Medioevo n. 273 Ottobre 2019

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IL BO RI ME LO SC D G OP IO NA ER EVO TO

www.medioevo.it

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

LA SCOPERTA DEL CIMITERO EBRAICO

CAMPANIA I TESORI DI NAPOLI

UMBRIA BRACCIO BAGLIONI SIGNORE DI PERUGIA

SALAMANCA

SETTE REGOLE PER L’ECCELLENZA

STORIA E MEMORIA DI UNA DELLE PIÚ ANTICHE UNIVERSITÀ DEL MONDO

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SALAMANCA BRACCIO BAGLIONI ANTICHE CHIESE DELLA CAMPANIA CASTELLO DI LETTERE DOSSIER GLI EBREI A BOLOGNA

DOSSIER QUELL’«ORTO» AL CENTRO DI BOLOGNA

Mens. Anno 23 numero 273 Ottobre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 273 OTTOBRE 2019

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 2 OTTOBRE 2019



SOMMARIO

Ottobre 2019 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE Andare in vacca

Un disprezzo immeritato

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SCOPERTE Ripensamenti d’autore

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ITINERARI La scelta di Caterina

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APPUNTAMENTI Benvenuti nella «capitale della Storia»! Fedeli al papa Ricordando un gigante della letteratura L’Agenda del Mese

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STORIE L’UNIVERSITÀ DI SALAMANCA L’ateneo delle sette regole di Maria Paola Zanoboni

32 LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/10 Campania Splendori angioini di Furio Cappelli

70

32

Dossier QUELL’«ORTO» AL CENTRO DI BOLOGNA

81

testi di Caterina Quareni, Vincenza Maugeri, Renata Curina, Valentina Di Stefano, Giovanna Belcastro, Cinzia Cavallari, Mauro Perani e Alessio Zoeddu

70 CALEIDOSCOPIO

50 GRANDI FAMIGLIE I Baglioni

Quel Magnifico perugino... di Lara Anniboletti e Marina Bon Valsassina

50

CARTOLINE La sentinella del ducato

102

LIBRI Con gli occhi di Ildegarda Lo Scaffale

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MUSICA Vedere l’amore

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IL BO RIS ME LO CO DIOGN PE EV A RT O O

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LA SCOPERTA DEL CIMITERO EBRAICO

UMBRIA BRACCIO BAGLIONI SIGNORE DI PERUGIA

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MEDIOEVO n. 273 OTTOBRE 2019

MEDIOEVO

IN EDICOLA IL 2 OTTOBRE 2019

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20/09/19 13:52

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 273 - ottobre 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Lara Anniboletti è funzionario Promozione e Comunicazione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali presso la Galleria Nazionale dell’Umbria. Giovanna Belcastro è professore associato confermato di antropologia all’Università di Bologna. Marina Bon Valsassina è funzionario storico dell’arte in comando dal Comune di Perugia presso la Galleria Nazionale dell’Umbria. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Cinzia Cavallari è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Renata Curina è funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Valentina Di Stefano è archeologa della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Vincenza Maugeri è direttore del Museo Ebraico di Bologna. Chiara Parente è giornalista. Caterina Quareni è funzionario del Museo Ebraico di Bologna. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Alessio Zoeddu è funzionario presso il Museo del Patrimonio Industriale di Bologna. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Album/Oronoz: copertina (e p. 37) e pp. 33, 41; Index/ Heritage Images: p. 34 (basso); Mithra/Index/Heritage Images: pp. 36/37; Pere Rotger/Index/Heritage Images: p. 39; Album/SFGP: pp. 42/43; Age: p. 44; Fine Art Images/Heritage Images: p. 51; Album/Joseph Martin: pp. 60/61 (e particolari alle pp. 62-63); AKG Images: pp. 70/71, 75 (basso); Archivio dell’arte Luciano Pedicini/Luciano Pedicini: p. 76 (alto); Electa: pp. 82-83 – Shutterstock: pp. 5, 32/33, 35, 40, 45, 46-47 – The National Gallery, Londra: pp. 6-7 – Cortesia Museo della Certosa di Pavia: pp. 8-11 – Cortesia degli autori: pp. 16-17, 102-103, 104 (centro e basso), 105-111 – Cortesia Biblioteca Comunale Augusta, Perugia: pp. 52/53 – Cortesia Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia: pp. 54-59, 64-69 – Doc. red.: pp. 72 (basso), 78, 85 – DeA Picture Library: L. Romano: p. 73 – Cortesia Museo Ebraico di Bologna: pp. 81, 86-101 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 34, 72, 104.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Salamanca, Università. Lo scalone delle Escuelas Mayores, costruito a partire dal 1512 per raggiungere la sala destinata ad accogliere la biblioteca dell’ateneo.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero storie

Ezzelino da Romano, l’eretico tiranno

costume e società

Il Medioevo di Vinicio Capossela

antiche chiese

Tre grandi cattedrali di Puglia


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Un disprezzo immeritato

Q

uando una bella gita si conclude malamente, quando una promettente carriera fallisce… insomma, quando tutto «finisce in vacca», evochiamo la visione negativa della femmina dei bovini, la cui denominazione ha dato origine a diverse esclamazioni, come «Porca vacca!», o viene utilizzata con un’accezione fortemente spregiativa, per indicare una donna di facili costumi – dovuta a una credenza riguardante la presunta lussuria della mucca – oppure per sottolinearne le forme poco armoniose. Anche altre espressioni evocano la vacca in senso negativo, come stravaccato, e perciò l’espressione «andare in vacca», che significa terminare con un esito negativo, potrebbe legarsi a questa immagine della mucca, intesa come animale ora lussurioso, ora trasandato e cadente, ora sgraziato e pigro. Tuttavia, se si consulta un dizionario della lingua italiana, si scopre che vacca può indicare anche «il baco da seta ammalato di giallume, perché si gonfia in modo anomalo». Questa malattia rende i bachi flaccidi e, una volta gonfiatisi, essi cessano di fare il bozzolo, e quindi di produrre la preziosissima seta. Il medico e naturalista toscano Francesco Redi (16261697), nel saggio Esperienze intorno alla generazione degli

insetti, commentava scrivendo che «quei vermi da seta, ammalandosi e quasi marcendo prima di condursi a fare il bozzolo, sono chiamati volgarmente vacche». Nel Basso Medioevo la seta era un bene raro e preziosissimo: il prezzo dei drappi serici era altissimo, cosicché solo sovrani, nobili o mercanti assai facoltosi potevano acquistarli. Una simile esosità era determinata dai costi della materia prima, a lungo importata dal Vicino Oriente o dalla Cina, a cui si aggiungevano i costi della manodopera specializzata, per non dire di quelli dei macchinari e dello smercio del prodotto finito, la cui delicatezza imponeva il trasporto via terra, a dorso di mulo, preferito alle piú veloci (ma piú rischiose) vie marittime. A riprova di quanto la seta fosse preziosa, si può ricordare un proverbio, d’origine partenopea, che dice di «non mischiare la lana con la seta»: «non ammiscamme ‘a lana c’ ‘a seta». Se un produttore di seta avesse dunque visto i propri bachi «andare in vacca», oltre alla ovvia disperazione, avrebbe subíto un grave danno economico, in grado di… «mandare in vacca» tutta l’azienda! In alto bruchi di Bombyx mori (nome scientifico del baco da seta) avviluppati nel filo di seta che compone il loro bozzolo.


ANTE PRIMA

Ripensamenti d’autore

SCOPERTE • Analisi condotte con le tecnologie piú

avanzate rivelano una Vergine delle Rocce inedita, in cui l’angelo stringeva a sé il Bambino in un abbraccio poi soppresso dal maestro

L

a direzione della National Gallery di Londra ha annunciato i sorprendenti risultati degli studi condotti sulla Vergine delle Rocce, uno dei capolavori di Leonardo da Vinci, a cui il maestro lavorò in due riprese, fra il 1491 e il 1499 e poi fra il 1506 e il 1508. Le nuove analisi

In alto Vergine delle Rocce, olio su tavola di Leonardo da Vinci. 1491/2-1499 e 1506-1508. Londra, National Gallery. A sinistra e in basso due immagini della diversa redazione dell’opera originaria, accertata grazie alle recenti indagini, per le quali sono stati utilizzati la macrofluorescenza a raggi X ed esami a raggi infrarossi e multispettrali: le differenze piú vistose riguardano le figure dell’angelo e del Bambino.

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ottobre

MEDIOEVO


In basso particolare della mappatura eseguita con la macrofluorescenza a raggi X che mostra la distribuzione dello zinco, la cui presenza ha permesso di «vedere» la versione originaria dell’angelo e del Bambino.

DOVE E QUANDO

«Leonardo: scoprire un capolavoro» Londra, National Gallery fino al 12 gennaio 2020 (dal 9 novembre) Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 Info www.nationalgallery.org.uk hanno infatti accertato che l’opera era stata inizialmente pensata in una versione diversa da quella che oggi possiamo ammirare. Già nel 2004/2005 si era scoperto che la postura originale di Maria era stata modificata dall’artista, ma della presenza di altre figure che si presumeva facessero parte di quella prima versione vi erano solo flebili indizi. Ora, invece, grazie al ricorso a tecnologie piú avanzate e sofisticate, è stato possibile ricostruire la genesi e l’evoluzione del dipinto. Sono stati individuati per la prima volta i contorni assegnati all’angelo e al Bambino da Leonardo, che mostrano differenze significative rispetto all’aspetto odierno dell’opera. Nella composizione originaria entrambi i personaggi occupavano una posizione piú elevata e mentre adesso l’angelo guarda verso l’osservatore, all’inizio aveva il capo rivolto verso il Bambino che

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ottobre

In alto l’area del volto della Vergine sulla quale sono state rilevate impronte della picchiettatura.

teneva in un abbraccio all’apparenza molto piú stretto. La scoperta delle nuove immagini si deve al fatto che, per eseguirle, Leonardo dovette servirsi di materie prime contenenti zinco, rilevato grazie alla macrofluorescenza a raggi X, che ha consentito di mappare la presenza di questo elemento. Hanno inoltre contribuito gli esami ai raggi infrarossi e multispettrali.

Con il palmo della mano Se, dunque, le tecnologie avanzate hanno offerto dati estremamente puntuali dal punto di vista materiale, nulla hanno potuto fare per aiutare gli studiosi nel ricostruire le ragioni che indussero il maestro a rielaborare la prima stesura della Vergine delle Rocce. Le nuove ricerche provano che il secondo abbozzo, per quanto sia assai piú vicino alla versione finale del quadro, conserva variazioni e correzioni proprie del

disegno, ma non necessariamente recepite nella pittura. Per esempio, l’angolazione della testa del Bambino venne modificata affinché la figura risultasse di profilo, mentre parte della capigliatura riccioluta dell’angelo venne eliminata. È stata altrsí accertata la presenza delle impronte lasciate da un’opera di tamponatura eseguita sulla tavola con il palmo della mano, allo scopo di creare uno strato di pigmento di spessore piú o meno uniforme, che potrebbe essere stata condotta da un assistente di Leonardo o forse dall’artista stesso. Alla nuova lettura del dipinto la National Gallery si appresta a dedicare un’esposizione temporanea, «Leonardo: scoprire un capolavoro», che aprirà i battenti il prossimo 9 novembre e che offrirà un viaggio immersivo nel talento del genio vinciano, concentrandosi appunto sulla Vergine delle Rocce. Stefano Mammini

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ANTE PRIMA

La scelta di Caterina ITINERARI • Sorta per

volontà dalla seconda moglie di Gian Galeazzo Visconti, la Certosa di Pavia è un complesso superbo, impreziosito dal ricco Museo allestito negli spazi del palazzo ducale

A

ppena varcato l’androne della Certosa di Pavia, si provano stupore, meraviglia. Ad attirare l’attenzione sono innanzitutto l’armonico equilibrio tra la leggiadra facciata della chiesa e il curatissimo giardino all’italiana di fronte. Intorno all’elegante prato, vanto dei signori rinascimentali, un complesso di edifici monumentali gode del silenzio e della quieta atmosfera, che pervade l’ambiente circostante. In questo luogo speciale, immerso in un paesaggio fuori dal tempo, non sfugge sulla destra una prestigiosa residenza, che, per elementi architettonici, e stilistici, appare in perfetta sintonia con l’impianto strutturale della chiesa. È il cinquecentesco palazzo ducale, in passato adibito a foresteria nobile per l’accoglienza degli ospiti di riguardo in visita o in pellegrinaggio alla Certosa, ora raffinata sede museale.

Una nuova stagione È impensabile immaginare un giro della Certosa, senza una sosta in questo museo, che, concepito sin dagli anni 1887-1888 per riunire quadri, affreschi, sculture e arredi liturgici provenienti dal complesso religioso, vive una nuova stagione di studi, esposizioni ed eventi d’arte.

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«Il Museo della Certosa – commenta il direttore, Giacomo Maria Prati – si propone come un’ulteriore offerta culturale. Le collezioni in mostra, complementari e inscindibili dalla Certosa stessa, non solo permettono di apprezzarne appieno la ricchezza storico-artistica, ma offrono la possibilità di comprendere meglio le dinamiche politiche, religiose ed economiche, che ne hanno determinato la costruzione e lo sviluppo». A cominciare dalla nascita della basilica, ricordata dall’ovale

con l’immagine di Caterina Bernabò Visconti, posto nella seicentesca Sala dei Ritratti dei Visconti e degli Sforza, che raccoglie le effigi dei duchi di Milano, dal primo, Gian Galeazzo Visconti, sino all’ultima duchessa, Cristierna di Danimarca. In alto la Sala dei Capolavori del Museo della Certosa di Pavia. Nella pagina accanto Flagellazione di Cristo, scultura in marmo di Giovanni Antonio Amadeo. 1481. Pavia, Museo della Certosa.

Dialogo fra maestri Tra il 1490 e il 1492 Leonardo da Vinci risiede a Pavia, chiamato come consulente per il Duomo e i lavori alla chiesa di S. Maria in Pertica. In città stringe amicizia con l’architetto Bramante e lo scultore Amadeo. Fra i tre maestri, fondamentali nella storia del Rinascimento lombardo, si instaura un rapporto di contatto, di dialogo, di scambio reciproco, al punto che Amadeo, nell’ardita prospettiva e nella teatrale «messa in scena» della Flagellazione nel Museo della Certosa riprende il disegno, eseguito da Bramante, di una testa descritta di nuca (da cui l’incisione Prevedari, 1481). Bramante appare evocato anche in un’altra opera del museo, un anonimo e alquanto suggestivo Cristo risorto, influenzato dal Cristo alla colonna della Pinacoteca di Brera. Giovanni Antonio Amadeo, forse meno conosciuto al grande pubblico, non lavora solo con Mantegazza alle formelle nella fronte della Certosa, ma è coinvolto anche nella costruzione del Duomo di Pavia e in quella del tiburio di S. Maria delle Grazie a Milano. Inoltre è autore dell’Arca nella chiesa di S. Lanfranco a Pavia, dell’Arca dei Martiri Persiani nel Duomo di Cremona e della Cappella Colleoni a Bergamo. ottobre

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ANTE PRIMA A destra particolare della volta dello studiolo ducale con l’affresco sul tema del Sogno di Costantino. XVI sec. Sposato in seconde nozze Gian Galeazzo, Caterina Bernabò Visconti fece un voto alla Madonna per la nascita dei figli e la conversione del marito. La discendenza fu assicurata ed ella quindi ritenne esaudito il voto e convinse il consorte a innalzare la Certosa. La posa della prima pietra risale al 1396, ma la consacrazione giunse solo nel 1497, lo stesso anno in cui il duca di Milano Ludovico il Moro, vivente, fece eseguire il cenotafio per sé e per la moglie Beatrice d’Este. Il monumento funebre si trova nella Certosa, mentre il calco è collocato al pianterreno del museo, nella cappella dedicata all’architetto Luca Beltrami, al quale si deve il primo allestimento della raccolta, inaugurata nel 1911-1912.

Un solido legame L’importanza religiosa e politica della Certosa si evince anche dal grande fervore architettonico, che nei decenni cavallo tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo coinvolse sia Milano che Pavia. Non a caso, i lavori per la realizzazione della chiesa pavese, cominciarono in

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Lo studiolo ducale Autentico gioiello tardorinascimentale lo studiolo ducale, detto anche Stanza del Priore, situato al primo piano del palazzo nobiliare, è stato prima lo studio privato dei duchi, poi del priore dei Certosini. Vero protagonista della Camera picta è il ricchissimo apparato decorativo di tradizione simbolica con ninfe, satiri, mascheroni, pegasi, mostri, molto fantasiosi e ibridi. Raffinate grottesche e suggestivi paesaggi, simili a quelli disegnati da Aurelio Luini nel monastero di S. Maurizio Maggiore a Milano, insieme a figure immaginarie e filologiche, creano ripetuti effetti illusionistici nella magica architettura di questo scrigno prezioso e fanno da sfondo a racconti di santi eremiti, anche certosini. Nel soffitto, al centro della volta, appare la raffigurazione del Sogno di Costantino, episodio ripreso da Piero della Francesca. Attorno all’ovale, personificazioni allegoriche delle arti celebrano l’importanza delle scienze matematiche e umanistiche, mentre nelle sottostanti lunette monocrome le storie di papi e imperatori, accompagnate da motti morali in latino, palesano le due principali tematiche, quella religiosa e quella politica, che dialogano e interagiscono fra loro nell’intero complesso monumentale. In basso il palazzo ducale, oggi sede del Museo della Certosa, e la facciata della chiesa di S. Maria delle Grazie.

contemporanea con quelli della fabbrica del Duomo di Milano e si conclusero con quelli del santuario milanese di S. Maria delle Grazie. Il forte fil rouge che unisce il Museo alla Certosa non si esaurisce però nell’esposizione delle opere d’arte, ma continua nel costante gioco di rimandi tematici e allusioni metaforiche ben evidente negli affreschi, che ornano la sala dell’oratorio, nei secoli scorsi luogo di culto della foresteria. Nella volta, infatti, il Fiammenghino, tra il 1630 e il 1635, rappresentò con un sorprendente effetto a trompe d’oeil la Gloria di San Bruno (1030-1101), fondatore dell’Ordine certosino. Accanto a personificazioni di virtú morali, fanno capolino, da un finto loggiato, alcune figure di frati, riprendendo il leitmotiv dei monaci che si affacciano dalla balaustra, che ottobre

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Cristo risorto, olio su tela di pittore lombardo. Copia di un dipinto su tavola del Bramantino, 1614 (?). Pavia, Museo della Certosa.

scherzano, che volgono lo sguardo ai fedeli, ricorrente nella Certosa. La devozione dei Certosini pavesi per Bruno di Colonia traspare anche nell’affresco del Fiammenghino, che adorna la volta della Gipsoteca, ospitata nella galleria o corridoio di San Bruno, al pianterreno del museo. Considerata una delle mostre di calchi piú ricche d’Italia, essa è custode di oltre duecento gessi, ricavati dalle sculture nella facciata della basilica e dai manufatti in cotto dei chiostri. Prodotte nel corso dei restauri del monumento, le copie sono state commissionate alla fine dell’Ottocento a scopo didattico, come studio per gli allievi delle scuole d’arte, e conservativo, come «ausilio» per la salvaguardia di una straordinaria facciata-cantiere, insigne espressione della scultura rinascimentale lombarda. Le sale del primo piano, nei secoli scorsi probabilmente adibite a salottini di ricevimento, sono

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ottobre

dedicate alla scultura e alla pittura tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. Accanto ad affreschi di Bernardino de’ Rossi, staccati dal chiostro grande della Certosa, si ammirano apparati decorativi, fregi, lunette, parti di bifore, che attestano la presenza di due spunti di osservazione dipendenti l’uno dall’altro: quello nobiliare, con stemmi viscontei e sforzeschi, e quello umanistico, con temi agiografici tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento.

Tracce di policromie Straordinarie sono le preziose sculture quattrocentesche in marmo della Crocifissione, di un anonimo artista lombardo, dell’Orazione nell’Orto, del Cristo portacroce e della Flagellazione, attribuiti a Giovanni Antonio Amadeo e collaboratori. Quest’ultima, al pari della Flagellazione firmata dallo scultore Antonio Mantegazza, esibisce resti

di finiture policrome, a indicare l’originale esistenza di pigmenti, che decoravano probabilmente diverse opere marmoree della Certosa. Il percorso si conclude con la Sala dei Capolavori, che accoglie splendidi quadri dei secoli XV e XVI. La ricchezza e la continuità della ricercata committenza ducale prima e certosina poi, è attestata dalle coppie di Angeli oranti di Ambrogio Bergognone, dal Sant’Ambrogio e dal San Martino e il povero di Bernardino Luini, dalla pala di Bartolomeo Montagna con la Madonna con il Bambino in trono fra i santi Giovanni Battista e Gerolamo e angeli musicanti e dai dipinti su tavola della fine del XVII secolo. La presenza di questi tre autori, impegnati nel cantiere della Certosa, permette un confronto fra eccellenti protagonisti, seppur assai differenti tra loro, della rivoluzione umanistica che coinvolse il linguaggio pittorico tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. L’autrice ringrazia per la collaborazione Emanuela Daffra, direttore del Polo Museale Regionale della Lombardia, e Giacomo Maria Prati, direttore del Museo della Certosa. Chiara Parente DOVE E QUANDO

Museo della Certosa di Pavia Certosa di Pavia, via del Monumento, 4 Orario il museo è aperto dal giovedí alla domenica, con i seguenti orari stagionali: da novembre a febbraio, 9,30-11,30 e 14,30-16,30; marzo e ottobre, 9,30-11,30 e 14,30-17,00; aprile e settembre, 9,30-11,30 e 14,30-17,30; da maggio ad agosto, 9,30-11,30 e 14,30-18,00 Info tel. 0382 924990; e-mail: museo.certosadipavia@ beniculturali.it; www.museo. certosadipavia.beniculturali.it

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ANTE PRIMA

Benvenuti nella «capitale della Storia»! APPUNTAMENTI • Si apre a Bologna il XVI Festival Internazionale della Storia,

nel segno della straordinaria attualità del nostro passato

L

a Festa della Storia di Bologna è una multiforme manifestazione a carattere nazionale e internazionale, che rende Bologna «capitale della Storia», mettendo in vetrina forme di promozione e diffusione della sua conoscenza condotte in Italia e nel mondo. Aule, teatri, musei, chiese, sale pubbliche, strade e piazze ospitano lezioni, conferenze, dibattiti, concerti, spettacoli e mostre dedicati ai temi che legano i vissuti personali e collettivi alle vicende presenti e future. Caratteristica peculiare e comune delle giornate bolognesi è il ruolo delle scuole, dell’Università, degli enti e delle associazioni culturali che, accanto ai grandi esperti e studiosi di richiamo, possono esibire ciò che hanno acquisito durante attività di ricerca volte a recuperare le radici del presente, valorizzando la storia della città e del territorio o mettendo a fuoco grandi temi storici. Nell’ambito della Festa internazionale della Storia vengono assegnati due prestigiosi riconoscimenti. Il primo è Il «Portico d’oro-Jacques Le Goff», un premio internazionale, intitolato al grande storico francese, che intende valorizzare figure e opere impegnate con correttezza ed efficacia nella diffusione e nella didattica della storia. Il premio si è avvalso della sovrintendenza di Jacques Le Goff e si avvale tuttora di alcuni dei piú apprezzati storici italiani ed europei.

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Il secondo è il Premio internazionale «Novi Cives-Costruttori di cittadinanza», che mira a valorizzare iniziative e personaggi che si sono distinti nell’impegno per la promozione dei diritti e per il dialogo interculturale.

Per sentirsi partecipi La XVI edizione della Festa, intitolata «Viva la storia viva», è in programma a Bologna dal 19 al 27 ottobre. Prendendo a prestito le parole del professor Rolando Dondarini, ideatore e presidente della Festa, «La Storia è viva», perché ha generato e plasma le situazioni e le vicende attuali che sono gli effetti transitori di una lunghissima serie di mutamenti che si sono succeduti nei millenni, lasciando tracce e retaggi ancora in gran parte percepibili nei contesti odierni. Rinvenire e osservare le loro ripercussioni nel presente permette non solo di comprenderne lo spessore storico, ma anche di trarre dalla loro conoscenza maggiori opportunità di scelta per il presente e per il futuro. «La Storia è viva», perché non c’è angolo del nostro corpo e della nostra mente che non sia frutto dei lasciti di migliaia di persone che ci hanno preceduto e pertanto perché siamo allo stesso tempo esiti e soggetti della storia; una storia di cui ci si deve sentire partecipi e artefici. «La Storia è viva», perché la

consapevolezza delle eredità che essa ci ha lasciato induce al rispetto e alla responsabilità nei confronti del patrimonio ambientale e storico-artistico. «La Storia è viva», perché, oltre l’apparente aridità delle pagine dei libri e delle sequenze di date ed eventi da ricordare che spesso ne deprimono il significato, c’è la vita di milioni di persone che hanno gioito, sofferto e amato come noi: ritrovarle e cercare di capirle può contribuire a renderci eredi consapevoli del passato e artefici preparati del futuro. (red.) DOVE E QUANDO

«Viva la Storia viva» XVI Festival Internazionale della Storia Bologna dal 19 al 27 ottobre Info www. festadellastoria.unibo.it

ottobre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

I tre giorni del beato

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

A

nche quest’anno è giunto per Vigevano il momento del Palio delle Contrade in onore del beato Matteo Carreri, il patrono della città che, com’è ormai tradizione, viene festeggiato nel secondo week end di ottobre. A differenza dell’edizione di maggio, a ottobre tutto comincia venerdí 11, quando, alle 20,45, dal sagrato del Duomo prende vita la Fiaccolata che porta le dodici contrade alla chiesa di S. Pietro Martire proprio per omaggiare il Beato con il dono del cero. Dalle 16,00 di sabato 12 ottobre, la Piazza Ducale comincerà ad animarsi e potrete ammirare i gruppi storici: Il Biancofiore con danze rinascimentali e Aurora Noctis con stravaganti giocolieri. Con loro vedrete anche i tamburi e le bandiere dei Musici Alfieri dell’Onda Sforzesca. Noterete anche uno strano personaggio, che non passerà inosservato e animerà la manifestazione con il suo parlare e i suoi giochi: il Rimattore Pier Paolo Pederzini. Al termine, i gruppi percorreranno via del Popolo per andare ad aprire le porte del castello, per la visita alle Corporazioni delle dodici Contrade, agli allestimenti proposti dai gruppi storici, al campo dei cavalli del Circolo Ippico El Sueno de Verano e agli accampamenti dell’Armeria Ducale. Gli Arcieri del Duca offriranno dimostrazione dell’arte del tiro con l’arco storico e daranno la possibilità ai piú coraggiosi di cimentarsi, mentre i combattenti della Fenice Viscontea daranno mostra di se stessi nella sublime arte del combattimento medievale. Nel pomeriggio si alterneranno quindi, tra il cortile del Castello e la Piazza Ducale, spettacoli di bandiere, giocoleria, cavalli, combattimenti, danza e musica. Durante tutta la manifestazione sarà possibile gustare sia succulenti pietanze calde, come zuppa di ceci, pasta con ragú bianco, frittelle di mele, pollo dorato e pesciolini fritti, sia marmellate, vini speziati, torte salate e biscotti. Alle ore 21,00 prenderà vita in Piazza Ducale il Corteo notturno, che risalirà lungo Via del Popolo per raggiungere il Cortile del Castello, dove, dalle 21,30 inizierà l’atteso spettacolo de «La Notte Sforzesca»: una notte di magia tra musici, bandieri, combattimenti, danza e giochi di fuoco.

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Due immagini di repertorio dell’ormai tradizionale appuntamento con il Palio delle Contrade di Vigevano. Domenica 13 ottobre, dalle 10,00, le porte del Castello si apriranno nuovamente per permettere la visita del Borgo Rinascimentale. Alle 10,45 in S. Pietro Martire avrà luogo il Solenne Pontificale in onore del beato Matteo Carreri presieduto dal Vescovo, S.E. Monsignor Maurizio Gervasoni. Dalle 12,30 alle 15,00 sarà nuovamente possibile gustare le pietanze proposte dalla Contrade per immergersi ancor meglio nello spirito della manifestazione. Dalle 15,00 infatti cominceranno a giungere nel Cortile del Castello i figuranti che alle 15,30 daranno il via al corteo storico. Il corteo percorrerà le vie del centro per poi far ritorno in Castello, dove il principe Galeazzo Maria Sforza, primogenito del Duca, darà inizio ai Giochi del Palio. Nell’edizione di ottobre i giochi sono piú articolati rispetto a maggio e vengono disputati dai giocatori delle dodici contrade. Da tradizione ci sarà la benedizione alle contrade e ai dodici stendardi da parte del Parroco della Contrada di San Crispino e Crispiniano, vincitrice del Palio 2018. Il cencio dipinto, come ogni anno, da un artista locale verrà consegnato a fine manifestazione alla contrada vincitrice. Infine, c’è ancora un impegno importante lunedí 14 ottobre, alle 18,30: presso S. Pietro Martire si celebrerà la Santa Messa di ringraziamento al beato Matteo Carreri con la partecipazione della contrada vincitrice del cencio. ottobre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Fedeli al papa APPUNTAMENTI • Soriano nel Cimino,

nel Viterbese, rievoca gli eventi che, alla fine del Quattrocento, valsero ai suoi abitanti la riconoscenza di Innocenzo VIII

Oggi, in occasione della Sagra delle Castagne – quest’anno in programma dal 4 al 6, dal 9 al 13 e dal 18 al 20 ottobre –, vengono proposti quadri scenici che rievocano i principali eventi vissuti da Soriano nel Medioevo, fino all’episodio di sangue del 1489.

Giochi della tradizione popolare

N

elle prime tre settimane di ottobre il piccolo centro di Soriano nel Cimino, adagiato sulle colline del Viterbese, torna ai fasti medievali in occasione della Sagra delle Castagne. Si tratta di una rievocazione storica che ha origini in una festa istituita dal Consiglio della Comunità alla fine del XV secolo, per ricordare un evento avvenuto il 7 novembre 1489 a Soriano: il tentativo di Pier Paolo Nardini, signore di Vignanello, di conquistare il castello degli Orsini, famiglia legata alla Santa Sede. Secondo la leggenda, quella notte un’anziana si accorse che alcuni mercenari vignanellesi, con Nardini in testa, si stavano avvicinando al maniero, intenzionati ad appropriarsene e a uccidere il castellano, lo spagnolo Didaco de Carvajal. La «vecchietta del Carnaiolo», cosí com’era soprannominata, svegliò i concittadini per avvertirli del pericolo. In un luogo poi denominato Fosso del Buon Incontro, i Sorianesi si avventarono contro il traditore e i suoi complici, gettandoli dalla torre del castello. Per premiarne la lealtà, papa Innocenzo VIII concesse alla popolazione locale agevolazioni economiche e autorizzò l’aggiunta sullo stemma comunale della parola Fidelitas.

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Le quattro contrade di Papacqua, Rocca, San Giorgio e Trinità danno vita anche a un corteo storico, con oltre 700 figuranti. Nelle strade del centro sono poi in programma un mercatino d’artigianato e antiquariato, e scene di vita quotidiana. Nella piazza centrale, allestita come un’arena, le contrade si sfidano in giochi della tradizione popolare, dalla corsa con i sacchi al tiro alla fune. La prima domenica di ottobre è tradizionalmente la giornata del Palio delle Contrade, che prevede due competizioni. Nella Giostra degli Anelli ogni contrada schiera un fantino che deve percorrere al galoppo un giro di pista nel minor tempo possibile e, nel contempo, infilzare con la lancia il piú alto numero di anelli disposti sul percorso. Nel Torneo degli Arcieri un tiratore per contrada scocca sei frecce per ciascuna delle tre manche, a diverse distanze dal bersaglio. Al rione col maggior punteggio totale, sommando la Giostra degli Anelli e il Torneo degli Arcieri, viene assegnato il Palio. Il feudo di Soriano nel Cimino iniziò ad assumere importanza sul finire del XIII secolo, quando fu affidato a Orso Orsini, nipote di papa Niccolò III. Nella prima metà del Quattrocento la Santa Sede ne regolò l’ordinamento amministrativo, ponendo un camerlengo a disciplina delle rendite e dei beni, un podestà a governo del paese e un castellano a gestione della rocca. Nel 1484 Soriano fu assegnata in vicariato perpetuo a Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI, che nominò castellano lo spagnolo Didaco de Carvajal. Tiziano Zaccaria ottobre

MEDIOEVO


Ricordando un gigante della letteratura

A

trenta chilometri da Madrid sorge l’antica cittadina di Alcalá de Henares, luogo natale del celebre scrittore, romanziere, poeta e drammaturgo Miguel de Cervantes (1547-1616), l’autore del Don Chisciotte. Il centro spagnolo deve il suo nome, «Alcalá», alla parola araba al-qal’a, che significa «roccaforte», eretta nel Medioevo sulle rive del fiume Henares. Al tempo della dominazione romana, invece, la cittadina si chiamava Complutum. Alcalá de Henares visse un periodo di gloria nel XVI secolo, quando per un breve periodo fu residenza reale: il cardinale locale Francisco Jiménez de Cisneros, alla morte di Ferdinando II di Aragona, fu reggente del trono di Spagna. A Cervantes, il suo concittadino piú illustre di sempre, Alcalá de Henares dedica un grande mercato medievale, rinominato Mercado Cervantino, che occupa tutto il centro storico per sei giorni di ottobre, quest’anno dall’8 al 13. Quattrocento fra bancarelle e banchetti, centinaia di venditori, artigiani e comparse fanno rivivere le atmosfere del XVI secolo ai visitatori che accorrono nella

MEDIOEVO

ottobre

cittadina spagnola. L’evento si svolge nell’ambito della Settimana Cervantina, che ha il suo momento clou nella giornata del 9 ottobre, giorno in cui avvenne il battesimo di Cervantes nel 1547, quando si svolge una fastosa processione civile e religiosa.

tennero prigioniero per ben cinque anni: venne liberato solo dietro il pagamento di un riscatto con l’aiuto della famiglia. Cervantes visse poi in ristrettezze economiche, dapprima

La fuga in Italia Nato da una famiglia modesta, Miguel era il quarto di sette figli. Nel 1570, per evitare la condanna al taglio della mano destra perché accusato di aver ferito un tale Antonio de Segura, Cervantes si rifugiò in Italia, dove prestò servizio alla corte degli Acquaviva, nel ducato di Atri. Un anno piú tardi s’imbarcò come soldato sulla galea Marquesa, appartenente alla flotta della Lega Santa, che sconfisse quella turca nella battaglia di Lepanto il 7 ottobre dello stesso anno. Durante il conflitto, Cervantes venne ferito dal colpo di un archibugio e perse l’uso della mano sinistra. Ma le sue disavventure non erano ancora finite. Nel 1575 fu rapito da un gruppo di pirati, che lo

vicino a Toledo, poi in Andalusia, dove fu coinvolto in una bancarotta fraudolenta e incarcerato, quindi a Valladolid insieme alle due sorelle e alla figlia Isabella. Nel 1606 si trasferí a Madrid, dove negli anni prima della morte scrisse il meglio della sua produzione, compreso il Don Chisciotte. T. Z.

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

NASCITA

LA DEL MEDIOEVO

CRISI, GUERRE E CONVERSIONI ALLE ORIGINI DELL’ETÀ DI MEZZO

I

l nuovo Dossier di «Medioevo» si interroga sull’inizio dell’età di Mezzo, spostando l’attenzione del lettore da una data convenzionale, il 476 d.C. – quando fu deposto l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo – ad alcuni degli eventi piú significativi del tormentato periodo compreso tra il IV e l’VIII secolo. Quattrocento anni durante i quali le incursioni di popoli germanici, la crisi economica, la fame, le epidemie ebbero conseguenze gravi sul tessuto sociale, demografico e istituzionale del continente europeo.

Dossier

GLI ARGOMENTI

NASCITAO

IOEV DEL MerrED e e conversioni VO LA NASCITA DEL MEDIOE

Crisi, gu Mezzo alle origini dell’età diNE PAGANA

RESTAURAZIO ♦ GIULIANO E LA E E LA FINE A STEPPA ♦ ODOACR ♦ ATTILA E I LUPI DELL E LA NASCITA ANO ♦ I VICHINGHI ROM ERO OPA ’IMP DELL E L’ALBA DELL’EUR I NCH FRA I ♦ DELL’INGHILTERRA

€ 7,90

AGOSTO 2019 IN EDICOLA IL 29

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ROC 0703 Periodico mento – Aut. n° Spedizione in abbona Italiane S.p.A. – ing S.r.l. – Poste Timeline Publish

O V IO D E E M

Bimestrale ttobre 2019 Rivista N°34 Settembre/O

ER MEDIOEVO DOSSI

NA CQ Q UE UA IL ND ME O DI OE VO

Un’epoca complessa, in cui il cristianesimo svolse un ruolo sempre piú importante nella storia d’Europa e nella definizione della sua identità e – attraverso la conversione – la Chiesa consentí anche l’inserimento delle stirpi «barbare» nel solco profondo della civiltà romana. L’immagine di Costantino I assiso tra i vescovi al primo concilio ecumenico di Nicea, tenuto nel 325, diventa l’icona di questa mutazione e sembra prefigurare l’imperatore franco Carlo Magno, attorniato dal clero della sua corte, ad Aquisgrana.

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• GIULIANO E LA RESTAURAZIONE PAGANA • ATTILA E I LUPI DELLA STEPPA • ODOACRE E LA FINE DELL’IMPERO ROMANO • I VICHINGHI E LA NASCITA DELL’INGHILTERRA • I FRANCHI E L’ALBA DELL’EUROPA


Attila, seguito dalle sue orde barbariche, schiaccia l’Italia e le arti, olio e cera su intonaco di Eugène Delacroix. 1838-1847. Parigi, Palais Bourbon.






AGENDA DEL MESE

Mostre PADOVA LA MAZZA E LA MEZZALUNA. TURCHI, TARTARI E MORI AL SANTO Musei Antoniani, basilica di S. Antonio fino al 4 ottobre

Il progetto espositivo ruota intorno a un oggetto particolare: la mazza da cerimonia donata alla basilica dal re polacco Giovanni III Sobieski, che la storia ricorda come colui che alle porte di Vienna inflisse all’esercito

a cura di Stefano Mammini

grande mare Mediterraneo fu continuamente solcato da uomini, da merci e da idee, sicché anche sulle pareti dell’Urbs Picta antoniana, soprattutto nell’oratorio di S.Giorgio e nella cappella di S. Giacomo Altichiero da Zevio, nell’ultimo terzo del Trecento, mise in scena i Tartari, i Saraceni, i Mori: avendo, come non di rado questa iconografia registra, un tema sacro importante, diffuso e di garbata scenografia. Proprio l’Adorazione dei Magi, con il suo corteo al seguito dei re sapienti, mostra queste presenze foreste, perché già nel Trecento il gusto per l’esotico affascinava l’Occidente. info www.santantonio.org FANO

turco una determinante sconfitta nel 1683. E cosí figure affrescate, missionari e viaggiatori, autori di reportage di viaggio nell’Estremo Oriente, come il beato Odorico da Pordenone (che lo scrisse nel 1330, proprio nel convento del santo), sono stati individuati e messi in relazione, volta per volta con realtà storiche differenziate, su cui è invece opportuno porre attenzione. Saraceni, Infedeli, Mori, Ebrei, Mongoli, Tartari, Ottomani, Pirati, Turchi: parole diverse che significano periodi ed eventi diversi, ma che hanno in comune il tema dell’incontro: a volte tragico e drammatico, a volte foriero di scambi commerciali e culturali. E se la storia della politica e della diplomazia andarono in un senso, vale ricordare che il

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LEONARDO E VITRUVIO: OLTRE IL CERCHIO E IL QUADRATO. ALLA RICERCA DELL’ARMONIA. I LEGGENDARI DISEGNI DEL CODICE ATLANTICO Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano, Sala Morganti fino al 13 ottobre

Compresa nel ciclo «Mostre per Leonardo e per Raffaello» a Pesaro, Fano e Urbino, l’esposizione racconta la battaglia tra un uomo e un libro, tra Leonardo e Vitruvio. Lo fa nella città del grande architetto romano, luogo della leggendaria basilica oggetto di recenti indagini archeologiche

e su cui, dal Rinascimento in avanti, si sono misurate intere generazioni di architetti. I visitatori hanno la rara opportunità di un incontro ravvicinato con cinque disegni originali di Leonardo dal leggendario Codice Atlantico conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. La selezione copre l’intero periodo d’attività dell’artista, dagli ultimi decenni del Quattrocento ai primi del Cinquecento, spaziando da progetti per macchine militari (la balestra gigante), per la misurazione del tempo (l’orologio idraulico) e della distanza (l’odometro), fino a fogli di soggetto architettonico (la sezione del tiburio della cattedrale di Milano) e geometrico (le «lunule», gli esercizi per la quadratura del cerchio). Accanto a questi cinque «protagonisti» verranno affiancate le principali edizioni cinquecentesche del trattato di Vitruvio: i testi che Leonardo potrebbe aver conosciuto e sfogliato. info tel. 392 0972255; www.mostreleonardoraffaello.it; e-mail: fano@sistemamuseo.it URBINO DA RAFFAELLO. RAFFAELLINO DEL COLLE Palazzo Ducale, Sale del Castellare fino al 13 ottobre

Pittore colto, che elaborò una delle piú originali e autentiche espressioni del manierismo fuori Firenze, Raffaellino del Colle è protagonista della rassegna che fa da apripista alle celebrazioni urbinati del 2020 per il quinto centenario della morte di Raffaello Sanzio (1483-1520), del quale Raffaellino (1494/97-1566) fu uno dei piú fedeli e intelligenti seguaci. La mostra ripercorre l’attività del maestro di Sansepolcro, discepolo del «divin pittore», che, pur essendo stato largamente attivo nelle Marche, necessita a oggi di una rivalutazione storica e di una maggiore divulgazione. Per la prima volta si possono ammirare riunite alcune delle sue opere piú significative provenienti da chiese e musei di Roma, Cagli, Mercatello sul Metauro, Perugia, Piobbico, Sansepolcro, Sant’Angelo in Vado, Urbania, Urbino. Il percorso è introdotto da due opere di Raffaello custodite nella raccolta dell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma: una tavoletta, pressoché inedita, con la Madonna con il Bambino e l’affresco staccato con Putto reggifestone. info tel. 0721 387541; e-mail: urbino@sistemamuseo.it; www.mostreleonardoraffaello.it ottobre

MEDIOEVO


TORINO L’ITALIA DEL RINASCIMENTO. LO SPLENDORE DELLA MAIOLICA Palazzo Madama, Sala Senato fino al 14 ottobre

Allestita nella Sala del Senato di Palazzo Madama, «L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica» presenta un insieme eccezionale di maioliche rinascimentali prodotte dalle piú prestigiose manifatture italiane, riunendo per la prima volta oltre 200 capolavori provenienti da collezioni private tra le piú importanti al mondo e dalle raccolte dello stesso Palazzo Madama. Il percorso espositivo si apre con una grande vetrina, che evoca il mobile protagonista della sala da pranzo rinascimentale, la credenza, dove le raffinate maioliche erano esposte sia per essere ammirate sia per servire all’apparecchiatura della tavola. Si passa quindi a documentare l’attività dei principali centri produttori in Italia – Deruta, Faenza, Urbino, Gubbio, Venezia, Castelli e Torino –, per poi illustrare la varietà di temi riprodotti sulla maiolica istoriata. Tra il 1400 e il 1500 si amplia e si differenzia l’uso delle maioliche nella vita sociale:

MEDIOEVO

ottobre

nell’arredamento della casa, in particolare nelle residenze di campagna, le maioliche istoriate venivano esposte sulle credenze ma anche usate sulle tavole e potevano essere offerte come doni in occasioni quali il matrimonio e il battesimo. L’epilogo è affidato a una serie di capolavori: una coppia di albarelli di Domenigo da Venezia, un rinfrescatoio di Urbino e la brocca in porcellana medicea di Palazzo Madama, eccezionale esemplare della prima imitazione europea della porcellana cinese, realizzato da maiolicari di Urbino che lavoravano a Firenze alla corte di Francesco I de’ Medici. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it VINCI LEONARDO DA VINCI. ALLE ORIGINI DEL GENIO Museo Leonardiano fino al 15 ottobre

Il Museo Leonardiano di Vinci propone una rassegna incentrata sul legame biografico del maestro con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrí al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. Vengono cosí presentati i documenti concessi in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, grazie ai quali è possibile ricostruire le primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P) datato dall’artista 5 agosto 1473, concesso in prestito al Museo Leonardiano per le prime sei settimane

dell’esposizione. Attorno a quest’opera giovanile, che costituisce una sorta di palinsesto di tutta la futura produzione di Leonardo, si dipana l’intero percorso espositivo. info www.museoleonardiano.it FIRENZE TUTTI I COLORI DELL’ITALIA EBRAICA. TESSUTI PREZIOSI DAL TEMPIO DI GERUSALEMME AL PRÊT-À-PORTER Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 27 ottobre

La storia degli Ebrei italiani osservata da una prospettiva inedita e cromaticamente caleidoscopica, quella dell’arte del tessuto: è questa la proposta sviluppata nell’Aula magliabechiana della Galleria degli Uffizi. Circa 140 opere – tra arazzi, stoffe, addobbi, merletti, abiti, dipinti e altri oggetti di uso religioso e quotidiano – presentano per la prima volta le vicende delle comunità ebraiche della Penisola attraverso una delle arti meno conosciute, ossia la tessitura, che nel mondo ebraico ha sempre rivestito un ruolo fondamentale nell’abbellimento di case, palazzi e luoghi di culto. Ne emerge un ebraismo attento alla tradizione, ma anche gioioso, colorato, ricco di

simboli. Si riconosce inoltre il carattere interculturale e internazionale di questo popolo, soprattutto grazie all’eccezionale varietà dei motivi sui tessuti, dove il colore spesso predomina in maniera stupefacente. Nel percorso è possibile ammirare pezzi rarissimi, provenienti da musei e collezioni straniere, che conducono idealmente il visitatore attraverso le feste ebraiche: tra questi i frammenti ricamati provenienti dal Museum of Fine Arts di Cleveland, le due tende dal Jewish Museum di New York e dal Victoria and Albert Museum di Londra che, insieme a quella di Firenze, formano un trittico di arredi (per la prima volta riuniti

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AGENDA DEL MESE insieme) simili per tecnica e simbologia. Straordinario e unico è un cofanetto a niello della fine del Quattrocento proveniente dall’Israel Museum di Gerusalemme che, come una sorta di computer ante litteram a uso della padrona di casa, tiene il conto della biancheria via via consumata dai componenti della famiglia. info www.uffizi.it MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre

Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia milanese torna alle origini, esponendo le due collezioni con le quali ha

aperto le sue porte al pubblico il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, permette di continuare a godere della collezione dei

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modelli leonardeschi nel periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per ristrutturazione. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org

di capolavori in velluto con ricchi ricami in seta e oro prodotti presso centri che all’epoca assicuravano un assoluto grado di perfezione tecnica e formale, come Firenze, Venezia e Milano. Dopo oltre cinque secoli, affiorano capolavori inediti che testimoniano influssi derivanti da diverse tradizioni tessili, comprendendo anche esempi che denunciano la circolazione

ROMA LUCA SIGNORELLI E ROMA. OBLIO E RISCOPERTE Musei Capitolini, Sale Espositive di Palazzo Caffarelli fino al 3 novembre

I Musei Capitolini rendono omaggio a Luca Signorelli (Cortona, 1450 circa-1523), celebrando, per la prima volta a Roma, uno dei piú grandi protagonisti del Rinascimento italiano. Attraverso opere di grande prestigio provenienti da collezioni italiane e straniere, l’esposizione mette in risalto il contesto storico-artistico in cui avvenne il primo soggiorno romano dell’artista e offre nuove letture sul legame diretto e indiretto che si instaurò fra l’artista e Roma. Organizzato in sette sezioni, il percorso si apre con un’introduzione sull’errore vasariano del vero volto dell’artista, rappresentato nelle due diverse sembianze dai Busti realizzati da Pietro Tenerani e da Pietro Pierantoni, per poi passare alla Roma del pontefice Sisto IV (1471-1484), fra le antichità capitoline, e davanti ad alcune opere del maestro in cui monumenti, antichità cristiane, e statuaria classica osservati a Roma rivivono o vengono rievocati, come il Martirio di san Sebastiano, il Cristo in croce e Maria Maddalena, il tondo di Monaco e la pala di Arcevia. Il percorso prosegue all’interno della Cappella Nova di Orvieto, ricostruita attraverso un gioco di riproduzioni retroilluminate, per giungere

davanti ad alcuni suoi capolavori sul tema della grazia e dell’amore materno. Seguono poi le sezioni dedicate al soggiorno di Signorelli a Roma sotto il pontefice Leone X (15131521) e ai suoi rapporti con Bramante e Michelangelo. A conclusione della visita, un capitolo è dedicato alla riscoperta del Maestro tra Otto e Novecento nell’arte, nella letteratura e nel mercato antiquario. info www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it TRENTO FILI D’ ORO E DIPINTI DI SETA. VELLUTI E RICAMI TRA GOTICO E RINASCIMENTO Castello del Buonconsiglio fino al 3 novembre

Piviali in luminoso velluto, pianete scintillanti di oro e d’argento, dalmatiche con ricami in fili di seta variopinta, preziose stoffe fiorentine e veneziane dai molteplici ornati, oltre a dipinti sacri di Altobello Melone, Michele Giambono, Francesco Torbido, Rocco Marconi, e i due magnifici dipinti del misterioso Maestro di Hoogstraeten, raccontano l’affascinante storia dei preziosi manufatti tessili eseguiti tra la seconda metà del XV secolo e i primi decenni del XVI secolo in Italia e nell’Europa del Nord. Si tratta

di manufatti importati da grandi centri di produzione transalpini tramite gli intensi scambi commerciali tra la penisola italiana e i fiorenti mercati delle Fiandre e della zona del Reno e il desiderio di sfarzo dei piú facoltosi committenti. La mostra «Fili d’oro e dipinti di seta» è la prima iniziativa che approfondisce questa particolare categoria di lussuosi tessuti ricamati ancora presenti nelle aree dell’intero arco alpino, a suo tempo creati sia per la committenza religiosa che laica, ma sopravvissuta fino a oggi grazie alla lungimirante attività di conservazione della ottobre

MEDIOEVO


Chiesa e alla passione di molti collezionisti. info tel. 0461 233770; www.buonconsiglio.it BARD (AOSTA)

nelle sue aree ancora da ricostruire. info tel. 0125 833811; e-mail: info@fortedibard.it; www.fortedibard.it

L’AQUILA. TESORI D’ARTE TRA XIII E XVI SECOLO Forte di Bard fino al 17

PARIGI

novembre

Le fonti giudiziarie risalenti alla fine del Medioevo permettono di venire a conoscenza di numerosi casi che ridimensionano l’immagine di un sistema violento e sbrigativo che troppo spesso viene associato alla giustizia medievale. E, soprattutto, consentono di fissare una gerarchia dei crimini diversa da quella moderna, in seno alla quale la notorietà (la fama) degli

Gli spazi espositivi ricavati nella poderosa fortezza valdostana accolgono una selezione di opere recuperate e restaurate – 14 tra oreficerie, sculture in terracotta, pietra e legno, dipinti su tavola e tela – provenienti dalle chiese aquilane e dal Munda, Museo nazionale d’Abruzzo. Dalle Madonne con Bambino del Maestro di Sivignano e di Matteo da Campli a quella detta Delle Grazie; dal grande Crocefisso della Cattedrale alla Croce processionale di Giovanni di Bartolomeo Rosecci; dall’elegante e leggero San Michele arcangelo di Silvestro dell’Aquila allo splendido San Sebastiano di Saturnino Gatti; dal Sant’Equizio di Pompeo Cesura fino alle grandi tele di Mijtens, la mostra si propone come una storia di sopravvivenze, un omaggio alla città dell’Aquila nel decennale del sisma e una testimonianza della grande ricchezza della sua arte. Alle opere si affianca l’esposizione fotografica, inedita, La città nascosta di Marco D’Antonio, che presenta 15 grandi fotografie dedicate all’Aquila notturna, ripresa

MEDIOEVO

ottobre

CRIMINI E GIUSTIZIA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans peur fino al 29 dicembre

individui coinvolti ha un ruolo importante, a prescindere dalla loro estrazione sociale, cosicché l’omicidio per motivi d’onore diviene spesso tollerabile. Organizzata per celebrare i vent’anni di attività della Tour Jean sans peur come spazio espositivo e a 600 anni dall’assassinio del suo antico proprietario – il duca di Borgogna Giovanni senza Paura –, la mostra offre

dunque un quadro per molti aspetti sorprendente della società dell’età di Mezzo, che vede giudici e imputati ricorrere con frequenza al compromesso e la popolazione farsi parte attiva nel decidere la sorte dei condannati. info www.tourjeansanspeur.com VINCI LEONARDO VIVE Museo Ideale Leonardo da Vinci fino al 31 dicembre

La terza (Leonardo e il Rinascimento del vino) approfondisce i rapporti di Leonardo con il territorio e con l’agricoltura, che ebbe un ruolo importante nella sua biografia e nei suoi molteplici studi. La quarta (Leonardismi attraverso i secoli) procede dalle cartelle dei Nodi vinciani xilografate da Albrecht Dürer agli inizi del Cinquecento, prosegue tra l’immagine di Leonardo e antiche incisioni d’après, giunge al furto del 1911 e alla Gioconda L.H.O.O.Q. di Duchamp, fino a Dalí, Beuys, Warhol e altri protagonisti delle neoavanguardie internazionali. Per l’Attualità di Leonardo, spicca il Dialogo con il Paesaggio di Leonardo del 1473 del pittore cinese Xu Li giunto da Pechino. info www.museoleonardo.it BOLOGNA

Organizzata per tenere a battesimo la riapertura del Museo Ideale Leonardo Da Vinci e la realizzazione del nuovo Museo Leonardo e il Rinascimento del vino, a Sant’Ippolito in Valle, la mostra esemplifica l’attualità di Leonardo nell’arte e nella cultura contemporanea, e presenta anche i risultati delle ricerche genealogiche attraverso venti generazioni fino al presente e al DNA. Il percorso si articola in cinque sezioni. La prima (Leonardo Heritage) propone documenti d’archivio e reperti frutto di studi genealogici. La seconda riguarda la bottega di Leonardo: la Gioconda nuda, e anche la Santa Caterina nella macchina di tortura di un allievo di Leonardo (Giampietrino), che presenta impronte digitali e palmari.

LA CASA DELLA VITA. ORI E STORIE INTORNO ALL’ANTICO CIMITERO EBRAICO DI BOLOGNA Museo Ebraico fino al 6 gennaio 2020

Gli straordinari reperti di uno dei piú ampi cimiteri ebraici medievali del mondo, rinvenuto alcuni anni fa a Bologna in via Orfeo, poco lontano dalle mura trecentesche, sono finalmente visibili dopo anni di studi e restauri. Gioielli in oro di eccezionale fattura e bellezza, pietre incise, oggetti in bronzo

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AGENDA DEL MESE recuperati in oltre quattrocento sepolture, attestano la presenza a Bologna di una fiorente comunità, proficuamente inserita nel contesto urbano e sociale fino all’espulsione, avvenuta per volere del papa nel 1569, e offrono lo spunto per ripercorrere, in maniera globale e sistematica, la storia di una minoranza, i suoi usi, la sua cultura e le sue interazioni con la società cristiana del tempo. info www.museoebraicobo.it PARIGI SCRIGNI MISTERIOSI. STAMPE AL TEMPO DELLA DAMA E L’UNICORNO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 6 gennaio 2020

La Dama e l’Unicorno, uno dei vanti del Museo di Cluny, è ancora una volta al centro di

un progetto espositivo temporaneo, questa volta incentrato sulla figura di Jean d’Ypres, il pittore al quale si devono i disegni preparatori del celebre ciclo di arazzi, che furono ripresi anche per una vasta produzione di stampe, molte delle quali destinate a ornare scrigni e cofanetti. Attivo sul finire del XIV secolo, Jean d’Ypres firmò bozzetti per

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stampe, arazzi e vetrate, che hanno in molti casi dato origine ad altrettanti capolavori dell’arte tardo-medievale. Possiamo per esempio citare il San Sebastiano, incollato all’interno di un cofanetto entrato a far parte delle collezioni del Museo di Cluny nel 2007, che rivela uno stile attento ai dettagli, in cui si fondono il realismo dei pittori fiamminghi con le mode dell’arte parigina. Oppure i cartoni per le vetrate dell’edificio nel quale ha oggi sede il museo stesso, una delle quali, raffigurante il Trasporto della Croce, figura in mostra non lontano dalla Dama e l’Unicorno. info www.musee-moyenage.fr NEW YORK

famiglia che, come suggerisce l’iscrizione mazel tov che si legge su uno degli anelli, doveva far parte della comunità ebraica di Colmar, che, alla metà del Trecento, subí un atroce destino. Gli Ebrei vennero infatti ritenuti responsabili della Peste Nera che flagellò l’Europa fra il 1348 e il 1349 e furono dunque vittime di accanite persecuzioni. Oltre a offrire l’opportunità di ammirare il tesoretto, la mostra allestita presso i Cloisters ripercorre dunque l’intera vicenda storica, sottolineando i drammi vissuti dalle minoranze ebraiche nel XIV secolo. info www.metmuseum.org URBINO

IL TESORO DI COLMAR: UN’EREDITÀ DEL MEDIOEVO EBRAICO The Metropolitan Museum of Art fino al 12 gennaio 2020

RAFFAELLO E GLI AMICI DI URBINO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 19 gennaio 2020 (dal 3 ottobre)

Un tesoretto di gioielli e monete rimase per oltre 500 anni celato fra le mura di una casa della città francese di Colmar. Nascosto nel XIV secolo, tornò alla luce nel 1863 ed entrò quindi a far parte delle collezioni del Museo di Cluny, a Parigi. Ne fanno parte anelli con zaffiri, rubini e turchesi, spille tempestate di pietre preziose, una cintura finemente smaltata, bottoni dorati e oltre 300 monete. Doveva trattarsi dei beni piú preziosi di una

Promossa e organizzata dalla Galleria Nazionale delle Marche, la mostra «indaga e per la prima volta in modo cosí compiuto racconta – come ha dichiarato Peter Aufreiter, direttore del museo urbinate – il mondo delle relazioni di Raffaello con un gruppo di artisti operosi a Urbino che accompagnarono, in dialogo ma da posizioni e con stature diverse, la sua transizione verso la maniera moderna e i suoi sviluppi stilistici durante la memorabile stagione

romana». Fondamentale fu il ruolo giocato da Pietro Perugino nella formazione e nel primo tratto dell’attività di Raffaello, qui letta in parallelo con quella dei piú maturi concittadini Timoteo Viti (1469-1523) e Girolamo Genga (1476 circa-1551), le ricerche dei quali ebbero a intersecarsi con il periodo fiorentino e con l’attività romana del Sanzio. «La mostra vuole essere – secondo le curatrici, Barbara Agosti e Silvia Ginzburg – un’occasione per misurare, in un contesto specifico di estrema rilevanza quale quello urbinate e nelle sue tappe maggiori, la grande trasformazione che coinvolse la cultura figurativa italiana nel passaggio tra il Quattro e il Cinquecento. A queste scansioni corrispondono, nella riflessione storiografica costruita da Vasari e fatta propria dagli studi successivi, il momento iniziale dell’adesione dei pittori della fine del secolo XV alle prime novità introdotte da Leonardo, ovvero alla adozione di quella “dolcezza ne’ colori unita, che cominciò a usare nelle cose sue il Francia bolognese, e Pietro Perugino; et i popoli nel vederla corsero, come matti a questa bellezza nuova e piú viva, parendo loro assolutamente che e’ non si potesse già mai far meglio”». info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it ottobre

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PARIGI

PERUGIA

VINCI

L’ARTE RICAMATA Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 gennaio 2020 (dal 24 ottobre)

MADONNA COL BAMBINO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 26 gennaio 2020

SE FOSSE UN ANGELO DI LEONARDO… Centro espositivo Leo-Lev fino al 2 febbraio 2020 (dal 5 ottobre)

Il ricamo è un’arte di lusso, per la quale si faceva ricorso a materie prime preziose, come la seta, l’oro e l’argento. Ed è dunque un autentico status symbol, che si ritrovò al centro di intensi scambi commerciali. Grazie alla maestria affinata nel tempo da artigiani attivi in molte regioni d’Europa, gualdrappe per cavalli, scarselle o paramenti liturgici s’arricchirono di stemmi, scene a soggetto religioso e profano. E nel mondo ecclesiastico e presso le famiglie piú nobili e ricche al ricamo si fa ricorso anche per decorare pareti ed elementi d’arredo. L’esposizione presentata al Museo di Cluny

offre dunque una rassegna dei principali centri e aree di produzione, dal mondo germanico all’Italia, passando per le Fiandre, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia. Al contempo, definisce un quadro del ruolo sociale e del valore artistico del ricamo medievale, documentando le tecniche, i processi di lavorazione e le relazioni fra committenti, ricamatori e ricamatrici, pittori e mercanti. info www.musee-moyenage.fr

MEDIOEVO

ottobre

A coronamento di un’altra brillante operazione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, si può ammirare, fino al prossimo gennaio, la Madonna col Bambino del Pinturicchio

trafugata nel novembre 1990 presso un’abitazione privata di Perugia. La preziosa tavola era ricomparsa nel 2018, con una falsa attribuzione a Bartolomeo Caporali, per essere venduta all’asta nel Regno Unito, ma, grazie alla rogatoria internazionale subito presentata, è stato possibile procedere al suo sequestro e al successivo recupero. Prima che venga restituito ai legittimi proprietari, la Galleria Nazionale dell’Umbria offre dunque l’occasione di vedere il dipinto, che il Pinturicchio realizzò verosimilmente fra gli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento, e di confrontarlo con le opere del maestro perugino presenti nella sala 24 del museo e con quelle di Bartolomeo Caporali, conservate anch’esse in Galleria. info https:// gallerianazionaledellumbria.it/

Attribuito da Carlo Ludovico Ragghianti alla scuola del Verrocchio e da Carlo Pedretti al giovane Leonardo da Vinci, l’Angelo Annunciante custodito nella Pieve di San Gennaro in Lucchesia (Capannori, Lucca) è la piú grande fra le sculture ascritte al genio del Rinascimento. L’opera, recentemente restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure, è al centro della mostra visitabile nel nuovo centro «Leo-Lev», complesso culturale nato dall’imponente intervento di recupero architettonico e urbanistico dell’ex villa BellioBaronti-Pezzatini e piazza Pedretti nel centro storico di Vinci. Per far conoscere ai visitatori la pigmentazione originale è esposta anche una copia a grandezza naturale dell’Angelo realizzata dall’Opificio con i materiali e le tecniche pittoriche dell’epoca, oltre a diversi contributi multimediali dedicati alla scultura e al suo recupero. info tel. 0571 1735135

per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Fanno da corredo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it URBINO

LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 13 aprile 2020 (dal 31 ottobre)

Fulcro della mostra sono alcuni progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico testimoniano i risultati raggiunti. Infine, il progetto

La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e

SANSEPOLCRO

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AGENDA DEL MESE propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

Appuntamenti SALERNO «TRACCE DEI NORMANNI A SALERNO (XI-XII SEC.). STORIA, INSEDIAMENTI, MONETE» Archivio di Stato, Salone Bilotti 4 ottobre

L’incontro intende richiamare l’attenzione sul patrimonio culturale storico-numismatico lasciato in Italia meridionale dai gruppi normanni nel corso dell’alto Medioevo. Questa traccia mostra la propria importanza per lo sviluppo storico del Mezzogiorno proprio attraverso la disamina delle testimonianze materiali, in particolare di quelle numismatiche. Attraverso gli interventi in programma si vuole dunque gettare nuova luce su un tema, quello dei Normanni nel Sud, che può offrire ancora nuovi spunti di ricerca per definire meglio la rilevanza rivestita dalla documentazione numismatica nel processo d’indagine storica per i secoli XI e XII. info www.socnumit.org BERGAMO BERGAMOSCIENZA XVII EDIZIONE 5-20 ottobre

Torna il festival di divulgazione scientifica organizzato dall’Associazione BergamoScienza, appuntamento annuale che

per 16 giornate animerà la città di Bergamo con incontri, conferenze, dialoghi e spettacoli – tutti gratuiti – dedicati alla scienza. Con un linguaggio chiaro e accessibile, scienziati di fama internazionale offriranno e

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APPUNTAMENTI • «Ottocento anni dal Gerusalemme – Custodia di Terra Santa

fino al 4 ottobre info https://www.custodia.org/it

N

ella tarda estate del 1219, Francesco si recava a Damietta, al pari di migliaia di altri pellegrini e crociati. In un momento imprecisato, collocabile con una buona approssimazione tra il 29 agosto e il 5 novembre, penetrò nel campo nemico, accolto nel «majlis» del sultano: la tenda adibita alle pubbliche discussioni. L’aurea di mistero che avvolge quell’incontro è ancora oggi intatta. Desiderava porre fine al conflitto? O era sua intenzione convertire il sultano? Forse ch’egli ricercasse il martirio? Voleva, forse, dimostrare la possibilità d’un dialogo che andasse al di là del cozzare delle armi? Si può pensare che la sua presenza presso il campo crociato rientrasse nella piú generale volontà di sostenere una cristianità in armi, alla stregua di qualsiasi altro penitente aggiorneranno il pubblico del festival sulle possibili soluzioni per affrontare le sfide ambientali e sociali della società contemporanea. Focus dell’edizione 2019 della rassegna è la sostenibilità della vita sul pianeta, sia in termini di impatto climatico e salute dell’acqua e dell’aria che di alimentazione: è possibile avere un mondo che funzioni al 100% utilizzando energie rinnovabili? Sono inoltre previsti approfondimenti sulle storie dei due grandi scienziati Leonardo da Vinci e Galileo Galilei. info www.bergamoscienza.it MARTINENGO (BERGAMO)

MARENDÍ DEL PALIO E MEDIOEVO IN CASTELLO XXIII EDIZIONE 19-20 ottobre

La manifestazione prevede, a partire dalle 20,00 di sabato, la possibilità di cenare (acquistando il piatto commemorativo della serata)

passeggiando sotto gli antichi porticati dove si possono ritirare le prelibatezze offerte dai commercianti. Durante la stessa serata è altresí possibile scoprire, accompagnati da giullari e cantastorie, il «Medioevo in castello», una parte del centro cittadino allestita storicamente per l’occasione. Nella giornata di domenica, è in programma la 39a edizione del «Palio dei Cantú», che prevede, sin dal mattino, l’occupazione del centro storico da parte degli armigeri con i loro accampamenti, nei quali poter scoprire aneddoti legati al Medioevo. In tarda mattinata si potrà assistere ai loro combattimenti e all’estrazione degli asini per la competizione del pomeriggio. Alle 14,30 prende il via la sfilata medievale, aperta dagli sbandieratori di San Secondo Parmense. Subito dopo iniziano le sfilate storiche, dove i 5 Cantú in lotta tra di loro, offrono al pubblico uno ottobre

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Pellegrinaggio di Pace di San Francesco in Terra Santa», Incontro internazionale convinto che la crociata fosse opera di Dio? O nel nostro è da leggere un rifiuto o – se si vuole – un «superamento» dell’ideale crociato? Simili interrogativi hanno attanagliato decine di studiosi, concordi, tuttavia, nel sottolineare l’importanza di quell’incontro. Alla sua memoria sono dedicate, oggi, celebrazioni ufficiali. Presso la Custodia di Terra Santa, a Gerusalemme, è in corso, fino al 4 ottobre, l’incontro internazionale «Ottocento anni dal Pellegrinaggio di Pace di San Francesco in Terra Santa», ultima d’una serie d’iniziative che hanno costellato questo importante centenario, spettacolo fatto di circa 400 figuranti in abiti medievali. Al termine delle sfilate si svolge la corsa degli asinelli, che si cimentano sul percorso previsto nel centro storico. info Claudio Asperti, segretario «Gruppo Folcloristico Bartolomeo Colleoni», tel. 338 2526790; www.gruppocolleonimartinengo.it; e-mail: colleonimartinengo@ tiscali.it SIENA «COME IN CIELO COSÍ IN TERRA». DALLA PORTA ALLA CITTÀ DEL CIELO AL PAVIMENTO. SCOPERTURA DEL PAVIMENTO DEL DUOMO fino al 27 ottobre

Ancora per qualche settimana, la Cattedrale di Siena scopre il suo magnifico pavimento a commesso marmoreo, frutto di cinquecento anni di espressione artistica, un viaggio simbolico alla ricerca dei piú alti valori dello spirito umano. Dal Museo dell’Opera, con la salita alla città del cielo, dall’alto muro sarà possibile non solo leggere i monumenti senesi piú significativi, ma anche «vedere un nuovo cielo e una nuova terra» (Apocalisse 21,1). Il percorso «dall’alto»

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permette di comprendere meglio la dedicazione del Duomo di Siena all’Assunzione della Madonna e il forte legame che i cittadini senesi hanno da secoli con la loro «patrona»: Sena vetus civitas Virginis. La Madonna si definisce anche come Sedes Sapientiae, «sede di Sapienza», e invita i cittadini a «visitare castamente il suo castissimo tempio», come si legge nell’iscrizione d’ingresso al Pavimento. info tel. 0577 286300: e-mail: operasiena@operalaboratori.com; operaduomo.siena.it ROMA VIAGGI NELL’ANTICA ROMA Foro di Augusto: via Alessandrina, lato Largo Corrado Ricci Foro di Cesare: Foro Traiano, in prossimità della Colonna Traiana fino al 3 novembre

Torna il progetto Viaggi nell’antica Roma, che, attraverso due spettacoli multimediali, fa rivivere la storia del Foro di Cesare e del Foro di Augusto. Grazie a sistemi audio con cuffie e accompagnati dalla voce di Piero Angela e da filmati e proiezioni che ricostruiscono i due luoghi cosí

particolarmente significativo sia per i suoi risvolti nel dialogo tra religioni, sia per la medievistica contemporanea, che ha avuto modo di approfondire l’episodio alla luce delle moderne conoscenze. Al convegno partecipano esperti del periodo crociato e della storia francescana, tra cui Bartolomeo Pirone, Antonio Musarra, monsignor Felice Accrocca, il cardinale Leandro Sandri, padre Julio Cesar Bunader, Rosa Giorgi. Le celebrazioni si concluderanno con l’ingresso solenne al Santo Sepolcro e l’incontro dei Francescani con Muhammad Ahmad Hussein, Gran Muftí di Gerusalemme. come si presentavano nell’antica Roma, gli spettatori possono godere di una rappresentazione emozionante e dal grande rigore storico. Le modalità di fruizione dei due spettacoli sono differenti. Per il Foro di Augusto sono previste tre repliche ogni sera (durata 40 minuti), mentre per il Foro di Cesare è possibile accedervi ogni 20 minuti, secondo il calendario pubblicato (percorso itinerante in quattro tappe, per complessivi 50 minuti circa, inclusi i tempi di spostamento). I due spettacoli possono essere ascoltati in 8 lingue (italiano, inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese e giapponese). info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-19,00); #viaggioneifori; www.viaggioneifori.it; www.turismoroma.it FIRENZE INCONTRI AL MUSEO. VIII EDIZIONE Museo Archeologico Nazionale fino al 4 giugno 2020

Tornano gli ormai tradizionali incontri del giovedí presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Gli appuntamenti, a ingresso gratuito, sono in

programma alle 17,00. Questo il calendario del primo trimestre: 10 ottobre: Paola Boffula Alimeni, Dentro il papiro: curiosità e aneddoti tratti da alcuni documenti antichi; 7 novembre: Roberta Salibra, Kamarina e le sue necropoli: tipologie, corredi e rituali funerari; 21 novembre: Marco Serino, Musica, rito, tradizioni stesicoree: strategie iconografiche sui vasi a figure rosse di Himera nel V secolo a.C.; 12 dicembre: Diana Perego, La festa greca delle Dionisie Rurali e la falloforia su una celebre coppa del Museo Archeologico di Firenze. info tel. 055 23575 o 2357717; e-mail: pm-tos. musarchnaz-fi@beniculturali.it; www.polomusealetoscana. beniculturali.it


l’università di salamanca

L’ateneo delle sette regole

di Maria Paola Zanoboni

L’Università di Salamanca è fra le piú antiche di Spagna e d’Europa. Nata nei primi decenni del XIII secolo, conserva importanti e significative testimonianze della sua plurisecolare storia accademica. Le sue maestose architetture ospitarono studiosi insigni e furono la culla di molte discipline ancora oggi praticate in tutto il mondo 32

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L L’

Università di Salamanca, la piú antica di Spagna (dopo quella di Palencia, oggi non piú esistente), e una delle piú vetuste d’Europa insieme a Oxford, Parigi, Bologna e Padova, ottenne il primo riconoscimento ufficiale nel 1218 quando Alfonso IX, re di León, conferí la qualifica di Estudio General de Salamanca alle scuole esistenti nella città fin dal 1130, emulando cosí l’analogo riconoscimento concesso pochi anni prima alle scuole di Palencia dal re di Castiglia Alfonso VIII. Solo nel 1255, con bolla papale di Alessandro IV, la nuova istituzione ottenne il titolo di università, quando sulle due regioni di Castiglia e León, ormai unificate (1230), regnava Alfonso X il Saggio, sovrano che aveva contribuito in modo determinante alla trasformazione dello Studio Generale in Università, dotandolo dei suoi primi regolamenti (le Siete Partidas, le «sette regole» emanate nel 1265 da Alfonso per riorganizza-

re il sistema giuridico e riguardanti il diritto canonico, le prerogative dei regnanti, l’amministrazione della giustizia, le persone e le famiglie, il diritto commerciale, le successioni e il diritto criminale, n.d.r.), delle sue prime cattedre stabili e della biblioteca (la prima biblioteca universitaria pubblica in Europa). Già la qualifica di «Studio Generale», in ogni caso, attestava la qualità degli insegnamenti impartiti, la caratteristica non privata dell’istituzione (fin dall’inizio aperta a tutti), e la validità universale dei titoli da essa conferiti. In questi primi anni lo Studio salmantino poteva già vantare le cattedre di diritto canonico, diritto civile, medicina, logica, grammatica e musica. L’istituzione potè disporre di edifici propri in cui svolgere l’attività didattica soltanto a due secoli dalla fondazione: fino all’inizio del XV secolo, infatti, le lezioni si tenevano nel chiostro della cattedrale vecchia,

Sulle due pagine il cortile delle Escuelas Mayores, il nucleo storico dell’Università di Salamanca, edificato a partire dal 1411. A destra la lettera con cui Alfonso X il Saggio accorda all’Università di Salamanca l’istituzione delle prime cattedre. 1254. Salamanca, Biblioteca Universitaria.

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l’università di salamanca Bilbao

Oviedo Santiago

San Sebastian

Pamplona

Burgos

Girona

Soria Saragozza

Salamanca

Barcellona

Reus Madrid

PORTOGALLO

Toledo SPAGNA

Sagunto

Puertollano

Zafra

Alicante Siviglia Frontera

Minorca eari Bal ole Maiorca

Is

in case affittate dal comune, e nella chiesa di S. Benedetto (San Benito). Il primo edificio propriamente universitario fu il Collegio Maggiore di S. Bartolomeo, cominciato nel 1401. Il cardinale aragonese Pedro de Luna, poi antipapa Benedetto XIII, convinto sostenitore dell’istituzione, si adoperò quindi per l’acquisto dei primi terreni e per la costruzione delle Escuelas Mayores (edificio storico dell’università), a partire dal 1411. All’inizio del Cinquecento vennero poi costruiti gli edifici delle Escuelas Menores. Dalle prime si usciva con la laurea, mentre dalle seconde con un titolo equivalente al diploma di liceo.

Ibiza Formentera

Nella pagina accanto la facciata delle Escuelas Mayores, eretta nel 1529 e massimo esempio dello stile plateresco che caratterizza l’intera città di Salamanca.

Lorca Malaga

Almeria

Marbella MAROCCO

Lo stile «plateresco»

Nel segno della sovrabbondanza Chiamato anche «gotico plateresco», «protorinascimento», «stile isabelliano» (o «dei Re Cattolici»), oppure ancora stile «del principe Filippo», il plateresco fu una corrente artistica, e soprattutto architettonica, tipica ed esclusiva della Spagna e dei suoi territori, che caratterizzò l’epoca compresa tra l’ultimo periodo gotico e il primo Rinascimento, sino alla fine del XV secolo, estendendosi talora anche nei due secoli successivi. Si tratta di una modificazione del gotico attraverso una fusione eclettica di componenti decorativi mudejar (stile anch’esso tipico della Spagna e che incorpora elementi di ispirazione araba), del gotico fiammingo e lombardo, nonché dei primi elementi rinascimentali d’origine toscana. L’inclusione di scudi e pinnacoli, le facciate divise in tre corpi (anziché in due, come nella tradizione rinascimentale), e le colonne di stile rinascimentale sono alcune delle caratteristiche del plateresco, che raggiunse il suo apice all’epoca di Carlo V proprio con la facciata dell’Università di Salamanca, fiorendo poi anche in altre città (come Burgos e León) e persino in alcuni territori del Messico appena scoperto. Caratteristica principale sono le ricchissime e sovrabbondanti decorazioni, che ricoprono le facciate di festoni, candelabre, grottesche, stemmi e simboli araldici, capitelli, elementi

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vegetali, creature fantastiche e di ogni genere di figure in cui predomina la mitologia greca e romana, tramite per la diffusione degli ideali rinascimentali. La distribuzione dello spazio è dettata invece da chiari riferimenti gotici. Nei territori della Nuova Spagna, il plateresco assunse una configurazione propria fortemente influenzata dallo stile mudejar mescolato a influssi indigeni. Nel XVI secolo, questa corrente architettonica influenzò anche la Francia, il Portogallo e l’Italia, dove diede origine in particolare al Barocco di Lecce. Secondo alcuni studiosi, si tratta soltanto di uno stile di transizione, caratterizzato dall’eccesso di profusione decorativa, nonché dall’incapacità degli architetti di sviluppare nuove soluzioni spaziali e strutturali. Per altri, invece, il plateresco è un vero e proprio stile esclusivamente spagnolo e dei territori soggetti alla Corona di Spagna.

Particolare della lussureggiante decorazione della facciata delle Escuelas Mayores: si riconosce la rana che fuoriesce da un teschio, forse simbolo del peccato.

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l’università di salamanca Come la maggior parte delle costruzioni di Salamanca, l’edificio universitario venne realizzato con la pietra di Villamayor, ricca di ossido di ferro, facile da lavorare, ma resistente. Gli artigiani dell’epoca erano in grado di cesellarla come filigrana ricavandone le decorazioni preziose e fantastiche che ornano la maggior parte degli edifici della città, resi ancora piú suggestivi dal colore rossiccio di questo materiale le cui tonalità si accendono di riflessi dorati nei bagliori del tramonto.

I sovrani all’Università

La parte piú emblematica dell’università è costituita dalle già ricordate Escuelas Mayores, iniziate nel 1411 e il cui elemento principale è rappresentato dalla facciata, eretta nel 1529 e massimo esempio dello stile architettonico plateresco che caratterizza tutta la città (vedi box a p. 34). È strutturata in tre ripartizioni orizzontali suddivise a loro volta in cinque spazi verticali: nella prima, immediatamente sopra la doppia porta con gli archi a sesto ribassato, spicca il tondo dei Re Cattolici, Ferdinando e Isabella, nell’atto d’impugnare un unico scettro, quasi a rappresentare l’unità spagnola, contornato da una scritta in greco «I sovrani all’Università e l’Università ai sovrani», omaggio alle riforme attuate dai monarchi alla fine del XV secolo per modernizzare gli studi dell’Università di Salamanca. Sul lato destro, nel pilastro piú largo sono visibili tre teschi: quello a sinistra racchiude la famosa rana, che sembra raffiguri il peccato. Nel secondo corpo orizzontale sono raffigurati tre scudi: quello dell’imperatore Carlo V (centrale e di dimensioni maggiori), affiancato a destra da quello con l’aquila di san Giovanni, simbolo di Isabella di Castiglia e, a sinistra, da quello con l’aquila bicipite, simbolo dell’impero asburgico, di cui Carlo V era l’erede. Nelle estremità laterali, rispettivamente a sinistra e a destra degli

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scudi, i profili dell’imperatore Carlo V (= re Carlo I di Spagna) e della moglie Isabella del Portogallo. Nella terza suddivisione verticale (quella piú in alto), è infine raffigurato, nell’atto di parlare al clero, un personaggio la cui identità è incerta: si tratta forse dell’antipapa avignonese Benedetto XIII (13281423), o forse di papa Martino V. Ai due lati Ercole e Venere, scelti probabilmente come simboli, rispettivamente, della fatica e quindi dello sforzo intellettuale, e del vizio e delle tentazioni sempre in agguato.

Sul cortile interno si affacciano alcune aule, tra cui quella di Francisco de Vitoria, teologo fondatore del diritto internazionale e quella di Fray Luis de León, l’unica che conservi tuttora l’aspetto originale, con i banchi e la cattedra del XVI secolo. Dal chiostro si accede anche alla cappella di S. Barbara dove gli aspiranti dottori passavano la notte che precedeva l’esame. Quando erano promossi, venivano suonate le campane e si dava una festa in loro onore; quando erano bocciati uscivano dalla porta dei Carri. ottobre

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Veduta d’insieme e un particolare dello scalone delle Escuelas Mayores, costruito a partire dal 1512 per raggiungere la sala destinata ad accogliere la biblioteca dell’Università. La ricca decorazione

Al primo piano, è situata la biblioteca che occupa un salone di 41 m di larghezza e 11,5 di lunghezza e che fu ricostruita nel 1749 dall’importante architetto spagnolo Manuel de Lara Churriguera, in seguito all’incendio che aveva distrutto nel 1664 quella originaria, la cui volta affrescata, opera del pittore ispano-fiammingo quattrocentesco Fernando Gallego, rappresentava il cielo di Salamanca ed era utilizzata dai professori per le lezioni di astronomia. Ne rimane una descrizione del 1494

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dei parapetti, eseguita in un momento successivo, alterna motivi vegetali a figure e scene realizzate, come nel caso del danzatore qui illustrato, su disegni preparatori dell’orafo Israhel van Meckenem.

che la ricorda affrescata con i segni dello zodiaco e le arti liberali, e una piccola porzione dell’affresco, chiamata appunto «cielo di Salamanca», conservata al Museo dell’Università. La cappella universitaria, dedicata a san Gerolamo, venne anch’essa ricostruita nel Settecento (1761-1767) e vi si conserva ancora l’organo barocco del 1709. L’edificio primitivo non era riservato soltanto alle celebrazioni religiose, ma vi si tenevano anche le riunioni dei rettori, dei consilieri e degli

amministratori, e vi era custodito il denaro dell’università.

Due modelli

In epoca medievale, l’istituzione scolastica in quanto tale era denominata «Studio» e non «Università». Il termine «Universitas», infatti, non indicava il luogo in cui si tenevano gli studi superiori (che a Salamanca, come in tutte le città d’Europa ebbero una propria sede solo a partire dal XV secolo), ma la collettività organizzata in associazione degli studenti che frequentavano lo Studio e che

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l’università di salamanca l’assegnazione delle cattedre

Il professore? Lo scelgono gli studenti L’assegnazione delle cattedre a Salamanca (come documentato per il Cinquecento e l’inizio del Seicento) veniva effettuata con votazione degli studenti riuniti in assemblea presieduta dal loro capo, il rettore. Quando un posto si rendeva vacante, il rettore stesso, tramite i suoi consiglieri, divulgava la notizia, affinché si facessero avanti i candidati. Gli aspiranti cattedratici presentavano la propria domanda e cominciavano a reclamizzarsi con qualche lezione pubblica per farsi conoscere. Veniva poi stabilito il giorno dell’assegnazione del posto: gli aspiranti professori avrebbero dovuto tenere una lezione di un’ora (un’ora e mezza se si trattava della loro prima cattedra), estratta a sorte fra tre diversi temi, e da preparare in 24 ore: una procedura dunque praticamente identica a quella che fino a non moltissimi anni fa si usava per l’esame di «docenza», con la differenza che a giudicare erano gli studenti. Dopo la lezione, si teneva una discussione con obiezioni ed esposizione di opinioni contrarie. Seguiva quindi la votazione degli studenti, che avveniva prima di quella del rettore e del suo consiglio, con un complesso sistema, che teneva conto delle persone che avevano votato e del numero di corsi da esse frequentati. Infine, il bidello generale consegnava la cattedra al favorito dalla maggioranza. Naturalmente non mancavano proteste, risse, imbrogli, tentativi di assicurarsi voti in modo illecito e tensioni d’ogni tipo, come la documentazione superstite lascia abbondantemente trapelare. Nel 1641 l’assegnazione delle cattedre, sia a Salamanca che nelle altre due università spagnole (Valladolid e Alcalà) fu tolta agli studenti e assegnata al consiglio di Castiglia, perciò godevano di privilegi particolari. Si distinsero successivamente due modelli destinati a diffondersi in tutta Europa: quello bolognese, con prevalenza degli studenti, e quello parigino, con un maggiore equilibrio tra studenti e professori. Concepita in base alle sette regole dettate da re Alfonso X come una comunità di maestri e scolari, l’Università di Salamanca si organizzò appunto secondo lo spirito medievale come una corporazione autogestita e gelosa dei propri privilegi, indipendente sia dalla città che dal capitolo della cattedrale. Era do-

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cioè al principale centro di potere della struttura di governo della monarchia e seconda autorità dello Stato dopo il re. In questo modo, però, la procedura di assegnazione si era ridotta a una farsa, in quanto ci si limitava a fornire al Consiglio di Castiglia una lista degli aspiranti alla cattedra che avevano tenuto la lezione, in ordine cronologico, e il Consiglio di solito nominava vincitore il primo dei candidati in lista. Per questo, nella seconda metà del Settecento, si ritenne opportuno cambiare la procedura, stabilendo un preventivo giudizio della prova dei candidati da parte del rettore e di tre giudici nominati tra i cattedratici e i dottori, giudizio dal quale sarebbe emersa una terna di nomi da proporre al Consiglio di Castiglia. A Salamanca (come anche a Valladolid e Alcalà) esistevano due tipi di cattedre: quelle a vita, assai potenti e ben remunerate, e quelle temporanee, assegnate per tre anni e assai poco remunerate. Nell’università salmantina, in ogni caso, i professori temporanei erano pagati due o anche tre volte piú che a Valladolid, dove gli stipendi delle cattedre temporanee erano miserrimi. Ad aggravare la situazione vi era il fatto che i compensi dei docenti temporanei erano fissi e immutabili: rimasero fermi dalla metà del XVI alla metà del XVIII secolo, nonostante tutte le svalutazioni e i mutamenti economici. Solo nel 1771 un provvedimento del Consiglio di Castiglia li aumentò. Le cattedre fisse nell’ateneo salmantino erano affidate agli insegnamenti piú potenti: diritto e teologia che assorbivano il 65% dei salari, mentre quelle temporanee meglio remunerate erano diritto canonico, medicina e latino. Nel 1610 l’università contava un totale di 61 cattedre, di cui 28 a vita.

tata di regolamenti propri e persino di autonomi tribunali penali. Tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, l’antipapa Benedetto XIII e papa Martino V incrementarono l’autorità dei professori e di coloro che avevano conseguito il titolo di dottore, stabilendo un delicato equilibrio tra docenti e scolari. Il maestro di teologia della cattedrale rappresentava il pontefice sia nel foro accademico, sia durante gli esami. Il rettore era (e lo è stato fino al XVIII secolo) uno studente eletto dagli studenti stessi scegliendolo a turno per nazionalità, mentre le cat-

Una lezione di teologia all’Università di Salamanca, anta d’armadio dipinta da Martín de Cervera. 1614. Salamanca, Biblioteca Universitaria.

tedre venivano assegnate pubblicamente per cooptazione sempre dagli studenti, con discussioni pubbliche in tumultuose assemblee, in cui non mancavano le risse. I dottori e i docenti, fossero o meno cattedratici, avevano un proprio consiglio di facoltà e ugualmente gli studenti una propria assemblea. Le questioni piú importanti venivano discusse in adunanza plenaria, alla quale ottobre

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l’università di salamanca prendevano parte il maestro di teologia, il rettore con i suoi consiglieri, i rappresentanti degli studenti, i cattedratici, i dottori e i maestri. Si trattava dunque di un’università con un giusto equilibrio tra docenti e allievi, e che elaborava le sue decisioni attraverso assemblee e dibattiti. Durante l’età moderna la monarchia assoluta, col suo pesante patronato, distrusse l’equilibrio tra discenti e docenti cosí ben realizzato in epoca medievale. Il rettore (che, come accennato, era uno studente) doveva avere almeno 25 anni e dedicare un anno della sua vita all’espletamento dell’incarico, durante il quale non poteva sostenere l’esame per il baccellierato, né laurearsi. Godeva di particolari privilegi, soprattutto in questioni di precedenza nelle cerimonie; si trattava di una carica impegnativa e alquanto dispendiosa a causa degli obblighi dovuti all’abbigliamento, alle feste e ai banchetti, per cui poteva essere assunta soltanto da studenti particolarmente facoltosi. Comportava svariati compiti: rappresentare gli interessi

e farsi portavoce dei problemi degli studenti di fronte alle autorità cittadine; prendere parte alle cerimonie pubbliche civili e religiose; amministrare la giustizia tra gli studenti, almeno limitatamente alle cause civili o ai reati minori. Il controllo del rettore si estendeva anche ai professori, per accertarsi che non saltassero le lezioni, che svolgessero regolarmente i programmi secondo un calendario scrupoloso e dettagliato. La sua sovrintendenza riguardava persino i proprietari degli alloggi affittati agli studenti, i bidelli e tutti gli addetti alla realizzazione, al noleggio e alla vendita di testi scolastici.

Un bidello al cuore del sistema

Coadiuvato da un consiglio di otto studenti, il rettore si avvaleva di proprio personale amministrativo, che comprendeva, tra gli altri, un notaio, e, non ultimo, un personaggio di particolare spicco: il «bidello generale», deputato a fungere da tramite fra il rettore, gli studenti e i professori. Questo «bidello generale» doveva saper parlare in la-

tino, la lingua ufficiale di tutti gli universitari europei, e comunicare ogni tipo di avviso: l’orario e la sede delle lezioni, il programma dei corsi, il motivo e la durata di eventuali sospensioni delle lezioni, la convocazione dei professori da parte del rettore, l’elenco dei libri usati messi in vendita (con relativa valutazione), l’elenco degli studenti esclusi dall’università perché non avevano pagato la tassa di immatricolazione. Aveva inoltre l’incarico di conservare nel suo ufficio la lista di quanti (affittacamere, amanuensi, artigiani, professori) venivano messi al bando per aver avuto questioni non risolte con qualche studente. Altro suo compito non secondario era quello di custodire gli statuti, le matricole, la nota precisa delle prove preparatorie sostenute dai laureandi, e gli originali dei nuovi libri messi in circolazione dai professori. Gestiva infine il magazzino degli oggetti e dei pegni appartenenti all’associazione studentesca. Gli studenti partecipavano alle lezioni in abito talare e berretto accademico, seguendo una conA sinistra l’aula magna dell’ateneo salmantino, che venne inaugurata nel XVII sec. e conserva gli arredi originari. Nella pagina accanto l’aula in cui Fray Luis de León teneva le sue lezioni. La cattedra e i banchi sono quelli originali del XVI sec.

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Il «cielo di Salamanca», la porzione superstite dell’affresco realizzato dal pittore ispano-fiammingo quattrocentesco Fernando Gallego per la volta della biblioteca, nel quale erano raffigurati i segni dello zodiaco e le arti liberali.

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suetudine che derivava dalle scuole religiose. Conseguita la laurea, ornavano il copricapo con un fiocco, il cui colore variava a seconda della facoltà nella quale avevano ottenuto il titolo (azzurro per la facoltà di Scienze, rosso per quella di Legge, giallo per Medicina), e che poteva mescolare piú colori insieme se si laureavano in piú di una materia.

I costi della laurea

Per l’onere notevolissimo delle spese che comportava, in tutte le università piú importanti (a Salamanca, ma anche a Parigi, a Bologna e a Padova), l’esame di laurea, che dava diritto al titolo di «doctor», veniva affrontato soltanto dagli studenti piú facoltosi, mentre la maggior parte si accontentava del titolo inferiore di diplomato («Baccelliere», «Licenziato» o «Maestro»). Per Bologna, per esempio, è stato calcolato che la quantità di denaro che lo studente doveva spendere per festeggiamenti, banchetti, donativi e mance, equivaleva alle risorse economiche necessarie per soggiornare nella città per quattro o cinque anni. A Salamanca il laureando trascorreva la notte prima dell’esame nella cappella di S. Barbara, nel chiostro della cattedrale vecchia, studiando e pregando. Il giorno successivo, dopo una serie di prove che duravano molte ore, se veniva promosso le campane suonavano a festa, venivano allestiti un banchetto e una corrida (a carico del laureato), e col sangue del toro ucciso gli amici del giovane ne scrivevano il nome sui muri della città, accompagnato dal titolo di vincitore («VICTOR»). Se respinto, usciva invece da una porta secondaria e chiunque aveva il diritto di insultarlo. Molti studenti alloggiavano nei collegi universitari, ma non tutti: alcuni di loro trovavano ospitalità nei conventi, mentre altri vivevano in case private. Il Collegio Maggiore, inizialmente fondato per accogliere gli studenti con scarse risorse eco-

nomiche, finí per trasformarsi in un luogo che ospitava i rampolli delle famiglie aristocratiche, divenendo anzi per loro un trampolino di lancio per l’accesso a brillanti carriere laiche od ecclesiastiche. Le risorse economiche dell’università salmantina provenivano sia dai sussidi della Corona, sia, in gran parte, dalle rendite della diocesi, con la conseguenza che, non avendo i prelati possibilità di arricchirsi, soltanto i vescovi piú preparati intellettualmente e interessati all’istituzione universitaria rimanevano a Salamanca, contribuendo spesso all’insegnamento con la propria dottrina. Poiché si trattava perlopiú di religiosi, i professori potevano facilmente arrotondare i guadagni facendosi assegnare un beneficio ecclesiastico con relativa rendita. Ciononostante, nella prima metà del Trecento, nel periodo antecedente la peste, l’università, risentendo della congiuntura negativa generale (dato che le decime a essa destinate erano legate al mondo agricolo), fu preda di una grave crisi economica: un documento del 1318 lamenta come non ci fossero piú le risorse necessarie a fornire i pasti a professori e studenti perché i proventi derivanti dalla riscossione delle decime non erano piú sufficienti. Il vescovo di Salamanca e l’arcivescovo di Santiago di Compostela si videro perciò costretti a trattare con papa Giovanni XXII la concessione all’istituzione educativa di una quota dei proventi della crociata indetta pochi anni prima. I bilanci dell’università salmantina rimasero in ogni caso alquanto precari sino alla fine del XIV secolo, sia per la congiuntura generale, sia perché le varie fasi della Reconquista contribuivano a convogliare tutte le risorse, comprese quelle ecclesiastiche, verso le spese militari. La situazione migliorò solo tra la fine del Trecento e il primo Quattrocento, grazie alle ulteriori elargizioni di

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l’università di salamanca francisco de vitoria

Il fondatore del diritto internazionale Frate domenicano di formazione umanistica, Francisco de Vitoria sviluppò la sua opera sulla questione della dignità umana e sui problemi morali a essa correlati, concentrando il proprio pensiero sull’aspetto giuridico di tali problematiche, con risultati che ebbero ripercussioni notevolissime sia sugli studi di teologia, sia sugli aspetti morali delle scienze economiche, con un influsso enorme sui suoi allievi, tanto giuristi quanto teologi, che costituirono appunto la celebrata «Scuola di Salamanca». Dopo aver studiato teologia a Parigi, insegnò a Valladolid, e poi, dal 1526, a Salamanca, dove introdusse come testo di base la Summa Theologiae

di Tommaso d’Aquino, contribuendo cosí a diffonderne la dottrina in tutta Europa, dal momento che l’ateneo salmantino era uno dei piú prestigiosi del continente. La Scuola di Salamanca, da lui ispirata, discusse ampiamente le questioni economiche dal punto di vista morale. Mentre la dottrina cattolica dell’epoca considerava riprovevole il guadagno tratto dal commercio, secondo Vitoria, invece, l’ordine naturale si basa sulla libertà di circolazione delle persone, dei beni e delle idee, e gli uomini possono cosí conoscersi e aumentare i sentimenti di fratellanza reciproca. Di conseguenza, il commercio non è moralmente riprovevole, ma rappresenta un servizio importante per il benessere generale. Rielaborando queste idee, la Scuola di Salamanca sviluppò in seguito teorie economiche di

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grande successo, come quella del «giusto prezzo», fondata sulla legge della domanda e dell’offerta, anziché sulla valutazione dei costi di produzione, e la teoria quantitativa del denaro, utilizzata per spiegare l’elevato processo di inflazione del XVI secolo. Altrettanto importanti sono le teorie di Vitoria in ambito giuridico: fondamentale, in particolare, il suo pensiero sui diritti degli indios d’America appena assoggettati dalla Spagna. Nel De Indis, denunciò infatti gli abusi commessi dai conquistatori, affermando che gli indigeni non dovevano essere considerati creature inferiori, ma che godevano degli stessi diritti degli Europei, e della stessa facoltà di possedere terre e beni. Proprio in base a queste teorie, l’imperatore Carlo V promulgò nelle Cortes del 1542 le «Leyes Nuevas de Indias», che mettevano gli indigeni d’America sotto la diretta protezione della Corona spagnola. Sempre seguendo questo filone di pensiero, nel De potestate civili, Francisco de Vitoria pose le basi teoriche del diritto internazionale moderno, di cui è ritenuto il fondatore. Fu tra i primi, infatti, a postulare l’idea di una comunità di tutti i popoli, fondata sul diritto naturale, e a ritenere che le relazioni internazionali non dovessero basarsi sull’uso della forza. Da ciò conseguiva la teorizzazione della «guerra giusta», da intendersi esclusivamente come reazione di difesa da un attacco. Non erano dunque leciti, secondo Vitoria, i conflitti scatenati da motivi religiosi o di espansione territoriale: veniva cosí a cadere la liceità delle pretese dei Re Cattolici sui territori americani: gli indios formavano infatti Stati organizzati e perciò era consentito dichiarare loro guerra solo se avessero negato ad altri popoli i loro diritti naturali, come quello di esercitare il commercio, o di predicare il Vangelo. Ciononostante, Vitoria elaborò otto «giusti motivi» che consentivano agli Spagnoli di rimanere in America, basati essenzialmente sul diritto di giurisdizione dei convertiti da parte dei Re Cattolici e del papa, motivi recepiti nella legislazione di Filippo II sulla conquista del Nuovo Mondo. I teologi usciti dalla sua Scuola, Domenicani soprattutto, ebbero un’importanza decisiva durante il Concilio di Trento. Vitoria discusse poi i limiti della giurisdizione civile laica e di quella ecclesiastica, arrivando a concludere che la prima dovesse essere soggetta all’autorità spirituale del papato, ma non al suo potere temporale. ottobre

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In alto la biblioteca dell’Università di Salamanca, ricostruita nel 1749 dopo che, nel 1664, un incendio aveva distrutto la struttura originaria. Nella pagina accanto il monumento in onore di Francisco de Vitoria.

Benedetto XIII e Martino V. Da allora, le rendite si consolidarono tanto che fu possibile iniziare la costruzione dell’edificio universitario (1411), la cui facciata cinquecentesca rende appunto omaggio a uno dei due pontefici. Le costituzioni di Martino V (1422) accentuarono però il controllo papale sull’istituzione, decretando la nomina di un amministratore delle rendite ecclesiastiche che doveva essere un chierico nominato dall’arcivescovo di Compostella, e stabilendo che il maestro di teologia fosse un cattedratico nominato dal capitolo della Chiesa Maggiore e presentato dal re di Castiglia: la massima autorità universitaria ve-

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niva dunque subordinata al sovrano, con approvazione del papa, con la conseguenza di aumentarne la giurisdizione sui membri dell’istituzione educativa, in particolare dopo il 1492 e la fine della Reconquista. Parallelamente, Martino V diminuí il potere dei rappresentanti degli studenti e soppresse la loro assemblea convocata dal rettore, concedendo a professori e dottori di dominare il senato accademico. In ogni caso, nel Cinquecento, quella di Salamanca era ormai un’università assai ricca, con numerose e prestigiose cattedre molto ben remunerate. Dallo schema «bolognese» di ateneo dominato dagli studenti, l’università spagnola era passata dunque, con le costituzioni di Martino V, a un equilibrio di potere tra studenti, professori e dottori. La monarchia rinascimentale sostituí poi il potere pontificio con le proprie decisioni, avocò a sé la no-

mina del maestro di teologia e inviò frequenti ispezioni, con l’intento di affermare il patronato regio. Favorí i cattedratici e i dottori, fino a inaridire la vita universitaria. Contemporaneamente (dalla fine del XV secolo), a Salamanca, come in tutta la Spagna, i collegi universitari, nati per alloggiare gli studenti poveri, si trasformarono in centri di potere e in fazioni controllate dalla corona.

Nasce la «Scuola»

Anche dal punto di vista scientifico l’ateneo salmantino si distinse per l’eccellenza dei risultati conseguiti in molti campi del sapere e per l’importanza delle questioni che vi furono trattate, al punto che si parlò di una vera e propria «Scuola di Salamanca». Fu cornice infatti della discussione sulla fattibilità del progetto di Cristoforo Colombo e sulle conseguenze che sarebbero potute derivare dalle ipotesi del

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l’università di salamanca Fray Luis de León

«Dove eravamo rimasti?» Uno dei piú insigni docenti dell’Università di Salamanca fu Fray Luis de León (1527-1591), celebre umanista, poeta e studioso della Bibbia. Di famiglia ebraica convertita al cristianesimo, Luis de León entrò nell’Ordine degli Agostiniani, e dopo aver ottenuto la cattedra a Salamanca, nel 1572 venne incarcerato per oltre quattro anni per aver tradotto in volgare castigliano il Cantico dei cantici. Si narra che al ritorno in classe dopo la lunga prigionia, abbia esordito dicendo «Dicebamus externa die»: («Come dicevamo ieri», oppure «Dunque, dove eravamo rimasti?»). Nella sua aula, tuttora esistente, si conservano gli arredi originali del Cinquecento (la cattedra e i banchi ), fatto piú unico che raro, anche perché gli studenti erano soliti sedersi per terra. Per la profondità della fede, la densità del pensiero teologico, il fresco senso naturalistico, il linguaggio stupendamente puro, ricco e armonioso, alcune delle sue opere sono considerate capolavori della prosa castigliana, mentre la poesia di Luis de León, sintesi originalissima della tradizione umanistica con lo spirito cattolico della Controriforma spagnola, esprime l’incantata contemplazione dell’infinita grandezza del creato, il desiderio di solitudine e di silenzio, le amarezze della vita, un sereno ideale di umana perfezione, l’anelito all’elevazione a Dio e alla sua pace. A sinistra il monumento in onore di Fray Luis de León, eretto nel cortile delle Escuelas Mayores. Nella pagina accanto il pozzo medievale installato nel cortile dell’ateneo salmantino.

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navigatore genovese. Dopo la scoperta dell’America, vi si trattò la questione della possibilità di riconoscere gli indigeni come soggetti di diritto, argomento rivoluzionario per l’epoca; furono analizzati per la prima volta i processi economici, si svilupparono le scienze giuridiche e vi fiorí l’umanesimo. Divenne centro di rinnovamento della teologia, fucina del diritto internazionale e della scienza economica moderna, e i suoi docenti parteciparono attivamente al Concilio di Trento. I matematici della Scuola di Salamanca studiarono la riforma del calendario per incarico di Gregorio XIII e furono artefici della soluzione in seguito adottata. ottobre

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Da leggere

Intorno al 1580 vi si iscrivevano ogni anno 6500 nuovi studenti, e da essa uscivano i vertici dell’amministrazione dello Stato. Qui si formarono due dotte umaniste, che furono forse le prime studentesse universitarie del mondo: Beatriz Galindo (1465/1475-1534) e Lucia de Medrano (1484-1527). Quest’ultima fu anche la prima docente universitaria (tenne un corso in sostituzione di un altro docente tra il 1508 e il 1509). I contemporanei ne elogiavano il sapere in campo letterario e l’eloquenza; le sue opere poetiche e filosofiche sono andate perdute. Dotta poetessa umanista, autrice di un Commentario ad Aristo-

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tele e studiosa anche di teologia e medicina, Beatriz Galindo fu l’istitutrice di Isabella di Castiglia e dei suoi figli. Il suo ruolo non si limitava comunque soltanto a questo, in quanto la regina Isabella teneva in grande considerazione i suoi consigli. Fondò a Madrid un ospedale (ospedale «de la Latina») e un convento (la «Conception Jeronima») al quale donò la sua biblioteca. Fra i docenti illustri dell’Università di Salamanca vanno ricordati Francisco de Vitoria (1483/14861546; vedi box a p. 44), e Fray Luis de León (1527-1591; vedi box alla pagina precedente), mentre fra i suoi studenti vi fu anche Hernán Cortés, il conquistatore del Messico. F

Mariano Peset, La organizacion de las Universidades espanolas en la edad moderna, in I poteri politici e il mondo universitario (XIII-XX secolo), atti del Convegno internazionale di Madrid, 28-30 agosto 1990, a cura di Andrea Romano e Jacques Verger, Rubbettino, Soveria Mannelli 1994; pp. 67-116 Antonio García y García, La universidad de Salamanca en la Edad media, in Università in Europa le istituzioni universitarie dal Medio Evo ai nostri giorni, strutture, organizzazione, funzionamento, atti del Convegno internazionale di studi, Milazzo, 28 settembre-2 ottobre 1993, a cura di Andrea Romano, Rubbettino Soveria Mannelli 1995; pp. 17-36 Luis Enrique Rodríguez San Pedro Bezares, Structures économiques et financement des Universités espagnoles à l’Epoque Moderne, in Università in Europa le istituzioni universitarie dal Medio Evo ai nostri giorni, strutture, organizzazione, funzionamento, atti del Convegno internazionale di studi, Milazzo, 28 settembre-2 ottobre 1993, a cura di Andrea Romano, Rubbettino Soveria Mannelli 1995; pp 267-286 Antonio Ivan Pini, Scuole e università, in La società medievale, a cura di Silvana Collodo e Giuliano Pinto, Monduzzi, Bologna Editore 1999; pp. 503-529 José Ramón Nieto González, Universidad de Salamamca. Escuelas Mayores, Ediciones Universidad de Salamanca, 2001 Luis Enrique Rodríguez San Pedro Bezares (a cura di), Historia de la Universidad de Salamanca: Saberes y confluencias, Ediciones Universidad de Salamanca 2002 Riccardo Campa (a cura di), I trattatisti spagnoli del diritto delle genti, Il Mulino, Bologna 2010

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Quel Magnifico perugino... di Lara Anniboletti e Marina Bon Valsassina

Fra Quattro e Cinquecento, il capoluogo umbro visse una stagione prospera, affermandosi come una delle capitali culturali della Penisola. Un momento d’oro, del quale fu artefice principale Braccio Baglioni. Salito al potere nel 1437, all’indomani della morte del padre, il giovane signore confermò le sue doti di valente condottiero, dimostrandosi anche amministratore capace e lungimirante, nonché illuminato patrono delle arti e delle lettere

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appellativo di «Magnifico» è per eccellenza appannaggio del fiorentino Lorenzo de Medici. Ma un altro «principe del Rinascimento» poté a giusta ragione fregiarsene: Braccio Baglioni di Malatesta, il primo a trasformare la famiglia a cui apparteneva in una dinastia che esercitò per oltre un secolo (1438-1540) un potere di velata signoria personale sulla città di Perugia. Egli cavalcò le scene della vita pubblica e culturale della città destreggiandosi «intra moenia» alla ricerca costante di un equilibrio tale da salvaguardare l’autonomia cittadina dal papato e garantire nel contempo la supremazia del suo casato e dei suoi accoliti sulle fazioni opposte; e, «extra moenia», intessendo una fitta rete di alleanze e di rapporti politici, militari e familiari in grado di assicurargli un ruolo non secondario sullo scacchiere italiano. L’amicizia che uní Braccio e Lorenzo il Magnifico è documentata anche dal celebre affresco di Giorgio Vasari nella Sala di Lorenzo in Palazzo Vecchio, dove, fra gli «alleati» del signore di Firenze, colto in atto di ricevere

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ambasciatori di terre lontane, spicca un vecchio dalla patriarcale barba bianca e dal volto quasi sorridente, in contrasto con l’enigmatica espressione del Medici. Lo scudo azzurro traversato da una fascia d’oro lo contraddistingue come membro della famiglia Baglioni. Nonostante quasi trenta anni d’età li dividessero, i due nobili meritarono l’epiteto di «Magnifico» per le speciali qualità che li accomunarono: saggezza nel governo, intelligenza politica, lungimiranza, mecenatismo e amore per l’arte e la cultura. La loro potenza familiare fu sempre spesa anche a favore della loro città ed entrambi seppero muoversi bene in quel groviglio complesso e delicato di interessi e alleanze intessute per anni e disfatte all’occorrenza a seconda dei mutevoli equilibri dell’epoca. Mutatis mutandis, la signoria dei Baglioni fu per la Perugia rinascimentale l’equivalente di quella dei Medici a Firenze: da un lato, il mestiere delle armi, esercitato spesso con determinazione cruenta, sia per gestire il complesso rapporto con Roma e il papato, sia per sostenere le lotte sanguinose con le fazioni concorrenti o per volgere a proprio favore quelle sorte all’interno dello stesso casato; dall’altro, i raffinati rapporti di amicizia o di parentela con altri grandi signori della Penisola (aristocratici, principi della Chiesa e ambasciatori) e una piccola corte di dotti e scienziati nonché di artisti e letterati chiamati al loro servizio.

Al seguito del Barbarossa

Dotati di ampi possedimenti nel contado perugino, i Baglioni avevano un’origine feudale e sarebbero probabilmente scesi in Italia nel XII secolo, come militari al seguito di Federico Barbarossa. E proprio nell’attività bellica si distinsero molti membri della famiglia, sino alla fine della «signoria» e anche oltre. Ininterrot(segue a p. 54) Firenze, Palazzo Vecchio, Sala di Lorenzo. Lorenzo il Magnifico riceve l’omaggio degli ambasciatori (particolare), affresco di Giorgio Vasari. 1556-1557. ottobre

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Albero genealogico di casa Baglioni dalle origini al XVI sec., da Le piante et i ritratti della città e terre dell’Umbria sottoposte al governo di Perugia di Cipriano Piccolpasso. 1579. Perugia, Biblioteca Comunale Augusta. La nobile casata aveva origini feudali e i suoi primi esponenti sarebbero scesi in Italia, nel XII sec., come militari al seguito di Federico Barbarossa. Nel tempo arrivarono a detenere ampi possedimenti nel contado perugino.

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grandi famiglie A sinistra Adorazione dei Magi, tempera su tavola di Pietro Vannucci (detto il Perugino). 1473-1476. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. L’artista ritrae tre generazioni di Baglioni nelle spoglie dei Magi: il Mago piú anziano, Gaspare, inginocchiato davanti al Bambino, corrisponderebbe al capostipite Malatesta Baglioni; Baldassarre, il re che porge doni, raffigurerebbe Braccio con barba e capelli scuri, e il giovane Melchiorre, alla sinistra, con il mantello rosso drappeggiato, avrebbe invece il volto del figlio di costui, Grifone, destinato a succedergli al potere. Nella pagina accanto Gonfalone di san Bernardino da Siena, tempera su tela, Benedetto Bonfigli. 1465. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. Nella piazza antistante la chiesa di S. Francesco e l’oratorio di S. Bernardino, magistrati e cittadini depongono le offerte in onore di san Bernardino nella cesta. Al centro il vescovo benedicente con accanto il podestà (forse Braccio di Malatesta Baglioni), il bargello della città e alle spalle i priori, riconoscibili per il caratteristico lucco rosso. Dalla parte opposta la nobildonna in primo piano è Anastasia Sforza, seconda moglie del cripto-signore della città.

te furono le lotte con le casate rivali per affermare la supremazia sul Perugino e i suoi dintorni: i Ranieri e, soprattutto, i Degli Oddi, «famiglia che – come ricorda Baleoneus Astur, lontano discendente e autore di una loro monumentale storia –, per potenza e ricchezza, pur non potendo competere da pari a pari con i Baglioni, era però la seconda in Perugia». Nelle cronache cittadine, per oltre un secolo, si avvicendarono liti e risse sanguinose, costellate da episodi di vendetta privata che si succedevano quasi quotidianamente.

Condottiero già nel nome

Con la potenza della famiglia doveva fare i conti lo Stato della Chiesa, a cui Perugia apparteneva, in un rapporto sempre altalenante tra il coincidere temporaneo di intenti politici e momenti di frizione tra l’amministrazione centrale e gli organi cittadini. Da una parte, i

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pontefici temevano l’eccessiva potenza dei Baglioni, che rappresentavano direttamente o comunque controllavano gli organi cittadini; dall’altra, se ne servivano in guisa di mercenari, nominandoli non di rado capitani delle milizie, fin dall’epoca di Braccio. Questi nacque nel 1419, figlio di Malatesta I, che aveva condiviso con il grande condottiero e capitano di ventura Andrea Fortebracci da Montone (detto «Braccio»), gloriose imprese guerresche, e grazie al quale era rientrato a Perugia, sanando la sua posizione di fuoriuscito. Una fraterna e fedele amicizia legava i due, tanto che Malatesta ne aveva sposato la sorella Giacoma e battezzato il primogenito con il soprannome dell’illustre condottiero. Nel 1437 Braccio Baglioni successe al padre nella signoria di Bastia, Cannara, Collemancio e Spello, che papa Martino V aveva concesso a Malatesta, figlio di Pandolfo di Nello. E, volendo assicurare al proprio ramo ottobre

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grandi famiglie la supremazia della famiglia, Braccio, assieme ai fratelli Guido e Rodolfo, nel 1460 «eliminò» lo zio e il figlio. Da Roma fu perfino inviato il cardinale Olivia per condurre un’inchiesta sulla sinistra vicenda, ma l’omicidio non venne perseguito e il possesso di Spello confermato al ramo principale della famiglia. L’episodio testimonia una scatenata volontà di potere, tale da non indietreggiare nemmeno di fronte all’assassinio dei suoi consanguinei. I volti fieri di tre generazioni della famiglia Baglioni sono ancora visibili nell’Adorazione dei Magi del Perugino; realizzata tra 1473 e il 1476, è uno dei primi lavori importanti dell’artista. Il Mago piú anziano è Gaspare, inginocchiato davanti al Bambino, corrisponderebbe al capostipite Malatesta Baglioni; Baldassarre, il re che porge doni, raffigurerebbe Braccio con barba e capelli scuri, e il giovane Melchiorre, alla sinistra, con il mantello rosso drappeggiato, avrebbe invece il volto del figlio di costui, Grifone, destinato a succedergli. Il quadro riecheggia la stessa volontà di dare lustro alla casata che aveva ispirato nel 1459 la Cavalcata dei Magi di Benozzo Gozzoli, affrescata nell’omonima cappella di Palazzo Medici a Firenze e nel cui corteo sono ritratti membri della famiglia.

Famoso in tutta la Penisola

La vocazione primaria del «quasi» signore di Perugia erano le armi. Egli si aggregò dapprima alla compagnia di Niccolò Piccinino, agli stipendi del duca di Milano, militando presso il quale le forze ai suoi ordini salirono a 600 cavalli; poi, a partire dal 1452, al servizio della Chiesa, spesso anche come comandante delle milizie pontificie. Le numerose e fortunate imprese guerresche lo portarono a ottenere fama e prestigio non solo a Perugia, ma nell’intera Penisola, tanto che il potente Francesco Sforza duca di Milano, ne combinò il fidanzamento con sua nipote Anastasia, fornendola di una dote di 6000 fiorini. Rimasto vedovo della prima moglie Teoderina Fieschi, della grande famiglia dogale genovese, Baglioni veniva cosí a imparentarsi con uno dei maggiori casati d’Italia: le cerimonie ufficiali furono celebrate a Perugia, nella prima metà del giugno 1462, con festeggiamenti sfarzosi. Anche delle fattezze della nobile Anastasia Sforza, vestita di un elegante abito rosa ornato da una mantellina trapuntata d’oro, resta memoria in un gonfalone dipinto da Benedetto Bonfigli nel 1465 e oggi alla Galleria Nazionale dell’Umbria. Tra le dame che assistono In alto Uomo illustre, affresco forse di Domenico Veneziano, strappato da Palazzo Baglioni, inglobato poi nella Rocca Paolina. 1438 (?). Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. L’affresco è tutto ciò che resta della decorazione del Salone delle Ninfe e raffigura il corpo, ora acefalo, di un antico guerriero munito di arco, la cui identità, un tempo espressa nell’epitaffio sottostante

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composto da Francesco Maturanzio, è andata anch’essa perduta. Nella pagina accanto Pala degli Olivetani, tempera su tavola (trasportata su tela) di Bernardino di Mariotto dello Stagno. 1533. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. Nell’opera il pittore dipinge a memoria nella figura di san Giuliano, il ritratto giovanile di Giampaolo Baglioni, che era stato suo protettore e amico. ottobre

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grandi famiglie astorre ii

Un eroe della cristianità Figli di Gentile, Astorre II e il fratello Adriano crebbero lontani da Perugia, al riparo dalla vendetta di Orazio. Furono entrambi avviati alla carriera militare dallo zio, l’abilissimo condottiero Alessandro Vitelli, che ad Astorre appena quattordicenne affidò la guida di un contingente di 300 fanti nell’assedio di Pest. Da quel momento egli dedicò l’intera vita alle imprese militari, nel solco della tradizione familiare. Sposò Ginevra Salviati, da cui ebbe un figlio, Guido, ma a Perugia soggiornò in realtà solo per brevi periodi. L’impero ottomano e la cristianità, don Giovanni d’Austria e Lala Mustafà Pascià, Marcantonio Colonna, Sebastiano Venier, Ulugh Ali detto «Occhiali», i Cavalieri di Malta e il papa Pio V: questo è l’ambiente in cui Astorre Baglioni si conquista la fama di «invincibile». Al servizio della Serenissima con il grado di capitano, fu nominato governatore di Nicosia e Cipro nel 1569. Difese eroicamente Famagosta dall’assedio dei Turchi (1571), ma dopo ben 157 giorni dovette capitolare. I patti per la resa,

Ritratto di Astorre II Baglioni, olio su tela di artista ignoto. XVII sec. Torgiano (Pg), Palazzo Graziani Baglioni (per gentile concessione della Fondazione Vittoria Baglioni). Nella pagina accanto pagine de l’Hypnerotomachia Poliphili, pubblicata da Aldo Manuzio, nel 1499. Perugia, Biblioteca Augusta.

sottoscritti con il generale e gran visir Mustafa Pascià, non furono rispettati: egli venne decapitato e la sua testa conficcata su un’alabarda esposta per tre giorni, mentre Marcantonio Bragadin, capitano del regno di Cipro, fu martirizzato in modo ancora peggiore. L’episodio suscitò profonda impressione e la Repubblica di Venezia, riconoscendo

alla cerimonia annuale in onore di san Bernardino, spicca Anastasia, intenta a deporre le offerte votive in onore del santo (una candela e un tessuto) presso la cesta. Tutta la città assiste all’importante evento: il vescovo benedicente, il podestà (secondo alcuni lo stesso Braccio), il bargello della città e, alle loro spalle, i priori, riconoscibili per il caratteristico lucco rosso. I numerosi e prestigiosi incarichi ricoperti in patria, i possedimenti personali e le imprese di guerra ponevano dunque Braccio tra i grandi del suo tempo ed egli seppe abilmente approfittare della sua fama di soldato, degli appoggi esterni e delle parentele acquisite per dare inizio a una velata signoria su Perugia, attuata senza eliminare le strutture costituzionali esistenti. Al pari di Lorenzo de’ Medici, il nobile perugino era amico di letterati, poeti e artisti: l’umanista Francesco

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i meriti del suo valoroso capitano, volle conferire una pensione al figlio Guido rimasto orfano in giovane età. Pochi mesi dopo, il 17 ottobre 1571, con la battaglia di Lepanto, in occasione della quale tutte le potenze occidentali si coalizzarono per fermare l’avanzata ottomana, ne vendicò il sacrificio. Marina Bon Valsassina

Maturanzio, suo biografo, gli riconosce una «incredibilis liberalitas et inaudita comitas». Principi e pontefici trovavano signorile ospitalità nelle sue case e artisti come Piero della Francesca, Pintoricchio e Perugino prestavano la loro opera alla sua corte, in una politica di abbellimento di chiese ed edifici della città.

Un palazzo come status symbol

Nell’area del Colle Landone, dove sorgevano le case dei Baglioni – un quartiere di cui oggi rimane solo la parte inglobata nei sotterranei della Rocca Paolina –, già Malatesta aveva avviato la costruzione di un sontuoso palazzo, poi continuato da Braccio affinché fosse specchio del nuovo importante ruolo della famiglia. A decorarne l’atrio con un ciclo di affreschi raffiguranti uomini illustri, condottieri e militari da un lato ottobre

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Ospite squisito, patrono della cultura e mecenate Lontano dai campi di battaglia, Braccio Baglioni era uomo colto e gentile, incline a rapporti di amicizia con gli altri signori della Penisola: condottieri, principi della Chiesa e ambascerie furono sovente suoi ospiti. Nel 1447, Pietro di Cosimo de’ Medici, padre di Lorenzo il Magnifico, inviato da Firenze ambasciatore al papa e al re di Aragona, alloggiò nel palazzo di Braccio, che fece altrettanto con il delegato veneziano al seguito dell’imperatore Federico III d’Austria, quando questi entrò solennemente in Perugia il 14 gennaio 1469. Quando, accompagnato da un nutrito seguito di dame, gentiluomini e dignitari, il marchese Borso d’Este si recò a Roma nel marzo 1471 per ricevere dal papa Paolo II la sospirata corona ducale, alloggiò presso i Baglioni. I cronisti ricordano le splendide feste tributate in suo onore, con fabbriche allegoriche e decorazioni sontuose nelle strade, e tornei e giostre protrattisi per giorni. Alla piccola corte perugina non mancavano i dotti e gli scienziati: oltre al letterato e storico Francesco Maturanzio, che si occupò della storia e della genealogia baglionesca come una sorta di Poliziano mediceo, c’erano Giovanni Campano, fine letterato che svolse spesso delicate ambascerie presso la corte papale, e il poeta veronese Leonardo Montagna. Dell’umanesimo perugino riecheggiano in prosa o in versi latini e volgari le pagine di Lorenzo Spirito, di Nicola da Montefalco, trombettiere di Braccio, e di Pacifico Massimi, il poeta ascolano che gli dedicò i Trionfi e il Draconidos, celebrazione delle sue imprese militari. Anche gli amori di Baglioni, specie quello a lungo durato e pubblicamente manifestato per la bella Margherita Montesperelli, moglie di Francesco della Bottarda di Porta Eburnea, trovarono celebrazione nei poeti citati.

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Fondata nel 1308, l’Università di Perugia beneficiò lungamente della sua protezione: allo scienziato Niccolò Rinaldi da Sulmona, Braccio commissionò un trattato medico sulla peste; a lui si deve il decisivo impulso dato alle sorti culturali perugine attraverso la chiamata in città, nel 1471, di alcuni tipografi tedeschi. Gutenberg aveva da poco inventato i suoi torchi tipografici, ma la diffusione dei libri a stampa era di frequente osteggiata dai nobili, che preferivano leggere i classici sui codici miniati, considerando i caratteri stampati cosa modesta e volgare. Con grande lungimiranza, Braccio volle invece diversi tipografi al suo servizio, fondando con loro una prima e poi una seconda società commerciale (il primo contratto porta la data del 26 aprile 1471), e mettendo a disposizione locali, materiali per fabbricare caratteri e inchiostro, carta, nonché vitto per i lavoranti e denaro per pagare i correttori di bozze. Pietro di Pietro da Colonia e Giovanni di Niccolò da Bamberga, Johannes Vydenast e Stephanus Arndes, sono alcuni di questi artigiani stampatori, ai quali si devono i primi famosi incunaboli a stampa locale. Oltre agli esemplari di contenuto religioso e umanistico, le tipografie perugine stampano

soprattutto libri di argomento giuridico, opere di illustri professori di diritto presso la prestigiosa Università, quali Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi, Benedetto de’ Benedetti. Di tanto in tanto Braccio amava rallegrare la cittadinanza con giostre e tornei, nelle cui prove di forza e di abilità, partecipava egli stesso; feste e banchetti all’aperto venivano offerti nei meravigliosi giardini pensili che egli possedeva sopra le mura etrusche o presso gli «Orti di San Pietro». Fra gli intrattenimenti offerti in occasione di ricorrenze speciali come quelle dei santi patroni, di nozze e di genetliaci familiari, c’erano le corse dei cavalli, di cui era appassionato e poi finte battaglie in costume da antichi romani, prodezze acrobatiche di funamboli, saltimbanchi e giocolieri. Come ogni signore della sua epoca, Braccio fu anche interessato all’architettura della sua città: abbellí chiese, come quella di S. Maria dei Servi, nella quale fece costruire una ricca cappella di famiglia, commissionando affreschi e pale d’altare ad artisti del calibro di Piero della Francesca da San Sepolcro, del perugino Pintoricchio e di Pietro Vannucci da Città della Pieve. Lara Anniboletti

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grandi famiglie e dottori e sapienti dall’altro – distirbuiti simmetricamente intorno a Perugia in veste di maestosa figura femminile –, fu chiamato Domenico Veneziano. Gli epitaffi che celebravano le gesta e le virtú dei ritratti, furono composti da Maturanzio. L’eredità di Braccio, morto nel 1479, venne raccolta dai fratelli Guido e Rodolfo, i quali, dopo la cacciata dei Degli Oddi nel 1488 e la distensione politica tra la città e papa Innocenzo VIII, alla quale sembra non fosse estraneo l’intervento del Medici, furono i veri arbitri della vita perugina fino al 1500, l’anno delle fatidiche «nozze rosse» (vedi box alle pp. 60-63). «E continoamente tutti li gentilomine de la nostra città, tanto quelli che sonno contenti, tanto quelli che sono malcontenti, tutti vanno a corteggiare e far corda a li Baglioni, maxime a Guido e Ridolfo», si legge nella Cronaca della città di Perugia, dal 1309 al 1491, nota col nome di Diario del Graziani). In effetti, il loro peso sulla vita pubblica era enorme e il favore di cui godevano presso molti strati della popolazione per aver condotto Perugia alla dignità di altri Stati, aveva favorito le attività commerciali del Comune e portato denaro alle condotte militari.

Fioritura culturale e artistica

Dopo la sanguinosa pagina dei terribili giorni del 14 e 15 luglio 1500, lo scettro del potere dei Baglioni passò a Giampaolo. Scrisse nel 1875 lo storico perugino Luigi Bonazzi (1811-1879): «E se mai vi fu un tempo in cui i Baglioni non avessero meno autorità in questa repubblica di quella che avessero i Medici in Firenze, o i Bentivogli in Bologna (…), questo tempo incomincerebbe dalla vittoria di Giampaolo». Fu lui, infatti, il personaggio la cui vicenda meglio sintetizza il difficile equilibrio sul quale si fondò la mai pienamente maturata signoria baglionesca su Perugia, e il suo tempo corrispose anche alla fioritura culturale e artistica della città. È l’età di Maturanzio, del Perugino, del giovane Raffaello, del Pintoricchio e di fervide botteghe artigiane come quella dei Roscetto; della vita elegante e raffinata di questa piccola corte fatta di studi, di splendide cerimonie, di giostre e giochi pubblici e non solo di campagne militari e di lotte di potere. In un primo momento, Giampaolo si mise al servizio di papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, legittimando il proprio status con il titolo di «difensore dell’ecclesiastico stato della città di Perugia» e non temendo di vestire con i suoi armati anche le insegne gialle e cremisi di Cesare Borgia. Dopo poco meno di due anni, quando le mire politiche del duca Valentino fecero presagire un suo probabile interesse alla conquista militare di Perugia, Baglioni fu uno degli animatori della Dieta di Magione, tenutasi il 9 ottobre 1502, nel tentativo di contrastare l’irresistibile ascesa del «Principe». Piú che di una resistenza, l’incontro fu invece prodromo della vendetta borgiana, che costò la vita ai congiurati e alla

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Le nozze rosse Grifone Baglioni, unico figlio maschio di Braccio, fu ucciso a Ponte Riccioli di Cantiano nel 1477; aveva sposato la cugina Atalanta di Galeotto e dalla coppia, quello stesso anno, era nato Federico, soprannominato Grifonetto nel ricordo paterno. Benché il bimbo ne fosse il successore diretto, alla morte del nonno (1479) il potere passò nelle mani dei due fratelli di Braccio, Guido e Rodolfo, costruendo cosí la premessa per il cruento episodio noto come «le nozze rosse», di cui proprio il giovane Grifonetto fu uno dei protagonisti. Federico aveva sposato Zenobia Sforza, ed era cresciuto sotto la guida dello zio Filippo, figlio illegittimo di Braccio, e «maestro d’inganni» come lo definirà molti secoli dopo Gabriele D’Annunzio. A lui i congiurati, quasi tutti membri della famiglia o loro affiliati che pativano la loro marginalità, come Carlo Baglioni detto il Barciglia, suo fratello Grifone, Girolamo della Penna, Berardo, Piergiacomo e Ottaviano della Corgna, Girolamo della Staffa, Bernardino di Antognolla, avevano affidato il compito di convincere il ragazzo a partecipare al piano sanguinoso che avevano elaborato per eliminare il ramo egemone della famiglia. Non riuscendo a far leva sull’ambizione del giovane, Filippo ne sollecitò l’orgoglio e la gelosia, inducendogli il sospetto che la bella moglie Zenobia fosse oggetto di attenzioni particolari da parte del cugino Giampaolo, figlio di Rodolfo, al fine di convincerlo a partecipare alla sciagurata impresa. L’occasione per mettere in atto il tirannicidio fu offerta dalle nozze tra Astorre I, figlio di Guido «primarius civis civitatis Perusii», e Lavinia Colonna, celebrate magnificamente a Perugia, domenica Deposizione, olio su tavola di Raffaello Sanzio, dalla Cappella Baglioni della chiesa perugina di S. Francesco. 1507. Roma, Galleria Borghese

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grandi famiglie 28 giugno dell’anno 1500. L’unione rappresentava un evento molto importante per la famiglia, perché consolidava e rafforzava i rapporti con la nobiltà e la curia romane. I festeggiamenti durarono due settimane, ma l’epilogo fu tragico: nella notte tra il 14 e il 15 luglio i cospiratori – un piccolo «esercito» che contava 70-100 persone guidate dal Barciglia e da Girolamo della Penna – si diressero alla volta del colle Landone, dove svettavano le torri e i palazzi di Gentile Baglioni. Il piano prevedeva che, divisi in squadre da 15, assumessero il controllo delle porte della città, per impedire eventuali fughe, e, parallelamente, irrompessero nelle case dei parenti, per sorprenderli disarmati nel sonno. Al segnale convenuto, il lancio di una grossa pietra dalla loggia del palazzo di Guido Baglioni, ebbe inizio la mattanza: Guido venne ucciso subito e fatto a pezzi da Bernardino di Antognolla e Berardo della Corgna, Girolamo si gettò sul fratello di Giampaolo Baglioni, Simonetto – di cui Francesco Maturanzio scriveva «Et si costui fusse gionto a la età de anni 30, arria fatte sí grandi cose, che seria stata cosa stupenda piú che mai fusse fatta da omo che viva» –, che riuscí a sfuggirgli e, mezzo svestito, brandendo una spada scese in strada difendendosi strenuamente fino a quando non fu raggiunto dal pugnale del Barciglia; Filippo Baglioni e Ottaviano della Corgna si gettarono su Astorre, lo sposo, uccidendolo e mutilandone orrendamente il cadavere fino al punto di estrarne il cuore dal petto, prenderlo a morsi e poi lasciare il corpo nudo per strada. Girolamo della Penna tagliò la gola a Sigismondo, un altro dei figli di Guido, Marcantonio, venne anch’egli trucidato, mentre Rodolfo, sebbene già malato e anziano, suo figlio Giampaolo e il figlio

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di Guido, Gentile, che alloggiava nella sua casa vicino a Santa Croce in porta San Pietro, riuscirono a fuggire. «Moiano li Bajoni e i lor fjoli», urlavano i rivoltosi nella notte, muniti di torce e diretti alle case dei Tei, affiliati dei Baglioni, alle quali appiccarono il fuoco. Nel frattempo Atalanta, scandalizzata, aveva messo in salvo i figlioletti di Giampaolo, Malatesta e Orazio, portandoli con sé nella casa di suo padre dopo avere abbandonato, maledicendolo, il palazzo di Grifonetto insieme alla nuora. Il «diabolico» Barciglia, che, appena

compiuto l’eccidio, aveva cercato di muovere il popolo perugino alla rivolta senza però ottenere il successo sperato, fece chiudere tutte le porte della città ma, informato dell’approssimarsi di Giampaolo in armi, fuggi dapprima a Bettona e poi a Camerino dove riparò presso Giulio Cesare da Varano. Giampaolo, nel frattempo, si era salvato fortunosamente, saltando da una finestra del palazzo dello zio e fuggendo sui tetti fino ad arrivare alla Sapienza

Nuova dove alloggiavano alcuni studenti che travestirono il fuggiasco con i loro abiti, consentendogli cosí di uscire indisturbato da Porta Borgna e riparare a San Martino in Campo. Già il giorno seguente Giampaolo mise insieme un piccolo esercito forte di oltre 800 cavalli, con l’appoggio dei cugini Gentile e Morgante e dell’amico Vitellozzo Vitelli, rientrando a Perugia dove venne acclamato dalla popolazione. Le cronache raccontano che Giampaolo volle risparmiare la vita al cugino, per non macchiarsi del suo stesso delitto, ma Gentile e Filippo Cenci non ebbero la stessa pietà e lo trafissero mortalmente. «Il grido ostile / tacesi a un tratto. Ecco la giovenile / madre china sul figlio che si muore. / Ecco Atalanta, la viola aulente, / ecco Zenopia, la soave rosa, / piú belle nell’orror della gramaglia. / Inondano di pianto il moriente. / E intorno alla bellezza dolorosa / sospeso arde il furor della battaglia»: cosí scrive D’Annunzio nelle Città del Silenzio. Questa immagine tragica, di pietà per il figlio morto, è evocata nella celebre Deposizione di Raffaello, commissionata dalla stessa Atalanta pochi anni dopo, per la cappella di famiglia in S. Francesco al Prato. Lo stesso Raffaello ha lasciato un autografo, appuntato nel retro di un disegno realizzato per il pittore perugino Domenico Alfani, in cui chiede all’amico di sollecitare ad Atalanta Baglioni il pagamento, possibilmente in oro, dell’opera realizzata per la nobildonna: «Recordo a voi Menecho che (…) solecitiat[e] madonna le Atalante che me manda li denari, e vedete d’avere horo, e dite a Cesarino che ancora lui li recorda e solicit[i]». Il successo del dipinto, ultimato nel 1507, fu dovuto anche alla capacità del pittore di fondere il dolore di Maria con quello Atalanta, ottobre

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Sulle due pagine particolari della Deposizione di Raffaello. 1507. Roma, Galleria Borghese. Fra i personaggi inseriti nella composizione si riconoscono, da sinistra, Grifonetto Baglioni, che sorregge il corpo del Cristo deposto, Zenobia Sforza, nei panni di Maria Maddalena e Atalanta Baglioni scelta per impersonare la Vergine Maria.

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che, appunto, appare nei panni della madre del Cristo, mentre la giovane vedova è raffigurata come Maria Maddalena; lo stesso Grifonetto ha un posto di primo piano: nelle vesti di Giovanni, egli sorregge insieme a Giuseppe d’Arimatea il corpo del Cristo deposto. Requisita da Paolo V per il nipote cardinale Scipione Borghese nel 1608 e oggi esposta nella «sua» Galleria a Roma, l’opera si completava di altri elementi: un fregio con putti e grifi coronati, conservato alla Galleria Nazionale dell’Umbria, come anche la copia dell’Eterno benedicente, che costituiva la cimasa della pala, e una predella, le cui tavolette raffiguranti le virtú teologali si trovano ai Musei Vaticani. Marina Bon Valsassina

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quale Giampaolo sfuggí abbandonando Perugia insieme a tutti i suoi famigliari e riparando in Toscana. La morte del papa, avvenuta pochi mesi piú tardi, rovesciò nuovamente il corso degli eventi consentendogli di tornare in città e di ripristinare il potere dei Baglioni. Si destreggiò ancora a lungo e, nel tentativo mai portato a compimento di costituire uno Stato dell’Italia centrale indipendente dallo Stato della Chiesa, combatté al servizio del papato, di Firenze e della Repubblica di Venezia. Il suo atteggiamento ondivago, segnato dai continui cambi di casacca, fu criticato aspramente da Niccolò Machiavelli cosí come da Francesco Guicciardini, ma, in realtà, rispondeva alle ambiguità della sua epoca e alla difficoltà per un coraggioso e ambizioso condottiero di «seconda fila» di trovare alleanze stabili e fruttuose con i veri potenti del momento. Tuttavia, l’equilibrismo terminò per lui tragicamente nel 1520, quando, sospettato di tradimento da papa Leone X de’ Medici, venne rinchiuso in Castel Sant’Angelo e decapitato, dopo pochi mesi di prigionia, la notte dell’11 giugno. (segue a p. 66)

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grandi famiglie I cofani nuziali

Cassapanche di lusso Cuore della mostra «L’Autunno del Medioevo», presso la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, sono alcuni cassoni nuziali del Quattrocento, raffinati arredi di lusso in uso nelle dimore rinascimentali italiane, di cui solo pochi esemplari sono giunti fino ai giorni nostri, alcuni ascrivibili a Giovanni di Tommasino Crivelli e alla sua bottega perugina. Questi pregiati manufatti raccontano frammenti preziosi della vita privata delle nobili famiglie che li avevano commissionati, documentando uno spaccato della cultura figurativa perugina, e non solo, del XV secolo. Antenati della moderna cassapanca, i cofani nuziali venivano costruiti sempre in coppia ed erano destinati a contenere il corredo delle spose di famiglie nobili e borghesi: al momento dell’insediamento della donna nella casa del marito, o domumductio, venivano trasportati nella camera matrimoniale e lí conservati. Il coperchio, i fianchi e il retro erano raramente decorati, mentre assai piú spesso gli ornamenti si concentravano sulla faccia anteriore: in pittura, in intaglio, in gesso dorato (talvolta chiamato pastiglia) o utilizzando piú tecniche insieme, erano composti secondo moduli che tendono a differenziarsi tra regione e regione e che rivelano spesso la provenienza da una precisa area geografica. Vari sono anche i temi raffigurati, dai semplici motivi animali o vegetali, ripetuti talvolta in modo

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A destra Annunciazione con i Priori delle Arti di Perugia e il loro notaio ser Cipriano di Gualtiero, dipinto su tavola di Giovanni di Tommasino Crivelli. 1440 circa. Parigi, Musée JacquemartAndré. In basso fronte di cassone nuziale raffigurante la novella dell’Aquila d’oro. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

seriale, alle narrazioni vere e proprie, cortei e feste nuziali, ma anche episodi tratti dalla mitologia e dalla storia greca e romana, dalla Bibbia, dai romanzi medievali, scelti perlopiú tra quanti meglio richiamavano le virtú tipiche della vita matrimoniale e ne condannavano i vizi. I cassoni erano anche manifestazioni visive di una politica di alleanze tra famiglie: della decorazione facevano spesso parte infatti gli stemmi delle

famiglie degli sposi, generalmente secondo le regole dell’araldica, che ponevano l’arma dell’uomo alla sinistra dell’osservatore, quella della donna alla destra. Oltre a esemplari di cassoni nuziali completi e di fronti decorati in gesso dorato, in mostra è esposto anche un nucleo di dipinti ascrivibili alla stessa bottega, il cui responsabile può essere forse identificato con la personalità, a oggi poco nota, di Giovanni di


Tommasino Crivelli. L’esposizione diviene occasione per raccontare una nuova storia attributiva, riportando in luce una semicancellata maestranza di legnaioli e artisti perugini. I cofani istoriati, a pennello col tenue rilievo del gesso, sfavillanti per il gioco minuto delle incisioni sull’estensiva lamina dorata e decorati con minute incisioni in punta di stiletto, sono posti in contrappunto con alcune opere conservate in Galleria che ben testimoniano la cultura tardo-gotica che si respirava ancora a Perugia nei primi decenni del Quattrocento, in primis la Madonna con il Bambino e angeli di Gentile da Fabriano. In un delicato momento di transizione la Perugia del XV secolo volge lo sguardo all’indietro, ammaliata dalle «donne, i cavalier, l’arme, gli amori», nostalgica di un mondo di valori cortesi al tramonto, che ha il sapore di una «nostalgia autunnale» alle soglie del Rinascimento. L’élite cittadina si rispecchiò in questi manufatti, in cui esplodeva la dimensione festosa dei cortei musicanti e dei carri nuziali, o si mettevano in scena episodi memorabili di virtú femminili, come la storia truce, poi vendicata, di Lucrezia – opera conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria –, o di virtú materne, come la vicenda del Giudizio di Salomone. Crivelli si fece interprete della stessa identità cittadina, ambientando nella sala delle Udienze del Collegio della Mercanzia, dentro al Palazzo dei Priori, due scene dell’Annunciazione, nella tavoletta del Musée Jacquemart André di Parigi (probabilmente del

In alto Madonna con Bambino, tempera su tavola di Gentile da Fabriano. 1405-1410. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. A destra Annunciazione, San Francesco ai piedi della Croce e San Giovanni Battista, dipinto su tavola di Giovanni di Tommasino Crivelli. Avignone, Musée du Petit Palais.

1440), che in calce presentava i ritratti dei dieci Priori e del notaio ser Cipriano di Gualtiero, inginocchiati in preghiera, e in quella successiva del Musée du Petit Palais di Avignone, al centro di un trittico nelle cui ante, da poco identificate e acquisite dal museo francese, sono raffigurati san Francesco ai piedi della Croce e san Giovanni Battista. Nella descrizione degli intagli fioriti dei capitelli e degli archi, del rivestimento ligneo a lacunari, delle stoffe damascate e di altri oggetti sparsi, nelle graniture dei ramages a foglie carnose del fondo si accende l’ultimo bagliore

In basso fronte di cassone decorato con le Storie di Lucrezia, opera di Giovanni di Tommasino Crivelli. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

del gotico internazionale e di un gusto polimaterico, coerente con la versatilità di questo singolare e dimenticato artista.

Dove e quando «L’Autunno del Medioevo in Umbria. Cofani nuziali in gesso dorato e una bottega perugina dimenticata» Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 6 gennaio 2020 Orario fino al 03.11.19: lu, 12,00-19,30; ma-do, 8,30–19,30; dal 04.11.19 al 06.01.20: ma-do, 8,30-19,30; chiuso: lunedí, 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 075 58668436; e-mail: gallerianazionale@beniculturali.it; https:// gallerianazionaledellumbria.it

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Questa era Perugia...

Gli successe Gentile, fratello di Astorre I, che probabilmente non fu completamente estraneo alla tragica fine del cugino. «Inevitabil cosa questi Baglioni per Perugia! I magistrati li volevano per temperare il potere del papa coi Baglioni, e dei Baglioni col papa; il papa li voleva per meglio abbattere con la fazione dei Baglioni amica la fazione contraria», chiosa Bonazzi e, sebbene fosse vescovo fin dal 1505, non avendo mai preso gli ordini, nel 1513 Gentile chiese la dispensa papale per potere sposare Giulia Vitelli e assicurarsi cosí una progenie in grado di proseguire la dinastia. Dal matrimonio nacquero Astorre II, Adriano, Guido e quattro figlie. I contrasti familiari erano però destinati a passare di generazione in generazione e cosí i figli di Giampaolo, Malatesta e Orazio, contrastarono in ogni modo il potere dello zio,

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Malatesta IV Baglioni sulle mura di Firenze, olio su tela di Giulio De Angelis (1845-1906). Perugia, Accademia di Belle Arti «Pietro Vannucci» (per gentile concessione).

Le ricche dimore dei Baglioni sorgevano alla sommità del colle Landone, occupando tutta l’area dell’attuale corso Vannucci, l’arteria principale di Perugia e le ripide pendici verso sud fino alla cerchia delle mura antiche, estendendosi poi in direzione ovest fino a Porta S. Pietro. Le case baglionesche erano di impianto medievale, costruite in altezza piú che in larghezza, dalla facciata severa, con scarse aperte verso l’esterno e sormontate e affiancate da una moltitudine di torri, che prendevano il nome dal proprietario dell’abitazione: c’erano la torre di Pandolfo, la torre di Guido e quella di Rodolfo dei Baglioni. Un’immagine della città in questa epoca è percepibile nei gonfaloni, grandi dipinti su tela destinati a essere portati in processione, in cui, ai piedi della Madonna o dei santi a cui si chiede di accordare la protezione, è fedelmente riprodotto il panorama della città. Nel Gonfalone di San Francesco al Prato, dipinto nel 1464 da Benedetto Bonfigli o in quello della Giustizia, realizzato dal Perugino per la confraternita di San Bernardino nel 1496, Perugia appare con il suo imponente profilo di mura e torri. Si riconoscono la mole del Palazzo dei Priori (attuale sede della Galleria Nazionale dell’Umbria) e le torri che popolavano il Colle Landone prima della loro demolizione per la Nella pagina accanto, in basso Gonfalone di San Francesco al Prato, tempera su tela di Benedetto Bonfigli. 1646. Perugia, oratorio di S. Bernardino. La Madonna, affiancata da santi, allarga il suo manto a proteggere i devoti dalle frecce della peste, lanciate da Cristo (o in altri casi da Dio stesso) raffigurato in alto; ai suoi piedi, gli esseri umani sono raccolti in preghiera intorno a un piccolo panorama della loro città, fedelmente riprodotta. ottobre

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Gonfalone della Giustizia, tempera e olio su tela di Pietro Vannucci (detto il Perugino), dall’oratorio di S. Andrea a Perugia. 1496. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. Nell’opera, dipinta per la confraternita di San Bernardino, il Perugino raffigura i santi Francesco e Bernardino e i membri del sodalizio che invocano la protezione della Vergine per se stessi e per l’intera città di Perugia, perfettamente riconoscibile nel profilo visto dalla collina di Montemorcino.

costruzione della Rocca Paolina. A detta delle descrizioni che ne fecero i cronisti e i letterati del tempo, il palazzo di Braccio era l’edificio piú bello della città: meno angusto nelle dimensioni e dotato di finestre e balconi aperti verso l’esterno. L’amore per la pittura del proprietario aveva fatto decorare non solo le mura interne, ma anche l’esterno, dove famosi lapicidi lombardi avevano scolpito eleganti colonnati e balconate di pietra. Il grande salone principale (Sala delle Ninfe) era adorno delle migliori pitture di scuola umbra. Tra queste, ampiamente celebrata era un’allegoria nella quale campeggiava la figura di Perugia, in veste di arcaica

matrona, a cui facevano corona le figure dei sapienti del passato, tra cui Bartolo e Baldo giureconsulti di gran fama, e i piú famosi condottieri perugini. Ogni personaggio era debitamente illustrato nel nome e nelle qualità da cartigli in latino composti da Francesco Maturanzio, il dotto umanista della corte di Braccio. Oltre a celebrare i grandi concittadini del passato, gli affreschi, secondo un costume prettamente rinascimentale, dovevano celebrare l’origine della stessa progenie. Infatti, secondo una leggenda che attinge all’antichità classica, il mitico fondatore della

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città sarebbe stato Euliste, sfuggito all’incendio di Troia, profugo in terra italica al seguito di Enea. Il palazzo fu terminato attorno al 1471 e alcuni studiosi hanno ipotizzato che alla decorazione pittorica avessero lavorato tutti gli artisti che all’epoca avevano la loro bottega in città, quali il Perugino, il Pintoricchio, Fiorenzo di Lorenzo (primo maestro del Perugino), Benedetto Bonfigli e altri venuti da fuori, come Domenico Veneziano e Andrea del Castagno, che avevano risposto all’appello del signore di Perugia per abbellirne la dimora.

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grandi famiglie

A sinistra i sotterranei della Rocca Paolina a Perugia, dove è possibile esplorare il susseguirsi di antiche viuzze e piazze tipiche della città medievale.

Le case dei Baglioni furono distrutte per ordine di papa Paolo III Farnese per far posto alla costruzione della Rocca Paolina, l’imponente fortezza edificata in tempi brevissimi tra il 1540 e il 1543, espressione del riaffermato potere pontificio sulla città dopo la rivolta nota come «guerra del sale» (1540), al termine della quale Perugia perse la propria autonomia e divenne pienamente soggetta allo Stato Pontificio. Progettato da Alessandro Tomassoni da Terni e Antonio da Sangallo il Giovane, il possente edificio fu simbolicamente realizzato proprio sui possedimenti dei Baglioni. I Perugini dovettero assistere impotenti alla demolizione di un intero quartiere della città: 200 case, oltre 30 torri, 7 chiese – tra cui la

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Piante dei sotterranei della Rocca Paolina disegnate da Costantino Forti. 1849. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria (archivio disegni). ottobre

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quattrocentesca S. Maria dei Servi –, 2 conventi, un ospedale. Sul frontone della Rocca, l’architetto Sangallo ebbe la sensibilità di ricomporre la parte superiore della monumentale porta etrusca (Porta Marzia), risalente al III secolo a.C. Come dimostrano due quadretti dipinti da Giuseppe Rossi tra il 1860 e il 1864, la Rocca consisteva in una complessa struttura articolata in diversi volumi: la Fortezza, dalla maschia struttura militare, il sovrastante Palazzo del Papa, e la Tenaglia, appendice difensiva protesa verso la campagna. Le case, le vie, le torri e i cortili ricadenti nel perimetro del fabbricato furono inglobati e coperti con possenti volte, costituendone il piano interrato, ancora oggi visibile. La stessa Rocca Paolina, cosí invisa ai Perugini, fu completamente demolita nell’elevato, prima nel 1848 e poi definitivamente nei decenni successivi all’annessione al regno d’Italia. Entrando oggi nei sotterranei della Rocca Paolina, invece di incontrare stanze e corridoi, si attraversano inaspettatamente strade, slarghi e piazzette della Perugia medievale coperti da volte: si possono ammirare ancora la Sala delle Guardie Papali, le torri della famiglia Baglioni e, prima di uscire nella parte inferiore della Rocca, i resti in pietra dell’antico «Giuoco del Pallone», uno stadio di legno dove veniva praticato tale gioco. Lara Anniboletti

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Veduta della Fortezza Paolina, olio su tela, di Giuseppe Rossi. 1860-1864 circa. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. Il dipinto mostra la parte meridionale di Perugia prima della demolizione della Fortezza Paolina. Si coglie lo sviluppo originario del monumento e si intuisce la monumentalità del palazzo situato nell’area su cui oggi sorgono il palazzo della Provincia e i giardini Carducci. Soprattutto colpisce l’isolamento della Fortezza rispetto al tessuto urbano.

fino a quando, nell’agosto del 1527, pochi mesi dopo il sacco di Roma a opera dei lanzichenecchi al servizio dell’imperatore, Orazio lo fece arrestare e uccidere, accusandolo di avere tradito il papa cercando di allearsi con gli imperiali di Carlo V d’Asburgo.

Una diarchia effimera

Il potere passò cosí in mano a una diarchia costituita dai due figli di Giampaolo, ma non durò a lungo: Orazio, infatti, morí in un’imboscata l’anno successivo, mentre, al comando delle Bande Nere, era impegnato nell’assedio di Napoli. Malatesta IV, che aveva combattuto anche lui alternativamente pro e contro il papato e aveva servito Firenze e Venezia con il grado di capitano, gli sopravvisse di pochi anni, morendo a Bettona, nella casa avita, a soli quarant’anni, probabilmente per un attacco di gotta. Concludere l’esistenza in tarda età e nel proprio letto era a quell’epoca un privilegio assai raro tra i potenti, che, praticando perlopiú il «mestiere delle armi», erano pronti ogni giorno a uccidere e a morire, eventualità tutt’altro che remota, visto che le vite di molti si concludevano in maniera cruenta. L’ultimo «signore» di Perugia fu il figlio di Malatesta, Rodolfo II, il quale, con il grado di capitano generale, aveva militato al servizio dell’imperatore e della Repubblica di Venezia; toccò a lui, il 3 giugno del 1540, firmare la resa della città a Paolo III Farnese, consegnandogli definitivamente, insieme a un potere ormai consumato dagli odi fratricidi, anche ciò che delle antiche libertà comunali della città era faticosamente sopravvissuto in oltre un secolo di dominio baglionesco. Rodolfo Baglioni usciva da Perugia il 4 giugno 1540, e il giorno dopo faceva il suo ingresso in città il duca di Parma e Piacenza Pierluigi Farnese, figlio di papa Paolo III e comandante delle truppe pontificie. Di lí a poco, la distruzione delle case dei Baglioni e l’erezione della Rocca Paolina ponevano fine al periodo comunale e signorile della storia del capoluogo umbro. F

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Splendori

angioini

di Furio Cappelli

L’avvento della grande dinastia francese segnò per Napoli un momento di svolta, non soltanto amministrativo. Carlo I e i suoi successori promossero importanti interventi edilizi e urbanistici, dei quali sono magnifiche testimoni alcune delle chiese piú insigni della città partenopea

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uando si pensa alla dinastia che fece di Napoli la capitale del proprio regno, è quasi istintivo esprimere un giudizio negativo o comunque assai poco entusiasta. Come ha notato il compianto storico Salvatore Tramontana († 2015), infatti, sugli Angioini grava la cappa di una «leggenda nera», che fa da schermo a una serena obiettività. Carlo I d’Angiò (1266-1285) è lo straniero giunto dalla Francia a spazzar via le glorie della casata normanno-sveva. Su di lui incombe l’onta indelebile della decapitazione di Corradino di Svevia, che proprio a Napoli si compí (1268). Il successore al trono partenopeo, suo figlio Carlo II (1285-1309), è ricordato da Dante solo perché claudicante. Tanto bastò per passare alla storia come «lo Zoppo». Difficilmente gli viene riconosciuto alcunché. Nemmeno l’infamia della distruzione della colonia saracena di Lucera (1300) è bastata a garantirgli una qualche notorietà, sia pure negativa. Solo con suo figlio Roberto (1309-1343) sembra schiudersi all’improvviso, e per poco, un momento di gloria nella storia della casata. La sua attività di mecenate e di cultore delle lettere, delle scienze e delle arti è ben nota. Basti pensare alla presenza alla corte angioina di un Giotto o di un Francesco Petrarca. Ma davvero non si può aggiungere altro? Napoli, S. Lorenzo Maggiore. Dormitio Virginis, affresco attribuito a Montano d’Arezzo. 1300 circa.

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A sinistra pianta del centro storico di Napoli, con, in evidenza, le chiese descritte nell’articolo. In basso il busto reliquiario di san Gennaro, realizzato da tre orafi francesi su incarico di Carlo II d’Angiò e oggi conservato in Duomo. 1304-1306.

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In generale, possiamo ben dire che Napoli divenne una capitale di Stato di rilievo europeo, proprio grazie agli Angiò, a partire dallo stesso Carlo I. La Napoli barocca, fascinosa ed eloquente, offre momenti indimenticabili, ma si inserisce in una solida maglia urbanistica e architettonica che già era stata definita tra il XIII e il XIV secolo. Se questa città ha raggiunto nel XVII secolo culmini ragguardevoli di grandezza e di espressione, occorre rendere atto agli «odiati» Angiò che questo è stato reso possibile, in prima battuta, dal loro impegno e dalla loro lungimiranza. Nel dettaglio, poi, non è vero che solo Roberto d’Angiò si sia attivato adeguatamente. Egli poté adoperarsi per dare maggior lustro alla propria capitale proprio perché suo padre e suo nonno avevano creato le giuste premesse per un tale sfoggio di grandeur e di bellezza. D’altro canto, se vogliamo misurare l’importanza di un

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sovrano con lo zelo nel campo degli edifici di spicco, la sua stessa moglie, Sancia di Maiorca (1285/86-1345), è stata molto piú attiva di lui. Carlo II ha legato il suo nome a varie chiese illustri, a partire proprio dalla nuova cattedrale. Persino suo padre, quel Carlo I all’apparenza capace solo di intrighi e di nefandezze, ha fondato Castel Nuovo e la splendida basilica di S. Lorenzo Maggiore. E proprio da questo edificio parte il nostro itinerario fra le chiese angioine di Napoli.

S. Lorenzo Maggiore La storia

S. Lorenzo è sorta sul luogo di una chiesa del VI secolo di cui si osservano tuttora i resti dei mosaici pavimentali. Si trova a pochi passi dal decumano centrale, ossia il principale asse viario della città greco-romana, corrispondente all’odierna via dei Tribunali. Dirimpetto a S. Lorenzo, proprio lungo la via, prospetta dall’alto di una gradinata la chiesa di S. Paolo Maggiore, con le colonne superstiti del tempio dei Dioscuri. La nuova chiesa, annessa alla sede dei Francescani, fu iniziata per volontà di Carlo I intorno al 1275. La realizzazione partí dalla zona absidale e vide sicuramente nella sua fase iniziale l’apporto di architetti francesi, come suggerisce l’intonazione tipicamente oltralpina della struttura, perfettamente in linea con i principi e gli effetti del gotico «da cattedrale». Carlo I aveva d’altronde favorito l’afflusso di personale dalla Francia per i quadri dell’amministrazione, e desiderava un accento «parigino» anche nelle realizzazioni artistiche che promuoveva nei suoi nuovi domini italici. Lo sviluppo del progetto, con la realizzazione dell’ampia aula a navata unica, mostra invece uno stile piú classico e lineare. Questo contrasto di accenti, attestato spesso nelle chiese francescane, era forse previsto sin dall’origine, ma l’aula si mostra in ogni caso piú aderente alla sensibilità del gusto locale. I lavori proseguirono per volere di Carlo II, il quale, al contrario del padre, volle sottolineare nelle sue committenze un vivo legame con la romanità.

La visita

Per entrare in chiesa occorre superare il mercato a cielo aperto di via San Gregorio Armeno, alla cui chiassosa vivacità fa da suggestivo contrasto la solennità severa e silenziosa di S. Lorenzo. Spicca bene la diversità tra l’invaso dell’ampia aula e l’elegante fondale del coro. Solo le cappelle che si aprono sulla fascia basale animano le pareti della navata, mentre l’ampia abside è strutturata a doppio guscio, con un corridoio esterno (deambulatorio) su cui si irraggia una corona di cappelle. Questo A destra l’arca sepolcrale in marmo con finiture in mosaico di Caterina d’Austria, opera di Tino di Camaino. 1324-1325.

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l’arte delle antiche chiese /10

erompere improvviso di forme complesse e raffinate materializza d’incanto gli scorci e gli effetti delle cattedrali dell’Île-de-France. In questa logica «teatrale» rientra l’ampio transetto continuo che si interpone tra la navata e l’abside. Si compone in questo modo un solenne corridoio trasversale, aperto sul fronte da un altissimo arco trionfale. Si tratta di una particolarità che sarà viva nella tradizione locale persino in piena età barocca. Proprio nel braccio destro del transetto si contrappongono due preziosi brani di un ciclo di affreschi dedicato alle Storie della Vergine. Si tratta della Natività di Cristo e della Dormitio Virginis (il momento in cui si spegne l’esistenza terrena di Maria). Siamo negli anni intorno al 1300, quando la pittura italiana è in pieno fermento, tra Roma, Assisi e Firenze, nella ricerca di un nuovo linguaggio per esprimere la verità delle scene e delle figu-

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re. E qui è probabilmente all’opera un pittore toscano, Montano d’Arezzo, che si pone sulla scia di una delle figure piú autorevoli del momento, il romano Pietro Cavallini, il quale, del resto, si recò a Napoli per entrare al servizio di Carlo II d’Angiò, nel 1308, e ha lasciato in città segni evidenti del suo operato, come i dipinti della Cappella Brancaccio in S. Domenico Maggiore. Tornando a S. Lorenzo, merita poi un’attenzione particolare, a destra dell’altar maggiore, l’arca sepolcrale in marmo, ricca di finiture a mosaico. Si tratta della sepoltura di Caterina d’Austria, della casata degli Asburgo, per brevissimo tempo moglie dell’imperatore Enrico VII e infine consorte del duca Carlo di Calabria (1298-1328), figlio di re Roberto e signore di Firenze. Il legame politico degli Angiò con la città toscana si aggancia perfettamente alla scelta dell’artefice, Tino di Camaino, architetto e scultore senese, talmente asottobre

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A sinistra particolare della facciata del duomo, edificato fra il 1294 e il 1325 e intitolato a santa Maria Assunta. In alto S. Restituta, Cappella di S. Maria del Principio. Madonna in trono col Bambino tra i Santi Gennaro e Restituta, mosaico eseguito da Lello (Raffaello) da Orvieto. 1322. A destra duomo, Cappella Minutolo. Il monumento funerario del cardinale Arrigo. 1402-1405

sorbito dalle committenze locali che finí per risiedere a Napoli fino alla morte, nel 1337. La tomba di Caterina, la sua prima opera partenopea, risale al 1324-25, e vide il diretto interessamento del duca Carlo per il reperimento dei marmi necessari, fatti giungere in modo significativo da Roma. La stessa adozione degli ornati a mosaico intarsiato, estranea alle opere precedenti di Tino, si aggancia a uno stile tipicamente romano, elaborato e diffuso dai maestri cosmateschi, fino a divenire un «marchio» che rimandava immediatamente ai fasti delle basiliche papali. Con la sua sapiente espressività senza enfasi, giocata su toni smorzati, la mano di Tino si vede bene nella figura stessa della defunta, dove il volto reclino, con un’espressione di abbandono quasi colta dal vero, rompe la rigidezza del corpo. Prova di una maestria indiscutibile sono poi le figure che sostengono la cassa del sarcofago,

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l’arte delle antiche chiese /10 con una cappella destinata ai monumenti funebri di suo padre e di altri illustri membri della famiglia reale. Lo stesso Carlo commissionò il busto argenteo di san Gennaro (1304-1306), e ne affidò la realizzazione a tre valenti orafi francesi. Nel 1309, due scultori tedeschi realizzarono invece una statua di Carlo II destinata proprio al duomo, oggi perduta.

La visita

Come prova, tra l’altro, lo sgargiante soffitto ligneo del XVII secolo, la chiesa ha subíto ripetute modifiche, aggiunte e rifacimenti, sicché la sua stessa veste «medievale» è in larga parte il frutto di un restauro in stile del XIX secolo. Ma proprio il restyling ottocentesco ci fornisce un’immagine complessiva attendibile dell’aspetto del tempio voluto dai suoi committenti. L’intonazione gotica è molto contenuta, mentre trionfa un senso di solennità antica, per rimarcare le remote origini della Chiesa partenopea. A questo fine, le colonne di marmo della precedente basilica Stefania (che sorgeva di fianco a S. Restituta) furono tagliate in due e adattate alla partitura delle nuove pareti. Nacque cosí uno dei piú importanti monumenti del Medioevo italiano, degno d’essere accostato a realizzazioni contemporanee ben piú famose, come la basilica di S. Croce a Firenze. La Cappella Minutolo, sul braccio destro del transetto, conserva, tra le altre, la sepoltura dell’arcivescovo tra le quali spicca la cariatide che raffigura la Carità, una matrona chiusa tra ricche matasse di foglie, con due vivaci fanciulli che si attaccano alla sua veste.

Duomo La storia

Secondo la tradizione, la chiesa originaria ha un committente illustre: l’imperatore Costantino in persona. La chiesa di S. Restituta, annessa al duomo sul lato sinistro, mantiene comunque la memoria di una fondazione del IV secolo. La struttura è stata variamente modificata nel corso del tempo, ma conserva un prezioso annesso, il battistero di S. Giovanni in Fonte, con la cupola decorata da pregevoli mosaici paleocristiani (fine del IV-inizi del V secolo). La decisione di fondare una nuova, vasta cattedrale dedicata all’Assunta, si concretizzò nel 1294, con il pieno e convinto sostegno di Carlo II: in quell’anno il sovrano ritornò nella sua capitale e vi rimase in sede stabile, dopo le lunghe e travagliate vicende della fase iniziale del suo regno. L’impresa, protrattasi fino al 1325, veniva cosí a segnare un particolare momento di stabilità e di fervore. Per la verità, l’iniziativa partí dall’arcivescovo Filippo Minutolo, ma il re se ne assunse oneri e onori, volendo per giunta fare della prima chiesa di Napoli il sacrario della dinastia angioina,

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Nella pagina accanto, in alto duomo, Cappella Minutolo. Crocifissione, affresco di Montano d’Arezzo. 1290 circa. A destra S. Maria Donnaregina («la Vecchia»). La tomba di Maria d’Ungheria, opera di Tino di Camaino. 1325-1326. In basso santa Elisabetta d’Ungheria saluta il marito che parte per le crociate, particolare degli affreschi nel coro delle monache di S. Maria Donnaregina. Prima metà del XIV sec.

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l’arte delle antiche chiese /10 S. Chiara. L’altare maggiore, alle cui spalle si staglia il monumento funebre di re Roberto d’Angiò. Ai lati, le tombe di Maria di Durazzo (a sinistra) e Carlo d’Angiò, duca di Calabria.

Filippo, morto nel 1301. Situata a destra dell’altare, è stata eseguita da artisti romani e mostra l’immagine del defunto (gisant) nel suo paludato abito talare sopra al coperchio del sarcofago, decorato in modo virtuosistico dalle frange marmoree di un lenzuolo. Sul fronte corre infine un elaborato motivo a marmi intarsiati, di evidente matrice cosmatesca. Spicca, al centro, l’elaborata sepoltura del cardinale Arrigo, eseguita negli anni 1402-1405, ma la cappella si segnala ancor piú per la residua decorazione pittorica eseguita dal già citato Montano d’Arezzo intorno al 1290. Nella Crocifissione il pittore toscano fornisce una prova di «moderna» rivisitazione dei canoni antichi, con un Cristo di grande impatto emotivo. Nell’abside destra, la confinante Cappella Tocco (o di S. Aspreno), con le sue linee architettoniche di schietta impronta gotica, è stata ampiamente ridecorata, ma fornisce un’idea dello stile edilizio oltralpino adottato nel coro, nella fase iniziale della costruzione, per fare da pendant al rigore «classico» previsto nell’aula basilicale. E rimangono comunque, nella fascia basale, gli eloquenti resti degli affreschi originali. Si trat-

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ta di un apparato di ornati geometrici in finto marmo (tra cui una raffinata transenna in trompe-l’oeil) entro cui si articola una vigorosa serie di ritratti di Santi, opere del Cavallini in persona. In S. Restituta, nella cappella di S. Maria del Principio (navata sinistra), va infine segnalata la presenza del mosaico absidale con la Madonna in trono col Bambino tra i Santi Gennaro e Restituta, che si situa nel solco della tradizione romana impersonata dallo stesso Cavallini e che venne eseguito nel 1322 da Lello (Raffaello) da Orvieto. L’erede al trono, il duca angioino Carlo di Calabria, nel 1320, aveva compiuto una donazione proprio a favore dei lavori di costruzione della cappella.

S. Maria Donnaregina, S. Chiara La storia

Tocchiamo infine due fondazioni accomunate da una presenza monastica significativa, quella delle suore francescane di clausura (Clarisse), e ancor piú legate dal diretto interesse di due rispettive regine. Si tratta in entrambi i casi di fondazioni angioine di diversa intonazione, raccolta una, immensa l’altra. S. Maria Donnareottobre

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Da leggere Caroline Bruzelius, Marina Righetti Tosti-Croce, Ferdinando Bologna, Francesco Aceto, Erno Marosi, Angioini, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1991; anche on line su treccani.it Francesco Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il Sud angioino e aragonese, Donzelli, Roma 1998 Caroline Bruzelius, Le pietre di Napoli. L’architettura religiosa nell’Italia angioina, 1266-1343, Viella, Roma 2005 Pierluigi Leone De Castris, Giotto a Napoli, Electa Napoli, Napoli 2006 Pierluigi Leone De Castris, Pietro Cavallini. Napoli prima di Giotto, Arte’m, Napoli 2013

gina fu realizzata a pochi passi dal duomo per volere di Maria d’Ungheria (1257-1323), moglie di Carlo II. In corso d’opera intorno al 1298, fu consacrata nel 1320. Come si legge nella solenne epigrafe alla base della torre campanaria, S. Chiara risulta una fondazione congiunta di re Roberto e della consorte Sancia di Maiorca, intrapresa nel 1310, ma risponde in realtà a uno specifico impegno profuso dalla sovrana. Oggi la si ammira dopo la ricostruzione che fece seguito ai bombardamenti aerei del 9 agosto 1943.

La visita

La medievale S. Maria Donnaregina è definita «la Vecchia» per distinguerla dalla Nuova (1617-1626). Le due chiese formano un complesso unitario inerente al medesimo monastero, e ospitano oggi il Museo Diocesano. Come accennato, la chiesa antica ha dimensioni limitate e mostra una scarna purezza, che si accorda bene ai principi e all’austera pratica di vita delle religiose. Lo spazio è ben scandito in base alle rispettive funzioni. L’aula è a navata unica, ma nella parte iniziale è strutturata a due piani; al pianterreno c’è un ambiente a tre navate destinato alle messe dei laici; al piano superiore c’era il coro delle monache, con il parapetto originariamente dotato di un sistema di grate, per proteggerle dagli occhi del mondo. L’abside, con due ingressi riservati, era destinata ai celebranti, mentre nello spazio antistante c’era la tribuna dei sovrani. Lí sorge la tomba di Maria d’Ungheria, «presente» dopo il trapasso nello stesso luogo che le era assegnato in vita. È il capolavoro partenopeo di Tino di Camaino, realizzato negli anni 1325-26, anche qui con l’apporto dei marmi romani. L’architettura scenica e tutte le parti figurate esprimono un grande senso dell’armonia e una raffinata cura del dettaglio. Gli angeli che reggono la cortina possiedono una personalità distinta, dal momento che sono resi ciascuno

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con una movenza e con uno spirito proprio. Quello di sinistra è ardito, in posa frontale, quello di destra è piú pacato. Su tre lati della cassa, sul fondo blu mosaicato, si dispiegano poi i ritratti degli undici figli della sovrana, con san Ludovico da Tolosa in posizione centrale. Tino si cura di movimentare questa pagina di ritrattistica ufficiale con attributi e posture diverse, cosí da evitare ogni forma di astratta ripetizione. S. Chiara, dal canto suo, è una grande realizzazione, piú vasta dello stesso duomo, ed è di una stupefacente originalità. Persino lo sfarzo barocco della chiesa del Gesú Nuovo, che sorge dirimpetto, non può competere con il senso di maestà che traspare dal complesso angioino. L’aspetto fortificato della chiesa stessa manifesta l’ampia gamma di funzioni per cui era stata progettata. Non si trattava solo di esaltare la clausura delle religiose, creando una «roccaforte femminile». Occorreva stabilire un legame tra il pauperismo francescano, nella sua accezione piú radicale, e l’autorità sovrana. S. Chiara era infatti destinata a essere il pantheon della casa reale, ed era lo scenario perfetto per ogni tipo di cerimoniale. D’altronde, come ha sottolineato la studiosa Caroline Bruzelius, «la badessa di Santa Chiara deteneva il titolo ragguardevole di “Regina di Pozzuoli” e portava le insegne reali in occasione di alcune feste pubbliche». Per creare una sorta di bilanciamento tra la clausura e la predicazione, il complesso di S. Chiara fu concepito, sin dall’origine, come un convento doppio, con una comunità di frati Minori che faceva da contraltare alle religiose. Il coro delle monache è situato in un’aula a sé stante che si sviluppa dietro il fondale del presbiterio. A contatto con l’aula, proprio intorno all’altar maggiore, si situava il coro dei frati. In quel punto, nella parete che faceva da diaframma tra il mondo e la clausura, si stagliano tuttora tre sepolture illustri. Al centro è il grande monumento di re Roberto (in larga parte mutilo), commissionato dalla regina Giovanna I ed eseguito dai fratelli Pacio e Giovanni Bertini da Firenze (1343-45). E un tempo, come provano ancora oggi pochi frammenti superstiti, la chiesa mostrava un vasto apparato pittorico eseguito da Giotto e dalla sua bottega. F

NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte (n. 263, dicembre 2018); Valle d’Aosta (n. 264, gennaio 2019); Lombardia (n. 265, febbraio 2019); Veneto (n. 266, marzo 2019); EmiliaRomagna (n. 267, aprile 2019); Toscana (n. 268, maggio 2019); Umbria (n. 269, giugno 2019); Marche (n. 270, luglio 2019); Lazio (n. 271, agosto 2019); Abruzzo (n. 272, settembre 2019) NEL PROSSIMO NUMERO Puglia: Trani, S. Maria Assunta; Bitonto, S. Maria e S. Valentino; Troia, S. Maria Assunta

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IMPERIUM

QUANDO ROMA DOMINAVA IL MONDO Quella dell’impero romano non è soltanto una storia di conquiste e condottieri, ma è una vicenda ben piú articolata e complessa. Al di là dei confini geografici e dell’estensione dei territori che Roma arrivò a controllare, la formazione e la vita del suo impero poterono infatti avere luogo grazie alla costruzione di una macchina amministrativa straordinariamente efficiente, in grado di gestire tutti gli apparati dello Stato. Come dunque leggerete nella nuova Monografia di «Archeo», firmata da Livio Zerbini, le vicende che segnarono l’avvento della prima superpotenza della storia furono sí di natura innanzitutto bellica, ma, dalle armi, la parola passò poi alla fitta rete di funzionari incaricati di garantire l’allineamento di tutte le province via via istituite, fino alle piú lontane. Ed è altrettanto importante ricordare l’accorta politica dei nuovi padroni del mondo, che cercarono sempre di evitare che l’esercizio del potere, seppur ferreo, si trasformasse in abuso. Un modello a lungo vincente, ma che, logoratosi dall’interno, nulla poté di fronte agli scenari disegnati dall’entrata in scena delle popolazioni barbariche.

IN EDICOLA


testi di Caterina Quareni, Vincenza Maugeri, Renata Curina, Valentina Di Stefano,Giovanna Belcastro, Cinzia Cavallari, Mauro Perani e Alessio Zoeddu

Quell’«orto» al centro di

Bologna A partire dalla metà del Trecento, la città felsinea si appresta a diventare uno dei principali centri della vita ebraica in Italia. Di quell’epoca, una recentissima e fortuita scoperta ha offerto l’occasione di tracciare un quadro drammatico e appassionante. Una mostra al Museo Ebraico di Bologna ne illustra l’epica vicenda

Particolare della lapide funeraria di Shabbetay Elchanan da Rieti (m. 1546), dal cimitero ebraico medievale di Bologna scoperto in via Orfeo. Bologna, Museo Civico Medievale.


Dossier

L L

a preziosa, inaspettata scoperta del cimitero ebraico bolognese di via Orfeo invita a tornare sul periodo piú fecondo della presenza degli Ebrei a Bologna, compreso tra la metà del Trecento e il 1569, anno della prima cacciata dallo Stato Pontificio. Per quanto sia plausibile ritenere che vi siano stati insediamenti ebraici a Bologna anche in tempi piú remoti, le prime testimonianze documentali reperite negli archivi cittadini attestano una presenza consistente di famiglie ebree in città a partire dalla seconda metà del Trecento. Risale al 1353 la prima traccia della presenza a Bologna di Gaio Finzi «iudeus qui fuit de Roma», componente di un’estesa famiglia di banchieri che aveva ramificazioni in parecchie città del Centro e del Nord Italia. Quando si parla di Ebrei in Italia, è fondamentale tenere in considerazione non solo l’individuo, ma anche la famiglia. Dal momento, infatti, che gli Ebrei erano ricercati in modo particolare per una delle attività a loro consentite – il prestito di denaro –, il far parte di un nucleo familiare ampio e diffuso in vari centri garantiva loro la buona gestione della propria attività. Intorno al nucleo familiare inteso in senso stretto, si riunivano poi altri individui che lavoravano all’interno del banco in ruolo subalterno, ma potevano anche assurgere al grado di soci, recando con sé, a loro volta, le proprie famiglie, all’interno delle quali non tutti i componenti si dedicavano al mestiere di banchiere, ma potevano essere commercianti, artigiani, medici, intellettuali, o tutto questo contemporaneamente. Gradualmente, quindi, l’ingresso di una famiglia in una città diveniva stanziale, e progressivamente, intorno a essa, si formava una comunità, con la sua sinagoga e, soprattutto, il suo sepolcreto, riservato e separato dall’area cimiteriale cristiana. Occorre inoltre considerare la

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grande mobilità degli Ebrei, sia degli individui, sia delle famiglie, che rende problematico classificarli come appartenenti a una città piuttosto che a un’altra ed estremamente difficoltoso ricostruire le genealogie, ulteriormente complicate dalla ricorrenza dei cognomi e dei nomi propri, il piú delle volte ripetuti di generazione in generazione. Analogamente a quanto accade nelle altre città, gli Ebrei che iniziano a concentrarsi a Bologna dalla metà del Trecento in poi sono prevalentemente dediti al prestito su pegno, richiamati dallo stesso governo

In alto Bologna, basilica di S. Petronio, cappella di S. Abbondio (già di S. Giorgio). Trionfo della Chiesa sulla Sinagoga, affresco di Giovanni da Modena. 1420-1421. Nella pagina accanto Bologna, basilica di S. Petronio, cappella di S. Abbondio (già di S. Giorgio). Allegoria della Redenzione, affresco di Giovanni da Modena. 1420-1421. Il Cristo crocifisso è fiancheggiato dagli eletti (a sinistra) e dai dannati: tra questi ultimi si riconoscono Mosè e Abramo, a significare che la salvezza passa solo attraverso la conversione. ottobre

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per far fronte alla necessità di credito dei cittadini e del Comune. Il servizio reso dai prestatori ebrei continua a essere richiesto anche sotto la signoria dei Pepoli e dei Bentivoglio e sotto il diretto dominio pontificio, ed è regolamentato dalle cosiddette «condotte», contratti bilaterali scritti che determinano le clausole entro le quali gli Ebrei hanno licenza di risiedere in città e di esercitare la loro professione: tassi di interesse, tributi, divieti e diritti circa il rispetto delle tradizioni alimentari (kasheruth) e delle festività ebraiche. Contemporaneamente a quello

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di prestatore, come si è detto, gli Ebrei esercitano anche altri mestieri e praticano svariate altre attività. Per tutto il XV secolo – e fino alla metà del XVI –, infatti, gli Ebrei che si insediano a Bologna si dedicano anche al commercio, in particolare di panni e stoffe di seta, alla tipografia, e a mestieri umili, come il sarto, il calzolaio, l’ambulante.

Vita comunitaria

Altri mestieri sono poi collegati alla vita stessa e all’organizzazione della comunità; non mancano, tra gli altri, gli addetti alla macellazione rituale

della carne (shochetim), attività concessa e regolata da specifiche clausole contenute nelle condotte, che, tra l’altro, concedono anche di vendere ai cristiani le parti vietate nell’alimentazione ebraica, come i posteriori e le interiora degli animali. Nella comunità bolognese è inoltre documentata la presenza di un Ebreo cocchiere, di un oste in contrada Caldarese e di un musico e cantante, tale Simone di Emanuele Del Ben. Nel momento in cui la presenza degli Ebrei a Bologna diviene stanziale, nonostante la continua mobilità dei singoli individui, e si crea ottobre

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una comunità di Ebrei «bolognesi» o comunque stabilmente residenti, si adempie a una delle principali esigenze sentite dalla cultura ebraica: la costituzione di un cimitero. Come dimostra il riassunto di un atto notarile, conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna, l’8 agosto 1393 Elia, Ebreo di Orvieto, acquista un appezzamento di terra ortiva e alberata sito presso il monastero di S. Pietro Martire per adibirlo a cimitero per gli Ebrei. È questo il sepolcreto recentemente tornato alla luce nel corso dei lavori di scavo (2012-2014) per la costruzione del-

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le fondamenta di un nuovo edificio, andato a sostituire una precedente costruzione presente da anni in una delle strade del centro di Bologna. Dalla fondazione del cimitero in poi, la presenza di una folta comunità ebraica a Bologna può dirsi costante e i rapporti con i cristiani sono abbastanza buoni. Non mancano, però, momenti di attrito, come la probabile, anche se non certa, imposizione del segno di riconoscimento nel 1417 da parte del cardinale Niccolò Albergati. Sempre nella prima metà del Quattrocento, alcune opere d’arte ancora oggi visibili de-

A sinistra, sulle due pagine gruppo scultoreo che mette in scena l’episodio del tentativo di profanazione del corpo della Vergine per mano di un Ebreo, opera di Alfonso Lombardi. 1522. Bologna, S. Maria della Vita, oratorio dei Battuti. In alto Miracolo del Crocifisso di Beirut, olio su tela di Jacopo Coppi. 1579. Bologna, chiesa del SS. Salvatore.

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Dossier Lo scavo

Una necropoli nascosta La vasta area occupata dal cimitero ebraico medievale di Bologna è compresa nell’isolato delimitato dalle vie Orfeo, de’ Buttieri, Santo Stefano e Borgolocchi. Le indagini archeologiche, avviate per la costruzione di un condominio, hanno interessato solo una parte dell’area funeraria, di cui non si conosce l’estensione completa. Lo scavo ha raggiunto una profondità di 5 m circa, permettendo di portare alla luce testimonianze archeologiche dall’età preistorica all’età moderna. Di estremo interesse è la fase compresa tra il XIV e il XVI secolo, momento in cui l’area è destinata al cimitero: le circa 400 tombe indagate presentano un’organizzazione molto sistematica, con una disposizione per file parallele orientate nord-sud, soprattutto nel settore occidentale. Per osservare il precetto dell’individualità della sepoltura, le tombe sono distanziate tra loro da una fascia di rispetto. Tranne alcuni casi isolati, i defunti giacciono in posizione supina, con il capo collocato a ovest, le braccia distese lungo i fianchi o disposte sul petto. Le fosse sepolcrali contenevano casse di legno chiuse con chiodi di ferro, al cui interno i defunti

erano avvolti in sudari, secondo le tradizioni religiose ebraiche. Sui corpi sono stati rilevati i segni evidenti di una sistematica attività di danneggiamento delle salme, che ha interessato circa la metà delle sepolture. A causa delle alterazioni, non si conservano nella sede originale le lapidi e i segnacoli delle tombe, ma la loro presenza è ricostruibile dalle strutture murarie conservate che dovevano proteggere le sepolture dalla volontà di depredare eventuali elementi di corredo e di distruggere qualunque traccia della loro memoria. Renata Curina e Valentina Di Stefano

In alto le sepolture del settore occidentale del cimitero ebraico scoperto in via Orfeo. A sinistra lo sviluppo topografico di Bologna fra l’età tardo-antica e il XVI sec.

notano, almeno in una parte della società cristiana, un atteggiamento tendenzialmente prevaricatorio nei confronti degli Ebrei. Prendiamo l’esempio del Trionfo della Chiesa sulla Sinagoga, affresco presente in una cappella della basilica di S. Petronio, che rappresenta una croce brachiale nell’atto di incoronare una figura femminile simboleggiante la Chiesa e trafiggerne un’altra raffigurante invece la Sinagoga (vedi foto a p. 82). L’affresco è abbinato a un altro in cui il crocifisso compare al centro della parete, fiancheggiato dagli eletti e dai dannati: tra questi ultimi appaiono Mosè e Abramo, a significare che la salvezza passa solo attraverso la conversione. Altre opere da collocare nella stessa scia di pensie-

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ro sono il gruppo scultoreo conservato nell’oratorio dei Battuti, presso la chiesa di S. Maria della Vita, terminato da Alfonso Lombardi nel 1522, che mette in scena il tentativo di profanazione del corpo della Vergine a opera di un Ebreo o il ciclo di tele dedicate al miracolo di Beirut della chiesa del SS. Salvatore, dove la profanazione rivolta contro un crocifisso si traduce in un miracolo in grado di portare alla conversione un’intera comunità di Ebrei libanesi (vedi foto a p. 85).

Comunità a congresso

Privilegi, restrizioni, richiami alla conversione: sono segni di una relazione dinamica tra due parti che contrattano e oppongono resistenza l’una all’altra, interagendo tuttavia spesso in maniera anche proficua. Nel periodo considerato, infatti, la città si presenta come uno dei centri piú vivi della cultura ebraica nella nostra Penisola. Ne sono testimonianza il congresso dei rappresentanti delle comunità ebraiche dell’Italia centro-settentrionale, tenutosi a Bologna nel 1416, e l’istituzione, nel 1464, di una cattedra di ebraico presso lo Studio bolognese. Nell’incrociarsi dei flussi migratori determinati dalle espulsioni da Paesi vicini, la tradizione ebraica locale si arricchisce degli apporti della cultura sefardita e di quella ashkenazita. Il risultato è lo sviluppo di una fiorente attività di copiatura e di decorazione di manoscritti ebraici di carattere religioso, letterario e scientifico, redatti secondo le tre principali tradizioni scrittorie dell’Occidente. Tra il 1477 e il 1488 fiorisce la tipografia ebraica bolognese di Yosef ben Avraham Caravita, dalla quale, nel 1477, escono la stampa dell’editio princeps dei Salmi con il commento di David Qimchi e nel 1482, quella commentata del Pentateuco. A quest’ultima opera lavora Avraham ben Chayyim dei Tintori da Pesaro, uno dei piú abili tipografi dell’epoca, noto per aver risolto i problemi

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lo studio antropologico

Cosí vivevano Uno studio antropologico fornisce informazioni non desumibili da altri dati ed è perciò complementare allo studio delle fonti archeologiche, storiche e documentarie. Quello condotto sugli inumati del cimitero ebraico medievale scoperto in via Orfeo è iniziato nel 2014 presso il Laboratorio di Antropologia Fisica dell’Università di Bologna, al termine delle attività di scavo. Malgrado le differenze nello stato di conservazione dei resti scheletrici, lo studio ha consentito di ricostruire le caratteristiche fisiche e demografiche degli individui qui sepolti e di ottenere informazioni su dieta, stato di salute e stile di vita della popolazione ebraica bolognese tra il XIV e il XVI secolo. Sono stati rinvenuti scheletri di individui di tutte le fasce di età e di entrambi i sessi. Gli individui di età inferiore ai 18 anni sono in prevalenza neonati e bambini entro i 12 anni e rappresentano circa il 20% della popolazione inumata. Tra gli adulti, la fascia d’età piú rappresentata è quella compresa fra i 36 e i 55 anni. La mortalità infantile, piuttosto elevata, le tracce di malattie infettive, la presenza di fattori, come malnutrizione e malattie dell’infanzia, in grado di compromettere i normali processi di crescita, indicano condizioni di vita mediamente precarie. L’esame condotto sulle dentature rivela inoltre una dieta mista, caratterizzata sia dalla presenza di zuccheri sia da un elevato contenuto proteico. Complessivamente, le condizioni di salute, le abitudini alimentari e le prassi igieniche riscontrate appaiono del tutto compatibili con lo stile di vita del tempo nel territorio italiano, ma, ovviamente, non paragonabili agli standard attualmente misurabili in una società contemporanea come la nostra. Giovanna Belcastro tecnici legati alla vocalizzazione delle lettere ebraiche. Avraham ben Chayyim lasciò Bologna nel 1488, per raggiungere Soncino, dove, nello stesso anno, l’omonima famosa stamperia pubblicherà l’editio princeps dell’intera Bibbia.

Traduzioni illustri

Non mancano le traduzioni, dall’ebraico al latino e dalle lingue classiche all’ebraico: il rabbino ‘Azaryah de’ Rossi, uno dei «Soci» legati a ‘Ovadyah Sforno, traduce in ebraico, la Lettera di Aristea a Filocrate, testo in greco ellenistico del II secolo a.e.v. che narra la leggenda intorno alla traduzione dei Settanta. Parecchi sono poi gli Ebrei che esercitano la medicina, raramente con lauree ottenute presso le università di Padova, Bologna, Ferrara, ecc., ma, assai

piú spesso, muniti di semplice licentia practicandi. A Bologna, nel 1410, abbiamo notizia del magister Elia, medico apprezzato e benvoluto anche da Enrico IV d’Inghilterra e dal marchese Lionello d’Este, di un Angelo di Isacco a cui viene conferita la laurea, di Mosè di magister Abramo Finzi da Reggio, Ebreo da Longiano, che ottiene il titolo accademico per diretta concessione del papa nel 1543. Fino al 1528 è attestata anche la presenza di Ya‘aqov Mantino, famoso per la traduzione dall’ebraico al latino delle opere di Averroè e Avicenna. Del Canone di Avicenna, fondamentale summa del sapere medico di allora, la Biblioteca Universitaria di Bologna conserva un superbo manoscritto del XV secolo, ornato da splendide miniature a piena pagina, con scene che illustrano le

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Gli ori

Anelli e gioielli per l’ultimo viaggio

N

Durante lo scavo archeologico del cimitero di via Orfeo sono stati recuperati numerosi oggetti deposti insieme ai defunti, come elementi di ornamento, sia in funzione personale sia simbolica. I materiali si inquadrano in un arco cronologico compreso tra il XV e il XVI secolo e confermano la datazione del cimitero ricavata dalle fonti storiche e archivistiche. Tra i reperti si segnala

l’agata, in un esemplare è incastonata una gemma incisa (corniola), di età romana e riutilizzata successivamente, e in tre monili è montato uno zaffiro. Tre anelli sono interpretabili come fedi nuziali. Ottenute per fusione, con una lega d’argento e di rame, costituiscono una tipologia di vera decorata dal motivo dell’atto di stringersi la mano destra, che rappresenta simbolicamente l’unione la netta prevalenza degli anelli, prevalentemente ottenuti per fusione in lega d’oro e del tipo con castone, fedi nuziali e vere. Gli anelli a castone, piú o meno pronunciato, presentano diversi tipi di pietre, la piú utilizzata delle quali è il granato rosso, tagliato à cabochon, a tavola piana o con sfaccettature; in un solo caso compare

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nel matrimonio. Altre fedi, a fascia piú o meno alta, recano iscrizioni incise. Nello scavo sono stati recuperati anche alcuni orecchini, a cerchio semplice o a cerchio con tre globetti cavi, dei quali sono noti altri esemplari provenienti da contesti funerari ebraici. Di particolare interesse risultano i 31 vaghi di ambra, uno di calcedonio e uno d’agata che vengono presentati ricomposti e facevano parte di una collana o di un rosario.

In alto collana in vaghi di ambra, calcedonio e agata. A sinistra anello in oro con granato incastonato a notte. ottobre

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A destra ditale troncoconico in lega di rame con bulinatura. Sulle due pagine planimetria generale dello scavo con la distribuzione dei materiali e dei gioielli nelle sepolture.

A questi si aggiungono anelli e orecchini di bronzo, due chiavi in ferro, ditali e un paio di forbici in ferro, che probabilmente si riferivano al lavoro svolto in vita dall’inumata. Una cosí numerosa e insolita presenza di oggetti in materiali preziosi, mai riscontrata in cimiteri ebraici coevi, sembra delineare per il cimitero di via Orfeo un quadro sociale piuttosto elevato. Valentina Di Stefano e Cinzia Cavallari

Nella pagina accanto, in basso, a destra anello in oro a fascia con tralcio vegetale. A destra anello in oro con granato sfaccettato in castone rettangolare.

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principali pratiche mediche e terapeutiche (vedi box alle pp. 90-93). Una menzione particolare merita ‘Ovadyah Sforno, Servadio nella dizione italiana del nome. Nato a Cesena nel 1475, discende da una potente famiglia di banchieri, medici e rabbini approdata a Bologna con Samuele di Santo del Forno, Ebreo di Barcellona che risulta abitare nella città felsinea già nel 1407. Esercita anch’egli le professioni di banchiere e medico, è rabbino, ma spicca soprattutto come intellettuale, giocando un ruolo particolarmente interessante tra le due culture ebraica e cristiana. A un’approfondita formazione rabbinica affianca la laurea in medicina – traguardo, come si diceva, non facile da raggiungere per un Ebreo a quei tempi – ottenuta a Ferrara nel 1501. Vive a Roma almeno fino al 1526 dove compie gran parte dei suoi studi e impartisce lezioni di lingua ebraica avendo, tra i suoi discepoli, anche l’umanista Johannes Reuchlin, che si metterà in polemica contro i Domenicani in difesa

degli Ebrei e sarà condannato dalla corte pontificia nel 1520. ‘Ovadyah si trasferisce poi a Bologna, dove termina i suoi giorni nel 1550, poco prima che inizi il declino per la sua famiglia e, piú in generale, per gli Ebrei dello Stato Pontificio. Come si è visto, sia la professione di banchiere, che imponeva il mantenimento di salde relazioni interpersonali, sia lo status di rabbino e di intellettuale, che induceva a instaurare rapporti anche al di fuori delle mura cittadine, fanno, dell’Ebreo rinascimentale, una figura in continuo movimento, mai legata a una sola città. ‘Ovadyah Sforno non fa eccezione, ma, per l’importanza che vi assume e per il radicamento della sua famiglia, possiamo considerarlo prevalentemente legato alla città di Bologna. Qui, dove vive anche il fratello Graziadio (Chanan’el), prestatore in uno dei prestigiosi banchi di proprietà della famiglia, ‘Ovadyah esercita la professione di medico e di rabbino, facendo parte anche della corte rabbinica, tribunale dedicato a giudicare in cause relative al territorio emiliano-romagnolo e non solo alla città di Bologna, fonda e dirige una scuola e avvia molti giovani alla medicina. Dà inoltre notevole impulso alla tipografia ebraica. Insieme a una compagnia di «soci contraenti, che lavorano assieme anche la seta», sostiene e finanzia la stampa di varie opere, due delle quali portano la sua firma: il trattato filosofico Or‘ ammim (1537), proposto anche in traduzione latina con il titolo di Lumen gentium (1548), e un commento alle massime dei Padri all’interno di un Machazor (ciclo liturgico annuale) di rito italiano (1540). Postume e stampate tra Roma e Venezia sono invece altre opere molto importanti di esegesi biblica, tra cui merita d’essere ricordato soprattutto il commento al Pentateuco. Scrive anche una grammatica ebraica corredata di traduzione lati(segue a p. 94)

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Avicenna a Bologna: un tesoro in codice Maggiore di due figli, Abu Ali al-Husayn ibn ‘abd Allah ibn Sina, conosciuto come Ibn Sina nel mondo islamico e come Avicenna in Occidente, nacque nel 980 e.v. (370 dell’Egira) nel villaggio di Afshanah, presso Bukhara (attuale Uzbekistan), del quale erano originari i genitori e dove il padre divenne funzionario per la dinastia regnante. A Bukhara, Avicenna iniziò gli studi, dimostrando da subito capacità di apprendimento e intelligenza fuori dall’ordinario. All’età di dieci anni aveva già memorizzato il Corano e la maggior parte della poesia araba che aveva letto. Si volse allo studio della giurisprudenza e udí le prime dispute di argomento filosofico-religioso nella casa del padre. Ben presto superò i suoi maestri e, a quattordici anni, fu in grado di discutere con loro di logica. Intraprese poi gli studi di medicina raggiungendo presto una grande fama. A ventun anni, iniziò la sua feconda attività di scrittore. Quasi autodidatta, si spostò continuamente all’interno del territorio iranico e nel Turkestan, insegnando e scrivendo, attingendo per la scrittura non ai testi, ma alla sua formidabile memoria. Noto soprattutto come medico e come filosofo, nelle sue opere enciclopediche si occupò anche di fisica, chimica, astrologia e astronomia, grammatica e retorica, matematica, musica e scienze naturali. In scritti minori trattò di religione, mistica, etica ed esegesi coranica. Il Canone della medicina (o Qanun fi l-tibb) è un’enciclopedia in cui Avicenna, basandosi su Ippocrate e Galeno, compendiò le medicine greca, araba, persiana e perfino indiana, integrandole con i risultati della sua esperienza personale. Completato attorno all’anno 1025 e scritto in arabo, vide una prima diffusione nel mondo islamico mediante numerosi esemplari manoscritti che contenevano l’intero libro o singole sezioni dello stesso. L’editio princeps apparve a Roma solo nel 1593 per i tipi della Tipografia medicea, terzo libro arabo a essere stampato, dopo il Corano e il Nuovo Testamento (Evangelium Sanctum). Anche prima d’essere stampato, tuttavia, il Canone aveva già avuto una vastissima diffusione nel mondo cristiano, grazie alla versione latina eseguita a Toledo, nella prima metà del XII secolo, da Gerardo da Cremona (m. 1187), che resterà l’unica versione completa arabo-latina del Canone. La versione latina fu in seguito migliorata e integrata, confrontando la traduzione di Gerardo con l’originale arabo, da Andrea Alpago che la pubblicò a Venezia nel 1527.

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Alcune pagine, riccamente miniate, del Manoscritto 2197 della Biblioteca Universitaria di Bologna che contiene la traduzione in lingua ebraica integrale del Canone di Medicina di Avicenna, realizzata da Natan ha-Meati. Databile solo su base paleografica, si presume che il manoscritto sia stato copiato nell’Italia centro-settentrionale nella prima metà del XV sec. ottobre

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Altre pagine miniate del Manoscritto 2197 della Biblioteca Universitaria di Bologna, contenente la traduzione in ebraico del Canone di Medicina di Avicenna. Prima metà del XV sec.

La propensione ebraica per la pratica medica determinò già in epoca talmudica l’insegnamento della medicina nelle Accademie rabbiniche. Dotti ebrei frequentarono poi le Scuole di Baghdad, del Cairo e di Salerno, producendo propri testi medici ma studiando anche la medicina araba e quella latina. A seguito della regolamentazione dell’esercizio delle

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professioni attuata da Federico II, nel 1231 l’esercizio della professione medica fu l’unico tra quelli liberali a rimanere, seppure in modo restrittivo, accessibile agli Ebrei. Tuttavia, nel Trecento, con la creazione dei Collegia doctorum, gli Ebrei furono esclusi dalla possibilità di acquisire il titolo di Artium et medicinae doctor. Molti dotti ebrei e rabbini erano anche medici. A dimostrare l’interesse dell’élite ottobre

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colta ebraica per la medicina, basti considerare che dei cinque libri del Canone di Avicenna tradotti dall’arabo in ebraico, singoli o uniti, ci è pervenuto circa un centinaio di manoscritti copiati da scribi ebrei fra il XIV e il XVI secolo. La tradizione ebraica del Canone, dunque, è molto ben documentata nella letteratura ebraica. Le versioni ebraiche del Canone, eseguite in tempi e luoghi diversi e sottoposte a numerose revisioni, sono legate in particolare ai nomi di tre noti traduttori: Natan ha-Me’ati, Zerachyah ben Yitzchaq e Yosef Lorqi. I primi due operarono a Roma nella seconda metà del XIII secolo, mentre Yosef Lorqi fu attivo in Spagna tra il XIV e il XV secolo. Nel 1279 Natan ben Eliezer ha-Me’ati portò a termine la traduzione di tutti e cinque i libri e ne redasse la prefazione. La versione ebraica del Canone fu stampata un’unica volta a Napoli tra la fine del 1491 e l’inizio del 1492, per i tipi di ‘Azri’el ben Yosef Ashkenazi o Gunzenhauser. Entrato nel convento di S. Domenico a Bologna verso la metà del XVI secolo e trasportato a Parigi da Napoleone, il manoscritto 2197 è conservato alla Biblioteca Universitaria dal 1815, anno della sua restituzione all’Italia. Fra gli oltre cento manoscritti che contengono le versioni ebraiche del Canone, solo il ms. 2197 della Biblioteca Universitaria di Bologna conserva la traduzione completa di Natan ha-Me’ati. Esso rappresenta inoltre un unicum non solo per la versione ebraica contenuta, ma anche per la decorazione miniata che lo caratterizza. Non essendo attendibili le affermazioni contenute nel colophon presente nel codice, il manoscritto membranaceo può essere datato solo su base paleografica e si presume che sia stato copiato nell’Italia centro-settentrionale nella prima metà del XV secolo. L’amanuense ha disposto il testo nel campo scrittorio in funzione delle miniature e delle decorazioni che il committente aveva affidato a un miniatore. Il committente e l’amanuense erano di certo ebrei, ma, in genere, il miniatore era cristiano: tuttavia, le varie ipotesi di attribuzione succedutesi nel tempo non hanno portato a una proposta condivisa dagli studiosi. Quattro dei sei riquadri centrali con miniatura a piena pagina rappresentano scene legate alla medicina: in particolare, l’esame dell’urina, la cura della follia, una visita medica e una farmacia; le altre due miniature a piena pagina raffigurano rispettivamente un’allegoria della pace e della guerra e la Scuola salernitana. Le miniature che attorniano il riquadro centrale si riferiscono alla medicina, alle arti del trivio e del quadrivio, ai segni zodiacali o a soggetti di significato non evidente, testimoniando un programma complesso. La decorazione non è sempre raffinata a confronto con esempi coevi, ma è di grande interesse per la vivacità della narrazione e l’attenzione nel raffigurare i paesaggi e gli interni. Le miniature costituiscono un raro saggio di rappresentazione della pratica medica e della vita quotidiana di interesse non solo per storici della miniatura, ma anche per storici della medicina e del costume. Mauro Perani

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Dossier na, che purtroppo non ci è pervenuta. La scelta del bilinguismo è molto indicativa del pensiero di Sforno. In una lettera al fratello dichiara la sua intenzione di «dimostrare la superiorità della lingua santa (l’ebraica) sulle lingue di tutti gli altri popoli» ed è proprio per cogliere questo obiettivo che cerca di raggiungere un nuovo pubblico di cristiani, agevolando loro il compito di leggere le sue opere grazie alla traduzione. Come la lingua, anche la religione ebraica, secondo Sforno, occupa una posizione di superiorità rispetto alle altre religioni, in quanto razionale e non puramente fideistica. Inoltre, il privilegio di Israele è la salvezza come popolo, mentre i gentili, per quanto retti, potranno sperare soltanto in un premio individuale. Di qui il desiderio di comunicare la verità di Israele non solo agli Ebrei, ma anche ai cristiani e di qui l’impegno costante, profuso anche nella sua azione di giudice della corte rabbinica, di tenere unita la comunità ebraica, alimentando il dialogo con la cultura maggioritaria, ma proteggendone l’autonomia.

Achille Bocchi

Tre culture in armonia Nel periodo critico della presenza ebraica a Bologna, è attivo un personaggio, l’umanista Achille Bocchi (1488-1562), di cui resta memoria evidente in un singolare palazzo che espone sul fronte una doppia iscrizione in ebraico e in latino. Bocchi riveste un ruolo di grande rilievo nella Bologna del Cinquecento: tra il 1522 e il 1530, partecipa al governo cittadino nel Collegio degli Anziani, dal 1526 entra a far parte della segreteria del cardinal Guido Ascanio Sforza, nipote del futuro Paolo III e legato pontificio di Bologna, e tra il 1508 e il 1562 tiene diversi insegnamenti – di greco antico, «umanità» e «retorica e poesia» – all’interno dello Studio bolognese. Il Senato di Bologna gli affida la composizione di un’Historia Bononiensis che resterà, però, incompiuta. Alla conoscenza del latino e del greco affianca anche quella dell’ebraico, un ebraico al quale, come la maggior parte degli intellettuali della sua epoca, si accosta come alla fonte di un sapere antico del tutto nuovo e sconosciuto, in grado di rafforzare e completare il pensiero classico in prospettiva cristiana. Proprio le tre lingue, latino, greco ed ebraico, sono le

Bologna. Particolare della facciata del palazzo in cui aveva sede l’Accademia Hermathena, fondata da Achille Bocchi intorno al 1546. Sopra lo zoccolo bugnato corrono due iscrizioni, una in ebraico (vedi anche foto in basso) e una in latino, con citazioni tratte dai Salmi e da un’Epistola di Orazio.

Gli interessi del papa

Nel corso del Cinquecento si producono le fratture decisive tra Bologna e gli Ebrei. Passata dalla signoria al dominio diretto del pontefice, la città non si svuota immediatamente della sua comunità ebraica: anzi, le condotte continuano a essere rinnovate dal papa, interessato a trarre vantaggio per la Camera Apostolica in cambio dei privilegi concessi agli Ebrei. La nascita, alla fine del Quattrocento, del Monte di Pietà, retto dai Francescani, non rappresenta sin dall’inizio un problema per la rete creditizia dei banchi ebraici e, a cascata, per tutti gli Ebrei che compongono, con ruoli diversi, la comunità. Solo quando il Monte assume una funzione diversa da quella originaria e si trasforma, a poco a poco, in un luogo di potere al quale i Bolognesi abbienti ambiscono a parteci-

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protagoniste dell’opera piú curiosa ed emblematica di Achille Bocchi, i Symbolicarum quaestionum de universo genere quas serio ludebat libri quinque, una serie di componimenti accompagnati da «simboli» in cui, a una parte iconografica, si associano motti in latino, greco ed ebraico a formare messaggi criptici, comprensibili solo dalla cerchia ristretta dei soci dell’Accademia Hermathena. Fondata intorno al 1546 da Bocchi, l’Accademia deve la sua denominazione alla fusione dei nomi delle divinità greche Hermes e Athena, l’uno personificazione del tramite con le verità arcane, l’altra della saggezza, e cercava una conciliazione armonica tra le tre culture alla base del pensiero cristiano. Protetta dal papa Paolo III e dal cardinale Alessandro Farnese, nel 1555 si dota anche di una sua stamperia, dalla quale esce appunto la prima edizione dei Symbolicarum quaestionum libri. Il palazzo nel quale ha sede si trova al n. 16 dell’attuale via Goito, all’angolo con via Albiroli, e costituisce esso stesso un criptico Symbolum: costruito in uno stile ottobre

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inconsueto rispetto a quello in voga a Bologna in quegli anni, su disegno del Vignola, poi piú volte riveduto da altri, presenta un alto zoccolo bugnato al di sopra del quale corre una fascia in arenaria su cui campeggiano due iscrizioni, una in ebraico e una in latino. La prima riporta il Salmo 120,2: «Signore, libera la mia vita dalle labbra di menzogna, dalla lingua ingannatrice», la seconda, che prosegue oltre l’angolo lungo il fianco del palazzo, è il verso di un’Epistola (1,59 s.) di Orazio: «Re sarai, se bene farai. Questo sia il tuo muro di bronzo: non aver nulla da rimproverarsi, non dovere per colpa impallidire». Sulle scritte compaiono inoltre due croci greche, aggiunte successivamente ai disegni dei progetti della facciata. I due enunciati vanno forse letti in relazione al padrone di casa e al suo ruolo di fondatore dell’Accademia, o forse anche in opposizione all’Epistola 22 di Girolamo, laddove il santo rinuncia allo studio degli autori classici pagani per dedicarsi esclusivamente ai testi sacri. Il concetto di «muro di bronzo» potrebbe inoltre collegarsi all’imponente zoccolo bugnato e all’intera struttura del

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palazzo, che si presenta come una sorta di fortezza e la cui costruzione, iniziata nel 1546 e terminata vent’anni dopo, aveva visto l’importante elezione di papa Paolo IV (1555-1559), il reale fautore e sostenitore della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, nonché firmatario della bolla Cum nimis absurdum, con la quale limitava i diritti agli Ebrei sotto la dominazione pontificia e ordinava l’istituzione dei ghetti. La morte di Paolo III toglie a Bocchi e alla sua Accademia la protezione di cui avevano goduto e l’atteggiamento dell’umanista pare quindi di prudente difesa, di qui, forse, anche l’apposizione di due croci greche poste sul Tetragramma – l’ineffabile nome di Dio che solo un non Ebreo poteva pensare di incidere sulla friabile arenaria – e sulla parola Rex. Il pericolo infatti è di incappare in accuse da parte dell’Inquisizione, negli anni in cui, tra l’altro, per reazione alla Riforma luterana, il clero, riunito nel Concilio di Trento, sta operando una profonda revisione interna della Chiesa. Caterina Quareni

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Dossier gli ebrei e la seta

Tecniche da tutelare La comunità ebraica è presente a Bologna sin dagli anni Cinquanta del XIV secolo, impegnata soprattutto nel prestito di denaro, nell’arte medica, in quella tipografica e nel commercio. Sono numerose le attestazioni relative al commercio di panni e di seta, come anche alla piú umile professione dello «stracciarolo», il venditore di stoffe. Pochi sono i riferimenti che testimoniano il ruolo degli Ebrei, non ancora adeguatamente studiato, nell’industria serica, la piú importante attività produttiva della città. Un provvedimento del 7 maggio 1481 proibisce agli Ebrei di accettare in pegno seta, lavorata o meno, ma anche di esportarla: la seta precedentemente acquisita deve essere venduta solo in città. Il divieto di esportazione di seta non lavorata e tinta è esteso, però, anche ai cristiani, a dimostrazione di una sempre piú forte attenzione per la tutela delle tecniche proprie delle lavorazioni seriche. Nel 1537 un folto gruppo di imprenditori ebrei emiliani e romagnoli, con a capo Manuel da Modena, finanzia l’avvio di una tipografia a Bologna. Nei frontespizi e nei colophon delle opere a stampa si definiscono in alcuni casi «soci nell’arte della seta» oppure «soci che lavorano assieme anche la seta». Alessio Zoeddu

In alto frontespizio di un libro di preghiere quotidiane con un preciso riferimento ai Ba’ale berit, il «gruppo dei soci» di Bologna che si occupano del mestiere della seta. 1547. Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio. A sinistra incisione raffigurante un mulino da seta idraulico (detto torcitoglio), da Vittorio Zonca, Novo Teatro di machine et edificii (1607), Padova 1621. Nella pagina accanto, in alto ricostruzione virtuale della collocazione delle lapidi funerarie del cimitero ebraico di via Orfeo all’epoca in cui il sepolcreto era ancora in uso.

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pare, comincia a venir meno il ricorso ai prestatori ebrei e inizia il loro processo di estromissione dalla vita – non solo economica – cittadina. Nel 1555, sotto la spinta di diverse pulsioni quali il desiderio di promuovere, anche in maniera coercitiva, le conversioni, la preoccupazione che gli Ebrei potessero accumulare a proprio vantaggio somme di denaro togliendole alle casse della Camera Apostolica, il timore che tra Ebrei e cristiani potessero crearsi alleanze pericolose per la gestione del governo da parte della Santa Sede, papa Paolo IV emana la bolla Cum nimis absurdum. Valida per tutte le città dello Stato Pontificio, la bolla proclama la necessità di separare gli Ebrei dal corpo cittadino tramite l’istituzione dei ghetti e fissa misure volte (segue a p. 101)

La Confraternita dei Solerti

Beneficenza e assistenza Nel 1546 viene costituita a Bologna la Chevrat ha-Nizharim o Confraternita dei Solerti, una libera associazione ebraica i cui membri si riproponevano, tramite l’autotassazione, di dedicarsi alla beneficenza e all’assistenza degli ammalati dall’agonia alla sepoltura. Gli Statuti della Confraternita furono redatti nel 1547 dal rabbino Samuel Archivolti (1515-1611), una delle piú eminenti figure di studioso,

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In basso riassunto notarile dell’acquisto del terreno del cimitero. 8 agosto 1393. Bologna, Archivio di Stato.

grammatico e poeta dell’epoca: si compongono di 55 articoli e sono stati pubblicati integralmente in ebraico nel 1989. Molti articoli riguardano il comportamento religioso degli adepti e la promozione dello studio della Torah e del Talmud; altre norme si riferiscono alla proibizione di citare sia i confratelli che gli altri correligionari davanti ai tribunali non ebraici e l’impegno di procurare le somme per il riscatto dei prigionieri. La Confraternita dei

Solerti, inoltre, forniva la dote per le ragazze povere, sosteneva le spese per il convito offerto alle persone dopo il funerale di un confratello e provvedeva per la preghiera pubblica. Anche le donne potevano far parte della Confraternita e, oltre a contribuire alle spese sostenute a scopi caritatevoli, erano tenute a osservare con particolare zelo i precetti riservati al mondo femminile (purificazione mensile con il bagno rituale, accensione delle candele del sabato, sacrificio di una piccola parte dell’impasto del pane tramite bruciatura). La Confraternita operò tra il 1546 e il 1569. Oltre alla Confraternita dei Solerti esisteva a Bologna anche la Confraternita della Misericordia (Chevrat Rahamim) – già menzionata in un documento del 1528 –, che presumibilmente si dedicava all’assistenza dei malati e alle attività relative alla morte. Vincenza Maugeri

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Le lapidi del Museo Civico di Bologna Del cimitero ebraico medievale sorto nel 1393 e soppresso nel 1569 sono rimaste solo quattro lapidi, oggi conservate presso il Museo Civico Medievale di Bologna. Per la ricchezza ornamentale si segnala la stele dedicata a Shabbetay Elchanan da Rieti, datata 1546 (1): presenta una base bugnata sormontata da un mascherone alato e una ricca cimasa, che reca al centro lo stemma di famiglia; al centro, il cartiglio con l’epigrafe è retto da una figura di giovane a mezzobusto, mentre i lati sono definiti da due putti alati a tutto tondo. Altre due lapidi sono dedicate, rispettivamente, ad Avraham Yaghel da Fano, morto nel 1508 (2), e a Menachem Ventura (3). Quest’ultima, datata al 1555, reca al centro della cimasa lo stemma di famiglia costituito da un cervo. L’ultima lapide reca sul retro l’epigrafe ebraica in memoria di Yo’av da Rieti (4) ed è una sezione dell’intera lastra. Dopo la distruzione del cimitero ebraico, nel 1569, essa viene infatti acquistata da Albizio Duglioli, che la trasforma nella stele funeraria per suo padre Rinaldo, banchiere bolognese morto nel 1571, e la destina a una cappella nel complesso monastico dell’Osservanza. Il retro della lapide, anch’esso ornato, riporta solo i dati anagrafici di Yo’av da Rieti e si presta molto bene a essere riutilizzato, in quanto eraderlo e riscriverlo non comporta un lungo lavoro. Probabilmente molto piú tardi, la lastra viene tagliata in due lungo lo spessore e si provocano le fratture ancora ben evidenti, sia sul lato con l’epitaffio di Yo’av, sia su quello divenuto pietra tombale di Duglioli, che ancora si può ammirare nella Certosa monumentale di Bologna, dove arriva in età napoleonica dopo la soppressione dei

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conventi. Questi «documenti di pietra» forniscono importanti indicazioni non solo sullo stile funerario, ma anche sulla scrittura ebraica dell’epoca, e ci consegnano i loro epitaffi, anch’essi esempi di un vero e proprio genere letterario. Vincenza Maugeri e Caterina Quareni

I TESTI DELLE LAPIDI 1) Lapide di Shabbethay Elchanan (1546 e.v.) Sotto di me ha fatto riposare questo giusto il suo capo, guida della sua generazione, di cui era il vanto e la gloria, Signor Shabbetay Elchanan di venerata memoria, figlio del Signor Yitzchaq Elyaqim da Rieti, di venerata memoria, il cui onorato riposo avvenne di domenica 23 del mese di Elul dell’anno 5306. Sia l’anima sua avvinta nei legami della vita.

bene e per procurare tesoro. Un nobile del popolo e molto noto, il cui profumo (è migliore) di qualsiasi aroma. Una corona (di gloria) gli è stata posta e Abramo ne gioisce. Pietra pregevole sul capo dello stimato e magnifico Signor Avraham Yaghel da Fano, il suo riposo sia nell’Eden, figlio del Signor Yitzchaq, di venerata memoria, il quale si raccolse alla sua gente, il 24 del mese di Tammuz, dell’anno 5268.

2) Lapide di Avraham Yaghel da Fano (1508 e.v.) Con voce amara io risponderò a chiunque si rivolgerà a me. Enumererò le virtú di quest’uomo, incise sul marmo. Guardate, un uomo integro sta eccelso come insegna, come vessillo a tutti i popoli, per far del

3) Lapide di Menachem Ventura (1555 e.v.) Sopra un corpo innocente, fu scolpita la mia epigrafe mi è toccato in sorte essergli di sepoltura. Ha terminato il suo passaggio terreno quando il suo studio era con lui. Il suo desiderio era nello studio della legge, nella quale riusciva molto bene e la sua voce era ascoltata. È venuto il giorno della sua fine, giorno per lui amaro. La sua anima è salita (al cielo), al pari dell’offerta dell’olocausto, l’anima pura e cristallina di un giovane. Questo è il monumento sepolcrale del giovane dotto Signor Menachem di venerata memoria, figlio del Signor Avraham da Ventura, che Iddio lo conservi in vita. Martedí 3 del mese di Tammuz dell’anno 5315. Riposi l’anima sua nel regno dei beati.

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4) Lapide di Yo’av da Rieti (1547 e.v.) Yo’av, figlio di Tzeruyah, fu capo dell’esercito del figlio di Isshai (…) Rieti è principe tra (i figli) della salvezza del mondo futuro, volle riparare agli angoli dell’altare per sfuggire alla morte, questo Yo’av fissò la sua dimora nel cielo e la sua giustizia gli è di muro altissimo, perciò quale testimonianza per l’uomo, degno di onore, sia questa nuda pietra.

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Dossier avraham antunes da trancoso

La damnatio memoriae di un Ebreo portoghese Il Museo Ebraico di Bologna conserva un cippo funerario che forse si trovava in origine nel cimitero ebraico di via Orfeo e che reca il seguente epitaffio: «Pietra sepolcrale del caro Avraham [Antunes] da Trancoso, la sua anima sia nell’Eden, morto (…) nel mese di (…) dell’anno (...) la sua anima [sia] unita nel vincolo della vita». Proveniente dalla bolognese Villa Impero, il cippo funerario, studiato approfonditamente dal professor Mauro Perani dell’Università di Bologna, riporta un’epigrafe in grafia quadrata di stampo sefardita, scolpita molto probabilmente, come spesso accadeva, da un lapicida cristiano. La data di morte (giorno, mese e anno) non è mai stata incisa, segno che la pietra era stata preparata quando il committente era ancora in vita e doveva essere completata dopo il suo decesso a cura dei parenti. Evidentemente, quindi, la lapide non è mai stata usata per lo scopo per il quale era stata concepita. Il toponimo Trancoso, località di provenienza di Avraham, è stato ricavato riconoscendo e sottraendo dalla lunga sequenza di lettere della seconda riga l’espressione abbreviata che di consueto appare negli epitaffi ebraici e sta per «la sua anima sia nell’Eden». Trancoso è una località del Portogallo (parte, insieme alla Spagna, di quella zona che gli Ebrei chiamano Sepharad), in cui vivevano molti Ebrei e marrani. Il Portogallo accoglie inizialmente gran parte degli Ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492, ma, dopo una progressiva azione persecutoria, nel 1497 arriva a imporre loro il battesimo, provocandone in moltissimi casi la fuga. Il

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nome di famiglia appare volutamente scalpellato, ma sono rimaste visibili l’alef iniziale e la shin finale. Sulla base di queste due lettere superstiti e dei cognomi spagnoli e portoghesi registrati negli archivi degli Stati estensi, luoghi in cui trovarono rifugio tante famiglie di Ebrei sefarditi, la congettura piú probabile per sanare la lacuna appare quella di Antunes, che, anche per la dimensione delle lettere che comporrebbero il cognome nello stile usato per l’epitaffio, si adatta bene allo spazio scalpellato. Riguardo al perché il cognome sia stato eraso, con un evidente intento di damnatio memoriae, cioè di maledizione del ricordo, si potrebbe ipotizzare che Avraham Antunes si fosse convertito al cristianesimo, per convinzione o per necessità, cambiando quindi il suo cognome ebraico in un altro nuovo, da cristiano. Gli Ebrei bolognesi, o forse qualcuno che lo conosceva come ebreo, non approvando la conversione, operarono l’erasura. Di certo, o perché convertito, o perché trasferitosi da Bologna in un’altra città, forse a seguito della cacciata del 1569, Avraham non ebbe mai questa pietra sul proprio sepolcro. Altri Antunes, che portano anche il nome di Avraham, sono attestati alla fine del Cinquecento e intorno alla metà del Seicento a Livorno e a Reggio Emilia. Impossibile avere certezze, ma si può ipotizzare che si tratti dei discendenti del nostro, magari rimasti ebrei o tornati al proprio culto in condizioni di maggiore libertà. Caterina Quareni

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a limitare l’esercizio delle attività e le condizioni di vita degli Ebrei. È questo il primo irrimediabile strappo nei rapporti tra cristiani ed Ebrei, anche se, pur accolta con favore dai senatori bolognesi (interessati a spostare la gestione dell’economia e i vantaggi legati all’attività bancaria dagli Ebrei ai Monti cristiani e di qui alle casse comunali), la realizzazione del ghetto avverrà solo undici anni dopo. Per agevolarne la costruzione, infatti, si sceglie un’area prossima alle Due Torri e al centro commerciale cittadino che presentava strade strette, facili da chiudere con pochi muri e costeggiate da abitazioni popolari i cui abitanti potevano essere sfrattati per farvi entrare le famiglie ebree. Tuttavia, i Bolognesi residenti in quella zona non sono contenti di lasciarla, né di dare in affitto le case di loro proprietà: e oppongono resistenza, procrastinando di oltre dieci anni il definitivo completamento del ghetto. Solo tre anni piú tardi, nel 1569, con la bolla Hebraeorum gens, Pio V espelle gli Ebrei da tutte le città dello Stato Pontificio, escluse Roma e Ancona. Nello stesso anno, il 29 novembre, il pontefice emana un breve con cui concede il terreno

del cimitero ebraico di Bologna alle monache del monastero di S. Pietro Martire, con l’indicazione di «disseppellire e far trasportare, dove loro piaccia, i cadaveri, le ossa e gli avanzi dei morti; di demolire o trasmutare in altra forma i sepolcri costruiti dagli Ebrei, anche per persone viventi; di togliere affatto, oppure raschiare e cancellare le iscrizioni e altre memorie, anche scolpite nel marmo».

Un toponimo eloquente

Il provvedimento di Pio V, dunque, mira a cancellare completamente la presenza degli Ebrei a Bologna e il suo ricordo. Ricordo che, tuttavia, continua a rimanere fino al XVIII secolo inoltrato nella dicitura «Orto degli Ebrei», presente non solo in documenti e cronache, ma anche nei Bilanci del monastero di S. Pietro Martire, in cui vengono registrate regolarmente le cifre ricavate dall’affitto del terreno come orto. Nel 1586, sentito anche il parere dei rappresentanti delle città potenzialmente interessate, con la bolla Christiana pietas, papa Sisto V riammette gli Ebrei nelle città e nei centri maggiori dello Stato Pontificio, abolendo parecchi divieti e restrizioni contenuti nella Hebraeorum gens. A Bologna possono dunque ri-

entrare non piú di quattro banchieri con le relative famiglie, ma il ritorno sarà di breve durata. La cacciata diverrà definitiva nel 1593 a seguito dell’emanazione della bolla Caeca et obdurata a opera di Clemente VIII, che nuovamente espelle gli Ebrei dallo Stato Pontificio, con le eccezioni di Roma, Ancona e Avignone. Si può dunque considerare come atto finale della presenza ebraica a Bologna la bolla del 1569, che decreta e ribadisce, dopo l’istituzione dei ghetti, l’intenzione da parte della Santa Sede di separare la componente ebraica dalla società cristiana, in nome di un progetto di depurazione di quest’ultima da qualunque elemento potenzialmente deviante o inquinante. Nonostante il successivo ripensamento del 1586, dovuto alla valutazione dell’utilità economica degli Ebrei, che, come nel Trecento, vengono ammessi fondamentalmente in qualità di prestatori, è con la Hebraeorum gens che si chiude quella proficua convivenza che, in passato, era stata in grado di produrre cultura e progresso scientifico oltre che circolazione di ricchezza. V Caterina Quareni e Vincenza Maugeri

A sinistra cippo funerario di Avraham [Antunes] da Trancoso, destinato al cimitero di via Orfeo. Bologna, Museo Ebraico.

Dove e quando «La Casa della Vita. Ori e Storie intorno all’antico cimitero ebraico di Bologna» fino al 6 gennaio 2020 Bologna, Museo Ebraico Orario do-gio, 10,00-17,30; ve, 10,00-15,30; sabato e festività ebraiche chiuso Info tel. 051 2911280 oppure 051 6569003; e-mail: info@museoebraicobo.it, didattica@museoebraicobo.it; www.museoebraicobo.it

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La sentinella del ducato

CARTOLINE • Recenti indagini archeologiche hanno

permesso di riscrivere la storia del castello di Lettere, una postazione strategica di eccezionale rilevanza nel territorio controllato dal ducato di Amalfi di Domenico Camardo e Mario Notomista

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el corso del X secolo il ducato di Amalfi raggiunse l’apice della sua potenza. La formale dipendenza dall’impero bizantino gli garantiva il libero transito sulle rotte marittime verso la parte orientale del Mediterraneo dove furono creati importanti scali commerciali in cui scaricare le proprie merci e da cui importare tessuti preziosi, spezie e oggetti esotici destinati ai mercati delle piú importanti città italiane. La distanza e le periodiche crisi dei centri del potere bizantino garantirono agli Amalfitani una sostanziale indipendenza, che permise loro di organizzare autonomamente il controllo del territorio circostante la città, la cui massima estensione fu raggiunta proprio nel X secolo, occupando una vasta area dei Monti Lattari e la fascia costiera compresa fra gli attuali comuni di Positano e Cetara. In questo periodo entrò nell’orbita amalfitana anche l’isola di Capri. L’occupazione del versante

settentrionale dei Monti Lattari garantí la protezione di Amalfi da eventuali attacchi alle spalle che potevano giungere dalla piana del fiume Sarno. La scelta di occupare quest’area fu altamente strategica poiché il territorio non offre molte vie di valico e quindi garantiva la possibilità di attuare un progetto di controllo militare molto efficace.

Il controllo del fondovalle Il valico principale, che metteva in contatto l’area amalfitana con quella nocerino-sarnese, era quello di Chiunzi, che fu sbarrato da una fortificazione posta proprio nel punto piú alto e poi dal castello di Montalto o Trivento che permetteva di sorvegliare la via che si snodava verso il fondovalle nel territorio di Tramonti e quella a mezza costa che andava verso la città di Ravello, protetta dal castello di Supramonte. L’altra importante via di valico era quella di Pino-Agerola che permetteva di risalire dal litorale

Nella pagina accanto veduta a volo d’uccello che evidenzia la posizione dominante del castello di Lettere (Napoli) sulla sottostante piana del Sarno. A destra veduta di Amalfi con il duomo, intitolato a sant’Andrea Apostolo. In basso il cantiere di scavo aperto nel 2007 nell’area del castello di Lettere.

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stabiano lungo il corso del torrente Vernotico, nel territorio di Gragnano, e quindi in quello di Pimonte fino ad arrivare al valico delle Palombelle, nel territorio di Agerola, da cui poi la strada scendeva verso Amalfi. Lungo questa strada furono eretti due villaggi fortificati, che, posti in successione, potevano sbarrare il passo a qualsiasi nemico fosse risalito dalla piana del Sarno verso i Monti Lattari. Il primo fu il castello di Gragnano, creato lungo il corso del Vernotico, a breve distanza dalle sorgenti della Forma. Da questo, la via del valico risaliva verso la collina di Pino, sulla cui sommità fu edificato, alla metà del X secolo, un altro villaggio fortificato. L’anello fondamentale di questa catena difensiva era però il castello di Lettere, fondato su una collina a 340 m circa sul livello del mare, in una posizione importantissima dal punto di vista strategico, visto che domina tutta la Valle del Sarno e

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CALEIDO SCOPIO Bracigliano

Bagnoli

Ercolano San Valentino Torio Pompei

Napoli

Nocera Inferiore Chiunzi

Gragnano

Ravello

Pino

Amalfi

Piano di Sorrento Positano

Siano Castel San Giorgio

Scafati

Lettere

Nerano

Sarno

Cava de’ Tirreni Cetara

garantiva quindi un totale controllo su qualsiasi movimento di truppe dirette verso i Monti Lattari. Un chiaro segno del fatto che Lettere fosse il perno di questa rete difensiva l’abbiamo nell’anno 987 quando, riconosciuto il potere di Amalfi, il papa trasformò il vescovo della città in arcivescovo, il cui primo atto fu quello di creare alcuni vescovati subalterni che vennero posti in luoghi strategici e di recente acquisizione. Uno venne nominato sull’isola di Capri e un altro in quello che era stato in epoca romana il territorio dell’antica Stabiae.

Isola di Capri

L’insediamento del vescovo Nel 987, dunque, il vescovo Stefanus fu insediato all’interno del castello di Lettere e il suo nome ufficiale fu quello di episcopus in castellis stabiensibus, quindi vescovo dei castelli stabiani, che aveva competenza sui centri fortificati di Gragnano, Pino e Lettere. Quello di Castellammare di Stabia, invece, rimase sempre nell’orbita del ducato sorrentino. La presenza del vescovo comportò la creazione della cattedrale e del palazzo vescovile all’interno del circuito murario. Della prima si conservano ancora ampie parti, mentre solo il prosieguo delle ricerche permetterà di individuare con certezza la residenza In alto il territorio dei Monti Lattari in cui si sviluppò il ducato amalfitano. In rosso le vie di valico che mettevano in comunicazione la piana del Sarno con il golfo di Salerno. Al centro un’altra veduta del castello di Lettere, il cui assetto attuale è frutto degli interventi operati in periodo angioino. In basso i resti di una grande vasca foderata in cocciopesto, adibita alla pigiatura dell’uva.

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L’area antistante la rocca del castello, nella quale si conservano resti delle strutture che componevano l’abitato medievale. del vescovo che probabilmente è da riconoscere nelle robuste strutture affioranti alle spalle della zona absidale dell’edifico di culto. Il primo dato offerto dall’analisi dei ruderi è che la robusta rocca che vediamo oggi non corrisponde al castello fondato dagli Amalfitani nel X secolo. In quel momento, infatti, seguendo un collaudato modello difensivo, essi crearono sulla collina di Lettere, un villaggio fortificato entro il quale trovarono posto la cattedrale, la residenza del vescovo e le abitazioni per le famiglie che vivevano nel castello e per i pochi uomini della guarnigione. La prima notizia nelle fonti riguardante l’esistenza di una fortificazione in quest’area risale al 1018, quando, nel definire i confini di una proprietà oggetto di un lascito testamentario ai monasteri di S. Quirico e di S. Simone di

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Atrani, il castello venne utilizzato come elemento di confine. La sua creazione deve quindi risalire al secolo precedente.

Case in comproprietà Negli archivi amalfitani si conservano diversi atti di vendita, dotati di precise e dettagliate descrizioni, che attestano la presenza di abitazioni all’interno della cinta muraria del castello. Qui, fin dal 1030, sono citate case dotate di depositi al piano terra, di un primo piano con finestre, camino e scala in comune con altri proprietari. In un documento del 1129 è riportata la presenza di una via interna al villaggio, oltre che di una casa confinante con ben cinque altre proprietà. Nel XII secolo, la perdita di indipendenza del ducato amalfitano con l’arrivo dei Normanni coinvolse anche il castello di Lettere. Qui, nel

1141, troviamo citato per la prima volta un feudatario, nella persona di Ugo Mansella. È ipotizzabile che a partire da questa infeudazione si sia iniziata a costruire una rocca all’interno del villaggio fortificato, che doveva servire come alloggio e ridotto difensivo per il feudatario e la sua guarnigione. Altri feudatari sono attestati durante la dominazione sveva, sotto il regno di Federico II e durante il periodo angioino. In questa fase ebbero inizio la costruzione del mastio e la configurazione della rocca cosí come la vediamo ancora oggi. Nel corso del XIV secolo Lettere è citata nei documenti come posta sotto il diretto controllo regio. Nel 1381, con Carlo III d’Angiò, tutti i centri dell’ex ducato amalfitano furono inseriti nel regio demanio e piú volte restaurati. A partire dall’età aragonese la

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CALEIDO SCOPIO fortezza si rivelò inadeguata ai rapidi sviluppi delle artiglierie d’assedio trasformandosi ben presto da struttura con caratteri eminentemente militari in residenza fortificata del feudatario, fino a quando, nel XVI secolo, venne definitivamente abbandonata.

La rinascita La rinascita del castello di Lettere è iniziata nel 2007 quando, dopo l’abbattimento di un ristorante sorto sul pianoro a est della rocca e la rimozione di tonnellate di materiali di risulta scaricati sull’area, sono riemerse le fondazioni degli edifici che appartenevano al villaggio medievale. L’abitato presenta uno schema preciso ripartito in isolati che si sviluppano in senso nordsud e scanditi da stretti passaggi per lo scolo delle acque. All’interno si dispongono le abitazioni, che sembrano limitarsi a una o due stanze. Queste presentavano spesso anche un primo piano, come rivela la presenza sulla facciata dei resti di una scala in pietra. Tutte le murature sono realizzate con pietre calcaree recuperate dal banco roccioso che

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emerge sulla collina, legate con una malta povera di calce. I muri si appoggiano infatti direttamente alla roccia, che è stata livellata e tagliata per far posto alle abitazioni o a vasche e cisterne realizzate per ovviare al grave problema dell’assenza di sorgenti sulla collina del castello. Coperte a volta e normalmente posizionate sotto il pavimento del piano terra delle case, le cisterne erano alimentate da un sistema di raccolta con tubazioni in terracotta che portava le acque pluviali direttamente dal tetto della casa all’interno della cisterna. L’acqua veniva poi attinta attraverso pozzetti circolari visibili in diverse abitazioni. In un ambiente del lato ovest dell’abitato è stata riportata in luce una grande vasca rivestita di cocciopesto, che mostra una pendenza da ovest verso est e che conservava nel punto piú basso un tubulo in terracotta collegato a una vaschetta rettangolare. Un apprestamento che permette di identificarla come una vasca per la pigiatura dell’uva, con il mosto che tramite il tubulo confluiva

nella vaschetta rettangolare dove era raccolto. Si tratta quindi di una chiara prova, già in età medievale, della produzione di vino, che è ancora oggi uno dei vanti del territorio di Lettere. Allo stato attuale della ricerca non possiamo definire con certezza l’estensione del villaggio, soprattutto nel lato nord, dove sul fianco della collina si nota la presenza di ruderi interpretabili come resti di abitazioni. Le fonti medievali parlano della presenza di strade e orti all’interno del castello ed è quindi ricostruibile l’esistenza di una cinta muraria superiore, direttamente collegata alla rocca, che includeva la cattedrale e parte del villaggio, mentre si può ipotizzare la presenza di una seconda cinta muraria, in cui erano inclusi gli orti e altre abitazioni del villaggio. Si verrebbe cosí a

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ricostruire per Lettere una situazione che trova confronti in diversi altri insediamenti medievali campani, con la rocca nella parte piú alta della collina e l’abitato disposto all’interno di due cinte murarie concentriche.

In alto i resti della chiesa databile al X sec. Nella pagina accanto la facciata e il campanile della cattedrale.

La cattedrale e il campanile All’interno della cinta muraria del villaggio medievale di Lettere sono visibili i ruderi della cattedrale. Orientato est-ovest, l’edificio si innestava direttamente con il suo lato meridionale sulla cinta muraria che chiudeva la parte alta della collina. Le indagini archeologiche realizzate al suo interno hanno accertato la sopravvivenza di parti della chiesa amalfitana del X secolo. Per questa fase è ricostruibile una pianta con lunghezza pari al doppio della larghezza e una divisione interna a tre navate culminanti con absidi semicircolari, di cui la centrale maggiore rispetto alle due laterali. Questa era sicuramente decorata all’interno con affreschi, come dimostrano i frammenti di intonaco con tracce di pittura che ricoprono in alcuni punti le strutture rinvenute e quelli recuperati in

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Qui accanto assonometria ricostruttiva della chiesa del X sec. frammenti nello scavo delle absidi. L’edificio prendeva luce da monofore presenti nei lati lunghi, che sono ancora conservate lungo la parete sud. L’indagine archeologica ha permesso di riconoscere le tre absidi appartenenti alla cattedrale amalfitana. A questa prima costruzione fu addossato, nel corso del XII secolo, il bel campanile decorato con tarsie in tufo e arenaria gialla. Le pietre lavorate sono disposte in modo da formare stelle,

croci e losanghe, inserite in cerchi o in cornici marcapiano. Queste decorazioni risaltano sulle pareti del campanile, costruite con piccole pietre calcaree e malta, mostrando un’attenta ricerca cromatica e precisione di realizzazione. Nel corso del XV secolo la cattedrale cadde in rovina, tanto che, alla fine del Quattrocento, il feudatario di Lettere Giovanni II Miroballo ne promosse il rifacimento completo. Questi lavori portarono

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all’ampliamento verso nord e ovest della chiesa, distruggendo il muro perimetrale nord e le absidi centrale e settentrionale dell’edificio originario, e portarono anche alla creazione di una nuova facciata, avanzata di oltre 7 m rispetto alla precedente. Anche la nuova cattedrale presentava tre navate, probabilmente scandite da pilastri. Quelle laterali terminavano con

absidi circolari e quella centrale, piú ampia, con un presbiterio rettangolare. Le navate dovevano essere coperte da volte a crociera come lascia intuire un pilastro della navata Sud ancora inglobato in un muro posteriore e tracce dei peducci delle crociere sul muro sud dell’edificio. La nuova struttura riutilizzò, tuttavia, parti della chiesa piú antica, conservando, come muro perimetrale sud, quello della vecchia cattedrale e non modificando la planimetria dell’abside sud e la larghezza della navata corrispondente. Di questa fase della fine del Quattrocento sono ben riconoscibili il rifacimento della zona presbiteriale e il muro perimetrale sul lato nord scandito da archi.

Un’esistenza breve Questo edificio non ebbe una vita lunga e iniziò a mostrare segni di cedimento già nel corso del XVI secolo, in concomitanza della crisi e dello spopolarsi del villaggio del castello. I documenti narrano del suo graduale degrado, limitato da

In alto frammenti di intonaco affrescato rinvenuti nello scavo della chiesa databile al X sec. Nella pagina accanto resti della torre quadrata riportata alla luce dopo l’abbattimento del ristorante edificato in questa zona. In basso il settore della cattedrale in cui sono stati rilevati i rifacimenti quattrocenteschi del presbiterio e del muro perimetrale nord.

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restauri e parziali rifacimenti che arrivarono fino alla seconda metà del 1600, quando giunse a compimento la costruzione della nuova cattedrale localizzata nel casale della Piazza, già avviata nel 1570, nella quale si iniziò a dire messa dal 1668 e dove furono trasferiti i marmi e le lapidi rimossi dalla vecchia cattedrale. Tuttavia, per alcuni secoli, si mantenne viva la tradizione di celebrare la messa nelle principali festività all’interno della vecchia cattedrale. Infatti, anche dopo il crollo del tetto della navata centrale, si decise di creare alcune cappelle, chiudendo con muri la navata sud della vecchia cattedrale. Di questa ancora sopravvive la cappella dedicata alla Madonna del Soccorso, restaurata tra il 1651 e il 1656, che conserva un affresco della Madonna con bambino ancora oggetto di culto da parte degli abitanti di Lettere.

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La torre quadrata Dopo l’abbattimento, nel 2007, del ristorante costruito sul colmo della collina del castello, a nord dei ruderi della cattedrale, si è potuto procedere alla rimozione di tonnellate di materiali edili di risulta. Questi scarichi avevano protetto le fondazioni dei ruderi dell’abitato e anche di un robusto edificio a pianta quadrangolare, che mostra muri di notevole spessore, conservati in altezza per oltre 4 m e che si è subito configurato come una torre. La ragione del suo notevole stato di conservazione in alzato è che questa struttura era stata costruita a ridosso di un salto di quota antico ed era collegata al circuito murario che chiudeva la parte alta della collina del castello difendendo l’abitato e la cattedrale. Nell’ultima fase d’uso vi si accedeva tramite una scala esterna in pietra, in parte conservata, che

permetteva di raggiungere la porta che, come in molti edifici di questo tipo, era situata per motivi difensivi all’altezza del primo piano. Al momento della scoperta, l’interno della torre era colmato da un riempimento formato da macerie, probabilmente provenienti dalla demolizione dell’edificio stesso. Una nuova campagna di scavi, condotta nel 2016, ha permesso la rimozione di questo riempimento e ha consentito di riportare alla luce, sotto un semplice battuto di terra, scarichi di immondizie ricchi di materiali ceramici e ossi. Questi scarichi obliteravano i ruderi di una torre precedente, di minori dimensioni, che venne volontariamente rasata fin quasi alle fondazioni. Alla metà del XII secolo, questa zona si era quindi trasformata in una discarica di immondizie che si accumularono sui resti dell’antica torre, in buona parte ricoprendoli. L’area venne successivamente livellata e i ruderi di questa originaria torre in parte inglobati nell’edificazione della torre quadrata che possiamo ammirare ancor oggi. Quest’ultima fu costruita con pietre calcaree sbozzate e prevedeva al centro un robusto pilastro di sostegno della terrazza di copertura, dove si può ipotizzare fosse previsto il posizionamento di artiglierie.

Le scuderie Nella zona nord-ovest del villaggio, a poche decine di metri dalla rocca, è stata riportata in luce la parte bassa di un edificio monumentale, costruito con pietre calcaree legate con malta e orientato in senso estovest. La struttura presenta una pianta rettangolare e conserva poche tracce delle finestre che si aprivano sul lato nord verso valle, mentre nell’angolo sud-ovest è stato individuato il portone d’ingresso, chiaramente riconoscibile grazie alla presenza dei fori per l’innesto dei cardini e della cornice in legno della

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CALEIDO SCOPIO I resti della struttura messa in luce nel settore nord-ovest del villaggio e identificata con le scuderie del castello. L’interpretazione si è basata sul confronto con edifici simili attestati in altri castelli medievali e sulla presenza di un condotto fognario evidentemente destinato a smaltire i liquami prodotti dai cavalli. porta. All’interno sono stati scoperti due muretti paralleli che corrono in direzione est-ovest e che sembrano dividere lo spazio in due corsie di diversa larghezza. Sulla base di confronti con edifici simili presenti all’interno di castelli medievali, si può ipotizzare che i muretti non siano altro che le spallette di un condotto fognario in origine coperto dal pavimento della stanza. La presenza di questo apprestamento ci ha permesso di identificare l’edificio con le scuderie del castello. Una conferma in tal senso è poi venuta da un passo del volume di Francesco Alvino Viaggio da Napoli a Castellammare del 1845 nel quale si legge che «Uscendo dal castello [di Lettere], vi mostreran que’ villani dov’eran le antiche scuderie, che oggi son pascolo di qualche vacca o vitello, e vi condurran pure a vedere l’antica cattedrale, inabissata dal tempo, e da Pio V, come dicemmo, di qui fatta trasferire nel casale di Piazza». I dati archeologici consentono di affermare che l’edificio non appartiene alla fase piú antica dell’abitato: infatti, per ricavare lo spazio necessario alla sua costruzione, si dovettero abbattere diverse abitazioni, delle quali resta traccia nelle fondazioni della scuderia.

della collina che rendeva superflue massicce fortificazioni su quel lato. Realizzate con pietre calcaree cementate con abbondante malta, le mura erano rinforzate da quattro torri posizionate nei punti piú esposti a eventuali attacchi, con quella est, di maggiori dimensioni e altezza, che aveva funzione di mastio (torre A). Questa è stata costruita con blocchi di tufo grigio

squadrati e messi in opera in corsi regolari su sottili letti di malta e presenta una base poligonale a scarpa con cornice in tufo. La porta della rocca era stata realizzata sul fianco nord del mastio, nel punto piú difficilmente attaccabile. L’ingresso era raggiungibile grazie a una rampa, interamente posta su setti murari in pietra – oggi sostituita da una rampa in metallo – e che si concludeva con Sezione ricostruttiva del mastio del castello, che mostra la collocazione dell’ingresso originario.

La rocca La rocca presenta una cortina muraria ben conservata su due lati mentre nel terzo lato, verso nord, è in buona parte crollata perché esposta agli agenti atmosferici e anche probabilmente a causa di una sua minor robustezza costruttiva dovuta alla presenza del ripidissimo declivio

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Resti degli ambienti residenziali del castello.

un ponte levatoio. Nella cortina fra il mastio e la torre B, è oggi presente un altro ingresso, che in realtà deriva solo dalla sistemazione, realizzata in epoca moderna, di una breccia nelle mura per ricavarvi una uscita di sicurezza. Nelle mura perimetrali tra il mastio e la torre B si notano tre diverse fasi di innalzamento, rivelate da due livelli di merli rettangolari murati, con quelli superiori dotati anche di feritoie. Al di sopra dei merli il muro si conclude con un coronamento ad archetti in tufo. Come il mastio, anche la torre B fu costruita con blocchi di tufo grigio squadrati. Ha forma circolare e alla sua base fu successivamente aggiunta una terrazza che permetteva il controllo della porta che si apriva nel circuito murario che recingeva il villaggio.

Nuove tecniche difensive Lungo tutto il perimetro della rocca è possibile individuare interventi di rinforzo delle mura con fodere in pietra calcarea che miravano a ispessire le fortificazioni e che corrispondono a diversi momenti di evoluzione e restauro della rocca. Esempi significativi sono costituiti dalla torre C, dove è possibile rilevare la presenza di

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merli con saettiere appartenenti alla fase originaria, murati a due terzi dell’altezza, e la rifodera complessiva della torre D. Entrambe furono adeguate a una tecnica difensiva piú evoluta, che prevedeva archibugiere e bocche circolari per armi da fuoco di medio calibro. L’interno della rocca presentava una corte centrale su cui si aprivano gli ambienti residenziali del piano terra e del primo piano del castello. Al di sotto del cortile centrale è presente una grande cisterna, mentre sullo stesso si apriva l’ingresso della cappella del castello, di cui restano parte delle fondazioni e il catino absidale, che conserva ancora labili tracce di affreschi. Nella zona meridionale della rocca, al piano seminterrato, si riconoscono ancora le cucine del castello, dotate di banconi in pietra e di una nicchia con fontana alimentata direttamente dalla grande cisterna del cortile. Le fondazioni di numerosi altri ambienti del piano terra della rocca e le tracce dei primi piani lungo le cortine murarie permettono di ricostruire l’estensione e l’articolazione degli ambienti che dovranno essere oggetto di studi futuri volti alla ricostruzione della complessa storia edilizia dell’edificio.

Da leggere Adriano Caffaro, Alfredo Plachesi, Il campanile dell’antica cattedrale di Lettere e la chiesa di San Giacomo di Pino, in Rassegna Storica Salernitana XXIX-XLIII (19681983), 1983; pp. 227-229 Domenico Camardo, Matilde Esposito, Le Frontiere di Amalfi, Eidos, Castellammare di Stabia 1995 Domenico Camardo, Mario Notomista, Alle origini di Lettere. La Cattedrale ed il Borgo Medievale nell’area del Castello, Nicola Longobardi Editore, Castellammare di Stabia 2008 Domenico Camardo, Paola Marzullo, Mario Notomista, Lettere: un castello di frontiera del Ducato Amalfitano. Percorsi di visita al Parco Archeologico, Nicola Longobardi Editore, Castellammare di Stabia 2019 Matteo Camera, Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e ducato di Amalfi, Stabilimento Tipografico Nazionale, Salerno 1881 Francesco Di Capua, Le tre chiese dei castra medievali di Lettere, Gragnano e Pino, Napoli 1955

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Con gli occhi di Ildegarda LIBRI • L’esperienza della grande mistica benedettina

tedesca rivive attraverso la rilettura e la minuziosa analisi delle splendide miniature che corredavano l’edizione originale di Scivias, la sua opera piú famosa

«I

n verità le visioni che ho visto non le ho percepite nei sogni, né mentre dormivo, né in delirio, e nemmeno con gli occhi corporei o con le orecchie umane esteriori, e non in luoghi nascosti, ma le ho ricercate da sveglia e con la mente sgombra e cauta, attraverso gli occhi e le orecchie dell’uomo interiore, in luoghi aperti, secondo la volontà di Dio. Come questo possa accadere, è difficile che un essere umano carnale riesca a capirlo»: con queste parole (qui nella traduzione di Michela Pereira), la stessa Ildegarda di Bingen descrive le condizioni in cui visse la straordinaria esperienza visionaria che poi riversò in Scivias (Conosci le vie), la sua opera piú

famosa, sulla quale è imperniato il volume di Sara Salvadori pubblicato per i tipi di Skira. E se, come sentenziò la mistica benedettina, «Le cose che non vedo non le conosco», questa pregevole impresa editoriale permette davvero di ripercorrerne il viaggio esperienziale. La prima parte del volume offre un ampio e articolato profilo di Ildegarda, che definisce le coordinate entro le quali inserire la sua vicenda biografica e il significativo gioco di coincidenze che segnarono la sua esistenza, come per esempio l’essere nata mentre la prima crociata prendeva le mosse o l’essere

Sara Salvadori Hildegard von Bingen Viaggio nelle immagini Skira Editore, Milano, 222 pp., ill. col. 49,00 euro ISBN 978-88-572-4014-5 www.skira.net

Sulle due pagine alcune delle miniature realizzate per l’edizione originale di Scivias, riprodotte a grandezza naturale nel volume di Sara Salvadori.

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Lo scaffale Anonimo Cronaca di Fra Michele minorita

a cura di Giulia Boccardi e Luca Salvatelli, Edizioni Archeoares, Viterbo, 87pp.

9,50 euro ISBN 9788899822606 www.archeoares.it

stata contemporanea d’un altro grande protagonista di quel tempo, Federico Barbarossa.

Una copia provvidenziale Tuttavia, il cuore di questo Viaggio nelle immagini è la riproduzione a grandezza naturale delle 35 miniature che illustrano il facsimile dell’opera originaria. Occorre infatti ricordare che il manoscritto contenente la stesura curata da Ildegarda e conservato presso la Hessische Landesbibliothek di Wiesbaden scomparve negli anni del secondo conflitto mondiale, ma alcuni anni prima, fra il 1927 e il 1933, era stata realizzata la replica fedele dei 235 fogli che lo compongono, grazie alla quale possiamo ancora oggi ammirarlo e, come ha fatto Sara Salvadori, analizzarlo e studiarlo. Le splendide miniature illustrano dunque le 26 visioni narrate da Ildegarda e sono distribuite nel volume rispettando l’ordine cronologico che ella stessa aveva scelto per il manoscritto originario. E soprattutto – al di là dell’altissima qualità tipografica delle riproduzioni – sono corredate dagli apparati che costituiscono senza alcun dubbio l’elemento di maggior interesse.

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La vicenda narrata da Umberto Eco ne Il Nome della Rosa prese spunto dalla triste Cronaca narrata in questo volumetto, nel quale si ripercorrono gli ultimi giorni del fraticello francescano Michele da Calci (Pisa), intercorsi tra la Domenica delle Palme e l’11 aprile 1389. Non una semplice e impersonale cronaca degli avvenimenti dall’arresto fino alla condanna al rogo per eresia, ma la viva e drammatica testimonianza del martirio di fede per essersi contrapposto, insieme ai suoi confratelli, alla bolla Cum iter nonnullus di Giovanni XXII, circa la povertà di Cristo e dei suoi discepoli. L’odierna edizione è basata sull’unico

esemplare pervenuto, un breve racconto anonimo in volgare, verosimilmente contemporaneo alla narrazione degli eventi e destinato al ristretto ed esclusivo uso dei confratelli di fra Michele, confluito e tràdito all’interno del Manoscritto Magliabecchiano XXXI.65, oggi conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. I curatori, di formazione medievista e archivistica, hanno suddiviso lo studio in tre parti: la prima, introduttiva, inerente il complesso periodo storico, politico e teologico di riferimento incentrato sulla disputa sulla povertà della Chiesa, nonché sulle caratteristiche compositive e storiche del testo; la seconda riporta la circostanziata e aggiornata trascrizione paleografica della Cronaca corredata da annotazioni critiche ed editoriali; la terza, infine, ripropone la traduzione in italiano corrente del

Ogni tavola è infatti accompagnata dalle traduzioni dei testi che all’illustrazione erano riferiti e da una serie di indicazioni che permettono di scoprire allusioni, metafore, citazioni e simbologie che si voleva veicolare attraverso le immagini. Le miniature vengono cosí liberate dall’ermetismo che ai piú certamente trasmettevano e trasmettono e finiscono con il

testo in volgare del XIV secolo, al fine di rendere piú agevole la lettura e comprensione. Conclude il volume una breve bibliografia di riferimento sugli studi pregressi e sulle tematiche dell’eresia dolciniana e dei fraticelli. Questa Cronaca è quindi una importantissima e affascinante testimonianza del drammatico momento storico vissuto a Firenze alla fine del Trecento, quando un semplice monaco finí sul rogo come eretico per aver professato i valori primigeni di san Francesco, ovvero la povertà assoluta di Cristo e dei suoi apostoli. Francesca Ceci

comporre quasi uno storyboard di quel che Ildegarda aveva «visto». Ed è però bene sottolineare come l’analisi esegetica, sebbene minuziosa, abbia il merito di non far dimenticare il carattere soprannaturale dell’esperienza vissuta da Ildegarda, che, seppure in sottotraccia, è sempre chiaramente percepibile. Stefano Mammini

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Vedere l’amore MUSICA • Organista virtuoso, ma, soprattutto,

compositore prolifico, Francesco Landini è il protagonista della piú recente, pregevolissima incisione dell’ensemble La Reverdie

C

on questa antologia monografica dedicata a Francesco Landini, l’ensemble La Reverdie torna a occuparsi del Trecento musicale italiano, con la grazia e l’eleganza di sempre. E chi poteva meglio rappresentare l’Ars Nova italiana, se non Francesco Landini (1325/13351397), osannato in vita e dai posteri per le sue qualità musicali? Chiamato anche Francesco «degli organi» per il suo talento di organista – lavorò come tale nella chiesa di

S. Lorenzo a Firenze nell’ultimo trentennio del XIV secolo –, Landini fu spesso ricordato da umanisti come Giovanni Gherardi da Prato e Cristoforo Landino, tanto che intorno alla sua figura crebbe un vero e proprio mito, forse anche a causa della cecità che lo colpí da fanciullo, ma che non gli impedí, come narra Filippo Villani nel Liber de origine civitatis Florentie (redatto negli anni 1385-1397), di elevarsi al di sopra di tutti gli altri compositori a lui coevi. La sua fama ci è confermata

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dalle oltre 150 composizioni pervenuteci attraverso alcuni dei piú famosi codici dell’epoca, come lo Squarcialupi (1440 circa), e il codice di Faenza (XV secolo), testimoni eloquenti della produzione italiana trecentesca. Fatte pochissime eccezioni, a caratterizzare gran parte della sua produzione musicale è la ballata, un genere ampiamente diffusosi nella poesia tra Due e Trecento e che, a partire dalla seconda metà del XIV secolo, divenne la forma poetica piú sfruttata dai compositori, a sfavore di altre, quali la «caccia» e il «madrigale», che avevano sino ad allora dominato la produzione profana. Nata originariamente in un contesto popolare in cui l’elemento testuale si fondeva con la danza, la ballata rispecchia di quest’ultima quelle formule ripetitive che costituivano i passi di danza attraverso un elaborato e continuo alternarsi delle sezioni del ritornello (ripresa) e del piede (strofa).

Echi autobiografici La Reverdie affronta questo assaggio della vasta produzione di Landini, molta della quale dedicata al tema dell’amore, attraverso la vista, cioè con l’occhio a cui è negato il beneficio della visione dell’amata, ovvero con l’occhio che non vuole vedere. Risulta evidente il richiamo autobiografico che caratterizza piú di un brano. Nel primo, Poiché partir convienmi, per esempio, il dolore per il

Francesco Landini L’Occhio del Cor La Reverdie, Christophe Deslignes Arcana (A462), 1 CD www.outhere-music.com distacco dall’amata e quindi della di lei visione, viene trasceso attraverso l’occhio del cor, che, comunque, sempre la vede. Oppure ne L’alme mie e Non per fallir, in cui è descritto il tormento del poeta a cui la donna amata non rivolge piú lo sguardo. Composti a due e tre voci, questi brani vengono interpretati dal gruppo La Reverdie con una scelta oculata, che vede l’alternanza di voci e strumenti in un delicato equilibrio di colori strumentali e vocali particolarmente evocativi. Pregevole è il fatto che le cinque voci si cimentino anche negli strumenti della tradizione: Claudia Caffagni (liuto), Livia Caffagni (flauti e viella), Elisabetta De Mircovich (rebeca e viella), Teodora Tommasi (arpa e flauti), Matteo Zenatti (arpa e tamburello), a cui si aggiunge Christophe Deslignes all’organetto. Voci che incantano per la loro delicatezza espressiva, accompagnata dall’accuratezza in termini di intonazione e di ritmica, la stessa che ritroviamo nell’accompagnamento strumentale. Il risultato finale è di altissimo livello e vede l’ensemble confermarsi tra i maggiori interpreti del Trecento musicale italiano. Franco Bruni ottobre

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