Medioevo n. 256, Maggio 2018

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UN ’ER ED ITÀ

BA RB A ITA R LIA I

MEDIOEVO n. 256 MAGGIO 2018

EDIO VO M E www.medioevo.it

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ORVIETO

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Mens. Anno 22 numero 256 Maggio 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

Il talento di Opicino

Uomini in vendita

GUERRA D’ASSEDIO

Quella polvere diabolica

QUANTO SIAMO

BARBARI? UNNI, GOTI E LONGOBARDI ALLA SCOPERTA DI UN’EREDITÀ

www.medioevo.it IN EDICOLA IL 3 MAGGIO 2018

€ 5,90

OPICINO DE CANISTRIS SCHIAVITÚ IL CORTEO DI ORVIETO GUERRA D’ASSEDIO/3 DOSSIER QUANTO SIAMO BARBARI?

Il Corteo dei miracoli

SCHIAVITÚ



SOMMARIO

Maggio 2018 ANTEPRIMA

GUERRA D’ASSEDIO/3 La miscela del diavolo

IL PROVERBIO DEL MESE Tenere sotto scacco

di Flavio Russo

Il re è morto...

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MOSTRE Nome in codice: «donna»

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LA SCHIAVITÚ NEL MEDIOEVO Uomini come merce

di Maria Paola Zanoboni

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54 42

COSTUME E SOCIETÀ

APPUNTAMENTI Medioevo Oggi Un matrimonio che non conosce crisi Re per un giorno L’Agenda del Mese

12 14 20

di Andrea Mazzi, con contributi di Umberto Maiorca e Arnaldo Casali 54

ITINERARI Alle radici della Mitteleuropa

16

CARTOLINE Nella Perugia di Braccio

104

LIBRI Lo scaffale

110

MUSICA All’essenza delle cose

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TRADIZIONI Orvieto Il Medioevo in «fotografia»

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CALEIDOSCOPIO

STORIE PERSONAGGI

Opicino de Canistris

Tutto il mondo in un disegno di Alessandro Bedini

30

30

Dossier

42

QUANTO SIAMO BARBARI? 81 di Federico Canaccini


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UN ’ER ED ITÀ

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19/04/18 16:48

MEDIOEVO Anno XXII, n. 256 - maggio 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Bedini è giornalista e scrittore. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Arnaldo Casali, giornalista, storico e saggista, è direttore artistico di Popoli e Religioni-Terni Film Festival. Francesco Colotta è giornalista. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Umberto Maiorca è giornalista e autore di saggi storici. Tommaso Mammini è laureando in storia contemporanea. Andrea Mazzi è giornalista, saggista e studioso di tradizioni popolari. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Daniela Querci è dottore di ricerca in petrografia applicata ai beni culturali e organizzatrice del Festival del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: p. 98 (basso); Album: copertina e pp. 44, 46/47, 78 (alto); Leemage: pp. 4, 42-43, 47, 50, 75, 81, 98 (alto), 99; Electa: pp. 36, 38, 48/49; AKG Images: pp. 36/37, 45, 57 (alto); Electa/Bruno Balestrini: p. 67 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 6-7 – Cortesia degli autori: pp. 8, 10, 12, 14 – Doc. red.: pp. 16-18, 33-35, 57 (centro), 72, 73 (basso, a sinistra e a destra), 76, 82/83, 85, 86, 87, 88-89, 91, 94-97, 100-102, 113 – Alamy Stock Photo: pp. 30/31 – Shutterstock: pp. 32/33, 38/39, 64-66, 68/69, 72/73 – Bridgeman Images: p. 51-53 – Cortesia Associazione «Lea Pacini», Orvieto: pp. 5456, 57 (basso), 58-59, 62, 70 – DeA Picture Library: pp. 60/61; Icas94: p. 60; A. Dagli Orti: pp. 70/71, 106 – Christ Church Library, Oxford: p. 74 – Flavio Russo: tavole alle pp. 76/77 e 78 – Studio Inklink, Firenze: p. 92 – Cortesia «Perugia 1416»: Armando Flores Rodas: pp. 104-105, 108-109; Giancarlo Belfiore: p. 107 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 84, 84/85, 86, 90, 93. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Pubblicità Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9,00/18,00] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da Timeline Publishing Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, Timeline Publishing Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: Timeline Publishing Srl, via Calabria 32 - 00187 Roma, la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a Timeline Publishing Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina una delle immagini promozionali ideate per il film Conan il barbaro, diretto da Marcus Nispel e distribuito nel 2011.

Nel prossimo numero esclusiva

faenza

Il tesoro di Aroldo Dente Azzurro

Il Palio del Niballo

giugno 451 d.c.

dossier

La battaglia dei Campi Catalaunici

I Francescani in Terra Santa


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Il re è morto...

«T

enere sotto scacco» significa mettere qualcuno in condizioni di non potersi piú muovere, sia in senso reale che figurato, tenendolo in uno stato di soggezione e inferiorità. La locuzione è legata appunto al gioco degli scacchi, diffuso nell’Europa medievale dagli Arabi, i quali lo avevano a loro volta appreso dai Persiani. Non è un caso che nelle prime scacchiere si trovino pezzi quali il cammello (rukh, divenuto rochus in latino, cioè la rocca, e poi la torre) e l’elefante (ualfil, divenuto alfiere in italiano). Intorno al Mille abbiamo le prime testimonianze degli scacchi nella Penisola Iberica, laddove l’influenza araba fu particolarmente significativa. Successivamente il gioco si diffuse in tutta Europa ed ebbe una straordinaria fortuna presso i ceti piú elevati, al punto che la destrezza negli scacchi era considerata una virtú del cavaliere. In molti poemi e in molte poesie gli scacchi fanno sovente capolino e talvolta diventano addirittura l’argomento unico delle composizioni: è il caso de Les échecs amoureux, un poema francese di oltre 30 000 versi.

Miniatura raffigurante due dame che giocano a scacchi, dal Libro de los juegos del re Alfonso X il Saggio. XIII sec. El Escorial (Madrid), Biblioteca di San Lorenzo.

Il domenicano Jacopo da Cessolis, nel XIV secolo, dedicò agli scacchi un Liber de moribus hominum et officiis nobilium super ludo scachorum, utilizzando il gioco come argomento teologico. In una miniatura lo si vede predicare dal pulpito mostrando ai fedeli proprio una scacchiera, metafora della società in cui si muovono le diverse classi sociali. Ma torniamo alla nostra espressione. Quando un pezzo importante degli scacchi rischia d’essere «mangiato» dall’avversario, a meno di non smarcarsi con un’abile mossa, si dice che è «sotto scacco» o «in scacco». Approfondendo la questione, si tenga conto che in genere lo scacco si dà solo al re: non a caso, «scacco» deriva dal persiano «sha-h» (scià), che corrisponde appunto al nostro «re». Quando dunque un giocatore dichiara «scacco matto», non si fa riferimento a un pazzo o a un folle: l’espressione, infatti, non è altro che la grossolana trasposizione fonetica del persiano «sha-h ma-t», che significa «il re è morto». Si ha infatti «scacco matto» solo quando la pedina del re, che è la piú importante, è bloccata e impossibilitata a muoversi.


ANTE PRIMA

Nome in codice: «donna» MOSTRE • Poetesse,

scrittrici, ma anche religiose e artiste: un’esposizione alla Biblioteca Medicea Laurenziana rivela la presenza femminile nei suoi preziosi fondi

S’

intitola «Voci di donne» la mostra allestita nei locali adiacenti alla Biblioteca Laurenziana di Firenze che, già agli inizi del XX secolo, avviò la tradizione delle esposizioni temporanee, organizzate con regolarità, allo scopo di valorizzare il patrimonio posseduto. Il prestigioso «contenitore», commissionato da papa Clemente VII de’ Medici per ospitare la preziosa raccolta di manoscritti collezionata dalla sua potente famiglia, fu progettato da Michelangelo, il quale ne diresse i lavori tra il 1523 e il 1534, anche se furono Giorgio Vasari e Bartolomeo Ammannati a completarlo, qualche decennio piú tardi, quando vennero incaricati dal granduca Cosimo I di proseguire l’opera, pur attenendosi ai disegni originali del maestro fiorentino. Attenta custode di un tesoro incommensurabile, la raffinata struttura ci introduce alla rassegna dedicata alla figura femminile, esaminata sia come soggetto passivo che attivo.

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Effettuata sui cataloghi di tutti i manoscritti, dai papiri greci fino ai carteggi novecenteschi, l’indagine ha rivelato un cospicuo numero di testi legati al mondo muliebre, molti dei quali poco studiati, se non addirittura ignorati finora e, in maggioranza, mai esposti e conservati nei fondi Ashburnham, Mediceo Palatino e Redi.

Un ampio orizzonte cronologico Sono stati cosí individuati sessantasei documenti, che vengono ora presentati in sei sezioni, all’interno delle quali sono stati ordinati seguendo il criterio cronologico delle singole

protagoniste, e non sulla base della datazione dei pezzi. L’esposizione si apre con una selezione di composizioni poetiche, trattati e diari, scritti da undici donne su differenti supporti, in un ampio lasso di tempo. Il primo esemplare, il piú antico, è il frammento di una poesia composta da Saffo, poetessa greca vissuta tra VII e VI secolo a.C., conservato su un ostrakon databile al II secolo (il termine ostrakon, in greco, designava la conchiglia, ma, per traslato, fu utilizzato per designare frammenti di terracotta usati come supporto scrittorio, n.d.r.), sistemato insieme al pezzo piú recente, una lettera maggio

MEDIOEVO


Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’Annunciazione, dall’Officium beatae Mariae Virginis secundum usum Romanum. 1455-1460. di Medea Norsa, papirologa del XX secolo. E proviene proprio dall’Egitto il papiro che riporta parzialmente il poemetto la Conocchia di Erinna, mentre il medico Trotula (vedi «Medioevo» n. 252, gennaio 2018) e la monaca teologa Ildegarda di Bingen ben rappresentano il Medioevo, epoca testimoniata anche da santa Caterina da Siena, autrice del Dialogo della divina dottrina, riportato da un piccolo codice miniato. Gli scritti della ritrattista veneziana Rosalba Carrera chiudono il percorso iniziale, al quale segue il settore consacrato alle autrici di epistole. Sono 14 le lettere In alto lettera di Margarita di Martino a Girolamo Savonarola. Firenze, 2 maggio 1496. A sinistra lettera di Lena Strozzi a Neri di Donato Acciaioli (in Venezia). (Firenze), 14 giugno [1423]. esposte, alcune con firma autografa, quasi tutte custodite nel Carteggio Acciaioli del XIV secolo, tra cui due delle regine di Napoli, Giovanna I e Giovanna II e alcune anche nel seicentesco Carteggio Huet.

Una seguace del Savonarola Di notevole spessore è la figura di Margarita di Martino, seguace savonaroliana, la quale, nel 1496, scrive al frate ferrarese, esortandolo a considerare una riforma delle norme che regolamentano l’abbigliamento delle fanciulle.

MEDIOEVO

maggio

Sono invece dedicate a regine, duchesse e marchese le opere del terzo comparto, storicamente rilevanti, come la versione del De Beneficiis di Seneca di Benedetto Varchi che reca la dedica a Eleonora di Toledo, oppure dei manoscritti legati alle donne di casa Medici e Lorena, come Caterina o Giovanna d’Austria, sposa di Francesco I, omaggiata da un maestro comasco che, per lei, compose una piccola Grammatica, allo scopo di insegnarle l’italiano. Le due sezioni successive prendono

DOVE E QUANDO

«Voci di donne. L’universo femminile nelle raccolte laurenziane» Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 29 giugno Orario lu-ve, 9,30-13,30; chiuso sabato, domenica e festivi Info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it in esame le dame committenti, come Eufrasia de’ Lanfranchi, monaca benedettina di nobile famiglia pisana, vissuta nel Trecento, che fece realizzare un breviario di squisita fattura, e le copiste, tutte suore di conventi fiorentini ora scomparsi che eseguirono pregevoli opere. La mostra si conclude con quei personaggi femminili che, a vario titolo, hanno posseduto diversi esemplari, come i 3 codici acquistati da Maria Luisa di Spagna per essere donati alla Biblioteca nel 1806. Mila Lavorini

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ANTE PRIMA

EDIOEVO MOGGI

N N

el castello di Gropparello (Piacenza), arroccato su uno sperone roccioso nel cuore delle colline piacentine, nel fine settimana del 2 e 3 giugno tornano a risuonare musiche, tornei, festeggiamenti che rimandano al Duecento. Il maniero, che si affaccia su un orrido solcato dal torrente Vezzeno, per due giorni fa da cornice alla rievocazione del matrimonio fra il condottiero guelfo Pietro da Cagnano e Rosania Fulgosio, esponente di una famiglia d’alto lignaggio. Il sabato è in calendario il Torneo della promessa, con il quale i cavalieri si sfidano a singolar tenzone, in una contesa che serve a incoronare il campione della castellana, ovvero il valoroso che sarà disposto a combattere per i colori e l’onore di Rosania.

vestizione dei combattenti, per seguire la forgiatura delle spade o per sentire il peso di armi come la corazza e l’elmo. Insomma la giostra, preparata secondo un criterio filologico, regalerà l’occasione di accostarsi a un mondo di onori, ideali, valori, mettendone in luce la fatica e gli aspetti materiali. Nella mattinata è in programma anche un appuntamento ai piedi della fortezza, nel Parco delle Fiabe, dove i bambini hanno

Riproduzioni fedeli Attorno alla rocca è prevista la costruzione di un accampamento medievale, con tende nelle quali i visitatori, soprattutto i piú piccoli, possono entrare, per assistere alla Dall’alto, in senso orario una veduta del castello di Gropparello (Piacenza); la corte del maniero; bambini «arruolati» come cavalieri difendono la cittadella.

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maggio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA A sinistra la sala del castello di Gropparello che, oltre a essere impreziosita da un camino monumentale, custodisce una pregevole raccolta di strumenti musicali. In basso un banchetto «medievale».

l’opportunità di cimentarsi in un’avventura che fa di loro i cavalieri arruolati nella difesa della cittadella. La domenica è invece la volta della cerimonia nuziale, preceduta da inediti quadri viventi, in cui i promessi sposi danno voce a dubbi e pensieri che scavano nell’intimità. Mentre si prepara al grande evento, lasciandosi acconciare dalla sua dama di compagnia, Rosania confida paure, sogni, perplessità, timori, che assumono una connotazione sinistra, alla luce della fine a cui va incontro la giovane, che sarà murata viva dal marito. Alla metà del Duecento, Pietrone parte infatti per la guerra: senza la protezione del signore, il castello viene conquistato da un amore di gioventú della Fulgosio, Lancillotto Anguissola. Con il capitano di ventura, fedele al marchese Pallavicino, la dama intreccia una relazione per salvare la proprietà. Ma la leggenda vuole che fra i due ci sia stato un vero ritorno di fiamma, che avrebbe portato i fidanzati di un tempo a rivivere l’antica passione, proprio fra le mura del maniero di Gropparello. Una volta rientrato, Pietrone apprende del tradimento della moglie dalla serva Verzuvia, forse sua amante da tempo, e pianifica una tremenda vendetta: organizza un banchetto, durante il quale narcotizza Rosania, per poi rinchiuderla in una stanza segreta nei sotterranei della struttura, dove la poveretta morirà di stenti.

Le rassicurazioni della balia Nel momento in cui indossa il velo e l’abito nuziale ricamato a mano, la fanciulla viene rassicurata dalla sua balia, che negli anni è diventata la sua dama di compagnia e ora si prodiga nel dispensare parole di una saggezza tipicamente femminile. Al centro di un altro quadro vivente c’è Pietro, che con il suo consigliere spirituale parla invece di alleanze, confini, vantaggi che ricaverà dall’unione prospettatagli dal vescovo di Piacenza: lui porta forza al casato nobile della moglie, dal quale riceve in cambio prestigio, nel quadro del classico «do ut des», di

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cui è pienamente consapevole. Abituato a guerreggiare e avere donne diverse, Pietro trova che Rosania sia giovane, insignificante, e mentre segue a voce alta il filo dei suoi ragionamenti, si abbandona spesso a uscite irose, che il monaco cerca di smussare. Quando si avvicina il momento del sí, prende il via un corteo articolato: alla testa si muovono il promesso sposo, affiancato dal suo fedele consigliere spirituale, e un gruppo di nobili e dame. La Fulgosio arriva quindi fino al ponte levatoio su una portantina, per proseguire a piedi alla volta del baldacchino che farà da teatro alla cerimonia. L’officiante fa pronunciare a Pietro la promessa di protezione e a Rosania quella di devozione. A nozze concluse, prendono il via i festeggiamenti, con sbandieratori, musica e, di nuovo, tornei. Sulla vicenda di Rosania il castello promuove attività di drammatizzazione con le scuole primaria e secondaria: l’obiettivo è avvicinare attraverso l’approccio teatrale i piccoli e i ragazzi a una vicenda di femminicidio e damnatio memoriae. Info: www.castellodigropparello.it; tel. 0523 855814. Stefania Romani maggio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Un matrimonio che non conosce crisi APPUNTAMENTI •

Come ogni anno, Venezia si appresta a celebrare la festa in occasione della quale rinnova lo speciale rapporto con il mare, teatro delle sue fortune

A

Venezia, nel giorno dell’Ascensione del 1177, il doge Sebastiano Ziani fece da mediatore tra papa Alessandro III e l’imperatore Federico Barbarossa, che suggellarono una pace storica. Come ricompensa per questa delicata azione diplomatica, il papa conferí alla Serenissima alcuni privilegi, fra cui un’indulgenza in occasione della festa dell’Ascensione e la facoltà di «sposare il mare», come segno di investitura ufficiale a conferma di un dominio che la Repubblica esercitava da tempo sull’Adriatico. In occasione della festa dell’Ascensione, il doge, il Consiglio cittadino, gli ambasciatori stranieri e altri ospiti illustri si ritrovavano nel Bacino di San Marco per salire sul Bucintoro, la fastosa imbarcazione di rappresentanza della Serenissima, che ne evocava il prestigio. Seguito da un folto corteo di barche ornate a festa con i rappresentanti dei mestieri e delle corporazioni cittadine, il Bucintoro superava l’isola di Sant’Elena e raggiungeva la bocca di porto di San Nicolò, dove veniva raggiunto da un’imbarcazione con il Patriarca, che, salito a bordo, benediceva il mare. Poi il doge

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Due immagini della Festa della Sensa, con le barche guidate dal Bucintoro. gettava l’anello in acqua, a suggello dello «sposalizio». L’evento, uno dei momenti topici della mondanità veneziana, era accompagnato da una grande fiera in Piazza San Marco, con esposizione di novità, opere artigianali, artistiche e merci rare.

Il lancio dell’anello Oggi la tradizione dello Spozalizio del Mare si perpetua in occasione della Festa della Sensa, che fa rivivere la millenaria storia della Serenissima e il suo intimo rapporto con l’Adriatico. Nella mattinata del giorno dell’Ascensione (quest’anno 13 maggio) dal Bacino di San Marco parte il corteo delle imbarcazioni storiche per San Nicolò di Lido, dove alla presenza del sindaco, delle autorità civili, religiose e militari, si celebra la cerimonia dello Sposalizio,

con il rituale lancio dell’anello fra le acque. Segue la santa messa nella chiesa di S. Nicolò. Nel primo pomeriggio vanno in scena le tre regate della Sensa. Giovanissimi su pupparini a due remi, donne su mascarete a due remi e uomini su gondole a quattro remi sono impegnati in un percorso che va dal Bacino di San Marco alla Riviera San Nicolò al Lido. Tiziano Zaccaria maggio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Re per un giorno APPUNTAMENTI • Il villaggio ceco

di Vlcnov evoca ogni anno la figura di Mattia Corvino. I cui panni di sovrano vengono vestiti da un... bambino

V

lcnov è un caratteristico villaggio della Moravia meridionale, in Repubblica Ceca, rinomato per le sue cantine e le tipiche case decorate. Qui, nell’ultimo week end di maggio (quest’anno sabato 26 e domenica 27) prende vita una splendida espressione etnografica in occasione della Cavalcata dei Re, una storica parata in sfarzosi costumi, che attira sempre un gran numero di visitatori. La festa celebra la primavera e, al tempo stesso, rappresenta un rito d’iniziazione adolescenziale. I giovani locali attraversano a cavallo il villaggio con fare cerimonioso, declamando versi in onore di un piccolo Re, scelto fra i bambini dai dieci ai dodici anni. Il giovanissimo sovrano monta un cavallo bianco e sulla testa porta una corona di fiori, dalla quale pendono alcuni lunghi nastri rossi che ne coprono il volto come lunghi capelli, tanto da poter essere confuso per una bambina. Storicamente, la sua figura rievoca il monarca ungherese Mattia Corvino, che nella seconda metà del XV secolo fuggí dal proprio regno dopo una dura sconfitta militare subíta contro il re ceco Giorgio di Podebrady. Secondo la leggenda, Mattia evitò la cattura travestendosi da donna.

Banconote e monete negli stivali Oggi, a Vlcnov, il piccolo sovrano viene scortato da cavalieri in costumi sfarzosi, che indossano una camicia dalle maniche larghe sotto un gilet rosso, pantaloni scuri, una cinghia avvolta in vita e stivali alti, con piume di gallo sui cappelli e pennacchi rossi sui corpetti. Il pubblico, per tradizione, infila una banconota o qualche moneta nei loro stivali. Anche i cavalli sono decorati con rose, nastri e frange colorate. La Cavalcata è accompagnata dalle ragazze del paese, che indossano un elegante grembiule rosso sopra una gonna bianca e una camicetta con frange e merletti. Molto elaborate sono le loro acconciature, adornate con rose, roselline e nastri multicolori. Il ritrovo è fissato davanti alla casa del piccolo Re, che viene aiutato a vestirsi dalla madre con visibile emozione. Poi parte il corteo, preceduto da alcuni araldi. Nel Medioevo cerimonie simili si svolgevano in diversi villaggi della Boemia e della Moravia. Nei secoli molte sono scomparse e oggi solo la Cavalcata dei Re di Vlcnov

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ha mantenuto piena vitalità e una forte identità. A corollario si svolgono spettacoli folkloristici, concerti di bande musicali e una fiera di oggetti etnografici. Da non perdere una visita alle cantine del villaggio, che servono vini e piatti tradizionali. T. Z. maggio

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Alle radici della Mitteleuropa

ITINERARI • Il Danubio

può ben essere definito un «fiume di storia»: e seguirne il corso permette di ripercorrere vicende che hanno segnato il Medioevo europeo

C

on i suoi 2858 chilometri, il Danubio è, per lunghezza, il secondo fiume d’Europa dopo il Volga. Al di là dei primati, il grande fiume – che attraversa dieci nazioni e bagna quattro capitali – è stato ed è un’arteria pulsante nella storia e nella civiltà del Vecchio Continente, luogo di incontro e scontro tra popoli e culture diverse. Raccontato dai romanzieri, ritratto dagli artisti,

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cantato da poeti e musicisti, il Danubio ha dato vita nei secoli a una vera e propria Weltanschauung, una «visione del mondo», che si basa su un concetto tanto intrigante quanto evanescente: quello di Mitteleuropa. Il modo migliore per cogliere le atmosfere di questa «visione» è senza dubbio un viaggio, il cui itinerario segua appunto il corso del fiume. Il percorso può avere inizio a Ratisbona, nel cuore della Baviera, il cui centro storico è Patrimonio UNESCO. Fondata nel I secolo come castrum dai Romani, la città divenne fortezza (con il nome di Castra Regina) sotto Marco Aurelio e ospitò i soldati della Legio III Italica, chiamati a presidiare il turbolento limes retico sottoposto alla crescente pressione dei barbari. Dopo la caduta dell’impero, Ratisbona divenne parte dei domini franchi e poi capitale maggio

MEDIOEVO


della diocesi, conoscendo il suo massimo splendore tra il XII e il XIII secolo. Testimonianza di questa ricchezza è l’esplosione edilizia che la città visse in quei secoli, e che è ancora oggi percepibile nei suoi monumenti piú celebri: dallo Steinerne Brücke, il lungo ponte di pietra sul Danubio costruito tra 1135 e 1146, alla cattedrale gotica di S. Pietro, consacrata nel 1276.

Alla volta della Terra Santa Data la posizione nevralgica, la città fu utilizzata anche come base dai crociati: da qui, per esempio, l’11 maggio 1189 l’imperatore Federico Barbarossa partí con un grosso esercito alla volta della Terra Santa, scegliendo come i suoi predecessori la via «classica» dall’Ungheria e dai Balcani anziché quella via mare. Suo nipote Federico II fece di piú e dichiarò Ratisbona Freie Reichsstadt («città libera dell’impero»); nei secoli successivi la sua leadership fu messa in crisi da altre città bavaresi – come Norimberga e Augusta –, ma Ratisbona continuò a ospitare, nell’Altes Rathaus, l’antico palazzo

municipale, le assemblee dei principi del Sacro Romano Impero (Reichstag) fino a diventarne, dal 1663, sede permanente. Oggi la città conserva un’atmosfera fiabesca, che può essere apprezzata soprattutto visitando il Walhalla, costruito nell’Ottocento da Ludovico I di Baviera: voluto per commemorare i caduti tedeschi nelle guerre, il monumento si ispira all’omonimo palazzo che la tradizione nordica riteneva accogliesse i guerrieri morti eroicamente in battaglia. Forte simbolo dell’identità germanica, cita il Partenone e regala dall’alto una vista mozzafiato sul Grande Fiume. Dopo aver fatto tappa a Passau (Passavia), detta «città dei tre fiumi» per via della confluenza nel Danubio dell’Inn e dell’Ilz, si varca il confine con l’Austria per raggiungere la suggestiva Linz, a metà strada tra Salisburgo e Vienna, da dove – navigando sul Danubio – si può raggiungere Krems an der Donau, immersa nei vigneti e Patrimonio UNESCO insieme alla valle di Wachau e alle vicine abbazie di Melk e di Göttweig. Nella pagina accanto Vienna. Il pulpito del duomo di S. Stefano, dedicato a san Giovanni da Capestrano (1386-1456). A sinistra Budapest. Veduta dal basso della città vecchia di Buda arrampicata sulla collina che sovrasta la riva destra del Danubio. Sulla sinistra, è la duecentesca chiesa di Mattia e, a fianco, il Bastione dei Pescatori.

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maggio

Si può quindi ripartire alla volta di Vienna, una delle capitali piú affascinanti d’Europa. Sono mete imprescindibili il Duomo gotico di S. Stefano (la cui costruzione iniziò nel 1147 e il cui campanile ospita la Pummerin, la campana pesante 21 tonnellate ricavata dalla fusione dei cannoni turchi catturati al termine dell’assedio del 1683), la suggestiva Cripta dei Cappuccini, che custodisce i sepolcri degli Asburgo, e le sontuose residenze imperiali di Hofburg e Schönbrunn.

Crocevia di popoli Al confronto con la vivacità cosmopolita di Vienna, Bratislava, capitale della Slovacchia, non sfigura: del resto, anch’essa è sempre stata crocevia di popolazioni diverse e luogo di incontro tra la cultura occidentale e quella est-europea sin dall’epoca piú remota e oggi sta conoscendo uno straordinario rilancio culturale e turistico. La città ha origini molto antiche, ma porta un nome moderno: fu scelto infatti nel 1919 con un concorso pubblico per sostituire il tedesco Pressburg, utilizzato per secoli ma considerato inadeguato dopo la caduta dell’impero asburgico decretata dalla fine della Grande Guerra. Divenuta punto di snodo importante in età romana, quando era circondata da fortezze (Gerulata e Devin) occupate dalle legioni ausiliarie a presidio del confine danubiano contro i barbari, Bratislava fu teatro di aspri scontri durante l’età delle migrazioni finendo occupata dagli Avari e poi, nel primo Medioevo, dagli Slavi. A questo turbolento periodo risalgono i resti, impiantati su fondazioni ben precedenti, del Castello che domina la città, poi ripetutamente rimaneggiato fino all’aspetto attuale che ne recupera (dopo il restauro eseguito negli anni Cinquanta per rimediare all’incendio del 1811) le fattezze settecentesche. Da Bratislava si può fare rotta per Budapest, che deve la sua origine

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ANTE PRIMA Miniatura raffigurante l’assedio di Belgrado da parte degli Ottomani di Maometto II. XV sec. Istanbul, Museo Topkapi.

ai Celti (che la chiamarono Akink). Furono però i Romani a farne il centro piú importante della provincia della Pannonia, a dotarla di edifici pubblici e privati di grande splendore; Aquincum, ennesimo presidio militare lungo il Danubio, ebbe cosí al pari delle altre città imperiali un grande anfiteatro, terme, acquedotti, ricche ville patrizie e gli immancabili castra di guardia al confine.

dei quali il conflitto del Kosovo. Da non perdere è il Museo Nazionale di Serbia, le cui collezioni vantano oltre 400 000 manufatti, tra reperti archeologici, dipinti e sculture, dal Medioevo ai giorni nostri, tra cui lo spettacolare Vangelo di Miroslav, uno degli esempi piú antichi di manoscritti in slavo ecclesiastico, dichiarato Patrimonio UNESCO.

La fondazione di Pest Con la caduta dell’impero e l’abbandono del limes, la Pannonia fu occupata dai Gepidi e dai Longobardi; partiti questi ultimi alla volta dell’Italia alla metà del VI secolo, l’ex provincia divenne la patria degli Avari e poi, dopo la parentesi carolingia, dal X secolo degli Ungari (o Magiari), i quali scelsero l’insediamento al di qua del Danubio – che ribattezzarono Buda – come sede e fondarono sulla riva opposta del fiume il sobborgo di Pest. Distrutta dai Mongoli nel 1241, la città venne poi ricostruita e conobbe un notevole splendore fino alla caduta in mano turca dopo la rovinosa battaglia di Mohács (1526), vinta dal sultano Solimano I e in cui perí anche il re Luigi II, ultimo degli Jagelloni, con il fior fiore della nobiltà magiara. Pest fu riconquistata nel 1686 dagli Asburgo e riunita definitivamente a Buda nel 1867, diventando la capitale del regno ungherese, unito alla corona austriaca. Fra i numerosi luoghi di interesse, non si devono mancare il Museo di Belle Arti, uno dei piú importanti al mondo grazie alle straordinarie collezioni di opere dal Rinascimento all’età moderna (tra cui spiccano i vari Tiepolo, El Greco, Velázquez, van

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Traiano in Dacia

Dyck Raffaello e Dürer), e il Museo Nazionale Ungherese, che conserva le spettacolari testimonianze del passato della città tra cui il mantello di re Stefano (XI secolo), i cimeli legati a Mattia Corvino (XV secolo), i tesori degli Avari e degli Unni. Dopo Budapest, si può ripartire per Belgrado, capitale della Serbia e centro nevralgico verso i Balcani. Le memorie della città sono legate ai molti eventi storici di cui è stata protagonista, tanto nel remoto passato – il territorio fu occupato nel tempo da Celti, Romani, Bizantini, Bulgari e Magiari e a lungo conteso tra Ottomani e Asburgo –, quanto in periodi ben piú recenti, ultimo

Lasciate Belgrado e la Serbia, ci si addentra in Romania attraverso le Porte di Ferro, la gola attraversata dal Danubio che segna il passaggio dai Carpazi ai Balcani. Sul percorso navigabile sono ancora visibili i resti della strada romana e del ponte costruiti da Traiano all’inizio del II secolo in occasione delle campagne che lo portarono alla conquista della Dacia: sulla riva romena si staglia anche la colossale statua realizzata tra il 1994 e il 2004 in onore di Decebalo, il condottiero dacico che si oppose a Roma. Bucarest, la capitale, è anche la città piú antica del Paese. Tuttavia, della «piccola Parigi», come fu soprannominata nell’Ottocento per il vivace clima culturale e l’ispirazione francese dei suoi edifici moderni, resta oggi ben poco: semidistrutta da un rovinoso terremoto, tra la fine degli Anni Settanta e i primi del decennio successivo la città è stata «ricostruita» in base agli stilemi architettonici del socialismo reale, che ne ha cancellato quasi del tutto il volto originario. Elena Percivaldi maggio

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AGENDA DEL MESE

Mostre BERGAMO RAFFAELLO E L’ECO DEL MITO Accademia Carrara fino al 6 maggio

La mostra approfondisce l’opera e la fortuna che il genio di Urbino ha conosciuto nel tempo, modello di perfezione rincorso negli anni

a lui coevi e nei secoli a venire. A Bergamo sono esposte alcune tra le piú rappresentative opere di Raffaello, dalla formazione agli esordi giovanili, dalle immagini simboliche alla consapevolezza di una nuova pittura di «grazia, studio, bellezza»; oltre a un’ampia riflessione sul capolavoro simbolo delle collezioni di Accademia Carrara, il San Sebastiano. Dipinti, sculture e

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a cura di Stefano Mammini

testimonianze raccontano il mondo attorno a Raffaello, dalla sua formazione all’opera, fino all’«ossessione» degli autori successivi per un maestro il cui fascino ha influenzato intere generazioni. Dalle opere del padre, Giovanni Santi, di Perugino, di Pintoricchio e dei piú importanti pittori del suo

tempo, fino a una panoramica dedicata al contemporaneo in cui artisti come Picasso, De Chirico, Giulio Paolini e Francesco Vezzoli sono chiamati a raccontare quanto l’ispirazione di un maestro tanto straordinario si sia propagata fino ai giorni nostri. info www.lacarrara.it

TORINO PERFUMUM. I PROFUMI DELLA STORIA Palazzo Madama fino al 21 maggio

L’evoluzione e la pluralità dei significati assunti dal profumo dall’antichità greca e romana al Novecento sono documentati da oltre 200 oggetti, tra oreficerie, vetri, porcellane, affiche e trattati scientifici. Il percorso espositivo presenta un excursus storico avviato a partire dalle civiltà egizia e greco-romana che, sulla scorta di tradizioni precedenti, assegnano al profumo molteplici significati: da simbolo dell’immortalità, associato alla divinità, a strumento di igiene, cura del corpo e seduzione. Nell’Europa del primo Medioevo, sottoposta all’urto delle invasioni barbariche, sono rare le testimonianze di utilizzo di sostanze odorifere al di fuori della sfera sacra. Sopravvive tuttavia la concezione protettiva e

terapeutica del profumo, come testimoniato in mostra dalla preziosa bulla con ametiste incastonate proveniente dal tesoro goto di Desana. L’uso di profumi a contatto con il corpo con funzione di protezione nei confronti di malattie è attestato piú tardi nei pommes de musc frequentemente citati negli inventari dei castelli medievali, come il rarissimo esempio quattrocentesco in argento dorato in prestito dal Museo di Sant’Agostino di Genova, che conserva ancora la noce moscata al suo interno. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it FIRENZE SPAGNA E ITALIA IN DIALOGO NELL’EUROPA DEL CINQUECENTO Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 27 maggio

Il nuovo progetto espositivo è imperniato su fogli di straordinaria qualità, attribuiti a maestri come Alonso Berruguete, formatosi fra Firenze e Roma e uno dei primi testimoni di un linguaggio «rinascimentale» a ovest dei Pirenei, o come Romolo Cincinnato e Pompeo Leoni, due degli artisti chiamati a lavorare in Spagna nei piú prestigiosi cantieri reali, e include inoltre disegni di Francisco Pacheco, Patricio e Eugenio Cajés, Vicente Carducho, protagonisti della stagione che chiude il Cinquecento in Spagna. A partire dal Quattrocento, la Spagna aveva iniziato il processo di unificazione che la portò a diventare una monarchia, e poi un impero a dimensione planetaria, sulla maggio

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BOLOGNA IL NETTUNO: ARCHITETTO DELLE ACQUE. BOLOGNA, L’ACQUA PER LA CITTÀ TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO Santa Maria della Vita fino al 10 giugno

Allestita in occasione della fine dei restauri alla fontana del Nettuno, la mostra racconta per la prima volta uno dei capitoli piú affascinanti della storia della città di Bologna, quello della costruzione del sistema delle base di tradizioni artistiche complesse e diversificate: una situazione che portò anche a piú stretti legami in ambito culturale, favoriti dalle rotte commerciali che collegavano stabilmente ormai le diverse sponde del Mediterraneo. La mostra si articola in una premessa e otto sezioni e per ricollocare le singole creazioni grafiche nel loro contesto di provenienza, il percorso include anche sculture, dipinti, esempi di oreficeria e arti applicate, con l’intento di suggerire utili confronti ispirati a uno sguardo multidisciplinare, assunto come principio ordinatore. info Firenze Musei, tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@ operalaboratori.com; www.uffizi.it NEW YORK REGNI DORATI: LUSSO ED EREDITÀ DELLE ANTICHE AMERICHE The Metropolitan Museum of Art fino al 28 maggio

L’oro fu senza dubbio il piú potente innesco delle drammatiche vicende che fecero seguito all’incontro fra gli esploratori e i conquistadores europei con le popolazioni dell’America centrale e meridionale.

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Abbagliati dalle ricchezze dei Maya e degli Aztechi, gli Occidentali si abbandonarono infatti a razzie colossali, che hanno causato la dispersione di una quantità incalcolabile di oggetti e opere d’arte. Ciononostante, anche grazie alle indagini archeologiche succedutesi negli ultimi decenni, molto si è comunque salvato ed è attingendo a questo patrimonio superstite che il Metropolitan ha potuto allestire la sua nuova rassegna. Da segnalare, a tal proposito, la presenza in mostra del Tesoro del Pescatore, un insieme di ornamenti in oro trafugati dagli Spagnoli e destinati a Carlo V, che mai giunsero a destinazione perché inabissatisi con il veliero che li trasportava, scoperto e recuperato negli anni Settanta del Novecento. info www.metmuseum.org

fontane pubbliche negli anni del rinnovamento del centro cittadino da parte di papa Pio IV. La fontana del Nettuno è il monumento iconico, che conclude una straordinaria stagione di interventi architettonici e idraulici di grandiosa portata, che ancora

oggi qualificano l’area centrale della città e i suoi spazi pubblici. L’acqua tornata a zampillare dopo i recenti lavori di restauro, è l’elemento principale della fontana. I meccanismi nascosti dietro al suo funzionamento, svelano una storia idraulica complessa e segreta, composta da un reticolo di acquedotti, canali e condotte che disegnano la città sotterranea, contribuendo a delineare un paesaggio tanto invisibile quanto sorprendente. L’invenzione di Bologna città delle acque trova un significativo fondamento nei progetti del Cinquecento, realizzati proprio per sottolineare lo stretto collegamento tra città e acque. Il progetto espositivo in S.Maria della Vita illustra, attraverso l’esposizione di opere, documenti e materiali selezionati, la genesi progettuale e gli sviluppi del sistema idraulico della fontana del Nettuno, partendo dal Medioevo e dall’antichità romana fino ad arrivare agli interventi infrastrutturali rinascimentali. info www.genusbononiae.it

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AGENDA DEL MESE TOURCOING (FRANCIA) CRISTIANI D’ORIENTE. 2000 ANNI DI STORIA Musée des beaux-arts Eugène Leroy fino al 16 giugno

BETTONA (PERUGIA) ESPOSIZIONE STRAORDINARIA DI DIPINTI DELLA GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA Museo della Città fino al 10 giugno

Il Museo di Bettona ospita due straordinarie opere provenienti dai Depositi della Galleria Nazionale dell’Umbria: la monumentale tavola della Madonna degli Alberelli di Eusebio da San Giorgio e lo scomparto raffigurante San Girolamo del Perugino, già parte del polittico smembrato di Sant’Agostino, proveniente dall’omonima chiesa perugina. Due opere diverse, ma al contempo strette da un legame fatto di ereditarietà e continuità artistica e poetica. L’esposizione offre una lettura integrata e approfondita dei due capolavori, in relazione anche al contesto storicoartistico delle collezioni permanenti: interessante è il confronto tra le due opere della Galleria Nazionale dell’Umbria e quelle riconducibili al medesimo ambiente peruginesco presenti nel Museo bettonese. info tel. 075 987347; e-mail: bettona@sistemamuseo.it; www.umbriaterremusei.it

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Dopo essere stata presentata a Parigi, all’Institut du monde arabe, approda a Tourcoing – città della Francia settentrionale, ai confini con il Belgio – la grande mostra «Cristiani d’Oriente». A ispirare il progetto espositivo è un dato storico di rilevanza indiscussa, vale a dire il fatto che, secondo i Vangeli, teatro della predicazione di Cristo fu la Palestina, e la nuova religione che da quell’esperienza prese le mosse si diffuse inizialmente fra il Mediterraneo e l’Eufrate, lungo il Nilo e sulle rive del Bosforo. Oggi, a dispetto delle vicissitudini antiche e moderne, i cristiani del Vicino e Medio Oriente non sono la presenza residua di un

passato ormai lontano, ma sono parte essenziale di un mondo arabo che hanno contribuito a formare. Grazie a una selezione di oltre 300 opere – molte delle quali vengono presentate in Europa per la prima volta e che, a Tourcoing, includono anche manufatti eccezionalmente concessi in prestito dall’Iraq e non presenti nell’edizione parigina della mostra – viene ripercorsa la vicenda delle comunità cristiane orientali dall’antichità ai giorni nostri, documentandone, oltre alla religione, la politica, la cultura e l’arte. Fra i numerosi capolavori presenti in mostra, possiamo ricordare i Vangeli Rabbula, un manoscritto siriano del VI secolo, gli affreschi di Dura Europos (III secolo) e mosaici provenienti dalle piú antiche chiese di Palestina e di Siria. info www.muba-tourcoing.fr

BOLOGNA MEDIOEVO SVELATO. STORIE DELL’EMILIA-ROMAGNA ATTRAVERSO L’ARCHEOLOGIA Museo Civico Medievale fino al 17 giugno

Nell’ambito delle iniziative organizzate per i 2200 anni dalla fondazione romana di Modena, Parma e Reggio Emilia, il Museo Civico Medievale di Bologna presenta una mostra di archeologia sul Medioevo emiliano-romagnolo. L’esposizione offre una panoramica del territorio

regionale attraverso quasi un millennio di storia, dalla tarda antichità (IV-V secolo) al Medioevo (inizi del Trecento). L’Emilia-Romagna, infatti, fornisce una prospettiva di ricerca privilegiata per la comprensione di fenomeni complessi che investono non solo gli aspetti politici, sociali ed economici, ma la stessa identità culturale del mondo classico nella delicata fase di passaggio al Medioevo. Il percorso si articola in sei sezioni: la prima è incentrata sul tema della Trasformazione delle città, ossia sull’evoluzione dei centri di antica fondazione in rapporto ai cambiamenti socioeconomici e all’organizzazione delle nuove sedi del potere (laico ed ecclesiastico); imperniata sulla Fine delle ville, la seconda sezione prende in esame maggio

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l’insediamento rurale di tipo sparso, già tipico delle fattorie di età romana; i grandi mutamenti e, in particolare, l’ideologia funeraria del VI-VII secolo caratterizzano la terza sezione, dedicata a Nuove genti, nuove culture, nuovi paesaggi; allo sfarzo di alcuni manufatti afferenti alle sepolture fanno riscontro i pochi materiali recuperati nei contesti urbani regionali – Fidenza (Parma), Rimini e Ravenna – della quarta sezione dedicata a Città ed empori nell’alto Medioevo; con la quinta sezione, Villaggi, castelli, chiese e monasteri: la riorganizzazione del tessuto insediativo, vengono evidenziate le nuove forme d’insediamento (VIII-XIII secolo); il racconto termina ciclicamente – grazie alla sesta sezione, incentrata su Dopo il Mille: la rinascita delle città, con il ritorno al tema dell’evoluzione dei centri urbani, studiati nella nuova fase di età comunale: Parma e Ferrara (di cui sono esposti oggetti di straordinario valore, perché conservati nonostante la deperibilità del materiale, il legno), Rimini e Ravenna, caratterizzate da rinnovato dinamismo e Bologna, rappresentata dalla piú antica croce viaria lapidea (anno 1143), recuperata nel 2013 sotto il portico della chiesa di S. Maria Maggiore. info tel. 051 2193916 oppure 2193930; e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo MILANO DÜRER E IL RINASCIMENTO TRA GERMANIA E ITALIA Palazzo Reale fino al 24 giugno

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Grazie a una rappresentativa selezione di opere di Albrecht Dürer e di alcuni dei suoi piú importanti contemporanei tedeschi e italiani, la mostra documenta la fioritura del Rinascimento tedesco nel suo momento di massima apertura verso l’Europa, sia al Sud (soprattutto Italia settentrionale) sia al Nord (Paesi Bassi). Protagonisti dell’esposizione sono dunque l’artista di Norimberga, ma anche l’affascinante quadro di rapporti artistici tra nord e sud

Europa tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento, il dibattito religioso e spirituale come substrato culturale delle opere di Dürer, il suo rapporto con la committenza attraverso l’analisi della ritrattistica, dei soggetti mitologici, delle pale d’altare, la sua visione della natura e dell’arte tra classicismo e anticlassicismo, la sua figura di uomo e le sue

ambizioni d’artista. Si possono ammirare circa 130 opere, principalmente del maestro del Rinascimento tedesco – fra pitture, stampe grafiche e disegni –, che nelle mani di Albrecht Dürer assumono un valore e una centralità nel processo creativo praticamente senza precedenti. La collezione è affiancata da opere di artisti tedeschi suoi contemporanei come Lucas Cranach, Albrecht Altdorfer, Hans Baldung Grien da un lato, e dall’altro di

grandi pittori, disegnatori e artisti grafici italiani della Val Padana fra Milano e Venezia, come Giorgione, Andrea Mantegna, Leonardo da Vinci, Andrea Solario, Giovanni Bellini, Jacopo de’Barbari, Lorenzo Lotto. info palazzorealemilano.it; mostradurer.it; prenotazioni tel. 02 54913; www.ticket24ore.it

FIRENZE VOCI DI DONNE. L’UNIVERSO FEMMINILE NELLE RACCOLTE LAURENZIANE Biblioteca Medicea Laurenziana fino al 29 giugno

Una ricerca condotta su tutti i fondi manoscritti della Biblioteca Laurenziana ha permesso di individuare un cospicuo numero di testi legati al mondo femminile, nei quali la donna appare sia come artefice di opere, ma anche come soggetto, a diversi livelli, dell’opera presentata. Da

queste «scoperte» è nata ora la mostra, che propone 66 manoscritti, presentati in sei sezioni, ognuna ordinata, al proprio interno, secondo l’ordine cronologico delle biografie. Il percorso si apre con una selezione di donne autrici di poesie, trattati, memorie, diari e anche di lettere, sia a carattere pubblico che privato. Seguono opere dedicate, a vario titolo, a donne, alcuni manoscritti commissionati da donne e un nutrito numero di codici da loro copiati. L’ultima sezione, che presenta manoscritti posseduti da donne, si chiude con tre splendidi codici acquistati da una donna proprio per essere donati alla Biblioteca. info tel. 055 2937911; e-mail: b-mela.mostre@beniculturali.it

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AGENDA DEL MESE VENEZIA BELLINI/MANTEGNA. CAPOLAVORI A CONFRONTO Fondazione Querini Stampalia fino al 1° luglio

È affascinante cercare le differenze tra le due Presentazioni di Gesú al Tempio eccezionalmente affiancate per la mostra proposta dalla Fondazione Querini Stampalia. Due capolavori della storia universale dell’arte, l’uno di mano di Giovanni Bellini, di Andrea Mantegna il secondo. A un primo sguardo sembrano del tutto eguali, eppure si capisce che le due operespecchio hanno «personalità diversissime». Ma chi fu l’inventore della meravigliosa composizione? Bellini, veneziano, e Mantegna, padovano del contado, si conobbero certamente, dato che quest’ultimo sposò la sorellastra del primo. Ma sarebbe sbagliato – chiarisce Giovanni Carlo Federico Villa, co-curatore dell’esposizione – immaginarli l’uno accanto all’altro intenti nel dipingere questo medesimo soggetto. Certo il cartone, la cui realizzazione richiedeva un enorme virtuosismo artistico,

«stregò l’uno e l’altro, ma un lasso di tempo non piccolo, una decina di anni, separa i due capolavori». Che, sia pure a distanza, si sia trattato di una gara alla massima eccellenza, lo si evince dalla qualità assoluta delle due opere. È un caso probabilmente irripetibile quello che consente, per la prima volta nella storia dell’arte, di ammirarle l’una a fianco dell’altra. Accanto alle due Presentazioni, in Querini sono esposte le opere coeve patrimonio del museo veneziano. E il visitatore viene poi invitato, con lo stesso biglietto a scoprire, o riscoprire, i tesori della Querini Stampalia, una casa-museo tra le piú importanti al mondo. info tel. 041 2711411; www.querinistampalia.org MILANO L’UOMO DIVINO. LUDOVICO LAZZARELLI E I TAROCCHI DEL MANTEGNA NELLE COLLEZIONI DELL’AMBROSIANA Veneranda Biblioteca Ambrosiana fino al 1° luglio

La rassegna propone 28 dei 31 fogli della piú antica e celebre serie a stampa realizzata in Italia

Settentrionale nella seconda metà del Quattrocento, ma anche la piú misteriosa, per ciò che attiene al possibile autore, luogo di produzione e scopo di realizzazione. I cosiddetti «Tarocchi del Mantegna» sono composti da 50 stampe incise a bulino di altissima qualità, caratterizzate da un tratto molto sottile, grande dovizia di particolari, un raffinato sistema di tratteggio incrociato per le ombreggiature, divise in cinque serie di 10 elementi ciascuna, che raffigurano nell’insieme l’uomo come microcosmo e l’universo come macrocosmo. Accanto alle pregiate carte viene esposto il manoscritto del Crater Hermetis dell’umanista marchigiano Ludovico Lazzarelli, che utilizzò alcune sequenze dei «Tarocchi» come fonte di ispirazione per comporre un’opera poetica. info tel. 02 806921 PIACENZA I MISTERI DELLA CATTEDRALE. MERAVIGLIE NEL LABIRINTO DEL SAPERE Kronos-Museo della Cattedrale fino al 7 luglio

A coronamento del nuovo allestimento del Museo del Duomo di Piacenza, viene

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presentata una mostra che riporta alla luce alcuni dei piú preziosi codici miniati medievali, come il Libro del Maestro o il Salterio di Angilberga, appartenenti al patrimonio archivistico cittadino. Il percorso si articola in cinque sezioni, la prima delle quali, nella sala dell’archivio storico capitolare, è dedicata alla musica. Si possono quindi ammirare gli antichi libri provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana, dalla Biblioteca Braidense, dall’Archivio di Stato di Parma, dall’Archivio di Stato di Piacenza, dagli Archivi Capitolari della Cattedrale e di

Sant’Antonino, dall’Archivio Storico Diocesano di Piacenza e Bobbio, e dalla Biblioteca Passerini Landi. Straordinari capolavori dal IX al XV secolo raccontano la storia civile e religiosa del territorio, con particolare accento su Piacenza e Bobbio con il suo scriptorium, secondo solo a Montecassino. In particolare, l’ultima sezione è interamente dedicata al Libro del Maestro, un totum maggio

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liturgico che, dal XII secolo, è stato modello e tesoro per la liturgia e che costituisce una summa culturale, secondo la concezione medievale. Il Libro del Maestro è il volume piú importante e misterioso dell’archivio della Cattedrale, la cui stesura ebbe inizio al principio del XII secolo. Al suo interno conserva nozioni di astronomia e astrologia, usi e costumi della popolazione legata ai cicli lunari e al lavoro nei campi. Il codice illustra, attraverso splendide miniature e formule melodiche (dette tropi), i primi drammi teatrali liturgici medievali, rappresentati in chiese e conventi, come primi strumenti di comunicazione delle storie della Bibbia. info tel. 331 4606435 oppure 0523 308329; e-mail: cattedralepiacenza@gmail.com; www.cattedralepiacenza.it TORINO CARLO MAGNO VA ALLA GUERRA Palazzo Madama fino al 16 luglio

Allestita nella Corte Medievale di Palazzo Madama, la mostra presenta per la prima volta in Italia il rarissimo ciclo di pitture medievali del Castello di Cruet (Val d’Isère, Francia), una testimonianza unica della pittura del Trecento in Savoia. Lunghe oltre 40 metri, le pitture sono state staccate dalle pareti

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della dimora savoiarda nel 1985 per ragioni conservative e, dopo un restauro concluso nel 1988, sono da allora esposte presso il Musée Savoisien di Chambery. Il ciclo rappresenta episodi tratti da una celebre chanson de geste, il Girart de Vienne di Bertrand de Bar-sur-Aube, composta nel 1180 e dedicata alle vicende di un cavaliere della corte di Carlo Magno. Raffigura pertanto scene di caccia nella foresta, battaglie, duelli, l’assedio a un castello, l’investitura feudale, la raffigurazione di un banchetto, accanto a episodi narrativi specifici di questo poema cavalleresco. Presentate in sequenza in Corte Medievale, le pitture ricostruiscono idealmente la decorazione della sala aulica del castello di Cruet grazie a uno scenografico allestimento realizzato dall’architetto Matteo Patriarca con Gabriele Iasi e Studio Vairano. Accanto a queste straordinarie pitture, la mostra presenta una cinquantina di opere provenienti dalle collezioni di Palazzo Madama e da altre istituzioni, con pezzi mai esposti prima al pubblico. Essi arricchiscono il percorso consentendo di immaginare la vita nei castelli medievali della contea di Savoia tra 1200 e 1300. Sculture, mobili, armi, avori, oreficerie, codici miniati,

APPUNTAMENTI • Corsa all’Anello Narni

fino al 13 maggio info www.corsallanello.it

È

giunta alla sua 50a edizione la Corsa all’Anello di Narni, festa storica nata nel 1969 e dedicata al santo patrono Giovenale, primo vescovo della città. La gara equestre è il momento piú avvincente della festa e rappresenta la contesa dell’ambito anello d’argento tra i terzieri di Mezule, Fraporta e Santa Maria, i cui cavalieri (tre per ogni terziere) si scontrano in un duello diretto. La gara consiste nell’infilare con la lancia un anello sospeso su un braccio meccanico. Ogni anello conquistato ha un punteggio, vince il terziere che al termine delle tornate ha totalizzato piú punti. La gara si svolge in tre tornate, ognuna formata da tre gare dirette e decreterà il vincitore dell’anello che, secondo quanto annunciato nel bando il primo giorno della festa, «ne vanterà gloria per l’anno intero». La sera antecedente la corsa, sabato 12 maggio, dalle 21,00 è in programma il grande corteo storico, che, forte di oltre 700 figuranti, ripropone la processione in onore di san Giovenale del 1371. Illuminate dal chiarore delle fiaccole e animate dallo sventolio delle bandiere, le vie della città tornano a sognarsi antiche. Apre il corteo, come da tradizione, il suono dei musici, il gruppo delle magistrature comunali e pontificie con i propri gonfaloni e stendardi, quindi i terzieri di Mezule, Fraporta e Santa Maria secondo l’ordine di arrivo alla Corsa all’Anello dell’anno precedente, con i gruppi delle fanfare, le autorità, le rappresentanze militari, i cavalieri della corsa, le corporazioni delle arti e le nobili casate delle antiche famiglie.

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AGENDA DEL MESE ceramiche, vasellame da tavola, cofanetti preziosi, monete e sigilli documentano i tanti aspetti dell’arte di corte e della cultura materiale dell’epoca. info www.palazzomadamatorino.it

cose, le persone attraverso le cose. Gli oltre duecento oggetti in mostra, alcuni dei quali mai esposti in una sede pubblica, sono stati selezionati soprattutto per rappresentare i contesti di cui sono testimonianza. La loro conoscenza e comprensione è affidata anche ai titoli e ai testi di sala, ai documenti e alle immagini, alle ricostruzioni e alle evocazioni di ambienti, di situazioni, di eventi, e alle parole dei curatori e degli esperti, che lungo l’itinerario si rivolgono al visitatore attraverso i video, rendendo esplicita l’interpretazione storica proposta. info www.meisweb.it

FERMO IL QUATTROCENTO A FERMO Chiesa di S. Filippo fino al 2 settembre

Compresa nel progetto di valorizzazione del patrimonio culturale regionale «Mostrare le Marche», la mostra riunisce alcuni importanti capolavori, tra cui il Polittico di Sant’Eutizio di Nicola di Ulisse da Siena, che arriva da Spoleto ed è stato appena restaurato dopo il terremoto del 2016, la Madonna in Umiltà con santa Caterina, Crocifissione, un dipinto di grande pregio di Andrea

COLLE DI VAL D’ELSA (SI)

FERRARA EBREI, UNA STORIA ITALIANA. I PRIMI MILLE ANNI Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 16 settembre

Delitio, e il Polittico di Massa Fermana di Carlo Crivelli, prima opera marchigiana dell’artista veneziano a cui la mostra dedica una notevole sezione, insieme a dipinti del fratello Vittore Crivelli. Fra gli oggetti d’arte, come oreficerie o tessuti, vi è anche un gruppo di ceramiche, che comprendono pregevoli boccali e piatti dell’Officina «Sforzesca» di Pesaro della seconda metà del Quattrocento. info tel. 0734 217140; e-mail: fermo@sistemamuseo.it; www.sistemamuseo.it

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Con questa mostra, che ha segnato l’inaugurazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS, si illustrano le origini della presenza ebraica in Italia dai suoi albori sino al Medioevo, evidenziandone i caratteri di specificità e unicità. Il percorso espositivo, che prefigura la prima sezione del futuro Museo, presenta oggetti autentici, repliche, modelli, immagini, mappe, scenografie e dispositivi multimediali, grazie ai quali si raccontano il primo millennio di storia dell’ebraismo italiano, il suo radicamento e la sua espansione grazie alle conversioni e agli apporti da altri territori, e il processo di formazione della sua

peculiare identità. Da dove sono venuti gli Ebrei italiani? Quando? Perché? E, una volta giunti in Italia, dove hanno scelto di attestarsi? Quali rapporti hanno stabilito con le popolazioni residenti, con i poteri pubblici: prima con la Roma imperiale, poi con la Chiesa, ma anche con i Longobardi, i Bizantini e i musulmani, sotto il cui dominio hanno vissuto? Quali sono stati la vita, le consuetudini, la lingua, la cultura delle comunità ebraiche d’Italia nel corso di tutto questo lungo tempo? E soprattutto: che cosa ha di particolare e di specifico l’ebraismo italiano rispetto a quello di altri luoghi della diaspora? Le risposte a questi interrogativi sono affidate a un nuovo modo di presentare la storia in un museo: un modo che pone esplicitamente al centro le persone e non le

SAVIA NON FUI. DANTE E SAPÍA FRA LETTERATURA E ARTE Museo San Pietro fino al 28 ottobre

È ispirata a Sapía, gentildonna senese nata Salvani, protagonista del canto XIII del Purgatorio di Dante, la nuova mostra allestita presso il Museo San Pietro. La figura emerge per la forte caratterizzazione, con tratti molto sofferti e risentiti quale interprete dell’invidia. Peccò sí tanto d’invidia da giungere all’insania. Nonostante il nome, infatti, la zia paterna di Provenzan Salvani, capo della parte ghibellina, già incontrato

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da Dante fra i superbi, non fu «savia» nell’augurarsi la sconfitta dei propri concittadini senesi nella battaglia di Colle di Val d’Elsa (vv. 109-111): «Savia non fui, avvegna che Sapía / fossi chiamata, e fui delli altrui danni / piú lieta assai che di ventura mia». Il percorso espositivo presenta dunque le testimonianze di miniatori, incisori, scultori e pittori, interpreti di una figura non convenzionale che, per i caratteri di umana fragilità con cui è delineata, può considerarsi una sorta di antieroina della storia medievale senese. info tel. 0577 286300; e-mail: info@collealtamusei.it; www.collealtamusei.it

prospettiva almeno fino alla metà del Cinquecento. La mostra vuole inoltre mostrare al pubblico le due anime di Piero: raffinato pittore e grande matematico. Oltre a essere Maestro d’abaco, geometra euclideo, studioso di

Archimede, l’artista è stato anche un innovatore nel campo della pittura, poiché per lui, quest’ultima, nella matematica e nella geometria, trovava il suo sostanziale fondamento. I suoi scritti, infine, soprattutto il De prospectiva pingendi,

Appuntamenti III INCONTRO PER L’ARCHEOLOGIA BARBARICA Università Cattolica, Aula Pio XI 18 maggio

SANSEPOLCRO PIERO DELLA FRANCESCA. LA SEDUZIONE DELLA PROSPETTIVA Museo Civico di Sansepolcro fino al 6 gennaio 2019

ROMA LUCE SULL’ARCHEOLOGIA. ROMA E IL MEDITERRANEO Teatro Argentina 13 maggio

Il progetto espositivo si articola intorno al De prospectiva pingendi, trattato composto da Piero della Francesca intorno al 1475, e ha anche l’obiettivo di illustrare, attraverso riproduzioni di disegni, modelli prospettici, strumenti scientifici, plaquette e video, le ricerche matematiche applicate alla pittura di Piero della Francesca e la conseguente eredità lasciata ad artisti come Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro e ai teorici della

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composto in volgare per gli artisti e in latino per gli umanisti, hanno dato inizio alla grande esperienza della prospettiva rinascimentale. info tel. 199 151 121; e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it

Ultimo appuntamento con la IV edizione di «Luce sull’Archeologia», rassegna che si svolge presso il Teatro Argentina di Roma e che quest’anno ha avuto come filo conduttore le relazioni fra Roma e il Mediterraneo. Il Mare Nostrum è un susseguirsi di mari, di paesaggi, di popoli, un crocevia antichissimo dove persone, merci, idee e diverse forme dell’estetica generarono la diffusione di civiltà, culti, costumi e leggende. Prima

dell’intervento iniziale, ci saranno 10/15 minuti di «Anteprime dal passato»: notizie su ritrovamenti, scoperte e mostre, a Roma e non solo, a cura di Andreas M. Steiner, direttore dei mensili «Archeo» e «Medioevo». Domenica 13 maggio, ore 11,00: Matera lucana tra Greci e Romani (relatori: Pietro Laureano, Massimo Osanna, Giuliano Volpe, Raffaello Giulio De Ruggiero). info www.teatrodiroma.net MILANO MIGRAZIONI, CLAN, CULTURE, ARCHEOLOGIA E SCIENZA.

Le migrazioni dei popoli barbarici, la natura e la formazione di queste gentes, l’esistenza di una specifica identità culturale e l’interazione con il popolamento locale sono temi fra i piú controversi e dibattuti della storia medievale europea. La terza edizione degli Incontri per l’Archeologia barbarica presenta i primi risultati di analisi paleogenetiche e isotopiche condotte su necropoli attribuite ai Longobardi di Repubblica Ceca, Ungheria e Italia. Sorprendenti sono i risultati, che permettono di supportare il percorso migratorio da regioni centronord europee all’Italia attribuito dai testi scritti ai Longobardi; emerge con forza l’importanza delle relazioni biologiche nella struttura sociale di queste comunità, composte da due principali gruppi genetici, ai quali corrisponde una specificità culturale; si suppone anche mobilità femminile per esogamia. info www.unicatt.it ROMANS D’ISONZO (GO) ROMANS LANGOBARDORUM. VI EDIZIONE: «ALBOINO, TRA STORIA E MITO» 18-20 maggio

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AGENDA DEL MESE

L’edizione 2018 della rievocazione storica longobarda è incentrata sulla vita di Alboino, l’ultimo cosiddetto «Re Eroe» del popolo longobardo che condusse il suo popolo nel 568 d.C. a invadere la penisola italica, guadagnandosi cosí un importante lascito nella memoria storica. Quest’anno ricorrono 1450 anni da quell’avvenimento, che ebbe importanti conseguenze per la storia della nostra Penisola e grazie al quale vi fu una vera transizione tra il periodo romano e l’Alto Medioevo. Nei tre giorni della rievocazione questo importante avvenimento verrà ripercorso attraverso spettacoli e approfondimenti culturali. info tel. 333 9536574; e-mail: invictilupi@gmail.com; www.invictilupi.org PISTOIA DIALOGHI SULL’UOMO IX EDIZIONE 25-26-27 maggio

«Rompere le regole: creatività e cambiamento» è il tema scelto per l’edizione 2018 del festival di antropologia del contemporaneo pistoiese. Dal 25 al 27 maggio antropologi,

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filosofi, storici, scrittori e pensatori italiani e internazionali sono chiamati a riflettere su cosa abbia fatto evolvere la civiltà umana: qual è il motore che spinge costantemente l’essere umano al cambiamento e quanto sia importante rompere le regole per rinnovarsi. info www.dialoghisulluomo.it ROMA I COLLI DI ROMA NEL RINASCIMENTO Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Sala della Fortuna e Sala dei Sette Colli fino al 12 giugno

I paesaggi dei Sette Colli di

Roma dipinti nell’omonima Sala al piano nobile della cinquecentesca villa di papa Giulio sono al centro di un ciclo di conferenze ideato e curato da Maria Paola Guidobaldi e affidato a Filippo Coarelli, i cui studi sulla topografia della Roma antica costituiscono uno dei filoni piú corposi e costanti della sua produzione scientifica. Le conferenze hanno inizio alle 17,30, secondo il calendario che qui di seguito riportiamo: martedí 8 maggio: L’Aventino; martedí 15 maggio: Il Campidoglio; martedí 22 maggio: Il Celio; martedí 29 maggio: Il Palatino; martedí 5 giugno: Il Quirinale; martedí 12 giugno: Il Viminale. info è obbligatoria la prenotazione, entro le ore 12,00 del giorno della conferenza, e-mail: mn-etru. comunicazione@beniculturali.it

ACQUASPARTA FESTA DEL RINASCIMENTO XIX EDIZIONE 2-17 giugno

Torna l’ormai tradizionale appuntamento con due settimane di convegni, cortei, spettacoli, giostre, a cui si aggiungono le serate nelle Tre Taverne delle Contrade di Porta Vecchia, del Ghetto e di San Cristoforo. Tema centrale di questa edizione della festa è Sua Maestà il Maiale: tutto quello che ruota intorno all’utilizzo di questo straordinario animale all’interno della cultura gastronomica e non, analizzato soprattutto nel convegno in programma sabato 16 giugno, significativamente intitolato «Alla ricerca del pòrco perduto». info tel. 349 4722621; www.ilrinascimentoadacquasparta.it

APPUNTAMENTI • Liutprando, re dei Longobardi. III Convegno Internazionale del Centro Studi Longobardi Pavia e Gazzada Schianno (Varese) 3-8 maggio info www.centrostudilongobardi.it

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e cattolico, costruttore e restauratore di chiese, Liutprando (712-744) incarna il momento di massima potenza politica del regno longobardo che, sfruttando i gravi contrasti che indebolivano l’Italia bizantina, lacerata dalla controversia iconoclasta, riuscí a estendere i possessi longobardi in Emilia, a prendere per breve tempo Ravenna e spingersi fino alle porte di Roma, ripristinando il controllo sui ducati ribelli di Spoleto e Benevento. Amico dei Franchi, che soccorse in Provenza nella guerra contro le milizie islamiche, introdusse una legislazione ispirata ai princípi cristiani sancendo la definitiva conversione del suo popolo e fece trasportare a Pavia dalla Sardegna, minacciata dai Saraceni, le reliquie di sant’Agostino. Intorno alla sua figura si concentrano i lavori del Terzo Convegno Internazionale del Centro Studi Longobardi che, muovendo dai resti monumentali della capitale pavese, indaga l’eredità liutprandea e la memoria che nel corso dei secoli la sua immagine e la cultura longobarda hanno ispirato a uomini di governo, letterati e artisti fino al Novecento. maggio

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personaggi opicino de canistris

Tutto il mondo in un disegno di Alessandro Bedini

Originario della provincia pavese, il chierico Opicino de Canistris ebbe una vita travagliata, riuscendo tuttavia ad affermarsi come scrittore, ma, soprattutto, come cartografo. Un talento di cui sono prova le straordinarie raffigurazioni che qui presentiamo, nelle quali l’elemento grafico si unisce a una fitta trama di messaggi allegorici e filosofici Mappa di Opicino de Canistris con raffigurazioni allegoriche dell’Europa e del Mediterraneo. 1335-1350. Tutti i disegni di Opicino de Canistris riprodotti in questo articolo sono raccolti nel Codice Palatino Latino 1993 della Biblioteca Apostolica Vaticana.

«S

ono stato concepito nell’iniquità, in un matrimonio legittimo. Nasco nel peccato il 24 dicembre, a Lomello». A scrivere queste parole è Opicino de Canistris, chierico pavese, nato nel 1296 nel piccolo paese della provincia lombarda. Personaggio poco conosciuto, per anni, riferendosi a lui e ai suoi scritti, lo si è indicato come Anonimo Ticinese, mentre Opicino è una figura ricca di fascino e, soprattutto, un testimone fedele di un’epoca in cui profondi mutamenti sociali, culturali e religiosi, attraversarono la Lombardia cosí come buona parte dell’Europa. Calligrafo, miniatore, penitenziere apostolico presso la corte papale di Avignone, de Canistris – come ha sottolineato Michael Camille, che gli ha dedicato importanti studi – «si colloca all’interno della tradizione mistica dei pensatori visionari che risale a Ildegarda di Bingen». Nel 1927, fu monsignor Faustino Gianani, storico e letterato anch’egli pavese, a scoprire che il Liber de laudibus civitatis Ticinensis – una guida storico-religiosa e architettonica della città di Pavia (vedi box a p. 33) – era da attribuirsi a Opicino de Canistris e non a un anonimo, come aveva fatto Ludovico Antonio Muratori. Da quel momento in poi gli studi sul chierico pavese si sono moltiplicati. Nel 1943 Carl Gustav Jung, dedicò a Opicino una dissertazione relativa ai miti solari presenti nelle culture del Mediterraneo, interpretando le sue originalissime mappe del mondo come mandala (vedi box a p. 34). De Canistris visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, epoca in cui l’incremento demografico, lo sviluppo della vita cittadina, la crescita delle università – che avevano

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personaggi opicino de canistris

La lotta fra Beccaria e Langosco

Famiglie in guerra La lotta di potere a Pavia tra i Beccaria, ghibellini, e i Langosco, guelfi, ebbe origine nel XIII secolo. I primi erano una famiglia nobile che, anche grazie all’usura, aveva accumulato ingenti beni, sia in città che nel contado pavese. Giovannone Beccaria fu podestà del popolo nel 1267 e suo figlio Manfredi ricoprí la stessa carica dal 1282 al 1289. Nella seconda metà del XIII secolo avevano dato alla città due vescovi: Corrado e Ottone. Nel 1300, quando prevalsero i guelfi guidati da Filippone Langosco, che divenne signore della città, i Beccaria furono costretti all’esilio. Vi fecero ritorno nel 1315, grazie all’appoggio di Matteo Visconti, signore di Milano. Ma i Langosco non si arresero e, nel 1356, la popolazione di Pavia si ribellò, cacciando i Beccaria. Tre anni piú tardi, riconquistarono la città al seguito delle truppe viscontee. Restarono al potere fino al 1415, quando Gian Galeazzo Visconti decise di sbarazzarsene, poiché avevano tentato di creare una signoria indipendente.

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visto la luce un secolo prima a Bologna, Padova e nella stessa Pavia – stavano cambiando i caratteri dominanti della vita civile e religiosa. Opicino fu spettatore e partecipe di questa età, terribile e feconda al tempo stesso, attraversata da conflitti tra le fazioni cittadine e da dispute teologiche che sfociavano spesso in prese di posizione squisitamente politiche. Papato e impero erano infatti in perenne conflitto e, nella sua Pavia, il chierico dovette assistere alla lotta tra i Beccaria, ghibellini, sostenitori dell’alleanza con i Visconti di Milano, e i Langosco, guelfi, che finirono per soccombere (vedi box in questa pagina). I suoi genitori erano maggiordomi dei Langosco e, quando questi caddero in disgrazia, dovettero abbandonare la loro terra.

Un cerchio per ogni anno

Salvo rari casi – come gli epistolari di Dante e Petrarca o, prima di loro, di Pietro Abelardo e Eloisa – nel Medioevo il genere autobiografico non era usuale e raccontare se stessi non veniva particolarmente apprezzato. De Canistris fa eccezione, non solo rispetto alle poche autobiografie in circolazione, ma per il modo con cui sceglie di descriversi. Nomen omen, Canistris ovvero canestro, e allora Opicino sceglie di comporre la sua autobiogramaggio

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A sinistra Lomello (Pavia). La chiesa di S. Giovanni ad Fontes. VII-X sec.

fia per figuram, ossia attraverso il disegno. Quello di un canestro, per l’appunto, nel quale sono rappresentati quarantun cerchi concentrici, in cui si narra, anno per anno, la sua vita, dal 1296, data della sua nascita, al 1336, anno in cui l’opera si conclude. Opicino non è un erudito, è nato da una famiglia povera, ha dovuto adattarsi a fare lavori umili per sopravvivere, è stato costretto a interrompere piú volte gli studi a causa delle difficoltà economiche. In compenso, possiede un talento straordinario per il disegno e per le visioni che esso richiama, trasformandosi in una sorta di fotogramma capace di trasportare l’osservatore nel mondo che l’autore intende descrivere. Molto piú delle parole. Scrive nella sua autobiografia: «Studio sempre dallo stesso maestro ma alla scuola di Bassignana. E qui, dal momento che straordinariamente imparo senza fatica, vengo costretto a insegnare ad altri e mi applico soprattutto alla pittura di immagini». Pavia fu la sua vera patria, alla quale rimase legato anche quando dovette allontanarsene. Iniziò i suoi studi a Lomello e poi nel piccolo borgo di Bassignana, in modo non molto brillante a dire il vero. All’età di dieci anni fu avviato alla carriera ecclesiastica e nominato chierico dal vescovo di Biella, allora sotto il dominio di Pavia. Tuttavia, come abbiamo già detto, dovette interrompere piú volte gli studi a causa delle difficoltà economiche

la descrizione di pavia

Scene di vita quotidiana Nel Liber de laudibus civitatis Ticinensis, intitolato in precedenza Libellus de descriptione Papie, e la cui redazione fu terminata nel 1330, Opicino de Canistris descrive in modo particolareggiato la sua città – Pavia –, i monumenti, le chiese e le reliquie che vi sono conservate. La topografia della città è molto accurata, ma una delle parti piú significative è la descrizione della vita quotidiana. Opicino non fa parte dei ceti piú elevati e non ci offre informazioni sulla signoria e sulle lotte di potere. Non si può dunque parlare di una cronaca cittadina vera e propria, ma le sue pagine rappresentano uno sguardo prezioso sulla società comunale nel XIV secolo.

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Qui sopra disegno della cattedrale di Pavia, città che Opicino de Canistris descrisse nel Liber de laudibus civitatis Ticinensis.

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personaggi opicino de canistris della famiglia, per poi riprenderli, ma in modo disordinato. Nel 1314 abbandonò definitivamente gli studi e divenne precettore, poiché costretto a provvedere al mantenimento della famiglia, caduta in miseria. Nel 1315, quando i Beccaria conquistarono Pavia, Opicino e la sua famiglia si trasferirono a Genova. Nella città ligure iniziò a miniare libri per guadagnare qualcosa e, nel frattempo, leggeva con attenzione e studiava le opere teologiche che gli capitavano fra le mani. Nel 1318 fece ritorno nell’amata Pavia dove ottenne l’incarico di cappellano presso la cattedrale, ma gli ordini religiosi gli verranno impartiti solo due anni piú tardi, probabilmente a Milano o a Parma. Nel 1323 ottenne la parrocchia di S. Maria Cappella, ma poiché Pavia era stata colpita dall’interdetto pontificio, non ebbe vita facile. Le traversie non gli impedirono comunque di iniziare la sua attività di scrittore. Redigeva piccoli trattati teologici, che vendeva a poco prezzo. Tra questi, il Libellus dominice passionis secundum concordantiam quattuor evangelistarum, andato purtroppo perduto, che egli stesso cita nella sua autobiografia.

In basso ancora una mappa con raffigurazioni allegoriche dell’Europa e del Mediterraneo. Fra le scelte che ricorrono nei suoi disegni, Opicino opera quella di rappresentare il

Vecchio Continente con le sembianze di una donna. Nella pagina accanto carta dello Zodiaco con raffigurazione dei segni e delle costellazioni.

Il trasferimento ad Avignone

Nel 1329 Opicino decise di trasferirsi definitivamente ad Avignone per cercare fortuna presso la curia papale, dato che nella sua città la situazione politica si era fatta estremamente difficile. Nell’anno precedente aveva peregrinato fra Tortona, Alessandria e Valenza. Rimase nella città provenzale fino alla morte, nel 1352. Ma la sua situazione si complicò appena dopo pochi mesi di permanenza ad Avignone e fu addirittura costretto a mendicare. Non cessò tuttavia di scrivere e risalgono a questo periodo alcuni trattati teologici, oggi perduti: il Libellus de paupertate Christi, il Libellus metricus de virtutibus Christi e le Lamentationes Virginis Mariae. Poco dopo decise di affrontare un argomento di natura teologico-politica, probabilmente per ottenere favori e accoglienza presso la corte papa-

Riletture psicanalitiche

Sul «lettino» di Jung Carl Gustav Jung è stato affascinato dalla figura e dai disegni di Opicino de Canistris. Nel 1943, durante uno dei convegni di Eranos, il padre della psicologia analitica tenne un seminario su Opicino e sul Codex Palatinus Latinus 1993, che raccoglie i suoi disegni. Secondo Jung, il chierico pavese doveva essere affetto da una profonda scissione interiore, che la dottrina religiosa

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avrebbe inconsciamente potuto sanare. Il disagio psichico avrebbe potuto/dovuto essere superato dall’afflato mistico concretizzatosi nell’arte, in questo caso il disegno, rivolto verso i temi religiosi. Tuttavia, sempre a giudizio di Jung, Opicino non riuscí mai a superare i mali psichici da cui era affetto, sebbene ci abbia lasciato testimonianze preziosissime della sua arte. maggio

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In alto Bordeaux, cattedrale di S. Andrea. Particolare della statua del portale settentrionale della chiesa tradizionalmente identificata con un ritratto di papa Clemente V (al secolo Bertrand de Got). Metà del XIV sec. A sinistra rappresentazione simbolica della Crocifissione. Opicino inserisce la scena all’interno di un’ellisse, che a sua volta origina un tetramorfo.


La «cattività avignonese»

La scelta di Clemente La cosiddetta «cattività avignonese» ebbe inizio nel 1305, quando, dopo circa un anno di conclave che si tenne a Perugia, venne eletto al soglio pontificio Clemente V, al secolo Bertrand de Got, francese, arcivescovo di Bordeaux, gradito al re di Francia Filippo il Bello. Il neoeletto pontefice decise di spostare la sede papale ad Avignone. La feroce lotta tra le diverse fazioni aveva reso Roma estremamente insicura e la scelta della città provenzale si spiega anche con il fatto che la maggioranza dei cardinali elettori era di nazionalità francese. La definizione di cattività avignonese è stata coniata poiché il papa si trovò di fatto prigioniero dei sovrani francesi, i quali si intromettevano sistematicamente negli affari della Chiesa. Ben sette papi risiedettero ad Avignone, fino al 1377, quando Gregorio XI, folgorato dalle parole evocatrici di Caterina da Siena, riportò la sede papale a Roma. pontificia e, probabilmente nel 1352, si spense nella sua seconda patria d’elezione: Avignone.

Sulle orme di Severino Boezio le. Compose il Liber de preminentia spiritualis imperii, nel quale sostenne il primato del papa, in quanto autorità spirituale, rispetto all’imperatore, rappresentante del potere temporale. Le difficoltà materiali non erano tuttavia finite e solo nel 1330 il trattato venne presentato a papa Giovanni XXII, il quale, per premiarlo, gli assegnò il posto di scrivano presso la Penitenzieria apostolica. Raggiunta una certa sicurezza economica, Opicino restava comunque uno spirito tormentato, era perseguitato da visioni tremende, da sogni terribili, da rimorsi di coscienza. E in quel periodo si aggiunse per lui un nuovo dispiacere. Venne contestato il suo ufficio nella Penitenzieria e contro di lui fu intentato un processo che durò anni e che lo rovinò finanziariamente e psichicamente. Tanto che, nel 1334, il chierico pavese fu colpito da una malattia misteriosa, che gli provocò un disturbo del linguaggio e la paralisi della mano destra, di cui riuscí a recuperare parzialmente l’uso solo dopo molto tempo. Le condizioni psico-fisiche non impedirono comunque a Opicino di continuare a scrivere e soprattutto a disegnare. Tra il 1335 e il 1336 lavorò incessantemente a un ciclo di disegni che rappresentano una vera miniera per la conoscenza dello spirito del tempo. Nel 1347 de Canistris entrò a far parte della famiglia

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Come abbiamo visto, Opicino fu sostanzialmente un autodidatta, neppure troppo diligente. Dal punto di vista culturale e teologico, oltre alle sacre scritture e a qualche citazione di Agostino e Macrobio, scelse come autore di riferimento Manlio Severino Boezio e il suo trattato, il De Consolatione Philosophiae. Il raffinato filosofo romano, già consigliere del re degli Ostrogoti Teodorico, fu accusato di tradimento e giustiziato proprio a Pavia. Opicino si identificò in lui: Boezio indicava nell’immagine consolatrice di Dio «spettatore dall’alto» la strada che conduce a contemplare l’ordine divino, la filosofia riesce a interpretare gli avvenimenti del mondo riportandoli all’ordine supremo ed è questo che consola il filosofo. Come ha affermato Roberto Limonta, de Canistris «vede nella propria vita una ripresa e quasi un risarcimento per la sorte di Boezio, e i due diventano in questo modo indistinguibili (...) Boezio è dunque un simbolo particolarmente denso: è Opicino, è l’esilio, è la chiesa spirituale, tutto insieme». Il chierico disegna una mappa antropomorfa dell’Europa, una delle tante uscite dal suo stilo, che raffigura il volto di Boezio che sta di fronte all’Africa. In alto la rappresentazione della vera filosofia «mentre i contorni di Africa e Europa – osserva ancora Limonta – svolgono anche la funzione di rappresentare il mantello di Filosofia lacerato dalle dispute tra i filosofi», un’analisi che ritroviamo nella Consolazione e che Opicino fa propria tramite questo originale disegno.

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A destra Avignone. La facciata del Palazzo dei Papi. XIII sec. In basso tavola con fondo d’oro in cui è raffigurato san Francesco. XIV-XV sec. Avignone, Musée du Petit Palais.

Ma non solo: proprio con Boezio si diffonde, a partire dal VI secolo, la metafora del corpo/mondo, del rapporto tra microcosmo e macrocosmo, concetti destinati a essere ripresi nel XII secolo, dalla scuola di Chartres. Le dispute teologiche sulla povertà di Cristo (vedi box a p. 39), l’opulenta corte avignonese – dove soggiornavano artisti, filosofi, ma anche ciarlatani e negromanti – la figura di Giovanni XXII, definito come papa simoniaco e corrotto da Remigio da Varagine, l’atmosfera escatologica che si respirava nei palazzi papali, tutto ciò compare nelle rappresentazioni di Opicino, nelle sue mappe, nei suoi scritti. Egli pare quasi travolto dal tumulto dei tempi, confuso dalla sua malattia e dal senso di impotenza che lo fanno vivere ai margini dei grandi avvenimenti che si vanno svolgendo intorno a lui. Il suo modo di esprimersi sono i diagrammi, le piantine, i disegni; sui fogli disegnati riempiti con cura meticolosa, interpreta le cose del mondo, riferendosi tuttavia all’ordine divino che le comprende. Anche le mappe del Mediterraneo e i portolani disegnati dal chierico pavese hanno una valenza simbolica. Secondo Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri «ciò che rimane è lo schema binario, Africa e Europa, Boezio e le Muse, chiesa carnale e spirituale. Al fondo di queste immagini convivono un senso angoscioso di inadeguatezza e una profonda ansia di rinnovamento interiore, che Opicino proietta all’esterno e ritrova nel macrocosmo del mondo». È come se la geometria dei suoi disegni si caricasse di una valenza

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dispute teologiche

Scontro sulla povertà Nel 1329, quando Opicino de Canistris giunge ad Avignone, è in corso un’aspra disputa teologica sulla povertà di Cristo, che investe direttamente la politica ecclesiastica. La primitiva Regola francescana, approvata nel 1223, sanciva che Gesú e gli apostoli non possedevano nulla. La questione scivola dal piano teologico a quello politico: se Cristo e gli Apostoli erano poveri, anche la Chiesa avrebbe dovuto esserlo. Il capitolo generale dei Francescani del 1322, presieduto da Michele da Cesena, ribadisce l’assoluta povertà di Gesú. Una critica diretta all’opulenza della corte papale di Avignone e dei privilegi dei prelati. Papa Giovanni XXII reagisce prontamente, condannando l’affermazione come eretica. Michele fugge da Avignone, dove era stato convocato dal papa, per riparare presso la corte dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Tra i fuggitivi c’è anche Guglielmo di Ockham, anch’egli filoimperiale e strenuo sostenitore della povertà assoluta. morale, un concetto presente già nel XIII secolo soprattutto in Ruggero Bacone, rappresentazione grafica del riflesso delle leggi divine e in quanto tale indicatore che orienta il cammino del cristiano.

Con l’occhio dell’anima

Cinquanta disegni su fogli di pergamena e un codice cartaceo di centosettantasei pagine, tutti conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana, sono il risultato dell’intenso lavoro di Opicino. Tra queste opere, le piú originali sono senz’altro le mappe antropomorfe. Vi sono numerosi esempi di questa tipologia di mappe: l’Europa che si congiunge all’Africa nel Mediterraneo rappresentato come un grande caprone, simbolo dell’Anticristo, che si unisce ai due continenti, disegnati con sembianze femminili. In altri disegni l’Europa è raffigurata come una donna, la testa è la Spagna, le gambe sono l’Italia e la Grecia, la Corsica è un escremento. È chiaro come in questo caso Opicino voglia stigmatizzare la corruzione del mondo cristiano attraverso la figurazione geografica. Il chierico riproduce ossessivamente il Vecchio Continente, talvolta come una femmina pura e casta, talaltra come una meretrice che rappresenta la Chiesa decadente. Calendari ovali, mappe del mondo con cerchi, carte astrologiche con le raffigurazioni del Cristo compongono i codici, spesso miniati, di de Canistris. Le sue, in definitiva, sono immagini da guardare con l’occhio dell’anima. Partendo dalle cose materiali, egli vuole orientare verso realtà superiori, metafisiche.

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Lo stesso aveva fatto Ildegarda di Bingen un secolo prima, sebbene i due personaggi appaiano lontani non soltanto cronologicamente ma come estrazione sociale e preparazione culturale. Occorre tener conto che, nella teologia medievale, l’indagine sulla natura della potenza divina è uno degli argomenti piú importanti. Pietro Abelardo, Pier Damiani e, in particolare, Guglielmo di Ockham hanno affrontato questo tema e influenzato il pensiero teologico-filosofico del Medioevo occidentale. In questo ambito hanno origine le visioni di Opicino de Canistris, la sua insistenza sul significato del peccato, l’aspirazione a una chiesa spirituale, il conflitto con l’uomo carnale che torna ossessivamente nella sua opera. Incubi e visioni terribili accompagnano fino alla morte questo spirito inquieto, figlio di un tempo interpretato in modo geniale e che qualcuno ha definito il cartografo di Dio. F

Da leggere Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Roberto Limonta, Volando sul mondo. Opicino de Canistris (1296-1352), Archinto, Milano 2016 Carl Gustav Jung, I miti solari e Opicino de Canistris. Appunti del seminario tenuto a Eranos nel 1943, a cura di Riccardo Bernardini e Gian Piero Quaglino, Moretti e Vitali, Bergamo 2014 Jacques le Goff, Il corpo nel Medioevo, Roma-Bari, 2005

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storie schiavitú

Uomini di Maria Paola Zanoboni

come

merci

La tratta degli schiavi venne praticata anche nei secoli del Medioevo e fu solo marginalmente mitigata dalle disposizioni dettate dalla Chiesa. Ecco cosa accadeva quando la tratta di uomini e donne veniva considerata alla stregua di una qualsiasi attività mercantile...

A

ncora oggi, quando si pensa alla schiavitú, si pensa soprattutto all’antichità classica o alla tratta degli schiavi verso l’America. In realtà, il fenomeno fu assai diffuso in tutte le epoche storiche, senza eccezione per l’intero arco del Medioevo. Il termine «sclavus/sclava», apparso intorno al 1200, divenne nel corso di quel secolo una categoria giuridica che designava persone dalle origini piú diverse. Si trattava, all’epoca, prevalentemente di Saraceni e di Mori, ma nell’ultimo quarto del Duecento l’espansione genovese fece affluire in gran numero anche individui provenienti dall’area del Mar Nero e dall’oriente (Russi, Circassi, Tatari della Crimea), di solito prigionieri di guerra. La merce umana veniva radunata nella colonia genovese di Caffa e i Tatari erano cosí poveri che non esitavano a vendere i propri figli per sfamarsi. Se già nel XIII secolo la presenza di schiavi costituiva un fenomeno ben consolidato nelle città e nelle campagne italiane, europee, nordafricane e dell’Asia Minore, l’apice dell’interesse per questo tipo di manodopera si ebbe sicuramente a partire dalla secon-

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da metà del Trecento, dopo l’epidemia di peste che aveva spopolato l’Europa, provocando una massiccia richiesta di braccia e un altrettanto consistente innalzamento dei salari, determinando il netto aumento della domanda di schiavi. Parallelamente, ne venne organizzato un fiorente commercio a opera di mercanti (genovesi, veneziani, catalani), il cui atteggiamento divenne sempre piú aggressivo col crescere della domanda e delle prospettive di arricchirsi, ma anche di pirati, che non si facevano scrupolo a vendere come schiavi i prigionieri delle navi depredate. Il quadro era aggravato dalla situazione politica della costa del Mar Nero, dove il territorio dell’Orda d’oro venne lacerato a partire dal 1358 dalla guerra civile: per tutta la seconda metà del secolo XIV e fino al primo decennio del XV, il 90% degli schiavi importati a Genova era costituita dai Tatari fatti prigionieri appunto nella zona dell’Orda d’oro.

Genova, epicentro del fenomeno

A Caffa andò affermandosi un gruppo di commercianti specializzati, che cooperavano con i Turchi e con i Mamelucchi, senza preoccuparsi delle obiezioni della Chiesa cattolica, e fecero di Genova il polo fondamentale della tratta degli schiavi in tutto l’Occidente mediterraneo. Una volta trasportati nella città della Lanterna, gli schiavi venivano in parte venduti sul posto, a personaggi importanti come il Doge, o a chi ne avesse fatto richiesta. Altri venivano acquistati soprattutto da mercanti iberici (catalani e maiorchini) e riesportati, sempre via mare, in Sicilia, a Napoli, Tunisi, o Barcellona. Ancora a Genova, approdavano poi navi provenienti da Tunisi o dalla Sicilia, che trasportavano Mori e Africani. Nella città si aggiravano anche abitanti di Caffa, Pera e Chio, che collocavano presso i Genovesi singoli schiavi che si erano procurati direttamente nelle città di origine. Parallelamente, anche altri centri della Penisola andarono aprendosi in questo senso: con un decreto del 1364, le autorità cittadine di Firenze diedero inizio all’importazione regolare di schiavi di entrambi i sessi. Il porto di Pisa fungeva da punto di riferimento per l’ingresso in Toscana di questa manodopera, parte della quale veniva a sua volta riesportata in Catalogna e a Maiorca. Nella città del giglio, tra il XIV e il XV secolo, la presenza di schiavi era tutt’altro che marginale, e molto diffusa tra i ceti piú agiati. Il commercio regolare era affiancato un po’ ovunque da quello praticato dai pirati, o da coloro che si improvvisavano tali: negli anni Ottanta del Trecento i Ragusei, volendo incentivare le proprie manifatture in un periodo di carenza di manodopera, non ebbero alcuna remora a catturare le imbarcazioni su cui

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Sulle due pagine due Prigioni realizzati da Michelangelo, lo Schiavo morente (nella pagina accanto) e lo Schiavo ribelle. Parigi, Museo del Louvre. Inizialmente scolpite per il basamento del mausoleo di papa Giulio II nel 1513, le statue furono poi eliminate nel 1524.

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Nella pagina accanto Una schiava in vendita, olio su tela di José Jiménez Aranda. 1892-1902. Málaga, Museo de Málaga. La donna porta al collo un cartello con la scritta «Rosa di 18 anni, in vendita per 800 monete». A destra miniatura, raffigurante un mercato di schiavi, da un’edizione delle maqamat di Abu Muhammad al-Qasim Hariri. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

viaggiavano gli emigranti albanesi diretti a Venezia, e a venderli come schiavi nella propria città. Della forte emigrazione dai Balcani traevano vantaggio anche i pirati veri e propri (soprattutto quelli catalani di Sicilia e Barcellona), apertamente dediti alla tratta: un episodio toccante ci mostra un «onesto mercante» barcellonese che, avendo acquistato in Puglia, da un pirata di Otranto, 3 piccoli albanesi di età compresa tra i 6 e i 10 anni, venne circondato, nel porto di Ancona, da una moltitudine di Albanesi indignati che vollero far registrare la loro protesta davanti a un notaio. Anche al largo della Penisola Iberica, nella stessa epoca, veleggiavano i corsari catalani, pronti a gettarsi sulle imbarcazioni dei migranti saraceni diretti verso il Nord Africa per catturarli e venderli come schiavi. Poteva però capitare anche il contrario, che cioè individui in condizione servile (come i galeotti ai remi, spesso incaricati di compiti tecnici di responsabilità), a bordo di navi nemiche, approfittassero di qualche situazione critica per impadronirsi dell’imbarcazione trasformando in merce umana i passeggeri e il resto dell’equipaggio. Per altro verso, anche gli schiavi fuggitivi potevano a loro volta portare con sé persone che avevano rapito e che vendevano in terra straniera per procurarsi una somma con cui sopravvivere. Piú raramente, ci si procu-

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rava la manodopera ricorrendo al rapimento: nel 1492, nel porto di Napoli, una fanciulla libera venne attirata su una nave, rapita e venduta come schiava a Genova. I genitori, però, avviarono immediatamente una causa che vinsero, facendo valere il principio secondo il quale i cristiani non potevano essere ridotti in cattività.

Trasformazioni fondamentali

Nel XV secolo la pratica della schiavitú fu particolarmente intensa: dalle loro colonie del Levante, Genovesi e Veneziani avviavano via mare contingenti di schiavi nelle piú diverse direzioni. Si trattò di un periodo di decisa evoluzione di questo commercio che fece registrare alcune trasformazioni fondamentali: in primo luogo, quella etnica, con il sostituirsi dei Balcanici e dei Mori agli Orientali. Nel 1492, la caduta di Granada mise a disposizione un gran numero di prigionieri saraceni, che venivano ridotti in schiavitú, ai quali si affiancarono i Nordafricani importati dall’Algeria, Tunisia e Marocco, territorio di recente occupazione portoghese. Se per i mercanti europei, i cespiti principali di approvvigionamento erano i prigionieri di guerra, per gli Arabi, che esercitavano in modo massiccio la tratta dei neri, il metodo per procurarseli era il baratto: si recavano cioè nei mercati dell’Africa centrale, dove scambiavano sete

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Miniatura raffigurante schiavi intenti al raccolto del pepe, dall’edizione del Livre des merveilles (piú noto come Il Milione) di Marco Polo illustrata dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

e cavalli con esseri umani, che poi trasportavano fino alla costa, e imbarcavano su navi genovesi e veneziane, vendendoli infine in Europa. Alla fine del Quattrocento, commerciavano in gran numero i neri anche i mercanti portoghesi, che si rifornivano direttamente nei luoghi d’origine o nel Nord Africa, trasportando i poveretti a Cadice, dove venivano in parte acquistati dai Genovesi. Nei centri urbani del Portogallo la loro presenza nel gruppo servile era tale da far esclamare a un viaggiatore di «credere di essere capitato in una città di diavoli» tanti erano i neri che incontrava. A Lisbona, dagli anni Sessanta del Quattrocento, si rifornivano anche alcuni rappresentanti delle casate mercantili fiorentine che

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importavano nella propria città qualche schiava nera, di solito su commissione di famiglie agiate, da adibire a servizi domestici. Dato il loro costo elevato, la domanda era alquanto esigua, e non motivata da ragioni economiche, ma di prestigio sociale. Alla fine del Quattrocento il mercante fiorentino Bartolomeo Marchionni, attivo in Portogallo, si specializzò proprio in questo tipo di commercio praticato qualche anno prima anche dai banchieri Cambini.

Dall’arcipelago delle Canarie

Una sorte analoga subirono, fin dal Trecento, gli indigeni delle Canarie, dopo la riscoperta dell’arcipelago (1328-1339) da parte del navigatore genovese Lancellotto Malocello per conto del Portogallo, e ancor piú nel secondo Quattrocento, dopo le guerre che portarono alla definitiva conquista castigliana (1479). A nulla era valsa la bolla di papa Eugenio IV (Sicut dudum, 1435) che maggio

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In alto incisione in cui sono raffigurati gli Spagnoli che sorvegliano gli indigeni, da loro ridotti in schiavitú, addetti alle miniere d’oro. 1595. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.

vietava la cattività della popolazione isolana. Molti di loro venivano reclutati come manodopera nelle piantagioni di zucchero, oppure esportati verso la Penisola Iberica e verso Genova. Come ricordano alcuni documenti, le schiave di questa etnia erano sensibili e servizievoli. Nel XV secolo, i Catalani erano fra i principali acquirenti di schiavi sul mercato genovese, anche se buona parte del loro fabbisogno veniva coperto attingendo direttamente ai mercati d’origine (Chio, Candia, Rodi), o mediante atti di pirateria e razzie sulle coste anatoliche. Questo tipo di commercio era per loro di antica data: compravano braccia umane ovunque possibile, incentivati da una domanda che nel XV secolo rimaneva altissima. Nella sola Maiorca il contingente servile toccava le 3000 unità e in tutta la Catalogna arrivava a ben 20 000. Nelle Baleari l’apporto della manodopera servile all’economia agricola era fondamentale. Anche la Sicilia aveva un legame diretto con i mercati della

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schiavitú e con gli scali intermedi, sia per mezzo di navi catalane che genovesi, e anche nell’isola venivano richiesti prevalentemente soggetti di sesso maschile, da impiegare nei lavori agricoli. Qualche volta, sulle imbarcazioni con prevalente carico servile, gli schiavi si rivoltavano, con conseguenze tragiche. Si rifornivano a Genova anche mercanti del Nord Europa, di Marsiglia e di Nizza; questi ultimi, in particolare, acquistavano individui che spesso rivendevano nello Stato sabaudo. La Toscana attingeva buona parte del suo fabbisogno alle «scorte» di cui il centro ligure disponeva: facevano da tramite i rappresentanti delle varie aziende commerciali presenti in città. Fra gli operatori italiani che si rifornivano di schiavi nel porto di Genova durante il XV secolo, i principali erano però i Milanesi: nomi noti nell’economia dell’epoca, come i Borromeo, i Nigro, i Panigarola, i Crivelli, gli Arrigoni, i Rabia, trasferivano nella capitale lombarda un buon numero di elementi, soprattutto femminili, e anche altri lombardi appaiono spesso in transazioni di questo tipo. Nelle città italiane, in ogni caso, i quantitativi di schiavi furono sempre del tutto esigui rispetto ad altre realtà (quella della Penisola Iberica in primo luogo).

Le quotazioni del mercato

Nella determinazione del prezzo degli schiavi, oltre all’età (i piú richiesti erano gli individui intorno ai 20 anni) e alla salute fisica, entrava in gioco anche un altro elemento fondamentale: il fatto che si trattasse o meno di popolazioni cristiane. Per queste ultime, infatti, la riduzione in cattività era discutibile, tanto che veniva riconosciuta loro la possibilità di intentare un’azione

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Miracolo della reliquia della Croce al ponte di San Lorenzo (particolare), tempera su tela di Gentile Bellini. 1500. Venezia, Gallerie dell’Accademia. Nell’angolo in basso, a destra, si vede una donna che spinge il suo schiavo nero a tuffarsi nel canale per recuperare la reliquia, che però è stata nel frattempo recuperata dal Gran Guardiano della scuola di San Lorenzo (non visibile in questo particolare del dipinto).

giuridica per ottenere l’abolizione dello stato servile. In tale categoria rientravano Greci, Albanesi, Ungheresi e Balcanici in genere, il cui valore era perciò inferiore a quello degli schiavi non cristiani. Non veniva percepita come negativa, invece, la situazione delle schiave in gravidanza, fattore che a volte, anzi, contribuiva ad aumentarne il valore, in primo luogo perché la giovane poteva essere utilizzata o locata a terzi come balia, impiego lucroso e molto richiesto; in secondo luogo perché il nuovo nato veniva a costituire un’unità lavorativa in piú. Tutto questo doveva essere coperto da un’adeguata polizza assicurativa contro i rischi del parto, a carico del responsabile della gravidanza. Per tutti i soggetti in cattività le ordinanze municipali prevedevano talvolta un periodo di garanzia: a Barcellona, nel 1433, si stabilí il diritto per il compratore di sporgere reclamo, entro un anno, per eventuali malattie che lo schiavo avesse contratto prima dell’acquisto.

Garanzie sulla provenienza regolare

Sesso, età, etnia d’origine, colore erano altrettanti motivi di differenziazione del prezzo. Le donne valevano sempre piú degli uomini, e particolarmente ricercate erano quelle sotto i 25 anni. Venivano valutati molto poco, invece, i soggetti (di entrambi i sessi) dalla pelle gialla, nera od olivastra. Altri fattori che concorrevano a deprimerne il valore erano rappresentati dalla condotta immorale o dal carattere irrequieto o violento dello schiavo, e dalla sua provenienza da tratta non regolare (persone, per esempio, catturate dai pirati). Da qui la preoccupazione costante del venditore di specificare che si trattava di individui «capti de bona guerra». In sintesi, secondo questi parametri, nella prima metà del Quattrocento, a Genova, il prezzo di una schiava intorno ai 25 anni poteva oscillare, in funzione del suo stato, tra le 75 e le 150 lire, somme corrispondenti approssimativamente allo stipendio annuo di un lavoratore dipendente piú o meno specializzato, o al salario almeno biennale di un marinaio (che verso la metà del secolo percepiva intorno alle 58 lire annue). Se paragonato alla media del prezzo del grano nel XV secolo, il valore di una schiava costata 150 lire era superiore a quello di 4 tonnellate di cereale. Ancora piú elevati, dalle 140/150 fino a una punta massima di 285 lire, i prezzi nella seconda metà del Quattrocento. La caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi (1453), con le

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storie schiavitú A sinistra castello di Issogne, Valle d’Aosta. Affresco raffigurante la bottega di un farmacista in cui si vede un servo che pesta nel mortaio. XVI sec. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la tintura dei tessuti, da un’edizione del Des Proprietez des Choses di Bartolomeo Anglico. 1482. Londra, British Library.

conseguenti difficoltà di passaggio attraverso gli stretti, la presa di Caffa, il progressivo esaurirsi delle scorte di schiavi in Occidente, contribuirono infatti ad aumentarne il valore, facendone lievitare i prezzi. La drastica diminuzione del loro numero emerge chiaramente dai registri della gabella degli schiavi di Genova: sulla loro tratta, come sulle transazioni di altre merci di valore, si versava infatti una tassa, i cui registri costituiscono una delle principali fonti di dati su tale commercio. Ne è possibile desumere il numero annuale dei soggetti non liberi venduti a Genova nel corso del Quattrocento, che poteva variare dagli appena 28 del 1472 ai ben 319 del 1432, con un calo drastico tra la prima metà del secolo, che vedeva una media di 200 transazioni annue, e la seconda metà, con una media di appena una cinquantina di transazioni annue.

Una vasta gamma di impieghi

La manodopera schiavile, e soprattutto quella femminile che ne costituiva l’elemento preponderante, veniva utilizzata in parte per lavori domestici, ma non mancavano molte altre occupazioni: mozzi o addetti ai remi sulle navi (attività che piú delle altre consentiva la fuga nei porti in cui l’imbarcazione approdava), inservienti per i lavori agricoli, nell’edilizia, nei laboratori di ceramica, aiutanti dei pittori. In quest’ultimo caso, se lo schiavo si dimostrava dotato, il pittore lo lasciava talvolta erede della sua attività, come accadde in piú di un’occasione sia a Genova, sia a Venezia. In Catalogna, nella seconda metà del Trecento, la cosa

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era tanto diffusa che molti pittori si associavano a servi orientali, il cui stile è chiaramente visibile in molte opere dell’epoca. L’influsso degli schiavi probabilmente utilizzati si palesò fin dal Duecento in alcuni laboratori ceramici di Marsiglia, i cui manufatti presentano caratteri stilistici ispano-moreschi sconosciuti nella zona: l’importazione di maestranze non libere poteva dunque rappresentare anche una strategia imprenditoriale per rinnovare la tipologia dei prodotti, provocando talvolta la reazione degli operai liberi, costretti a fronteggiare una concorrenza sleale. Se per i ceti piú agiati il possesso di manodopera schiavile costituiva una componente del tenore di vita nonché un genere di lusso da ostentare, per le categorie piú modeste rappresentava invece un piccolo capitale da far fruttare: come accennato, l’acquisto era infatti piuttosto oneroso e poteva corrispondere al canone annuo di locazione di una bottega con gli arredi, o allo stipendio annuo di un salariato. La manodopera servile non veniva perciò utilizzata dai comuni artigiani soltanto nei servizi domestici, ma era impiegata in incombenze redditizie legate all’attività del proprietario: nelle fasi preliminari di lavorazione del cotone o della canapa, per esempio, i piccoli imprenditori la utilizzavano regolarmente. Altrettanto avveniva nella filatura, tessitura e tintura della seta e della lana, e, a Barcellona, nella lavorazione del corallo. In Catalogna e a Maiorca, nel Quattrocento, era diffusissima l’abitudine di acquistare bambini da utilizzare come apprendisti per produrre a prezzi competitivi, al punto che, nel 1467, maggio

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l’autorità pubblica maiorchina fu costretta a prendere provvedimenti per evitare il calo eccessivo dei prezzi e scongiurare il pericolo che i discepoli si impadronissero di determinate attività. Gli statuti corporativi, d’altra parte, pur vietando agli schiavi di appartenere a un mestiere, non ne proibivano in genere l’apprendistato, a eccezione dei casi in cui si volevano tutelare i segreti della lavorazione. A Genova, per esempio, gli statuti degli speziali proibivano di insegnare l’arte ai Turchi e ai Tatari, per timore che imparassero a preparare anche pozioni velenose da utilizzare contro i loro proprietari. A Venezia, invece, lo statuto dei battiloro e dei filaoro (1455) stabiliva che non si potesse vendere a forestieri nessuna schiava che conoscesse il

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mestiere, mentre la corporazione dei tessitori di velluto prescriveva che, se uno schiavo avesse già imparato l’arte dell’ordire e del tessere, non poteva essere venduto senza il beneplacito dei consoli dei mercanti, e soltanto a un acquirente che risiedesse nella città. Sempre per evitare una pericolosa concorrenza lavorativa, venivano prese un po’ ovunque particolari precauzioni (spesso contenute nel contratto notarile di affrancamento) per evitare che i servi liberati aprissero bottega nei pressi di quella dell’ex padrone, sottraendogli la clientela. In ogni caso non era raro che schiavi non affrancati svolgessero attività per conto proprio, contravvenendo a ogni norma: a Genova la cosa doveva essere tanto diffusa che, nel 1478, l’arte dei pollaioli e

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storie schiavitú rivenditori di frutta indirizzò una supplica al Comune affinché prendesse provvedimenti contro i servi che tenevano banco per conto proprio. Altre severe sanzioni riguardavano gli schiavi che vendevano ricami, passamanerie, perle e pietre preziose. Talvolta però, previo accordo col padrone, l’attività lavorativa autonoma dello schiavo era consentita, cosí da permettergli di guadagnare la somma necessaria alla sua liberazione. Altro impiego di questo particolare tipo di manodopera riguardava i servizi di pubblica utilità (edificazione di mura o di fortilizi) o mansioni legate a situazioni di emergenza (incendi, inondazioni), occasioni in cui tutti i proprietari avevano l’obbligo di inviare i propri servi in luoghi prestabiliti dall’autorità pubblica, dove si sarebbe deciso come procedere. Nelle piantagioni di zucchero di Cipro i Veneziani utilizzavano schiavi di origine siriana o araba, mentre in quelle di Madera i Portoghesi impiegavano neri e Mori (XV secolo). Lo stesso avveniva nella medesima epoca nelle miniere di Focea sulla costa anatolica, nelle saline di Ibiza, nell’arsenale marittimo di Barcellona.

Miniatura raffigurante una coppia che conduce la propria schiava davanti a un magistrato, affinché la giovane possa riacquistare la libertà grazie alla manomissione, dal Glossed Digestum Novum. XIII sec. Londra, British Library.

Contratti d’affitto

Come già ricordato, nel periodo successivo alla pestilenza del 1348, il massiccio crollo demografico e la conseguente carenza di manodopera, avevano fatto sí che gli schiavi fossero ricercatissimi e che il loro prezzo aumentasse a dismisura. Il loro commercio, organizzato su larga scala in modo piú o meno lecito, sia dai mercanti che dai pirati, divenne un mezzo per arricchirsi a vari livelli: tra i modi con cui si faceva fruttare il costoso acquisto, c’era quello di cedere in locazione i poveretti a persone che ne avevano bisogno per un periodo limitato e che erano disposte a versare un canone/remunerazione assai elevato: il compenso per il lavoro svolto veniva percepito dal padrone. In questo modo venivano «affittate» soprattutto le schiave destinate a fare da balie, che costituivano un ghiotto investimento per i proprietari che ne incameravano lo stipendio (la cui entità poteva arrivare fino al 7-10% del prezzo di acquisto). In tale situazione c’era almeno un aspetto positivo: balie e servitú domestica venivano trattate nello stesso modo, fossero libere o meno. L’unica differenza consisteva nel fatto che, nel caso di schiavi e schiave, la remunerazione veniva percepita dal padrone. Il locatario poteva a sua volta cedere la schiava a terzi, con il consenso del proprietario. La manodopera servile poteva poi essere noleggiata per mansioni pesanti e pericolose: in tal caso il proprietario, per salvaguardare il capitale investito, si assicurava che non venisse danneggiata la salute dell’individuo che aveva locato, ma la situazione non era certo delle migliori. I piú sfortunati erano gli addetti ai remi sulle navi: il proprietario percepiva un canone altissimo che

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in pochi mesi ammortizzava il prezzo di acquisto, ma lo sforzo a cui i poveretti erano costantemente sottoposti lasciava loro solo pochi anni di vita. Ancora peggiore la sorte di quelli costretti a lavorare in miniera. Una volta che uno schiavo era stato acquistato, se si era ambientato dimostrandosi di indole buona e aveva appreso un mestiere, difficilmente il proprietario lo rivendeva. In ogni caso, nelle città medievali la condizione servile non durava per tutta la vita, ma terminava in genere dopo un certo numero di anni, o per la morte del padrone, che di solito lasciava liberi i suoi schiavi, talvolta compensandoli con oggetti e con un piccolo gruzzolo come ringraziamento per i servigi resi. Oppure, per le donne (che costituivano la maggioranza di questo tipo di manodopera), quando volevano sposarsi, in modo sostanzialmente analogo a quanto accadeva per le domestiche libere. Tuttavia, l’affrancamento comportava in genere un considerevole esborso di denaro che lo schiavo guadagnava con un’attività supplementare in proprio (per la quale aveva ottenuto l’autorizzazione); oppure grazie a qualcuno che versava la somma necessaria alla manomissione, somma che il liberto restituiva maggio

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Da leggere Domenico Gioffrè, Il mercato degli schiavi e Genova nel secolo XV, Fratelli Bozzi, Genova 1971 Laura Balletto, Stranieri e forestieri a Genova: schiavi e manomessi (secolo XV), in Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Salimbeni, Firenze 1988; pp. 263-283 Sergio Tognetti, Note sul commercio di schiavi neri nella Firenze del Quattrocento, in «Nuova Rivista Storica», LXXXVI (2002), fasc. II, pp. 361-374 Schiavitú e servaggio nell’economia europea secc. XI-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, atti della XLV settimana di studi dell’Istituto Datini (13-18 aprile 2013), Firenze University Press, Firenze 2014 Anna Esposito, Schiavi a Roma tra Quattrocento e Cinquecento: prime indagini nei registri notarili, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2/2013; pp. 13-24 Salvatore Bono, Schiavi: una storia mediterranea (XVI-XIX secolo), Il Mulino, Bologna 2016

lavorando gratuitamente, per un certo numero di anni, al servizio di chi aveva pagato il riscatto (a volte si trattava di ecclesiastici).

Le due fasi dell’affrancamento

La «manumissio» avveniva davanti al notaio in due fasi: nella prima il proprietario prometteva la liberazione, e nella seconda, qualche anno dopo, la confermava. In ogni caso, non si trattava mai di un atto di liberalità, ma di un fenomeno che corrispondeva a un preciso calcolo economico: dato il prezzo di uno schiavo, il padrone non voleva rischiare di doversene accollare il mantenimento e le cure una volta che le sue capacità lavorative fossero venute meno, e contemporaneamente cercava – affittandolo o chiedendogli un riscatto – di recuperare almeno in parte la somma pagata per comprarlo. Non sempre la manomissione portava benefici: molte schiave anziane, una volta affrancate, continuavano a lavorare nella stessa casa in cui erano state per tutta la vita, in una condizione sociale pressoché invariata. Altre, piú giovani, subivano una sorte ben peggiore: non avendo di che vivere, diventavano prostitute o concubine di uomini violenti che le maltrattavano. Non miglio-

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re la situazione dei manomessi maschi, molti dei quali continuavano a servire gratuitamente l’ex padrone per un certo periodo. Altri si imbarcavano come rematori sulle galere per potersi sostentare. Quelli che avevano appreso un mestiere continuavano a esercitarlo, a volte per conto dell’ex padrone. Altri ancora, incapaci di sopravvivere, finivano in prigione per debiti. Come accennato, gli schiavi/e cristiani/e avevano il diritto di iniziare una causa per ottenere la libertà, con apposito procedimento, in quanto detenuti ingiustamente, ma anche questo aveva un prezzo. L’azione veniva intentata dallo schiavo, o dalla schiava, attraverso un procuratore, il quale esibiva il mandato ricevuto al magistrato che invitava allora il proprietario a presentare entro 3 giorni eventuali opposizioni. Si procedeva quindi alla stesura delle risposte che attore e convenuto davano alle domande contenute in un apposito formulario, in base alle quali la domanda veniva accolta o meno. In caso positivo lo/a schiavo/a doveva presentare un garante del rimborso del prezzo di acquisto, e poteva essere trattenuto/a fino al versamento della somma. Questo costituiva un ostacolo spesso insormontabile al riottenimento della libertà. F

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tradizioni orvieto Ogni anno, in occasione della festa del Corpus Domini, Orvieto si anima del variopinto e ricco Corteo Storico. Una rievocazione che riporta la città alle atmosfere, ai suoni e ai colori dell’età di Mezzo

Il Medioevo in «fotografia»

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di Andrea Mazzi


Sulle due pagine le bandiere del Corteo Storico all’uscita dal Duomo di Orvieto. In questo frangente si unisce la processione religiosa e il Corteo prosegue per le vie della città .

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tradizioni orvieto

E È

quasi mitologico, perché appare solo una volta all’anno, inondando i vicoli di tufo di colori e suoni, solenni, ripetitivi, quasi ipnotici. Poi sparisce. E per un anno intero non se ne ha traccia, se non nei racconti di chi lo ha visto o di chi vi ha preso parte, contribuendo ad alimentarne il mito. Non è una manifestazione ludica, né ci sono «singolar tenzoni» tra contendenti, ma è una fotografia del passato. Una gigantesca istantanea in movimento di un Medioevo ormai svanito, ma che ha lasciato tracce indelebili. Il Corteo Storico di Orvieto non è solo una processione solenne, ma la rappresentazione di un passato glorioso che ha fatto della città della rupe la testimonianza di un’era che buia non era affatto. Nato alla metà del secolo scorso, il Corteo è oggi la principale manifestazione popolare di Orvieto. Motivo di attrazione turistica, ma anche di grande partecipazione da parte degli Orvietani. Chi è emigrato torna ogni anno, anche solo per ammirare gli straordinari costumi che già conosce a memoria. E chi ancora vive sulla rupe segue la manifestazione, a volte con spirito critico, ma sempre con affetto e dedizione. La scintilla di questa tradizione, espressione dell’ar-

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tigianalità e del saper fare della gente del posto, scoccò negli anni Quaranta del Novecento, quando la Curia pensò di «rivitalizzare» la giornata del Corpus Domini e della processione del Reliquario custodito in Duomo, con una «Sacra rappresentazione» del miracolo di Bolsena (che è appunto alle origini della festa del Corpus Domini; vedi nella seconda parte, alle pp. 64-73). Dal 1947 al 1951 l’Istituto del dramma sacro di Roma, diretto dai fratelli Tamberlani, realizzò in piazza Duomo drammi religiosi che culminavano nella rievocazione dei momenti salienti del «miracolo»: la celebrazione della messa nella cripta di S. Cristina a Bolsena.

La «signora Pacini»

Nel 1951 la rievocazione fu preceduta da un Corteo Storico, ricostruito fedelmente sulla scorta di documenti dell’epoca in cui avvenne il Miracolo, ma, per motivi economici, l’iniziativa durò un anno soltanto. Sarebbe rimasta un’apparizione fugace se Lea Pacini non avesse raccolto la «sfida» e non avesse creato In questa pagina ancora due immagini dei figuranti che animano il Corteo Storico: un drappello di chiarine con emblemi comunali (in alto) e un componente della milizia con asce. maggio

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I quattro quartieri

L’anima del Corteo Storico I quattro quartieri di Orvieto hanno assunto il nome e la disposizione che ancora oggi conosciamo alla fine del XV secolo. Si incrociano sotto la Torre del Moro. E dividono il centro storico secondo l’ubicazione delle due principali strade che attraversano la rocca: corso Cavour e via del Duomo con il tratto di via della Costituente. Nella seconda metà del Quattrocento Santa Pace, lato piazza del Popolo, divenne Corsica, piazza S. Giovenale, Olmo, S. Andrea e S. Giovanni assunsero il nome di Serancia e Postierla quello di S. Maria della Stella. Nell’Orvieto medievale anche l’organizzazione militare risentiva della suddivisione in quartieri. Il mestiere delle armi era esteso a tutti gli adulti maschi: i fanti del Comune nel 1309 erano 1500 e gli arcieri ben 500. Gli armati erano suddivisi in 4 compagnie, ciascuna con il proprio stemma. Durante il Corteo Storico, nel giorno della festività del Corpus Domini, i quattro quartieri danno vita a una colorata sfilata di tamburini, trombette, portatori di ceri, sbandieratori e vessilli. Si distinguono il Vessillifero maggiore e l’Anterione, un uomo di buona reputazione e

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condizione economica. Doveva avere compiuto vent’anni di età, provenire dalla città o dai borghi del circondario, possedere 100 lire di beni stabili ed esercitare un’arte. Veniva eletto dal Consiglio costituito dai Consoli delle Arti maggiori e da quelli delle Arti minori.

Qui sopra l’estensione dei quattro quartieri di Orvieto – Corsica, Olmo, Serancia e S. Maria della Stella – sovrapposta al Diario di Ser Tommaso di Silvestro. 1494.

In alto veduta della città di Orvieto, realizzata per l’opera Civitates orbis terrarum di Franz Hogenberg e Georg Braun. 1572-1616. A destra il corteo delle milizie, in cui sfilano due Quadriglie: quella delle Alabarde e quella degli Spiedi, divisione che riguarda la punta di ferro delle lunghe aste imbracciate dai figuranti.

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tradizioni orvieto lo straordinario patrimonio che oggi consta di piú di quattrocento preziosi costumi, modellati dalle sapienti mani di abili artigiani. Sollecitata dall’allora vescovo Francesco Pieri, la «signora Pacini», come veniva chiamata, quasi con timore reverenziale, prese contatto con il «Maggio Musicale Fiorentino» ed ebbe in prestito alcuni costumi per vestire un piccolo gruppo di figuranti, affinché accompagnasse in abiti storici la processione. Diede cosí il via alla storia del Corteo. Anno dopo anno, sotto la guida della infaticabile ricercatrice, imprenditrice, mecenate, appassionata di arte, di storia del costume e cultrice della «orvietanità», la tradizione si consolidò. Pacini studiava gli affreschi in Duomo e nelle chiese

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orvietane, per carpire i particolari degli abiti medievali; e gli artigiani locali, a cui si affidava, davano forme ai suoi progetti. Sono nati cosí i preziosi mantelli, gli elmi, le corazze, le alabarde, gli stendardi e le bandiere che sfilano ancora oggi e solo per una volta all’anno, lungo le vie della città. Ciascun pezzo è realizzato su disegno originario della «signora Pacini». Ma ciascun pezzo, proprio perché fatto a mano, è unico e irripetibile.

Una città-stato potente e rispettata

Con il tempo e i processi di industrializzazione seriale, alcune di quelle abilità artigianali si sono perse. Ed è questa una delle ragioni dell’unicità del Corteo Stori-

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co di Orvieto: se oggi dovesse nascere ex novo, infatti, probabilmente non potrebbe vedere la luce. E se da un lato sono la certosina precisione e ricchezza millimetrica, quasi maniacale, a rendere eccezionale questo patrimonio di abiti, dall’altro è l’accurata ricerca che dà al Corteo il suo valore «storico». Esso è e vuole essere – come già detto – una fotografia del passato. E, come tale, piú fedele possibile alla realtà orvietana medievale, divisa tra poteri civile e militare, classi sociali, casate nobiliari, terre assoggettate, che facevano della Rupe un eccezionale centro di potere. Con la «fotografia» del Corteo Storico, torniamo alla seconda metà del Trecento: Orvieto è una città-stato, potente, temuta e A sinistra il gruppo dei tamburini, a cui spetta il compito di aprire il corteo delle milizie. Alle loro spalle, i vessilli del Comune.

In alto Lea Pacini, alla quale si deve il recupero del Corteo Storico, con un giovane figurante. Nel suo nome è stata fondata l’Associazione che cura la realizzazione dell’evento.

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rispettata; la sua influenza si estende ben oltre i confini della rupe e i suoi domini vanno dal Mar Tirreno, inglobando le rive di Orbetello in Maremma, fino al lago di Bolsena e al monte Amiata.

Rievocazione in tre atti

Il Corteo Storico si divide fondamentalmente in tre parti: la rappresentazione del potere politico, con il Corteo del Podestà; la vita di città con i quartieri in cui è suddivisa l’Urbe antica: Corsica, Serancia, Olmo e Santa Maria (vedi box a p. 57) e la rappresentazione del potere militare con il Corteo del Capitano del Popolo. Trombettieri, tamburini, insegne del Comune e scudieri fanno da apripista alla solenne figura del Podestà che è seguita dai cavalieri delle famiglie nobiliari della città. Il Gonfaloniere di Giustizia, con i notabili, cancellieri, giudici, sindaco, ambasciatori e sapienti sono i rappresentanti della giustizia e dell’amministrazione cittadina, che si estende fino alle terre assoggettate, rappresentate dai vessilli e dai nobili provenienti da ogni angolo del territorio per il giorno di festa. Il corpo centrale della processione storica è rappresentato dai quattro quartieri che ricordano la divisione in rioni della città storica, sopra la Rupe. I costumi utilizzano i colori tipici di ciascuna zona di Orvieto: giallo e rosso per il Corsica, bianco e verde per l’Olmo, giallo e blu per il Santa Maria, bianco e rosso per il Serancia. Segue il Corteo delle Corporazioni, che rappresenta tutte le principali attività economiche della città-stato. Infine, il corteo delle milizie, che si apre con un gruppo di tamburini a scandire il passo. Dopo le bandiere con i vessilli del Comune sfilano due Quadriglie; la prima è quella detta «Alabarde», una lunga asta con in cima un ferro simile a un’ascia. La seconda quadriglia è quella degli «Spiedi»: una lunga asta con in cima un ferro simile a uno spiedo. I figuranti riportano in vita le milizie che nel Medioevo servivano a Orvieto. La processione prosegue con le insegne della città, la scorta armata con gli spadoni e l’insegna del Capitano del Popolo, la figura principale del potere militare. Temuto, stimato, potente, il figurante che indossa l’abito mostra questa vocazione alla forza. Lo seguono gli scudieri: porta scudo e porta lancia. Ancora il cavaliere con la bandiera di San Giorgio, il Conestabile dei cavalieri Filippeschi, lo scudiere e il porta lancia dei Filippeschi. Poi il gruppo dei cavalieri: Della Greca, Montemarte, Marsciano, Mazzocchi, Ranieri, Bisenzi, ciascuno con il proprio

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tradizioni orvieto macchine da guerra

Vattelana, l’arma segreta Castelli, rocche e fortezze sono un emblema dell’epoca medievale. Da un lato segno di forza e di ricchezza, dall’altro garanzia e protezione dai nemici. Piú progredisce l’architettura militare, però, piú si perfeziona l’arte poliorcetica. E se le descrizioni dei cronisti, con toni lirici, tendono a presentare come inespugnabili le fortezze medievali (la rocca del re goto Teodato su un’isola del lago di Bolsena aveva «mura, ponti, propugnacoli e torri» per tenerlo al riparo da «orribili guerre») altrettanto poeticamente vengono descritte le macchine d’assedio, tanto importanti quanto rare, e cosí micidiali da avere un nome proprio che incute paura: Crudele, Disperata, Vittoria, Caina. Trabucchi, catapulte, onagri e baliste sono ricordati sia per il timore che suscitano sia per la morte improvvisa che distribuiscono. I nomi richiamano la forza dei proietti scagliati o la potenza e la gettata del tiro, «l’infaticabilità o la snellezza delle forme». Terribile sia nel nome, sia nell’utilizzo è il trabucco in possesso del Comune di Orvieto, usato in piú occasioni con risultati devastanti: Vattelana, cioè Battilana, come il maglio di legno che percuoteva i panni bagnati per lavorarli, cosí frantumava le mura delle città nemiche. Questo trabucco doveva far parte della dotazione fissa del Comune di Orvieto e viene ricordato sin dal 1240 con la variante di «Valtellana». Un’arma micidiale, con cui furono abbattute a piú riprese le mura difensive di Bolsena e di Acquapendente, fortezza strategica, quest’ultima, lungo la via Francigena. Nel 1294 la sede pontificia è ancora vacante e gli Orvietani ne approfittano per ampliare i propri domini.

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Acquapendente viene assediata e le mura della città subiscono gravi danni per l’impiego di «sex hedificia vel macine, que die noctuque projecebant lapides». Le macchine «fatte a Sucano» e protette «dalli pavesieri» e da «edificij di legniame», colpiscono la muraglia «e cosí essendo rovinate parti delle mura, e case, si arrese». Fra i sei trabocchi il cronista Pietro Carcadi annovera come particolarmente potente proprio la Vattelana. Questo trabucco è in azione anche sotto le mura di Bolsena, durante il conclave dal quale sarebbe

A sinistra il trabucco a contrappeso in una xilografia tratta da un’edizione del De re militari libri quatuor di Flavio Vegezio Renato stampata da Christian Wechel nel 1535. Milano, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia «Leonardo da Vinci».

uscito il futuro Bonifacio VIII, incurante della scomunica, fatta in sede vacante, che ha colpito gli Orvietani per l’occupazione di Bolsena e delle terre di Val di Lago. La sera del 28 maggio 1294 l’esercito orvietano cinge d’assedio Bolsena. Collocati tre dei suoi trabocchi sulle alture di Capita maggio

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e del Poggio, comincia a lanciare grosse pietre sugli abitati del castello e del borgo. I mercenari ingaggiati dai Bolsenesi fuggono. I cittadini «si videro perduti». Cosí escono dalle mura con l’intenzione di trattare la resa. I trabucchi, però, continuano «a gettar pietre su quegli sventurati tanto che si diedero a fuggire per scampare i colpi micidiali» di una macchina «che traboccava continuo che si chiamava Vattelana». Tiri continui su mura, case e persone, tanto che «per quel giorno i patti non si poterono fare». L’indomani la città si arrese. Umberto Maiorca

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In alto miniatura raffigurante l’incoronazione di Bonifacio VIII, da un’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

scudiere al seguito. Di nuovo un gruppo di tamburini introduce l’insegna dei Balestrieri, il Capitano dei Balestrieri Avveduti, con lo scudiere, i balestrieri e i pavesieri. Quindi le quadriglie: ronconi, lance taglio e punta, lance a giglio, le insegne dei quartieri. La cromia degli abiti merita un approfondimento. Nel Trecento e nella prima metà del Quattrocento, è particolarmente frequente l’uso di tinte vivaci, spesso accostate a contrasto, in varie forme di disposizione bipartita in senso verticale a scacchi, a righe, a onde e via dicendo. Valletti, trombettieri, porta ceri spiccano nel corteo proprio per i vivaci colori bipartiti. Il colore piú frequente è il rosso scarlatto – tinta per eccellenza dei manti regali e nobili in genere, di quelli dei magistrati e in alcuni casi dei medici –, seguito dal verde intenso, con il quale è spesso accoppiato a contrasto. Apprezzati erano anche il porpora rosato, il vermi-

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tradizioni orvieto A sinistra i vessilli del Comune sfilano sotto il Palazzo del Popolo.

Dove e quando Corteo Storico di Orvieto Corteo delle Dame, 2 giugno piazza Duomo, ore 17,00 Corteo Storico, 3 giugno piazza Capitano del Popoli, ore 10,00 Info tel. 0763 340535; www.corteostoricoorvieto.it; pagina Facebook: Corteo storico Orvieto

glio, il violetto, il pavonazzo, il morello e l’alessandrino (blu-turchese cupo) e il blu-azzurro (il nostro celeste). Il grigio, con tutte le sue varianti, dal grigio cenere al bigio, e i toni del marrone spento, piú o meno chiaro, erano invece i colori degli artigiani dediti ai mestieri, mentre al popolo basso – contadini, muratori, salariati in genere – rimaneva il bianco.

L’autorità del nero

Anche il nero era importante, perché designava una tipologia sociale nobiliare o quantomeno elevata per autorità, anche se generalmente si anteponeva al rosso soprattutto perché era imposto da tutte le leggi sanitarie emanate: la tinta, assai meno costosa, deno-

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tava simbolicamente fermezza, autorità, perseveranza e saldezza di propositi. L’esempio piú eclatante dell’uso del nero nel Corteo Storico di Orvieto è il mantello indossato dal conestabile dei cavalieri, ricamato in seta nei colori bianco, rosso oro e argento. Il Corteo Storico, che sfila soltanto al mattino, nella domenica del Corpus Domini (tra la fine di maggio e l’inizio di giugno), dopo una lunga preparazione dei figuranti, con precisione quasi maniacale per il dettaglio, è composto da soli figuranti uomini, mentre le donne non sono ammesse. Questo perché i personaggi che sono interpretati dai figuranti, ovvero Podestà, Gonfaloniere di Giustizia, Consoli, Capitano del Popolo, rappresentanti delle milizie, nobili, erano tutti rigorosamente di sesso maschile. Alle donne è riservato uno speciale Corteo delle Dame, che sfila il giorno antecedente e che si è costituito nel 1994. Oggi a custodire, valorizzare e promuovere questo eccezionale patrimonio fatto di arte, artigianato, storia, cultura, del saper fare unico e irripetibile, è l’Associazione Lea Pacini. Costituita all’inizio degli anni Novanta, ha ereditato dalla fondatrice la grande passione e la dedizione e il compito di mantenere viva la tradizione del Corteo. Laica, apolitica e senza fini di lucro, l’Associazione è composta, oltre che dall’Assemblea degli iscritti, dal Consiglio di Amministrazione, dal Comitato di Gestione con il suo presidente e dal Collegio dei Decani. Tante persone coinvolte tutto l’anno nell’organizzazione di quell’attesa giornata nella quale Orvieto riscopre se stessa. maggio

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Quei papi sulla rupe di Arnaldo Casali

Fra i numerosi personaggi illustri ai quali ha dato i natali, Orvieto, a oggi, non può vantare alcun pontefice. Tuttavia, le vicende storiche della città umbra si sono ripetutamente legate a quelle dello Stato della Chiesa e piú d’uno dei titolari della cattedra di Pietro ha contribuito ad arricchirne in maniera significativa il patrimonio artistico e architettonico

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a città di Orvieto non ha mai avuto un papa, ma quando sembrò che potesse riuscirvi, diede origine alla piú celebre profezia della storia della Chiesa: un falso cosí autorevole da continuare a essere ritenuto attendibile ancora oggi. Era l’autunno del 1590: in agosto era morto papa Sisto V e, il 27 settembre, lo aveva raggiunto Urbano VII, dopo avere regnato per soli 13 giorni nel pontificato piú breve della storia. Girolamo Simoncelli, da Orvieto, era certo che fosse arrivato il suo momento. D’altra parte, anche lui è detentore di un primato: è il cardinale che ha partecipato a piú conclavi – ben dieci, dal 1555 al 1592 – senza mai essere eletto. Anche i suoi sostenitori erano sicuri della sua elezione: per questo avevano fatto circolare un libretto, attribuito a san Malachia, che conteneva profezie sugli ultimi papi, dall’epoca del vescovo irlandese, morto nel 1148, fino alla fine dei tempi. Quei vaticini vennero pubblicati per la prima volta nel 1595, dal mo-

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naco benedettino Arnold Wyon, ma dovevano in realtà circolare in forma manoscritta già da cinque anni.

Il farmaco di Esculapio

I motti che l’autore delle profezie attribuiva ai papi succedutisi fino al 1590 rendono infatti molto facile l’identificazione del pontefice a cui si riferiscono: per esempio Giulio III, al secolo Giovanni Maria Ciocchi del Monte – nel cui stemma compaiono tre corone di alloro –, viene definito «De corona montana», e Pio IV (Giovanni Angelo dei Medici) «Il farmaco di Esculapio». Piú avanti, invece, i motti diventano vaghi e adattabili praticamente a chiunque. Tuttavia, quello attribuito al successore di Urbano VII risulta quanto mai singolare, perché è l’unico «sbagliato»: recita infatti «Ex antiquitate Urbis», perché Orvieto significa «Urbs Vetus», ovvero «città vecchia». Piú che di una profezia, quindi, si trattava di un auspicio: obiettivo del falso scritto di Malachia era quello di influenzare i cinquantadue cardinali riuniti nel Palazzo Aposto-

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A destra Orvieto. La facciata del Duomo. La prima pietra della grandiosa chiesa fu posata nel 1290, ma il completamento dei lavori si ebbe solo dopo la seconda metà del Cinquecento. Sulle due pagine una veduta panoramica di Orvieto, che ne evidenzia la struttura urbanistica, arroccata su una poderosa rupe di tufo.

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In questa pagina statue in bronzo raffiguranti il leone alato (in alto) e l’aquila, simboli, rispettivamente, degli evangelisti Marco e Giovanni. Le sculture ornano la facciata del Duomo orvietano e vengono attribuite al senese Lorenzo Maitani. 1325-1330. Nella pagina accanto Perugia, piazza del Duomo. Statua in bronzo del pontefice Giulio III, opera di Vincenzo Danti. 1553-1555.

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lico (tra i quali anche nomi celebri, come Federico Borromeo, Francesco Maria Del Monte – protettore di Galileo Galilei e committente di Caravaggio – e Alessandro dei Medici, futuro Leone XI), affinché seguissero il disegno divino già tracciato nel falso vaticinio, eleggendo l’ambizioso Simoncelli, nipote di papa Giulio III, che lo aveva elevato alla porpora ad appena 32 anni e inviato proprio a Orvieto, dapprima come vescovo e poi come governatore. Il nostro, però, aveva un carattere forse troppo eccentrico per il Sacro Collegio: si divertiva, per esempio, a far incendiare i carri di fieno per spaventare i contadini, salvo poi pagare i danni. E cosí i cardinali gli preferirono Niccolò Sfondati, da Sommo Lombardo, sul Ticino. Simoncelli ci riprovò nei due anni seguenti, questa volta senza piú nemmeno l’ausilio della profezia: il cardinale perse per sempre maggio

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Il Palazzo del Popolo, ultimato nei primi anni del Trecento. L’edificio si ispira al modello dei broletti, ma con materiali e decorazioni rielaborati secondo i canoni dell’architettura locale.

l’occasione di agguantare il trono piú alto, e la sua città quello di coronare un lungo idillio con il papato. Sin dall’Alto Medioevo, infatti, dei pontefici Orvieto era stata residenza, sede dell’incoronazione, roccaforte, santuario prediletto per importanti cerimonie e pellegrinaggi. Per essere davvero una città papale le mancava soltanto un titolare della cattedra di Pietro.

La ribellione dei Romani

I buoni rapporti e, soprattutto, la condivisione delle strategie politiche erano cominciati nel 1157, con il riconoscimento del governo locale da parte di Adriano IV, l’unico papa inglese della storia. Questi, all’indomani della sua elezione, nel 1154, si era scontrato con Arnaldo da Brescia, capo della repubblica romana, che non ne aveva riconosciuto la proclamazione. Il pontefice era arrivato a lanciare l’interdetto su Roma la Domenica delle Palme, ottenendo l’esilio di Arnaldo. Successivamente, aveva accettato di incoronare a Roma l’imperatore Federico Barbarossa, in cambio della testa del Bresciano: il prezzo da pagare, però, era stata la rivolta del popolo romano e Adriano si era rifugiato cosí a Orvieto, che si stava allora organizzando come libero Comune. L’investitura firmata nel 1157 rispondeva agli interessi strategici del papato – deciso a riportare all’interno del Patrimonium sancti Petri la città e il suo contado –, ma diede anche nuovi impulsi allo sviluppo e al prestigio del Comune alimentando, al tempo stesso, i mai sopiti contrasti interni tra varie fazioni e famiglie nobili. Il papa che piú di ogni altro ha segnato la storia di Orvieto è però Urbano IV. Francese, fu eletto al termine di uno dei conclavi piú difficili della storia, quello del 1261. Infatti, non riuscendo ad accordarsi, i cardinali affidarono la decisione a due delegati, che scelsero un membro estraneo al collegio: Jacques Pan-

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taléon, infatti, non era cardinale, bensí patriarca di Gerusalemme. Urbano IV non mise mai piede a Roma: trascorse tutto il suo pontificato tra Viterbo (dove si trovava quando fu eletto), Perugia (dove morí e venne sepolto) e Orvieto, dove soggiornò nella tarda estate del 1263, quando fu raggiunto da un prete boemo – Pietro da Praga –, che chiedeva d’essere ricevuto in udienza per riferirgli di un fatto miracoloso.

Il dubbio di Pietro

Il sacerdote stava dicendo messa in S. Cristina, a Bolsena, quando venne assalito dal dubbio sulla reale presenza di Cristo nell’Eucarestia. Durante la consacrazione, però, sentí il pane tra le sue mani diventare un pezzo di carne, da cui cominciò a stillare sangue. Impaurito e confuso, concluse in fretta la cele-

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brazione, avvolse tutto nel corporale di lino usato per la purificazione del calice, e si rifugiò in sacrestia. Per verificare l’accaduto e recuperare le reliquie, Urbano inviò a Bolsena il vescovo di Orvieto Giacomo, accompagnato, secondo la tradizione, dal teologo domenicano Tommaso d’Aquino e dal Francescano Bonaventura da Bagnoregio. Tra l’esultanza generale, il presule tornò dal papa con le reliquie del miracolo, che furono mostrate ai fedeli e deposte nella cattedrale di S. Maria. Meno di un anno piú tardi – l’8 settembre 1264 –, il papa, con la bolla Transiturus de hoc mundo, istituí la solennità del Corpus Domini, che tutta la Chiesa avrebbe dovuto celebrare il giovedí dopo l’ottava di Pentecoste. Il 23 marzo 1281, invece, la città della rupe venne addirittura scelta come sede dell’incoronazione di

Sulle due pagine scene facenti parte del ciclo affrescato da Ugolino di Prete Ilario nella Cappella del Corporale del Duomo di Orvieto: in alto, papa Urbano IV a concilio; a destra, Pietro da Praga celebra la messa di Bolsena in cui si compie il miracolo del Corpus Domini, all’indomani del quale il papa isitituí la celebrazione solenne dell’evento. 1357-1364. maggio

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tradizioni orvieto papa Martino IV, eletto a Viterbo in uno dei conclavi piú discussi di sempre: per eliminare il partito avDidascalia verso, infatti, il re di Francia aveva aliquatur adi odis fatto imprigionare da cittadini vique vero ent qui piú influenti carditerbesi i due doloreium conectu nali italiani, riuscendo cosí a far rehendebis Simon eatur de Brion, il quale eleggere –tendamusam per salvare le apparenze – aveva consent, perspiti scagliato l’interdetto sulla città di conseque nis Viterbo, «colpevole» di avere elimaxim eaquis minato i suoi avversari. Rifiutato earuntia cones (che non avevano aldai Romani apienda. cuna intenzione di sottomettersi al potere francese), Martino si fece incoronare a Orvieto, per poi stabilirsi a Perugia, dove morí nel 1285, lasciando dietro di sé soprattutto il ricordo – immortalato da Dante nella Divina Commedia – di un uomo particolarmente goloso delle anguille di Bolsena.

Cinque anni dopo, per custodire piú adeguatamente l’ostia e il corporale del miracolo eucaristico, il primo papa francescano, Niccolò IV (al secolo Girolamo d’Ascoli), avviò la costruzione del nuovo, grandioso Duomo, affidato probabilmente a uno dei suoi piú stretti collaboratori, Arnolfo di Cambio, che sulla rupe aveva già scolpito il monumento funebre del cardinale De Braye. Decisamente piú conflittuale fu il rapporto di Orvieto con Bonifacio VIII. La città di Orvieto aveva nel frattempo raggiunto una popolazione di 30 000 abitanti, estendendo molto i propri domini e trasformandosi in un’indiscussa potenza militare. Bonifacio non esitò a lanciare scomuniche e interdetti per ridurla all’obbedienza; e vi riuscí: fu nominato Capitano del Popolo, diede inizio alla costruzione del Palazzo Papale e collocò sue statue (oggi custodite nel Museo Civico Archeologico) nei due piú importanti ingressi della città: Porta Maggiore e Porta Postierla.

Papa e mecenate

Quasi due secoli piú tardi, la rupe ricevette un ultimo, importante dono da Giuliano Zanobi dei Medici. Nominato dal cugino Leone X prima vescovo e poi anche governatore di Firenze, fu eletto papa con il nome di Clemente VII nel 1523, a soli 45 anni, e si trovò a dover fronteggiare lo scisma anglicano e il Sacco di Roma. Ma ebbe anche non pochi meriti: approvò l’Ordine dei Cappuccini, affidò a Michelangelo l’affresco della Cappella Sistina, commentò e fece pubblicare tutte le opere di Ippocrate, promosse la teoria Copernicana, fondò l’Università di Granada e sviluppò la Biblioteca Vaticana e la costruzione della basilica di S. Pietro. Nel 1527, a Orvieto, Clemente avviò la costruzione del Pozzo di San Patrizio: quasi un viaggio

metafisico nelle viscere della terra lungo 248 scalini. Il nome, d’altra parte, richiama quello della grotta irlandese dove Cristo avrebbe indicato a san Patrizio la porta del Purgatorio. Le ragioni di Clemente, in realtà, erano assai poco mistiche: reduce dal Sacco di Roma, voleva un pozzo capace di rifornire la città d’acqua in caso di assedio. Alcune curiose coincidenze, però, rendono misterioso il fascino del luogo: durante gli scavi, sono stati infatti ritrovati corredi funerari di tombe etrusche. E le due rampe di scale elicoidali, progettate per la salita e la discesa, riproducono perfettamente, sotto il profilo geometrico, la doppia elica del DNA, il codice della vita, scoperto nel 1951. maggio

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Sulle due pagine il Pozzo di San Patrizio. Realizzata tra il 1527 e il 1537, l’opera venne commissionata da Clemente VII, in modo da garantire l’approvvigionamento idrico di Orvieto in caso di assedio. Nella pagina accanto e in basso, a destra due statue che ritraggono papa Bonifacio VIII. La prima, collocata in origine sulla Porta Maggiore, viene attribuita alla bottega di Ramo di Paganello. 1297. La seconda si trovava invece sulla Porta Postierla. Orvieto, Museo Civico Archeologico.

Qui sopra e a sinistra le due facce di una bulla (sigillo) in piombo di Martino IV, il pontefice che, nel 1281 scelse Orvieto come sede della sua consacrazione. 1281-1285. Cardiff, National Museum of Wales.

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La miscela del diavolo

«Inventata», secondo la tradizione, dal monaco tedesco Berthold Schwarz, la polvere pirica rivoluzionò l’arte della guerra. Non soltanto per la sua proprietà esplodente, ma anche per l’impiego come propulsore dei proietti, che accrebbe in maniera decisiva la potenza delle macchine belliche In alto la piú antica raffigurazione a oggi nota di una bocca da fuoco è questa miniatura, che correda una delle pagine del De Nobilitatibus, Sapientiis, et Prudentiis Regum, trattato scritto dall’erudito inglese

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Walter de Milemete alla fine del 1326. Oxford, Christ Church Library. Nella pagina accanto incisione ottocentesca raffigurante il monaco tedesco Berthold Schwarz che scopre gli effetti della polvere pirica.

di Flavio Russo

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invenzione e, piú ancora, l’adozione propulsiva della polvere pirica costituiscono un punto nodale nella storia della tecnologia, forse equiparabile alla scoperta del fuoco, anche se, in questo caso, non c’è all’origine alcun furto leggendario, come quello di Prometeo, bensí il suggerimento dato dal... demonio al monaco tedesco Berthold Schwarz. Le sperimentazioni del religioso ebbero luogo nella seconda metà del XIV secolo e fecero sí che, per la prima volta, l’uomo potesse disporre in ambito ossidionale di energie di gran lunga superiori e in costante incremento rispetto a quelle fino ad allora impiegate, innescando cosí un simmetrico ingrossamento delle fortificazioni, nel disperato tentativo di impedirne lo smantellamento. L’ingenua contromisura, attuata per quasi due secoli, cessò alla fine del Quattrocento, quando, come scriveva avvilito Francesco di Giorgio Martini nel suo Trattato di architettura civile e militare (1479-1481): «Li moderni ultimamente hanno trovato uno instrumento di tanta violenza, che contra a quello non vale gagliardia, non armi, non scudi, non fortezza di muri, peroché con quello ogni grossa torre in piccolo tempo è necessario si consumi». maggio

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Gli espedienti degli architetti In alto ricostruzione di una primitiva bocca da fuoco basata sul modello che compare nel trattato di Walter de Milemete (vedi a p. 74). In basso, da sinistra illustrazione schematica degli effetti del tiro delle bombarde su diversi tipi di fortificazioni:

1. XIII secolo il tiro, orizzontale, colpisce violentemente la base delle mura di difesa, sgretolandola e compromettendo la resistenza della struttura; 2. XIV secolo la scarpa aggiunta alla fortificazione, grazie alla sua obliquità, respinge il proietto della bombarda;

3. XV secolo l’abbassamento delle fortificazioni e del relativo fossato, unitamente all’enorme spessore raggiunto dalle scarpe, è tale da ridurre enormemente la vulnerabilità delle ultime fortificazioni elaborate nel corso della cosiddetta architettura di transizione.

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Quanto alla violenza distruttiva che le artiglierie avevano ormai acquisito, basti pensare che le loro palle avevano superato la velocità del suono, 340 m/s, come ricordava ancora l’ingegnere senese: «Lo impeto della quale solo a chi con li sensi lo comprende è credibile, perochè piú veloce è el moto della pietra impulsa da quella che del orrendo strepito da quello causato alle urecchie delli circustanti». Di lí a poco fece la sua comparsa un rivoluzionario criterio fortificatorio, la trace italienne, che, nel giro di pochi decenni, rese obsoleti castelli e cerchie turrite.

In principio furono i mortaretti

Quando la bombarda abbia tuonato per la prima volta non risulta dalle cronache e non risalta dagli effetti. Si trattò, verosimilmente, di un investimento ossidionale, ambito in cui la nuova arma, gelosamente tenuta segreta fino al debutto, fece sentire la sua voce. Scarsi dovettero tuttavia essere gli esiti, tanto che la rumorosa manifestazione rimase per molto tempo l’unica apprezzabile differenza tra le macchine d’assedio meccaniche e quelle termiche, che infatti vennero ribattezzate tormenta tonanti. Non è perciò casuale che tra i primi impieghi della polvere pirica, forse nota da secoli, vi sia stata la confezione di mortaretti, ordigni finalizzati a produrre tuoni artificiali. L’opera De mirabilibus mundi, attribuita al vescovo di Ratisbona e poi santo Alberto Magno (1193/1206-1280), contiene una delle prime e attendibili ricette per ottenere la polvere pirica: «Prendi una libra di zolfo, due di carbone di salice, sei di sale della pietra (salnitro), riducili in polvere finissima in un mortaio di pietra, quindi rempine un cartoccio (…) per fare il tuono».

Ruggero Bacone trascrisse la ricetta della polvere pirica in una delle sue opere, ma ne celò l’ingrediente essenziale con un anagramma

Intorno alla metà del XIII secolo anche Ruggero Bacone (1214 circa-post 1292), nell’Epistola De Secretis Operibus Naturae, descrive gli effetti prodotti da una miscela in questi termini: «Esservi miracoli che pur sono effetti naturali, perciocchè si possono generare tuoni e lampi in aria molto piú orribili di quelli operati dalla natura, giacché una piccola quantità acconciamente preparata e del volume di un pollice rumoreggia e lampeggia in modo straordinario». Torna piú esplicitamente sull’argomento anche nell’Opus maius: «Perturbano l’udito in modo, che se operassero di notte e all’improvviso e con certo artifizio, né città, né esercito potrebbero comportarle, niun tuono gli si potrebbe paragonare, e lo spavento da esse prodotto sarebbe tale e tanto da superare di molto quello dei lampi celesti». E piú avanti, per esemplificare quanto descritto, aggiungeva che «se ne aveva un esperimento in quel giuoco puerile che si faceva in molte parti del mondo, formando cioè con pergamena uno strumento della misura di un pollice, il quale sebbene sia per sé medesimo una piccola cosa, nullameno, rompendosi per la violenza di ciò che si dice sal di pietra, genera un rumore tanto orribile da sorpassare il ruggito di un forte tuono, ed una luce tanto splendida da superare un grandissimo lampo». Volendone infine fornire una formula meno generica, senza però metterla troppo agevolmente a disposizione di qualsiasi lettore, la nascose in un anagramma:« Sed tamen salis petrae LURU VOPO VIR CAN UTRIET sulphuris et sic facies tonitrum et coruscationem si scias artificium» (De Secretis). Tra i componenti della miscela, di cui intravedeva le terribili applicazioni, vi era, oltre al salnitro e allo zolfo, la polvere di carbone finemente tritata, svelata dall’anagramma di «LURU VOPO VIR CAN UTRIET» in «CARVONU PULVER TRITO»! Alla metà del Duecento la polvere pirica doveva quindi essere nota, ma questo non significava automaticamente lo sfruttamento propulsivo della sua esplosione, che però non si fece attendere. La possibilità di scagliare un proietto, grazie all’espansione prodotta dai gas di combustione della polvere, si ottenne infatti pochi decenni piú tardi, a partire da un dardo appena piú robusto degli usuali, espulso da una sorta di vaso di bronzo, come ben si può vedere raffigurato in un’edizione manoscritta del De nobilitatibus, sapientiis, et prudentiis regum dell’erudito inglese Walter de Milemete. Di lí a pochi anni si ebbe l’introduzione delle palle di pietra, che divennero i proietti per antonomasia delle artiglierie, le quali, a cominciare dalle piú rozze bombarde, vanno considerate come macchine endotermiche per demolizioni a distanza.

Le «molte macchine» del sultano 3

MEDIOEVO

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Sebbene le menzioni di bombarde utilizzate nel corso degli assedi compaiano fin dagli inizi del XIII secolo, ma sempre indicate come tormenta, non possiamo

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guerra d’assedio/3

Variazioni sul tema In alto miniatura raffigurante l’assedio di un castello, per il quale gli attaccanti si servono di balestre e di bombarde. XV sec. Chantilly, Castello. In basso ricostruzione grafica di una primitiva bombardella, montata su un supporto rudimentale. Inizi del XIV sec.

Qui sopra ricostruzione grafica di un’arcaica bocca da fuoco in bronzo, montata su supporto ruotato. XIV sec.

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In basso ricostruzione grafica di una bocca da fuoco in ferro su affusto ruotato. Inizi del XV sec.


distinguerle dalle piú antiche, meccaniche. Le prime notizie plausibili sull’esistenza di armi da fuoco rimontano al 1284, quando, nei registri angioini si legge di una cedola di consegna di «cannunculos proprojicendo igne silvestro», che risulta di facile interpretazione. Nel mese di marzo del 1306 le cronache riportano che «Il Soldano (Sultano) piantò molte macchine (…) appresso fece accostare alla bocca dei fossi molti bacchieri, assai vicini fra loro (…) e dietro ai bacchieri fece piantare piú carabaghe, che gittavano pietre grosse e spesse, tanto che abbattevano a terra le muraglie colle torri» (Marin Sanudo, Secreta Fidelium Crucis). Una probabile bocca da fuoco è un massiccio vaso in bronzo datato 1322, con anima centrale lunga 740 mm e diametro di 50 mm, provvisto di gioia di bocca e di culatta (termini che indicano altrettanti rinforzi, n.d.r.), nonché di focone (il piccolo foro, praticato nella culatta, attraverso il quale si comunicava il fuoco alla carica di lancio, n.d.r.), pesante 50 kg circa. Il prezioso cimelio, proveniente dal Mantovano, è andato purtroppo disperso nel 1849 e oggi se ne conserva soltanto la riproduzione pubblicata dal capitano d’artiglieria Angelo Angelucci nella preziosa raccolta Documenti inediti per la storia delle armi da fuoco italiane (Torino, 1869), dedicata al principe Eugenio di Savoia Carignano. A ridosso di tale data, si ha non soltanto la certezza dell’esistenza delle bocche da fuoco, ma anche del loro impiego negli investimenti ossidionali per demolire mura e torri. Alla metà del XIV secolo, del resto, Francesco Petrarca scrisse nel I libro del De remediis utriusque fortunae che le bocche da fuoco ormai non si contavano piú: «Habeo machinas et balistas innumeras»! La vera novità consisteva, se mai, nell’energia con cui le bombarde battevano le fortificazioni, essendo stato ben presto messo a punto il tiro teso, che aveva sostituito quello arcuato. I reperti disponibili, infatti, provano che, dopo una serie di pezzi sostanzialmente simili a rozzi mortai – corti di anima e grossi di calibro, e perciò capaci soltanto di lanci fortemente parabolici –, dalla seconda metà del XIV secolo la produzione si orientò verso bocche notevolmente piú lunghe e sottili, in grado di tirare – ad alcune centinaia di metri di distanza – palle di calibro magari piú modesto, ma con traiettoria quasi orizzontale. Tale perfezionamento consentiva impatti quasi perpendicolari, che sono i piú violenti, forieri di esiti devastanti inusitati: interessando la base delle mura, la percussione si rivelava insostenibile per le fortificazioni dell’epoca, che finivano con il crollare verso l’esterno, colmando per giunta il fossato, premessa dell’assalto conclusivo. Fu questa la spiegazione balistica della scarpa, impiegata come primo rimedio sia per incrementare la resistenza passiva delle strutture ostative sia per deviare le traiettorie dalla normale.

MEDIOEVO

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L’architettura di transizione

Assodate l’esistenza delle artiglierie a polvere e la loro crescente violenza balistica, è interessante ricordare che, almeno nella fase iniziale, a costruirle provvedevano i normali fabbri per quelle di ferro e i fonditori di campane per quelle di bronzo. Spesso quegli artefici divenivano anche gli artiglieri che le maneggiavano in qualche assedio, abitualmente al soldo di Comuni in lotta fra loro. In entrambi i casi si trattava di scontri di ampiezza limitata, ma ricchi di insegnamenti, che portarono dapprima alla modifica per ispessimento e abbassamento delle fortificazioni esistenti e poi al loro vistoso ispessimento, al punto da far abbondantemente eccedere i volumi pieni esterni rispetto ai vuoti interni. La gamma dei rimedi applicati progressivamente alle fortificazioni per renderle capaci di sostenere il coevo potenziamento delle bombarde viene ricordata come «architettura di transizione», e si sviluppò fino all’avvento del fronte bastionato, agli inizi del Cinquecento. Ne riassumiamo qui di seguito i suoi capisaldi. I. Abbassamento delle cortine e delle torri, preferibilmente non in assoluto, perché la fortificazione doveva pur sempre conservare la sua emergenza, cosí da poter controllare la zona a essa circostante e garantirsi dalle facili scalate. Pertanto si ottenne aumentando la profondità dei fossati: in sostanza, pur esponendo l’intera opera per una minore superficie fuori terra, il dislivello tra il fondo e gli spalti restò immutato. II. Aumento consistente degli spessori delle cortine e delle torri, che nel tempo divennero i massicci torrioni e le poderose muraglie delle strutture pervenuteci. La concezione passiva restò però vincolata al contrasto netto agli impatti dei proietti non metallici, per cui si rivestirono i loro estradossi con grossi e spessi conci di durissima pietra, che dovevano fungere da corazze capaci di frantumare le palle di pietra. III. Sostituzione, a parità di modalità d’impiego, delle antiche artiglierie neurobalistiche con quelle a polvere, postandole perciò sempre sulla sommità delle strutture, in particolare sulla copertura dei torrioni, detta piazza d’armi. La soluzione si rivelò dal punto di vista balistico estremamente infelice e richiese, per di piú, il rafforzamento delle murature, cosí da poter sopportare le crescenti sollecitazioni. Verso la conclusione della transizione, le artiglierie venivano piazzate nelle basse casematte, recuperando una maggiore efficienza. IV. Sostituzione della fragile merlatura con robusti merloni dal profilo trasversale sfuggente, propriamente detto «balistico», per agevolare la deviazione dei proietti. V. Accrescimento e perfezionamento delle opere antemurali, quali fossati e scarpature, che in maniera identica alla rotondità dei torrioni e ai profili dei merloni, favorivano la deviazione dei proietti. F (3 – continua)

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di Federico Canaccini

Quanto siamo barbari? Germani, Unni, Visigoti, Longobardi... sono nomi ai quali viene tradizionalmente associato il tracollo dell’impero romano. In realtà, queste e altre popolazioni si stanziarono nella Penisola, contribuendo a definire i caratteri della cultura «italiana». Ma vediamo come...

La migrazione di gruppi di Germani, Franchi e Alamanni entro i confini dell’impero romano durante il III sec., immaginata in un’Illustrazione tratta dalla Storia di Roma di Francesco Bertolini. Una forte ondata migratoria si verificò in seguito alla concessione, emanata dall’imperatore Probo, di poter occupare e coltivare terreni agricoli abbandonati in cambio del servizio militare.


Dossier

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a anni, ormai, l’Italia è terra d’approdo di migranti. Molti arrivano via mare, dopo viaggi drammatici, spesso segnati da epiloghi tragici. Di questa fuga da Paesi dilaniati da conflitti, carestie e fanatismi religiosi, all’opinione pubblica arriva perlopiú la parte terminale: lo sbarco, quella che a volte viene definita come «l’invasione». E, di conseguenza, quasi non si contano piú gli slogan che gridano alla «conquista» della Penisola da parte degli immigrati: «Italiani si nasce, non si diventa!» è forse il piú emblematico. Tuttavia, in un momento critico come questo, è facile gridare al nazionalismo, dichiarando minacciata una presunta italianità. Tutto ciò può divenire strumento di propaganda politica, può incitare alla xenofobia, può lanciare messaggi tendenziosi e falsi. Come appunto quello di una presunta «italianità» con radici storiche che si perderebbero in tempi remoti… A quando risalirebbe un momento in cui questo «marchio di genuinità tricolore» non sarebbe ancora stato contaminato da immigrati in grado di alterare, corrompere e, sostanzialmente, cancellare questa originale italianità? Ma esiste, poi, un’italianità? Anche a tale riguardo, la memoria dell’uomo, e di quello italiano in particolare, si rivela corta: prima del 1861, infatti, di «Italia» – intesa come Stato politico – non si dovrebbe parlare, e quindi neppure di «italiani». Addio allora ai vari Leonardo, Raffello e Michelangelo, Vivaldi, Monteverdi e Rossini, Giulio Cesare, Colombo e molti altri: non «italiani», bensí cittadini della Repubblica di Genova, della Serenissima di Venezia, della Repubblica Romana e cosí via, ma non certo dell’Italia, se non come appartenenza geografica. Che l’aria di casa nostra sia buona, è un fatto, ma forse non basta: magari sarà la genetica, si sente talvolta dire. Ma di quali DNA dobbiamo

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La battaglia di Tolbiac, olio su tela di Ary Scheffer. 1837. Versailles, Château de Versailles, Galleria delle battaglie. Clodoveo, re dei Franchi, temendo la sconfitta contro gli Alamanni, invoca l’aiuto del Dio dei cristiani, promettendo di convertirsi se gli concederà la vittoria.

parlare? Facciamo allora un enorme passo indietro, sino all’VIII secolo a.C., per seguire un breve percorso nel tempo e una piccola riflessione.

Radici anatoliche

I Romani dei primi secoli, a cui molti Italiani si sentono idealmente legati, si fusero con popoli italici (Volsci, Falisci, Equi, Osci, Sabini e molti altri) – che comunque i Romani percepivano come stranieri, si badi bene –, ma anche con un popolo che, forse, potrebbe essere emigrato dalla penisola anatolica, l’attuale Turchia: i Tirreni, cioè gli Etruschi. Mi pare dunque possibile affermare che già 2500 anni fa l’originalità italica era ormai compromessa, poiché gli Etruschi, giunti con buona probabilità dall’Asia Minore, una volta sottomessi non furono certo cacciati, ma integrati nei territori della Res publica. Analisi sul DNA di molti Toscani moderni hanno rivelato somiglianze inequivocabili con quello dell’area anatolica. Gli ultimi re di Roma furono etruschi e perfino il nome di Roma sarebbe collegato a origini etrusche: un’ipotesi, infatti, lo vuole derivato dalla radice ru (scorrere) oppure dal vocabolo rumon (fiume). E agli Etruschi si devono molte innovazioni tecniche che oggi consideriamo romane: prima dei Romani, infatti, gli Etruschi costruirono acquedotti per portare acqua nelle città e introdussero l’uso dell’arco e della volta nell’edilizia. La storia si ripete qualche secolo piú tardi, con la sottomissione della Magna Grecia, popolata da coloni provenienti dal Peloponneso. Nel 241 a.C. la Sicilia viene annessa a (segue a p. 87) maggio

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Dossier La battaglia di Adrianopoli Della battaglia che nel 378 oppose Goti e Romani presso Adrianopoli (oggi Edirne, in Turchia), ci ha lasciato un resoconto dettagliato Ammiano Marcellino. Per la sua gravità, la disfatta subita quel giorno da Roma, che vide perire sul campo anche l’imperatore Valente (364-378), trovava paragoni solo con la sconfitta patita contro Annibale a Canne, nel 216 a.C. La rotta dell’esercito romano fu causata dall’assalto improvviso della cavalleria dei Goti, che trova impreparata quella romana e lascia scoperta la fanteria: «Mentre da ogni parte cozzavano le armi e i dardi (…) i nostri, che si ritiravano, si arrestarono fra le grida di molti e la battaglia, crescendo a guisa di fiamma, terrorizzava gli animi dei soldati (…) Il fianco sinistro si avvicinò ai carri (…) ma, abbandonato dalla cavalleria rimanente e incalzato da una moltitudine di nemici, fu sopraffatto e distrutto come se una diga possente gli si fosse abbattuta sopra. I fanti restarono scoperti in gruppi cosí stipati gli uni sugli altri, che difficilmente potevano sguainare le spade o tirare indietro le braccia. (…) Quando i barbari, riversatisi in immense Battaglia di Adrianopoli

M A RE DE L N O RD

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aliquatur adi odis PITTI que vero ent qui doloreium conectu SCOTIrehendebis eatur tendamusam York Ibernia consent, perspiti conseque nisBRITANNI maxim eaquis ANGLI earuntia cones SASSONI x Londra apienda. sse We JUTI Sussex

ATLANTICO

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Cavalleria gotica Carri

OCEANO

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Fanteria romana Cavalleria romana Fanteria gotica

Didascalia INVASIONI INVASIONI BARBARICHE BARBARICHE E REGNI E REGNI ROMANO ROMANO - -

schiere, calpestarono cavalli e uomini, non era possibile in mezzo alla calca trovare spazio per ritirarsi e la ressa toglieva ogni possibilità di fuga. I nostri, dimostrando disprezzo della morte, pur nell’estremo pericolo, riprese le spade, fecero a pezzi quanti incontravano e con reciproci colpi di scure si spezzavano gli elmi e le loriche. Si poteva vedere un barbaro, superbo per la sua ferocia e con le gote contratte in un urlo di dolore, il quale, amputata la destra da un colpo di spada o ferito a un fianco, volgeva minacciosamente gli occhi feroci, ormai prossimo alla morte. (…) Tutto era insozzato

Cartagine

A f r ic a

A sinistra schema del dispiegamento e dei movimenti dell’esercito dell’imperatore Valente e delle truppe del re goto Fritigerno, durante la battaglia combattuta il 9 agosto 378 d.C. ad Adrianopoli.

maggio

MEDIOEVO


- GERMANICI GERMANICI(IV (IV- VII - VIIsecolo) secolo)

Principali migrazioni dei popoli barbari

Situazione politica all’anno 476 JUTI

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Alani, Vandali e Suebi

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Ostrogoti Visigoti

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ANGLI NI SO S A S Runibergun

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Aquileia

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Razzie e spedizioni di Vandali marittime dei Vandali Romano alal tempo tempo Impero romano di Diocleziano (284-305) dell’Impero Divisione dell’impero da parte di Teodosio (395)

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da nero sangue e, dovunque si volgesse lo sguardo, s’incontravano mucchi di uccisi e si calpestavano senz’alcun riguardo corpi privi di vita. (…) Cosí i barbari, spirando furore dagli occhi, inseguivano i nostri che erano storditi perché il calore del sangue veniva meno nelle vene. (…) A queste perdite, cui mai si sarebbe potuto rimediare e che costarono care allo Stato romano, pose fine la notte non illuminata dalla luna. (…) Al primo scendere delle tenebre, l’imperatore (Valente, n.d.r.) cadde fra i soldati colpito da una freccia e subito spirò» (Res Gestae, XXXI, 13; traduzione di Antonio Selem).

MEDIOEVO

A

Trebisonda

In alto e a destra medaglione in oro di Valente. 375-78 d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Al dritto (qui accanto), l’effigie dell’imperatore; al rovescio, ancora Valente, a cavallo, di fronte al quale è una donna dalla corona turrita, prosternata, che sorregge una fiaccola (forse una personificazione dell’Oriente); in esergo, una figura distesa (forse una personificazione di Antiochia). L’imperatore trovò la morte nella battaglia di Adrianopoli, colpito da una freccia.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis LIMES DELLA GERMANIA INFERIORE que veroIL ent qui Fortezze doloreium conectulegionarie (colonie o municipi) rehendebisCittà eatur Capitale di civitas tendamusam Forte ausiliario consent, perspiti Forte della flotta conseque nis Accampamento da marcia maxim eaquis Confine delle province romane earuntia cones Limes germanico apienda. Strada romana

Flevo Lacus (Lago di IJsselmeer)

MARE FRISICUM (Mare del Nord)

Flevum (Velsen)

Lugdunum Batavorum (Katwijk-Brittemburg)

Praetorium Agrippinae (Valkenburg)

Albaniana (Alphen aan den Rijn)

Ermelo

Traiectum (Ulrecht)

Matilo (Leiden-Roomburg)

Carvo(ne) (Kesteren) Castra Herculis Mannaricium (Arnhem-Meinerswijk) (Maurik)

Nigrum Pullum (Alphen-Zwammerdam) Forum Hadriani

Laur(i)um (Woerden)

Helinio (Oosvoorne) GoedereedeOude Wereld

Fectium (Vechten) Levefanum (Rijswijk)

Grinnes Kessel (Maasdriel-Rossum)

DuivenLoowaard

Forti

ULPIA NOVIOMAGUS BATAVORUM (Nijmegen) Burginatium Ceuclum (Kalkar-Altkalcar) (Cuijk) Harenatium (Kleve-Rindern)

Germania

Strada romana (presunta o collegamenti locali)

Carvivum (Herwen-De Bijland)

Holterhausen Haltern

Germania

CASTRA VETERA TRICENSIMAE (Xanten)

Ruhr

VETERA I e II

Walcheren De Roompot

Asciburgium (Moers-Asberg)

Inferiore

Gelduba (Krefeld-Gellep) Roermond

Oberraden

Lippe

Rheinhausen (Werthausen)

Magna

NOVAESIUM (Neuss)

Aardenberg

Schelde

Maldegem

Tournai

Belgica

Aduatuca Tungrorum (Tongeren)

Corivallum (Heerlen) Traiectum (Maastricht) Aquae Granni (Aachen)

APUD ARAM UBIORUM Tiberiacum Jülich (Ziewerich) (Iuliacum) Tolbiacum (Zülpich) BONNA (Bonn)

Icorigoium (Jünkerath)

COLONIA CLAUDIA ARA AGRIPPINENSIUM (Colonia) (Köln-Deutz) Sieg

Rigomagus (Remagen)

Arras

Rheinbrohl

Cambrai

Beda (Bitburg)

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Antunacum (Andernach) Bagacum (Bavay)

Niederbieber Bendorf Niederberg

Heddesdorf Confluentes (Coblenza) Boudobriga (Boppard)

Arzbach Hunzel Ems Marienfels Holzhausen

Roma lascia la Britannia I fatti dell’inverno 406-407, con il crollo del limes renano, avevano posto la Britannia in una scomoda posizione di isolamento. Secondo lo storico Zosimo nel 409 apparve chiaro che, di fronte alle scorrerie dei Sassoni sulle coste britanniche, il governo romano non era in grado di offrire alcuna efficace protezione. Le truppe romane presenti nell’isola furono richiamate sul continente per fronteggiare la drammatica situazione della Gallia, lasciando le popolazioni locali indifese. In queste condizioni, esse avrebbero organizzato In alto carta del limes dell’impero romano nella Germania Inferiore, con i principali stanziamenti.

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In alto Parco archeologico di Xanten (Germania). La ricostruzione delle mura di cinta e di una torre della città romana di Colonia Ulpia Traiana, i cui resti sono stati individuati nei pressi dell’odierno centro abitato. A sinistra dittico in avorio del senatore Flavio Anicio Petronio Probo con raffigurato Onorio, primo imperatore romano d’Occidente dal 395 al 423 d.C. 406 d.C. circa. Aosta, Museo del Tesoro della Cattedrale.

Nella pagina accanto resti del forte romano di Portus Adurni, nei pressi dell’odierna Portchester (Hampshire, Inghilterra), costruito nel III sec. per prevenire possibili incursioni dei Sassoni.

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un’autonoma resistenza ai Sassoni che, nello stesso anno 409, sarebbe stata avallata dall’imperatore Onorio, con una lettera alle popolazioni britanniche nella quale si riconosceva l’incapacità di Roma a provvedere alla protezione dell’isola. Alcuni storici ritengono però che il distacco da Roma si sia consumato in tempi piú lunghi, giungendo all’epilogo definitivo solo alla metà del V secolo, quando si dissolse definitivamente il controllo imperiale sulla Gallia del Nord e si accentuò la pressione sulla Britannia dei Sassoni e degli Angli, che costrinse le locali popolazioni celtiche a ripiegare nelle regioni occidentali dell’isola.

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Roma: un’isola popolata, dunque, da «immigrati» greci! E una sorte analoga tocca alla Pianura Padana, popolata da altri barbari: i Galli. Tra il 200 e il 190 a.C., la Gallia Cisalpina diventa parte della Res publica, annettendo quei Galli che, assieme ad Annibale, avevano dato filo da torcere a Roma sul Lago Trasimeno o nella terribile giornata di Canne. Dunque, l’Italia era unita, sia geograficamente che politicamente, ma già era popolata da una mescolanza di popolazioni, persino non italiche.

Diritto di romanità

Nel 123 a.C. Caio Sempronio Gracco propose di concedere il diritto di cittadinanza ai confederati italici e i diritti civili e politici, invece, ai soli popoli latini. La proposta fu sentita come talmente esorbitante che scatenò enormi proteste del popolo e dei senatori, i quali reclamavano una sorta di diritto di romanità. I Gracchi ripararono sull’Aventino, il Senato dichiarò lo stato d’assedio e, nel 121 a.C., si giunse alla conclusione, con la morte di Caio Gracco. Essere latini (figuriamoci italici!) non era evidentemente abbastanza per essere... Romani. Se non altro, nei secoli dell’impero, la Penisola non subí nuove on-

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Dossier date migratorie di massa. Ma sarà utile ricordare che alcuni tra i piú grandi imperatori romani furono di origini non italiche: Traiano era spagnolo, Settimio Severo era di Leptis Magna, dunque un immigrato africano, e cosí suo figlio Caracalla. Costui, nel 212 d.C., con la Constitutio antoniniana, conferí la piena cittadinanza romana a tutti i provinciali liberi, dalla Spagna all’Arabia, dalla Britannia alla Libia. Come considerare dunque, d’ora in avanti, questi nuovi cittadini: Romani o non Romani? Ripensiamo alla sorte del povero Caio Gracco, che chiedeva la cittadinanza per i soli confederati italici. Si susseguono poi sul trono imperiale imperatori immigrati da tutte le province, come si evince dai loro epiteti: Massimino il Trace, Filippo l’Arabo (figlio di uno... sceicco), Decio, originario dell’Illiria, Treboniano Gallo e molti altri tra cui Diocleziano, nato in Dalmazia e che, non a caso, costruí la propria residenzafortezza a Spalato.

Nulla è eterno

Ma c’è un momento particolarmente drammatico nella storia della penisola italiana che ha lasciato nella memoria una traccia dolorosa e indelebile: le cosiddette invasioni barbariche. Aveva ragione l’ignota mano che incise a Pompei la seguente poesia: «Nulla può durare in eterno. Il sole che già brillò torna a tuffarsi nell’Oceano, decresce la Luna che già fu piena, la violenza dei venti spesso diventa una brezza leggera». Cosí un altro anonimo descrisse la situazione dell’impero nella seconda metà del IV secolo: «L’impero romano è premuto da ogni lato dalle urla furibonde delle tribú dei barbari, la cui astuzia minaccia le sue frontiere da ogni fronte». E dopo un trentennio la situazione non era affatto migliorata, se san Girolamo

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A destra la Lamina di Agilulfo, manufatto in bronzo dorato in cui si fondono elementi «barbarici» con elementi tipici della cultura romano-bizantina. Firenze, Museo Nazionale di Bargello. Identificato da un’iscrizione come Agilulfo, il sovrano siede in trono, circondato da armati, da due Vittorie alate e da personaggi abbigliati in costume germanico, ma che recano tiare sormontate da croci e si inginocchiano di fronte a lui come se fosse l’imperatore. In basso umbone di scudo in bronzo con guarnizioni in lamina d’oro. Produzione longobarda, VII sec. Brescia, Museo di Santa Giulia.

in un’epistola scriveva: «Non posso neppure elencare senza orrore tutte le calamità che attanagliano il nostro tempo. Da venti e piú anni, da Costantinopoli alle Alpi Giulie, scorre sangue romano. Le province dei Balcani e dell’Europa centrale sono in preda ai Goti, ai Sarmati, ai Quadi, agli Alani, agli Unni, ai Vandali, ai Marcomanni che le devastano, le straziano e le depredano». La relativa quiete del III secolo, garantita dalle riforme del succitato Diocleziano, da alcune vittorie militari e dalla scelta di abbandonare alcune aree seriamente minacciate (parte dell’Africa, la Dacia, gli Agri

Decumati, comprendenti i territori a est del Reno, a nord del Danubio e a sud del Meno) fu, in realtà, solo il segnale di decisioni ben piú serie e drastiche prese nel corso del IV secolo e sancite nel 407 dalla scelta di Costantino III di abbandonare definitivamente la provincia di Britannia, lasciando che i Bretoni «vivessero a modo loro, senza seguire il costume romano» e si difendessero dalle minacce ormai insostenibili dei Pitti, dei Sassoni e degli Scoti: le truppe furono probabilmente richieste dal generale Stilicone in Gallia per difendere i territori continentali dell’impero da altri popoli barbarici. Da quando, nel 376, l’intero popolo dei Goti Tervingi, detti Visigoti o Goti dell’Ovest, aveva superato il Danubio – congelatosi durante un inverno eccezionalmente rigido – la Macedonia e i Balcani erano divenuti teatro di scorrerie e tappa di maggio

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un piú lungo viaggio che, attraverso l’Italia, li avrebbe portati a stabilirsi nelle ricche province della Gallia Narbonense e poi nella Spagna. Con percorsi diversi, altri popoli devastarono le altre province dell’impero: la Penisola Iberica era caduta sotto il controllo dei Suebi, degli Alani e di gruppi di Vandali, poi migrati in Africa dove insediarono il loro regno, con a capo il loro carismatico sovrano Genserico. La Gallia cadde sotto il controllo dei Burgundi, con a capo Gundahar (il Gunther della saga nibelungica), degli Alemanni e dei Franchi. L’Italia stessa e persino Roma caddero sotto i colpi degli Ostrogoti e il caput mundi dovette subire, piú di una volta, l’onta del saccheggio (nel 410 con Alarico e nel 455 con Genserico; vedi box a p. 90). Questa volta l’«italianità» venne davvero compromessa in modo irreversibile: se alcuni popoli, come i Vandali, gli Unni o i Visigoti, si limitarono a saccheggiare e devastare il Paese, altri, come gli Ostrogoti o i Longobardi, si

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maggio

stanziarono permanentemente nella Penisola, creando regni e modificando per piú versi lingua, usi e costumi. Ecco dunque le ragioni della domanda che fa da titolo a questo Dossier: «Quanto siamo barbari?».

Un mutamento epocale

La riflessione sull’«imbarbarimento» della Penisola inizia dall’italiano, primo erede del latino, la lingua dei Romani, ma su cui si sono via via aggiunti termini di origine barbarica, che fanno ormai parte della nostra quotidianità. Purtroppo, agli enormi mutamenti che si devono assegnare a questi secoli altomedievali, fa eco la scarsità di fonti in grado di farci comprendere come si giunse a una delle piú grandi trasformazioni delle strutture della lingua latina. Tra il III e il IX secolo, infatti, giunsero, in modo diretto e indiretto, infiltrazioni ma anche autentici squilibri linguistici, dovuti alle pressioni dei popoli germanici. La lingua fu alterata dall’arrivo di singoli ter-

mini di origine germanica, via via entrati nell’uso quotidiano, fino ad alterazioni ben piú sostanziali, come le istituzioni politiche di veri e propri regni romano-barbarici. La storiografia italiana ha parlato a lungo di «invasioni barbariche», sottolineando il fatto che i Germani avrebbero, sostanzialmente, «ucciso» l’impero romano. Gli storici inglesi, tedeschi e francesi, invece, hanno parlato di «migrazioni di popoli germanici», il cui esito sarebbe stato l’insediamento in varie aree di un impero ormai in decadenza e, paradossalmente, rivitalizzato da sangue fresco, dalle popolazioni nuove giunte da terre poste oltre il limes. Un ragionamento analogo vale per la storia della lingua. Partendo dall’assunto che la lingua è un’entità viva, in continua mutazione (chi mai, per esempio, avrebbe usato vent’anni fa il verbo chattare?), come interpretare la trasformazione radicale della lingua latina alla fine dell’impero romano? Quale (segue a p. 92)

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Dossier Il sacco di Roma Del sacco di Roma per mano di Alarico (410) restano alcuni resoconti che testimoniano dell’alternanza di ferocia e quasi di timore reverenziale mostrato dai Visigoti al momento di penetrare nella città eterna e abbandonarsi al saccheggio. Lo storico pagano Zosimo accentua i toni dell’apprensione dei convulsi momenti antecedenti l’ingresso dei barbari in città: «Alarico stette ad ascoltare le parole degli ambasciatori inviati da Roma e quando sentí che il popolo maneggiava le armi ed era ormai pronto alla guerra disse: “L’erba folta si taglia meglio di quella rada”, e pronunciando quella frase scoppiò in una grande risata all’indirizzo degli ambasciatori. Quando si misero a parlare della pace usò parole che andavano al di là di ogni arroganza tipica dei barbari; diceva infatti che non avrebbe rinunciato all’assedio se non avesse preso tutto l’oro e l’argento della città e inoltre tutte le suppellettili che trovava e gli schiavi barbari. A uno degli ambasciatori che gli faceva osservare: “Se tu prendessi tutto questo, che cosa rimarrebbe alla città?”, egli rispose: “Le vite umane”.

401-402 d.C. I invasione dei Visigoti Milano

Concordia

Marzo 402

Pollenzo 6 aprile 402

Emona

Aquileia Verona

Pavia

Estate 402

Bologna

Ravenna

Firenze

Roma

Le direttrici delle invasioni in Italia dei Visigoti di Alarico e degli Ostrogoti di Radagaiso.

d.c. 406401-102 d.C. Invasione degli Ostrogoti Prima invasione dei Visigoti di Alarico Milano Verona Pavia

Ricevuta questa risposta, gli ambasciatori chiesero di poter consultare i cittadini per decidere cosa si dovesse fare. (…) Disperando di tutte le risorse che danno forza agli uomini, si ricordarono degli aiuti che un tempo la città aveva ricevuto in situazioni critiche e dei quali erano stati privati dopo aver trascurato i riti tradizionali. (…) Pompeiano, prefetto della città, fu convinto dell’utilità delle cerimonie. Ma poiché credeva alla religione dominante e voleva fare con maggior sicurezza quello che desiderava, riferí ogni cosa a Innocenzo, vescovo della città. Costui, anteponendo la difesa di Roma alla propria fede, lasciò che celebrassero di nascosto le cerimonie che conoscevano». Compiuti i riti da parte di sacerdoti etruschi, si ripresero le trattative con i Goti e si pattuí la consegna agli assedianti di 5000 libbre d’oro, 30 000 d’argento, 4000 tuniche di seta, 3000 pelli scarlatte e 3000 libbre di pepe. Il problema fu trovare in Roma quanto richiesto da Alarico, poiché si sospettava con buone ragioni che molti fra i Romani piú ricchi avessero nascosto parte delle proprie ricchezze. La pubblica amministrazione dovette perciò umiliarsi a procedere alla fusione di alcune statue d’oro e d’argento che adornavano i monumenti. Alarico, che in realtà sembrava piuttosto riluttante al saccheggio, concesse ai Romani tre giorni di mercato per procedere a raggranellare le risorse per pagare il riscatto richiesto. Intanto continuarono a lungo le trattative anche con Ravenna, e solo dopo l’ennesimo insuccesso di un tentativo di composizione diplomatica della crisi Alarico forzò la situazione, ordinando il sacco di Roma. La presenza dei barbari in città si limitò a tre giorni, perché Alarico temeva l’arrivo di truppe imperiali, e i danni materiali furono perciò relativamente limitati.

Aquileia

408-412 d.C. II invasione dei Visigoti Milano

Verona

Pavia

Bologna Ravenna Fiesole

Bologna Firenze

Concordia

Emona

Aquileia

Ravenna

3 agosto 406

Roma

Agosto 410

Roma

90

406d.c.

408-412d.c.

Invasione degli Ostrogoti di Radagaiso

Seconda invasione dei Visigoti di Alarico

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Il sacco di Roma da parte dei barbari, illustrazione di Joseph-Noel Sylvestre. 1890. Sète, Musée Paul Valéry. Nel 410 d.C. i Visigoti di Alarico saccheggiarono Roma per tre giorni e l’evento suscitò un’enorme impressione.


Dossier ruolo hanno avuto le popolazioni germaniche su questo processo? A loro si deve l’introduzione di alcune centinaia di parole nuove, accolte dalla popolazione romana, sia come nomi comuni sia come nomi personali e toponimi. Non furono invece particolarmente responsabili delle trasformazioni delle strutture linguistiche, anche perché

il numero dei popoli barbarici che si susseguirono sul territorio italico costituí certamente un elemento rilevante, ma non superò mai, di fatto, le poche decine di migliaia di persone, risultando dunque non particolarmente significativo dal punto di vista demografico. Dalle stime elaborate dagli storici, sulla scorta delle fonti giunte

Nella pagina accanto cartina dell’assetto geopolitico dell’Italia nei duecento anni in cui i suoi territori furono quasi interamente controllati dai Longobardi, che strapparono ai Bizantini anche la Pentapoli, la provincia marittima comprendente le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona, che aveva un ruolo cruciale nel garantire il collegamento fra Ravenna e Roma.

UN VILLAGGIO E LA SUA STORIA

Scavi condotti dall’Università di Siena sulla collina di Poggio Imperiale, nel territorio di Poggibonsi (Siena), hanno riportato alla luce i resti di un insediamento sorto alla metà del V secolo, quando, nei pressi di una grande calcara (le fornaci nelle quali si produceva la calce, n.d.r.) furono realizzate cinque abitazioni monovano a pianta rettangolare, con elevati in semplice terra. Alla fine del VI secolo, venne poi fondato un villaggio costituito da capanne e difeso da una palizzata lignea. Solo in età carolingia l’insediamento si organizzò come una vera e propria curtis (termine che, nell’economia agraria dell’Alto Medioevo, designa un fondo dominante da cui ne dipendevano altri, n.d.r.), con una grande costruzione al centro di proprietà della famiglia dominante (una long house, letteralmente «casa lunga») e strutture funzionali alle attività agricole dell’azienda come il macello, il laboratorio artigiano e il granaio. La fase longobarda Il disegno a sinistra ricostruisce il villaggio medievale di Poggibonsi (Siena), cosí come doveva apparire tra l’VIII e gli inizi del IX secolo. Alle capanne circolari dotate di recinti, steccati e annessi, costruite a partire dalla fine del VI secolo, si affianca (sulla sinistra) un raggruppamento di sei edifici intorno a una piccola corte, in parte cinta da una bassa palizzata e costeggiata da sentieri in terra battuta, indice di una gerarchizzazione sociale.

La fase carolingia Nel IX-X secolo l’abitato si è trasformato in una curtis, un grande villaggio-azienda rurale (disegno a sinistra). Nei disegni a destra, assonometrie ricostruttive della residenza padronale, intorno alla quale si organizzava l’intero insediamento.

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Martinengo Brescia

Olcenengo

Milano

Vidalengo

Torino

Pavia

Murisengo

Gottolengo

502

CONQUISTE E RICONQUISTE Genova G DEI LONGOBARDI

Conquiste del VII secolo (Agilulfo 590-616; Rotari 636-652; Grimoaldo 662-671)

Pozzolengo Goito Rovigo

603

Marengo

Conquiste iniziali (568-590)

Godego

Parma Ravenna

Bologna

643

Pe Pisa

nt

Firenze

ap o

li

Rimini Ancona

Territori contesi fra Longobardi e Bizantini Conquiste al tempo di Liutprando (712-744) Conquiste al tempo di Astolfo (749-756)

644

Dominio bizantino nel 774

Ducato

Fermo

di Spoleto

640 circa Spoleto

605

VeneziaConfini attuali

650 circa Roma

toponomastica

Dimmi come ti chiami e ti dirò perché Piú di una località italiana testimonia la presenza barbarica nella nostra Penisola. Sono di origine gotica i nomi delle città di Goito (Mantova), Godego (Treviso) e Gottolengo (Brescia), che sono i piú palesi. Ma molti altri toponimi sono legati, in modo piú nascosto, a origini gotiche: Rovigo, per esempio, deriva da Hrotheigs, che significa «vittorioso». Molti nomi di paesi e città dell’Italia settentrionale, terminano in –engo, una spia toponomastica per le località di origine longobarda. Si possono suddividere in tre grandi gruppi, distribuiti nel Monferrato, nel Bergamasco e nel Cremonese.

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Cagliari

Ducato romano

Benevento

Du di

Ecco allora Murisengo e Marengo (Alessandria), Olcenengo (Vercelli), Vidalengo e Martinengo Napoli (Bergamo), Pozzolengo (Brescia) e Romanengo Salerno (Cremona), una costellazione di luoghi che, non a caso, ha al centro Pavia, capitale del Regno longobardo. Altre 645 circa località legate ai Longobardi sono le numerose Fara, Sala, Braida o Brera, e ancora i vari Caggio (Gaggio e Cafaggio) e Gualdo, ma anche i molti toponimi legati al nome stesso del popolo longobardo, come Campolombardo, Lombardelli e, naturalmente, quello di una delle zone piú influenzate dalla loro presenza, la Lombardia.

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Dossier Sempre armati, ma non solo per combattere

1

Lo status symbol del guerriero longobardo era lo scramasax, un coltellaccio multiuso a filo unico, lungo una quarantina di centimetri (ma ne sono stati rinvenuti anche lunghi 80) adatto alla caccia e ai combattimenti corpo a corpo a cavallo. Era portato sospeso alla cintura, al centro, anteriormente, o sul lato destro; sull’esterno del fodero, a volte, era inserito un coltellino di «servizio». Gli arimanni, letteralmente «uomini dell’esercito» – i soli ad avere il diritto di portare le armi – possedevano inoltre una spada a doppio taglio, lunga circa 90 cm, portata sulla sinistra e fissata alla cintura grazie a un elaborato sistema di sospensione che impediva l’intralcio del passo. Il fodero era in legno rivestito di pelle, a volte con l’interno coperto di pelliccia. L’impugnatura poteva essere semplicemente in legno oppure elaborata, in bronzo e corno, e presentare come inserto due anelli di metallo concatenati, simbolo della dedizione al re o al duca. La cintura, di cuoio, era ricca di pendagli con le estremità guarnite da puntalini metallici finemente decorati a sbalzo o in agemina, tecnica che prevedeva l’incisione del motivo sul metallo e poi il riempimento del «vuoto» con argento fuso o ribattuto. Lo scudo era tondo, concavo e non piatto, di legno di pioppo e ricoperto di cuoio decorato con raffigurazioni di animali

L’armamento tipico di un guerriero longobardo

1. ELMO lamellare, con paraguance e nasale in metallo, dalla necropoli di Niederstotzingen. VI sec. Württemberg, Museo.

3

2 (illustrazione di Cristiano Brandolini, © Branart)

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o simboli geometrici. Aveva un diametro di circa 80 cm e un umbone centrale di ferro fissato da 5 borchie: quando non serviva, era portato a tracolla sulle spalle. Dal contatto con le popolazioni orientali i Longobardi «importarono» l’uso dell’elmo e della corazza a lamelle. Il primo era costituito dall’assemblaggio di lamine metalliche o di cuoio tenute assieme da lacci, con due paraguance, chiuso al centro da un nasale di metallo e sormontato da un pennacchio; la seconda era formata da lamelle di metallo o di cuoio bollito cucite a fasce orizzontali, che la rendevano resistente, adattabile ai movimenti ed estremamente facile da indossare in caso di necessità. Quando non serviva, era arrotolata e appesa alla sella del cavallo, che i Longobardi montavano facilmente grazie all’uso delle staffe, mutuate dalle genti delle steppe insieme all’arco ricurvo composito. Le corde erano ricavate da fibre di lino, tendini o crini di cavallo. Grazie all’anima centrale in legno, al ventre in stecche di corno e al dorso in tendine, l’arco era corto e leggero e la geometria dei flettenti garantiva una gittata lunga, grande precisione e notevole rapidità d’azione. Un posto importante nell’armamento era occupato infine dalla lancia, lunga almeno due metri e con la punta di ferro a foglia d’alloro, e dall’ascia, leggera e maneggevole, usata in duello oppure lanciata a distanza: la testa presentava una sezione a cuneo e un caratteristico profilo «barbuto».

2. UMBONE di scudo in bronzo dorato decorato con scena di battaglia, dalla tomba 1 di Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.

3. SPATHA di epoca longobarda. Erba, Museo Civico Archeologico. 4. CUSPIDE di lancia in ferro, da Benevento, importante ducato longobardo nel meridione d’Italia. VI-VII sec. Benevento, Museo del Sannio.

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Pregiudizi al contrario

...solo con mutande pulite Agli occhi dei Germani dovette risultare disdicevole il fatto che i Romani non utilizzassero con frequenza i «femoralia», le nostre «mutande», indumento tipico delle popolazioni barbariche e invece osteggiato dagli abitanti dell’impero. Nella sua Historia Langobardorum, Paolo Diacono racconta un divertente episodio riguardante Alahis, duca di Trento, uomo particolarmente iniquo e che aveva in odio chierici e preti. Dopo aver occupato abusivamente il palazzo di Ticino, il vescovo di Pavia avrebbe inviato al duca un suo ambasciatore, il diacono Tommaso. Fu annunciato ad Alahis che il diacono stava fuori della porta, recando la benedizione del presule. Alahis replicò che lo avrebbe fatto entrare solo se «munda femoralia habet», cioè «solo se avesse mutande pulite», mostrando questa volta il pregiudizio dei «barbari» nei confronti dei «Romani». Il diacono rispose che erano pulite e fresche di bucato (lota); al che, stizzito, il duca chiese se fosse pulito l’animo di chi indossava quelle mutande. Sapientemente il chierico rispose: «Dio solo può trovare in me motivo di biasimo per queste cose; lui non può in alcun modo». sino a noi, è emerso che i gruppi di popolazioni germaniche che schiacciarono le armate imperiali non erano particolarmente numerosi. Le cifre si aggirano tra i 10 000 e i 30 000 maschi adulti per ciascuna popolazione. Gli Alamanni che combatterono ad Argentoratum nel 357, per esempio, dovevano aggirarsi attorno ai 25 000 uomini. L’esercito che sconfisse Valente ad Adrianopoli, nel 378, era composto da circa 20 000 Ostrogoti

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Dossier La praticità innanzitutto «Si scoprivano la fronte radendosi tutt’intorno fino alla nuca e i capelli erano divisi da una scriminatura in due bande che cadevano ai lati fino alla bocca. I loro vestiti erano piuttosto ampi, fatti per la piú parte di lino, come sono soliti portarli gli anglosassoni, e ornati di balze piú larghe e intessuti di vari colori. Portavano inoltre calzari aperti fino alla punta del pollice e fermati da lacci di cuoio intrecciati. In seguito cominciarono a portare le uose, sulle quali, andando a cavallo, mettevano gambali rossastri di lana: usanza questa che avevano derivato dai Romani». L’abbigliamento longobardo, come testimonia Paolo Diacono e come conferma l’iconografia che compare su monete, bassorilievi e anelli sigillo, era tipico di popoli abituati a passare gran parte del tempo all’aperto, spesso in condizioni climatiche difficili, e quindi improntato alla comodità. Il capo «base» era la casacca di lino lunga fino al ginocchio, sormontata da un’altra casacca piú corta con

le maniche, la base e l’apertura lungo il collo decorate con passamanerie a motivi geometrici, spesso di colori vivaci e realizzate con la tessitura a tavolette. Per personaggi particolarmente eminenti tali bordure potevano essere anche in oro. Per proteggersi dal freddo, portavano gilet di pelle o pelliccia senza maniche, oppure ampi mantelli fermati da fibule. Le gambe erano coperte da brache di lino e fasce di tessuto avvolte intorno agli arti, oppure ghette in feltro o lana grezza, il tutto fermato da lacci di cuoio. Ai piedi gli arimanni calzavano stivaletti di cuoio alti fino alle caviglie assicurati per mezzo di lacci e stringhe, mentre i meno abbienti si accontentavano di semplici zoccoli di legno o calzari bassi in cuoio, a volte aperti sul davanti lasciando scoperte le dita dei piedi. Appesa alla cintura, una bisaccia conteneva l’acciarino, la pietra focaia e funghi essiccati che fungevano da esca per accendere il fuoco.

Oro, pietre dure a pasta vitrea

1. FIBULE a «S» con inserti in pasta vitrea, dalla necropoli longobarda di Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.

2. FIBULA a disco con gemma incastonata, dalla necropoli longobarda di Castel Trosino. VI-VII sec. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo.

3. GUARNIZIONI DI CINTURA di produzione longobarda. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Le cinture, utilizzate per la sospensione delle armi, erano solitamente ornate con guarnizioni metalliche realizzate a intaglio a motivi zoomorfi, vegetali e geometrici.

4. ORECCHINI a globetti lavorati in filigrana e inseriti in anelli, di tipica produzione longobarda. Trento, Castello del Buonconsiglio.

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L’abbigliamento femminile aveva come base un’ampia tunica lunga alla caviglia, sormontata da una mantellina aperta sul davanti e fermata sul petto con l’ausilio di fibule di vari tipi e dimensioni: dalle classiche a S a quelle a disco, mutuate dall’uso bizantino e con vivaci decorazioni smaltate cloisonnè. La vita era stretta da una cintura di cuoio alla quale erano appesi un pettine d’osso, un coltellino, le chiavi, una scarsella di cuoio che conteneva piccoli oggetti d’uso quotidiano e una o piú fibule ad arco, veri e propri capolavori di oreficeria anche di grandi dimensioni. Gli ornamenti tipici, che variavano per foggia e lusso a seconda della ricchezza, erano orecchini, spilloni per capelli, bracciali e collane di pasta vitrea. La testa delle donne sposate era coperta da un velo di lino, mentre le nubili viaggiavano a capo scoperto e con i capelli lunghi: pare venissero ritualmente tagliati quando la giovane era data in sposa.

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Il costume tradizionale maschile e femminile longobardo (illustrazione di Cristiano Brandolini, © Branart).

e altrettanti Visigoti (vedi box alle pp. 84/85) e 16 000 dovevano essere i Vandali di Genserico che sottomisero Cartagine. Infine si è calcolato che i Longobardi che invasero l’Italia a seguito del loro re Alboino, fossero circa 80 000. I Goti dominarono in Italia solo per vent’anni, poi furono sconfitti dai generali di Giustiniano, Narsete e Belisario, e integrati oppure dispersi. In quel ventennio la loro dominazione ha però lasciato una traccia nella nostra lingua e nella nostra toponomastica. Il popolo goto si divise in due grandi tronconi: i Visigoti, che continuarono la loro marcia in Francia e poi in Spagna, e gli Ostrogoti che conquistarono l’Italia. Possiamo quindi distinguere parole di origine visigota (quando sono attestate anche Oltralpe e al di là dei Pirenei) da quelle prettamente ostrogote (attestate solo in Italia). Appartengono al primo gruppo termini in primo luogo militari, come banda, elmo, guardia, ma anche albergo, da non intendersi qui come un hotel, dal momento che deriva da hari-berg, parole che significano riparo (berg) dell’esercito (hari).

Lessico quotidiano

Al pari delle altre genti germaniche, i Goti erano un popolo armato e la loro principale attività consisteva nel combattere. Ciononostante, ci sono giunti termini legati anche alla vita quotidiana, come quelli che designano alcuni attrezzi domestici, in particolare legati al lavoro tessile, quali il naspo, la rocca e la spola, che ha anche dato origine all’espressione «fare la spola», che significa «andare avanti e indietro da un luogo all’altro», come appunto fa la bobina di filato che va rapidamente da una parte all’altra del telaio, facendo passare la trama tra i fili dell’ordito. Anche le voci verbali arredare e corredare sono di origine visigota, cosí come gli aggettivi guercio, schietto e l’apparentemente incomprensibile ranco, il cui significato

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Dossier A sinistra miniatura raffigurante re Rotari che emana l’editto (643), dal Codex legum Langobardorum. XI d.C. Cava dei Tirreni (Salerno), Archivio dell’Abbazia della Ss. Trinità. In basso ritratto di Giuseppe Garibaldi. XIX sec. Torino, Museo Nazionale del Risorgimento Italiano. Nella pagina accanto miniatura raffigurante la vendemmia, dal De universo di Rabano Mauro. 1023. Montecassino, Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

Anche Garibaldi? Forse, senza i barbari, Giuseppe Garibaldi non si sarebbe chiamato cosí. Vuole infatti una delle ipotesi al riguardo che il cognome del generale derivi da Garibaldo, che fa parte di un nutrito gruppo di nomi propri d’origine longobarda entrato a far parte dell’onomastica italiana. Alcuni vengono utilizzati ancora oggi, come Bernardo, Federico, Umberto, Guido e Guglielmo. Altri sono certamente piú o meno desueti, come Anselmo, Arnaldo, Arnolfo, Baldovino, Bertrando, Ildebrando, Giraldo, Teobaldo e Gualberto.

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di «zoppo» appare palese se si pensa che da questo termine deriva il verbo arrancare e il cui corrispettivo ostrogoto è sghembo. Diffusi propriamente in Italia, e quindi di origine ostrogota, sono i termini arengo, che significa «luogo di adunata», ma anche astio, che deriva da haifsts e il cui significato è propriamente «litigio». Se, come già ricordato, il dominio gotico durò solo vent’anni, quello longobardo si protrasse, nel Centro-Nord, ben due secoli e quasi il doppio nell’area campana. Lo strato longobardo, però, pur avendo piú occasioni per consolidarsi, facendo passare o imporre termini propri, ha avuto, al contempo, maggiori occasioni per lasciarsi assorbire dalla tradizione latina, poiché quella «italiana» era ancora informe e di là da venire. Anche i Longobardi hanno lasciato molte parole legate al mondo della werra, la guerra, termine di origine barbarica rispetto al bellum latino, essendo anch’essi un «popolo in armi». Tuttavia, alcune parole non hanno all’apparenza nulla a che fare con il mondo della guerra: è il caso di sguattero, che deriva da wahtari e che significava originariamente «guardiano». Alla cavalleria longobarda dobbiamo staffa e predella, corrispettivo, quest’ultimo, della briglia di origine gotica. Dal mondo dei cavalli longobardi derivano i termini per bianco (blank) e bruno (brun), con i quali si indicava il colore del manto delle loro cavalcature. Ricormaggio

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diamo infatti che il latino per bianco era albus, da cui abbiamo ancora oggi albino, albume, alba.

Scaffali e stamberghe

A seguito della secolare presenza dei Longobardi in Italia, si diffusero ben presto termini legati alla vita quotidiana, come gruccia, greppia, spranga, ma anche trappola e perfino palla, che ha il suo corrispettivo nel piú noto ball anglosassone. Nelle case longobarde si potevano trovare panche e palchi, ma anche scaffali, scranni magari fissati da un po’ di stucco. Alcune parole longobarde oggi hanno cambiato il loro significato: è il caso di «stamberga», declassato a sinonimo di casa malandata e poco accogliente, ma che in origine significava «riparo di sassi» (da stam, pietra, e berg, riparo) e quindi un’abitazione solida e stabile. La presenza di Alboino e dei suoi successori, che penetrò profondamente nella quotidianità italica, ha poi lasciato una serie di termini

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legati alle parti del corpo, fra i piú significativi per attestare una convivenza, se non addirittura una mescolanza tra immigrati e autoctoni. Siamo infatti debitori di vocaboli quali guancia, schiena, anca (e sciancato), stinco, ciuffo e zazzera. E ancora la milza e le nocche, nonché le grinze della pelle. E chi potrebbe immaginare che, quando russiamo, gualcendo il guanciale, oppure ci tuffiamo o spruzziamo qualcuno per scherzare dobbiamo ringraziare i barbari? I Longobardi furono sconfitti nel 774 dai Franchi di Carlo Magno, i quali, a loro volta, introdussero nuovi termini. Non è sempre facile distinguerli, sia per caratteri formali, sia per il fatto che ormai mostrano una tradizione fortemente mescolata con quella galloromana. Ma sono verbi di origine franca galoppare, grattare, schivare, ardire, trescare, nonché sparagnare, oggi diffuso al Sud, con il senso di «risparmiare». Quanto ai colori, se ai Longobardi si deve il bianco, ai

Franchi si deve il grigio (da gris). E l’elenco potrebbe continuare. L’apporto dei «famigerati» barbari alla lingua della Penisola (ma, come vedremo, anche ad altri aspetti della sua cultura) fu dunque un arricchimento: grazie a Goti, Longobardi e Franchi la lingua italiana è oggi piú varia e piú ricca (ed è quasi superfluo aggiungere anche l’aggettivo ricco è di origine longobarda…).

Usi e costumi

Dopo aver analizzato le eredità linguistiche, veniamo al portato barbarico nel mondo del gusto, del vestiario, della gestualità, dell’arte e della cultura. Come ha sottolineato lo storico Massimo Montanari, quello tra Romani e barbari fu un incontro-scontro tra due mondi diversi, anche dal punto di vista alimentare. Se i primi avevano fondato la propria civiltà sulla stanzialità, i secondi erano di tradizione nomade o seminomade. Sul piano dell’alimentazione le conseguenze sono

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Dossier Miti nordici e saghe letterarie

Storie di anelli, draghi e mantelli fatati... Grazie alla sua trasposizione cinematografica, Il Signore degli Anelli, capolavoro di J.R.R. Tolkien, ha coinvolto, oltre ai lettori, anche quanti si erano lasciati intimorire dalla mole del romanzo (che è in realtà una trilogia, composta da: La Compagnia dell’Anello, Le due torri e Il ritorno del re). Ne ricordiamo la trama: il buon hobbit Frodo deve distruggere l’anello del potere, per non farlo cadere nelle mani del malvagio Sauron. Al centro del racconto c’è un anello che ha la capacità di dominare uomini ed eventi, scatenando le concupiscenze degli uomini e trascinando i personaggi coinvolti in una interminabile lotta per il «tesoro» che spinge l’uomo a dimenticare chi sia in realtà, inducendolo nella tentazione del possesso e dell’avidità: un circolo vizioso dal quale difficilmente si può uscire da soli. Ma questa storia, avvincente, intricata, con decine di personaggi dai nomi fantastici, trova un chiaro riferimento nella tradizione orale nordica e nelle Edde islandesi. Il cosiddetto Nibelungenlied è la versione piú elaborata del ciclo dei Figli della Nebbia, i Nibelunghi, una stirpe di nani che vivono sottoterra e possiedono un favoloso tesoro. Composta probabilmente verso il 1200, l’opera sarebbe stata redatta da un chierico della cancelleria vescovile di Passau (in Germania), di nome Konrad, ma la materia del Nibelungenlied evidenti: i primi si basavano sull’agricoltura, ricavando prodotti quali il grano e l’olio, i secondi avevano invece la caccia come prima fonte di sussistenza e la selvaggina come prodotto principale sulle loro tavole. L’incontro di questi due mondi è, con buona approssimazione, alla base di ciò che oggi definiamo «cucina italiana». L’Italia, il «giardino dell’impero», era ed è, in realtà, un coacervo di realtà geografiche diverse, con altrettanti paesaggi e problemi, molto piú numerosi che non l’equazione grossolana secondo la quale si hanno un Settentrione ben irrigato e un

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è ben piú antica. La trama si compone di due grandi parti, verosimilmente riunite molto tardi. Nella prima sezione l’eroe Sigfrido riesce a sottrarre il tesoro a Fáfnir, un uomo trasformato dall’avidità in un drago mostruoso: non è forse il destino del Gollum di Tolkien? Giunto a Worms, Sigfrido chiede la mano di Crimilde, sorella del re dei Burgundi, Gunther. Nel mentre, si incontrano nani, miniere, castelli incantati: mancano gli hobbit, ma, per il resto, siamo apparentemente nella Terra di Mezzo! Un vassallo del re, Hagen, temendo l’ascendente di Sigfrido, lo induce a disonorare la regina dei Ghiacci, Brunilde. Grazie a un mantello che lo rende invisibile – proprio come quello che indossa Frodo – conquista la regina per conto di Gunther. Una volta scoperto l’inganno, Sigfrido sarà ucciso da Hagen e il tesoro finirà gettato nel Reno, anziché nel vulcano di Mordor della trilogia tolkeniana. La storia prosegue concentrandosi su Crimilde, che, andata in sposa al re degli Unni (Attila), invita a corte Gunther e i suoi fratelli. Su istigazione di Hagen e Crimilde, Unni e Burgundi si uccidono vicendevolmente. Infine, Crimilde si sbarazza anche di Hagen e di Gunther, ma non riesce comunque a ritrovare il tesoro e viene a sua volta uccisa da Ildebrando. I pochi sopravvissuti al massacro levano alti i loro pianti in un’opera che segue al Nibelungenlied, il cosiddetto Klage, cioè il Lamento.

Mezzogiorno caldo e arido, con ricadute non solo sull’agricoltura, ma anche su tutta l’economia.

Un autentico tracollo

Il paesaggio italiano era molto piú diversificato e problematico, ma, in generale, nella maggior parte delle campagne italiane, ai tempi di Augusto, l’agricoltura era organizzata in piantagioni e fattorie in grado di produrre largamente per il mercato locale esportando, anche su vasta scala, prodotti quali il vino e l’olio. Nei secoli del basso impero e della tarda antichità in Italia si registrò un vero e proprio tracollo: il maggior

numero di agri deserti riguarda l’Italia e le fonti riferiscono altrettanto riguardo alla decadenza delle città. I contemporanei attribuirono alle scorrerie barbariche le devastazioni e il fatto che nella Penisola non vi fossero piú agricoltori. Tuttavia, oltre alle devastazioni – che certamente vi furono –, fin dal III secolo si era presa l’abitudine di ripopolare le campagne, già allora abbandonate, chiamandovi ad abitare coloni… di stirpe barbarica. In città come Bologna, Modena, Firenze o Volterra, le fonti ci dicono che – ben prima dell’arrivo dei barbari – intere zone erano ormai decadute e abbandonamaggio

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Füssen (Germania), castello di Neuschwanstein. Pittura murale raffigurante Sigurdr, piú noto come Sigfrido, mentre si fa forgiare dal nano Regin la spada che gli servirà per affrontare in un duello il drago Fáfnir. 1882-83.

te; e l’abbandono dei campi, da parte dei contadini, non fu dovuto solo alle pressioni dei Germani, quanto piuttosto alla pressione fiscale romana: le condizioni di oppressione piú gravi si ebbero proprio nelle campagne, dove i coltivatori che producevano generi alimentari furono ben presto ridotti in uno stato di semiservitú da una legislazione che li vincolò al luogo in cui erano registrati. L’abbandono dei campi fece sí che, nel volgere di alcuni decenni, la natura riprendesse il sopravvento su quanto in epoca romana l’uomo le aveva faticosamente strappato, facendo cosí av-

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verare ciò che il poeta latino Lucrezio (I secolo a.C.) aveva descritto nel suo De rerum natura.

Boschi e paludi

Nell’Alto Medioevo, dunque, lo scenario era quello di un’Italia largamente ricoperta di aree boschive, di macchie, di paludi, come quelle della Pianura Pontina, della Chiana, delle aree di Bientina e Fucecchio. Ma la foresta era il luogo ideale per il sistema di sussistenza dei Germani, basato, come abbiamo già ricordato, sulla caccia. La carne, soprattutto se di selvaggina, era simbolo di forza, di carattere sanguigno e

sinonimo di coraggio. Per catturare un cervo o un cinghiale, infatti, occorrevano sia l’ardimento che la forza, nonché un pizzico di fortuna. Tuttavia, per i Germani l’attività venatoria era in primo luogo una «piccola guerra», da combattersi in tempo di pace: i giovani e tutti gli uomini adulti si impegnavano dunque nell’ingaggiare una battaglia contro le fiere, allenandosi, mettendo alla prova la fatica e guadagnandosi anche il companatico. I contadini, invece, si contentavano di animali da cortile, che andavano ad accompagnare il pasto basato sui prodotti della terra. Eginardo, il biografo di

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Dossier Carlo Magno, ci informa che il sovrano «si teneva in esercizio cavalcando e cacciando, e questo gli veniva naturale per le sue origini, perché è difficile trovare sulla Terra un popolo che possa eguagliare i Franchi in quest’arte».

Cibi di stagione

Guerrieri e contadini, bellatores e laboratores, condividevano il medesimo cibo solo nei mesi invernali, obbligati dai rigori dell’inverno e dalla sosta della natura. Si trattava della carne di maiale, disponibile fresca, al momento dell’uccisione verso gennaio, oppure salata o affumicata, o ancora lavorata in salumi. Verosimilmente, l’avanzare dei boschi e delle macchie indusse i Longobardi a praticare attività di tipo silvo-pastorale, come l’allevamento di bovini e cavalli – questi ultimi indispensabili ai fini degli spostamenti e anche a scopi militari –, ma, in modo piú significativo, di animali minori, come pecore, capre e, soprattutto, maiali, i quali, crescendo in branchi nelle boscaglie, trovavano in grandi quantità

Eredità della cultura barbarica si possono individuare perfino nei fumetti Le divinità norrene Loki (a sinistra) e Thor, in bozzetti disegnati da Carl Emil Doepler, per un allestimento ottocentesco dell’Anello del Nibelungo di Richard Wagner. Stoccolma, Museo Nazionale.

Leggende e fumetti

La «seconda vita» di Thor Se al motore di ricerca piú usato al mondo, Google, forniamo i nomi di due divinità norrene quali Thor o Loki, incappiamo prima nei prodotti a fumetti e cinematografici della Marvel e solo in seconda battuta in siti che trattano delle vicende della mitologia nordica a cui questi personaggi appartengono in origine. Loki e Thor, infatti, non sono nati nel 1962, dalla penna di Stan Lee, ma fanno parte del sistema di divinità, eroi e miti delle popolazioni nordiche, databile a un periodo precedente la nascita del cristianesimo stesso. Il primo sarebbe il dio del Male, e avrebbe ucciso Baldr. Mentre il secondo, detto anche Donar, era responsabile dei fulmini e dei tuoni. Non a caso, in inglese si chiama Thur’s day (il giorno di Thor) quello che per noi è il Giove-dí, cioè il giorno di Giove. E sempre non a caso, ma alle nostre latitudini, un longobardismo – un tempo diffuso in alcune aree della Toscana – utilizzato per indicare il rombo minaccioso dei tuoni (ba- particella intensiva accompagnata a tur-, tuono) è proprio l’ormai desueto baturlare.

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le ghiande di cui si nutrono. Rispetto ai Romani, che consumavano la carne di maiale saltuariamente, il contributo barbarico alla «dieta mediterranea» è sicuramente decisivo. Oltre al consumo di carne suina si inserisce un piú largo uso di prodotti caseari, come il burro e il latte, derivanti dal bestiame lasciato a pascolare in campi che, forse proprio grazie ai Longobardi, si estendono sempre piú, trasformandosi in openfields. La cosiddetta «linea dell’olio», che corre lungo l’Appennino, divide un’Italia che basa la propria cucina sull’olio di oliva, legumi e cereali, come da eredità romana, da una – molto piú interessata dalla presenza germanica nei secoli dell’Alto Medioevo – che ancora oggi basa la propria tradizione sull’uso di latte, burro e strutto.

Editti a confronto

L’Editto di Rotari (643 d.C.) è una fonte preziosa per comprendere come fossero cambiate le cose rispetto, per esempio, ai tempi di Teodorico II, il quale, alla metà del V secolo, aveva emanato in Gallia un editto analogo, composto da 154 articoli. Nei 388 articoli del documento rotariano ricorrono ben 23 occorrenze relative ai branchi di suini, peraltro caratterizzate da minuzia terminologica, 42 citazioni relative alla caccia, 44 concernenti i boschi contro le citazioni di due secoli prima, in cui fanno ancora capolino due villae e ben 40 fondi rustici con relative colture, alberi da frutto e vigneti, totalmente scomparsi duecento anni piú tardi. Dunque la carne, la selvaggina era il piatto forte sulle tavole dei barbari. Ancora Eginardo ci informa, per esempio, della predilezione che aveva Carlo Magno per la carne: «E comunque anche allora (da anziano) faceva piú di testa sua che non seguendo ciò che gli consigliavano i medici, che odiava, perché lo esortavano a smettere di mangiare gli arrosti, di cui era ghiotto, per abituarsi al lesso».

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Passando dal mangiare al bere, che cosa dire delle centinaia di birre artigianali che si stanno producendo in questi ultimi anni, proprio in Italia, tradizionale patria del vino? Presso i popoli germanici era molto diffusa la cervogia, una birra fatta con orzo o grano, a differenza della birra in senso stretto, aromatizzata con fiori di luppolo. Sia chiaro che la birra non è un’invenzione barbarica, essendo diffusa già presso i Babilonesi e gli Egizi, ma sembra abbastanza certo che la fabbricazione della cerevisia gallica sia stata messa a punto indipendentemente da queste piú antiche produzioni. Nell’87 d.C. Tacito paragonava la birra a un vino andato a male (vinus corruptus), ma suo suocero, Giulio Agricola, dovette apprezzarla, se portò con sé, dalle Isole Britanniche, alcuni maestri birrai, impiantando nella sua villa un vero e proprio birrificio. Anche l’imperatore Flavio Valente (328-378) doveva amare «la bevanda dei barbari», e in particolare il sabaium, una birra proveniente dall’odierna Austria. In un mondo come quello romano e cristiano, caratterizzato dal vino – bevanda impiegata, per esempio, nei riti prima bacchici e poi cristiani –, la cervogia fu all’inizio osteggiata, per poi essere prodotta, anche in quantità considerevoli nelle abbazie, come quella di San Gallo, che, nell’820, disponeva di una malteria – l’essiccatoio per il malto –, di una stanza per la frantumazione, di tre birrifici e di diverse cantine per la conservazione della cervogia. Volgiamo infine lo sguardo a una serie di piccole ma fondamentali usanze germaniche che tanto successo hanno avuto nella cultura romana e italica, imponendosi, in molti casi, sino ai nostri giorni. L’uso di portare i capelli lunghi e di ungerli con l’antesignano del moderno gel, «il burro rancido», è tipico dei Germani, cosí come l’uso di schiarire i capelli, rendendoli platinati. A proposito del secondo,

infatti, Diodoro Siculo ci informa che i Galli (termine con cui si devono intendere tutti i popoli dell’area franco-tedesca), «si industriano a schiarire ancora la tonalità naturale di questo colore (biondo), lavandoli continuamente con acqua di calce».

Lo stupore di Cesare

Il moderno «codino» e la cresta erano altrettanto ben noti ai Galli, che «rialzavano i capelli dalla fronte verso la sommità del capo e verso la nuca». Giulio Cesare, poi, rimase colpito dall’uso «barbarico» di radersi «l’intero corpo, tranne il capo e il labbro superiore»: si tratta della moda dei baffi, attestati anche da Diodoro Siculo e praticamente ignoti alla cultura romana, come provano le migliaia di busti giunti sino a noi che offrono ritratti sbarbati o barbuti. A leggere l’opera dello storico greco anche gli abiti dei Galli dovettero sembrargli particolarmente stravaganti: fra tutti i capi d’abbigliamento spiccavano certamente quei «pantaloni che chiamano braghe», una sorta di mutandoni lunghi a volte fino al ginocchio, a volte fino alla caviglia, e altrettanto bizzarro risultava l’uso di tessere i vari capi d’abbigliamento con fantasie colorate a quadri, come ancora si vede nei kilt scozzesi. Chiudiamo la breve panoramica sull’abbigliamento «da barbari» ricordando che siamo loro debitori ogni volta che ci stringiamo la cintura, poiché la diffusione della fibbia provvista di ardiglione è un loro contributo, il cui successo è tuttora sotto gli occhi di tutti. Per concludere questa passeggiata alla scoperta delle nostre «radici barbariche» non possiamo che congedarci, anziché levando la mano «alla romana», con una vigorosa, per quanto simbolica, stretta di mano: cosí come ci hanno insegnato proprio i barbari, a simboleggiare la fiducia che si riponeva nell’altro il quale, stringendo la mano, non avrebbe potuto impugnare la spada. V

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Nella Perugia di Braccio

CARTOLINE • Il tessuto

medievale del capoluogo umbro è uno dei principali connotati della città. Molti luoghi si legano alle vicende del condottiero Braccio da Montone, nel cui nome si svolge «Perugia 1416», evento rievocativo che coinvolge l’intera comunità locale 104

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elle ripide strade di Perugia sono ancora visibili le tracce lasciate da Andrea Fortebracci (1368-1424) passato alla storia come Braccio da Montone, il condottiero che, all’inizio del XV secolo, coltivò il sogno di una signoria che abbracciasse vaste zone dell’Italia centrale: quasi tutta l’Umbria, una parte considerevole della Marca e il principato di Capua. La «gloria del dominare» lo spinse anche a occupare Roma, per settanta giorni, nel 1417, quando nel concilio di Costanza – l’assise che doveva risolvere lo scisma d’Occidente – si stava eleggendo un nuovo pontefice.

Al soglio salí, con il nome di Martino V, Oddone Colonna, che vide in Braccio il principale nemico dell’autorità papale. Il viaggio nella Perugia medievale su cui Braccio governò per otto anni (1416-1424) inizia dal Cassero di Porta Sant’Angelo, ingresso settentrionale al centro storico. La possente torre merlata è la piú grande porta medievale della città e fa parte del completamento trecentesco del suo secondo ordine di mura difensive. Introduce al quartiere di residenza della nobile famiglia Fortebracci, originaria dell’antico borgo fortificato di maggio

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Sulle due pagine Perugia. Veduta di Porta Sant’Angelo, del Cassero e del tempio di S. Michele. A sinistra piazza Fortebracci, sulla quale prospettano l’arco etrusco e Palazzo Gallenga, sede dell’Università per Stranieri.

Montone, nel Nord dell’Umbria, e perugina di adozione grazie a matrimoni con famiglie storiche della città. Il padre di Braccio, conte di Montone, sposò Giacoma Montemelini e lo stesso Andrea prese in moglie una Perugina, Elisabetta Armanni. La loro dimora non esiste piú, ma è dal rione di Porta Sant’Angelo che il condottiero rientrò in città dopo un esilio, durato oltre vent’anni e concluso con la storica battaglia di Sant’Egidio, combattuta il 14 luglio 1416 sulle sponde del Tevere, a metà strada tra Perugia e Assisi. Secondo le cronache, l’assedio di Perugia non

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proseguí a lungo dopo la vittoria sulle rive del fiume, in cui Braccio diede prova di eccellenti doti tattiche e strategiche contro Carlo I Malatesta, nominato «Difenditore dei perugini per la Santa Chiesa». Fu inviata una delegazione per offrire a Fortebracci le chiavi della città, insieme alla resa incondizionata. E le murate tirate su in fretta per chiudere le porte di accesso all’urbe vennero abbattute per lasciar entrare il primo e ultimo signore di Perugia. Forse Braccio scelse l’ingresso di Porta Sant’Angelo perché era nato proprio lí, il 1° luglio del 1368. Era stato battezzato, con il nome di Andrea Fortebracci, poco lontano. E al rione di Porta Sant’Angelo era ascritto il castello di Montone, dove i Fortebracci mantenevano beni allodiali.

Un’architettura singolare Oltre il Cassero, spunta il bel tempio paleocristiano di S. Michele Arcangelo, dalla singolare architettura a pianta circolare. Edificata tra il V e il VI secolo, è la chiesa piú antica di Perugia. È una costruzione imponente, di certo ben nota al giovane Andrea negli anni dell’infanzia, prima che suo padre venisse spogliato dei suoi beni e che lui stesso fosse costretto all’esilio. Piú avanti, la stretta via che oggi è

conosciuta come corso Garibaldi, scende lungo il versante del colle che ospita il rione e termina nella piazza intitolata al condottiero, sede della prestigiosa Università per Stranieri. Proprio di fronte, sull’altro lato del grande spazio urbano, svetta la porta monumentale dell’Arco Etrusco, realizzata nel III secolo a.C. sulle mura poderose che delimitano ancora oggi il baluardo di difesa piú antico e interno della città. Sull’arco a tutto sesto, corre l’iscrizione «Augusta Perusia», apposta in onore dell’imperatore dopo il bellum perusinum del 41 a.C. Braccio studiò il latino e la letteratura classica con l’aiuto della madre e un precettore lo erudí sulle scienze e sul diritto. Quanto alla guerra, imparò in fretta da solo: inaugurò tecniche di combattimento d’avanguardia, che tenevano in considerazione sia le condizioni climatiche dei teatri degli scontri, sia lo stato fisico dei combattenti. Come l’altro grande condottiero di inizio secolo, Muzio Attendolo, detto lo «Sforza», Braccio considerava la cavalleria pesante come la principale risorsa offensiva in ogni battaglia, ma apportò novità fondamentali. La tattica avvolgente che i contemporanei definirono «braccesca» prevedeva, insieme ai continui attacchi dei cavalieri, anche

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CALEIDO SCOPIO medievale, a due rampe, dei tempi di Braccio. Al termine della gradinata, il bel portale gotico è sormontato dai grandi bronzi del Grifo e del Leone, realizzati nel 1281 per adornare la fontana di Arnolfo di Cambio detta degli Assetati, smantellata per problemi idraulici già agli inizi del Trecento. Collocati fin dal 1301 nella posizione attuale (le statue originali sono ospitate nell’atrio del palazzo), i due simboli della città poggiano su mensoloni da cui pendono le catene che serravano le porte di Siena: vennero sciolte dai Perugini dopo la battaglia di Torrita e conservate a perenne ricordo della vittoria riportata nel 1358, dieci anni prima della nascita di Braccio. Il portale ogivale introduce alla maestosa Sala dei Notari, sostenuta da otto poderosi arconi: nel XIII secolo, lí si svolgevano le assemblee popolari del libero Comune di Perugia, uno dei primi nati in Italia.

L’ariete con le corna d’argento

il supporto attivo della fanteria, dotata di spada e di scudo: piccole squadre di forze fresche ruotavano durante la battaglia per alimentare gli assalti e mantenere una pressione forte e costante, finché il nemico, sfiancato, veniva colpito a fondo da truppe tenute di riserva.

Un guerriero «cattolicissimo» Da piazza Fortebracci si accede a via Ulisse Rocchi, che sale ripida fino al cuore di Perugia. Qui, ai numeri civici 29 e 30, piccoli esercizi commerciali occupano i locali di uno spazio urbano che, nel XIII secolo, ospitava la chiesa di S. Donato, dove Andrea ricevette il

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battesimo. Nonostante gli scontri con il papa, nei comportamenti pubblici il condottiero rimase cattolico per tutta la vita. A pochi metri c’è piazza Danti, dietro la cattedrale di S. Lorenzo. Il giro attorno al Duomo riserva un colpo d’occhio suggestivo: la visuale si allarga sulla splendida piazza IV Novembre, inclinata dolcemente verso il corso, intitolato a Pietro Vannucci, detto il Perugino. Al centro, la Fontana Maggiore, raffinata architettura concentrica dal complesso messaggio iconografico, sembra scivolare morbida verso la scalinata a ventaglio di Palazzo dei Priori, che oggi ha sostituito quella

Lo stemma di Braccio Fortebracci si staglia tra quelli delle altre grandi famiglie, sulla parete di fondo: uno scudo a tacca di color giallo oro. Al centro un ariete saliente, reciso di nero, con corna d’argento. Omaggio a Montone, al castello di famiglia e alle origini del casato. Come signore di Perugia, Braccio risiedeva pochi metri oltre la sede comunale, a fianco del Palazzo Vescovile, lungo il proseguimento della parete sud della cattedrale. Fu proprio lui a far costruire, addossato al Duomo, un maestoso loggiato con volte a crociera. Oggi le Logge di Braccio conservano ancora quattro delle cinque arcate realizzate nel 1423 su progetto dell’architetto bolognese Fieravante Fioravanti. Una è parzialmente chiusa. In alto, spicca ancora il simbolo dell’ariete. Su una parete, a ricordo del fatto che proprio lí, per secoli, si teneva il mercato cittadino, sono riportate le antiche misure locali del piede e della mezza canna. maggio

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Tre giorni per una transizione epocale Nella pagina accanto ritratto di Andrea Fortebracci. XVI sec. Perugia, Oratorio di S. Francesco. In questa pagina immagini di repertorio di «Perugia 1416».

Braccio Fortebracci è il personaggio cardine di «Perugia 1416», manifestazione che animerà il centro storico del capoluogo da venerdí 8 a domenica 10 giugno 2018. La rievocazione storica offre uno scorcio di Perugia al passaggio tra Medioevo e Rinascimento e ne sono potagonisti i cinque rioni storici che prendono nome dalle porte della città: Porta Sant’Angelo, Porta San Pietro, Porta Santa Susanna, Porta Eburnea e Porta Sole. Momento culminante della manifestazione è il Corteo Storico, nel quale le cinque parti portano in dote le proprie peculiarità sociali: nobili, magistrati, borghesi e artigiani sfilano insieme a popolani e contadini. I mestieri, l’artigianato e la musica storica degli allestimenti di ogni parte della città contribuiscono al punteggio finale per l’assegnazione del Palio. Durante i tre giorni le doti sportive dei rappresentanti dei rioni contendenti vengono valorizzate dalla «Mossa alla Torre», la «Corsa del drappo» e il «Tiro del giavellotto». «Perugia 1416» viene introdotta, nel corso dell’anno, da molti appuntamenti culturali: lectio magistralis e conferenze per approfondimenti non solo sul contesto storico di riferimento, ma anche sul ruolo dell’evento, parte

integrante del patrimonio storico-culturale cittadino e mezzo di promozione turistica del territorio. Organizza l’evento l’Associazione «Perugia 1416 passaggio tra Medioevo e Rinascimento», costituita da ventidue soci fondatori che, coordinati dal Comune di Perugia, coinvolgono le maggiori istituzioni culturali della città: l’Università degli Studi, l’Università per Stranieri, l’Accademia di Belle Arti, il Conservatorio per la Musica, l’Università dei Sapori, alle quali si affiancano altre associazioni cittadine. Info www.perugia1416.com


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Sotto la prima arcata, resta la base del campanile dell’originaria cattedrale romanica, sulla quale, nel XIV secolo, sorse il Duomo. Nell’ultima loggia è appesa una lastra di roccia calcarea con fitte iscrizioni in latino: è la Pietra della Giustizia, sulla quale corre il decreto del 1234 che dichiara estinti i debiti del Comune di Perugia e descrive le norme di tassazione dei cittadini a seconda del loro censo. Un terrazzo panoramico, ora parte del Museo Capitolare di San Lorenzo, sormonta le arcate sorrette da slanciate colonne ottagonali. Il loggiato faceva parte delle opere di abbellimento e consolidamento della città attuate da Fortebracci negli anni del suo dominio. Di fronte alle logge, il Palazzo dei Priori – magnifico esempio di architettura

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gotica italiana – ospita la Galleria Nazionale dell’Umbria. La piú completa raccolta museale artistica della regione espone, nella sala 18, quattro affreschi in cui vengono raffigurati altrettanti episodi della vita del condottiero. Sono le Storie di Braccio Fortebracci da Montone, dipinte dal Papacello e da Lattanzio di Vincenzo Pagani tra il 1535 e il 1582.

Bastioni e contrafforti Da Palazzo dei Priori, poche centinaia di passi in discesa portano a un’altra bella piazza di Perugia, oggi intitolata a Giacomo Matteotti. Una volta era detta del Sopramuro, in ragione della cinta medievale che, edificata a partire dal XIII secolo come rinforzo strutturale ai bastioni etruschi, la sostiene da levante. Intorno al 1330, quando fu realizzata, era

caratterizzata da un’architettura pensile simile a quella della piazza della Signoria di Gubbio. Ma la collina rivelò presto la tendenza a franare. E cosí Fortebracci, a valle delle mura medievali, fece costruire altri contrafforti di sostegno: le Briglie di Braccio. L’area su cui vennero innalzate è ben visibile dai Giardini del Pincetto: dal belvedere al capolinea del Minimetro, il moderno sistema di trasporto della città, la vista spazia sull’ampia valle compresa tra Perugia e Assisi. In quella piana, il 12 luglio 1416, si svolse la battaglia di Sant’Egidio. Sette ore di scontri, sotto la calura, prima del trionfo e del ritorno da vincitore, dopo anni di esilio, nella sua città. Anche Todi, Orvieto, Narni, Terni e Sangemini lo invocarono come proprio signore. Braccio seppur maggio

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A sinistra Perugia. Le Logge di Braccio. In basso Palazzo dei Priori. Lo stemma dei Fortebracci nella Sala dei Notari.

scomunicato, possedeva ora uno Stato tutto suo. Ordinò che nessuno in città portasse armi. E chiese «pubblici giochi e feste».

La battaglia dei sassi Da questo punto di vista i Perugini avevano gusti particolari. Ce lo ricorda l’odierna via XIV settembre, una volta chiamata Campo di Battaglia per una precisa quanto insolita ragione. È storicamente accertato infatti, che i cittadini, nei giorni di festa, si prendessero letteralmente a sassate, in una sfida regolata da precise norme, in cui i rioni della città alta erano contrapposti a quelli della parte bassa. Questa battaglia dei sassi era una tradizione radicata e gli annali decemvirali del 1297 già la descrivono come molto antica.

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Agli albori del XIV secolo, la prima versione della piazza del Sopramuro era dotata di un lungo parapetto per permettere agli spettatori di godersi lo spettacolo dall’alto. A L’Aquila, il 2 giugno 1424, Braccio Fortebracci combatté la sua ultima battaglia, nel corso della quale venne ferito a morte. La città abruzzese era considerata dai contemporanei clavis regni: se Braccio l’avesse espugnata, avrebbe conquistato gran parte del territorio del Centro Italia. Alla fine del mese di maggio del 1424, papa Martino V, la regina Giovanna II e

Luigi D’Angiò avevano riunito un esercito di piú di 5000 uomini. La lega aveva i suoi campioni militari in Francesco Sforza, figlio di Muzio, morto poco prima guadando il Pescara e Jacopo Caldora. Con Braccio combattevano Niccolò Piccinino e il Gattamelata. La fortuna militare di Braccio si spezzò proprio in quelle ore. Il condottiero morí il 5 giugno del 1424, dopo due giorni di prigionia. Aveva cinquantasei anni. Sulla cattura e la morte, come sulle cause dell’esito finale della battaglia dell’Aquila, storia e leggenda si intrecciano tessendo trame indistricabili. Isolato e riconosciuto, Braccio fu ferito in modo grave e portato nella tenda di Jacopo Caldora. Francesco Sforza avrebbe urtato la mano del cerusico che con uno specillo

stava sondando la profondità della lesione. Braccio rimase lucido: rifiutò i farmaci e il cibo e si chiuse in un impenetrabile mutismo. Poi morí. Il suo cadavere, «aperto e male incalcinato», fu trasferito a mo’ di trofeo a Roma da Lodovico Colonna ed esposto fuori porta S. Lorenzo, in un luogo non consacrato.

Onoranze solenni Solo nel 1432, Nicolò della Stella, figlio della sorella del condottiero, ottenne la traslazione dei resti a Perugia. Alle solenni onoranze, le piú sontuose e appassionate mai celebrate nella storia della città, partecipò l’intera cittadinanza e il feretro venne tumulato con grandi onori nella chiesa di S. Francesco al Prato che si raggiunge da corso Vannucci grazie alla lunga discesa di via dei Priori. La chiesa duecentesca, ora destinata a ospitare l’auditorium cittadino, ha subito nei secoli gravi crolli ed è rimasta a lungo priva del tetto. Ha conservato i sepolcri delle maggiori famiglie perugine e le opere d’arte di grandi maestri, tra cui la Pala degli Oddi di Raffaello e la Resurrezione del Perugino, oggi ospitate nella Pinacoteca Vaticana. Le spoglie di Braccio, riesumate di recente, erano appoggiate su un cuscino, protette dal sarcofago in cui riposavano da quasi sei secoli. Gli esami medici hanno evidenziato la figura di un uomo dalla corporatura possente e rilevato una ferita mortale alla testa, inferta con ogni probabilità da una lancia. Ora i resti del condottiero si trovano nell’adiacente Convento dei Frati Minori, protetti all’interno dell’urna originale, fatta restaurare dalla mecenate perugina Nives Tei. Si dice che sull’antica lapide fosse scritto: Braccius hic situe est. Queris genus actaque? Utrumque ni teneas, dicto nomine, nihil teneas, «Qui è sepolto Braccio. Chiedi la sua origine e le sue gesta? Udito il nome, se non sai di entrambe, non sai nulla». Daniela Querci

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Classici digitali E-BOOK • Testi nati nel silenzio degli scriptoria

monastici oppure negli studi di grandi eruditi e letterati possono vivere una seconda giovinezza, grazie alla rete. È questa la scommessa giocata dalla Società Italiana per lo Studio del Medioevo Latino con medi@evi, una nuova collana che, oltre alle opere antiche, offre saggi e approfondimenti di studiosi contemporanei

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ambia l’approccio alla lettura, con esso i luoghi e, inevitabilmente, anche il formato dell’oggetto della lettura, il libro stesso. Un processo in atto ormai da anni e che, tuttavia, non coinvolge solamente gli autori testimoni di questo mutamento. Grazie all’impegno di scrittori, editori, ma anche di studiosi, infatti, anche chi, appartenendo al passato, e nel caso specifico all’epoca medievale, non aveva possibilità di immaginare la digitalizzazione, può trovare posto nelle librerie on line. Medi@evi, la nuova collana proposta dalla SISMEL, Società Italiana per lo Studio del Medioevo Latino, ha voluto dare il suo contributo all’interno questo processo. E lo ha fatto attraverso la pubblicazione in formato digitale di una serie di testi

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di maggiore o minore notorietà e diffusione nell’età di Mezzo.Ognuno di essi, inoltre, è affiancato da un’accurata traduzione in italiano e da un’altrettanto puntuale antologia, in modo da operare all’interno di rigorosi canoni scientifici.

Una vasta gamma di argomenti Tuttavia, l’attenta selezione dei testi non tralascia opere che, ancora oggi, possono rivelarsi di grande interesse per un pubblico non necessariamente settoriale. Abbracciando diversi campi, dall’ambito puramente letterario a quello filosofico-scientifico, ma inserendo anche letture, come gli Aenigmata Symposii, di carattere certamente piú conviviale, questa collana vuole dunque rivolgersi

medi@evi Digital Medieval Folders collana digitale, disponibile nei formati PDF ed EPUB www.sismel.it a un pubblico piú ampio. Nel perseguire questo obiettivo, insieme alla collana, sono state aggiunte pubblicazioni che mettono a confronto questioni di grande maggio

MEDIOEVO


Lo scaffale Anna Esposito, Franco Franceschi, Gabriella Piccinni (a cura di) Violenza alle donne. Una prospettiva medievale

Il Mulino, Bologna, 376 pp.

29,00 euro ISBN 978-88-15-27438-0 www.mulino.it

Impressionanti sono il numero e la tipologia delle forme di violenza esercitate nel Medioevo contro le donne e che affiorano con dovizia di particolari da questo volume, i cui curatori non hanno comunque tralasciato le situazioni di sopraffazione di donne nei confronti di altre donne o la loro risposta violenta a chi le minacciava e aggrediva. Percosse in nome del diritto del marito a «correggere» la moglie, del padre a costringere e punire la figlia, del padrone a battere la serva; ingiurie, stupri, segregazioni, omicidi in nome dell’onore tradito, spoliazione di beni, matrimoni e monacazioni forzate, manipolazione delle coscienze,

violenze inquisitoriali, maltrattamenti e prevaricazione nel mondo del lavoro, emergono da fonti di ogni tipo. A prescindere dalla crudezza e dallo squallore raccapricciante di molte testimonianze, colpisce soprattutto la capacità femminile di reagire a ogni livello: dal rifiuto del matrimonio combinato alla richiesta di annullamento della monacazione forzata, a quella di separazione in caso di reiterati maltrattamenti, al rifiuto di contratti di lavoro iniqui, all’opposizione ai tentativi di spoliazione dei beni, con straordinaria cognizione di causa. Valga per tutti l’episodio della ragazza che convocò nella casa paterna notaio e testimoni (dimostrando cosí

rilevanza in epoca medievale cosí come nell’attualità, quale per esempio la misoginia. Si tratta insomma di un tentativo mirato a una divulgazione per quanto

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maggio

un’eccezionale conoscenza delle procedure), di fronte ai quali dichiarò di non volere assolutamente sposare la persona designata dal padre. Altrettanto può dirsi per la giovane che fece redigere un «atto notorio»

davanti ai religiosi dell’istituto nel quale era ospitata, per prevenire eventuali costrizioni alla donazione dei suoi beni. In altre situazioni il rifiuto

era meno studiato e molto piú plateale e drammatico: ragazze che durante la cerimonia nuziale si sfilavano orgogliosamente l’anello, gettandolo a terra; parenti che tenevano ferma la mano della sposa che si divincolava, costringendola ad accettare il compimento del rito; monacazioni forzate, in cui la predestinata a prendere il velo si gettava a terra, piangendo, mentre la madre, che l’avrebbe sostenuta, era terrorizzata dalla reazione dei congiunti maschi al rifiuto; annullamenti di monacazioni forzate, all’indomani della morte del genitore che le aveva imposte. Colpiscono poi gli orientamenti del diritto canonico di fronte alla violenza coniugale: la

possibile ampia, sia attraverso un formato estremamente portatile, al passo con i tempi, nella cui realizzazione, però, non sono state perse di vista la qualità e la sostanza

separazione era ammessa soltanto in caso di sevizie reiterate e cosí gravi da provocare il «periculum mortis»; in caso di maltrattamenti piú lievi la moglie poteva anche… sopportare. Tuttavia, come accennato, le donne non sempre subivano, ma a volte aggredivano: all’inizio del Cinquecento i consoli dell’arte serica di Genova, costretti a organizzare una spedizione per recuperare la seta rubata dalle filatrici dell’entroterra, si trovarono a fronteggiare una vera e propria sommossa, da cui uscirono malconci. Non meno energiche, agli inizi del XV secolo, le braccianti agricole dell’Aretino, pronte a combattere tra loro a colpi di falce per assicurarsi il lavoro. Il volume sa insomma far emergere scorci di vita quotidiana tra i piú ardui da rintracciare, dando voce all’infinito dolore sepolto dalla polvere del tempo. Maria Paola Zanoboni

delle materie trattate. Tutti i titoli di medi@evi collana sono disponibili in rete, ed è già previsto l’arricchimento continuo e costante del catalogo. Tommaso Mammini

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CALEIDO SCOPIO

All’essenza delle cose MUSICA • L’ultimo progetto del

gruppo La Tempête, sotto la guida di Simon-Pierre Bestion, rivela sorprendenti affinità fra composizioni del pieno Medioevo e partiture della prima metà del Novecento

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ttorno all’affascinante incontro tra repertori lontani nel tempo, quello due-trecentesco e quello novecentesco, si sviluppa questo Azahar, la nuova proposta musicale di Simon-Pierre Bestion che vede le cantigas duecentesche di Alfonso X el Sabio dialogare con le cantigas di Maurice Ohana (1954), mentre a far da contraltare alla Messe de Notre Dame di Guillaume de Machaut (XIV secolo) vi è la Messa di Igor Stravinskij (1944-48). Sei secoli separano dunque Alfonso e Machaut da Stravinskij e Ohana, ma risultano percepibili le continuità stilistiche tra un periodo e l’altro, attenuando la distanza cronologica. Conosciuta per essere il primo ciclo completo di messa polifonica, la Messa di Machaut, composta in pieno Trecento, è stata la fonte di ispirazione per Igor Stravinskij, il quale, dopo averla ascoltata per la prima volta, decise di comporre una messa per coro misto e ensemble di fiati, il cui sapore arcaico si ispira fortemente alla polifonia medievale e al linguaggio del maestro francese. D’altronde, lo stesso compositore russo fu particolarmente attratto, durante alcune fasi della sua attività compositiva, dal recupero di una arcaicità del linguaggio musicale, che fa del riutilizzo della modalità e della poliritmia alcuni dei suoi elementi stilistici tipici. Nella

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geniale giustapposizione dei brani dell’ordinarium missae di Machaut e di Stravinskij emerge la solenne ieraticità che contraddistingue entrambe le partiture. A tale scopo, puntuale appare la scelta del direttore Simon-Pierre Bestion nel ricreare una sorta di ciclo liturgico in cui il senso religioso emerge potente nelle antiche polifonie di Machaut come nel linguaggio modale di Stravinskij, tutto giocato nell’alternanza del coro e dei fiati.

Omaggio alla Vergine Passando dalla liturgia della messa al genere devozionale della cantiga, cambiano l’universo sonoro e le atmosfere evocate: là dove a essere privilegiati erano gli intrecci polifonici e la magnificenza nel trattamento delle voci, qui si impongono il tono popolareggiante e la monodia. Le cantigas di Alfonso X rappresentano la piú ricca silloge di testi e musiche dedicati alla Vergine: centinaia di brani,

Azahar Alpha 261, 1 CD La Tempête, Simon-Pierre Bestion www.outhere-music.com raccolti dal sovrano spagnolo, che ci narrano scene di vita nelle quali la quotidianità è interrotta dagli interventi miracolosi di Maria. Il tutto narrato musicalmente con un linguaggio diretto, di impatto immediato; composizioni costruite su una struttura piuttosto semplice, basata su un refrain (ritornello) con funzione di «commento» all’azione salvifica della Madonna. Spostandoci di seicento anni, le cantigas di Ohana, composte nel 1954, si muovono anch’esse secondo un linguaggio che, pur nella sua contemporaneità, trae linfa vitale dalle antiche cantigas facendo uso di voci soliste, coro misto e orchestra. Forte è l’aderenza al messaggio testuale di Ohana, che muove voci e strumenti in una variegata regia compositiva. maggio

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Oltre a un eccellente quartetto vocale solista, Simon-Pierre Bestion dirige egregiamente l’ensemble vocale-strumentale La Tempête, qui rappresentato da fiati, piano e percussione. Un elemento interessante nella scelta interpretativa del direttore è quello di non adottare un approccio filologicamente orientato nell’uso degli strumenti, ma di ricreare

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i «colori» antichi della musica medievale. Il medesimo approccio pervade l’esecuzione della messa di Stravinskij e delle cantigas di Ohana in cui vengono adottati alcuni principi improvvisativi – per esempio nelle cantigas – riprendendo una prassi musicale antica. Quasi con un intento di disorientare l’ascoltatore – come afferma lo stesso Bestion – questo progetto musicale mira a

Miniatura raffigurante Alfonso X, detto «el Sabio» («il Saggio»), re di Castiglia e León, dal Codice Tumbo A. 1129-1255. Santiago de Compostela, Archivio de la Catedral. creare un continuum temporale, dove il moderno e l’antico si fondono e dove il fine ultimo è «arrivare all’essenza delle cose». Franco Bruni

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