La Martorana

uel

an

m t. E

rio

a Rom

da

e qu

V ia

Ma

o Via S. A g ostin

Cattedrale

r

avou

Via

Palazzo di Giustizia

300 mt

Porto

Via C

Piazza Museo Maqueda Archeologico

oltur

0

sp i Cr i

ile tab

an

ari

mo tti Se

nc fra

ro gge

illa

Ru

di V

Via

E Via

sco nce Fra

Via

Galleria d’Arte Moderna

Via V

N

Stazione Marina

y

Tukör

Stazione

di maestri greci, almeno nella fase iniziale) è la decorazione musiva del presbiterio. Il Cristo Pantocratore spicca al culmine della cupola, contornato da una schiera di quattro angeli e di quattro arcangeli, ma poi, come si è visto, viene «replicato» sulla calotta dell’abside centrale, secondo una modalità tipicamente siculo-normanna. Le dediche delle cappelle laterali a san Pietro (dedicatario per giunta dell’intera chiesa) e a san Paolo (di quest’ultimo permane l’effigie a mosaico) alludono poi a Roma e all’autorità papale. La stessa decisione di raccontare Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento sulle pareti dell’aula può essere letta come un omaggio alla tradizione dell’Urbe, visto che proprio un ciclo di storie bibliche adornava la basilica costantiniana di S. Pietro. Lo straordinario soffitto ligneo rivestito di pitture eseguite in situ sfoggia sulla navata centrale un’esotica struttura a muqarnas, con alveoli a forma di cupola in fitta sequenza, a dare la sensazione di un tappeto variopinto di stalattiti, e qui emerge chiaramente il contributo dell’arte palaziale islamica, sia a livello costruttivo che figurativo. Le immagini rappresentano in chiave strettamente laica un fastoso ambiente di corte, con il suo corredo di musici e di danzatori. Tra gli arredi occorre poi menzionare, presso l’arco trionfale, sulla destra, l’ambone e il candelabro del cero pasquale. Semplice ed elegante, il primo si compone di una piattaforma recinta da lastre di marmo e sostenuta da una schiera di colonne. Il candelabro è invece uno splendido esemplare di scultura romanica. Databile intorno al 1160, indica la presenza di un maestro che fece

84

da apripista o che fu successivamente coinvolto per il grande chiostro di Monreale. Le figure raccontano il percorso di liberazione dell’anima. Quattro feroci leoni, alla base, sono immagine del peccato. Un tralcio «abitato» conduce poi all’Ascensione di Cristo, con il donatario ai suoi piedi, probabilmente identificabile con Romualdo Guarna, arcivescovo di Salerno (1153-1181), letterato, medico e personaggio di spicco della corte palatina. Il fusto termina con quattro pavoni (simbolo della resurrezione) resi in modo geniale in una forma oblunga esasperata. Nel bocciolo finale, tre figure «danzanti» di telamoni (in origine quattro) reggono una coppa adorna di festoni con foglie e grappoli d’uva. Il senso dell’ebbrezza e della gioia del mondo classico viene cosí trasposto nell’ottica cristiana della salvezza.

Palermo, La Martorana La storia

La chiesa rappresenta un dono votivo alla Madonna offerto da Giorgio d’Antiochia († 1151), Grande Ammiraglio del Regno. Per questo motivo era nota in origine come S. Maria dell’Ammiraglio. L’edificio risulta già costruito nel 1143. I lavori di completamento ripresero poi nel 1146. Nel 1185 la chiesa era del tutto compiuta. L’ultima struttura realizzata fu la torre campanaria, eretta su un vestibolo in asse all’ingresso. Tra la torre e la facciata originaria si sviluppava un atrio che era stato eletto a luogo di riunione dalle magistrature civiche. Il nome attualmente in uso deriva dal fatto che la chiesa fu ceduta nel 1435 alle monache di un vicino cenobio, fondato nel 1194 dalla nobildonna Eloisa Martorana.

La visita

A seguito della cessione al monastero, la Martorana conobbe notevoli trasformazioni. In particolare, l’assetto frontale, con atrio e nartece (portico) di fronte alla facciata, dette luogo a un’aula suddivisa in tre navate con il coro delle religiose (in alto) e una facciata barocca sul lato settentrionale, verso piazza Bellini. Proprio in questo settore, tuttavia, oltre a due fusti marmorei di riuso con iscrizioni cufiche, si osservano due elementi dell’assetto originario. Si tratta dei due celebri pannelli musivi con Giorgio d’Antiochia che offre in proskynesis (con atto di sottomissione) la chiesa alla Vergine (a sinistra) e con Cristo che incorona re Ruggero II (a destra). Superate le strutture residue del nartece, si delinea la chiesa vera e propria, con una struttura a croce greca iscritta e con una decorazione musiva che si ricollega ai modi della Cappella Palatina. Al culmine della cupola il Nella pagina accanto Cristo che incorona re Ruggero II, mosaico parietale della chiesa palermitana di S. Maria dell’Ammiraglio, meglio nota come «La Martorana». dicembre

MEDIOEVO


MEDIOEVO

dicembre

85


l’arte delle antiche chiese /13 I mosaici bizantini della volta nella chiesa della Martorana raffiguranti la Natività del Cristo (sulla sinistra) e la Dormizione della Vergine (sulla destra), la morte di Maria con Gesú che la scorta in cielo.

Cristo Pantocratore è ritratto a figura intera, seduto in trono, contornato dalle moli di quattro grandi Angeli chini dalle mani velate, nell’atto dell’offerente. La perduta abside centrale doveva presentare una monumentale effigie della Vergine. Nel bema, ossia nello spazio antistante voltato a botte, si osservano ancora i due Arcangeli che dovevano renderle omaggio. Nella volta che precede la cupola, sull’asse della navata, spiccano poi due riquadri che hanno per protagonista la Vergine, dedicataria della chiesa: la Natività di Cristo e la Dormizione (la morte di Maria, con Gesú che scorta la sua anima in cielo). La simmetria tra le due scene ripropone un concetto teologico diffuso nella Chiesa bizantina, ossia Colei che «tiene» Iddio in carne (con la nascita di Gesú) viene poi «tenuta» nelle mani del Signore al momento del trapasso.

Cefalú, La Trasfigurazione La storia

La cattedrale sorse con la dedica al Salvatore nel 1131 su volontà di Ruggero II. Al 1148 si data la lunga epigrafe musiva che il sovrano dispose nell’abside centrale. L’edificio era concepito come mausoleo dinastico degli Altavilla, e a tal riguardo, nel 1145, Ruggero dispose sui bracci del transetto due sarcofagi in porfido rosso: uno

86

Mar Tirreno Palermo

Trapani SS115

Milazzo

Cefalú

Reggio Calabria

A20

A18

Salemi Mussomeli Sciacca

Enna

Catania

SS189

Agrigento Caltagirone Licata

Mar Mediterraneo

Augusta Siracusa

Gela

Ragusa Modica

Mar M ar Ionio

doveva essere destinato alle sue spoglie, mentre l’altro, in modo mai chiarito, era in onore della sua memoria e a maggior gloria dell’edificio. Fatto sta che nel 1154, alla sua morte, Ruggero venne sepolto a Palermo, e i due sarcofagi inutilizzati furono trasferiti da Federico II nella stessa cattedrale di Palermo, per la sua tomba e per quella del padre, Enrico VI.

La visita

La cattedrale si staglia su uno sfondo di rocce come un castello inespugnabile, esaltata sul fronte dalle sue dicembre

MEDIOEVO


Veduta dall’alto della cattedrale di Cefalú, fondata nel 1131 per volere del sovrano Ruggero II, il cui imponente profilo frontale si staglia su uno sfondo di rocce, come un castello inespugnabile.

massicce torri di rinfianco. Per la prima volta venne sperimentato in questo cantiere un connubio tra la tradizionale struttura a tre navate con copertura a vista e le ardimentose novità dell’architettura oltralpina. A quest’ultima si rifanno lo schema a due torri della facciata e lo slancio verticale delle strutture, pienamente attuato solo nel settore presbiteriale. Mentre l’edificio era in corso d’opera, infatti, si decise di contenere l’altezza dell’aula, cosicché l’arco trionfale, visto dalla navata, risulta chiaramente «tagliato» e ridimensionato. L’unico elemento decorativo della solenne aula è il soffitto dipinto, chiaramente ricollegato ai modi islamici del soffitto della Palatina. A quest’ultima (nella sua fase originaria) si rifà anche l’intenzione di limitare il mosaico istoriato al settore presbiteriale. I due cantieri, d’altronde, procedevano di pari passo, e l’idea stessa del Cristo Pantocratore nel catino dell’abside centrale sarebbe stata introdotta in prima battuta proprio a Cefalú. La mancanza di una cupola (dove il soggetto era in genere allocato) e il desiderio di un’adeguata esaltazione della memoria del sovrano, favorirono questa scelta iconografica inedita e «spettacolare». Ai fianchi del coro devono essere poi immaginati il trono del re (a sinistra) e il trono del vescovo (a destra). Di fronte al re, sulla parete opposta del transetto, si sarebbero cosí parati, sul terzo registro, i quattro San-

MEDIOEVO

dicembre

Qui sopra Cefalú, cattedrale. La decorazione musiva che orna il presbiterio, con la figura dominante del Cristo Pantocratore nel catino dell’abside centrale. 1148 circa.

87


l’arte delle antiche chiese /13 A sinistra il sarcofago in porfido rosso, sormontato da baldacchino, in cui sono conservate le spoglie di Federico II nella cattedrale di Palermo. Nella pagina accanto gli archi ogivali a doppia ghiera del portico del chiostro annesso alla cattedrale di Monreale, costruita nel XII sec. su iniziativa del re Guglielmo II d’Altavilla. In basso il sarcofago in porfido rosso che custodisce le spoglie di re Ruggero II, morto il 26 febbraio 1154. Palermo, cattedrale.

ti guerrieri. Di fronte al vescovo, in perfetta simmetria, avrebbero fatto da pendant i quattro Santi diaconi. A seguito di un restauro compiuto nel 2004, è infine possibile ammirare la ricomposizione di due ali del chiostro annesso alla chiesa, con 40 pregevoli capitelli istoriati che preludono alla grande esperienza di Monreale.

Monreale, S. Maria Nuova La storia

Monreale è la chiesa-mausoleo disposta dal re Guglielmo II alla periferia della capitale, sia per competere con l’agguerrito episcopato di Palermo, poco in linea con gli indirizzi della Corona, sia per surclassare la memoria del nonno Ruggero. Il progetto inizia a concretizzarsi nel 1172. Nella primavera del 1175 furono designati quei monaci della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni (Salerno) che si sarebbero dovuti trasferire proprio per gestire la cattedrale, risiedendo nell’annesso monastero. I religiosi giunsero a Monreale nel marzo 1176, e il 15 agosto dello stesso anno si compí la consacrazione della chiesa. Con una bolla datata 5 febbraio 1183, papa Lucio III promosse infine la diocesi di Mons regalis a

88

dicembre

MEDIOEVO


MEDIOEVO

dicembre

89


l’arte delle antiche chiese /13

90

dicembre

MEDIOEVO


Da leggere Rodo Santoro, Giovannella Cassata, Diego Ciccarelli, Gabriella Costantino, La Sicilia, collana Italia Romanica, Jaca Book, Milano 1986 Maria Giulia Aurigemma, Il cielo stellato di Ruggero II. Il soffitto ligneo della Cattedrale di Cefalú, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004 Antonio Iacobini, Il mosaico in Italia dall’XI all’inizio del XIII secolo: spazio, immagini, ideologia, in Paolo Piva (a cura di), L’arte medievale nel contesto, 300-1300. Funzioni, iconografia, tecniche, Jaca Book, Milano 2006; pp. 463-499 Beat Brenk (a cura di), La Cappella Palatina a Palermo, collana Mirabilia Italiae, Franco Cosimo Panini, Modena 2010 Monreale, cattedrale di S. Maria Nuova. Mosaico raffigurante re Guglielmo che offre alla Vergine, seduta in trono, la chiesa di Monreale. 1176 circa.

NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte (n. 263, dicembre 2018); Valle d’Aosta (n. 264, gennaio 2019); Lombardia (n. 265, febbraio 2019); Veneto (n. 266, marzo 2019); EmiliaRomagna (n. 267, aprile 2019); Toscana (n. 268, maggio 2019); Umbria (n. 269, giugno 2019); Marche (n. 270, luglio 2019); Lazio (n. 271, agosto 2019); Abruzzo (n. 272, settembre 2019); Campania (n. 273, ottobre 2019); Puglia (n. 274, novembre 2019).

MEDIOEVO

dicembre

sede arcivescovile. Coronarono l’impresa due cospicue porte istoriate di bronzo: nel 1185, fu montata quella dell’ingresso principale, opera di Bonanno Pisano: nel 1190 fu la volta della porta dell’ingresso sul fianco nord, realizzata da Barisano da Trani.

La visita

Con la «sua» cattedrale, Guglielmo II riuscí a esprimere la sintesi piú compiuta di tutte le imprese condotte dai nuovi conquistatori della Sicilia. Guardando a Cefalú, ripropose il motivo delle due torri in facciata (il portico settecentesco sostituisce quello originale), e realizzò un connubio tra l’aula basilicale e il blocco del presbiterio senza incorrere in vistosi pentimenti. E, soprattutto, fece piú di quanto si era fatto sino ad allora: tutte le pareti furono interessate dalla decorazione musiva, mettendo in atto la piú grande impresa del genere mai vista in tutto l’ambito dell’Occidente. Osservando l’insieme sull’asse della navata, con lo sguardo guidato verso il gigantesco Pantocratore dell’abside centrale, si percepisce chiaramente il senso di un’immensa aula regia. Cefalú veniva surclassata anche con la raffinata tessitura decorativa all’esterno delle absidi, e ancor piú con la vastità e la complessità del chiostro del monastero annesso, con 104 bine (colonne abbinate) e 5 gruppi di 4 colonne, in un’area quadrata con un lato di 47 m. Dove la precedente cattedrale aveva fallito, non riuscendo a proporsi come mausoleo, Monreale, per giunta, fu un successo completo. Tra gli altri, qui trovarono sepoltura Guglielmo stesso e suo padre, qui traslato nel 1174. I due sepolcri si collocano nella testata meridionale del transetto. Mentre la tomba di Guglielmo II si presenta oggi in una versione cinquecentesca, le spoglie del padre si conservano sin da allora in un sarcofago di porfido rosso ricavato da un’antica colonna. Sul lato opposto, in corrispondenza del pilastro sinistro del santuario, si ammira ancora nelle fattezze originali il cosiddetto trono reale (o per meglio dire, la tribuna dove veniva collocato il seggio del sovrano), con due transenne marmoree di finissima fattura ai lati. Due coppie di grifoni le decorano, trasferendo nella pietra l’esotismo dei tessuti in seta di produzione orientale. Nel pannello musivo sovrastante, Guglielmo II viene incoronato dal Signore, mentre nel pilastro opposto fa da pendant la scena dell’offerta della chiesa alla Vergine. In uno dei capitelli del chiostro, infine, il sovrano torna a offrire la chiesa a Maria, seduta in trono col Bambino (assente nel pannello musivo della chiesa). Ed è proprio al Signore che Guglielmo si rivolge dicendo: «O re che governi su ogni cosa, accetta le offerte del re di Sicilia». Una volta di piú, il sovrano terreno si rapporta al sovrano celeste, condividendo lo stesso titolo di rex e, per giunta, sfoggia una corona carica di pendenti, come un imperatore bizantino. F

91


CARTAGINE REGINA DEL MEDITERRANEO

Pochi nomi hanno un potere evocativo tanto forte quanto quello di Cartagine, la cui fama è stata resa imperitura dall’essere stata, per lunghi anni, la «nemica numero uno» di Roma. In realtà, sebbene le tre guerre puniche abbiano costituito un momento decisivo nella sua storia, la città ha un passato plurisecolare, particolarmente ricco e articolato. La sua fondazione, che la leggenda attribuisce alla principessa Elissa/Didone e che si colloca nel IX secolo a.C., segnò l’avvio di una parabola lunga e a piú riprese gloriosa, se solo consideriamo che Cartagine si affermò come una delle piú ricche e fiorenti metropoli della regione mediterranea. Una storia, insomma, che va ben oltre gli episodi legati ad Annibale e Scipione e che nella nuova Monografia di «Archeo» viene ripercorsa da un gruppo di autorevoli studiosi, coordinati per l’occasione da Sergio Ribichini. L’opera si propone dunque come un vivace affresco storico, ma anche come un caloroso invito a visitare la città tunisina, che proprio quest’anno ha festeggiato il quarantesimo anniversario dell’iscrizione nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO.

IN EDICOLA


di Domenico Sebastiani

Miniatura raffigurante la moglie del Cavaliere Verde che visita segretamente Sir Galvano nella propria camera da letto, da un’edizione del romanzo cavalleresco Sir Gaiwan e il Cavaliere Verde, contenuta nel manoscritto Cotton Nero A.X. 1400 circa. Londra, British Library.

Di lui un’antica cronaca afferma che «era il miglior fante e non tornava mai da una missione senza averla portata a termine». Ma chi fu davvero il nipote di Artú, adorato dal leggendario re al quale fu vicino per l’intera sua epopea? E quali sono le origini dei suoi poteri sovrannaturali, legati al sorgere dell’astro e al possesso di una spada forgiata nell’Altro Mondo? E come si accordano le sue tante, conclamate, virtú con la fama di… donnaiolo impenitente?

GALVANO

Cavaliere solare


Dossier

N N

el castello normanno di Winchester si conserva una tavola rotonda lignea, divisa in venticinque spicchi bianchi e verdi, che la tradizione identifica con la Tavola Rotonda alla quale Artú sedeva assieme ai suoi ventiquattro fedeli cavalieri. L’idea di una sacra milizia formatasi attorno a un mitico re, geniale invenzione del vescovo inglese Goffredo di Monmouth – il quale, nell’Historia Regum Britanniae (1136), rielaborò in forma scritta racconti che circolavano da secoli in forma orale –, non ha mai smesso di affascinare. Questo perché, in fondo, la Tavola Rotonda e i suoi cavalieri non hanno né patria né tempo, e rappresentano l’idea di quanto di piú nobile, puro e generoso ci sia al mondo. Fra tutti, due si stagliano di gran lunga sopra gli altri per statura, rappresentando il fior fiore della cavalleria: Lancillotto e Galvano. E proprio al secondo è dedicato questo Dossier, perché Galvano è uno dei pochi personaggi che abbiano accompagnato le gesta di Artú dall’inizio alla fine della sua epopea. Durante questo lungo cammino, l’adorato nipote del re non mantie-

94

ne caratteri statici, ma è soggetto a trasformazioni, a picchi molto alti e a conseguenti degradazioni, circostanza che ne rende oltremodo interessante l’analisi.

Nato nella roccia

La studiosa Elisa Poggi ha osservato come le prime apparizioni documentate di Galvano siano scolpite nella roccia, riferendosi alla Porta della Pescheria del Duomo di Modena (1090-1120), ove se ne cita per la prima volta anche il nome, Galvagin (vedi box alle pp. 96-97). Le scene illustrerebbero, come ha ipotizzato lo storico Roger Sherman Loomis, Galvano che salva Ginevra – moglie di Artú – rapita dal gigante Carrado. Le storie inerenti Artú e i suoi cavalieri – questo potrebbe dimostrare la datazione delle sculture – esistevano e circolavano in Europa in forma orale già ben prima d’essere messe per iscritto. Sebbene non sia stato ancora ben accertato attraverso quali canali siano giunte all’epoca in Italia, è ormai certo che il nucleo delle leggende arturiane vada ricondotto al mondo celtico, in particolare a Galles, Cornovaglia, Bretagna e al Sud della Scozia.

A destra miniatura raffigurante l’apparizione del Santo Graal ai cavalieri della Tavola Rotonda, da un’edizione della Quête du Saint Graal, illustrata dall’atelier di Evrard d’Espinques. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque Nationale de France. In basso la tavola di Winchester (XIII sec.), conservata nella sala grande del locale castello, che riporta i nomi di 25 cavalieri menzionati nelle leggende arturiane.

dicembre

MEDIOEVO


MEDIOEVO

dicembre

95


Dossier Le sculture del Duomo di Modena

La prima volta di Artus de Bretania Sull’archivolto della cosiddetta Porta della Pescheria del Duomo di Modena, edificio costruito a partire dal 1099 e consacrato nel 1106, compaiono, fra le altre, sculture che rimandano chiaramente al ciclo arturiano. Opera del cosiddetto «Maestro di Artú», anonimo allievo dello scultore Wiligelmo, esse rappresentano una scena che prevede, all’interno di un castello turrito, una donna prigioniera che invoca soccorso, mentre il suo carceriere è intento a sollevare il ponte levatoio, nel tentativo di difendere il castello dai nemici che lo assediano. Le iscrizioni sulla cornice rivelano i nomi dei personaggi: la dama

prigioniera è Winlogee, nome arcaico bretone di Ginevra, mentre l’uomo è il «cattivo» Mardoc. Alla sinistra del castello tre cavalieri armati di lancia sopraggiungono per affrontare un difensore vestito da contadino, che l’iscrizione chiama Burmaltus, e che imbraccia una mazza o un piccone. All’estrema sinistra e ancora lontano dal castello, con cotta di maglia lunga fino al ginocchio, scudo e casco a nasale e con la lancia abbassata, compare Isdernus, ossia Yder. Davanti a lui cavalca un altro individuo, l’unico di cui non ci è dato sapere il nome, mentre piú a destra, intento ad affrontare il villico appiedato, vi è un cavaliere armato,

con cavallo finemente bardato e un gonfalone, segno di nobiltà, appeso alla lancia. Il nome, Artus de Bretania, non lascia adito a dubbi: si tratta proprio di Artú. Alla destra del castello, invece, si sta svolgendo un combattimento. Un cavaliere, Carrado (Caradoc), uscito dalla porta, sta per scontrarsi con altro, ben armato e lanciato al galoppo: si tratta di Galvaginus, ossia del nostro Galvano. Dietro di lui procedono altri due cavalieri, che l’iscrizione della cornice individua come Galvariun (forse Agravain, fratello di

Modena, Duomo. La lunetta che orna la Porta della Pescheria, nella quale sono ritratti, tra gli altri, Artus de Bretania (Artú; riquadro a sinistra) e suo nipote Galvaginus (Galvano; riquadro a destra). 1110-1120.

Ciò vale naturalmente per Galvano, nipote di re Artú da parte della sorella e «Primo Cavaliere» della corte di Camelot, riprendendo il titolo della monografia pubblicata da Gabriella Agrati. Le prime notizie letterarie del prode cavaliere si rintracciano infatti nelle Triadi gallesi (XIII secolo), che, nella forma orale, sono senz’altro molto piú antiche, nonché ne I ventiquattro cavalieri della corte di Artú: in questi racconti, col nome gallese di Gwalchmei – traducibile forse in «Falco di Maggio» –, Galvano viene menzionato come figlio di Gwyar o di Llew ap Cynfarch, quest’ultimo corrispondente al re Loth della letteratura arturiana.

Gli albori gallesi

Di certo, fin dall’inizio, Gwalchmei/ Galvano è descritto come tra i cavalieri piú coraggiosi e piú cortesi verso ospiti e stranieri, nonché come eroe dalla «lingua d’oro», talmente

96

gentile, amabile ed eloquente nella parola che non vi è re o signore, che non presti ascolto alle sue parole. La sua consacrazione avviene in uno dei primi e fondamentali testi del ciclo arturiano, il gallese Culhwch e Olwen (XI-XII secolo), in cui viene ormai stabilita una parentela di sangue stretta con Artú, e in cui significativamente si dice che «non tornava mai da una missione senza averla portata a termine, era il miglior fante e il miglior cavaliere…». La stessa cronaca latina De Gestis Regum Anglorum di William di Malmesbury parla di Galvano/Walven come in nessun modo inferiore allo stesso Artú, cosí come, nell’Historia di Goffredo di Monmouth, il Waluanus (Gualguanus) citato viene tratteggiato come un guerriero prode e famoso per le stragi compiute nei campi di battaglia. In ogni caso, salvo le rielaborazioni successive e la progressiva dicembre

MEDIOEVO


Galvano) e Che, probabilmente Keu. Basandosi su romanzi francesi posteriori, Roger Sherman Loomis ha ricostruito personaggi e avvenimenti illustrati nell’affresco. Accompagnata dal cavaliere Yder privo di armi, Ginevra viene rapita da un cavaliere gigante, di nome Carrado. Dopo aver sconfitto Yder in singolar tenzone, conduce la regina in un castello con due ponti levatoi, consegnandola a suo fratello Mardoc, da tempo innamorato di lei. Nel frattempo, avendo Yder dato l’allarme, Artú, Keu, Galvariun e Galvaginus/Galvano accorrono in aiuto

MEDIOEVO

dicembre

della regina: Artú affronta il gigante, lo vince e può cosí liberare la regina. Il fatto curioso è che nei poemi non risulta traccia dell’episodio scolpito a Modena, per cui è possibile che la fonte sia andata perduta o che la storia circolasse in forma orale, con varianti e deformazioni. Il motivo potrebbe essere stato poi trasfuso nel Lancillotto di Chrétien de Troyes, dove è l’omonimo cavaliere a ergersi protagonista di un’avventura simile. Il ciclo scultoreo del Duomo di Modena è di eccezionale importanza, sia perché probabilmente costituisce la prima

rappresentazione in assoluto di Artú e di alcuni dei suoi cavalieri, sia perché sarebbe la prova del fatto che la leggenda di Artú e del suo primo cavaliere Galvano fosse già diffusa e circolante in varie parti d’Europa e ben nota anche in Italia, molto prima che il ciclo arturiano fosse posto per iscritto. Alla circolazione orale di tali leggende potrebbero aver contribuito i cantastorie bretoni itineranti alla ricerca di mecenati e corti ove si parlava il francese, comprese l’Italia del Nord, la Puglia e la Sicilia. Un altro indizio del fascino della leggenda di Galvano ci viene dall’onomastica: il nome Walwanus (forma latina che compare nella Historia Regum Britanniae) figura negli atti notarili di Padova nel 1136, a testimonianza di come, all’epoca, i nobili – e non solo – usassero battezzare i figli con il nome del nipote di Artú.

97


Dossier letteratura

Un gioiello della narrativa medievale

evoluzione del personaggio nei romanzi francesi, le origini di Galvano affondano verosimilmente in un passato mitico celtico. A riprova di ciò, Philippe Walter, noto medievista francese, nella monografia Gauvain, le chevalier solaire, ha appunto rimarcato le caratteristiche «solari» del personaggio arturiano. Unico fra tutti i cavalieri della corte, Galvano possiede infatti la prerogativa magica e peculiare di veder aumentare la sua forza in concomitanza con l’irraggiamento solare – per cui sfrutta questa maggior potenza fisica nei combattimenti – e di vederla diminuire con il calar delle tenebre. Ciò, unitamente al fatto che cavalchi Gringalet – cavallo dalle qualità portentose – e possieda la spada Escalibor, dalle origini soprannaturali (non è sicuro se sia da identificare con la spada estratta da Artú dalla roccia, ovvero con quella che emerge dalle acque di un lago, ovvero con la mitica Caladbolg, che la tradizione irlandese vuole forgiata nell’Altro

98

In alto miniatura raffigurante Galvano cavaliere, con re Artú che gli allaccia la spada, mentre re Ban, in ginocchio, gli sistema gli speroni, da un’edizione del poema Merlin di Robert de Boron. 1316 circa. Londra, British Library. Nella pagina accanto miniatura raffigurante il protagonista del poema inglese trecentesco Pearl, che vede in sogno, al di là di un fiume, la figlia defunta (Pearl appunto), dall’edizione dell’opera contenuta nel manoscritto Cotton Nero A.X. 1400 circa. Londra, British Library.

Mondo), ha fatto pensare che il personaggio possa avere come antenato un’antica divinità solare o un personaggio della mitologia celtica. Tale approccio antropologico alla figura di Galvano e ai suoi legami con le leggende celtiche irlandesi e gallesi, in particolare quelle dell’eroe irlandese Cuchulainn, fu intrapreso, sin dal 1891, da Sir John Rhys, e continuato poco dopo da Jessie L. Weston. Convinta dell’esistenza

Il grande studioso Piero Boitani ha definito Sir Gawain and the Green Knight «il romanzo piú interessante e piú bello prodotto sul suolo inglese e certamente uno dei migliori risultati dell’intera tradizione romantica europea» e «un caso unico persino all’interno della tradizione romantica inglese». Vero e proprio gioiello della narrativa medievale, l’opera fu composta verso la fine del Trecento nell’Inghilterra nord-occidentale e ci è pervenuta in un solo manoscritto oggi conservato presso la British Library (il Cotton Nero A. X.), che contiene anche i poemi Pearl, Patience e Cleannes, probabilmente scritti del medesimo anonimo autore, perciò detto il poeta «Pearl». Il poema è composto da 2530 versi, divisi in stanze allitterative di lunghezza irregolare, seguite ciascuna da cinque brevi versi rimati e allitterativi sullo schema denominato bob-and-wheel. Si caratterizza per il raffinato simbolismo e per il fatto che lo sviluppo narrativo si incentra su due nuclei tematici molto diffusi nei romanzi celtici e arturiani, ossia il beheading game («gioco della decapitazione») e la «tentazione», uniti dall’artificio narrativo dello «Scambio delle vincite» (Exchange of Winnings). Come in altri casi, il Sir Gawain prende il via presso la corte di re Artú durante una solenne festività – il giorno di Capodanno –, quando, mentre tutti i cavalieri sono riuniti, il «meraviglioso» e il «magico» fanno irruzione sulla scena: un cavaliere dall’aspetto sovrumano, dalla carnagione e dagli abiti verdi, dicembre

MEDIOEVO


con un ramo di agrifoglio in una mano e un’ascia da guerra immensa e mostruosa, entra improvvisamente nella sala, seminando stupore e sconcerto. Il gigantesco essere verde lancia una sfida: che un cavaliere della corte si faccia avanti, gli tagli la testa e prometta di presentarsi, esattamente un anno dopo, alla Cappella Verde per sottoporsi al medesimo trattamento. Si è molto discusso sul significato simbolico di questo gigantesco cavaliere interamente verde: c’è chi, come Tolkien, lo ha equiparato a un troll, chi ha riconosciuto in lui «l’immagine minacciosa di un possente signore dell’Altro Mondo, un Re della Morte in tutta la sua orrida maestà, signore degli animali e di uno splendido castello oltremondano, spietato e immortale, taciturno e immensamente ricco» (Carlo Donà), in cui il colore verde simboleggia la decomposizione e quindi denota il collegamento fra il gigante malevolo e il regno dei morti. E c’è anche chi, come Franco Cardini, ha ricondotto il colore a una plurisignificanza simbolica, dalla putrefazione/morte al rigoglio/vita, sino alla lussuria (basti pensare, infatti, che la figura del Green Man è anche simbolo della fertilità). A raccogliere la sfida è Galvano, che sferra un colpo e decapita il Cavaliere Verde; questi, però, come se nulla fosse, raccoglie la testa e se ne va, ricordando all’eroe l’appuntamento che lo attenderà di lí a un anno. Giunti in prossimità della scadenza prefissata, Galvano, armato di tutto punto, lascia la corte di Artú tra i pianti di dolore dei presenti, e si avvia solitario verso le lande del Nord. Alla vigilia di Natale, dopo aver superato diversi pericoli e nel mezzo di una foresta selvaggia, Galvano si pente dei propri peccati e prega la Vergine e Cristo, affinché possa trovare un rifugio ove ripararsi. Le sue preghiere

MEDIOEVO

dicembre

vengono ascoltate: in lontananza scorge un maniero ove viene accolto con grande gentilezza dal raffinato signore Bertilak, che lí vive con la sua avvenente dama e con una orribile vecchia. Bertilak invita Galvano a fermarsi come suo ospite per qualche giorno, in quanto la Cappella Verde si trova nelle vicinanze, e stringe con lui un patto. I due si scambieranno lealmente le vincite guadagnate nel corso di tre giorni; Bertilak quelle che conseguirà durante le battute di caccia nella foresta, Galvano quelle che riporterà nel riposo del castello. Questo Exchange of Winnings vede dunque il padrone del maniero riportare ogni giorno una cacciagione diversa, un cervo, un cinghiale e una volpe, e Galvano sottoposto alla prova della tentazione, in quanto cerca di sottrarsi alle profferte amorose della dama senza mancare di cortesia. Cosí egli accetta dalla stessa solo casti baci, che puntualmente e lealmente restituisce a Bertilak, nel momento in cui questi offre i suoi trofei di caccia. Il punto nodale si verifica il terzo giorno, quando la moglie del signore, oltre a dare a Galvano i soliti baci, gli offre una cintura verde, magico talismano che potrà salvargli la vita, con l’impegno di non rivelare a nessuno il dono. Galvano, seppur combattuto, accetta e la sera ricambia solo i baci ricevuti, ma trattiene la cintura, venendo cosí meno al giuramento stretto con Bertilak. Il giorno seguente, Galvano si reca alla Cappella Verde, per onorare la sfida con il Cavaliere Verde. Questi si presenta munito di un’ascia affilata, Galvano allora offre il suo collo e il cavaliere per due volte mima il colpo, la terza volta lo colpisce appena, recandogli una leggera ferita.

Il Cavaliere Verde, poi, svela di essere Bertilak, il padrone del castello, e di aver agito su disposizione di Morgana, sorellastra di Artú e zia di Galvano, per mettere alla prova la virtú della corte arturiana. Gli rivela anche il significato dei tre colpi d’ascia: i primi due riflettono il modo in cui Galvano ha onorevolmente tenuto fede inizialmente al patto, il terzo invece si riferisce al comportamento meno corretto dell’eroe quando ha trattenuto la cintura verde. Galvano prova dispiacere e vergogna alle parole di Bertilak, ma quando torna dal suo re e racconta alla corte le sue peripezie e ciò che è accaduto, tutti lo accolgono con gioia e letizia, senza che alcuno provi a rimproverarlo o biasimarlo per la lieve trasgressione dell’onore.

99


Dossier Ancora una miniatura tratta dal Cotton Nero A.X: Galvano al cospetto di re Artú, con Ginevra e un cortigiano (in alto); il Cavaliere Verde a cavallo mostra la propria testa mozzata, con Galvano a fianco che impugna un’ascia (in basso). 1400 circa. Londra, British Library.

Galvano non deve seguire un percorso di formazione, perché irrompe sulla scena già pronto a servire con assoluta dedizione il suo re 100

dicembre

MEDIOEVO


di un’originaria «leggenda di Galvano» che affonda le sue radici nei miti celtici, la studiosa inglese cercò di individuare le ragioni del processo di progressiva degenerazione sofferta dal personaggio di Galvano nell’incompatibilità tra le tendenze moraleggianti dei romanzi piú tardi e alcuni aspetti mitici anteriori. Weston prese come esempio di tali antiche radici la citata forza crescente e calante di Galvano correlata al corso del sole, che indicherebbe una primitiva identificazione dell’eroe con una divinità solare. In tempi piú recenti, anche John Matthews, nel solco già tracciato da Jessie Weston, ha scritto da un lato che Galvano potrebbe essere considerato il Cuchulainn dei Britanni, dall’altro ha sostenuto l’originaria identificazione di Galvano con il cavaliere della «Dea», intesa

quale principio creativo femminile, ruolo che si sarebbe poi evoluto, nella letteratura arturiana, in quello di cavaliere di dame e damigelle. È comunque un dato certo il fatto che Galvano, soprattutto nei primi romanzi, possieda l’ardimento, il valore guerriero e la temerarietà dei primitivi guerrieri celtici.

Un modello di perfezione

Sempre presente alla corte di re Artú, dai romanzi di Goffredo di Monmouth fino a Thomas Malory, Galvano è l’impareggiabile cavaliere e animatore della sacra milizia della Tavola Rotonda, amato dal proprio zio e adorato da tutte le donne di corte. Una caratteristica precipua di Galvano è che egli non ha bisogno di un cammino di formazione o di iniziazione – come accade per altri personaggi del ciclo, basti pensare a

Scrigno in avorio di fattura francese che raffigura scene del ciclo arturiano e di altre celebri opere di letteratura cortese. 1310-1330 circa. New York, Metropolitan Museum of Art.

MEDIOEVO

dicembre

Perceval/Parzival –, dato che si presenta sulla scena già «preformato» e pronto a servire con dedizione assoluta il suo sovrano. Lo prova il fatto che il poeta Chrétien de Troyes (attivo nelle corti di Champagne e di Fiandra tra il 1160 e il 1190) lo introduce nel suo primo romanzo, Erec et Enide, senza dare alcuna informazione su di lui, e ciò ne dimostrerebbe la fama incontrastata. Nell’Yvain, invece, lo definisce significativamente «sole della cavalleria», e la sua figura si staglia tra i vari cavalieri anche nel Cligès, nel Lancelot e nello stesso Perceval. Nella sua figura si concentrano tutte le qualità che il cavaliere perfetto deve possedere: abilità militare, protezione nei confronti dei deboli e delle donne, cortesia – caratteristica questa che si esplica in nobiltà di modi e in raffinata eloquenza – bellezza fisica, compiutezza nell’abbigliamento, lealtà, controllo di sé, disgusto per ogni forma di avarizia e cupidigia. La sua figura, peraltro, non è esente da fragilità e debolezze. Con il passare dei racconti, i romanzieri si soffermano su quelle che, agli occhi degli spettatori, appaiono pecche imperdonabili. Il concetto di cortesia medievale, infatti, si associa strettamente a quello di amore sincero e indissolubile verso un’unica donna. A differenza di Lancillotto, che immola la sua esistenza all’amore per Ginevra, sua unica dama, Galvano non rispetta le regole del fin’ amor: egli si dimostra troppo sensibile al fascino femminile e, durante le sue avventure, non torna mai senza una nuova conquista o un’avventura galante. Egli incarna il tombeur de femmes, il donnaiolo impenitente, ambito da tutte le donzelle di corte ma, nello stesso tempo, l’uomo incapace di provare un vero amore. Tale frivolezza erotica, accanto al fatto che spesso si lanci in imprese varie per il solo fascino dell’avventura, e non per ideali piú alti, ne fa

101


Dossier

Il Galvano svalutato Tra i romanzi francesi del XIII secolo del cosiddetto «ciclo di Galvano», spiccano Le Chevalier à l’épée (Il cavaliere della spada) e Mule sans frein (La mula senza briglia). Nel primo, inoltratosi in una foresta, Galvano viene ospitato in un castello da un cavaliere, che gli offre per giunta il dono di trascorrere la notte con la propria seducente figlia. Ma dovrà dormire con lei nel letto «periglioso», cosí detto in quanto, retto da un incantesimo, su di esso incombe il pericolo di una spada sospesa, diretta a proteggere la virtú della donzella e a uccidere chi osi troppo con lei. La vicenda, che assume toni burleschi, vede Galvano che, al cospetto della fanciulla, può solo limitarsi ad ammirarne la bellezza, cosicché la sua fama di Dongiovanni ne esce malconcia.

102

Diverso è il caso della Mule sans frein: composto agli inizi del Duecento da Païen de Maisières, autore misterioso identificato da alcuni addirittura con Chrétien de Troyes, il breve romanzo si apre nel giorno di Pentecoste, quando alla corte di re Artú arriva un’avvenente fanciulla a cavallo di una mula che non presenta il freno, ma solo la cavezza. Ella promette una ricompensa a carattere erotico al cavaliere che riuscirà nell’impresa di riportare la briglia. Dopo il fallimento del malvagio siniscalco Keu, Galvano cerca di superare la prova. In groppa all’umile mula, attraversa in successione una selva popolata di fiere feroci, una valle perigliosa piena di serpenti e scorpioni – il tipico pons subtilis oltremondano –, fino ad arrivare al cospetto di

Pannello di uno scrigno raffigurante una scena tratta dal poema incompiuto Perceval di Chrétien de Troyes: affiancato da un leone, Galvano giace sul letto «periglioso», sul quale incombono, dall’alto, varie spade e lance. XIV sec. Parigi, Museo del Louvre.

un magico castello ruotante e apparentemente inaccessibile. Galvano, indomito, attende l’attimo propizio per varcare l’ingresso e sprona la mula, che supera la soglia con un balzo, ma parte della coda le viene tranciata dalla porta del castello. All’interno del maniero, Galvano incontra la misteriosa signora del castello, che si rivela essere la sorella della prima damigella, detentrice della briglia rubata. A differenza della prassi consolidata che non lo vede dicembre

MEDIOEVO


mai tirarsi indietro al cospetto del fascino femminile, il cavaliere rifiuta le profferte amorose della donna: recupera il freno, monta sulla mula e torna alla corte di Artú, ove lo attende la prima damigella la quale, inspiegabilmente, lo pianta in asso e se ne va senza spiegazioni. L’interpretazione tradizionale ha sempre visto nella trama della Mule un intento svalutativo del personaggio di Galvano, considerando la sproporzione tra il dolore della fanciulla e la perdita di un oggetto insignificante come la briglia, le prove ardue cui si sottopone Galvano per recuperare l’oggetto e lo smacco finale alla sua fama di impareggiabile conquistatore. Altri, come Patrizia Serra, hanno voluto invece intravedere nel romanzo Miniatura forse raffigurante Galvano insieme alla figlia del re di Norvegia, da un’edizione delle opere di Robert de Boron. XIV sec. Parigi, Bibliothèque Nationale de France.

un messaggio piú profondo, ossia una riflessione sul percorso che conduce l’anima a Dio. Mentre Keu fallisce l’impresa perché cade in preda ai peccati di superbia, avarizia e lussuria, Galvano – quale miles Christi – è provvisto delle armi adeguate per condurre positivamente la sua battaglia contro il Male. Carlo Donà, invece, ha studiato l’opera analizzando la mula quale «animale guida», che consente all’eroe l’accesso alla dimensione oltremondana – rappresentata dall’ingresso nel castello – che richiede il «sacrificio dell’ultima parte» (nel caso specifico della coda), tema mitico molto arcaico, che si ritrova già nell’episodio di Giasone e degli Argonauti al cospetto delle Simplegadi (due spaventose rocce cozzanti che nessun essere umano o animale poteva attraversare), nonché in molti racconti e favole, sparse dalla Cina all’India, fino all’Europa.

un cavaliere imperfetto e destinato al fallimento. Esemplare è la sua differenza con Perceval, il «puro folle», il bifolco gallese che, dalla sua primordiale rozzezza, si eleva a cavaliere di Cristo nella ricerca del Graal. Anche Galvano si lancia nella queste del Sacro Catino, ma perché indotto dalle circostanze piú che per convinzione interiore. La sua incapacità spirituale si mostra in tutta la sua pochezza quando, nella cosiddetta Continuazione di Galvano, si addormenta dopo aver posto le fatidiche domande al Re Pescatore senza riuscire ad ascoltare la spiegazione circa i segreti del Graal. Ovvero, nel Lancelot en prose, ove l’apparizione del Graal è associata al miracolo di dispensare nutrimento puramente materiale, dal quale sono esclusi coloro che non si dimostrino degni: al castello di Corbenic, infatti, tutti sono nutriti con i cibi piú prelibati, eccetto Gawain, il quale, incapace di resistere alla tentazione della lussuria, è distratto dalla visione di una bellissima fanciulla e si dimentica di venerare il sacro vaso. Sarà perciò cacciato dal Castello del Graal coperto di ignominia.

Peccati ed errori

Altra grande pecca di Galvano è un eccesso di prodezza che trascende in violenza: egli viene meno alla cosiddetta mésure, alla moderazione richiesta al cavaliere cristiano, e, in preda a questa dismisura, nel corso della sua parabola discendente, si rende colpevole di numerosi crimini. Nel ciclo prosastico Lancelot en prose – Queste del Saint Graal – Mort le roi Artu (1215-35), si dimostra un peccatore che non solo fallisce nella ricerca del Graal, ma uccide molti compagni della Tavola Rotonda e il suo spirito di vendetta lo porta a battersi con Lancillotto, per toccare il punto piú basso nel Tristan en prose (1230 circa), ove viene dipinto a tinte fosche come un cavaliere codardo, invidioso e crudele.

MEDIOEVO

dicembre

103


Dossier la ponzela gaia

Un amore piú forte dei sortilegi Importanti tracce letterarie di Galvano in Italia si ritrovano nel cantare della Ponzela Gaia, trasmessoci da un codice marciano della seconda metà del XV secolo, anche se la storia fu composta presumibilmente in Veneto nel Trecento. Il cantare narra che Galvano, durante una battuta di caccia, si imbatte in un serpente poderoso, con il quale inizia una lotta da cui esce sconfitto. La serpe gli parla, quindi si trasforma in una splendida fanciulla (la Ponzela Gaia appunto), figlia della fata Morgana. Da tempo innamorata di Galvano, gli offre il suo amore e un anello magico che gli procurerà ogni ricchezza, a patto che lui non faccia mai parola della sua esistenza. I due vivono felici, fino a quando Ginevra non mette gli occhi su Galvano, il quale rifiuta l’interessamento della regina, ma, messo alle strette, è costretto a rivelare l’esistenza del suo legame con la fata e, pena la decapitazione, a mostrarla in pubblico.

Perceval/ Parzifal in duello contro Galvano, miniatura tratta da un’edizione del poema tedesco Parzifal di Wolfram von Eschenbach. Codice Palatino Germanico 339. XV sec. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

104

Quando l’eroe è già sul patibolo, la Ponzela Gaia annuncia piangendo che verrà per sempre rinchiusa da Morgana in una torre, sommersa dall’acqua fino al petto, quindi scompare. Galvano, disperato, parte alla ricerca della sua amata fino ad arrivare al regno di Morgana ove, ottenuto l’appoggio degli abitanti del luogo, chiude la maga nella prigione della figlia e libera la Ponzela Gaia, con cui torna vincitore a Camelot. La trama di questo cantare è riconducibile, nella tradizione favolistica, al tipo n. 401 del repertorio di Aarne e Thompson, The princess transformed into deer. Simili storie hanno per oggetto un disincantamento: l’eroe incontra una donna oltremondana che si mostra in forma mostruosa o ferina e, per liberarla, deve superare difficili prove. Una volta disincantata, la fata impone all’eroe, per poter godere del suo amore e generosità, un interdetto: può essere di natura alimentare, può consistere nel non cedere Circa le ragioni di questo lento declino di Galvano, si confrontano fondamentalmente due tesi. Da un lato vi sono coloro secondo i quali la parabola discendente di Galvano è inquadrabile nel naturale processo di adattamento della leggenda arturiana e nella evoluzione dei vari personaggi secondo le mode e i gusti letterari del pubblico, a cui gli autori tentavano di adeguarsi. Ne deriva, quale naturale conseguenza, che all’affermarsi sulla scena di un nuovo eroe deve fare da contraltare la decadenza di un altro, che ha ormai esaurito il suo potenziale narrativo: pertanto Artú, Galvano, Lancillotto, Galahad e cosí via si succedono e si eclissano a vicenda. Altri, pur non scartando tale motivazione, ne rintraccia un’altra, ricollegabile all’ancestrale passato del personaggio. Se all’inizio avevano deposto a suo favore eleggendolo come il piú prode e perfetto dei cavalieri arturiani, le radici celtiche di Galvano con il tempo sarebbero diventate un’eredità «pagana» ingombrante e tale da renderlo un cavaliere cristiano «scomodo». dicembre

MEDIOEVO


al sonno e cosí via. L’eroe non riesce a rispettare il divieto, per cui sembra perdere la fata in modo definitivo: alla fine, però, riesce a raggiungerla nella sua dimora oltremondana, a riconquistarla e a sposarla. Il cantare della Ponzela Gaia, insieme al Bel Gherardino, appaiono gli esempi italiani piú felici di questa tessitura narrativa. Vari studiosi hanno individuato gli antecedenti letterari della Ponzela Gaia nel lai di Lanval, ovvero in alcuni romanzi medio francesi come il Partonopeus de Blois. In verità, lo specchio risulta piú ampio: analogie si possono ritrovare con il lai di Graelent, con l’italiano Cantare di Liombruno, col tardo tedesco Friedrich von Schwaben (inizi del XIV secolo) o con il Seifrid von Ardemont (XIII escolo), e altri componimenti tedeschi. Tutti i testi citati, infatti, sono riconducibili a un motivo folklorico e favolistico comune e molto antico, quello della ricerca della sposa soprannaturale. Tesi suggestiva ma non priva di criticità in quanto, se le origini celtiche di Galvano sembrano allo stato molto probabili ma dai contorni non ben definiti, la popolarità e la fortuna del personaggio sono risultate talmente ampie – sia geograficamente che temporalmente – da rendere molto difficile collegare le improvvise cadute al nucleo originario della sua leggenda. A riprova di tale progressivo deterioramento, si segnalano nell’ambito della ricca letteratura che ruota attorno al personaggio, una serie di romanzi in versi francesi del XIII secolo. Essi consistono in brevi racconti autonomi, non collegati al tema del Graal, e probabilmente destinati a un pubblico ristretto presso corti e castelli. Tali avventure, che attingono al folklore celtico e presentano una grande varietà di situazioni, si contraddistinguono perché il protagonista risulta essere principalmente il nostro cavaliere, nei confronti del quale affiora una marcata tendenza alla rappresentazione in situazioni comiche o burlesche.

MEDIOEVO

dicembre

Si parla a tal proposito di «ciclo di Galvano», al quale vengono ricondotti episodi quali La Mule sans frein e Le Chevalier à l’épée (La Mula senza briglia e Il Cavaliere con la spada), nonché L’âtre pèrilleux, Meraugis de Portlesguez, La vengeance de Raguidel, Hunbaut, Les merveilles de Rigomer. In tale ciclo, il nostro eroe viene posto spesso in ridicolo: la sua fama di impareggiabile conquistatore esce fortemente lesa, egli si trova a battersi per ragioni futili, ovvero si lancia in imprese al galoppo non di destrieri, ma di animali ridicoli e disprezzati durante l’età di Mezzo, come nel caso de La Mule sans frein (vedi box alle pp. 102-103).

Come una «perla»

La figura di Galvano si manifesta in declino anche nella letteratura medio-inglese, salvo raggiungere esiti altissimi nel migliore romanzo in versi composto in Inghilterra nell’ultimo quarto del Trecento, Sir Gawain and the Green Knight (Sir Gawain e il Cavaliere Verde), di autore anonimo (vedi box alle pp. 98-99), opera in cui il personaggio acquista

La bellissima fata Melusina fa il bagno di nascosto, incisione da un manoscritto del tardo XV sec. La Melusina si differenzia dalla Morgana, protagonista del ciclo bretone, in quanto tendenzialmente sempre compassionevole.

una profondità psicologica e uno spessore morale senza precedenti. L’anonimo narratore lo definisce «perla» dei cavalieri arturiani: Galvano si mostra infatti squisitamente galante con la moglie di Bertilak/ Cavaliere Verde, esperto nelle schermaglie amorose, cortesemente eloquente nei confronti della dama e del padrone del castello, allo stesso tempo perfettamente leale, o meglio «quasi» perfettamente leale, nei loro confronti. Se, infatti, non cede alle tentazioni della dama, restituendo al consorte Bertilak i doni da lei avuti (un bacio, due baci, tre baci) in cambio di quelli che l’ospite gli reca in tre giorni di caccia (un cervo, un cinghiale, una volpe), tiene nascosta una magica cintura verde che la dama stessa gli ha offerto per salvargli la vita. Galvano, insomma, fallisce la prova somma di lealtà.

105


Dossier

106

dicembre

MEDIOEVO


to-britannica, ma si estese un po’ in tutta Europa, per raggiungere livelli particolarmente significativi nei Paesi Bassi, in Germania e nella stessa Italia. Nei primi Galvano è protagonista del romanzo Walewein, che da lui prende il nome, iniziato dal poeta Penninc e terminato da Pieter Vostaert (XIII secolo), ove è alle prese con la ricerca di una magica scacchiera arrivata in volo alla corte di re Artú e poi scomparsa; in questa storia Galvano, chiamato significativamente «padre di avventure», appare come un cavaliere impareggiabile per cortesia e valore. Alla stessa stregua, il nostro cavaliere è valutato nei romanzi tedeschi, dal Parzival (1200-1210) di Wolfram von Echenbach al Wigalois (1220 circa) di Wirnt von Grafenberg, per arrivare a una sorta di consacrazione nel Diu Crône (1225) di Heinrich von dem Türlin, ove viene dipinto come il miglior cavaliere del mondo, capace – cosí sembrerebbe – anche di portare a compimento positivo la cerca del Sacro Graal.

La versione italiana

Sulle due pagine scene tratte dal ciclo di affreschi dedicati alla leggenda arturiana, che ornano le sale di Castel Roncolo, maniero di costruzione duecentesca situato nel comune altoatesino di Renon (Bolzano). XV sec. Nella pagina accanto, la Tavola Rotonda riunita, durante un festeggiamento in onore di Garello; in alto, tre giganti appaiono tra un gruppo di soldati in armatura, mentre un cavaliere saluta re Artú.

MEDIOEVO

dicembre

La popolarità del personaggio nell’ambito della letteratura inglese medievale è testimoniata da una serie di altri romanzi che su di lui si incentrano, il principale dei quali risulta The Wedding of Sir Gawain and Dame Ragnell (1450 circa), cosí come continua a essere uno dei personaggi di maggior spicco nell’opera di Thomas Malory la Morte d’Arthur (1470 circa), nel quale però non risulta immune da pecche. La straordinaria fama di Galvano è testimoniata anche dal fatto che il diffondersi delle sue avventure non si limitò all’area franco-cel-

Anche in Italia, ove il nome Galvanus o Valvanus risulta attestato fin dal XII secolo, la figura del valoroso personaggio viene trattata in diversi cantari fiabeschi, per esempio nel Cantare di Ponzela Gaia, scritto attorno al XIV secolo, ove si narra dell’amore di Galvano per la fata melusiniana d’origine italiana figlia di Morgana, e che riproduce come schema quello dei lais francesi Graelant e Lanval e degli altri cantari Bel Gherardino e Liombruno. Tali opere italiane si differenziano dalle piú note formule narrative d’Oltralpe in quanto in esse il cavaliere e la fata non partono in modo definitivo per l’altro mondo, ma, usciti con successo da svariate peripezie, se ne tornano a corte per coronare il loro sogno d’amore (vedi box alle pp. 104-105). Altri racconti italiani incentrati su Galvano sono l’anonima Morale di Gal-

107


Dossier

vano (XIV secolo), nel quale l’eroe, grazie alla sua cortesia, pone fine al malvagio costume di un castellano che bastona gli ospiti prima di farli partire, nonché L’innamoramento di Galvano di Evangelista Fossa da Cremona, composto sul finire del Quattrocento.

Una fama imperitura

La produzione letteraria incentrata su Galvano non finisce con il Medioevo: le alterne vicende del nostro cavaliere, in bilico tra luci e ombre, rivivono infatti fino al XIX secolo e anche oltre, fino all’epoca contemporanea. Nel 1848, Edward Bulwer-Lytton propone una versione comica delle avventure amorose di Galvano, mentre il poeta Richard

108

Hovey, negli ultimi anni dell’Ottocento, scrive due sonetti in cui il nipote d’Artú viene tratteggiato come il tipico esempio di inaffidabilità. Con tratti ancora peggiori il personaggio viene dipinto nell’Inghilterra vittoriana da Alfred Tennyson, che maltratta il cavaliere nella sua opera di ispirazione arturiana Idylls of the King, dalla quale Galvano esce come privo di integrità morale, incapace di essere fedele agli ideali cavallereschi, o a un sincero amore mondano o religioso. Anche l’arte è stata sempre sensibile al fascino delle leggende arturiane e dei suoi cavalieri, Galvano compreso, se si pensa al già citato rilievo del Duomo di Modena. Oltre ad alcuni manoscritti del 1390-1400

che contengono illustrazioni relative a Sir Gawain and the Green Knight, episodi relativi a Galvano sono rappresentati in cofanetti d’avorio destinati alle signore di Parigi della metà del XIV secolo, né si possono dimenticare, per esempio, gli affreschi di Castel Roncolo, a nord di Bolzano: risalenti al tardo Medioevo, mostrano Galvano come uno dei tre migliori cavalieri della corte arturiana, insieme a Parzival/Perceval e Iwein/Ivano. La fortuna artistica del «Primo Cavaliere» e della corte arturiana si riaccendono però soprattutto in piena età romantica, quando i preraffaelliti, capeggiati da Dante Gabriel Rossetti, attorno al 1857 iniziano a lavorare a un progetto dicembre

MEDIOEVO


A sinistra miniatura raffigurante il conte di Broche che si batte con il re Nabor e Galvano, insieme ad altri cavalieri. XIV sec. Parigi, Bibliothéque nationale de France. A destra Il fallimento di Sir Gawain, arazzo dedicato alla leggenda di re Artú, opera del pittore preraffaellita Edward Burne-Jones. 1895-1896. Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery.

di dieci dipinti, basati sull’opera di Malory, per il nuovo edificio della Oxford Union, ma il lavoro rimane incompleto. Nel 1891, invece, Edward Burne-Jones disegna sei arazzi per la sala da pranzo di Stanmore Hall, realizzati in seguito nel laboratorio del poeta e illustratore William Morris.

Tra questi, appare illuminante ed esemplificativo della vicenda letteraria e mitica di Galvano, dei suoi successi, ma soprattutto delle sue cadute, Il fallimento di Sir Gawain: in esso un angelo vieta al nostro cavaliere, accompagnato da Ivano, di entrare in una cappella situata in una landa desolata. V

di Galvano, un caso particolare di intertestualità, Schede Umanistiche n.s., 1997, 2; pp. 85-111 Piero Boitani (a cura di), Sir Gawain e il cavaliere verde, Adelphi, Milano 1986 John R.R. Tolkien, Galvano e il Cavaliere Verde, in Id., Il Medioevo e il fantastico, Luni, Milano-Trento 2000 (ed.or. 1983); pp. 119-166; Carlo Donà, La «Ponzela Gaia» e le forme medievali di AT 401, in La fiaba e altri frammenti di narrazione popolare, Olschki, Firenze 2006; pp. 1-21; Patrizia Serra, La mule sans frein tra percorsi mitici e ricerca della verità,

in Duilio Caocci e Marina Guglielmi (a cura di), Idee di letteratura, Armando Editore, Roma 2010; pp. 82-107 Domenico Sebastiani, Le porte dell’Altro mondo, Galvano e la «mula senza briglia», in Quaderni di semantica. Rivista internazionale di semantica teorica e applicata, Edizioni dell’Orso, Alessandria, Vol. II/2016; pp. 317-352 Jessie L. Weston, The Legend of Sir Gawain. Studies Upon its Original Scope and Significance, David Nutt, Londra 1897 John Matthews, Sir Gawain, Knight of the Goddess, Inner Traditions, Rochester 1990

Da leggere Gabriella Agrati (a cura di), Galvano il primo Cavaliere, Mondadori Milano 1997, 2 volumi Elisa Poggi, The Knight on the Threshold: a Thematic and Anthropological Study of the English Gawain Romances, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari, 2012/2013 Philippe Walter, Gauvain, le chevalier solaire, Imago, Parigi 2013 Raymond H. Thompson e Keith Busby (a cura di), Gawain. A Casebook, Routledge, New York e Londra 2006 Oriana Visani, L’innamoramento

MEDIOEVO

dicembre

109


CALEIDO SCOPIO

Arte sugli scudi LIBRI • Nati come risposta all’esigenza di poter essere facilmente identificati in

battaglia (e sfuggire cosí al rischio di cadere sotto il «fuoco amico»), gli stemmi divennero uno strumento identitario di straordinaria efficacia. La cui elaborazione favorí lo sviluppo di una vera e propria arte, dettata da norme rigidissime

A

dieci anni dalla prima edizione originale in lingua francese, viene proposto al pubblico italiano il saggio con il quale lo storico Michel Pastoureau guida il lettore alla scoperta dell’arte araldica, con l’auspicio che le immagini scelte «contribuiscano a una migliore comprensione di questo importante aspetto dell’arte medievale». L’Introduzione serve all’autore per definire le coordinate dell’opera, ma anche per sottolineare l’infondatezza di teorie formulate in tempi piú o meno lontani e da molti ancora oggi sostenute: per esempio, l’assunto che vuole gli stemmi come espressioni esclusive della nobiltà oppure la collocazione della nascita del fenomeno nell’ambito delle crociate. Né, rimarca ancora Pastoureau, si deve alimentare la convinzione che l’araldica sia una «scienza esoterica», poiché «al contrario, è un sistema di segni decisamente aperto alla società. La sua principale funzione è quella di esprimere l’identità degli individui e delle famiglie e di farlo con chiarezza».

A sinistra Lastra funeraria smaltata di Goffredo Plantageneto. 1155-1160 circa. Le Mans, Musée Tessé. In basso pezzo degli scacchi Lewis raffigurante un berserkr che morde il proprio scudo, dall’isola di Lewis, Trondheim. 1160-1170 circa. Londra, British Museum.

Alle origini del fenomeno Si entra dunque nel vivo della trattazione, articolata in quattro capitoli, il primo dei quali è dedicato all’uso degli stemmi. La loro comparsa ebbe luogo nel corso del XII secolo, stimolata innanzitutto da due fenomeni: la trasformazione della società feudale all’indomani dell’anno

110

dicembre

MEDIOEVO


Tavoletta armoriata della Biccherna di Siena. 1331. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

A sinistra un’immagine emblematica dell’astuzia, da Collezione di emblemi e divise. Milano o Pavia, 1490 circa. Milano, Biblioteca Trivulziana. A destra stemma dei conti Douglas in Scozia, dal Grande armoriale equestre del Toson d’oro e dell’Europa. 1435 circa. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

MEDIOEVO

dicembre

Michel Pastoureau L’arte araldica nel Medioevo Einaudi, Torino, 238 pp., ill. col. 38,00 euro ISBN 978-88-0624214-5 www.einaudi.it

111


CALEIDO SCOPIO Il duca d’Austria e i suoi vassalli, dall’Armoriale Bellenville. 1375 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Mille e l’evoluzione degli equipaggiamenti militari. In particolare, le prime sperimentazioni rispondono a un’esigenza prettamente pratica: poiché le cotte di maglia e gli elmi rendevano quasi irriconoscibili i combattenti, si prese l’abitudine di dipingere sugli scudi figure di vario genere – geometriche, animali, floreali –, cosí da poter essere facilmente individuati nelle mischie. E altrettanto si cominciò a fare nei tornei. Una consuetudine che ebbe un ruolo decisivo nella successiva codificazione degli stemmi, che assunsero la tipica sagoma a scudo proprio perché, in origine, dipinti su quell’arma da difesa. Quei «segni di riconoscimento» acquisirono presto anche un forte valore identitario e ciò spiega anche la loro utilizzazione non piú soltanto sugli scudi, ma anche, per esempio, su stendardi, bandiere, gualdrappe dei cavalli, nonché su supporti non militari, come tessuti, mobili o vestiti.

Regole ben precise Il secondo capitolo, Gli elementi del blasone, illustra la vera e propria «grammatica» che, fin quasi dagli esordi, ha regolato la composizione di uno stemma. Al di là della forma, che, come detto, è prevalentemente quella dello scudo – sebbene non manchino varianti anche in tal senso –, colori e figure non venivano scelti casualmente, ma rispondevano a norme ben precise. Tanto da costituire una sorta di linguaggio, che oggi permette di distinguere i blasoni creati in

112

araldica, offre molte delle considerazioni piú interessanti del volume, in quanto l’autore qui s’interroga sul significato che si può attribuire agli stemmi, che ne costituisce l’aspetto forse piú intrigante. Anche qui lo studioso francese non può fare a meno di chiarire che «quasi la metà degli stemmi medievali sfugge (…) a qualsiasi tentativo di interpretazione».

Il cuore del re

ambito europeo dagli emblemi attestati presso altre culture. Pastoureau passa quindi a esaminare il valore artistico dell’araldica, evidenziando come, soprattutto a partire dal XIV secolo, venga elaborato un vero e proprio «stile araldico», destinato a esercitare un’influenza importante anche su altre forme di espressione artistica. Caratteristiche salienti di questo fenomeno sono la stilizzazione delle figure, dettata dal supporto sul quale i blasoni venivano in origine dipinti, e la messa a punto di soluzioni figurative che si trasformano in veri e propri canoni, come nel caso del leone o dell’aquila, due degli animali piú spesso utilizzati in araldica. Il capitolo finale, La simbologia

Tuttavia, sono comunque numerosi i casi in cui è invece possibile risalire alle ragioni che dettarono la composizione di un determinato blasone o la sua modifica, come accade ai Douglas scozzesi, un cui esponente, Archibald, decise di aggiungere allo stemma di famiglia un cuore rosso, per ricordare il fratello James, ucciso dai Mori in Andalusia mentre cercava di portare in Terra Santa il cuore del re Robert Bruce, affinché potesse essere sepolto vicino al Santo Sepolcro. Per questo, da allora, il blasone dei Douglas appare d’argento al cuore di rosso, al capo d’azzurro caricato di tre stelle d’argento (vedi foto a p. 111). Vengono quindi descritti gli stemmi «parlanti» e quelli immaginari, per passare quindi al simbolismo delle figure e dei colori, cosí da completare una rassegna articolata e ricca di spunti per ulteriori approfondimenti. Fra gli apparati del volume, risulta davvero prezioso il Glossario dei principali termini del blasone, che permette di districarsi agevolmente nell’altrimenti curioso e apparentemente astruso lessico araldico. Stefano Mammini dicembre

MEDIOEVO


Lo scaffale Franco Cardini, Antonio Musarra Il grande racconto delle crociate Il Mulino, Bologna, 522 pp., ill. col.

48,00 euro ISBN 978-88-15-2853-2 www.mulino.it

È un volume fitto e denso, questo scritto a quattro mani da Franco Cardini e Antonio Musarra. Né, visto il tema, poteva

disamina ripercorre in maniera sistematica le genesi, l’evoluzione e gli esiti delle spedizioni, estendendo l’analisi anche a quelle iniziative che non vengono solitamente incluse nell’elenco delle crociate «tradizionali», come, per esempio, l’intervento auspicato da Pio II nel 1459 per la riconquista di Costantinopoli o la mobilitazione delle forze cristiane culminata nella battaglia di Lepanto del 1571. Un affresco, dunque, composito e avvincente, suggellato da riflessioni di notevole interesse su fatti recenti e recentissimi, in occasione dei quali, come accennato, l’idea di crociata è stata spesso, ma non sempre correttamente, evocata. Stefano Mammini

essere altrimenti: le crociate, infatti, costituiscono ancora oggi uno dei temi piú dibattuti dalla storiografia, reso inoltre Ilaria Pagani Baldovino IV di straordinariamente Gerusalemme attuale dall’uso, Il re lebbroso invalso ormai da anni, Graphe.it Edizioni, di applicare il concetto Perugia, 186 pp. di crociata anche a 15,00 EURO fenomeni moderni ISBN 978-88-9372-074-8 e contemporanei. www.graphe.it Ondas. Codax, Dopo aver Martín inquadrato Una grande storia in Cantigasstesso de Amigo il concetto grado di avvincere il Hamon di Vivabiancaluna guerra santa e ilBiffi, Pierre Arcananel (A390), contesto quale 1 CD lettore e trasportarlo, già dopo poche righe, www.outhere-music.com maturò il celebre sulla scena politica dei appello di papa regni latini d’Oltremare Urbano II, la lunga

MEDIOEVO

dicembre

del XII secolo. Un bambino tredicenne, la cui presenza sul trono è costantemente minacciata dalla sua irrimediabile infermità, che, «malgrado» questa (e anche «grazie» a questa, come viene argomentato), riesce

e bibliografia costituiscono quasi un terzo del volume), e lascia ben affiorare l’intreccio dei grandi temi che attraversano un secolo affascinante, come il sentimento religioso, la cortesia e l’onore cavalleresco, gli amori, le insidie e i tranelli di corte. Paolo Leonini Pino Blasone, Franco Cardini, Carlo Ruta Francesco d’Assisi, al-Malik al-Kamil, Federico II di Svevia Eredità e dialoghi del XIII secolo Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 130 pp., ill. b/n

a imporsi come un sovrano dalle eccezionali doti militari e politiche. Assunta la piena reggenza all’indomani della maggiore età, Baldovino riuscirà a mantenere coese le diverse fazioni dei vassalli cristiani, spesso riottosi e piú attenti al proprio tornaconto che non a una sincera abnegazione per la difesa e la stabilità del regno di Gerusalemme. La narrazione è scorrevole e allo stesso tempo rigorosa (note, appendici

14,00 euro ISBN 978-88-99168-39-1 www.edizionidistoria.com

Ottocento anni fa, durante la quinta crociata, ebbe luogo l’incontro tra san Francesco e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil nei pressi

della città di Damietta. Ammantata di leggenda, la veridicità dell’evento è ormai acclarata, trovando il supporto di diverse fonti storiche tra loro indipendenti. Ad alcuni anni di distanza un altro grande attore interviene in quello stesso scacchiere geopolitico: l’imperatore Federico II. A partire dall’evento dell’incontro tra il santo e il sultano, il volume esamina brillantemente le circostanze storiche, culturali e politiche in cui esso si verificò, ne approfondisce e ne analizza le possibili motivazioni e conseguenze e lo pone in relazione con i tempi e i modi della politica federiciana, che trovò in al-Kamil un attento interlocutore. Nello svolgersi dei tre saggi che compongono il volume vengono anche tracciati interessanti raffronti con la contemporaneità, che consentono al lettore di mettere in prospettiva le vicende storiche e di distinguervi moventi e fili conduttori che travalicano le epoche. P. L.

113


CALEIDO SCOPIO

Natale in Boemia

M

omento saliente della liturgia cristiana, il Natale è da sempre fonte di ispirazione di una vasta produzione artistica. Con questa antologia, il Tiburtina Ensemble ci porta nella Praga medievale, nell’allora regno di Boemia, con una raffinata quanto inusuale scelta di musiche. Datate al XIV secolo, le composizioni videro la luce in un periodo artisticamente felice per il regno boemo e per Praga in particolare, caratterizzato da un’intensa attività culturale, di cui la fondazione dell’università, avvenuta nel 1348 durante il regno di Carlo IV, è una delle testimonianze piú significative. Oggetto di recenti edizioni critiche, queste partiture provengono perlopiú dai ricchi archivi musicali conservati nel monastero benedettino di S. Giorgio e nella cattedrale di S. Vito, entrambi collocati sulla collina del castello di Praga. Una peculiarità del repertorio proposto è la presenza di «benedicamen» o «cantio», una sorta di canti che in alcuni casi tradiscono la loro vena popolareggiante – si pensi, per esempio, al Gaude quam magnificat e al Patrem parit filia – e che si presentano sia in versione monodica, sia in quella, piú elaborata, a due voci (In hac precelsa sollempnitate). Questa particolare forma di espressione musicale era particolarmente diffusa nel repertorio dei monasteri boemi del Trecento e costituisce senza dubbio uno dei punti di interesse di questa proposta discografica.

Dalla monodia al contrappunto Altri brani sono tratti, come detto, dal repertorio della cattedrale di S. Vito e, come per i benedicamen, riguardano il tema della Natività. Si tratta di antifone, inni, offertori, responsori, introiti tratti dalla liturgia dell’Avvento e del Natale che offrono uno spaccato sui differenti stili

114

MUSICA •

Per celebrare l’imminente Natività del Signore, il Tiburtina Ensemble propone un affascinante viaggio fra le sonorità in voga, in quel tempo dell’anno, nella Praga medievale Cor Europae. Christmas in mediaeval Prague Ricercar (RIC 410), 1 CD Tiburtina Ensemble Barbora Kabátková https://outhere-music.com

compositivi in uso nella regione boema durante il Trecento. Si va dal canto monodico liturgico – le cui differenti tradizioni nazionali costituiscono la base su cui tutta la produzione liturgica si va sviluppando – sino ad arrivare a forme piú complesse con l’uso del contrappunto a due e a tre voci, che testimonia l’adozione dell’organum, stile compositivo polifonico sviluppatosi in Francia nel XII secolo e diffusosi ampiamente in tutta Europa e di cui restano ancora tracce nella Boemia del XV secolo. Tra gli ascolti proposti, un cenno particolare merita Lectio Primo Tempore, dove la presenza dell’andamento parallelo delle due voci crea un effetto musicale estremamente interessante e, a tratti, di grande modernità. Nato nel 2008, il Tiburtina Ensemble è una formazione tutta al femminile diretta da Barbora Kabátková – le altre voci sono quelle di Tereza Havlíková, Hana Blažíková, Daniela Cermáková – specializzatasi nel canto gregoriano, nella polifonia medievale, nonché nella musica contemporanea. Le interpreti dell’Ensemble, che qui si presenta in un organico ridotto, sono superbe, dimostrando grande pulizia nell’emissione e una mirabile precisione nel contrappunto. Una performance di livello e di grande sensibilità interpretativa, che si addice a un repertorio cosí lontano da noi, ma capace di affascinare. Franco Bruni dicembre

MEDIOEVO



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.