Medioevo n. 241, Febbraio 2017

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

IL PRINCIPE SANGUINARIO CHE SFIDÒ L’ISLAM

TERREMOTO

Quale futuro per il patrimonio ferito?

MEDIOEVO NASCOSTO

Acquapendente, l’altra Gerusalemme

CLUSONE

L’enigma della danza macabra

www.medioevo.it

€ 5,90

PATRIMONIO FERITO IL TRIONFO DELLA MORTE A CLUSONE GUERRA E DERISIONE ACQUAPENDENTE DOSSIER DRACULA

DRACULA

Mens. Anno 21 numero 241 Febbraio 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

MEDIOEVO n. 241 FEBBRAIO 2017

DR VE A RA CU ST LA O

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 1 FEBBRAIO 2017



SOMMARIO

Febbraio 2017 ANTEPRIMA

COSTUME E SOCIETÀ

ANIMALI MEDIEVALI L’amico migliore

5

MOSTRE «Ponte» di nome e di fatto 8 Antoniazzo torna a Montefalco 11 ITINERARI La rocca delle monache fuggitive

ICONOGRAFIA

Il Trionfo della Morte

«La morte no vol denari» di Furio Cappelli

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO Acquapendente

14

APPUNTAMENTI Evviva la Bela Pignatera! Qui si danza al ritmo dell’Ariosa Il Carnevale dei marinai Alla corte di San Pançard L’Agenda del Mese

La Gerusalemme replicata di Giuseppe M. Della Fina

18 19 20 21 22

STORIE, UOMINI E SAPORI La signora in viola 104

62

PATRIMONIO FERITO Terrae motus

32

32

96

CALEIDOSCOPIO

STORIE di Furio Cappelli

96

52

GUERRA E DERISIONE Oltre il danno anche la beffa... di Domenico Sebastiani

62

Dossier

DRACULA Il principe sanguinario che sfidò l’Islam

di Tommaso Indelli

77

LIBRI All’insegna della storia Lo scaffale

107 110

MUSICA Dalla Spagna dei califfi

112


LA

D

VE RA RA CU ST LA O RIA

MEDIOEVO n. 241 FEBBRAIO 2017

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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Mens. Anno 21 numero 241 Febbraio 2017 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

TERREMOTO

Quale futuro per il patrimonio ferito?

MEDIOEVO NASCOSTO

Acquapendente, l’altra Gerusalemme

CLUSONE

L’enigma della danza macabra

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€ 5,90

PATRIMONIO FERITO IL TRIONFO DELLA MORTE A CLUSONE GUERRA E DERISIONE ACQUAPENDENTE DOSSIER DRACULA

DRACULA

IL PRINCIPE SANGUINARIO CHE SFIDÒ L’ISLAM

IN EDICOLA IL 1 FEBBRAIO 2017

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18/01/17 12:17

MEDIOEVO Anno XXI, n. 241 - febbraio 2017 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 78, 92/93, 105, 106 – Doc. red.: pp. 5, 37, 38, 39 (basso), 44-45, 46/47, 47 (alto, a sinistra), 49, 50, 55, 67, 69, 71-75, 77, 79, 81, 89, 92, 98/99, 100, 112/113 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 8-11, 12 (alto; © Comune di Montefalco), 12 (basso), 13 (© Comune di Montefalco), (41 (centro, a sinistra), 43 (alto, a sinistra, e basso); Deisy Valli: p. 41 (alto, sinistra e destra); Emanuele Persiani/ABC On Line: p. 41 (centro, a destra); Massimo Achilli/SABAP Umbria: pp. 41 (basso), 42, 43 (alto, a destra) – Cortesia degli autori: pp. 14-16, 18-21, 60-61 – Getty Images: Alberto Pizzoli: pp. 32/33, 50/51; Digital Globe/Scape Ware 3D: pp. 34, 34/35; Anadolu Agency: pp. 36/37; Stefano Montesi: p. 39 (alto e p. 47, alto, a destra); Awakening: p. 40; Andreas Solaro: p. 47 (basso); Giuseppe Bellini: p. 48 (basso) – ANSA: p. 48 (alto) – Foto Scala, Firenze: Mario Bonotto: pp. 52/53 – Mondadori Portfolio: Electa/Paolo e Federico Manusardi: pp. 54/55, 56/57; AKG Images: pp. 82/83, 86, 95 (alto), 104; Album: p. 84; Rue des Archives/PVDE: p. 87; AGE: pp. 94/95, 95 (basso) – Da: Senza misericordia, Einaudi, Torino 2016: pp. 58-59 – Bridgeman Images: pp. 62-64, 68, 84/85, 88/89 – DeA Picture Library: pp. 65, 90-91; A De Gregorio: p. 66 – Federica Ghinassi: pp. 96/97, 100-103 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 35, 80, 98.

Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it

Editore: MyWay Media S.r.l.

Impaginazione: Alessia Pozzato

Amministratore delegato: Stefano Bisatti

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Tommaso Indelli è assegnista in storia medievale presso l’Università degli Studi di Salerno. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Alessandro Savorelli è storico della filosofia e membro dell’Académie Internationale d’Héraldique. Domenico Sebastiani è cultore di tradizioni e leggende medievali. Tiziano Zaccaria è giornalista. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

Presidente: Federico Curti

Concessionaria per la pubblicità extra settore: Lapis Srl Viale Monte Nero, 56 - 20135 Milano tel. 02 56567415 - 02 36741429 e-mail: info@lapisadv.it

Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa NIIAG Spa Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl - titolare del trattamento - al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere elencocompleto ed aggiornato dei responsabili.

In copertina la cittadella fortificata di Biertan, in Transilvania. XV-XVI sec.

Pubblicità di settore: Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352 - fax: 02 0069.6369

Nel prossimo numero protagonisti

Jacques Fournier, l’ultimo inquisitore

storie

L’Europa longobarda a Pavia

dossier

Voci, suoni e rumori. Il paesaggio sonoro nell’età di Mezzo


ANIMALI MEDIEVALI a cura di Federico Canaccini

L’amico migliore

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ei bestiari latini, assieme a quello dedicato al leone, il capitolo sul cane è il piú lungo. Come i Padri e la Bibbia, anche i bestiari si diffondono sul migliore amico dell’uomo ma ne trattano in maniera ambivalente. Infatti, se per noi il cane è affettuoso, fedele, coraggioso e intelligente, per gli uomini del Medieovo è altrettanto impuro, sporco, grossolano e ingrato. La sua fama va migliorando coi secoli: nell’Alto Medioevo, la simbologia legata al cane è perlopiú negativa, ma, avvicinandosi all’epoca moderna, si va configurando quel giudizio positivo che si conserva sino ad oggi. Da animale utile sostanzialmente solo per la caccia, il cane diventa, tra il XV e il XVI secolo, il migliore animale di compagnia e, in questa rivalutazione, il ruolo dei bestiari fu decisivo. Nei primi secoli dell’età di Mezzo, però, il cane simboleggiava l’uomo peccatore, il quale, dopo aver confessato i propri peccati, ricade in tentazione e ne commette di nuovi; cosí come il cane dopo aver vomitato, rimangia ciò che ha rigurgitato (canes ad vomitum revertuntur). L’espressione «can che abbaia non morde», se oggi forse ci tutela di fronte al rischio di ricevere un morso, nel Medioevo simboleggiava in realtà un animale infido, doppio e falso. Non si può però credere che il cane nel Medioevo fosse solo una bestia negativa. Infatti, per giungere al giudizio generalmente positivo che se ne ha al giorno d’oggi, si deve ricordare che molti autori gli riconoscevano doti quali la memoria, il coraggio e soprattutto la fedeltà: nei bestiari, infatti, il cane viene ricordato poiché protegge il gregge e il padrone, lo cerca quando non lo trova e lo piange disperato quando lo crede o lo ritrova morto. Dal cane di Ulisse in poi, sono numerosi gli aneddoti che vogliono i cani fedeli e con una memoria strepitosa: Argo, quando dopo vent’anni riLucca, Sacrestia del Duomo di S. Martino. Veduta d’insieme e il particolare del cane del monumento funebre di Ilaria del Carretto, seconda moglie di Paolo Guinigi, opera di Jacopo della Quercia. 1406-1408.

conobbe l’eroe di Itaca, iniziò a guaire e, dopo un ultimo ululato, morí di crepacuore. Nel Medioevo, invece, l’aneddoto piú frequente si svolge ad Antiochia e riguarda un cane che vendica il proprio padrone ucciso da un servo avido e traditore. Il cane fedele, dopo aver vegliato il cadavere del padrone, riconosce nella folla l’assassino e lo attacca inducendo la folla a interrogarlo. Torchiato, lo sciagurato confessa il delitto e viene punito grazie all’audacia della fedele bestiola. Per queste doti di fedeltà il cane iniziò a comparire in molte lastre sepolcrali, soprattutto di sposi. Fra tutti, possiamo ricordare il monumento alla giovane Ilaria del Carretto, morta a soli 26 anni nel 1405. Il marito, Paolo Guinigi, commissionò l’opera a Jacopo della Quercia, il quale pose ai piedi della donna un piccolo cane che guarda la donna quasi implorando un’ennesima carezza. Non sappiamo se l’animale sia mai esistito o se rappresenti appunto la fedeltà coniugale, come si usava all’epoca, soprattutto nelle corti del Nord Europa, con cui le signorie toscane erano in stretti contatti.


ANTE PRIMA

«Ponte» di nome e di fatto MOSTRE • La Galleria dell’Accademia ospita

la prima rassegna monografica dedicata a Giovanni di Marco, artista che, a dispetto della scarsa considerazione di cui ha goduto fino a tempi recenti, fu tra le personalità di spicco nel panorama della Firenze fra Tre e Quattrocento

«D

ice un antico proverbio A goditore non mancò mai roba, e verificasi certamente nella azzion di molti (...) i quali hanno il cielo sí benigno e tanto propizio, che e’ ne tiene cura particolare, e porge loro continovamente aiuto e sussidio, senza che essi vi pensin mai, come sempre aiutò Giovannino da Santo Stefano a Ponte di Fiorenza. Costui,

essendo naturalmente inclinato alle comodità e piaceri del mondo, non si curò molto di venir perfetto nella arte». Si esprimeva cosí, in termini non certo lusinghieri, Giorgio Vasari, nelle Vite, a proposito di una figura artistica rivalutata dalla critica soltanto in tempi recenti: Giovanni di Marco, o dal Ponte,

In alto Madonna dell’Umiltà, tempera su tavola di Giovanni dal Ponte. 1415 circa. Collezione privata. poiché abitava e aveva bottega nella parrocchia di S. Stefano al Ponte. E proprio dall’esigenza di promuovere una riclassificazione piú idonea dell’artista nell’ambito dell’Umanesimo tardo-gotico fiorentino, è nata la prima mostra monografica a lui dedicata, allestita nelle sale della Galleria dell’Accademia, a Firenze. Per l’occasione, sono state riunite circa 50 opere, scelte per omaggiare la carriera di un personaggio che ebbe un ruolo di notevole A sinistra trittico di Giovanni dal Ponte, con Incoronazione della Vergine (scomparto centrale); Cristo nel Limbo (cuspide centrale); San Francesco d’Assisi, San Giovanni Battista (scomparto sinistro); Angelo annunziante, Sant’Ivo (cuspide sinistra), San Domenico (scomparto destro); Vergine annunciata (cuspide destra). 1430 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia.

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MEDIOEVO


Adorazione dei Magi, scomparto di predella di Giovanni dal Ponte. 1425-1430 circa. Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts. importanza nel primo vitale Quattrocento e la cui lacunosa conoscenza è stata parzialmente colmata dalle ultime indagini documentarie intervenute su provenienza, datazione e iconografia – in particolare lo studio degli strumenti musicali – della sua prolifica produzione. Contraddistinta da un allestimento di grande impatto scenografico e cura delle luci sui fondi oro, l’esposizione documenta il percorso artistico di Giovanni in ogni fase, sia grazie ai prestiti ottenuti dall’Italia, sia grazie ai numerosi lavori giunti da musei stranieri.

Il percorso espositivo Articolato in quattro sezioni, l’itinerario prende avvio con la presentazione, nella prima sala, di opere ragguardevoli di artisti attivi nel capoluogo toscano nei primi decenni del XV secolo e fondamentali per la formazione di Giovanni, come Lorenzo Monaco e Ghiberti, oltre al Beato Angelico e a Masaccio. A partire dalla seconda sala, la rassegna racconta il cammino dell’autore, formatosi nella tradizione trecentesca, ma aggiornato alle novità contemporanee, capace di dar vita a un linguaggio personale ed estroso, su cui incise profondamente la vivace e descrittiva esegesi dell’«internazionale» Gherardo Starnina al suo rientro dalla

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Spagna, come evidenziato nel trittico del Museo di San Donnino a Campi Bisenzio, in origine nella chiesa di S. Andrea a Brozzi del 1410, la piú importante testimonianza degli esordi di Giovanni pervenutaci. Seguono quindi alcune pale commissionate per devozione privata, accanto a scomparti di trittici smembrati, risalenti agli anni Venti, nei quali si può leggere il

Errata corrige con riferimento al Dossier I «segugi» del Signore (vedi «Medioevo» n. 240, gennaio 2017) desideriamo precisare che Michele Pellegrini, coautore del testo, è studioso di storia medievale e non ricercatore in storia medievale all’Università di Siena. Dell’errore ci scusiamo con l’interessato e con i nostri lettori. progressivo avvicinamento all’arte di Masaccio, poi sviluppata nel polittico che aveva al centro la Madonna col Bambino in trono (Fitzwilliam Museum, Cambridge), a sinistra i santi Giovanni Battista e Pietro, e a destra i santi Paolo e Francesco d’Assisi (Museo Bandini, Fiesole), e con la predella raffigurante episodi della vita di san Pietro, accanto a santi ed evengelisti.

Il recupero del gotico A giudicare dal valore degli incarichi ricevuti, la linea degli anni Trenta del Quattrocento, attenta interprete della nascente cultura rinascimentale, dovette incontrare il consenso della committenza fiorentina. Successivamente però, accanto all’energica forza plastica riemerse sempre piú insistentemente un contrastante ricordo delle eleganze gotiche: un recupero in opere come le tavole di Poppiena o quella di Rosano, ordinata dalla badessa Caterina da Castiglionchio nel 1434, che riflette l’ultimo tentativo di un pittore omai maturo che preferí dirigersi verso un’arte piú fluida e meno rigorosa. Dopo essere stato imprigionato per debiti, per circa otto mesi, dal 1427 dal Ponte si mise in società con il pittore Smeraldo Madonna col Bambino in trono, tempera su tavola di Giovanni dal Ponte. 1425-1430 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia.

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ANTE PRIMA di Giovanni, insieme al quale si specializzò nella fornitura di cassoni dipinti, un genere che incontrava un grandissimo successo nella Firenze di quegli anni, seppur molto costoso. Il prezzo medio per uno di questi manufatti equivaleva allo stipendio medio annuale di un operaio o una domestica.

Gli amanti sul prato fiorito E da Parigi arriva il raffinato cassone nuziale «Giardino d’amore», databile intorno al 1435, il cui fronte è decorato da una scena che mostra una coppia di amanti identificabili in Paride ed Elena o forse Tristano e Isotta che passeggiano su un prato di fiori, simboli dell’immortalità dell’amore. Protagonista della rassegna è, però, il grande trittico con l’Incoronazione della Vergine e quattro Santi facente parte della collezione museale, e sottoposto, insieme ad altri dipinti, a un intervento di restauro che ne ha recuperato i valori formali e cromatici. Il bellissimo tappeto su cui poggiano i sacri personaggi, che appariva di un colore scuro, si è rivelato invece di un verde brillante, con ornamenti a ricchi

A destra Liberazione di san Pietro, scomparto della predella del Polittico di san Pietro, tempera su tavola di Giovanni dal Ponte. 1430 circa. In basso Annunciazione tra i santi Lorenzo, Benedetto, Giovanni Battista e Nicola, trittico di Giovanni dal Ponte. 1434. Rosano (Firenze), chiesa dell’abbazia di S. Maria. racemi dorati, mentre i panneggi degli angeli musicanti o il gradino, base della composizione, dopo la ripulitura, offrono brani naturalistici dalla resa inedita e lontana dalla ieratica astrazione trecentesca. Luminoso esempio di linearità gotica dalle sofisticate lumeggiature, contraddistinto da un colorismo vivido e dalla tenerezza del gioco di sguardi tra la madre

e il figlio, è la delicata Madonna col Bambino in trono, proveniente dalla Badia, ma conservata da tempo presso la Certosa del Galluzzo, acquisita dalla Galleria proprio in occasione dell’evento. Attivo anche come frescante e decoratore di carte, il 19 novembre 1437 Giovanni di Marco dettò il suo testamento, da cui si evince una discreta agiatezza economica. Morí poco dopo, lasciando un patrimonio pittorico che lo colloca in una posizione d’onore nel periodo di transizione tra Medioevo e Umanesimo. Mila Lavorini DOVE E QUANDO

«Giovanni dal Ponte (1385-1437/38). Protagonista dell’Umanesimo tardogotico fiorentino» Firenze, Galleria dell’Accademia fino al 12 marzo Orario martedí-domenica, 8,15-18,50; chiuso il lunedí Info e prenotazioni Firenze Musei, tel. 055 290383; e-mail: firenzemusei@operalaboratori.com; www.giovannidalponte.it

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MEDIOEVO


Antoniazzo torna a Montefalco

MOSTRE • Grazie all’eccezionale prestito concesso dalla basilica di S. Paolo fuori

le Mura, la cittadina umbra propone il confronto fra due dei massimi capolavori dell’artista che dominò la scena romana nella seconda metà del Quattrocento

N

ella Roma della seconda metà del XV secolo, Antoniazzo Romano (al secolo Antonio di Benedetto degli Aquili) era certamente il pittore piú famoso: guidava una fiorente bottega, che lo affiancava nei cantieri impegnati nella decorazione di chiese e conventi e nella produzione di tavole devozionali e d’altare. Il maestro romano è ora protagonista dell’esposizione allestita nel Complesso museale di San Francesco a Montefalco, che pone a confronto il trittico della Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro, realizzata tra gli anni 1488-1490

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In alto Montefalco, S. Francesco. La benedizione di Montefalco, particolare delle Storie di San Francesco, affrescate da Benozzo Gozzoli. 1450-1452. A sinistra Montefalco (Perugia). La chiesa di S. Illuminata.

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ANTE PRIMA A sinistra San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino, tempera su tavola a fondo oro di Antoniazzo Romano. Fine del XV sec. Montefalco, Complesso Museale di San Francesco. del martirio; sant’Antonio da Padova venne spogliato del saio francescano e rivestito di quello agostiniano al fine di trasformarlo in san Nicola da Tolentino. L’unico santo non modificato fu Vincenzo da Saragozza, connotato dal vascello. La Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro fu eseguita nel 1488-90 per la basilica di S. Paolo Fuori le Mura. Le figure dei santi, ampie e monumentali, sono riconoscibili dagli attributi e spaziate con equilibrio in un ideale semicerchio: i santi Pietro e Paolo affiancano la Vergine Maria in atto di adorare il Bambino, accanto san Benedetto e santa Giustina. Il linguaggio è addolcito, con ombre e luci modulate in passaggi morbidi e volti di malinconica dolcezza. Il fondo oro, simbolico richiamo alla e conservata presso la Pinacoteca della Basilica di S. Paolo Fuori le Mura a Roma. Gli ori del dipinto romano, restaurato nei laboratori dei Musei Vaticani, brillano accanto alla pala San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino, proveniente dalla chiesa di S. Illuminata di Montefalco e oggi custodita nella Pinacoteca cittadina.

I santi cambiano connotati Antoniazzo Romano realizzò la pala con i santi Vincenzo, Illuminata e Nicola da Tolentino nel 1430-35 per la cappella di S. Caterina nella chiesa di S. Maria del Popolo a Roma. Giunse a Montefalco nel 1491 e venne posta nella chiesa di S. Illuminata, grazie all’intervento di frate Anselmo da Montefalco, generale dei frati agostiniani. In quell’occasione fu eseguito un adattamento dei santi raffigurati

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A destra Madonna col Bambino tra i Santi Paolo, Benedetto, Giustina e Pietro, tempera su tela incollata su tavola a fondo oro di Antoniazzo Romano. 1488-1490. Roma, basilica di S. Paolo fuori le Mura, Pinacoteca.

sulla tavola, di cui il restauro dà testimonianza: santa Caterina d’Alessandria, titolare della cappella romana, fu trasformata in santa Illuminata, coprendone la ruota

luce divina, era stato nascosto nel XVIII secolo dipingendovi sopra un paesaggio, come si scoprí durante il restauro effettuato nel 1963. (red.) febbraio

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DOVE E QUANDO

«Antoniazzo Romano e Montefalco» Montefalco, Complesso museale di San Francesco fino al 7 maggio Orario fino al 31.03: me-do, 10,30-13,00 e 14,30-17,00; chiuso lunedì e martedì; aprile-maggio: tutti i giorni, 10,30-18,00 Info Sistema Museo, tel. 199 151 123 (lu-ve, 9,00-17,00, sa, 9,00-13,00); e-mail: callcenter@ sistemamuseo.it Museo di Montefalco, tel. 0742 379598; e-mail: montefalco@sistemamuseo.it; www.museodimontefalco.it

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Santa Illuminata, particolare della tempera su tavola di Antoniazzo Romano conservata a Montefalco (vedi foto alla pagina precedente). Fine del XV sec.

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ANTE PRIMA

La rocca delle monache fuggitive

ITINERARI • Rocca d’Olgisio, nel Piacentino, è

un complesso fortificato di origini altomedievali, poderoso e imponente. Nel tempo fu piú volte ristrutturato e ingentilito, fino a farne una elegante residenza signorile

B

oschi, colline e vigneti fanno da cornice a Rocca d’Olgisio (o d’Olzese), uno dei complessi fortificati d’origine altomedievale piú affascinanti dell’Emilia. Compresa nel circuito Castelli Aperti della Provincia di Piacenza, l’imponente architettura difensiva, soprannominata Arx impavida, per l’inespugnabile collocazione a strapiombo sulle anguste valli scavate dai torrenti Tidone e Chiarone, si erge su uno sperone di roccia arenacea fortemente erosa, ombreggiato da un fitto bosco di querce, cerri e roverelle, miste a ginepri. La posizione solitaria e minacciosa, la ripida salita del sentiero che, snodandosi in brevi

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curve, conduce alla roccaforte e la riposante campagna sullo sfondo offrono scorci incantevoli. Le origini di Rocca d’Olgisio s’intrecciano tra storia e leggenda.

Contro il volere paterno Sembra che nella seconda metà del VI secolo signore della Rocca fosse Giovannato, padre delle sante Liberata e Faustina. Si narra che l’uomo si fosse opposto al desiderio di monacazione delle due fanciulle, che cosí, una notte, fuggirono da Rocca d’Olgisio e andarono a Como, dove si stabilirono e fondarono il monastero di S. Ambrogio. Le prime notizie sicure sul maniero risalgono al 1037, anno in cui fu ceduto da Giovanni, canonico della cattedrale di Piacenza, ai monaci di S. Savino che ne mantennero la proprietà fino al 1296, quando fu acquistato da Uberto Campremoldo e Raimondo Petragia. Divenuto proprietà dei monaci di S. Sisto, nel 1314 il castello fu preso dopo un duro assedio da Obizzo Landi. Nel 1322 passò alla Chiesa e, nel 1352, a Barnabò Visconti. Sulle due pagine due vedute di Rocca d’Olgisio (Piacenza), le cui forme attuali sono l’esito di ripetute ristrutturazioni.

Quando si viveva nelle grotte Agli appassionati di archeologia, Rocca d’Olgisio riserva una curiosa sorpresa. Le pareti calcaree sulle quali la roccaforte è stata innalzata sono traforate da grotte naturali, molte delle quali presentano tracce di lavorazione. Si tratta di vari manufatti: fori per l’alloggiamento di pali quadrati e circolari nella superficie pavimentale o in quella sommitale della grotta, adattamenti del piano di calpestio, piccoli anfratti ricavati nelle pareti – forse usati come ripostigli –, giacigli, banchine, gradini scavati nella roccia che mettono in comunicazione l’una con l’altra le diverse grotte e imponenti gradinate interne (fino a venticinque scalini in una delle grotte piú grandi). Tali lavorazioni sono estese anche ad altre rocce a cielo aperto, che mostrano fori per pali, gradini e vasche per la

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febbraio

conservazione dell’acqua, alcune delle quali con canalette di scolo. Due grotte, ostruite dalla sabbia generata dalla disgregazione della roccia calcarea, sono state esplorate e hanno restituito frammenti di vasellame in ceramica d’impasto, attribuibile all’età del Bronzo Recente e alla seconda età del Ferro. In alcuni camminamenti presso altri anfratti sono stati trovati una perla in pasta vitrea gialla e blu di età gallica e un frammento con orlo di coppetta di vetro soffiato di età imperiale romana. Un indizio dell’uso funerario di alcune di esse può invece essere l’incisione di simboli, collegati al culto dei defunti. Per approfondire l’argomento, si può consultare il volume di Antonio Zucconi, La scoperta delle grotte di Rocca d’Olgisio (Legatoria Editoriale, Piacenza 2002).

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ANTE PRIMA Piante rare ed esotiche Rocca d’Olgisio è un sito di notevole interesse anche dal punto di vista botanico. Passeggiando per i sentieri, che si snodano a quasi 600 m di quota e conducono alle innumerevoli grotte, si possono infatti osservare piante rare e protette. Come il fico d’India nano (Opuntia compressa), una pianta grassa, originaria del Nord America, che estremamente localizzata in Emilia, oltre a Rocca d’Olgisio, unica stazione piacentina nota, si trova nel Parmense. Oppure come il sigillo di Salomone (Polygonatum odoratum), il cui nome forse deriva dall’antico uso medicinale del rizoma, che serviva per «sigillare» ferite e ossa rotte. A seconda delle stagioni, si ammirano fioriture di diverse specie di gerani selvatici, tra cui il geranio sanguineo. E ancora del dittamo (Dictamnus albus), usato in erboristeria per le proprietà toniche e diuretiche, di asfodeli, di tulipani inselvatichiti, per esempio quella del

raro occhio di sole (Tulipa oculus solis), di amarillidi gialli (Stenbergia lutea), di aconiti e di orchidee: della comune orchidea piramidale (Anacamptis pyramidalis), all’orchidea purpurea (Orchis purpurea) e fior di ragno (Ophrys sphegodes), alla rara Aceras anthropophorum. La presenza di una flora cosí ricca e inconsueta su queste alture si deve, forse, ai monaci di S. Savino, che, nel Medioevo, vi coltivavano piante officinali e ornamentali, successivamente inselvatichitesi, o magari all’importazione da terre lontane di flora esotica. Certo è che diverse componenti interagiscono e si influenzano a vicenda, in particolare la tipologia del terreno, la varietà delle rocce affioranti e il microclima di questa «valle a canoa», che si pone quasi a chiudere metà della Val Chiarone, originando una sorta di piccolo bacino, in cui la circolazione delle correnti d’aria risulta sicuramente favorevole.

Rocca d’Olgisio. La Sala delle Armi. L’infeudazione da parte di Galeazzo Visconti al celebre capitano di ventura Jacopo Dal Verme risale al 1378. La nobile famiglia piacentina Dal Verme ne detenne il possesso fino a tutto il Settecento, eccetto alcuni brevi intervalli. La trasformazione dell’austero fortilizio in residenza signorile risale al Seicento. Oggi la struttura difensiva, protetta da sei cinte murarie aggiunte al nucleo originario fra Basso Medioevo ed età rinascimentale, si presenta come l’ardita sovrapposizione di architetture di epoche differenti. Vi si accede dal lato nord, tramite due grandi portali, che conducono al panoramico giardino e alla bella torretta con merlatura ghibellina.

La galleria segreta Oltrepassato il torrione, costruito con stipiti formati da conci di pietra regolari, un soffice tappeto erboso incornicia il pozzo, profondo una cinquantina di metri e ancora funzionante. Posto al centro del cortile e racchiuso da quattro fabbricati, nasconderebbe a metà canna un passaggio segreto, che un

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tempo comunicava con una galleria e in caso di assedio consentiva la fuga fuori dal recinto fortificato. L’edificio principale, arroccato sulla sommità del roccione, risale al Trecento. Rimaneggiato nel corso dei secoli, rappresenta la costruzione piú elevata del complesso architettonico. Vi si accede per una semplice porta, con stipiti formati da conci di pietra regolari, ne consente l’accesso. Durante il percorso di visita è possibile osservare i locali sotterranei

e i piani inferiori, con la cucina dal grande focolare e l’interessante raccolta etnografica, e i piani superiori, ristrutturati nel rispetto delle originarie forme rinascimentali. Info: il castello è aperto da aprile a ottobre, il sabato e la domenica. Per visite negli altri giorni è possibile contattare i seguenti numeri di telefono: 0523 998045 oppure 0523 998075; e-mail: info@roccadolgisio.it Chiara Parente febbraio

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ANTE PRIMA

Evviva la Bela Pignatera!

N

el 1386 la popolazione di Castellamonte, centro piemontese a una quarantina di chilometri da Torino, fu coinvolta nella rivolta del Tuchinaggio, scatenata nel Canavese. Le comunità locali, stanche per i soprusi dei feudatari appartenenti ai consortili di San Martino e di Valperga, insorsero, chiedendo indipendenze comunali e alleggerimenti fiscali. All’epoca il conte di Castellamonte era un certo Uguccione, noto per la sua spietatezza, mentre la moglie, Isabella di Montebello, veniva stimata dai paesani per sensibilità e generosità. Quando la ribellione degenerò, il popolo assalí il castello, se ne impadroní e lo incendiò,

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APPUNTAMENTI •

Castellamonte, nel Torinese, si appresta a rievocare un’antica rivolta e il sollievo per il ritorno della magnanima contessa Isabella

uccidendo tutti gli occupanti. I paesani intendevano risparmiare Isabella, ma la contessa al termine del massacro non fu ritrovata, cosí pensarono che fosse morta fra le fiamme dentro al maniero.

Accolta con tutti gli onori In realtà, era fuggita da un passaggio segreto, mettendosi in salvo. E grazie al suo successivo intervento la situazione si pacificò. Acclamata dal popolo, Isabella scese dal castello al borgo, dove fu nominata Bela Pignatera e le assegnarono una corte d’onore composta da sette damigelle rappresentanti le sette porte cittadine. Da allora questi eventi vengono rievocati nell’ambito del

Carnevale Storico di Castellamonte, quest’anno in programma dal 18 febbraio al 1° marzo. Nel primo giorno di festa, le dame e il console salgono al castello per incontrare la contessa Isabella, che viene accompagnata da un corteo fino al borgo dove viene nominata Bela Pignatera. Nella giornata del mercoledí grasso i sette rioni cittadini (che rappresentano le sette porte di Castellamonte: Maglio, Fontana, Pracarano, San Pietro, Borgo Nuovo, Castello e Torrazza) propongono cucina tradizionale, giochi, balli e musiche. L’ultima domenica di carnevale è animata da una grande sfilata in costumi e una fagiolata popolare nella rotonda Antonelliana. febbraio

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Qui si danza al ritmo dell’Ariosa

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In questa pagina Bagolino (Brescia). Momenti del carnevale bagosso. Nella pagina accanto figuranti impegnati nelle feste di Castellamonte (Torino). Le celebrazioni si chiudono il mercoledí delle Ceneri con il Carosello storico: sfila il Carroccio della Bela Pignatera attorniato da figuranti rionali e personaggi legati alle vicende medievali di Castellamonte, seguito da carri allegorici provenienti da ogni parte del Canavese. A tarda sera, seconda un’antica tradizione, nella piazza centrale viene bruciato il Re Pignatun, un grande fantoccio di paglia e segatura, simbolo del Carnevale che muore. Tiziano Zaccaria

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l borgo bresciano di Bagolino ospita uno dei carnevali piú originali d’Italia, la cui origine risale almeno al XVI secolo, come attestano alcuni documenti dell’archivio comunale. La ricorrenza, nota come il «carnevale bagosso», viene animata dai balarí, danzatori accompagnati da musicisti, e dai maschèr, le maschere. I balarí si esibiscono nelle piazze e nelle strade del paese soltanto il lunedí e il martedí ultimi di carnevale. Sono vestiti con giacca, pantaloni scuri al ginocchio, camicia bianca, cravatta scura, guanti bianchi, un lungo scialle di seta e una tracolla di velluto ricamato. Hanno il volto nascosto da una maschera inespressiva di color avorio e un cappello in feltro, con un lungo nastro che forma un grande fiocco. Sono accompagnati da un ampio repertorio musicale, dove il violino è lo strumento che detta le melodie. La danza piú tipica e spettacolare è l’Ariosa, sulle cui note ballano in modo sfrenato, disposti in cerchio.

Voci in falsetto per canzonare e non farsi scoprire Piú popolare è la tradizione dei maschèr, che di solito si muovono in coppia, travestiti da vecchio e vecchia, con maschere grottesche in viso. Dal giorno dell’Epifania all’ultima domenica di carnevale, tutti i lunedí e giovedí vagano con una goffa postura per il paese, divertendosi a canzonare le persone parlando in falsetto per non farsi riconoscere. Gli uomini hanno pantaloni neri al ginocchio con patta quadrata, giacca nera, gilet e camicia bianca, mentre il costume femminile è costituito da un’ampia gonna lunga fino ai piedi, un corpetto attillato, un grembiule di lana, un fazzoletto con ricami floreali sulle spalle e un ampio scialle di lana che copre il capo e le spalle. Muovendosi, producono un gran frastuono con i loro sgalber, i tradizionali zoccoli in legno chiusi. Bagolino è un piccolo centro nella valle Sabbia che conserva l’antico aspetto medievale, con stradine tortuose, piazzette, palazzi antichi e scalinate strette. Nel VII secolo il borgo divenne parte del regno longobardo, poi dall’XI secolo fu governato dal principato vescovile di Trento. T. Z.

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ANTE PRIMA

Il Carnevale dei marinai APPUNTAMENTI • A Fiume e nella sua regione, la festa piú scanzonata dell’anno

si svolge nel segno di personaggi che assumono fattezze grottesche e annunciano la loro presenza suonando a distesa rumorosi campanacci. Una tradizione antica, attorno alla quale, già nel Medioevo, si riunivano folle di ogni estrazione e origine

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n Croazia esistono numerose feste carnevalesche differenti per contenuti e costumi, vivaci soprattutto nelle regioni di Hrvatsko Zagorje e Medimurje, in Istria e nelle zone costiere. A Rijeka, la cittadina bagnata dal Mare Adriatico, sul Golfo del Quarnaro, il carnevale rappresenta una tradizione millenaria. In questo centro – noto

in italiano col nome di Fiume –, già nel periodo della Roma antica si festeggiavano i Saturnali, dal 17 al 23 dicembre, con maschere il cui compito era quello di spaventare gli spiriti maligni dell’inverno e stimolare un nuovo ciclo primaverile per ottenere un buon raccolto. Ma il carnevale come lo conosciamo oggi nacque durante il Medioevo,

quando nella vecchia Fiume le famiglie si incontravano in piazza Kobler per festeggiare e ballare. Era un’ottima occasione per ragazzi e ragazze di fare nuove conoscenze: incontri che spesso si risolvevano in altrettanti matrimoni, per la soddisfazione delle famiglie. Ma oltre alle abitudini popolane, vi era anche una tradizione

Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

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aristocratica. nobili austriaci e ungheresi, principesse russe, baroni tedeschi e conti di tutta Europa erano ospiti delle feste fiumane. Oggi le celebrazioni di Rijeka uniscono elementi dei piú moderni carnevali di Venezia e Vienna, risalenti al Sei-Settecento, con elementi piú antichi del folclore e della mitologia slava. Le feste iniziano con la consegna delle chiavi cittadine, da parte del sindaco, al Mastro di Carnevale. Evento «clou» è poi la grande sfilata che va in scena per le strade del centro storico l’ultima domenica di carnevale.

Contro il turco invasore Le maschere tradizionali della regione di Fiume sono gli Zvoncari, personaggi vestiti da marinaio, che indossano una maglietta a righe, pantaloni bianchi, una pelle di pecora sulle spalle, intorno alla vita portano uno o piú campanacci di rame e nelle mani tengono una mazza chiamata bacuka. La maschera che portano sul viso cambia da paese a paese. Gli Zvoncari provenienti dai villaggi di Halubje e Grobnik, per esempio, indossano maschere stilizzate che rappresentano teste di animali fantastici, mentre quelli di Žejane e Brgud hanno dei cappelli di fiori. Queste figure folcloristiche sfilano numerose nell’ultima domenica di carnevale. E, nei giorni precedenti, si spostano da un villaggio all’altro nell’area di Fiume, provocando con i loro campanacci un grande fracasso, alimentato in parte dal vino offerto dai locali lungo il percorso. Secondo una leggenda, in una data imprecisata del Medioevo i marinai locali spaventarono l’esercito turco durante un tentativo d’invasione indossando maschere mostruose e producendo un rumore assordante con i campanacci. Nacque cosí la maschera dello Zvoncari, oggi inserita dall’UNESCO nel patrimonio culturale immateriale dell’Umanità. T. Z.

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Alla corte di San Pançard P

au è una cittadina di origine medievale della Francia sud-occidentale, a circa 100 km dall’Oceano Atlantico, a una trentina dai Pirenei e a 50 dalla frontiera con la Spagna. Fin dal 1464 è la capitale storica della contea (oggi provincia) di Béarn, in Aquitania. Si tratta di un territorio dalle tradizioni culturali molto identitarie, che trovano la loro massima espressione nel Carnevale Biarnés, in programma il martedí grasso, quest’anno il 28 febbraio. La maschera folcloristica per eccellenza di Pau è l’orso, che, nelle leggende locali, per astuzia, forza e intelligenza veniva spesso paragonato all’uomo, individuandolo a volte come il suo progenitore. Nella tradizione pirenaica l’orso simboleggia anche la primavera: si riteneva che, uscendo dalla sua tana, accelerasse il risveglio della natura. Altro protagonista del Carnevale Biarnés è sua maestà San Pançard, un re panciuto che rappresenta i difetti dell’essere umano. È il capro espiatorio perfetto, tanto che il martedí grasso si chiude con la sua condanna, dopo essere stato accusato dai giudici dei mali che affliggono l’umanità. Fra l’acclamazione della folla, il manichino che lo rappresenta finisce al rogo e, con esso, bruciano simbolicamente disgrazie e preoccupazioni, ma la tradizione impone di non calpestarne le ceneri, perché i mali potrebbero attaccarsi alle scarpe. Fanno da contorno le figure della corte di San Pançard, fra cui la Caronha (la moglie), Bacchus (l’ubriacone), Paloma (la donna di Bacchus), Chivalet (il cavallo donnaiolo) e Roseta (la giovane strappata dalle grinfie dall’orso).

Un limite ai poteri del principe Durante il Medioevo in questo angolo di Francia le feste carnevalesche presero piede nei villaggi di campagna, stabilendosi poi nelle città e conoscendo l’apoteosi appunto a Pau. La contea di Béarn si costituí nell’XI secolo, organizzandosi giuridicamente intorno alle leggi che limitavano i poteri del principe d’Aquitania, sancivano alcuni diritti individuali e riconoscevano quelli delle donne. Era, insomma, una provincia moderna e avanzata in termini di democrazia, che restò indipendente fino al 1620, quando fu annessa alla Francia da Luigi XIII, che impose anche l’uso del francese come lingua ufficiale. Ma ancora oggi, cinque secoli dopo, resta viva (anche se in pericolo d’estinzione) la lingua locale, una varietà di guascone che appartiene ai grandi dialetti occitani e provenzali. Oggi Pau è una bella città d’arte, nota anche per il castello medievale costruito nel Trecento da Gastone Febo di Foix, signore del Béarn, su una preesistente fortezza dell’XI secolo. T. Z.

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AGENDA DEL MESE

Mostre TORINO LO SCRIGNO DEL CARDINALE Palazzo Madama, fino al 6 febbraio

A novecento anni dalla riconferma della Magna Charta, siglata a Bristol l’11 novembre 1216 grazie all’iniziativa del cardinale Guala Bicchieri, Palazzo Madama celebra il prelato vercellese, figura chiave dello scacchiere diplomatico europeo nel primo Duecento, nonché appassionato collezionista di arte gotica. Il percorso espositivo illustra le principali opere giunte sino a noi della sua preziosa raccolta. Innanzitutto, gli smalti di Limoges, fra i quali spiccano il Cofano di Palazzo Madama utilizzato dal presule come baule da viaggio per gli arredi liturgici, le oreficerie e i documenti che portava con sé

a cura di Stefano Mammini

durante gli spostamenti; un prezioso cofanetto proveniente dal Museo Leone di Vercelli; e tre dei dodici medaglioni conservati al Musée du Louvre provenienti da un cofano di Guala Bicchieri e raffiguranti animali, creature fantastiche e scene di combattimento. info www.palazzomadamatorino.it

durante le dinastie Song e Yuan (960-1368), passando per quelle della dinastia Ming (1368-1644) delle fornaci di Jingdezhen che produssero in particolare per la corte imperiale, fino ad arrivare alle piú recenti di epoca Qing (1644-1911), che rappresentano il momento del massimo splendore e della piena maturità. info www. capolavoriporcellanacinese.it

PARIGI L’ETÀ DEI MEROVINGI Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 13 febbraio

Forte di oltre centocinquanta opere – che comprendono sculture, manoscritti miniati, oreficerie, monete, tessuti e documenti d’archivio – la mostra ripercorre gli eventi che maggiormente segnarono i trecento anni che intercorrono tra la battaglia dei Campi Catalaunici (451) e la fine del regno dei sovrani merovingi, ingloriosamente ribattezzati

«fannulloni» (751). Fu un’epoca in cui videro la luce numerosi reami, fra cui quelli franchi, che in parte si rifacevano all’impero romano e che però subirono le influenze determinanti delle culture dell’area germanica. Parallelamente, la diffusione del cristianesimo fece emergere nuove credenze, come il culto delle reliquie, pur senza cancellare del tutto le tradizioni pagane, che furono in parte «cristianizzate». Andò cosí definendosi un universo nuovo e originale, di cui la produzione artistica merovingia è specchio eloquente. info www.musee-moyenage.fr ROMA CAPOLAVORI DELL’ANTICA PORCELLANA CINESE DAL MUSEO DI SHANGHAI. X-XIX SECOLO D.C Museo Nazionale di Palazzo Venezia fino al 13 febbraio

Le sale quattrocentesche di Palazzo Venezia espongono, per la prima volta in Italia, le ceramiche cinesi della collezione del Museo di Shanghai, una delle istituzioni museali piú importanti della Cina. La mostra è l’occasione per ammirare una settantina di preziose porcellane, riferibili a diverse epoche: dalla grande varietà e prosperità delle pregiate ceramiche prodotte

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FIRENZE LA TUTELA TRICOLORE. I CUSTODI DELL’IDENTITÀ CULTURALE Galleria degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 14 febbraio

L’esposizione, che segna l’inaugurazione dell’Aula Magliabechiana come spazio per le esposizioni temporanee degli Uffizi, vuole far riflettere sul ruolo che l’arte pubblica riveste per la collettività e sulle strategie specifiche che si sono sviluppate nel sistema italiano, dalla seconda guerra mondiale in poi, per la sua protezione e il suo recupero. La mostra si articola in otto sezioni che rendono conto dei febbraio

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MOSTRE • Santa Maria Antiqua tra Roma e Bisanzio Roma - Foro Romano

fino al 19 marzo info e visite guidate tel. 06 39967700; www.coopculture.it

S

coperta nel 1900 alle pendici del Palatino, la basilica di S. Maria Antiqua conserva sulle sue pareti un patrimonio di pitture unico nel mondo cristiano del primo millennio. Al suo interno è allestita un’esposizione che è «mostra» del monumento stesso, poiché gravita intorno al ruolo che l’edificio, con i suoi dipinti, ha giocato nell’area del Foro Romano postclassico cristianizzato e al rapporto con la Roma altomedioevale, là dove si andavano concentrando la vita religiosa e i servizi pubblici di approvvigionamento per cittadini e pellegrini. La fase decorativa conobbe numerosi interventi, di cui testimonia la parete definita «palinsesto», pietra miliare

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nella storia della pittura medievale. Si tratta di un ampio lacerto in prossimità dell’abside, in cui sono identificabili sei strati di pittura: dal IV-V all’VIII secolo d.C. Del momento pagano si riconosce un intonaco dipinto, mentre al periodo della fondazione della chiesa risale l’immagine della Maria Regina, una Madonna in trono con il Bambino e adorata da un angelo, sino ad arrivare a un frammento con la testa di un Padre della Chiesa. Particolarmente ben conservato anche il ciclo dedicato al martirio dei santi Quirico e Giulitta, che decora quasi integralmente la cappella di Teodoto, risalente al pontificato di papa Zaccaria (741-752).

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AGENDA DEL MESE crimini contro il nostro patrimonio - da quelli di guerra a quelli terroristici, fino ai furti con scopo di lucro e agli scavi clandestini con conseguenti esportazioni illecite – e dell’opera meritoria del Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri. Di particolare interesse risulta il capitolo dedicato all’attività condotta da Rodolfo Siviero per il salvataggio delle opere delle Gallerie di Firenze, trafugate nel corso dell’ultimo conflitto mondiale: vi si trovano esposte

le Fatiche di Ercole di Antonio Pollaiolo, la Madonna col Bambino (detta Madonna del Solletico o Madonna Casini) di Masaccio, il Ritratto di uomo di Hans Memling, l’Avarizia di Francesco Furini, il Pigmalione e Galatea di Bronzino, Ritratto di giovane donna di scuola emiliana (illecitamente esportata negli Stati Uniti con la suggestiva attribuzione a Raffaello). Una menzione particolare meritano le opere ancora mai viste in Italia, confluite nella sezione di

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tramandato oralmente, ma affidato alla parola scritta, corredata da miniature e confezionata in preziose rilegature. info www.asia.si.edu ROMA DALL’ANTICA ALLA NUOVA VIA DELLA SETA Palazzo del Quirinale fino al 26 febbraio

chiusura L’attività continua: la Peplophoros di Villa Torlonia, il pugnale con impugnatura in giada dell’armeria di Friederich Stibbert, il celebre Carro di Eretum tornato da Copenaghen, il Ritratto di Giulia Domna di Villa Adriana, le pagine miniate dell’Antifonario di Santa Verdiana a Castelfiorentino. info Firenze Musei, tel. 055 294883 WASHINGTON L’ARTE DEL CORANO: TESORI DAL MUSEO DI ARTI TURCHE E ISLAMICHE Smithsonian’s Freer Gallery of Art and Arthur M. Sackler Gallery fino al 20 febbraio

Grazie ai prestiti concessi dal Museo di Arti turche e islamiche, le gallerie della Smithsonian Institution hanno

potuto riunire oltre 60 preziose edizioni manoscritte del Corano, realizzate in laboratori della regione araba, della Turchia, dell’Iran e dell’Afghanistan. Celebrati per le loro magnifiche calligrafie, questi volumi abbracciano un orizzonte cronologico di piú di mille anni – si va da un esemplare prodotto a Damasco nell’VIII a un Corano trascritto nel XVII secolo a Istanbul – e rappresentano un corpus di testimonianze essenziali per conoscere e apprezzare l’antica arte libraria. La mostra permette anche di osservare il processo che fece delle rivelazioni di Maometto un patrimonio non piú

Il progetto espositivo abbraccia nella sua complessità, ricchezza e spessore cronologico la storia dei rapporti tra l’Oriente e l’Europa, e in particolare con l’Italia. Basti pensare ai viaggi in Cina di Marco Polo e dei gesuiti Matteo Ricci e Martino Martini, il cui ricordo è ancora vivo tra i Cinesi di oggi. L’esposizione propone 80 capolavori provenienti da istituzioni archivistiche, bibliotecarie e museali europee e italiane, affiancati da una ventina di opere moderne provenienti dalla Cina e realizzate da artisti cinesi contemporanei. Gli oggetti testimoniano la varietà e la ricchezza degli scambi, l’abilità degli artigiani nella produzione delle sete, delle ceramiche, delle pietre e dei metalli preziosi e la perizia con cui i cartografi dell’antichità hanno rappresentato il mondo a loro noto, integrando le nuove conoscenze geografiche in un quadro sempre piú ampio e complesso. info www.palazzo.quirinale.it

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MOSTRE • Bellini e i belliniani, dall’Accademia dei Concordi di Rovigo Conegliano - Palazzo Sarcinelli

fino al 18 giugno (dal 25 febbraio) info e prenotazioni tel. 0438 1932123; www.mostrabellini.it

L

a nuova mostra in Palazzo Sarcinelli prosegue le esplorazioni sulle trasformazioni dei linguaggi della pittura veneziana e veneta negli anni magici tra Quattro e Cinquecento, approdando alla figura imprescindibile di Giovanni Bellini, nel quinto centenario della morte del maestro. Chi sono, quindi, i giovani artisti e collaboratori del grande Giambellino? Come si formarono, quale posto avevano nella produzione della bottega? Che cosa trassero e che cosa a loro volta tramandarono dalla frequentazione e dalla stessa collaborazione con un artista-intellettuale tanto sublime per pensiero e per invenzione, per tecnica e non meno che per precisione formale? L’esposizione prende le mosse proprio da queste domande e trova nella raffinata collezione dell’antica e prestigiosa Accademia dei Concordi di Rovigo lo spunto per tracciare una sorta di mappa (ipotetica e virtuale, ma supportata da una eletta serie di dipinti) del milieu belliniano. Dai due celebri capolavori di Bellini in mostra – la Madonna col Bambin Gesú e il Cristo portacroce – il percorso espositivo propone importanti confronti, contaminazioni, suggestioni con opere di altri artisti, da Palma il Vecchio a Dosso Dossi fino a Tiziano e Tintoretto, o, addirittura, a maestri tedeschi e fiamminghi (come Mabuse e Mostaert) per sottolineare la centralità di Giovanni Bellini rispetto a uno scenario non solo veneziano e veneto (come ben aveva capito nei suoi passaggi veneziani Albrecht Dürer). In tale trama narrativa ed espositiva si vengono a collocare nomi e personalità molto diverse, tutte accumunate da una piú o meno intensa frequentazione di Giovanni Bellini e del suo atelier: assistenti che hanno lavorato al suo fianco nelle grandi imprese decorative di Palazzo Ducale o nelle sale delle Scuole di San Marco e di San Giovanni Evangelista; aiuti che hanno replicato le piú fortunate tavole destinate alla devozione privata; artisti partiti da cartoni della bottega, che hanno poi continuato la loro ricerca in autonomia di ispirazione e di linguaggio, dichiarando però il loro legame profondo e irrinunciabile con la pittura del maestro.

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AGENDA DEL MESE BOLOGNA CITTÀ CRISTIANA, CITTÀ DI PIETRA. ITINERARIO ALLE ORIGINI DELLA CHIESA DI BOLOGNA Raccolta Lercaro fino al 26 febbraio

La mostra consiste in un percorso fotografico che ripercorre le radici storico-religiose della città di Bologna (dal protovescovo Zama all’VIII secolo) attraverso i monumenti, le fonti letterarie, i documenti epigrafici e gli oggetti superstiti. L’immagine che emerge per i primi secoli del cristianesimo a Bologna è

quella di una città poco estesa, abbastanza limitata negli spazi rappresentativi e religiosi, connotata da espressioni architettoniche e decorative poco appariscenti. La sua comunità cristiana pare al contrario vivace: strettamente legata alle figure dei propri vescovi sembra voler mantenere ben saldo il legame spirituale e culturale di filiazione dalla sede milanese, sperimenta numerosi contatti, risente di molteplici influenze. La città della prima metà del V secolo, sotto il magistero petroniano, non avrà avuto forse la razionale coesione urbanistica dei primi secoli dell’impero, ma certamente presentava già una fisionomia policentrica in senso cristiano, con una dislocazione differenziata dei luoghi di aggregazione religiosa

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e un’organizzazione dei percorsi in funzione di questi. info tel. 051 6566.210-211; e-mail: segreteria@ raccoltalercaro.it

primissimi anni del Quattrocento – introdusse a Firenze un’interpretazione esuberante e profana della pittura tardo-gotica, risultata decisiva per Giovanni e per la formazione del suo stile. info www.giovannidalponte.it

FRATTA POLESINE (ROVIGO) STORIA DEL PROFUMO, PROFUMO DELLA STORIA Museo Archeologico Nazionale fino al 26 febbraio

Il profumo è stato ed è, strumento di seduzione, medium per subliminali messaggi, fragranza in grado di avvicinare alla divinità, ma anche modo per occultare l’odore di corpi mai lavati e di ambienti dove l’igiene non aveva casa. Di tutto questo si dà conto dipanando storie diversissime, che abbracciano oltre quattromila anni di profumi, anche attraverso i loro contenitori: da quelli prodotti nelle regioni del Mediterraneo orientale e risalenti al XX secolo a.C., ai preziosissimi in vetro o ceramica, dell’età greca e romana. E poi ancora libri, antichi formulari e farmacopee, poster e oggetti Liberty, ai quali fanno da supporto didattico anche strumenti multimediali ed esperienze sensoriali. info tel. 0425 668523

SAINT-DIZIER (FRANCIA) AUSTRASIA, IL REGNO MEROVINGIO DIMENTICATO Espace Camille Claudel fino al 26 marzo

FIRENZE GIOVANNI DAL PONTE (1385-1437/38). PROTAGONISTA DELL’UMANESIMO TARDO GOTICO FIORENTINO Galleria dell’Accademia fino al 12 marzo

Forte di una cinquantina di opere, la mostra è la prima rassegna monografica dedicata a Giovanni dal Ponte (1385-1437/38) e vuole favorire una classificazione critica piú adeguata di questa forte personalità artistica del primo Quattrocento. La formazione artistica del pittore – nato Giovanni di Marco e ricordato come Giovanni dal Ponte nelle Vite del Vasari per il fatto di essere abitante e aver avuto bottega a Firenze nella parrocchia di S. Stefano al Ponte – si svolse probabilmente in una bottega di tradizione trecentesca, anche se un’influenza fondamentale la esercitò ben presto Gherardo Starnina, che – al suo ritorno dalla Spagna nei

La dinastia merovingia visse il suo apogeo fra il VI e l’VIII secolo, avendo come teatro delle proprie gesta l’Austrasia, regione dell’antica Francia ora protagonista della mostra di Saint-Dizier. Il progetto espositivo porta all’attenzione del pubblico il caso di un’identità che prese forma da una significativa diversità culturale e, nel segno di questa scelta, invita a scoprire, soprattutto grazie ai

reperti archeologici, la singolarità e la ricchezza che caratterizzarono la vita quotidiana e l’organizzazione del regno merovingio. Fra gli altri, sono stati riuniti per l’occasione il corredo della tomba del piccolo principe di Colonia, l’anello del vescovo Arnolfo di Metz e i gioielli della signora di Grez-Doiceau. info www.austrasie-expo.fr febbraio

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BERLINO

MODENA

L’EREDITÀ DEGLI ANTICHI SOVRANI. CTESIFONTE E LE FONTI PERSIANE DELL’ARTE ISLAMICA Pergamonmuseum fino al 2 aprile

IL SEGNO DI ARIOSTO. AUTOGRAFI E CARTE ARIOSTESCHE NELL’ARCHIVIO DI STATO DI MODENA. Archivio di Stato di Modena fino al 29 aprile

Al pari della religione, anche l’arte islamica affonda le sue radici nelle culture del Vicino Oriente antico ed è da questo presupposto che nasce il progetto espositivo incentrato su Ctesifonte (i cui resti si trovano nell’odierno Iraq, a sud di Baghdad) e che analizza l’eredità persiana recepita dall’Islam. Dominata dalle monumentali volte del palazzo reale – il Taq-i Kisra (Arco di Cosroe) –, la città è l’emblema della grandezza e del declino dell’impero sasanide, che fu capace di rivaleggiare a lungo con Roma e Bisanzio. Nel VII secolo, la conquista araba rivoluzionò gli equilibri di potere e si produsse anche una trasformazione sul piano culturale. Ma, come spiega la mostra, le manifestazioni esistenti non scomparvero e sopravvissero nelle nuove espressioni artistiche. info www.smb.museum

In occasione del 500° anniversario della prima edizione dell’Orlando Furioso, viene esposta una selezione

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preziosi dati storici per lo Stato estense e per l’Europa, dando nel contempo testimonianza di una prosa autenticamente letteraria, intrecciata al grande impegno poetico per la stesura del Furioso. Fanno da corredo agli autografi alcuni testi (come l’unica lettera autografa di Ruzante conservatasi), edizioni antiche del Furioso e documenti iconografici dei secoli XVI-XVII (mappe di Ferrara, Roma, Reggio e Garfagnana, disegni di macchine scenografiche, di giostre di cavalieri, di armi) e immagini delle filigrane delle carte inviate da Ariosto dai vari luoghi in cui risiedeva. info tel. 059 23 05 49; e-mail: as-mo@beniculturali.it MONTEFALCO (PERUGIA) ANTONIAZZO ROMANO E MONTEFALCO Complesso museale di S. Francesco fino al 7 maggio

Il progetto espositivo mette a confronto, per la prima volta, due opere di Antoniazzo, Romano (nome con il quale è meglio noto Antonio di Benedetto Aquili, nato fra il

1435 e il 1440 da una famiglia di pittori e morto dopo il 1508), simili ma diverse: una custodita a Montefalco (San Vincenzo da Saragozza, Santa Illuminata, San Nicola da Tolentino), l’altra nella Pinacoteca della basilica di S. Paolo Fuori le Mura (Madonna col Bambino, tra i Santi Paolo, Benedetta, Giustina e Pietro), che permettono di comprendere meglio il percorso artistico e la versatilità di questo grande maestro. Le due tavole sono accomunate dalla provenienza romana delle chiese d’origine (rispettivamente, S. Maria del Popolo e S. Paolo fuori le Mura), dalla forma quadrangolare della pala di gusto rinascimentale, che abbandona quella del trittico a scomparti, e dall’utilizzo del medesimo cartone preparatorio. info www.sistemamuseo.it PARIGI CHE C’È DI NUOVO NEL MEDIOEVO? Cité des sciences et de l’industrie fino al 6 agosto

delle 61 lettere autografe scritte dall’Ariosto tra il 1509 e il 1525. Le missive, tra cui due inediti, rimandano a distinte fasi biografiche e professionali del poeta: «familiare» del cardinale Ippolito I e di Alfonso I d’Este; ambasciatore dello Stato estense presso i papi Giulio II e Leone X; commissario in Garfagnana. Il carteggio presenta una fondamentale importanza politico-amministrativa e offre

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AGENDA DEL MESE In Francia, la pratica dell’archeologia preventiva è gestita dall’INRAP (Institut national de recherches archéologiques preventives), che è fra gli ideatori di questo nuovo progetto espositivo e grazie alle cui ricerche è stato possibile riunire i materiali presentati. Si tratta di un repertorio in molti casi inedito, che permette di

permettono inoltre la visione delle fasi di recupero delle opere dopo il terremoto. info e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; tel. 0577 286300; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com

Appuntamenti FIRENZE PROFILI DI ARTISTI NEI MONUMENTI DELL’OPERA DI SANTA MARIA DEL FIORE (SECONDO CICLO) Centro Arte e Cultura fino al 14 febbraio

inserire nel racconto dei mille anni del Medioevo molte novità importanti, accomunate da un dato ormai inconfutabile: quei dieci secoli furono ricchi di storia, ma anche di innovazioni e invenzioni e nessuno piú, ormai, si lascerebbe andare a definirli «bui». La descrizione di questa età di Mezzo (almeno in parte) inaspettata si sviluppa in due grandi sezioni: nella prima, vengono messi a punto i riferimenti cronologici essenziali, corredati da alcuni manufatti particolarmente rappresentativi del periodo; nella seconda, si passa invece ai materiali scaturiti dagli scavi condotti dall’INRAP. info www.cite-sciences.fr SIENA LA BELLEZZA FERITA. NORCIA, EARTH HEART ART

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QUAKE. LA SPERANZA RINASCE DAI CAPOLAVORI DELLA CITTÀ DI SAN BENEDETTO Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre

Il 24 agosto 2016 un forte terremoto colpisce il Centro Italia. Il 26 e 30 ottobre 2016, altre scosse «feriscono» Norcia e il territorio circostante. La basilica di S. Benedetto, la concattedrale di S. Maria Argentea e tutte le chiese della città e dintorni sono distrutte. I monaci, insieme alla popolazione, pregano in ginocchio nella piazza, dinanzi alla statua del santo che ha fondato l’Ordine benedettino. A seguito del sisma, la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e

Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di SpoletoNorcia, hanno provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte del territorio. Alcuni di esse sono ora ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta “Cripta” sotto il Duomo, dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del Santa Maria della Scala, luogo principe dell’accoglienza, dai pellegrini agli infermi, dai bambini abbandonati, i gittatelli, fino agli indigenti, senza cibo né tetto. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche, santuari e pievi del territorio. Una serie di video, concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, e materiali fotografici di fotoreporter locali

Ai monumenti del Duomo di Firenze lavorarono i maggiori artisti italiani del Medioevo e del Rinascimento, ai quali l’Opera di Santa Maria del Fiore dedica un ciclo di incontri a cura di Francesco Gurrieri e Bruno Santi. Questi i prossimi appuntamenti: 7 febbraio, ore 17,00 Giorgio Vasari (1511-1574)

Alessandro Cecchi; 14 febbraio, ore 17,00 Federico Zuccari (1542-1609) (Antonio Pinelli). Le conferenze si tengono presso il Centro Arte e Cultura (piazza San Giovanni, 7); L’ingresso è gratuito, senza prenotazione, fino a esaurimento posti. info tel. 055 2302855; e-mail: opera@operaduomo.firenze. it; www.operaduomo.firenze.it febbraio

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APPUNTAMENTI • Medioevo in libreria, XV Edizione: «Scienza e innovazione nel Medioevo» Milano – Civico Museo Archeologico, Sala Conferenze

fino all’8 aprile 2016 info tel. 02 45329840; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http://medioevoinlibreria.blogspot.it

L

a XV edizione di «Medioevo in Libreria» – l’ormai consolidata formula, che prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio – è dedicata al tema «Scienza e innovazione nel Medioevo», con l’intento di smentire i luoghi comuni che mostrano un’età di Mezzo immobile, buia, barbara. Le visite guidate hanno come mete le meraviglie medievali di Milano, sviluppando un percorso volto a riscoprire il rapporto che i Milanesi hanno con il loro passato e le sue testimonianze, selezionando e trattando luoghi ricchi di suggestione, arte e cultura. La durata prevista per ogni visita varia da un massimo di circa due ore a un minimo di 45 minuti circa. Tutti gli incontri pomeridiani hanno luogo, con inizio alle ore 15,30, presso la Sala Conferenze del Civico Museo Archeologico di Milano (ingresso da via Nirone, 7), con la proiezione del filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo, a cui fanno seguito le conferenze. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: ✓ 11 febbraio. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Antonio Abate, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Laura Malinverni, scrittrice e medievista: Nuova medicina per la donna nel Medioevo: Trotula, «sanatrix» e quasi magistra. ✓ 11 marzo. Ore 11,00: visita guidata alla basilica di S. Maria della Passione, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Riccardo Rao. Università degli Studi di Bergamo: Un mondo nuovo: le innovazioni nell’agricoltura medievale. ✓ 8 aprile. Ore 11,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Bianca, a cura di Mauro Enrico Soldi. Ore 16,00: Francesca Roversi Monaco, Università degli Studi di Bologna: Sperimentazioni del potere nell’Italia padana: il comune come laboratorio politico. BASSANO DEL GRAPPA MONACI. DAL TARDOANTICO AI CAROLINGI XIX Ciclo di conferenze del Centro Studi Medievali «Ponzio di Cluny» Istituto Scalabrini fino al 25 marzo

Gli incontri indagano le origini del monachesimo, per comprendere la nascita e le prime fasi di vita di un fenomeno millenario, forte e vitale nei secoli centrali della nostra storia e ben presente oggi grazie a una fitta rete di studi. Questi i prossimi appuntamenti: 11 febbraio, ore 17,30 Monaci e potere politico: il monachesimo tra Longobardi e Franchi (Elena Percivaldi); 25 febbraio, ore 17,30 Monasteri e territorio: l’esempio della Novalesa (Marco Ferrero); 11 marzo, ore 17,30 Scrivere nei monasteri: scriptoria e circolazione libraria nell’Europa carolingia

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(A. Puglia); 25 marzo, ore 17,30 Il monachesimo in epoca carolingia: la riforma di Benedetto d’Aniane (Giancarlo Andenna). info tel. 0444 1801049; e-mail: info@ponziodicluny.it, segreteria@ponziodicluny.it; www.ponziodicluny.it MODENA IL SEGNO DI ARIOSTO Liceo classico e linguistico «L.A. Muratori-San Carlo», Aula Magna 11 febbraio-29 aprile

In occasione dell’omonima mostra allestita presso l’Archivio di Stato, è in programma un ciclo di conferenze e lezioni aperte alle scuole e alla città sulla figura di Ludovico Ariosto. I sette incontri si svolgono dalle 10,00 alle 11,00, con ingresso libero. Ecco il calendario degli appuntamenti: 11 febbraio Presentazione dell’evento Il Segno di Ariosto (Loredana Chines, Patrizia Cremonini, Giorgio

Montecchi, Paola Vecchi, ARCE per Ariosto); 25 febbraio La formazione umanistica dell’Ariosto (Andrea Severi, Giacomo Ventura); 11 marzo Ariosto e il fantastico (Elisabetta Menetti); 19 marzo Carteggi, diplomazia e archivi di governo: strumenti fondamentali per la stabilità dello Stato estense (Laura Turchi); 25 marzo Carteggi di Commissari e Governatori estensi: il caso di Ludovico Ariosto (Elio Tavilla); 8 aprile Ariosto e le arti figurative (Sonia Cavicchioli); 29 aprile Il mondo di Ariosto e Lucrezia Estense de Borgia tra dediche e carteggi (Bruno Capaci). info tel. 059 23 05 49; e-mail: as-mo@beniculturali.it

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patrimonio ferito Norcia (Perugia). La basilica di S. Benedetto (XIV-XVIII sec.) in una foto del 31 ottobre 2016, all’indomani della scossa di magnitudo 6.5 che ha avuto come epicentro Campi, una frazione della cittadina umbra, e ha causato il crollo quasi totale della chiesa.


Terrae motus di Furio Cappelli

Le distruzioni del patrimonio culturale causate dal recente sisma impongono la nascita di una nuova consapevolezza. Partendo da quello che è rimasto. Ecco, insieme alla mappa completa dei monumenti danneggiati, alcune prime, fondamentali riflessioni…

L

a notte del 24 agosto 2016 un terremoto di magnitudo 6.0 ha colpito duramente l’Italia centroappenninica, nella fascia montuosa che si trova ai confini tra il Lazio, l’Umbria, le Marche e l’Abruzzo. L’epicentro della scossa si trovava tra due centri dell’alto Reatino, Accumoli e Amatrice. Le due storiche città, e Amatrice in modo sconvolgente, sono state davvero martoriate, ma l’emergenza si è estesa anche oltre, investendo in particolare il limitrofo Comune marchigiano di Arquata del Tronto (Ascoli Piceno). L’evento ha suscitato grande clamore per l’elevato numero dei morti (299) e dei feriti, sul quale ha pesato


patrimonio ferito

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SS3

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In alto l’area interessata dai terremoti dell’agosto e dell’ottobre 2016 con le località colpite citate nel testo. A sinistra foto satellitari che mostrano la cittadina di Amatrice (Rieti) prima (nel riquadro) e dopo il terremoto del 24 agosto 2016, che ha avuto magnitudo 6.0.

il fatto che il sisma si è verificato nel pieno della notte e ha dunque sensibilmente limitato le capacità di reazione delle persone coinvolte. Per giunta, si era ancora nel periodo delle vacanze estive, quando la popolazione dei paesi di montagna cresce notevolmente per via dei turisti e dei residenti stagionali.

Polemiche e speculazioni

Crolli e devastazioni hanno alimentato le polemiche sulla qualità delle strutture abbattute dal terremoto e, per quelle di piú recente costruzione, è stata adombrata la scarsa attenzione degli enti per la criticità del territorio. Discussioni che hanno, fra l’altro, ispirato due vignette della rivista satirica francese Charlie Hebdo, nelle quali la responsabilità dei morti veniva attribuita al malcostume degli Italiani oppure all’intervento della malavita orga-

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patrimonio ferito nizzata nella gestione degli appalti. Senza considerare che i crolli hanno riguardato in massima parte edifici storici, e che, allo stato attuale, non risultano infiltrazioni mafiose nei centri pedemontani dell’alto Lazio. Dal canto suo, lo scrittore Roberto Saviano ha imputato la strage, in prima battuta, agli abusi edilizi, associando Amatrice ai tristi paesaggi dell’illegalità diffusa. Ma, quand’anche l’abuso sia acclarato in diversi casi di ristrutturazione, non basta da solo a motivare un fenomeno di crolli a macchia d’olio, tale da cancellare un intero centro storico, come si è verificato nelle vicine Marche proprio per effetto del sisma, a Pescara del Tronto (frazione di Arquata del Tronto, Ascoli Piceno).

Stagnazioni gravi e ricorrenti

In realtà, il tessuto abitativo dei luoghi colpiti era caratterizzato da edifici di bassa lega, in massima parte realizzati tra il 1750 e il 1950. Si tratta di aree pedemontane che hanno conosciuto gravi e ricorrenti stagnazioni sin dal XVII secolo, con i connessi fenomeni di spopo-

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Una triste consuetudine

«Guàrdati dell’andar in Norsia…» Gli eventi tellurici che si sono succeduti nel 2016 rientrano in una sequenza di forti avvenimenti che si è dispiegata lungo l’Appennino centrale nell’arco di 37 anni. Tutto ha avuto inizio nel 1979, con il terremoto umbro della Valnerina (19 settembre, magnitudo 5.8), per poi proseguire nel 1997, con il sisma di Colfiorito, che ha investito la stessa Umbria e le Marche (26 settembre, magnitudo 5.9), causando un crollo in due punti del soffitto affrescato della Basilica superiore di S. Francesco ad

Nella pagina accanto Norcia, concattedrale di S. Maria Argentea. Affresco attribuito a Francesco Sparapane in cui sono ritratti i santi Benedetto e Scolastica con al centro la Madonna e il Bambino. Prima metà del XVI sec.

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Assisi. La notte del 6 aprile 2009, alle 3,32, un sisma di magnitudo 6.2 ha devastato L’Aquila. Lo scorso anno, infine, si è avuta una escalation senza pari nella storia recente del nostro Paese. Dopo il sisma di Accumoli e di Amatrice, il 26 ottobre 2016 si è registrata una scossa di magnitudo 5.9, con epicentro a Castelsantangelo sul Nera (Macerata) e, pochi giorni dopo, il 30 ottobre, alle 7,40, una scossa di magnitudo 6.5 con epicentro a Campi (frazione di Norcia, Perugia), cosí forte da essere A sinistra ancora una veduta di Norcia, in un’altra foto scattata il 31 ottobre 2016. Sono evidenti i vuoti determinati dai crolli delle chiese di S. Benedetto e S. Maria Argentea. La città di san Benedetto ha una lunga e triste storia sismica, tanto che, dopo gli eventi prodottisi nel Settecento, venne vietato lo sviluppo in altezza degli edifici vecchi e nuovi.

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registrata persino in Austria. Occorre risalire al sisma dell’Irpinia del 1980 (magnitudo 6.8) per riscontrare un evento tellurico di maggiore potenza nel territorio italiano. Il terremoto è una realtà strettamente connessa alla storia dell’Appennino umbromarchigiano e laziale-abruzzese, in special modo nella fascia compresa tra Spoleto e L’Aquila. Grazie alle indagini storiche dell’Istituto Nazionale di Geofisica e di Vulcanologia, confluite nel Database Macrosismico Italiano (DBMI15) liberamente consultabile (http://emidius.mi.ingv. it), possiamo vedere come già nel Medioevo si fosse verificato un ampio ciclo di fenomeni significativi. Un terremoto con epicentro proprio a Spoleto, con una magnitudo stimata pari a 5.6, si registra nel 1277. Le testimonianze si infittiscono nell’arco dei successivi 72 anni: 1279 (epicentro presso Nocera Umbra, magnitudo 6.2), 1315 (Aquilano, magnitudo 5.6), 1328 (Valnerina, magnitudo 6.5), 1349 (Fiamignano, tra Rieti e L’Aquila, magnitudo 6.3). Da notare come una delle aree di maggiore sismicità, la Valnerina – zona tra le Marche e l’Umbria individuata

dal corso del fiume Nera – aveva espresso un sisma di magnitudo 6.5 già nel 1328, causando, secondo le cronache, 5000 vittime. Si tratta di un’area che include anche, per convenzione, i versanti limitrofi di Norcia e di Cascia, accomunati dalle conseguenze di un’attività sismica pressoché perenne, anche se non sempre catastrofica. Lo stesso sisma del 1328, secondo uno storico locale del Settecento, sarebbe stato addirittura il quarto a decretare la rovina di Norcia. E questa condizione di insicurezza, perpetuata nel tempo, veniva talvolta interpretata in chiave biblica, come un segno della collera divina. Nel 1553 si raccolse al riguardo un lugubre adagio: «Guàrdati dell’andar in Norsia, Cassia e Visse [Visso], perché Dio li maledisse». Un nuovo ciclo di eventi di forte impatto, conclusosi in poco meno di cent’anni, si è poi verificato tra il XVII e il XVIII secolo. Proprio il sisma del 24 agosto 2016 ha un corrispettivo con quello del 7 ottobre 1639. Il mattino, intorno alle ore 7,00, si ebbe un terremoto di magnitudo 6.2 con epicentro pressoché coincidente, tra Accumoli e Amatrice, e già allora

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patrimonio ferito entrambe le città furono devastate. Una Relatione pubblicata nello stesso anno a Roma dallo scrittore e commediografo Carlo Tiberii, parla di una serie crescente di scosse, al culmine delle quali si dispiegò uno scenario tremendo: «I pianti, le strida, e i compassionevoli gridi, che aiuto chiedevano, accompagnati dall’horrore, e dalle tenebre notturne accrescevano lo spavento. La polvere delli rovinati, e subissati edifici formava nubi nell’aria (…) La morte del Bestiame di qualsivoglia sorte è stata grandissima; onde pareva, che si fosse aperto l’Inferno a’ danni del genere humano». Secondo Tiberii, si trattava di un castigo divino (ancora!), imputabile alla lascivia: le prostitute, infatti, vennero ritenute «motrici dell’Ira di DIO». Altre forti scosse furono registrate in zona nel 1646 (28 aprile, magnitudo

5.9) e nel 1672 (8 giugno, magnitudo 5.3), finché, nel 1703 (14 gennaio), un episodio di magnitudo 6.9, con epicentro in Valnerina, colpí Norcia in modo tremendo (in tutto l’Appennino centrale, è, in assoluto, il sisma con la massima intensità registrata). Due giorni dopo e il 2 febbraio seguirono due nuove forti scosse, con epicentro in Abruzzo (l’ultima di magnitudo 6.6), che distrussero L’Aquila. La Valnerina registrò ulteriori sismi nel 1719 (magnitudo 5.6) e, soprattutto, nel 1730 (magnitudo 6.0). Nel corso del Settecento si totalizzarono cosí circa 10 000 vittime. L’attività tellurica si sarebbe poi riaffacciata con violenza 129 anni dopo, nel 1859 (magnitudo 5.7).

lamento. Di pari passo si è assistito alla contrazione e all’impoverimento dell’attività edilizia, con la rinuncia alla selezione dei materiali e dei metodi costruttivi. Finché erano all’opera maestranze qualificate grazie alla presenza di comunità ricche e operose – cioè fino a buona parte del Cinquecento –, gli edifici erano costruiti meglio: piú rifiniti e piú solidi, grazie ad apparecchi murari in pietra concia con punti di forza ben saldati. Pa-

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In alto il frontespizio della Relatione di Carlo Tiberii (1639). In basso disegno d’epoca con la piazza di Norcia dopo il terremoto del 1703.

radossalmente, quindi, piú si va indietro nel tempo, piú si riscontra un migliore impiego di risorse e di tecniche.

Case di pietrame e laterizi

Naturalmente, non tutte le case venivano costruite con impegno, e i grandi eventi sismici rappresentavano un problema ricorrente, con i suoi costi inevitabili in fatto di vite umane. Una costruzione a grandi conci ben orfebbraio

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In alto Amatrice (Rieti). Il surreale colpo d’occhio offerto dal cuore della cittadina laziale dopo il sisma dell’agosto 2016, che ha lasciato in piedi la torre civica, con l’orologio fermo all’ora del disastro, le 3,36. A destra un momento delle operazioni di recupero e messa in sicurezza delle opere d’arte del Museo Civico «Cola Filotesio» di Amatrice.

dinati rispondeva meglio alle sollecitazioni e poteva garantire la sopravvivenza dei suoi occupanti. Ma, nei secoli successivi al Cinquecento, la popolazione residua si trovò ad abitare in case in larga parte realizzate secondo i canoni della cosiddetta «edilizia povera», con murature miste in pietrame e laterizi, e con una scarsa cura nella preparazione dei leganti e nella tenuta dei punti piú sensibili. Di conseguenza, la risposta all’evento sismico

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divenne sempre piú inadeguata. E, come si è verificato nell’agosto scorso, a una maggiore concentrazione di questo tipo di edilizia, corrispondeva un numero piú elevato di vittime. Con il terremoto del 2016, si sarebbe potuto, almeno in parte, evitare un simile destino? In linea di principio, sarebbe stato possibile attuare una maggiore opera di salvaguardia e di prevenzione, per esempio promuo-

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patrimonio ferito Norcia. Un’immagine dei danni causati dal sisma dell’ottobre 2016 alla cinta muraria della città.

vendo la mappatura sistematica e un piano di interventi sugli edifici piú o meno critici. Ma in una situazione territoriale periferica era difficile trovare le giuste premesse per simili intenti. Riguardo all’accesso ai contributi per il miglioramento antisismico, è stato inoltre sottolineato che la maggior parte degli edifici crollati era costituita da seconde case, escluse dalle agevolazioni fino alle norme piú recenti. E la popolazione stanziale delle località montane – che occupa, all’incirca, solo un terzo delle case in uso – è composta in larga parte da persone anziane, dalle quali, proprio per via dell’età e di condizioni economiche spesso non eccelse, è piú difficile attendersi iniziative adeguate per la ristrutturazione delle proprie abitazioni.

Il cemento «aiuta» i terremoti

D’altro canto, qualora il proprietario si fosse attivato per consolidare la propria casa in muratura «povera», prima del 1997 avrebbe sicuramente introdotto solai e cordoli in cemento armato, attuando cosí una trasformazione inadeguata, sia pure con l’ausilio di dispositivi e di pareri tecnici apparentemente indiscutibili. Come è ormai appurato, in presenza di strutture con parti in pietra e in legno, l’adozione del cemento armato amplifica infatti l’azione distruttiva del terremoto, poiché le strut-

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ture rigide appesantiscono e sollecitano ulteriormente le murature preesistenti. I tetti in cemento armato, in particolare, agiscono in presenza del sisma come veri e propri arieti, se non come presse che schiacciano le pareti sotto di sé. Il riferimento al 1997 come termine per la validità delle vecchie norme antisismiche, non è casuale. In quell’anno, infatti, con il terremoto dell’Umbria e delle Marche, è stato verificato che quelle regole, pur stabilite a livello nazionale, risultavano potenzialmente dannose se applicate all’edilizia storica. Per Paolo Riva, docente di tecnica delle costruzioni all’Università di Bergamo, il sisma del 1997 ha costituito dunque una «prova sperimentale» (con costi esorbitanti, soprattutto in termini di vite umane) della inadeguatezza della normativa. E il sisma del 2016 ha fornito molteplici e sconcertanti conferme di queste conclusioni. Dopo che l’attenzione si era rivolta alle popolazioni e ai problemi di viabilità, i beni culturali hanno ricevuto l’interesse dovuto. Una pagina di gestione virtuosa dell’emergenza è stata scritta, in particolare, con la messa in sicurezza delle opere del Museo Civico «Cola Filotesio», ospitate nella ex chiesa di S. Emidio di Amatrice (vedi «Medioevo» n. 205, febbraio 2014). L’intervento è stato compiuto già il 1° settembre 2016, facendo seguito al so(segue a p. 45) febbraio

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A Siena le opere recuperate

Un gemellaggio nel nome di Benedetto

In alto Norcia. La basilica di S. Benedetto e la chiesa di S. Maria Argentea dopo il terremoto. A sinistra la campana della chiesa abbaziale di S. Eutizio (Preci). A destra

A destra Crocefisso di Nicola di Ulisse da Siena, da S. Eutizio (Preci). XV sec.

Come scrive Furio Cappelli nelle pagine di questo articolo, gli eventi sismici che hanno colpito l’Italia Centrale nell’agosto e nell’ottobre 2016 hanno arrecato notevoli danni anche al patrimonio artistico delle aree coinvolte. Già all’indomani delle prime scosse,

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Qui sopra un’altra immagine della basilica di S. Benedetto.

seguendo un protocollo che, purtroppo, l’Italia ha avuto piú volte modo di sperimentare, sono state avviate le procedure per la messa in sicurezza delle opere d’arte che hanno visto coinvolte la Protezione Civile, il Corpo Nazionale Vigili del Fuoco, il Comando Carabinieri per la

Tutela del Patrimonio Culturale e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, insieme con l’Ufficio Beni Culturali dell’Archidiocesi di Spoleto-Norcia, hanno provveduto alla messa in sicurezza delle opere d’arte del territorio. Alcuni dei capolavori, ricoverati nei

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patrimonio ferito In basso Il Crocefisso e i santi Spes ed Eutizio, olio su tela del Pomarancio (al secolo Cristoforo Roncalli), dalla chiesa abbaziale di S. Eutizio. 1602.

In alto Sant’Antonio Abate, olio su tela di Giovan Battista Crescenzi, dalla chiesa abbaziale di S. Eutizio. 1596.

depositi, vengono ora nuovamente mostrati al pubblico per raccontare la «ferita» subita, in particolare da Norcia e dal suo territorio. Le opere, appartenenti all’Archidiocesi, sono infatti attualmente ospitate dalla città di Siena e protette all’interno delle sue viscere: nella cosiddetta «Cripta» sotto il Duomo, dedicato alla Vergine Maria, e nel percorso del complesso museale del Santa Maria della Scala, luogo principe dell’accoglienza, dai pellegrini agli infermi, dai bambini abbandonati, i gittatelli, fino agli indigenti, senza cibo né tetto. L’allestimento prevede un itinerario attraverso i capolavori prima custoditi all’interno di basiliche, santuari e pievi del territorio. A corredo di dipinti, sculture e arredi sacri, vengono proiettati alcuni filmati concessi dal Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, che, insieme a servizi fotografici di fotoreporter locali, permettono inoltre

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In alto, a sinistra Madonna col Bambino, gruppo in legno policromo, dal Museo dell’Abbazia di Sant’Eutizio. XV sec. Qui sopra Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista ed Eutizio, dipinto del Maestro di Piedivalle, dal Museo dell’Abbazia di Sant’Eutizio.

di ripercorrere le fasi di recupero delle opere dopo il terremoto. Tale progetto permette la presentazione del territorio di Norcia e delle sue opere a un pubblico vasto che ogni giorno raggiunge la città di Siena, facendo conoscere al turismo internazionale la drammatica realtà delle zone terremotate, ma anche il forte orgoglio civico del popolo che le abita. Norcia, cosí danneggiata nel suo intimo, impetra ora una rinascita. I promotori e gli organizzatori hanno destinato un contributo economico all’Archidiocesi di Spoleto-Norcia per le fasi di restauro e ricostruzione. Sebbene anche Siena sia stata colpita da una serie di terremoti tra il 1466 e il 1467, la scelta di farne la sede della A destra statua raffigurante san Rocco, da Abeto (Preci), chiesa di S. Martino. Fine del XVI sec.

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Dove e quando «La bellezza ferita. Norcia, Earth Heart Art Quake» Siena, Cripta sotto il Duomo e Complesso Museale Santa Maria della Scala fino al 29 ottobre Info tel. 0577 286300; e-mail: bellezzaferita@ operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it; www.santamariadellascala.com mostra nasce dalle forti motivazioni spirituali che la uniscono a Norcia: quest’ultima è la città natale di san Benedetto, fondatore dell’Ordine dei Benedettini, e Siena ha dato i natali a san Bernardo Tolomei, fondatore della congregazione benedettina di S. Maria di Monte Oliveto. (red.)

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patrimonio ferito usi e costumi dei norcini

Dalla chirurgia oftalmica all’arte degli insaccati Città di origini romane (Nursia) nel cuore dell’Appennino, Norcia ha vissuto periodi di notevole prosperità nelle epoche in cui l’allevamento, la pastorizia e la mercatura avevano trasformato questa e le consimili realtà dell’Italia centrale in altrettanti centri di imprescindibile riferimento. La ricchezza di queste aree montane era proverbialmente legata, oltreché all’allevamento in sé, alle industrie che ne ricavavano beni di prima necessità: panni di lana e cuoio. Il commercio di questi prodotti, oltreché del bestiame, gli spostamenti periodici degli abitanti per i lavori stagionali, la transumanza verso la Puglia e verso le pianure romane, l’immigrazione di lavoratori specializzati in diversi settori, rendevano la città fiorente e vitale. Agli inizi del Seicento, insieme al contado, vi risiedevano circa 18 000 abitanti, contro i 5000 attuali. Trovandosi sulla direttrice orientata verso la via Salaria, Montereale e L’Aquila, la conca di Norcia faceva da raccordo tra i territori di Visso e Camerino, Roma e le piazze del Mezzogiorno. Attraverso il valico di Colfiorito c’era il collegamento con la Marca d’Ancona, mentre tramite la Valnerina si raggiungevano Spoleto e l’asse della via Flaminia, in direzione di Perugia e di Firenze. Questo favoriva lo sviluppo della mercatura e l’impiantarsi di fiere che costituivano motivi di grande richiamo, e non solo di tipo economico. In particolare, quando cadeva la festa del «nume» del monachesimo europeo, il patrono san Benedetto da Norcia (21 marzo), si teneva una fiera che traeva rinomanza da tutta una serie di eventi di tipo religioso e ludico. Come evidenzia lo storico locale Romano Cordella, nel 1572 si allestí una banda «internazionale» di 78 elementi, che vide riuniti musicisti della Chiesa e del Regno, provenienti da tutte le città piú o meno legate a Norcia da consuetudini di lunga data: dalla Marca (Ascoli, Camerino, Tolentino, Fermo, Sassoferrato, Cagli, Urbino); dall’Umbria

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(Cascia, Spoleto, Terni, Narni, Orte, Todi, Amelia); dalla Sabina (Leonessa, Cittaducale, Rieti); dall’Aquilano (Montereale, Amatrice – all’epoca compresa nel Regno di Napoli –, Campi, Tagliacozzo); dalla campagna romana (Tivoli). L’industria manifatturiera, in special modo nel settore della lavorazione dei tessuti, richiamava imprenditori toscani e liguri, tanto che, già alla metà del Quattrocento, si rileva la presenza di colonie fiorentine e genovesi. Mercanti di Norcia sono attestati nelle fiere che si tenevano in Abruzzo e in Puglia, e, nel 1781, si poteva ancora scrivere che «Il gran commercio è con il Regno di Napoli, e non c’è fiera alla quale non si portino i Norcini». La norcineria, ovvero la lavorazione delle carni di maiale, è l’arte che rende oggi universalmente

L’uccisione del maiale come immagine del mese di dicembre, miniatura dal Breviario di Ercole I d’Este, realizzato da Matteo da Milano, Tommaso da Modena e Giovanni Battista Cavalletto (o Antonio Maria Casanova). 1505. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.

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noti i Norcini, i quali, in origine, erano invece famosi come chirurghi, specializzati nell’oculistica (rimozione di cataratte) e nella litotomia (estrazioni di calcoli). Meno noti degli specialisti della vicina Preci, vantavano un’ampia esperienza e potevano contare su un’attività costante. Nell’ultima fase della loro fama, nella prima metà dell’Ottocento, si dedicavano perlopiú alla castrazione, pratica a cui si sottoponevano giovani di talento per soddisfare la richiesta di sopranisti e voci bianche. Il diffondersi dell’arte medica in questo lembo della montagna umbra si registra già nel XIV secolo, e si lega forse all’abbazia di S. Eutizio in Val Castoriana, dotata di una farmacia e di una ricca biblioteca che poté fornire le basi teoriche del mestiere. Lo spopolamento determinato dai terremoti del 1703 e del 1730 colpí gravemente l’economia locale, già provata dalla crisi del Seicento. Tuttavia, anche se le glorie del passato erano sempre piú lontane, le consuetudini di lungo periodo resistevano, e una città strategica come Norcia, grazie al richiamo delle fiere e all’attività dei suoi mercanti, poté mantenere una sua visibilità, fino a trovare nuove prospettive con lo sviluppo del turismo montano, la valorizzazione delle produzioni tipiche locali e l’industria dolciaria. La sua fisionomia è stata segnata dagli eventi tellurici su piú fronti. Non solo il patrimonio edilizio si presenta fortemente contraddistinto dalle opere di ricostruzione che si sono rese necessarie a seguito degli eventi del Settecento, ma precise disposizioni pontificie hanno vietato lo sviluppo in altezza degli edifici vecchi e nuovi, per giunta assai spesso incamiciati da robuste cortine a sperone.

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pralluogo pressoché immediato dei Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale. Dopo gli allarmi delle prime ore, è stato possibile accertare che il museo non era irrimediabilmente «collassato». La chiesa aveva subíto il crollo parziale della parete di ingresso, ma quasi tutte le opere dell’esposizione sono state recuperate in buone condizioni. Man mano che i Vigili del Fuoco portavano dipinti, statue e opere di oreficeria all’esterno, sulla strada una squadra di esperti aveva dato vita a un laboratorio a cielo aperto, per gli interventi di emergenza e per la predisposizione al trasferimento. Tutte le opere – come la preziosa icona duecentesca di Cossito, le oreficerie quattrocentesche di Pietro Vannini, la cinquecentesca Sacra Famiglia del Filotesio, meglio noto come Cola dell’Amatrice – sono state cosí messe in salvo nella Scuola del Corpo Forestale dello Stato di Cittaducale (Rieti). In questo modo non solo i singoli «pezzi» sono ormai fuori pericolo, ma l’intera esposizione potrà un giorno essere ricomposta nel territorio di origine: un atto dovuto per chi ha creduto in questo scrigno di meraviglie, impiegando tante energie per realizzarlo in modo impeccabile. E il pensiero va naturalmente, in primo luogo, alla ex direttrice del museo, Floriana Svizzeretto, che ha perso la vita proprio ad Amatrice, nel crollo della propria abitazione. Ad Accumoli, frattanto, l’azione di salvaguardia ha portato al recupero delle campane della torre civica, con il contestuale rinforzo degli archi della cella sommitale. A parte il puntellamento dei portali di S. Francesco e di S. Agostino, i beni architettonici di Amatrice, d’altro canto, sono rimasti in attesa del peggio.

Il cratere si allarga

Miniatura raffigurante un intervento chirurgico agli occhi, da un manoscritto in latino prodotto nell’Inghilterra del Nord (o forse nella Francia settentrionale). 1190-1200. Londra, British LIbrary.

Due mesi dopo le scosse dello scorso agosto, nuovi eventi sismici hanno aggravato la situazione delle zone già colpite e hanno allargato il cosiddetto «cratere», coinvolgendo in modo particolare l’Umbria meridionale, tra Norcia e Preci (Perugia) e le Marche, tra Visso, San Ginesio, Tolentino e Camerino (Macerata). In queste occasioni, l’opera di prevenzione attuata all’indomani del 24 agosto, con lo sgombero di interi abitati, ha impedito l’aggravarsi del bilancio delle vittime, ma si sono contate decine di migliaia di sfollati. Centri storici già coinvolti dal primo sisma, come Castelluccio (frazione di Norcia) o Arquata del Tronto (Ascoli Piceno), si sono trasformati in cumuli di macerie. Amatrice ha avuto, come si è detto, il «colpo di grazia», e due significativi monumenti umbri, resi inagibili dal sisma del 24 agosto, sono crollati: dapprima S. Salvatore di Campi, la sera del 26 ottobre, e poi, la mat-

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patrimonio ferito tina del 30 ottobre, la basilica di S. Benedetto di Norcia, insieme alla vicina concattedrale di S. Maria Argentea. Con l’ultima, potente scossa, si stima che siano 8500 i beni culturali complessivamente danneggiati. Di fatto, oltre a causare crolli di strutture illustri, il sisma ha sconvolto la fruibilità di un tessuto fittissimo di centri storici e di musei, rendendo inagibile un gran numero di chiese e di palazzi. Il museo ospitato nella Castellina di Norcia ha subíto danni alla struttura e agli oggetti esposti, ed è stato cosí sgomberato. Stessa sorte è toccata al Museo Diocesano e Civico di Visso. A San Ginesio, la Collegiata è stata chiusa e le opere d’arte al suo interno, come la Madonna della Misericordia di Pietro Alamanno, sono state portate via. A Camerino è crollata una parete del Palazzo Ducale e il Museo Civico di S. Domenico si è trovato in condizioni tali da imporre il trasferimento di molte sue opere, come l’Annunciazione di Spermento, la tavola oggi riferita a Giovanni Angelo d’Antonio, protagonista dell’«umbratile» Rinascimento camerte. A Tolentino è inagibile la basilica di S. Nicola, con il prezioso Cappellone affrescato nel Trecento dal giottesco Pietro da Rimini. A Matelica ha chiuso i battenti il Museo Piersanti, con le sue importanti opere del Quattrocento.

Gestire le emergenze

Nella stessa Matelica è stato prontamente allestito un deposito museale, cosicché, durante i restauri degli edifici di provenienza, i dipinti e le sculture delocalizzati potranno rimanere comunque in città. Ma per molte altre situazioni si corre il rischio che le opere siano precluse al pubblico per molto tempo o siano rescisse dal loro fondamentale legame con il territorio, finendo per essere assorbite in strutture museali lontane. Di fatto, non esiste nelle Marche un piano di emergenza per simili evenienze. Lascia perplessi, poi, il mancato intervento sugli edifici già colpiti, che potevano essere almeno in parte messi in sicurezza con un’adeguata opera di cerchiatura e di puntellamento. In troppe situazioni di emergenza, infatti, non ci si è attivati in tal senso. In mancanza di interventi, le strutture lesionate erano in ogni caso esposte a ulteriori crolli, piú o meno estesi, anche in assenza di nuove scosse importanti. Allestire opere di sostegno degli edifici inagibili è rischioso, poiché si deve entrare in azione quando prosegue lo sciame sismico, sia pure con scosse di minore entità. Ma l’esperienza di Montefalco o di Assisi, nel

1997, e de L’Aquila nel 2009, insegna che il pronto intervento è di vitale importanza per assicurare l’integrità di un monumento colpito. Gli affreschi di Benozzo Gozzoli a S. Francesco di Montefalco sono stati salvati dal puntellamento disposto dall’amministrazione comunale prima ancora che si verificasse l’evento sismico maggiore. E, dopo la grande scossa, nessuno può sottovalutare i rischi corsi con il delicatissimo intervento di emergenza sul transetto della Basilica superiore di S. Francesco (felicemente diretto da Pippo Basile dell’Istituto Centrale del Restauro). Né si devono dimenticare taluni opportuni puntellamenti attuati nel capoluogo abruzzese, senza i quali strutture come la basilica di S. Maria di Collemaggio sarebbero crollate definitivamente in breve tempo.

Salvataggi in extremis

E nell’ultimo sisma, laddove gli interventi sono stati compiuti in tempo, gli edifici lesionati hanno resistito quasi ovunque. Si è salvata la fronte di S. Francesco di Matelica (Macerata), puntellando le strutture medievali della parete interna. L’intervento di emergenza si è concretizzato il 10 ottobre, a pochi giorni dal secondo sisma, grazie alla risoluzione del sindaco Delpriori. Dopo il 26 ottobre, lavorando fino a pochi attimi prima del possibile crollo totale, è stato incapsulato in una struttura di sostegno il pregevole tempietto rinascimentale della Madonna del Sole di Capodacqua (frazione di Arquata del Tronto, Ascoli Piceno). Sempre nelle Marche, è stato scongiurato il crollo della torre del Palazzo del Popolo di Ascoli Piceno, grazie a una cerchiatura posta in opera già nel mese di settembre. (segue a p. 51)

A destra Amatrice, chiesa della Madonna della Filetta. Particolare di uno degli affreschi di Pierpalma da Fermo raffigurante la pastorella Chiarina da Valente che reca il reliquiario contenente il prezioso cammeo da lei scoperto. 1475 circa. Nella pagina accanto, in basso il cammeo della Madonna della Filetta recuperato nella chiesa di S. Agostino.

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Piccolo atlante del patrimonio ferito AMATRICE (Rieti) Torre Civica (XV secolo) Sorge sulla direttrice dell’asse viario principale (l’attuale Corso Umberto I). La sua piú antica fondazione risale al 1293, quando risulta una «torre regia» che visualizzava nello scenario cittadino l’autorità del re di Sicilia. La cella campanaria è crollata. S. Francesco (XIV-XV secolo) L’edificio è in larga parte crollato. Una piú antica fase della chiesa risulta già attestata nel 1291. Oltre al pregevole portale istoriato della facciata, l’edificio conservava un ampio corpus di affreschi, tra cui spiccano la Natività sulla parete sinistra (opera del Maestro di Campli, fine del XIV sec.) e l’Albero di Iesse nel coro (arte marchigiana, ultimo quarto del XIV sec.), forse recuperabili. Museo Civico «Cola Filotesio» Tra le opere piú importanti dell’esposizione occorre ricordare la Madonna di Cossito, un dipinto su tavola del XIII secolo, e il Reliquiario della Filetta di Pietro Vannini, opera di oreficeria risalente al 1472. La sede è stata gravemente colpita, ma è stato possibile trasferire tutta la collezione a Cittaducale. A sinistra Amatrice, chiesa di S. Francesco. L’Albero di Iesse, opera di un pittore marchigiano. Ultimo quarto del XIV sec.

A destra la Torre Civica di Amatrice. XV sec. Alta 27 m, venne innalzata sul luogo della torre attestata nel 1293.

Una testimonianza sul campo

Quel bene perduto La devastazione di Amatrice è la ferita piú grave dei sismi del 2016. Ne è testimone di primo piano Alia Englen. Ispettrice della Soprintendenza alle Belle Arti e al Paesaggio del Lazio, ha dedicato la propria vita professionale alla conoscenza e alla tutela di un patrimonio culturale troppo spesso ignorato. In un’intervista concessa a Emanuela Minucci de La Stampa il 27 agosto 2016, pochi giorni dopo il disastro, la Englen prova al pensiero della città in rovina il senso di tristezza

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per la perdita di un bene prezioso, citando le lacrimae rerum di Virgilio. Di fronte alla sconsolante volontà politica di abbandonare ogni sopravvivenza al proprio destino, ritiene che «il patrimonio monumentale possa essere salvato al 70 per cento» (in quel momento si poteva ancora arginare il danno). E quando le viene chiesto se in qualche misura si poteva evitare l’accaduto, risponde: «Alle Soprintendenze di Stato si sono sempre date solo briciole per tutelare il territorio privilegiando progetti di immagine, circoscritti ai grandi complessi museali,

monumentali e archeologici, ignorando che la caratteristica che fa unico il nostro Paese è l’essere un museo a cielo aperto. Ricordo di aver faticato non poco per ottenere quei 30-40 mila euro nel 2009 per restaurare gli edifici di Amatrice e di Accumoli».

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patrimonio ferito A sinistra Accumoli (Rieti). La rimozione delle campane dalla Torre Civica della cittadina laziale. Nella pagina accanto, in alto Madonna del Sole (frazione di Capodacqua, Ascoli Piceno). Assunzione della Vergine, affresco attribuito a Michelangelo Carducci di Norcia (attestato negli anni 1555-1574). In questa pagina, in basso un’eloquente immagine delle devastazioni causate dal terremoto ad Arquata del Tronto (Ascoli Piceno).

ACCUM0LI (Rieti) Torre civica (XV secolo) Si trova sulla direttrice viaria principale (l’attuale via Tommasi), e forma un armonico complesso con il solido Palazzo del Podestà, ricostruito in forme rinascimentali (fine del XV-inizi del XVI sec.) quando la città era sotto il Regno di Sicilia. Il «blocco» dei due monumenti ha resistito a tutti i sismi, sebbene il palazzo abbia registrato gravi danni. Il riferimento al podestà indica, alle origini, la presenza di un’istituzione civica autonoma, come sembra d’altronde suggerire una lettera del 1371 sottoscritta dalla regina Giovanna I d’Angiò (1343-1381). ARQUATA DEL TRONTO (Ascoli Piceno) Rocca (XIV-XV secolo) Sorge in un punto di notevole rilievo strategico dell’alta Valle del Tronto, a dominio della via Salaria, in una zona di confine tra lo Stato della Chiesa e il Regno di Sicilia. Già attestata nel XIII secolo, acquisí l’assetto attuale tra il XIV e il XV secolo. Si conservano il recinto fortificato, un bastione esagonale e un torrione. Si sono registrati danni soprattutto all’apparato sommitale (camminamenti aggettanti e merlature), in larga parte opera di restauro integrativo.

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Madonna del Sole (frazione Capodacqua) (1550) è un tempietto di forma ottagonale edificato intorno a un’edicola preesistente. Risponde a una tipologia di chiesa mariana molto diffusa nell’Appennino, lungo le vie che conducevano al santuario di Loreto. Tra gli affreschi dell’interno, spicca una monumentale Assunzione della Vergine, attribuita a Michelangelo Carducci di Norcia (attestato negli anni 1555-1574). Il campanile a vela è crollato, ma l’edificio, gravemente lesionato, è stato messo in sicurezza appena in tempo. NORCIA (Perugia) S. Benedetto (XIV-XVIII secolo) Sorta sul luogo in cui, secondo la tradizione, era situata la casa paterna di san Benedetto, la basilica fu riedificata intorno al 1380. In particolare, rientrano in questa fase la facciata superstite che fa da quinta alla piazza e la torre campanaria, abbassata nel 1738 per prevenire gli effetti di nuovi terremoti. Proprio i ricorrenti eventi sismici (ultimo quello del 1703) imposero reiterati lavori di ricostruzione. La stessa facciata, nella sua sezione superiore, è frutto di un ripristino effettuato dopo il sisma del 1859.

A sinistra Norcia. La lunetta del portale della basilica di S. Benedetto, con il gruppo raffigurante la Madonna con il Bambino fra due angeli adoranti. Qui sotto operazioni di puntellamento del tempietto della Madonna del Sole di Capodacqua.

Museo de La Castellina Si tratta di un’esposizione archeologica e storico-artistica di grande valore, e non solo per la percezione del territorio che offre. Tra le opere piú importanti, attualmente dislocate a Spoleto, vanno ricordati il crocifisso duecentesco di S. Antonio di Campi, firmato dal maestro Petrus, la Madonna Annunciata, terracotta policroma del senese Jacopo della Quercia (1374 circa–1438), recentemente acquisita, le statue in pietra dei santi Giovanni Battista ed Evangelista, entrambe di Giovanni Dalmata (1469), il gruppo in terracotta policroma dell’Annunciazione, opera attribuita a Luca della Robbia (1475-1548). Tempietto (1354) Ideato per preservare un’immagine ad affresco della Madonna col Bambino, è opera di un maestro locale, Vanni della Tuccia. Si presenta come una solida costruzione impreziosita da un complesso apparato epigrafico e ornamentale ed è la piú antica testimonianza integrale superstite della Norcia medievale. A destra il Tempietto di Norcia, costruito da Vanni della Tuccia per custodire l’immagine affrescata di una Madonna col Bambino. L’edificio è tuttora integro.

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patrimonio ferito CAMPI (frazione di Norcia, Perugia) S. Salvatore (XIV-XV secolo) Nata come pieve intitolata a S. Maria, la chiesa si componeva di due navate corrispondenti a due fasi distinte: accanto alla navata della costruzione originaria, riedificata nel XIV secolo, si aggiunse un nuovo ambiente nel Quattrocento, cosí da caratterizzare la facciata con due rosoni simmetrici. L’interno racchiudeva un prezioso corpus della pittura locale ad affresco del Tre-Quattrocento. Si è salvata una solenne Crocifissione sulla parete di fondo, attribuita al Maestro di Colle Altino, un pittore marchigiano attivo negli anni Venti del Trecento, molto abile nel reinterpretare lo stile di Pietro Lorenzetti. Sotto le macerie è finita la struttura che delimitava il presbiterio sulla navata originaria. Si trattava di un rarissimo pontile in muratura, realizzato nel 1463 e decorato l’anno successivo da due pittori di Norcia, Antonio Sparapane e suo padre Giovanni.

Qui sotto Preci (Perugia). Il magnifico rosone istoriato dell’abbazia di S. Eutizio in Val Castoriana (1232), in una foto scattata prima che fosse danneggiato dal sisma dello scorso ottobre.

PRECI (Perugia) S. Eutizio in Val Castoriana (XII-XIII secolo) Costituisce una delle abbazie piú antiche e piú importanti dell’Italia centrale, dotata nel Medioevo di una biblioteca e di uno scriptorium di alto profilo. La tradizione la vuole fondata nel V secolo dal santo dedicatario, il monaco siriaco Eutizio. La chiesa attuale è stata edificata tra il 1190 e il 1232. Alla data finale risale la preziosa facciata, con il rosone sfigurato dal recente terremoto. VISSO (Macerata) Nella piazza principale (piazza Martiri Vissani), squisito scenario con apporti medievali e rinascimentali, spiccano due chiese trecentesche ricche di suppellettili, ora inagibili: la collegiata di S. Maria e l’ex chiesa di S. Agostino, sede del Museo Diocesano e Civico. SAN GINESIO (Macerata) Dalla collegiata di S. Maria (XIV-XV sec.), ora inagibile, è stata trasferita la Madonna della Misericordia (1485), dipinto su tavola tra i capolavori dell’austriaco Pietro Alamanno (attivo negli anni 1475-1497). CAMERINO (Macerata) Tra le opere «sfollate» dal Museo di S. Domenico occorre ricordare la tavola dell’Annunciazione di Spermento (1455 circa), ora attribuita a Giovanni Angelo d’Antonio (attivo negli anni 1444-1476), opera nodale del Rinascimento camerte. TOLENTINO (Macerata) Nel complesso della basilica di S. Nicola da Tolentino (XIV-XV secolo), ora inagibile, spicca il Cappellone interamente affrescato da Pietro da Rimini e dai suoi aiuti, negli anni Venti del Trecento.

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Qui sopra Visso (Macerata). La lunetta della collegiata di S. Maria, con l’Annunciazione affrescata da Paolo da Visso. 1444. La chiesa è ora inagibile. febbraio

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Campi (frazione di Norcia, Perugia). La chiesa di S. Salvatore (XIV-XV sec.), ridotta dal sisma a un cumulo di macerie.

A Norcia è stata messa in sicurezza con successo l’ottocentesca Porta Romana, mentre i Vigili del Fuoco sono stati attivati per la basilica di S. Benedetto solo dopo la scossa del 26 ottobre, quando l’edificio ormai era pericolante. L’unica operazione condotta a termine in quella fase, prima del crollo, è consistita nella rimozione dei pinnacoli e della croce al sommo della facciata. Un grande telaio metallico è stato poi allestito il 22 dicembre a presidio di quella pregevole parete superstite, dopo due mesi di sciame sismico.

Il tempo si è fermato alle 3,36

Amatrice attende la rimozione delle macerie. Al momento non si prevede altro. Nulla è stato fatto, dopo il 24 agosto, per impedire il crollo parziale della chiesa di S. Francesco. Molte superfici murarie decorate dagli affreschi medievali, sul fianco sinistro e nel coro, hanno miracolosamente resistito, ma potrebbero cedere in qualsiasi momento. Senza pensare che, in assenza di soffitto, le pareti stesse sono esposte all’azione dell’acqua piovana e, ora, del gelo. Resiste la torre civica, sulla devastata prospettiva del corso principale, come una solitaria e testarda vedetta. La cella campanaria è caduta inevitabilmente a terra dopo aver subíto ripetute lesioni, senza ricevere protezione alcuna. La canna della torre è ancora in piedi, con l’orologio fermo sulla fatidica ora del sisma del 24 agosto: le 3,36.

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Monumenti come la torre di Amatrice, la torre di Accumoli o la rocca di Arquata del Tronto hanno resistito all’impatto devastante di questa «stagione sismica», mentre tutto intorno (ad Amatrice e ad Accumoli) o nelle falde sottostanti (ad Arquata) l’abitato si è in varia misura dissolto. Un simile fatto non ribadisce solo, con una tragica ironia, la sapienza degli antichi costruttori. La persistenza di questi edifici-simbolo indica una prospettiva. Occorre ripartire da quello che è rimasto per rifondare, innanzitutto, una consapevolezza nuova. In altri termini, occorre fare uno sforzo di ricostruzione anche sul piano della mentalità. L’ambiente pedemontano dei Sibillini e della Laga non è solo uno spazio dove godere della natura e dei bei paesaggi, con l’opportuna cornice delle «chiesette» e delle prelibatezze offerte dalle innumerevoli manifestazioni enogastronomiche. È molto di piú. È uno spazio con caratteri e problemi propri. Gli uni e gli altri vanno compresi e affrontati con la dovuta attenzione. Proprio la storia insegna che questo spazio è stato conquistato dall’uomo con energia, sapienza e caparbietà. Se non si ritrova un sia pur minimo barlume della forza profusa in questi luoghi da secoli di civiltà, ogni fatica sarà inutile. L’Italia sta attraversando un momento assai difficile, ed è ancora piú difficile ripartire in una zona economicamente svantaggiata. Ma proprio in questo momento cosí arduo un’opera come la ricostruzione di Amatrice può essere un segno di rinascita per l’intero Paese. Purché Amatrice preservi la sua torre civica e le sue chiese, ritrovando la propria identità. F

Da leggere AA. VV., La Valnerina, il Nursino, il Casciano, presentazione di Bruno Toscano, Edindustria, Roma 1977 Romano Cordella, La frontiera aperta dell’Appennino. Uomini e strade nel crocevia dei Sibillini, Quattroemme, Ponte San Giovanni (Perugia) 1998 Anna Imponente, Rossana Torlontano, Amatrice. Forme e immagini del territorio, Electa, Milano 2015 Gerardo De Simone, Emanuele Pellegrini (a cura di), Il patrimonio artistico in Italia centrale dopo il sisma del 2016, «Predella», numero speciale (2015, n. 12), Edizioni ETS, Pisa 2016

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iconografia il trionfo della morte

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morte no vol di Furio Cappelli

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denari»

L’Oratorio dei Disciplini di Clusone conserva una delle piú spettacolari rappresentazioni del Trionfo della Morte e della Danza macabra. La recente rilettura di Chiara Frugoni e Simone Facchinetti ne sottolinea il valore documentario e offre nuove e affascinanti interpretazioni delle sue scene

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enza misericordia, il nuovo libro firmato da Chiara Frugoni e dallo storico dell’arte Simone Facchinetti, è dedicato al Trionfo della Morte e alla Danza macabra dipinti ad affresco nel 1485 sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini di Clusone, un centro delle Prealpi bergamasche. Chiara Frugoni si è occupata degli aspetti tematici e iconografici, mentre Facchinetti ha rievocato la fortuna critica dell’opera e ha ripercorso l’itinerario del suo artefice, ormai definitivamente identificato con il pittore locale Giacomo Busca, detto il Borlone (del quale non si hanno notizie biografiche precise, ma che risulterebbe defunto alla data del 1487, n.d.r.). Il volume affronta ogni aspetto in modo approfondito e chiunque nutra curiosità in merito può affrontare la «visita» virtuale all’opera, grazie a uno stile espositivo piano e lineare. L’apparato iconografico visualizza al meglio ciascun dettaglio e vengono tradotte tutte le citazioni in latino che fanno da supporto alla disamina del tema. In questo modo un affresco cosí particolare può essere analizzato e contestualizzato anche da lettori che non siano addetti ai lavori. Del resto, durante un’intervista a tutto campo raccolta per Quale Francesco?, la stessa Frugoni aveva affermato: «Penso che si debba scrivere per gli altri oltre che per se stessi, e occorre farsi capire» (vedi «Medioevo» n. 231, aprile 2016). L’affresco di Clusone ha sin dall’inizio attratto l’attenzione per la sua capacità di raccontare un mondo, con Salvo diversa indicazione, le immagini che corredano l’articolo illustrano l’affresco del Trionfo della Morte e della Danza macabra dell’Oratorio dei Disciplini di Clusone (Bergamo), realizzato nel 1485 da Giacomo Busca, detto il Borlone. A sinistra la Morte regina apre le braccia, per mostrare la sua maestà ed estendere la sua presenza. Si noti il personaggio di destra, che imbraccia uno schioppetto a miccia, segno che l’artista aveva recepito l’innovazione tecnologica costituita dall’introduzione delle armi da fuoco.

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Cremona, S. Luca, sacrestia. Incontro dei tre vivi e dei tre morti, affresco di Antonio da Ferrara. 1418. L’opera illustra il piú antico tema macabro dell’iconografia medievale europea.

le sue angosce e le sue complessità. Destò l’interesse del patriota mazziniano Gabriele Rosa (1812-1897), reduce dalla prigionia nel terribile carcere dello Spielberg. Affascinato da questa brillante celebrazione dell’uguaglianza di tutti gli uomini, grazie all’opera livellatrice della Morte, il Rosa vi scorge un manifesto di giustizia contro «la potenza, la superbia, e la depravazione delle classi dominanti». Dopo i primi approcci generosi, ma spesso soggetti a fraintendimenti e a forzature, l’opera di Clusone ha dovuto attendere Arsenio Frugoni (1914-1970) per es-

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sere analizzata in modo attento e scrupoloso. L’interesse della figlia Chiara per il tema, come lei stessa ricorda nel libro, nasce proprio dai lunghi sopralluoghi che lo storico svolgeva in sua compagnia presso l’Oratorio dei Disciplini, fotografando ogni particolare e trascrivendo le epigrafi che corredano il dipinto.

Tre giovani cavalieri

La rappresentazione della morte acquisí poi un’importanza nodale nell’esperienza dell’autrice, sin dal momento della sua tesi di laurea dedicata all’Incontro dei tre vivi e dei tre morti, vale a dire il piú antico tema macabro nell’iconografia del Medioevo europeo. Si tratta di un racconto incentrato su tre cavalieri, giovani, felici e spenfebbraio

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Paganico (Siena), S. Michele Arcangelo. Particolare dell’affresco di Biagio di Goro Ghezzi nel quale il santo titolare tiene la bilancia con due anime sotto forma di figurine nude, una femminile e una maschile. 1368.

sierati. Durante una battuta di caccia, si imbattono in tre scheletri animati, che prefigurano il loro destino. Diffuso sia in ambiente laico che religioso sin dal XIII secolo, il tema ritorna a Clusone, laddove si osservano tre cavalieri-cacciatori presi di mira dalla Morte: uno viene colpito e gli altri due tentano inutilmente di fuggire. Ma perché nell’Europa medievale i temi macabri emergono quasi all’improvviso? Dopo la prima diffusione delle scene dell’Incontro, a partire dal XIV secolo, si sviluppano i temi del Trionfo della Morte e della Danza macabra, ripresentati nella grande sintesi di Clusone. Pongono l’accento sulla realtà terrena dell’individuo, e mettono cosí in primo piano il disfacimento del corpo, relegando a un aspetto marginale il destino dell’anima

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alla fine dei tempi, al centro delle innumerevoli raffigurazioni del Giudizio Universale. D’altronde la Frugoni ha potuto evidenziare il sorgere di una nuova mentalità nelle parole stesse di un monaco cistercense di ascendenze nobiliari, Hélinant de Froidmont, che pure difende la visione tradizionale dell’aldilà. In un suo poemetto dedicato alla morte, composto negli anni 1193-97, non riesce a nascondere il proprio attaccamento alla realtà terrena, e il destino di ogni individuo nell’aldiquà assume ben piú evidenza di ogni ragionamento sulla beatitudine e sui castighi infernali. Rivolto alla Morte in persona, scrive: «Ma tu, che vai alla caccia di coloro a cui Dio paura non ha messo, molto fai gran bene per la tua minaccia, poiché la paura che tu incuti purga e setaccia l’anima».

Una nuova sensibilità

Per motivare il successo del macabro, lo storico Alberto Tenenti (1924-2002), nel suo saggio Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento (1957), aveva sostenuto in modo esclusivo che una nuova sensibilità aveva fatto maturare un senso di attaccamento alla vita terrena, con l’angoscia che derivava dalla certezza di doverla lasciare. In Senza misericordia, Chiara Frugoni non nega questo aspetto, ma trova una nuova chiave interpretativa del fenomeno riallacciandosi alla «nascita» del purgatorio, cosí come è stata definita da Jacques Le Goff: nel XIII secolo, quando la geografia dell’aldilà si arricchisce di uno spazio intermedio tra l’inferno e il paradiso, i concetti della dannazione e della beatitudine eterna,

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iconografia il trionfo della morte A. Nell’affresco di Clusone, la composizione è dominata dal Trionfo della Morte. Sotto di lei, alcuni personaggi cercano di fuggire (sulla sinistra), mentre altri sono inginocchiati e presentano offerte in danaro e gioielli; proprio al centro, intenti a dialogare, si vedono due figure identificate grazie al nuovo studio dell’opera: il re di Lidia Creso (a sinistra) e Solone, legislatore e filosofo greco (vedi anche l’immagine a p. 49). B. La porzione superstite della Danza macabra: i personaggi che sfilano, alternati ad altrettanti scheletri, impugnano strumenti che permettono di identificarne la professione.

nella loro assolutezza, perdono efficacia. Si sviluppa una società urbana sempre piú dinamica, che regola la sua attività sul commercio e sul denaro, e la Chiesa si concentra sul destino dell’anima subito dopo la morte terrena, che acquista cosí una centralità del tutto inedita. L’orrore realistico dello scheletro risulta ben piú efficace dei piú efferati tormenti dell’inferno. Cosí, dopo il Trionfo di una Morte che finisce per assumere le sembianze di uno scheletro, e che colpisce senza pietà ogni individuo, nelle Danze macabre le anime assumono la forma di scheletri animati che accompagnano le figure dei vivi. Impartiscono innanzitutto una lezione su quanto sia relativo il valore della ricchezza, quando di un individuo rimane solo lo scheletro. E richiedono poi attenzione. Con le messe in loro suffragio, possono contare sull’assoluzione dai propri peccati, in modo da evitare il castigo infernale. In base alla nuova lettura dell’autrice, sia il Trionfo della Morte che la Danza macabra sono dunque immagini del purgatorio.

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Terrore e benevolenza

La Frugoni evidenzia inoltre che lo stesso schema del Trionfo è quasi un pendant terrifico della tipica rappresentazione della Madonna della Misericordia. Come la Morte invincibile, che è «senza misericordia», la Madonna, che procura al contrario il perdono divino, campeggia anch’essa al centro della composizione, con i fedeli che, come piccole figurine, trovano rifugio sotto il suo manto. E non a caso, la devozione alla Madonna era un elemento centrale nelle funzioni religiose dei Disciplini, i compagni di quella confraternita che aveva commissionato l’affresco di Clusone. Al terrore della Morte rispondeva cosí la benevolenza della Vergine. Per la Frugoni «l’opera d’arte ha sempre due valenze». Accanto agli aspetti estetici e formali, che sono di competenza dello storico dell’arte, essa ha infatti un valore documentario e, come tale, rientra anche nel campo dello storico. Attraverso le immagini emerge una rappresentazione del mondo, e si evidenziano tanti elementi che non si rinvengono nelle fonti scritte, permettendo, per esempio, di descrivere la vita quotidiana.

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iconografia il trionfo della morte Le immagini, dunque, aiutano a entrare nel vivo degli atteggiamenti e della mentalità del tempo. Grazie a esse, infatti, possiamo capire che «il lavoro è anche un valore perché permette di far riaprire le porte del paradiso attraverso le elemosine». In un affresco poco noto che l’autrice ha messo in rilievo, in S. Michele Arcangelo a Paganico (Siena), dipinto da Biagio di Goro Ghezzi nel 1368, il santo titolare «tiene la bilancia in cui compaiono due anime sotto forma di figurine nude, una femminile e una maschile. In basso c’è una donna con la sua rocca, e dall’altra parte un uomo con la zappa, e tutti e due dicono, in sintesi: “Del nostro lavoro noi abbiamo fatto elemosina”. Quindi, i due simboli del peccato originale – da una parte Adamo, dall’altra parte Eva che trasforma la lana delle pecore in filato – con il loro lavoro agricolo, attraverso l’elemosina, indicano un modo per riconquistare il paradiso». Quando l’autrice entra nello specifico, l’analisi iconografica dell’affresco di Clusone permette poi di individuare per la prima volta alcuni personaggi e precisa la tipologia di molte figure, evidenziando ancor meglio il valore testimoniale dell’opera. Non manca la sottolineatura di alcuni dettagli intriganti, come il fatto che uno degli attendenti scheletrici della Morte, a destra, dispensa la fine dell’esistenza con l’ausilio di un’arma da fuoco, precisamente uno schioppetto a miccia, invece dei soliti arco e freccia: evidentemente, la «Regina dei vivi» non è insensibile ai progressi della tecnica!

Una nuova identificazione

Nel corteo dei personaggi di alto rango che attendono la loro fine, cercando magari di offrire qualcosa di prezioso per placare la terribile Regina, appaiono isolati, a colloquio tra di loro, un sovrano e un filosofo dal copricapo orientaleggiante, ora identificabili con Creso, re della Lidia (Asia Minore occidentale), e Solone, legislatore e filosofo greco. L’incontro con questi due personaggi dell’antichità, basato in primo luogo sul racconto di Erodoto, si deve al fatto che il re, credendo di aver raggiunto la vetta della felicità grazie alle sue immense ricchezze, viene smentito duramente da Solone, che gli contrappone tre personaggi morti gloriosamente, chiudendo cosí in modo autenticamente positivo il bilancio della propria vita. Sotto al Trionfo, si sviluppa la Danza macabra, un tema che si riscontra raramente in Italia. Come sottolinea l’autrice, la rappresentazione di Clusone è inoltre «diversa dalle altre danze macabre degli altri Paesi, perché di solito, soprattutto in Germania e in Francia, ci sono degli scheletri beffardi che trascinano loro malgrado i potenti. Qui, invece, si osserva una sfilata che sembra piú una processione di un vivo e di uno scheletro alternati, e ognuno è caratterizzato da uno strumento». Vediamo cosí, dopo una donna che si rimira allo specchio, un membro della confraternita dei Disciplini con

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In alto un mercante offre alla Morte un prezioso anello. Nella pagina accanto un’immagine di dettaglio del dialogo fra Creso e Solone: l’incontro allude al racconto di Erodoto, secondo il quale il re della Lidia, credendo di aver raggiunto la vetta della felicità grazie alle sue ricchezze, fu smentito da Solone, che gli contrappose tre personaggi morti gloriosamente, chiudendo cosí la propria vita con un bilancio positivo. febbraio

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iconografia il trionfo della morte s. caterina d’alessandria a capodirigo (marche)

La Morte e il Re peccatore Acquasanta Terme (Ascoli Piceno), nel Sud delle Marche, si trova alle soglie del «cratere» dei terremoti che hanno recentemente colpito l’Italia centro-appenninica. Il tema del Trionfo della Morte ci conduce nella frazione Capodirigo, dove la chiesa di S. Caterina da Alessandria, all’ingresso del paese, ha riportato alcuni danni, ma è fortunatamente intatto il suo elemento piú prezioso: si tratta di un portale istoriato in pietra arenaria che si apre sul fianco dell’edificio, in corrispondenza della strada che attraversa l’abitato. L’opera è stata realizzata nel 1504, come attesta l’iscrizione sulla chiave dell’arco. La data è troncata in due parti dalla severa testa barbuta del Padre Eterno, che inserisce cosí la dimensione dell’incorruttibile nel flusso del tempo terreno. Nel suo ruolo di giudice, Egli assiste impassibile alla scena che si svolge sotto il suo sguardo, sui conci di imposta dell’arco. Vi si narra l’incontro tra la Morte e un Re. Secondo il cliché tipico dei Trionfi della Morte, il sovrano offre un gruzzolo di monete nel tentativo di sottrarsi al proprio destino. Nella targa sovrastante, come in una sorta di fumetto, si leggono le sue parole, in un latino tutt’altro che rigoroso: «O Morte, azipe aurum et argentem, et dona michi vitam» («O Morte, prendi – azipe, ossia accipe – l’oro e l’argento, e donami la vita»). Armata di arco e freccia, pronta a colpire il malcapitato, la Morte cammina inesorabile verso di lui e gli risponde: «Ego non vollo neqe aurum neqe argentem. Quita iusta sunt» («Io non voglio né l’oro né l’argento. Le cose modeste – quita, ossia quieta – sono giuste»). Come in tante raffigurazioni diffuse sin

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dal Trecento, la Morte ha le sembianze di uno scheletro. Al suo fianco si osserva un terribile drago dai denti aguzzi che simboleggia l’Inferno, secondo un abbinamento che si nota in numerose immagini ispirate all’Apocalisse (VI, 8; XX, 15), non per evocare la morte corporea ma la ben piú terribile «morte seconda», quando lo «stagno di fuoco» inghiotte le anime dei dannati. In una tale raffigurazione, la Morte agisce come un giustiziere morale. Il Re dannato non indossa una veste preziosa, bensí il saio dei frati

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Minori di san Francesco, riconoscibile dalla cordicella con la nappa pendente che stringe la vita. Egli, quindi, ha cercato inutilmente di riscattarsi alla fine della propria esistenza, mettendosi nei panni di chi ha abbracciato il voto di povertà, ma al tempo stesso non ha rinunciato alle sue ricchezze, tentando anzi di corrompere la Morte. E il castigo divino gioca proprio sull’apparenza di

questo sovrano ipocrita e mestatore. Lo scultore, infatti, sovrappone al Re un suo «doppio» in versione mostruosa: la sua anima dannata ha un buffo cappello a punta al posto della corona, e la testa è innestata sul corpo di un uccello. Fa da pendant, sul lato opposto, una creatura altrettanto mostruosa, un’arpia, essere infernale per metà donna per metà uccello. La morale della singolare composizione è ben chiara, e si riallaccia alle prediche sulla morte, in forma letteraria e figurativa, che tanta diffusione ebbero sin dal Trecento. Il destino di un individuo ricco e potente esempla la fine di ogni esistenza, quando il tempo della vita terrena finisce e si profila la minaccia del castigo infernale. La ricchezza non serve, perché nessuno può sfuggire al proprio destino. Per guadagnare la benevolenza di Dio, piuttosto, ci si deve affidare a cose modeste, poco appariscenti (quieta, dice la Morte stessa). Agli occhi di Dio valgono ben piú dell’oro la vita e l’opera dei lavoratori onesti e scrupolosi che abitano in un borgo pedemontano come Capodirigo: allevatori, contadini, muratori, piccoli artigiani. Il portale piceno non ha rapporti con opere simili in zona. Il suo artefice, legato a una cultura tardo-medievale ancora viva, è probabilmente uno dei molti maestri lombardi che avevano preso residenza nel territorio di Acquasanta Terme. E nella sua terra di nascita, dove l’iconografia della Morte era ben diffusa, avrebbe potuto vedere proprio l’affresco di Clusone, realizzato quasi vent’anni prima. La posa del Re che offre il suo tesoro, d’altronde, è assai simile a quella del vescovo intento nella stessa azione nella grande composizione lombarda. febbraio

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Sulle due pagine veduta d’insieme (nella pagina accanto) e particolari del portale di S. Caterina d’Alessandria a Capodirigo (Acquasanta Terme, Ascoli Piceno). 1504. 1. La Morte, pronta a colpire, con arco e freccia. 2. Il Re offre un gruzzolo di monete per sfuggire al proprio destino. 3. L’anima del Re, innestata su un corpo di uccello.

il flagello utilizzato nei suoi esercizi penitenziali, il conciabrocche – o aggiustapiatti, riconosciuto proprio grazie al trapano a volano, che gli consentiva di praticare le ricuciture con il ferro filato –, il garzone di osteria, il pellegrino forestiero, il ricco mercante, il giovane nobiluomo innamorato (la morte interrompe bruscamente l’idillio epistolare con la sua dama), un professionista di alto livello (un giurista o un medico). Molte altre figure della «sfilata» sono andate perdute. In genere, nella Danza macabra si impone l’aspetto della morte inesorabile e che può colpire in qualsiasi momento, e dunque l’invito pressante a pregare e a essere dei buoni cristiani. Ma a Clusone il messaggio è addolcito da una vicinanza quasi fraterna con la morte, ed è rivolto in prima battuta a un gruppo sociale ben definito, quello composto dai ricchi commercianti e professionisti della realtà locale. «C’è una grandissima sottolineatura della ricchezza, che era ed è ancora un elemento costitutivo di una società lombarda operosa dove il problema dei soldi è molto importante».

Non c’è spazio per le donne

Restano fuori dal corteo le donne. Una sola si affaccia all’inizio, piccola e priva di una chiara connotazione sociale, e con il suo specchio che riflette un teschio sembra piú che altro un’allegoria della Vanità. Rispetto alla casistica delle altre Danze macabre, inoltre, mancano del tutto i bambini, i poveri, i malati e gli anziani. Un’assenza rispetto alla quale Chiara Frugoni sottolinea il fatto che i committenti dell’opera, i Disciplini, erano una realtà maschile. Le donne erano ammesse solo con l’autorizzazione del marito o dei genitori, e rivestivano un ruolo minore, non potendo neanche vestire la «divisa» della confraternita in punto di morte. I poveri e gli infermi, inoltre, erano sí beneficiati dalle opere pie dei confratelli, ma solo se erano già entrati a far parte dell’associazione. Non rappresentavano quindi una realtà in sé che poteva reclamare una qualche giustizia o un senso di commiserazione. Lo scenario è cosí dominato da «una società che si riconosce come elemento identitario nel lavoro e nella produzione». Da qui nasce la ricchezza, e se questa viene in parte convogliata nelle indulgenze, l’esperienza del purgatorio prelude alla «vita eterna».

Da leggere Chiara Frugoni, Simone Facchinetti, Senza misericordia. Il Trionfo della Morte e la Danza macabra a Clusone, Einaudi, Torino 2016

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Oltre il danno anche la beffa... di Domenico Sebastiani

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Il corteo della follia e del pentimento, olio su tela di Frank Moss Bennett. 1907. Collezione privata.

Corse di asini e di meretrici, conio di monete false, lanci di carogne...: la guerra, nel Medioevo, si combatteva anche cosí, aggravando l’onta della sconfitta con lo scherno e la derisione, in una sorta di visione «carnevalesca» dell’evento bellico MEDIOEVO

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a netta sensazione di vittoria sulla paura è un elemento basilare del riso medievale e trova la sua espressione in una serie di immagini comiche tipiche del Medioevo. In esse è sempre presente questa paura vinta nella forma del mostruosocomico, in quella dei simboli capovolti del potere e della violenza, nelle immagini comiche della morte, nei supplizi allegri. Tutto ciò che è terribile diventa comico». Cosí scriveva il grande storico e critico letterario russo Michail Bachtin (1895-1975), nel suo lavoro piú impor-

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costume e società guerra e derisione tante, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale (pubblicato in Italia per la prima volta nel 1979). Nell’uomo medievale, quindi, la serietà e il riso coesistono, il tragico e il comico si fondono, la morte e la burla sembrano essere facce della stessa medaglia. Tutto si risolve nell’esaltazione del grottesco e del «basso materiale-corporeo», in tutto ciò che avvicina alla terra, come principio che assorbe, ma che dà anche vita, distruttivo e rigeneratore al tempo stesso. È il trionfo del rovesciamento parodico, dell’inversione dei ruoli, del gusto della derisione, del piacere di prendere in giro il potere ufficiale, il vicino, l’avversario, il nemico.

Se la festa, che trova il suo culmine nel Carnevale e in momenti affini, diventa il regno della parodia e della derisione, e se la guerra – mutuando il titolo di un saggio Franco Cardini (vedi bibliografia a p. 75) – è pur essa una festa, ancorché crudele, l’insinuarsi di elementi parodici e di inversione oltraggiosa nelle pieghe dei confronti bellici medievali non deve meravigliare. L’efferatezza della violenza coesiste e va di pari passo con la propensione allo scherzo e allo scherno, lo scorrere del sangue si accompagna alla gioia festosa e carnevalesca.

Una sottile guerra psicologica

Come ha ben evidenziato lo storico Aldo Settia, i rituali contemplati nelle tecniche d’assedio medievali fungevano da efficace mezzo di pressione, al di là di scopi pratici immediati: il confronto tra assedianti e assediati si giocava (anche) sul filo di una sottile guerra psicologica, tendente in parte alla affermazione della propria superiorità, in parte alla derisione o alla denigrazione della controparte. Viceversa, anche gli assediati spesso ponevano in essere rituali volti a riaffermare la propria identità civica e a rispedire al mittente le provocazioni arrecate. Le testimonianze di oltraggi rituali si affermano in Italia a partire dall’inizio del XIII secolo, in concomitanza con lo svilupparsi degli schieramenti contrapposti di guelfi e ghibellini, soprattutto in Toscana e comunque in tutta l’area centro-settentrionale della Penisola. Alcune pratiche oltraggiose, come il dilaniare e mutilare il corpo dei nemici, il giocare a palla con le teste mozzate, fino ad arrivare ad atti di cannibalismo rituale, avevano un intento intimidatorio nei confronti della parte avversa. Altre, invece, puntavano a trasmettere un messaggio di superiorità e di dominio. Ne è un esempio l’uso di far volare uccelli da rapina sul territorio avversario, come avvenne con un astore inviato dal campo veneziano che assediava Ferrara, nel 1483. La componente farsesca già si intravede chiara con la prassi, ampiamente diffusa, di battere monete false «per dispetto» in campo nemico (vedi «Medioevo» n. 197, giugno 2013), il cui primo episodio viene segnalato nel 1256, quando i Fiorentini sconfissero Pisa. Oltre a risultare un segno ostentatore di dominazione, giacché A sinistra illustrazione raffigurante un folle che cavalca un asino al quale si aggrappa una donna, tenendolo per la coda, dalla traduzione in lingua inglese della Nave dei folli (1494) di Sebastian Brant curata nel 1509 dal poeta di origine scozzese Alexander Barclay. Collezione privata.

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Ancora l’immagine di un folle in groppa a un asino, da un’altra edizione della Nave dei folli. XV sec.

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costume e società guerra e derisione palii e corse

Nel segno della fede, ma anche della trasgressione Come ha ben illustratolo storico Duccio Balestracci, lo svolgimento del palio diventa un elemento caratterizzante della vita comunitaria delle città medievali italiane del Centro-Nord. L’occasione può essere in primo luogo religiosa, connessa alla festa del santo patrono. A Pistoia, fin dal XII secolo, si corre il palio di sant’Jacopo; a Perugia, nel 1260, il palio è annoverato tra le manifestazioni che si svolgono per la festa di Ognissanti, insieme alla fiera. Cosí come a Siena, a metà del Duecento, il palio è tra le manifestazioni per santa Maria Assunta. Lo svolgimento di corse abbinate a motivi religiosi può avvenire in casi eccezionali, come quando nella stessa Siena, nel 1363, si organizza un palio in onore della Madonna affinché salvi la città da un’epidemia di peste. Talvolta i motivi religiosi si fondono con quelli civici o politici, per arrivare

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a casi in cui i palii vengono organizzati unicamente per motivazioni politiche: una vittoria in battaglia, la liberazione da una tirannia, un colpo di Stato (riuscito o sventato). A Verona, per esempio, nel 1208, vengono istituiti palii per ricordare la vittoria di Ezzelino da Romano sulla fazione avversaria e la presa della città: cosí ogni anno, la prima domenica di Quaresima, si corrono gare podistiche, un palio degli asini e uno dei cavalli. Molto spesso i palii si inseriscono nell’ambito delle feste del Carnevale, come a Orvieto nel Duecento o a Roma nel Quattrocento, ove al Testaccio si svolge un palio, accompagnato da corse di asini e bufali. Ma, a prescindere dal periodo del vero e proprio Carnevale, si organizzano in varie occasioni palii con caratteri carnascialeschi, caratterizzati da elementi parodici e irridenti, come

premi consistenti in corone d’aglio per il peggiore classificato. Particolare, e intriso di crudeltà, è il palio organizzato dai tintori di Firenze per la festa di sant’Onofrio, protettore della categoria professionale: al termine di una grande festa, per la strada principale del Borgo dei Tintori viene fatta svolgere una corsa tra i ronzini piú lenti e malandati – tra quelli destinati usualmente al trasporto delle stoffe – i quali vengono picchiati e incitati con violenti colpi di bastone dal pubblico che assiste divertito. Accanto alle corse degli animali, frequenti erano palii e corse podistiche di uomini e donne. A Verona, per esempio, con lo statuto del 1393, Gian Galeazzo Visconti introdusse la corsa a piedi delle mulieres, alla cui vincitrice andava come premio il drappo verde, fino ad allora premio destinato agli uomini. Anche se il silenzio dello

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statuto veronese, come quello di molte altre città italiane, potrebbe far pensare che il bravium foeminarum fosse riservato alle donne «oneste», e che solo in mancanza di queste si ricorresse alle prostitute, il palio delle donne era in realtà – fin dalla sua istituzione – il palio delle meretrici. Per una donna onesta, infatti, muoversi scompostamente e correre era un atto sconveniente e inaccettabile da un punto di vista sociale. Gli strali della Chiesa si abbatterono contro tali tipi di palio, ove le meretrici correvano discinte per

la città tra gli schiamazzi, gli insulti e i lanci di oggetti degli spettatori divertiti. Cosí che a Verona, a Mantova e Ferrara si cercò di moralizzare lo svolgimento di tali manifestazioni prevedendo la sostituzione delle prostitute con povere popolane e contadine oneste. I tentativi, peraltro, furono inutili, dal momento che dopo poco tempo la corsa delle mulieres tornò a essere «la corsa delle puttane». Corse blasfeme di prostitute si tenevano anche in altre città, come a Ivrea (1329), a Pavia (1330) e a Brescia (1422),

Nella pagina accanto e in alto Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. Particolari dell’allegoria del mese di aprile raffiguranti una corsa a cui partecipano anche due donne (a sinistra) e Borso d’Este che, tornato dalla caccia, assiste al Palio di San Giorgio, affresco di Francesco del Cossa. 1468-1470.

indicava la perdita delle prerogative dell’avversario e la presa di possesso del territorio nemico, coniare monete false tendeva a riprodurre rituali annoverati durante le feste dei folli o dei santi Innocenti del Nord della Francia, quando per burla si distribuivano monete di piombo. Piú che tali prassi, però, qui analizzeremo il ruolo di alcuni rituali derisori i cui protagonisti erano soggetti tra i piú negletti: asini e prostitute.

Il ruolo dell’asino

Creatura dalla simbologia ambivalente, positiva e negativa allo stesso tempo, l’asino viene dipinto come esempio di umiltà, modestia o addirittura sapienza in alcuni episodi biblici. Nella favolistica greco-romana, il quadrupede è sinonimo di stupidità, testardaggine e

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addirittura in occasione della festa dell’Assunzione della Vergine o nel giorno di Santa Maria Maddalena. Con il passare del tempo, altri gruppi di marginali furono arruolati in questi palii derisori e crudeli: in primis gli Ebrei, disprezzati a tal punto che il loro palio veniva appellato, negli avvisi del tempo, come «la corsa delle bestie bipede». In epoche piú tarde, occasionalmente, ai palii dileggiatori parteciparono addirittura individui colpiti da deformità fisiche: si ricorda infatti un famoso «palio dei gobbi», disputato a Roma nel 1633.

lussuria e tale immagine viene ripresa dai Padri della Chiesa: nel Medioevo l’asino diventa l’animale stupido e cocciuto per eccellenza, emblema bestiale della derisione e della comicità, dell’oltraggio e dell’inversione, che anima manifestazioni sacre e profane basate sull’inversione burlesca. Protagonista per eccellenza nel Carnevale, in campo clericale l’asino è al centro delle feste dei folli e della festa dell’asino, che si tengono nel periodo compreso tra Natale e l’Epifania, cosí come a Roma della Cornomania, celebrata il sabato prima di Pasqua, nella quale i sacrestani si riuniscono in Laterano con le corna in capo – a imitazione della mitra del vescovo – e uno di loro viene fatto salire al contrario sopra un asino. Tale cavalcata rappresenta una parodia rovesciata della marcia maestosa del papa neoeletto e coronato di tiara a dorso di un cavallo bianco. Nelle cerimonie laiche, i rituali di inversione acquistano un valore ancor piú degradatorio e infamante, in quanto associati alla punizione di comportamenti devianti o all’espulsione simbolica del colpevole. Se pensiamo allo charivari (vedi box a p. 70), la

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«cavalcata a rovescio» diventa tipica dei rituali collettivi volti a punire le seconde nozze o i matrimoni atipici, o a esporre alla pubblica gogna coloro che si sono macchiati di reati o di eresia.

Gli ambasciatori alla berlina

Sulla base di tali premesse, proprio la cavalcata a rovescio a dorso d’asino viene spesso usata nell’ambito dei rituali derisori in tempo di guerra. Se ne possono citare due esempi. Nel 1260, dopo la disfatta a Montaperti, due ambasciatori fiorentini si recarono a Siena per patteggiare le condizioni ma, come narra Paolo di Tommaso Montauri nella Cronaca senese, essi furono scoperti e sottoposti alla procedura: «perché fusero conosciuti,

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furo messi a chavallo in su gli asini e quagli havevano rechato la vettovaglia in champo, e stavano per piú vilipendio loro colla faza inverso la coda de l’asino». Per di piú, a uno degli asini dove era posto a cavalcioni un ufficiale con le mani legate dietro la schiena, fu attaccata alla coda una bandiera di Firenze, il tutto tra il frastuono del pubblico dileggio operato dai ragazzini, che svolgevano un ruolo essenziale di espulsione simbolica e materiale dei nemici. Il secondo caso è quello a cui fu sottoposto nel 1357 Giovanni Pipino, conte di Minervino, assediato da Filippo di Taranto nel castello di Matera: una volta catturato, fu condotto ad Altamura, quindi spogliato e posto su un’asina con una corona di carta in testa, esposto al pubblico ludibrio e infine impiccato alle mura del febbraio

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La gatta di Padova

Cosí cominciò la riscossa della Serenissima Il 14 maggio del 1509 le truppe della Lega di Cambrai, promossa contro Venezia da papa Giulio II insieme a Francia, Spagna, impero, i Savoia, Mantova e Ferrara, infliggono alla Serenissima la pesante sconfitta di Agnadello, in seguito alla quale essa perde gran parte dei suoi possedimenti, Padova inclusa. La Lega e i Francesi, invece di assestare il colpo di grazia alla Repubblica occupando la città, aspettano l’arrivo dell’imperatore Massimiliano I. Questa pausa alle operazioni belliche si rivela provvidenziale per Venezia: il provveditore generale Andrea Gritti riprende Padova e organizza l’estremo tentativo di salvare la Serenissima da una fine quasi certa. Nell’estate del 1509, con l’ausilio della popolazione di Padova, i Veneziani organizzano un complesso disegno difensivo, riadattando il perimetro esterno delle mura ai possibili attacchi: le mura, alte e turrite, vengono abbassate e rinforzate con terrapieni, nei punti strategici vengono eretti bastioni provvisori per appostarvi le artiglierie e proteggere le mura e vengono scavati nuovi fossati interni ed esterni. La città è pronta ai futuri assalti imperiali, che non tardano infatti ad arrivare: nella seconda metà di settembre del 1509 ha luogo lo scontro al bastione della «Gatta», nel corso del quale le forze veneziane assediate riescono a respingere gli attacchi delle truppe dell’imperatore Massimiliano, che deve indietreggiare e rinunciare alla conquista di Padova.

L’episodio è molto importante nella storia di Venezia, che riuscí a riprendersi dalla sconfitta di Agnadello e riconquistare gradualmente il proprio dominio. Il bastione della «Gatta» prende il nome da un episodio di scherno narrato dai documenti dell’epoca e che divenne celeberrimo. Le cronache attestano infatti che in occasione dei vari assalti imperiali, i cittadini di Padova inchiodarono su una picca o su un’asse di legno una gatta e, in segno di sfida e di scherno, la sporsero fuori dalle mura, mostrandola agli assedianti. Secondo il diarista Girolamo Priuli, la gatta sarebbe stata ostentata in occasione di successive offensive, accompagnata da una canzone che veniva cantata giorno e notte dai giovani «per disprectio de li inimici». Secondo quanto afferma Angiolo Lenci, il messaggio dell’ostensione del povero animale sarebbe dunque come un invito della gatta al «gatto», affinché avanzi, e tenti di conquistarla, «nel quadro della tradizione che attribuisce alla femmina una capacità di resistenza e di insaziabile voracità sessuale che il maschio non è in grado di soddisfare esaurientemente». Tale interpretazione troverebbe conforto in un passo dei Diarii di Marin Sanudo, secondo il quale la gatta

fu presentata agli assedianti con le zampe posteriori divaricate e con la coda rialzata verso gli avversari. Secondo un’altra tesi, che si fonda su un testo svizzero dei primi del Cinquecento, agli assedianti non sarebbe stata esibita una gatta, ma piú semplicemente un’immagine del leone marciano. A prescindere da come siano andate le cose, l’episodio della gatta di Padova divenne famosissimo e fu declamato dal cronista vicentino Luigi da Porto, che ne previde una lunga durata: l’espediente di esibire l’animale, infatti, sembra sia stato riproposto nel 1523 a Milano assediata dai Francesi, e nell’assedio di Volterra del 1529. Padova. Una delle due sculture raffiguranti altrettante gatte e inserite nella muratura del Torrione della Gatta (o di Codalunga).

Nella pagina accanto miniatura raffigurante i crociati che, nell’assedio di Nicea del 1097, scagliano oltre le mura teste mozzate di musulmani, da un’edizione del Livre d’Eracles (noto anche come Estoire d’Oultre-Mer) di Guglielmo di Tiro. 1260 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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costume e società guerra e derisione castello («fo posto in una asena et su vy fo legato / scalso et in capilli, et nudo fu spolliato; / de corona de carta dapoy fu coronato, / cossí dessonerato per multe piacze gío»). Le cronache tendono a sottolineare che il conte, consapevole della morte certa, cercò di evitare – inutilmente – almeno gli aspetti infamanti della procedura («Non so’ de lenaio [lignaggio] de essere appeso. Moneta faiza fatta non aio, né dego portare mitra. Se dato è per lo mio male fare che io mora, tagliateme la testa»).

Una macabra messinscena

Gli asini erano altresí destinati a rituali derisori alquanto crudeli, come la prassi di sottoporre gli animali a impiccagione, vista la loro identificazione con gli avversari bersaglio dell’oltraggio. È quanto successe nell’ambito degli insulti rituali che Firenze e Pisa si scambiarono nel conflitto che le oppose tra il 1362 e il 1364. Racconta il cronista Paolo Tronci che, nel 1364, i Pisani, per vendicarsi delle beffe fiorentine dell’anno prima, non solo corsero palii derisori, batterono monete per dispetto e nominarono cavalieri, ma «per colmo di scherno appiccarono a una forca tre asini, con alcuni brevi portanti il nome di tre magistrati fiorentini». Il cronista Donato Velluti puntualizza a tal proposito che gli asini impiccati dai Pisani erano quattro e che, come forma massima di scherno, erano destinati a rappresentare i casati di alcune tra le famiglie piú illustri di Firenze, accompagnati da motti beffardi che giocavano sul filo dei sinonimi dell’animale: «messer

Le Charivari, nozze di Fauvel e Vaine Gloire. Miniatura del Maestro di Fauvel, dal poema satirico francese Roman de Fauvel, attribuito a Gervais du Bus e Geoffroy Engelor de Pesscain. 1316-1320 circa. Parigi, Bibliothèque nationale. Nel registro superiore è la scena dell’unione notturna che sta per compiersi tra il protagonista, il cavallo Fauvel, e la giovane moglie, Vaine Gloire, dopo il matrimonio. Nei registri centrale e inferiore, i cittadini di Parigi scatenano sotto la loro finestra un rumoroso charivari. Ai lati, entro strutture architettoniche, uomini e donne, con una mano sul petto e l’altra distesa verso il basso, osservano la scena.

Brunello degli Strozzi, messer Asino de’ Ricci, messer Somaio degli Albizzi e messer … de’ Medici». Dell’episodio si conserva anche una vivace testimonianza iconografica del cronista lucchese Giovanni Sercambi, che, al gusto del raccontare, univa quello del disegno. L’intento denigratorio di tali pratiche appare chiaro: assimilando il nemico alla condizione di asino e paragonandolo alla bestia piú disprezzata, tutto si risolveva in un atto di palese dominazione sull’avversario sconfitto e umiliato. Allo stesso tempo, appendere alla forca gli asini giustiziati, analogamente alle comuni esecuzioni capitali, assumeva un ruolo di protezione e purificazione simbolica della città dalle influenze malevole del nemico. Il ruolo degli asini non si fermava peraltro qui, in quanto essi erano protagonisti di corse e palii derisori. Con intenti simbolici rovesciati rispetto allo svolgimento del palio equestre che si teneva in molte città italiane

lo charivari

Il chiasso assordante dei cortei di Carnevale È difficile dare una definizione sintetica di un fenomeno complesso e polimorfo come lo charivari. Secondo il Dizionario del Medioevo di Alessandro Barbero e Chiara Frugoni per charivari si intende un «rituale collettivo praticato, soprattutto dai giovani, nelle comunità urbane e rurali dell’ Europa occidentale, documentato con sicurezza solo a partire dal XIV secolo e definitivamente scomparso solo in tempi recenti; in Toscana noto anche come scampanata. Lo charivari consisteva in una chiassata prodotta con tamburi, pentole e strumenti assordanti, rivolta

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contro chi avesse trasgredito a norme non scritte della comunità in campo matrimoniale e sessuale: per esempio mogli che picchiavano il marito, ma soprattutto chi sposava una persona proveniente da un’altra comunità, privando i giovani del luogo di una possibilità matrimoniale. I partecipanti erano in maschera, per lo piú con maschere di animali, e può essere, in una prospettiva antropologica, che ciò evochi un’inconscia identificazione con gli antenati o comunque con i defunti. Lo charivari si concludeva quando la vittima accettava di pagare

un’ammenda al gruppo, offrendo da bere e da mangiare; in caso contrario poteva degenerare in atti di violenza fisica. Proibita dalle autorità, non scomparve, ma attenuò la sua violenza, trasformandosi in un rituale stereotipato e sempre piú innocuo». Tipico dello charivari, dal carattere tipicamente carnevalesco, è il corteo di giovani che conducevano in processione, a cavallo di un asino e con la testa rivolta verso la coda dell’animale (ânerie nel Lionese, asouade nel Midi, charidane nel Santonge), il membro della comunità colpevole del comportamento fuori della norma. febbraio

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costume e società guerra e derisione in caso di particolari festività religiose o civiche (vedi box alle pp. 66-67), il palio di guerra – o «anti palio» come lo ha acutamente definito la medievista Ilaria Taddei – aveva il fine dichiarato di sbeffeggiare il nemico, con aspetti parodici simili a quelli che si riscontravano nel periodo di Carnevale. Solitamente, di fronte alle mura della città assediata e sul punto di cadere, gli assedianti facevano svolgere un palio «serio», accompagnato da una corsa di asini, meretrici o ribaldi. Gli esempi sono innumerevoli: si può citare il caso di Castruccio Castracani il quale, durante l’assedio lucchese di Firenze del 1325, fece correre davanti alle porte della città tre palii. Cinque anni dopo i Fiorentini si vendicarono, rendendo pan per focaccia. Piú avanti, nel luglio del 1363, di fronte alle porte di Pisa, i Fiorentini diedero prima vita a una gara «nobile» per valenti cavalieri, seguita da una manifestazione «vile»: «per dirisione feciono correre palii l’uno ad asini, l’altro a barattieri, e ‘l terzo alle puttane», come narra Filippo Villani.

Donne di malaffare e ribaldi

Anche le prostitute giocavano quindi un importante ruolo nell’ambito dei palii derisori di guerra. Era infatti consuetudine che una folta schiera di meretrici accompagnasse gli eserciti nelle spedizioni militari e che venissero allestite «corse delle puttane» come tipico rituale derisorio sotto le mura delle città assediate. Peraltro simili corse erano una pratica molto in voga nelle città medievali anche in tempo di pace, in occasione di festività varie. Oltre a quella delle donne, tali palii vedevano la partecipazione dei ribaldi, altra categoria sociale abbietta, assoldati con il compito di saccheggiare, devastare e bruciare le terre nemiche. Al ritorno dalla spedizione vittoriosa, una delle prostitute recava in giro il palio o l’insegna del nemico capovolta, al fine di sottolineare la sottomissione militare e sessuale dell’avversario sconfitto, con evidenti connotazioni di un ribaltamento carnevalesco. Con la loro cavalcata per le vie della città, le prostitute lanciavano al nemico un messaggio irridente e ignominioso, in quanto teso ad affermare la superiorità di un ceto – normalmente considerato al livello piú basso nella gerarchia sociale – rispetto al piú valoroso dei soldati nemici. Come ricordato, innanzi alle porte di Pisa, nel 1363, i Fiorentini fecero correre tre palii che accomunavano le categorie di persone e animali piú disprezzate: asini, ribaldi e meretrici. Similmente ad Arezzo, nel 1335, i Perugini vittoriosi fecero correre un palio alle proprie prostitute seminude: «anco ce fecero correre el palio denante a la porta de Arezzo da le putane alzate fina alla centura». Rientrate in città vestite di panno rosato recando il palio, le stesse furono accolte trionfalmente dalla cittadinanza. Alcune meretrici furono le protagoniste involontarie

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Incisione ispirata a un episodio del poema satirico inglese Hudibras (1684): un marito e una moglie sono vittime dello scherno dei vicini, che gridano, inalberano una sottoveste come uno stendardo, fanno un gran chiasso con corni e altri strumenti e c’è perfino un giovane che si appresta a lanciare un gatto (sulla sinistra). Irrompe allora il cavaliere errante Hudibras, che giudica quanto sta accadendo come una processione diabolica. 1726. Londra, British Museum.

di un episodio inglorioso che toccò all’esercito veronese. Nel 1386, dopo la battaglia delle Brentelle – in cui l’esercito di Antonio della Scala subí una pesantissima sconfitta per opera delle truppe padovane, con prigionia di molti soldati e capitani scaligeri –, il signore di Padova Francesco da Carrara, per umiliare ancor piú gli sconfitti, accolse con grandi onori le 211 prostitute che erano al seguito dell’esercito veronese: a ognuna di loro fu permesso di entrare trionfalmente in città, con un bastonescettro e una ghirlanda di fiori in testa. La disparità di trattamento tra i capitani veronesi, imprigionati e costretti a pagare un forte riscatto per la loro liberazione, e le meretrici, accolte quasi come regine, apparve come «un’atroce beffa giocata secondo i tradizionali canoni del rovesciamento carnevalesco». Ad avviso di Richard Trexler, studioso dell’Italia comunale e rinascimentale, ribaldi e meretrici, arrecando disonore agli sconfitti e onore al vincitore, concorrevano a creare la dignità civica. Secondo Ilaria Taddei, i palii derisori di prostitute e barattieri svolgevano un ruolo analogo a quello dello charivari, in quanto la corsa ostentata di tali categorie era allo stesso tempo un riscatto dei mercimonia inhonesta da loro svolte: la mafebbraio

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no della giustizia informale non puniva in questi casi una pratica «deviante» come le seconde nozze, ma una condizione infamante. Se le prostitute, dopo una guerra vittoriosa, potevano essere accolte con tutti gli onori, all’inverso, nel caso di sconfitta, potevano essere individuate quali responsabili del cattivo esito dello scontro, per aver fiaccato i propri soldati con un’eccessiva attività sessuale. È ciò che avvenne nel 1390, quando i Bolognesi, per giustificare la disfatta delle loro truppe, addossarono la colpa alle meretrici che avevano seguito le milizie coitus causa: le donne vennero quindi portate sulla pubblica piazza, denudate e frustate ripetutamente sulle natiche.

Come una guerra batteriologica

Nel caso dei cosiddetti «lanci», all’ordinaria finalità derisoria se ne associava una piú pratica, in quanto i lanci stessi si configuravano come una vera arma. Se nel 1097 i crociati lanciavano a Nicea le teste dei nemici uccisi, affinché i Turchi si spaventassero ancor piú, nel corso del XIII secolo, nei conflitti che vedevano impegnati i vari Comuni in Toscana ed Emilia, si diffuse l’usanza di gettare entro le mura delle città assediati corpi di ani-

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mali, con finalità di insulto, sfida, e irrisione. L’animale preferito era ancora l’asino: oltre all’intento di dileggiare l’avversario, vi era probabilmente quello di dimostrare la potenza delle proprie catapulte, visto il peso dell’animale. Si registrano casi a Siena da parte dei Fiorentini (1233), a Modena da parte dei Bolognesi (1249); nel 1289 i Fiorentini, dopo la vittoria di Campaldino, «manganarono» in Arezzo «asini colla mitria in capo per dispetto e rimproccio del loro vescovo». Finalità senz’altro di scherno è il caso del frequente lancio di escrementi umani all’interno delle città, come quando, nel 1334, il popolo di Bologna assediò un castello fatto costruire in città dal legato papale, ovvero nel 1381, quando l’esercito padovano assediò il castello di Asolo in possesso della repubblica di Venezia («Ugolin dei Geslieri, sovrastante de questo lavoriero, fe’ bumbardare entro, e dí e note butare vezati de merda de homo dentro: e perché el luogo era streto e il caldo era grande, questo fu rasone che finalmente i se rendé»). Nel 1309, durante una battaglia navale, i Veneziani in lotta contro i Ferraresi lanciarono «olle piene di sterco e orina, calce, sapone, zolfo e pece infuocati». D’altra parte, cronachisti dell’epoca, come l’Ano-

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costume e societĂ guerra e derisione

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Charivari, olio su tela di David Ryckaert III. Seconda metà del XVII sec. Lille, Musée des Beaux-Arts.

nimo Romano, valutavano il lanciare escrementi alla stregua del tirar di balestra: se è chiaro che l’elemento scatologico risultava di per sé irridente in quanto collegato alla sfera del «basso corporeo», a esso si coniugava una finalità militare quasi di tipo chimico. Settia non esita infatti a parlare, in tali circostanze, di uno sconfinamento nell’ambito di vere armi batteriologiche. Il trattato quattrocentesco di Mariano Taccola, a tal proposito, indicava con precisione il materiale che doveva essere lanciato all’interno della città o della rocca assediata, in modo da causare il proliferare di malattie e la capitolazione dei difensori: doveva trattarsi di cadaveri umani e acqua putrefatta con cipolle formaggio e biade, nonché feci e pesce corrotto. Infine, nel corso di due famosi assedi, si registrarono il lancio o l’introduzione di corpi infetti, una circostanza in cui la finalità è unicamente «batteriologica», mentre risulta del tutto assente quella derisoria. Nel primo, relativo alla città di Caffa in Crimea, assediata dai Mongoli e difesa dai Genovesi (1346), il cronista piacentino Gabriele de Mussis narra del lancio di cadaveri di malati di peste all’interno delle mura. Il secondo caso vede una tecnica ancor piú sottile, che non consiste in un lancio di corpi, anche se il fine di diffondere il contagio è lo stesso. Nel giugno del 1481, pochi giorni prima di iniziare l’assedio di Otranto, re Ferrante d’Aragona invia infatti dentro la città assediata quattro prostitute «pulchre et hornate», a loro insaputa già malate, allo scopo di infettare i «lussuriosi turchi». F

Da leggere Franco Cardini, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Il Mulino, Bologna 2013 Ilaria Taddei, Il linguaggio dell’insulto. Palii e altri rituali di derisione (secoli XIII-XIV), in Simboli e rituali nelle città toscane tra Medioevo e prima Età moderna (Atti del convegno internazionale, Arezzo, 21-22 maggio 2004), Annali Aretini, 13 (2005) [2006], pp. 65-77 Gian Maria Varanini, I riti dell’assedio. Alcune schede dalle cronache tardomedievali italiane, Reti Medievali Rivista, VIII-2007, disponibile on line Aldo A. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2002 Duccio Balestracci, La festa in armi. Giostre, tornei e giochi del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2001 Marino Zampieri, Il palio, il porco e il gallo, Cierre, Verona 2008 Angiolo Lenci, Il leone, l’aquila e la gatta. Venezia e la lega di Cambrai: guerra e fortificazioni dalla battaglia di Agnadello all’assedio di Padova del 1509, Il Poligrafo, Padova 2002

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di Tommaso Indelli

Reso immortale dal suo alter ego letterario – il conte vampiro creato da Bram Stoker –, Vlad Tepes fu, in realtà, una delle figure di spicco nel convulso scenario balcanico della seconda metà del Quattrocento. Ma quanto c’è di vero nell’interminabile lista di efferatezze che gli vengono addebitate?

DRACULA

Ritratto di Vlad III di Valacchia, detto Tepes (l’Impalatore) e piú noto come Dracula. Olio su tela di autore anonimo. XVII sec. Eisenstadt, Castello Esterhazy.

IL PRINCIPE SANGUINARIO CHE SFIDÒ L’ISLAM


Dossier

E È

difficile restituire alla «verità storica» il personaggio di Vlad III Tepes, voivoda di Valacchia – regione dell’odierna Romania – meglio conosciuto come «Dracula» (attribuito dal Medioevo nell’Europa centro-orientale, il titolo di voivoda indicava capi o governatori con estesi poteri civili e militari, n.d.r.). Negli ultimi decenni, la filmografia, i cortometraggi e i fumetti ispirati dal romanzo Dracula di Bram Stoker (pubblicato per la prima volta nel 1897) hanno contribuito a diffondere e a radicare nella coscienza collettiva un’immagine artefatta, se non totalmente falsa, del noto condottiero «romeno», frutto della fantasia dell’autore irlandese, mescolata alla sua passione per la magia, l’astrologia, l’alchimia e il patrimonio di leggende popolari di origine balcanica – non solo romene –, che ruotano intorno alla figura del «morto redivivo» assetato di sangue, il vampir o nosferat. In realtà, il «conte Dracula» non bevve mai sangue umano, ma fu un principe del XV secolo, non alieno da comportamenti violenti, spesso crudeli, come altri sovrani della sua epoca, proiettata verso il Rinascimento, ma non totalmente libera dai condizionamenti di quel passato medievale che lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945) definí «Autunno del Medioevo». Vlad III Tepes nacque tra il 1430 e il 1435 nella città romena di Sighisoara dal principe di Valacchia, Vlad II (1418-1447), e da una donna sconosciuta, forse una principessa ungherese imparentata con la dinastia dei duchi di Lussemburgo, allora regnante in Ungheria, conosciuta da Vlad II durante la permanenza alla corte di Budapest. Vlad III, piú conosciuto come Dracula

(il «figlio del Drago») e noto anche come Tepes, l’«Impalatore», per la terribile pena che riservava ai suoi nemici, apparteneva alla dinastia valacca dei Basarab, che prendeva nome dal suo fondatore, il voivoda Basarab, il quale, alla metà del XIV secolo, costituí il principato di Valacchia, emancipandosi dalla sudditanza ungherese, diede vita a una vera e propria dinastia e riuscí a trasmettere il potere al figlio, Mircea I cel Batran (1386-1418), «il Vecchio», nonno del piú noto vampiro. Si consideri che, all’epoca, l’attuale Romania non costituiva un’entità statale unitaria, ma era suddivisa in tre compagini distinte: il principato di Valacchia, il principato di Moldavia e la Transilvania che era in gran parte sottomessa al regno d’Ungheria.

Mircea stabilí la sua capitale a Curtea de Arges, alle falde dei Carpazi, sede del metropolita ortodosso della regione. Durante il suo regno, i Turchi Ottomani iniziarono la penetrazione militare nei Balcani, intenzionati a estendere il loro sultanato dall’Asia Minore al territorio europeo, annientando quanto restava dell’impero romano d’Oriente. Nel 1354 avevano occupato Gallipoli sui Dardanelli e, nel 1362, Adrianopoli, dove trasferirono la loro capitale. Nel 1395 portarono a termine l’occupazione della Bulgaria.

Il Dracula raccontato da Bram Stoker ha per molto tempo oscurato la vicenda biografica del vero voivoda di Valacchia 78

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Una lunga discendenza

Qui sotto Curtea de Arges, Episcopio. Ritratto di Mircea cel Batran («il Vecchio»), nonno di Vlad Tepes.

Vlad II Dracul (il Drago) Voivoda di Valacchia († 1447)

Vlad III Tepes (l’Impalatore) = (1) Cnaejna Báthory Voivoda di Valacchia Principessa di Transilvania (1430/1435-1476) (2) Ilona Szilagyi Mihnea I cel Rau (il Cattivo) = (1) Smaranda (2) Voica Voivoda di Valacchia († 1510)

Ruxandra Mircea III Dracul = Maria Despina

(1) Maria Amirali = Petru Schiopul (Pietro lo Zoppo) Voivoda di Moldavia (2) Irina la Zingara († 1594)

Maria, dama di corte circassa = Stefanitsa

Alexandru*

Maria*

Mircea

Petru*

Milos

Elena

(† 1640)

= Elisabetta d’Ungheria Maria*

Petru

Mircea*

Bogdan = Ilona (il primo ad assumere il cognome Tsepesh) († 1672)

Bogdan*

Elisabetta

Radu Tsepesh

Milos*

(† 1699)

= Ana Ana

Radu*

Petru*

Vlad Tsepesh = (1) Caterina († 1724) (2) Maria di Amlash

Vlad

Maria

Ana

(1) Suzana Rosetti = Mircea Tsepesh (2) Gavrila Radescu († 1750) Mihnea Tsepesh († 1778)

= Maria Tsamblac Suzana*

Ion*

Maria*

Elena*

Petru Tsepesh († 1845)

= Mary Windham

Vlad*

Mircea

Radu

Alexandru Tsepesh = (1) Elena († 1811) (2) Gavrila Radescu Alexandru*

Stefan George Tsepesh († 1845)

A sinistra e a destra armi di varia foggia e tipologia facenti parte della collezione conservata nel castello di Bran, presso Brasov, che ispirò la descrizione del maniero di Dracula nel romanzo di Bram Stoker, ma non fu la residenza di Vlad Tepes. * Morto giovane o nato con deformità fisiche o psichiche

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui Dne s t r conectu doloreium rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti M conseque nis o Iasi l d maxim eaquis Ca a earuntia cones rp v az i a i apienda.

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IMPERO OTTOMANO Nel 1396, per fermarli, la Chiesa e il re d’Ungheria, Sigismondo di Lussemburgo, bandirono una grande crociata, a cui partecipò il fior fiore della nobiltà europea, ma in Bulgaria, a Nicopoli, il 25 settembre del 1396 l’esercito cristiano fu annientato dagli Ottomani (vedi box alle pp. 82-83). Prima di morire, Mircea si era sottomesso al sultano Maometto I, stipulando un trattato con il quale si impegnava a pagare un tributo annuale di circa 10 000 ducati e a fornire 500 reclute cristiane da impiegare come truppe scelte del sultano nei reggimenti dei famosi giannizzeri. Morto Mircea, la Valacchia sprofondò nel caos della guerra civile tra i vari pretendenti al trono, tra cui Alessandro Aldea, uno dei suoi numerosi figli.

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Nel frattempo, divenuto re di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero (1410) e re di Boemia (1419), Sigismondo di Lussemburgo decise di sostenere le pretese di Vlad II, uno dei figli di Mircea, cresciuto in Ungheria alla corte imperiale di Budapest. Pertanto, tra il 1430 e il 1436, con l’aiuto delle milizie imperiali e del principato di Moldavia – regione dell’odierna Romania – Vlad riuscí a sconfiggere e uccidere Aldea, conquistando il Paese sul quale avrebbe regnato fino al 1447.

Cavaliere del Drago

Poco tempo prima, nel corso di una solenne cerimonia a Norimberga (1431 circa), Vlad era stato designato «cavaliere» da Sigismondo e, piú esattamente, era

stato ammesso all’Ordine cavalleresco del Drago – Drachenorden o Societas Draconistarum –, fondato dall’imperatore nel 1418, con il compito di raggruppare il meglio della nobiltà imperiale al fine di proteggere la sua persona, combattere gli eretici Hussiti e i Turchi e difendere l’onore dell’impero germanico. L’insegna dell’Ordine era un drago con le fauci spalancate e il corpo avvolto su se stesso a forma di cerchio, con la coda intorno al collo, diviso in tutta la sua lunghezza, dalla testa all’estrema punta del corpo, da una croce vermiglia tracciata nel sangue. Da quel momento, Vlad II di Valacchia assunse l’epiteto di Dracul – il Drago – dal nome dell’Ordine cavalleresco a cui apparteneva, ed è per tale motivo che il figlio, febbraio

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Ritratto di Vlad Tepes, olio su tela di scuola tedesca. Seconda metà del XVI sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto l’assetto geopolitico delle regioni in cui si svolse la vicenda di Dracula.


Dossier Vlad III Tepes, fu poi denominato Dracula, «figlio del Drago». Tuttavia, in base alle Sacre Scritture, il riferimento al drago apparve a molti un richiamo esplicito al Demonio dell’Apocalisse – il Dragone –, soprattutto se si considera che, in romeno, drac significa diavolo. Il regno di Vlad II non fu tranquillo: il voivoda doveva destreggiarsi tra la fedeltà al suo protettore ungherese e l’espansionismo turco, ma alla fine, profittando della morte dell’imperatore Sigismondo (1437), scelse il sultano, confermando il trattato già ratificato dal padre (1438 circa). In ottemperanza agli accordi, due dei suoi figli Radu cel Frumos, il Bello, e Vlad, il futuro «Dracula», furono consegnati al sultano a garanzia dell’adempimento dei patti e condotti prima a Gallipoli e poi in Asia Minore, nella fortezza di Egrigoz, dove furono trattenuti in cattività fino al 1448. Nel frattempo, nel 1444, di fronte all’avanzata ottomana nei Balcani, fu organizzata una nuova crociata, ma i protagonisti erano cambiati. L’imperatore Sigismondo era morto e al suo posto, come comandante supremo dei crociati, fu scelto il no-

bile transilvano Giovanni Hunyadi (1387 circa-1456) che svolgeva la funzione di «reggente» del regno in Ungheria, data la giovane età del sovrano, Ladislao V Postumo, nipote del defunto Sigismondo.

Un nuovo tracollo

La spedizione si risolse ancora una volta in un disastro e, il 10 novembre del 1444, a Varna, in Bulgaria, l’esercito cristiano fu annientato dai Turchi: Hunyadi riuscí a fuggire, ma il legato pontificio, Giuliano Cesarini, e il re di Polonia, Ladislao III, perirono in battaglia. Il ruolo di «capro espiatorio» su cui riversare le responsabilità della sconfitta toccò proprio a Vlad II di Valacchia, il quale, in virtú dei patti intercorsi col sultano e a causa della cattività dei figli, si guardò bene dal partecipare alla crociata, limitandosi a inviare un reggimento di 4000 soldati. Ritenuto alleato inaffidabile e pericoloso, fu considerato nemico da Hunyadi che, nel 1447, invasa la Valacchia, lo sconfisse e lo uccise presso Bucarest. Nella battaglia morí anche Mircea, fratello di Dracula. I resti di Vlad II e del figlio furono dispersi.

La conquista ottomana dei Balcani

Come un’onda inarrestabile Nata agli inizi del XIV secolo come un piccolo emirato nella parte nord-occidentale dell’Asia Minore – la Bitinia – con capitale Brussa, la giovane compagine turca, retta dalla stirpe degli Osmanli (da cui il nome «Ottomani») conquistò, nell’arco di un secolo, la totale supremazia sulla penisola anatolica – che fu ribattezzata Turchia –, avviando una veloce espansione militare in direzione dell’Europa balcanica, dai Turchi detta Rumelia (da cui l’attuale «Romania»), ovvero terra dei Rum, dei «Romani». Nel 1354, il sultano Orkhan,

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conquistatore di Nicea e Nicomedia, occupò Gallipoli (odierna Gelibolu), sullo stretto dei Dardanelli, mentre il suo successore, Murad I, riuscí a impossessarsi di Filippopoli (1362) e di Adrianopoli, in Tracia (1363). Ad Adrianopoli (attuale Edirne), fu trasferita la capitale dell’emirato ottomano, mentre, tra il 1394 e il 1402, la stessa Costantinopoli fu sottoposta a un durissimo assedio da parte del sultano Bayazid I, che non riuscí a impossessarsi della capitale imperiale a causa dell’avanzata delle orde

turco-mongole di Tamerlano in Asia Minore. Nel 1430, Murad II prese Tessalonica (odierna Salonicco), nel 1453 il sultano Maometto II al Fatih, «il Conquistatore», riuscí a prendere Costantinopoli, mentre l’imperatore, Costantino XI Dragazes, combattendo in difesa della città, moriva sugli spalti delle mura. Da quel preciso momento l’avanzata ottomana nei Balcani fu inarrestabile: nel 1456 fu febbraio

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occupata Atene e, l’anno successivo, fu completata la conquista della Serbia (con l’eccezione di Belgrado), profittando della morte del despota Giorgio Brankovic. Nel 1463, fu la volta della Bosnia il cui bano (governatore di provincia), Stefano III Tomaševic, venne messo a morte dal sultano, mentre nel 1470 fu completata la conquista dell’Albania, priva della

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formidabile guida del suo re, Giorgio Castriota, campione della resistenza antiturca. Alla fine del XV secolo, anche i principati di Valacchia e Moldavia furono ridotti a «Stati vassalli», tributari del sultano, Bayazid II, che completò l’opera intrapresa dal padre con la presa di Negroponte (attuale Eubea), nel 1470, e con quella di Corone e Modone, nel Peloponneso (1499).

La conquista di Costantinopoli da parte delle truppe di Maometto II, nel 1453, in una tempera su tavola di Panagiotis Zografos, pseudonimo scelto dal generale greco Ioannis Makriyannis (1797-1864), per una serie di dipinti di soggetto bellico da lui realizzati. 1836.

Alla fine del Quattrocento, il dominio politico delle potenze cristiane nei Balcani poteva dirsi concluso.

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In alto Targoviste. I resti del palazzo di Dracula. Nella pagina accanto acquaforte di scuola tedesca raffigurante Vlad Tepes che assiste all’impalamento di numerosi condannati seduto al proprio tavolo, mentre mangia e beve vino. XV sec.

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La morte di Vlad II indusse il sultano a liberare subito i due figli del voivoda e a inviarli in Valacchia, riconoscendoli come principi. Vlad III fu dunque principe di Valacchia e non di Transilvania – come erroneamente si crede sulla base del romanzo di Stoker –, perché questa regione, nel XV secolo, era sottoposta interamente alla sovranità ungherese, eccetto i distretti di Amlas e Fagaras. Vlad III e Radu giunsero in Va-

lacchia solo nell’ottobre del 1448, profittando di una nuova sconfitta subita dai crociati a Kosovo Polje, in Serbia, e riuscirono a conservare il trono per soli due mesi. Gli Ungheresi cacciarono i due fratelli dal Paese e insediarono sul trono Vladislao II (o Ladislao), un principe di origine moldava, che dava maggiori garanzie di affidabilità. Mentre Radu faceva ritorno in Turchia, Vlad III fuggí nel confinante

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Dossier

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Nella pagina accanto illustrazione realizzata per la prima edizione del Dracula di Bram Stoker, raffigurante Lucy Westenra che, morsa dal protagonista, è condannata a trasformarsi in vampiro. In basso la copertina di un’edizione del 1901 del Dracula di Bram Stoker.

principato di Moldavia, trovando ospitalità nella capitale Suceava, presso il voivoda e zio Bogdan (1447-1452). Vlad rimase in Moldavia fino al 1456, quando, con l’aiuto del nuovo principe, Stefano cel Mare († 1504), «il Grande», non riuscí a rioccupare la Valacchia e a riconquistare il trono, dopo aver sconfitto e ucciso in battaglia Vladislao.

la come nuova capitale del principato e sede della Curtea Domneasca, il complesso palaziale del voivoda e della corte, che Dracula fece ampliare e a cui fece aggiungere la possente Torre Chindia. In politica interna Dracula cercò di eliminare con ogni mezzo tutti i possibili avversari, in primo luogo i boiardi, cioè l’aristocrazia

I Turchi sul Bosforo

Tutto ciò avveniva mentre la situazione politica nei Balcani era incandescente e Costantinopoli, la capitale dell’impero bizantino, era stata occupata dai Turchi (1453). Il nuovo sultano, Maometto II, aveva cominciato ad annettere gran parte del territorio serbo, eccetto Belgrado, strenuamente difesa dal reggente ungherese Giovanni Hunyadi, che, tuttavia, pagò con la vita il suo coraggio. Morto Hunyadi, suo figlio, Mattia Corvino, nuovo re d’Ungheria, ritenne piú prudente abbandonare Ladislao al suo destino e favorire Vlad III, che riconobbe come principe. Iniziava, cosí, la seconda fase del regno di Vlad III, il quale, da allora, fu meglio noto come «Dracula», «figlio del Drago» (o «del Diavolo»). Il governo di Vlad III (14561462) lasciò un segno indelebile nella memoria dei Valacchi e nella storia del Paese, ancora oggi percepibile per chi visiti, in Romania, i luoghi in cui si ritiene essere vissuto il voivoda, tra cui è da ricordare Targoviste, la città scelta da Dracu-

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sa ortodossa valacca fece corpo con l’aristocrazia nella difesa dei suoi privilegi. Avversari tenaci del principe furono anche le numerose comunità di minatori e commercianti tedeschi – designati, genericamente, come «Sassoni» – stanziate nella Transilvania, soprattutto nelle città di Brasov e Sibiu. Queste ultime, pur essendo sottoposte alla sovranità ungherese, furono saccheggiate e i loro abitanti massacrati. Dracula abbandonò la politica del padre, favorevole ai mercanti e speculatori di origine germanica, di cui aveva favorito lo stanziamento anche in molte aree della Valacchia, attraverso la concessione di molti privilegi fiscali e commerciali. Con i Tedeschi, accusati di essere infidi speculatori e affaristi senza scrupoli, oppressori dei Valacchi, Vlad fu spietato: per le esecuzioni dispose il ricorso a metodi particolarmente efferati, tra cui l’impalamento – una pratica mutuata dalle popolazioni turco-mongole delle steppe asiatiche –, che lo rese tristemente famoso e gli procurò il soprannome di Tepes, cioè «Impalatore».

Sete di vendetta

valacca, ma anche il clero ortodosso. Mentre con i boiardi fu sempre spietato, alienandosi definitivamente la loro simpatia, con il clero, soprattutto quello monastico, l’atteggiamento del voivoda fu sempre ispirato a un sano realismo politico. Vlad beneficò diocesi e monasteri – si pensi ai cenobi di Strahov e Comana – e ricorse alle maniere forti solo quando la Chie-

In politica estera, Vlad fu implacabilmente ostile ai Turchi, rifiutando ogni compromesso, a differenza del nonno e del padre, e, molto probabilmente, questa fanatica ostilità fu dettata dalla terribile esperienza personale della prigionia a Egrigoz piú che dalla fede religiosa. Nel 1462, l’ennesima provocazione del voivoda – che fece inchiodare i turbanti alle teste degli ambasciatori ottomani venuti a riscuotere il tributo – fu causa di una nuova guerra. Circa 100 000 uomini – ma la cifra

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Dossier è probabilmente esagerata – al comando del sultano Maometto II, invasero il Paese, costringendo Vlad a darsi alla macchia. Con il sultano era anche il fratello del voivoda, Radu, che i Turchi intendevano imporre sul trono valacco. Privo dell’aiuto degli Ungheresi e dei Moldavi che non avevano accettato le sue proposte di alleanza, e costretto anche a fronteggiare un’invasione moldava ai confini orientali del regno, a Dracula non rimase altro che fuggire, trovando rifugio a Brasov sotto la protezione di Mattia Corvino, il quale, per tutta risposta, lo fece arrestare e deportare a Visegrad, residenza invernale dei re ungheresi sul Danubio. L’arresto fu motivato con l’accusa di tradimento, mossa a causa di probabili intese col nemico basate su prove artefatte, cioè su una corrispondenza volutamente falsificata intercorsa tra il voivoda e il sultano. Mentre gli Ottomani insediavano Radu il Bello come voivoda di Valacchia, Dracula fu messo agli arresti e visse da prigioniero fino al 1475.

Il secondo matrimonio

Si trattò comunque di una «prigionia dorata», degna di un principe cristiano del suo rango e che, alla fine, gli fruttò anche un nuovo matrimonio politicamente vantaggioso. Vlad III, infatti, contrasse nuove nozze con una nipote del Corvino, molto probabilmente Ilona Szilagyi. Le nuove nozze furono rese possibili dalla morte della prima moglie di Vlad, suicidatasi durante la guerra contro i Turchi per non cadere prigioniera. Inoltre, perché potessero essere celebrate le nozze, a causa dell’impedimento della disparitas cultus, Vlad dovette abiurare al credo ortodosso e convertirsi al cattolicesimo, suscitando lo scalpore del clero valacco. Finalmente, nel 1475, il re Mattia Corvino decise di aiutare Dracula a riconquistare la Valacchia. L’inaf-

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Qui accanto Targoviste. Monumento in onore di Vlad Tepes. L’Impalatore salí al potere, dopo varie vicissitudini, all’indomani della morte del padre, Vlad Dracul, e resse le sorti della Valacchia dal 1456 al 1462.

fidabile Radu, alleato dei Turchi, era morto in battaglia contro i Moldavi nel 1473 e il Paese era governato dal boiardo Basarab Laiota, anch’egli sottomesso agli Ottomani. Con l’aiuto dei Moldavi, il re d’Ungheria riuscí a insediare a Targoviste il suo protetto senza riuscire a eliminare Basarab, che continuò a imperversare con l’aiuto dei Turchi. Nel 1476, un anno dopo il suo ritorno sul trono, Vlad III fu ucciso in battaglia contro i Turchi presso Targoviste. L’esatta dinamica

alla ricerca dell’ultima dimora

Dove riposano le spoglie del Vampiro? L’associazione di Dracula alle credenze relative al vampirismo, cioè ai «morti non morti», è dipesa anche dall’alone di mistero che, già nel XV secolo, cominciò ad aleggiare intorno alla sorte subita dai suoi resti mortali. Alcune tradizioni romene vorrebbero il voivoda sepolto nel diruto monastero di Snagov, edificato per volontà dello stesso principe in Romania, sull’omonimo lago, altre in quello di Comana, andato distrutto nel 1589 a causa di un terremoto. Nel 1932, una missione archeologica guidata dall’archeologo Dinu Rosetti e dallo storico George Florescu rinvenne, al di sotto di una lapide anonima collocata all’interno della chiesa monastica, vicino alla porta, la sepoltura di un uomo vestito con un lussuoso abito di seta gialla ornata di argento, i cui resti, avvolti in un drappo di seta color porpora, si polverizzarono a contatto con l’aria nel momento in cui la tomba fu aperta. Per lunghissimo tempo la tomba fu ritenuta quella di Vlad Tepes finché, nel 2014, una studentessa universitaria, che stava lavorando alla sua tesi di laurea, non ritenne di aver individuato la sepoltura di Dracula a Napoli, nella chiesa di S. Maria la Nova (XIII secolo), e, precisamente, nella cappella funeraria della nobile famiglia napoletana dei Ferrillo, conti di Acerenza. Tuttavia, quest’ipotesi non appare suffragata da prove certe, ma da semplici e molto labili indizi. Si è creduto di individuare la tomba del Tepes nella cappella dei Ferrillo sulla base del fatto che sulla lastra tombale è presente la raffigurazione di un Drago, simbolo dell’ordine cavalleresco di cui faceva parte il padre di Dracula, dimenticando che il drago è un simbolo, anche araldico, molto diffuso in tutto il Medioevo. Sulla lastra tombale, inoltre, sono raffigurate due sfingi a rappresentare la città egizia di Tebe, il cui nome, in egizio, è Tepes, con ovvia assonanza all’epiteto del voivoda valacco. febbraio

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A destra Napoli, S. Maria la Nova. La tomba della famiglia Ferrillo, al cui interno, secondo una recente ipotesi, riposerebbero anche le spoglie di Vlad Tepes, portate nella città partenopea da una sua presunta figlia, Maria Balsa.

Tuttavia, poiché risulta arduo collegare il Tepes-Impalatore e la cultura egizia, almeno nel XV secolo, si è tentato di trovare una spiegazione plausibile agli indizi, associando il tutto al matrimonio tra il conte di Acerenza, Giacomo Alfonso Ferrillo, e la principessa Maria Balsa («la Baltica»), che, in esilio dai Balcani per sfuggire all’avanzata ottomana, giunse a Napoli nel 1480. Si è cosí pensato di individuare in Maria – di cui si ignorano le origini – una figlia di Dracula, mai attestata dalle fonti, che per evitare la profanazione della salma del padre da parte dei Turchi o dei boiardi, l’avrebbe traslata a Napoli, tumulandola nel sepolcro di famiglia del coniuge, in S. Maria la Nova. Congetture che non hanno risolto il mistero delle spoglie di Vlad…

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L’ipotesi che i resti di Vlad Tepes siano stati portati a Napoli appare tanto suggestiva, quanto poco plausibile 89


Dossier Il vampirismo

Labbra che grondano di sangue... Chi è realmente il vampir? Secondo le tradizioni popolari il vampiro è un revenant, «morto non morto», un individuo che, a causa della nefasta influenza maligna, è morto solo apparentemente e si nutre del sangue di umani, trasformati a loro volta in vampiri con il morso. Nelle tradizioni folcloriche, i vampiri potevano assumere l’aspetto di animali e fecondare donne che avrebbero partorito creature simili a loro. La vista della luce poteva risultare mortale, perciò agivano, di preferenza, nelle ore notturne. La tradizione contemplava l’uso di vari elementi apotropaici per neutralizzare l’azione di queste creature mostruose, come le esalazioni dell’aglio, l’ostensione della croce dei fatti non è nota – le fonti sono contraddittorie –, ma sembra che il voivoda fosse stato ucciso in combattimento proprio dai suoi uomini, che non lo avevano riconosciuto a causa del suo travestimento «alla turca», adottato per non essere individuato dal nemico. Un’altra versione vuole che a ucciderlo fosse stato lo stesso usurpatore Basarab Laiota. La testa di Vlad, staccata dal corpo e issata su una picca, fu portata al sultano ed esposta al popolo di Costantinopoli, mentre il corpo fu probabilmente sepolto nel monastero di Snagov. Morto Vlad III, la Valacchia attraversò un periodo di sanguinose lotte civili fino al 1482, quando salí al potere il fratellastro di Dracula, Vlad IV Calugarul, il Monaco, ormai diventato tributario del sultano. Allo stato attuale delle conoscenze, la stirpe di Dracula si estinse nel XVII secolo.

La «leggenda nera»

Ambientato nella Romania ottocentesca e nell’Inghilterra vittoriana, il romanzo dello scrittore irlandese Bram Stoker (1847-1912), non fece altro che condensare, in maniera artisticamente elaborata e in un’opera unica, tutte le nefan-

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Locandina dell’edizione francese del film di Terence Fisher Dracula il Vampiro (Horror of Dracula). 1958.

dezze – vere o presunte – che una lunghissima tradizione letteraria, risalente al XV secolo, aveva elaborato e diffuso sul conto del principe di Valacchia. Occorre tuttavia considerare che la grottesca immagine di Dracula-Vlad trasmessaci dalla tradizione romanzata è totalmente falsa, sia per quanto attiene ai dati propriamente storici – il morto redivivo, nutrito dal sangue umano –, sia per quel che riguarda l’aspetto stesso del personaggio: capelli impomatati, frac, epidermide bianchissima, denti aguzzi e unghie lunghissime. L’aspetto di Vlad Tepes, trasmesso dalle coeve fonti letterarie – nota è la descrizione tramandata dal legato pontificio Niccolò di Modrussa († 1480) – e da alcuni ritratti, poste-

riori al XV secolo, era ben diverso da quello del romanzo: fisico robusto, collo taurino, lunghi baffi spioventi sulla bocca e capelli lunghi sulle spalle. Inoltre il Vlad storico non ebbe mai una particolare predilezione per i pipistrelli – note creature ematofaghe –, la cui associazione al vampirismo deriva dalle catalogazioni zoologiche del naturalista George Buffon (†1788), il quale attribuí la denominazione di «vampiro» a una particolare specie di pipistrelli. Bram Stoker, inoltre, fu il primo ad associare il voivoda valacco ai vampiri, cioè ai «morti redivivi» ben conosciuti dalle tradizioni legfebbraio

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e dell’ostia, la celebrazione della messa, l’aspersione di acqua benedetta e incenso, e, per finire, il ben noto palo piantato nel cuore, eventualmente accompagnato dal taglio della testa e dalla combustione del corpo, in modo da dare al vampiro la definitiva «seconda morte». Lo stesso Stoker, nello scrivere il romanzo, attinse al patrimonio folclorico romeno, grazie all’amicizia e alla consulenza di un noto professore di orientalistica dell’Università di Budapest, Hermann Weinberger, che lo spinse ad approfondire i suoi studi sul voivoda valacco e sulle leggende romene relative ai vampiri. Ovviamente non è possibile affermare se Vlad III fosse affetto da vampirismo patologico, cioè dalla sindrome di Renfield (dal nome del servitore di Dracula, nel romanzo di Stoker), caratterizzata

dall’ossessione-compulsione – accertabile con diagnosi psichiatrica – che lo spingeva a nutrirsi di sangue animale e umano, proprio o di altri. Tale patologia ha molto probabilmente origine da traumi infantili psicologicamente non elaborati dal malato con l’età adulta, ed è spesso accompagnata anche da particolari patologie sessuali, poiché, nei casi accertati, l’ematofagia è spesso associata anche a eccitazione erotica. Nel vampirismo, il sangue è percepito come fonte di vitalità ed energia, pertanto il suo consumo produce sensazioni di potenza e di benessere in chi se ne nutre. Accanto al vampirismo patologico, l’antropologia ha potuto riscontrare, presso varie civiltà, molte forme di «vampirismo culturale», fondate su particolari credenze – scientificamente infondate – connesse ai benefici derivanti dall’assunzione alimentare di sangue. Klaus Kinski in una scena di Nosferatu, il principe della notte, di Werner Herzog. 1979.

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Dossier Dracula oggi

Un fascino inossidabile In Romania, oggi, l’immagine di Dracula sopravvive innanzitutto nelle tradizioni folcloriche, mantenute vive dal proliferare dell’associazionismo privato, che mira a conservare e perpetuare la memoria del voivoda valacco, soprattutto per alimentare l’ininterrotto flusso turistico e le conseguenti positive ricadute sul sistema economico romeno. Si pensi ai Dracula Tour, che contemplano visite guidate ad

gendarie precristiane di numerose culture, anche extraeuropee. Tali leggende sono particolarmente diffuse nei Paesi balcanici e, in genere, tra le popolazioni di etnia e cultura slava e lo stesso termine «vampiro» – divenuto oggi di uso comune per indicare chi si nutre di sangue umano o animale – è di origine slava, com’è dimostrato dal sostantivo vampir, utilizzato nelle lingue serba e bulgara. In croato, la creatura ematofaga è indicata come upir, in russo, ucraino e bielorusso come upyr, in romeno nosferat (vedi box alle pp. 90-91).

Saghe e ballate

La «leggenda nera» di Dracula cominciò a formarsi già nel Quattrocento, attraverso la pubblicazione, in territorio tedesco, di alcune «storie» sul voivoda di Valacchia che ne narravano la crudeltà ed esaltavano il sadismo. La prima sembra essere stata pubblicata nel 1463, a Vienna, dal tipografo Ulrich Han, con titolo Storia del voivoda Dracula. Queste vere e proprie «saghe» – che non parlano

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In alto la presunta tomba di Vlad Tepes nella chiesa del monastero di Snagov, località situata sull’omonimo lago, 35 km a nord di Bucarest. Agli inizi degli anni Trenta del Novecento, il sito venne indagato archeologicamente e gli autori delle ricerche sostennero di avere ritrovato il corpo di un uomo riccamente abbigliato, che si sarebbe dissolto in pochi istanti, dopo essere venuto a contatto con l’aria.

affatto del vampiro e dell’abitudine del principe di bere il sangue, ma descrivono altre crudeltà – sembrano essersi costruite sulla base delle testimonianze – vere o presunte – di commercianti e minatori tedeschi costretti a fuggire dalla Valacchia per sottrarsi alle persecuzioni organizzate dal voivoda. Alle «saghe» in prosa si aggiunsero presto le «ballate» che contribuirono a diffondere tra il popolo la fama di crudeltà del voivoda. Tra esse è da menzionare Su un tiranno chiamato Dracula, voivoda di Valacchia, del poeta tedesco Michael Beheim († 1474), attivo alla corte d’Ungheria, sotto re Ladislao V Postumo e febbraio

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alcuni dei luoghi piú significativi della vita del voivoda, tra i quali figurano la città natale Sighisoara, la capitale Targoviste, il castello di Piatra Craiului e le rovine della fortezza di Curtea de Arges, dove la leggenda vuole che, gettandosi da una torre, si uccise la moglie di Vlad, per sfuggire ai Turchi. A Hunedoara, nella Transilvania romena, sorge il castello della famiglia Hunyadi, dove ogni anno, dal 1° al 3 maggio, si svolge il Dracula Festival, che si propone di

valorizzare la storia di Vlad Tepes, in collaborazione con il Ministero del Turismo e importanti enti culturali, tra cui quali la Transylvanian Society of Dracula, fondata nel 1991 a Bucarest, che annovera tra i soci anche molti docenti universitari, e si propone di promuovere studi e ricerche su Vlad III e la Valacchia del suo tempo, anche al fine di rimarcare l’antitesi tra l’immagine romanzata del voivoda offerta dal romanzo di Stoker e quella storicamente autentica. La società promuove convegni internazionali e pubblica il Transylvanian Journal: Dracula and Vampir Studies. Non mancano, in tutto il Paese, anche ristoranti e alberghi che esibiscono

insegne draculiane dipinte con vernice rosso-sangue, e offrono agli avventori rigorosi menu «alla Dracula», caratterizzati da abbondante vino rosso, pietanze rigorosamente senz’aglio, bistecche al sangue condite con abbondante paprika e dolcetti a forma di vampiro o di bara! Nonostante l’attivismo di associazioni ed enti scientifici, non è andato finora in porto il progetto milionario promosso dal Ministero del Turismo romeno nel 2001, che prevedeva la fondazione del parco giochi di Draculandia – da realizzarsi sull’esempio di Disneyland – e che sarebbe dovuto sorgere a Sighisoara, città natale di Vlad Tepes. Veduta notturna del castello di Bran, nei pressi di Brasov, una delle tappe obbligate dei Dracula Tour.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

presso la corte dell’imperatore Federico III d’Asburgo. La prima e piú importante fonte slava contemporanea agli eventi, utile a conoscere l’azione e la personalità di Vlad Tepes, fu la biografia redatta dall’ambasciatore russo in Valacchia, Fedor Kuricyn († 1501 circa), e intitolata Detto sul voivoda Dracula. Pur non ignorando le atrocità del principe, Fedor ne esaltava il senso di giustizia, la lungimiranza politica e la saggezza, facendone quasi un esempio politico per il suo signore, lo zar Ivan III, al quale intendeva offrire una sorta di «vademecum del buono zar». Contemporanea agli eventi e infarcita di giudizi negativi su Dracula è anche l’opera storica di pa-

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pa Pio II Piccolomini (1458-1464) – Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt –, che si avvalse, come fonti, dei rapporti diplomatici che la Santa Sede, attraverso i suoi legati in Valacchia, riceveva sul conto del voivoda.

La rilettura ottocentesca

Nei secoli successivi al XV, l’immagine di Dracula scomparve progressivamente dagli scritti storici e non suscitò grande interesse. Si dovettero attendere l’Ottocento e i fermenti nazionalisti e identitari di quell’epoca, perché la figura di Vlad III fosse «riscoperta» ed esaltata come quella di un grande statista, soprattutto dalla storiografia patriottica romena.

Il primo a procedere in tal senso fu lo storico ungherese Johann Christian von Engel (1770-1814), esperto di storia dei Paesi balcanici e autore della monumentale Storia dell’Ungheria e dei paesi confinanti, pubblicata nel 1804 a Halle. La figura di Dracula, allora, divenne un «riferimento politico forte» per l’identità nazionale romena oppressa dal dominio ottomano, costituendo una delle basi ideologiche su cui fu edificata la Romania indipendente dopo l’unificazione dei principati moldavo e valacco in un unico Stato (1859). Ancora oggi, la figura di Dracula costituisce una componente importante dell’identità nazionale della Romania postcomunifebbraio

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Qui sotto veduta del complesso monastico di Snagov, nella cui chiesa, secondo una tradizione che non ha

trovato alcun riscontro certo, si troverebbe la tomba di Vlad Tepes (vedi foto a p. 92).

ducator e la moglie furono fucilati proprio a Targoviste – la capitale scelta da Dracula – e non mancò chi giurò di aver rivisto la coppia viva, proprio come i vampiri... Nel 2010, l’esumazione e l’analisi delle salme dei coniugi Ceausescu, hanno fugato ogni dubbio in merito all’effettiva morte del dittatore e della moglie. V

A sinistra Targoviste. La chiesa della Curtea Domneasca, prima residenza ufficiale di Vlad Tepes e della sua corte.

sta, proprio come le figure di Attila, per gli Ungheresi, o di Gengis Khan, per i Mongoli, anche se è stata progressivamente «depurata» dagli eccessi nazionalistici del recente passato. È noto come il dittatore romeno Nicolae Ceausescu si sforzasse di offrire all’opinione pubblica un’immagine il piú possibile «positiva» del principe valacco – che intendeva, sotto molti aspetti, emulare – tanto da proibire la traduzione in romeno e la conseguente pubblicazione in Romania del romanzo di Stoker. Nel dicembre 1989, al momento del crollo del regime e per una strana ironia del destino, il Con-

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Da leggere

Qui sopra un esempio della ricca produzione di souvenir ispirati alle gesta di Vlad Tepes e del suo alter ego letterario, il conte Dracula creato da Bram Stoker.

Vito Bianchi, Dracula. Una storia vera, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011 Tommaso Braccini, Prima di Dracula, Archeologia del Vampiro, Il Mulino, Bologna 2011 Giuseppe Ivan Lantos, Dracula. Storia e leggenda di un incubo, Il Cairo, Milano 2016 Matei Cazacu, Dracula. La vera storia di Vlad III l’Impalatore, Mondadori, Milano 2006 Bram Stoker, Dracula, Mondadori, Milano 2005

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La Gerusalemme di Giuseppe M. Della Fina

replicata Nel corso del Medioevo, a quanti volevano rendere omaggio al Santo Sepolcro, ma non potevano affrontare il lungo pellegrinaggio fino ai luoghi della Passione, vennero offerte alternative efficaci e meno rischiose: città grandi e piccole, infatti, si dotarono di strutture che imitavano il celebre monumento. La piú antica delle quali si può ammirare nella cripta della cattedrale di Acquapendente, nell’Alto Lazio

L’

Italia «minore» sa sempre sorprendere: ad Acquapendente, per esempio (Comune dell’Alto Lazio arroccato in una pittoresca posizione su uno sperone che domina la valle del fiume Paglia), si trova la copia piú antica del Santo Sepolcro di Gerusalemme. La si può ammirare nella cripta della Cattedrale della città, che è stata sede vescovile sino al 1986, quando venne accorpata con quella di Viterbo. La presenza del monumento si spiega con la devozione locale verso il Santo Sepolcro sin dal X secolo e con la posizione del centro lungo la via Francigena, di cui rappresentava un luogo di passaggio e di sosta importante. Proviamo a cominciare dalle Croniche di Acquapendente. Descrittione della Terra di Acquapendente con la sua

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Acquapendente (Viterbo). Un’immagine della cripta della Cattedrale del Santo Sepolcro. XI sec. La struttura si articola in nove navate, sorrette da 22 colonne, coronate da ricchi capitelli.

antiquità, nobiltà, governo, usanze et altre cose, un’opera scritta da Pietro Paolo Biondi nel 1588 e rimasta manoscritta, nella quale viene indicata l’occasione che avrebbe portato alla costruzione della chiesa del Santo Sepolcro. Innanzitutto, l’autore ricorda che sul luogo si sarebbe in precedenza trovato un tempio romano, distrutto dalla «regina Amatilda de Scotia», che «lo ridusse a chiesa d’Iddio benedetto». Nel racconto, la sovrana, intenzionata a far costruire una chiesa «in forma del Santo Sepolcro di Nostro Signor Giesú Cristo», stava andando, «con molti muli carichi febbraio

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d’oro», verso Roma, percorrendo la via Francigena. La narrazione prosegue affermando che «nel passare che ferno, detti muli, avante a detto tempio in detta Terra d’Acquapendente (…) si fermorno et non fu possibile farli passare avanti, anzi, alle volte s’inginocchiavano».

La visione di Amatilda

La regina decise allora di fermarsi e di alloggiare ad Acquapendente e, nella notte seguente, le «venne in visione» che dovesse «guastare quel tempio profano e ridurlo in forma della chiesa che ella voleva far fare, et cosí fece». Amatilda volle fare di piú: «Nella chiesa abbasso vi fece anco fare una cappelletta sotteranea, in similitudine del sipolcro di Nostro Signor Giesú Christo in Ierusalem». Pietro Paolo Biondi aggiunge che venne realizzata seguendo

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il modello con precisione: «Alcuni che vi sono stati et hanno vista, questa dicono essere». Il racconto leggendario è stato messo in dubbio ed è stato osservato giustamente come Matilde degli Scozzesi (e anche la piú nota Matilde di Canossa) siano vissute dopo l’anno di costruzione della chiesa: il monastero del Santo Sepolcro di Acquapendente è citato infatti in una Bolla papale del 1025. Si potrebbe – in via d’ipotesi – immaginare una localizzazione diversa del monastero e della relativa chiesa e un loro trasferimento a seguito dell’iniziativa di «Amatilda», ma sembra poco probabile. L’aneddoto stesso degli animali che non vogliono procedere oltre, è un topos letterario che ricorre spesso nelle narrazioni leggendarie. Mordechay Lewy, che ha studiato a lungo il

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medioevo nascosto lazio SR320 SS73 0

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Sulle due pagine mappa a volo d’uccello di Acquapendente. 1663. Amsterdam, Nederlands Scheepvaartmuseum. La cornice di colore rosso indica la posizione della cattedrale del Santo Sepolcro.

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Roma

sacello, ha escluso anche l’identificazione di «Amatilda» con altre due possibili Matilde, rispettivamente madre di Ottone I il Grande (Matilde di Ringelheim) e sorella di Ottone II (Matilda, priora di Quedlinburg). Entrambe di origine tedesca – vissute nel X secolo –, le due donne risultano coerenti cronologicamente con la fondazione, ma non sembrano essere state impegnate in iniziative simili in Italia.

Sulla strada per Roma

La tradizione leggendaria trasmessa dall’erudito aquesiano è comunque di grande interesse. Innanzitutto, per il legame che unisce la costruzione della chiesa alla via Francigena e ai pellegrini che la percorrevano: «Amatilda» è una di loro. Una regina, una privilegiata, ma pur sempre una donna devota che si era messa in cammino verso Roma. L’altra è la segnalazione che la spinta per raggiungere Gerusalemme veniva proprio dalla venerazione per il Santo Sepolcro, o, almeno, che essa figurava tra i motivi principali. Un pellegrinaggio desiderato ardentemente e, allo stesso tempo, difficile e talora impossibile da realizzare, che rappresentò la motivazione decisiva per la costruzione di modelli del Santo Sepolcro nella Penisola e in altre regioni dell’Europa. In tal caso le ricostruzioni del Santo Sepolcro potevano rappresentare anch’esse

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Presenze illustri

Morto un papa... L’importanza di Acquapendente, posta lungo una delle strade principali che portavano a Roma, è testimoniata bene da due episodi di età napoleonica: il 13 febbraio 1802 la salma di papa Pio VI, internato da Napoleone Bonaparte e morto in Francia nel 1799, venne fatta passare per la città e sostare nella Cattedrale, dove furono tenute esequie e suffragi in suo onore. Il 3 novembre 1804 vi pernottò invece papa Pio VII, in viaggio verso Parigi per incoronare lo stesso Napoleone, imperatore dei Francesi. In quell’occasione il pontefice concesse ai canonici della Cattedrale aquesiana l’uso della cappa magna. febbraio

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medioevo nascosto lazio una mèta da raggiungere: luoghi di un pellegrinaggio piú alla portata di tutti. Di questi, proprio quello di Acquapendente sarebbe il piú antico tra quelli conservati. La sua costruzione è stata attribuita di recente da Mordechay Lewy a un personaggio maschile, che riconosce nel conte Ugo di Toscana, attivo alla fine del X secolo e molto impegnato nel sostenere i monaci che si trovavano a Gerusalemme e quelli che si prendevano cura dei pellegrini durante il loro viaggio anche in terre lontane geograficamente, seppure non idealmente, dalla Città Santa. Va tenuto presente che tutto questo accadeva prima dell’inizio delle crociate e che evidentemente non erano andati perduti i contatti tra la Terra Santa, con i suoi luoghi piú simbolici per i cristiani, e l’Occidente europeo. L’antichità dell’esemplare aquesiano sembra assicurata dalla forma del modello a cui s’ispira e che riflette una fase costruttiva del Santo Sepolcro molto antica e precedente ai rifacimenti attestati in epoche successive. Si può confrontare addirittura con la descrizione

Sulle due pagine un’altra veduta della cripta di Acquapendente, con, al centro, il sacello che replica il Santo Sepolcro di Gerusalemme. In basso La chiesa del Santo Sepolcro, Gerusalemme, incisione tratta dalle vedute della Palestina di Luigi Mayer. XIX sec. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

verso il santo sepolcro

Una soluzione meno rischiosa Memorie architettoniche del Santo Sepolcro sono attestate sia in Italia, sia nel resto d’Europa. Lo storico Franco Cardini ritiene che si siano diffuse tra il IX e il X secolo, in una fase in cui era divenuto difficile raggiungere Gerusalemme per un cristiano. Esse rappresentavano mète intermedie, raggiungibili piú facilmente del viaggio verso la Città Santa. Alla loro diffusione contribuirono, in particolare, gli Ordini monastici militari e gli Agostiniani.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Testimonianze

Quella «grandissima frequentazione di genti»... L’antica devozione popolare per la chiesa del Santo Sepolcro è testimoniata bene da Pietro Paolo Biondi nell’opera Croniche di Acquapendente. Descrittione della Terra di Acquapendente con la sua antiquità, nobiltà, governo, usanze et altre cose (1588): «Anticamente si trova che in detta chiesa erano grandi indulgenze a visitarla e farci oratione nelli giorni di quadragesima, del advento et in molti altri tempi et dopo vesparo del giovedí Santo; et la notte et poi tutto il giorno seguente del venerdí Santo, era grandissima frequentazione di genti, sí della terra, come di forastieri circunvicini, che si stava tutta la notte con molta devotione; et al presente ancora vi si concorre».

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che ne fece il monaco inglese Willibald, in visita a Gerusalemme nel 725: «La tomba era stata scavata nella roccia, e la roccia si leva dal terreno: alla base è quadrata, ma la sua estremità è a punta; è oggi sormontata da una croce». Inserito nella cripta della Cattedrale, il sacello di Acquapendente presenta una copertura a forma di piramide: si tratta probabilmente dell’unico esempio conservato in Europa (e, sicuramente, in Italia) d’imitazione del Santo Sepolcro in una fase cosí remota. Altre repliche europee imitano la situazione attestata in tempi successivi, quando su di esso erano stati fatti già interventi per monumentalizzarlo. Può essere interessante ripercorrere le vicende a noi note della chiesa aquesiana che accoglie, nella sua cripta, la copia del Santo Sepolcro. Sappiamo – come si è visto – che in una Bolla pontificia risalente al 1025 viene ricordata per la prima volta la sua esistenza e che essa probabilmente, in una veste rinnovata, venne consacrata da papa Eugenio III nel 1149, mentre, contemporaneamente, il vescovo di Orvieto, Aldofebbraio

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Sulle due pagine ancora un’immagine della «selva» di colonne che caratterizza la cripta della Cattedrale di Acquapendente. A destra frammento marmoreo che, secondo la tradizione, proverrebbe dalla Fortezza Antonia di Gerusalemme e sarebbe stato portato ad Acquapendente dall’abate Guarino.

brandino, ne consacrava l’altare presente nella cripta. Va segnalato che era stato lo stesso Eugenio III a bandire la seconda crociata, predicata da san Bernardo di Chiaravalle, e che proprio nel 1149 si era avuta la consapevolezza del suo sostanziale fallimento.

Dai Benedettini agli Agostiniani

Nel 1251 è documentato che la chiesa aveva assunto il titolo di basilica; nel 1262, in un Breve di papa Urbano IV, si attesta che nell’abbazia aquesiana si professava la Regola di san Benedetto, ma veniva consentito ai monaci, che non avevano fatto ancora la solenne professione secondo la Regola benedettina, di poter passare all’Ordine dei Canonici Regolari del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Quindi il monastero passò dai Benedettini ai Canonici Regolari agostiniani. Nel 1326 i Canonici regolari di Gerusalemme, profughi dalla Terra Santa, vennero invitati a insediarsi nella chiesa aquesiana del Santo Sepolcro: il legame ideale con Gerusalemme divenne quindi piú stretto.

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Nel 1649, dopo la conclusione della guerra di Castro, papa Innocenzo X trasferí la soppressa sede episcopale di Castro ad Acquapendente ed elevò la basilica del Santo Sepolcro a Cattedrale nominando Pompeo Mignucci di Offida, dell’Ordine gerosolimitano, primo vescovo della nuova diocesi. Presero avvio allora alcuni interventi edilizi sulla chiesa, che dovevano conformarla al nuovo ruolo assunto. Negli anni Quaranta del Settecento si dette avvio a un completo rinnovamento dell’edificio e della sua facciata per ovviare a qualche problema conservativo che si era nel frattempo presentato e uniformarlo ai nuovi dettami dell’architettura e della liturgia. Nel giugno del 1944 la Cattedrale subí danni notevoli per via della deflagrazione di un convoglio tedesco carico di munizioni colpito da un bombardamento aereo proprio mentre si trovava nel piazzale antistante; nel 1950 i lavori di ricostruzione ebbero termine e, nella giornata del 4 giugno, la Cattedrale venne riaperta al culto con una solenne cerimonia.

Per saperne di piú Antonio Agostini, Le chiese di Acquapendente, La Commerciale, Acquapendente 1987 Renzo Chiovelli (a cura di), Il sacello della Cattedrale di Acquapendente. Tra Canterbury e Roma la copia piú antica del Santo Sepolcro, Comune di Acquapendente 2014

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Storie, uomini e sapori

La signora in viola


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a melanzana è una pianta erbacea originaria del subcontinente indiano, probabilmente tra Birmania e Laos dove ancora è possibile reperirne le varietà selvatiche, peraltro molto diverse da quelle che consumiamo abitualmente. Documenti in sanscrito risalenti al IV secolo a.C. menzionano questa pianta in vario modo, suggerendone la notevole popolarità sia come cibo che come medicina: shakasresta (frutto eccellente), rajakushmand (melone reale), nilphala (frutto blu), kantapatrika (pianta spinosa), nidralu (sinonimo di narcotico, ipnotico); nel III secolo a.C. viene citata anche con il nome di vatiga-gama (arbusto che sogna il vento), dando adito a ipotesi di un suo utilizzo in ambito cultuale piú che alimentare. La melanzana fu presto adottata nel Sud della Cina, come si evince dall’Atlante delle piante, scritto durante la dinastia Jin (265-316 d.C.), e dal Qimin Yaoshu, un trattato agronomico del V secolo. Piú tardi, alcuni autori iniziano a esprimere dubbi in merito all’innocuità del frutto, ritenendolo responsabile di problemi all’apparato digestivo e riproduttivo, ma suggerendolo nel contempo come rimedio per gli ascessi, le emorragie intestinali e le nevralgie.

Varietà e proprietà Dalla Cina, la melanzana raggiunse nel VII secolo la Persia, dove fu menzionata dallo scienziato Al-Razi (865-930), il quale ne distingueva quattro varietà: le egiziane con frutto bianco e fiore azzurro-viola, le siriache di colore viola intenso, le persiane dalla buccia nera e sottile e le cordobesi (della città di Cordoba) di colore marrone scuro In alto il fiore della melanzana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una scena di corteggiamento ambientata in un campo di melanzane, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

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e peduncolo tenace. Da parte sua, il grande medico, matematico e filosofo Abu Ibn Sina (Avicenna, 980-1037) sottolineava come il consumo di melanzane manifestasse conseguenze negative sulla pelle, gli occhi, sul sangue e sul fegato; effetti che potevano essere evitati solo consumando frutti maturi e ben cotti, dopo averne cosparso la polpa di sale e averli lasciati in acqua per un certo tempo. Sconosciute nel mondo greco e romano, le melanzane colonizzarono la Persia, l’Africa Orientale e il Mediterraneo in seguito all’espansione musulmana. In sanscrito-persiano vennero chiamati bazingän e in amarico bâdenjân, da cui gli Arabi, che conquistarono la Persia nel VII secolo, derivarono badhimjan, che alle loro orecchie suonava piú o meno come «uovo del diavolo». Nonostante il nome, la coltivarono con affetto e dedizione e la diffusero lungo tutto il loro cammino di conquista, dall’Anatolia all’Egitto, fino ad al-Andalus (Spagna), dove la pianta mise solide radici già nell’VIII secolo, conquistando il favore delle popolazioni locali e anche quello dei poeti, come l’arabo-ispanico Ibn Sara de Santarem che dedica alla melanzana questi versi: «È un frutto rotondo, di gusto gradevole / e cresce bagnato di acqua abbondante in tutti i giardini. / Ha pelle sottile e sta sospeso per il picciolo, / come un cuore di agnello tra gli artigli di un avvoltoio». Dopo la Spagna fu la volta della Sicilia, in cui i berberi – al comando di capi arabi e persiani – sbarcarono il 18 giugno del 827. Consci del potenziale agricolo dell’isola, gli agronomi arabi perfezionarono i sistemi d’irrigazione e introdussero nuove colture, dando impulso alla coltivazione del grano duro – con cui produssero la prima pasta

secca –, piantando gli agrumi, il riso, il carciofo, il mandorlo, lo zafferano, la canna da zucchero, le pesche, l’uva sultanina e, ovviamente, la prediletta melanzana. Nelle città presero vita grandi mercati e dai porti di Palermo, Marsala e Siracusa partivano battelli carichi di alimenti destinati a tutto l’Islam, ma anche ai territori longobardi e bizantini del Sud Italia. L’occupazione islamica terminò nel 1091 con la perdita della città di Noto a opera dei Normanni, ma oltre due secoli di pacifica convivenza tra Arabi e cristiani lasciarono quei profondi segni che ancora oggi costituiscono gran parte dell’identità siciliana e che si riflettono nella cultura, nell’artigianato, nei costumi, nella lingua e nella gastronomia.

Una presenza ricorrente I trattati di botanica, i manuali di medicina e numerosi scritti letterari compilati nel mondo arabo-islamico tra il IX e il XIII secolo, citano la melanzana con assiduità. Dal XII secolo le melanzane sono anche menzionate o illustrate nei documenti medievali europei. Il vescovo, filosofo e scienziato tedesco sant’Alberto Magno ne parla nel De Vegetalibus, mentre la prima immagine italiana emerge nel De Herbis, attribuito al senese

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CALEIDO SCOPIO Bartholomaeus Mini de Senis, scritto intorno al 1330, ma ritenuto copia di un codice piú antico di un secolo. Melanzane compaiono in alcune miniature che decorano manoscritti di poco successivi, come l’esemplare del Theatrum Sanitatis (1380) alla Biblioteca Casanatense di Roma, in cui è ritratto un campo di piante adulte cariche di frutti globosi e violacei. Nel Manuel des vertus, végétaux, animaux (1480), ad accompagnare la descrizione delle virtú umorali della melangiana campeggia l’immagine di due piante ornamentali portanti l’una frutti bianchi, l’altra striati.

cristiani di Spagna e di Sicilia. In effetti, un frutto di colore viola – lo stesso della tossica belladonna, dei semi di stramonio, dei fiori di mandragora ma anche della quaresima e del lutto – aveva scarse possibilità di riscuotere successo sulle tavole nobiliari rinascimentali. La tossicità della melanzana, nota già ai botanici arabi, è dovuta alla presenza nel frutto e soprattutto nelle foglie di un alcaloide che la pianta produce per difendersi dagli insetti, la solanina. Assieme alla nicotina (che dà il gusto amaro alla melanzana), il contenuto di solanina

Una madre severa... Particolarmente curiosa è una tavola del Tacuinum Sanitatis (XV secolo), oggi presso la Biblioteca Nazionale di Vienna (vedi l’immagine a p. 104), dove un campo di opulente melanzane viola fa da sfondo a una scena di corteggiamento tra due amanti; alla destra della fanciulla, una donna piú anziana (probabilmente la madre) le trattiene la veste con il piede per scongiurare gli approcci del ragazzo: un chiaro riferimento alle presunte qualità afrodisiache della melanzana. Fin qui delle melanzane come ingrediente di cucina non si fa quasi menzione nei ricettari europei e, quando se ne parla, lo si fa in senso diffamatorio. Bartolomeo Scappi la chiama «Mela Insana» o «Pomo Sdegnoso», la considera cibo «vile et pernicioso», ma cede alla tentazione di tramandarci la ricetta di una «torta di molignane» cotte nel burro e «tramezate di fette di provatura o di cascio et pangratato». Molti autori la definiscono «frutto della pazzia» oppure spregiativamente «pomo degli ebrei»; la si accusa addirittura di essere stata l’arma con cui gli Arabi avrebbero voluto sterminare i

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decresce con la maturazione e sparisce con la cottura. Le limitate conoscenze scientifiche dell’epoca penalizzarono per secoli non solo la melanzana ma anche le altre solanacee arrivate in Europa dopo la scoperta delle Americhe: il pomodoro, la patata e i peperoni. Fatto sta che, fra i tanti, Leonhart Fuchs (1501-1566), celebre botanico svizzero descrisse per la prima volta in maniera precisa e concisa la melanzana, aggiungendo: «Il suo nome dovrebbe terrorizzare chiunque si

I frutti della melanzana, una presenza ormai costante sulle nostre tavole. preoccupi della sua salute». Nel 1544, il naturalista suo contemporaneo Pietro Andrea Mattioli definí la petonciana (italianizzazione dell’arabo badingian) una pianta plebea, notando che il volgo la consumava «mangiandola volgarmente fritta nell’olio con sale e pepe come i fonghi».

Cibo del popolino Nonostante il Trattato della coltura degli orti e dei giardini dell’agronomo toscano Pier Vettorio Soderini (1526-1596) avesse già fatto riferimento a svariati sistemi per cuocere le melanzane, nel 1638 il lucchese Antonio Frugoli, nel trattato Pratica e scalcaria, descrive ancora con disprezzo l’ortaggio associandolo al popolino, ai villani, ai poveri e agli infedeli, in quanto le melanzane «non devono essere mangiate se non da gente bassa o da ebrei». In effetti, gli Ebrei sefarditi – esuli dalla Spagna dopo il 1492 – la cucinavano in un’infinità di modi e in particolare fritta e marinata nell’aceto: in Spagna, Portogallo e Italia con l’aggiunta facoltativa di aglio e rosmarino, nei Balcani con ripieno di carne macinata, riso e spezie. Fu fatale che il disprezzo per l’ebraismo nella cattolicissima Europa si riflettesse anche su un cibo per loro prezioso. E tale rimane la loro fama ancora nell’Ottocento, almeno fino a quando Pellegrino Artusi, contrariato dalla difficoltà a reperire le petonciane e i finocchi sui mercati locali, non può trattenersi dall’affermare che gli Ebrei «in questo, come in altre cose di maggior rilievo hanno sempre avuto buon naso piú de’ cristiani». Sergio G. Grasso febbraio

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All’insegna della storia LIBRI • Corredato da un apparato iconografico ricco e

variegato, un volume a piú mani ripercorre le vicende dei Comuni marchigiani, scegliendo come filo conduttore gli stemmi che li identificavano. Una ricerca appassionante, che va ben oltre l’analisi delle caratteristiche araldiche

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ome i cognomi sono stati inventati per riconoscere gli uomini, cosí anche le insegne araldiche (…) a chiunque è lecito portare delle insegne». Cosí scriveva, intorno alla metà del Trecento, un grande giurista umbro-marchigiano, Bartolo di Sassoferrato, nel primo trattato di araldica del Medioevo, il De insigniis et armis. A distanza di 650 anni, gli studi di araldica in Italia sono a un bivio. Da un lato, ci sono gli amatori che non vanno oltre i puri elenchi di immagini: raccolte simili ad album di figurine, magari munite di descrizioni tecnicamente valide, ma senza profondità storica e critica. Su un altro versante, c’è la ricerca di chi «non si accontenta», ma investe nella complessità. L’araldica è un sistema di segni con regole

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proprie, uscito molto presto dall’ambito militare in cui era nato: gli scudi, arme o stemmi che dir si voglia, identificarono dai secoli XII-XIII famiglie e comunità, nella quotidianità concreta, con grande elasticità e seguendo varie trasformazioni nel tempo.

Una ricerca paziente Per comprendere questo sistema, occorre cercarne pazientemente le testimonianze visive, sia nelle singole località, sia in archivi, biblioteche, musei, e analizzarle con l’aiuto delle discipline storiche. Il risultato, per chi non riesce ad andare oltre l’album di figurine, sembrerà dispersivo. Per lo storico, sarà una chiave per capire la società dell’epoca. Per il cittadino curioso,

Le Marche sugli scudi Atlante storico degli stemmi comunali a cura di Mario Carassai; testi di Antonio Conti, Vieri Favini, Alessandro Savorelli; disegni di Massimo Ghirardi Andrea Livi Editore, Fermo, 246 pp., ill. col. e b/n 40,00 euro ISBN 88-7969-353-0 www.andrealivieditore.it Ancona, Loggia dei Mercanti. Il cavaliere, simbolo della città, scolpito da Giorgio da Sebenico nel XV sec. sarà una porta d’accesso importante all’identità del proprio Paese. Le Marche sugli scudi parla agli uni e agli altri, con un testo comprensibile e ricco di illustrazioni. Dietro al volume sta la scelta intelligente di un’amministrazione regionale, che ha affidato lo studio a un gruppo di studiosi qualificati, con competenze diverse e conoscenza del territorio. Mario Carassai, grafico editoriale, curatore del volume, illustra nella premessa (Segni di

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CALEIDO SCOPIO A sinistra san Giuliano l’Ospitaliere, patrono di Macerata, particolare del trittico di Allegretto Nuzi raffigurante la Madonna con Bambino e santi. 1369. Macerata, cattedrale di S. Giuliano. In basso Ascoli Piceno. Lo stemma cittadino scolpito sul coronamento di Porta Cartara.

Marca) il senso del progetto. L’Introduzione storica, a firma di Vieri Favini e di chi scrive, approfondisce le caratteristiche maturate dalla simbologia comunale delle Marche in otto secoli. Scopriamo cosí che sono numerose le figure «parlanti», che richiamano, come in una sorta di rebus, il nome del luogo: molte sono le località il cui nome inizia (o iniziava) per «Monte», e cosí i monti popolano il 70 % degli scudi.

I santi protettori Altre figure richiamano l’identità religiosa dei Comuni, identificati nel loro santo protettore con un fenomeno tipico dell’Europa medievale. Una variante è data dai santi che non compaiono negli

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scudi, ma sono ritratti mentre tengono il vessillo cittadino, in opere d’arte «ufficiali», commissionate dalla comunità. Abbondano anche i segni politici, per esempio quelli di sudditanza nei confronti di un signore o di una città dominante. Tra questi è il «capo d’Angiò», che sta a significare l’adesione alla politica «guelfa», capeggiata tra Due e Trecento dagli Angioini; oppure le chiavi di Pietro, insegna papale che le Costituzioni egidiane del 1357 prescrivevano di inserire nei sigilli comunali. Segue l’Atlante storico degli stemmi comunali, curato da Favini e dallo scrivente con Antonio Conti, ricercatore indipendente formatosi a Urbino. Il testo è illustrato dai disegni di Massimo Ghirardi, grafico specializzato in araldica civica. I 236 Comuni schedati sono ripartiti in base alle circoscrizioni storiche: il ducato di Pesaro e Urbino, il Montefeltro e la Massa Trabaria, Fano, Ancona, Jesi con i loro distretti, le città della Marca, le «terre» autonome di medie e piccole dimensioni, gli Stati di Camerino e di Fermo, Ascoli. Questa impostazione permette di cogliere le insegne nel loro contesto politico. Ogni scheda riporta sintetiche notizie storiche sul Comune, per indicarne l’importanza o il grado di

autonomia, e le varie testimonianze grafiche (sculture, pitture, sigilli, incisioni…), offrendo tutti i riferimenti necessari a documenti d’archivio e pubblicazioni precedenti. L’apparato illustrativo è vario, a maggior ragione in un territorio ricchissimo dal punto di vista artistico. I disegni nitidi e colorati di Ghirardi diventano cosí un elemento unificante, oltre a testimoniare l’aspetto attuale (non sempre felice) dello stemma comunale. Né sono state dimenticate – nell’Appendice – le insegne dei Comuni soppressi tra la fine del Settecento e il Novecento.

Il cardinale guerriero La posta in gioco non era semplice. La regione, geograficamente molto varia, era storicamente frammentaria. Ciò che tenne insieme questo territorio sino alla fine del Settecento, non fu un nome geografico. Fu la dominazione papale, che fino al Cinquecento era però lontana e debole; e il concreto assetto che le diede nel 1357 il suo rappresentante, il cardinale guerriero Egidio di Albornoz, con le Costituzioni Egidiane. Le Costituzioni regolavano i rapporti tra il sovrano (il papa) e le comunità, alle quali era riconosciuta una certa autonomia. Si ufficializzò cosí una rete capillare di comunità piccole (i castelli), medie (le terre, o quasi-città), città vere e proprie (le civitates, sedi vescovili). Quasi tutte si riconobbero in diversi segni collettivi: gli edifici del potere, come i palazzi comunali; i santi patroni, con i loro rispettivi simboli; i gonfaloni; i sigilli con cui convalidare gli atti; gli scudi araldici, ossia gli stemmi. In Le Marche sugli scudi, il lettore scoprirà che tutti questi segni non erano isolati, ma in continuo collegamento tra loro. E quando osserverà lo stemma del suo Comune, anziché liquidarlo con il solito «è sempre stato cosí», si chiederà se e come quello stemma rispecchi una storia. Alessandro Savorelli febbraio

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Rossella Rinaldi (a cura di) Nella città operosa Artigiani e credito a Bologna fra Duecento e Quattrocento il Mulino, Bologna,

320 pp., ill. b/n

25,00 euro ISBN 978-88-15-26591-3 www.mulino.it

Attraverso una documentazione prevalentemente inedita, il volume analizza i nuovi poli di mercato sorti o ampliatisi a Bologna tra Duecento e Quattrocento, una realtà particolarmente vitale per artigiani e piccoli imprenditori di ogni tipo, che sapevano unire le proprie competenze alla capacità di investire proficuamente il denaro, facendolo fruttare nei modi e negli ambiti piú disparati. La crescita economica che nel XIII secolo aveva interessato le città di ogni parte d’Europa determinò anche a Bologna un forte aumento demografico, caratterizzato soprattutto da studenti e mercanti: forti consumatori, i primi, in grado di creare un notevole

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incremento produttivo delle merci piú varie, aumentando al tempo stesso i flussi di liquidità nelle botteghe e nelle strutture ricettive. Il libro è diviso in due parti: la prima contenente i quadri generali dello sviluppo economico bolognese fra il XIII e il XV secolo; la seconda prende in esame le attività produttive della città dal punto di vista della circolazione del denaro e delle dinamiche del mercato urbano. Vengono

cosí analizzate le dinamiche lavorative, finanziarie e patrimoniali, nonché le relazioni col potere politico e con i vertici corporativi, di falegnami, sarti, calzolai, pellicciai, fornai, orefici, setaioli, di cui si mettono in evidenza,

in particolare, il rapporto con il credito e i meccanismi di finanziamento. Chi maneggiava denaro, in ambito privato e informale, apparteneva infatti di solito al mondo artigiano: poteva trattarsi di istituzioni corporative che gestivano beni immobili e liquidità; oppure di imprenditori facoltosi, che investivano nell’erogazione di prestiti i guadagni ottenuti con la loro attività; oppure ancora di piccoli artigiani, che ricorrevano al credito per l’acquisto di materie prime e utensili, o per necessità domestiche; o infine di lavoratori dipendenti che si indebitavano per sopravvivere. La circolazione del denaro allo scopo di promuovere altra ricchezza rappresenta appunto il tema su cui si articola il volume. Il saggio finale analizza la topografia del credito a Bologna e nel contado e un ricco apparato di fonti e bibliografia completa l’opera. Maria Paola Zanoboni

George Minois Il prete e il medico Fra religione, scienza e coscienza

Edizioni Dedalo, Bari, 338 pp. 27,00 euro

ISBN 978-88-220-0578-6 www.edizionidedalo.it

Il tema affrontato da Georges Minois in questo volume risulta di particolare interesse, poiché il rapporto con la malattia e, di conseguenza, con i suoi possibili rimedi, caratterizza la storia dell’uomo fin da epoche assai remote. Come si intuisce dal titolo scelto per il saggio, la possibilità di sopravvivere a infortuni o malanni fu a lungo considerata un’eventualità sulla quale poco o nulla poteva influire l’intervento umano, attribuendone invece il merito a interventi superiori, veicolati

da sciamani o ministri del culto. Tuttavia, già in ambito greco e romano, cominciò a prendere corpo un approccio piú scientifico, che, nel corso del Medioevo, fece registrare un ulteriore e sensibile balzo in avanti. Scetticismo e diffidenza continuarono a caratterizzare l’atteggiamento di molti pazienti, ma la professione medica andò strutturandosi in forme sempre piú stabili e socialmente riconosciute. L’autore ripercorre dunque questo lungo e articolato percorso, spingendo la sua disamina anche al di là dell’età di Mezzo, per arrestarsi alle soglie dell’età contemporanea. Lo scritto si legge con piacere e la ricchezza delle informazioni fornite è tale da definire un quadro davvero esauriente. Stefano Mammini Elmoldo di Bosau Cronaca degli Slavi Edizione del testo latino con traduzione a fronte apparati e note a cura di

Piero Bugiani, Liguori Editore, Napoli, 492 pp.

39,00 euro ISBN 978-88-207-6404-3 www.liguori.it

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Come scrive Piero Bugiani nella lunga Introduzione al testo vero e proprio (presentato nella sua versione originale in lingua latina con traduzione italiana a fronte), nell’accingersi alla redazione della Cronaca degli Slavi, Elmoldo di Bosau non intendeva «scrivere la storia degli Slavi», ma ambiva invece a «narrare l’avanzamento dell’evangelizzazione tra i pagani, le varie fasi della loro conversione (…), nonché la gloria dei missionari». La Cronaca nasceva dunque con una connotazione ben precisa, nonostante la quale, tuttavia, costituisce un documento di estrema importanza anche al di là degli aspetti strettamente religiosi. Le vicende raccontate da Elmoldo, infatti, si dipanano in un momento storico cruciale per i destini dell’Europa, caratterizzato com’è dall’avvento del potere carolingio. Nelle

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pagine introduttive, l’autore si sofferma anche sulla fortuna letteraria della Cronaca degli Slavi e sul dibattito relativo all’attendibilità delle notizie in essa riportate, che la critica moderna è incline a considerare in ampia misura veritiere. S. M. Chiara Guarnieri La villa e la pieve Storia e trasformazioni di S. Giovanni in Ottavo di Brisighella tra l’età romana e il Medioevo Ante Quem, Bologna, 160 pp., ill. col. e b/n

24,00 euro ISBN 978-88-7849-112-0 www.antequem.it

epoca romana, lungo l’VIII miglio della via che andava da Florentia a Faventia: un palinsesto ricco e articolato, quindi, al quale si potrebbe dire abbia «nuociuto» l’attenzione che gli è stata a piú riprese riservata in passato. Fin dal XVII secolo, infatti, la Pieve è stata oggetto di studi e ricerche, ai quali non ha tuttavia corrisposto un’altrettanto efficace azione di tutela. Le nuove iniziative e questo volume pongono rimedio a tale situazione e permettono finalmente di conoscere il monumento in maniera approfondita, ricostruendone la lunga vicenda storica e archeologica. S. M.

videro nella benigna protezione assicurata dalla Madonna, alla quale si erano votati, una delle chiavi del successo e, anche grazie a

Niccolò di Giovanni La sconfitta di Monte Aperto edizione critica a cura di

Il volume nasce sulla scia degli interventi di salvaguardia e valorizzazione che hanno interessato la Pieve di S. Giovanni in Ottavo di Brisighella (Ravenna), piú nota come Pieve del Thò. Si tratta di un complesso di notevole interesse, sorto sui resti di una villa di

Alice Cavinato, Accademia Senese degli Intronati, Siena, 184 pp., ill. col.

25,00 euro ISBN 978-88-89073-23-0 www.accademiaintronati.it

Il 4 settembre 1260, a Montaperti, Siena colse una storica vittoria contro Firenze, il cui esito ebbe effetti decisivi sulle vicende che in quegli anni opponevano guelfi e ghibellini. I Senesi

questa coloritura soprannaturale, i fatti di Montaperti si radicarono stabilmente nella memoria collettiva.

Non deve quindi sorprendere che, quasi duecento anni piú tardi, Giovanni di Francesco di Ventura, pizzicaiuolo (venditore di cera, carta e colori), avesse scritto una cronaca della battaglia, in questa edizione critica di Alice Cavinato. Il manoscritto, oggi conservato nella Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, si compone di fogli manoscritti illustrati da vignette realizzate dall’autore stesso, ed è integralmente riprodotto nel volume, accompagnato da un’ampia e interessante esegesi. S. M.

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Dalla Spagna dei califfi MUSICA • Al tempo in cui Granada veniva chiamata

la «Damasco andalusa», la straordinaria fioritura delle arti e delle lettere abbracciò anche la produzione musicale. Una stagione felice, di cui possiamo cogliere gli echi nel nuovo progetto discografico di Jordi Savall

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edicato alla cultura musicale di Granada, il nuovo progetto di Jordi Savall – protagonista d’eccellenza nell’ambito della discografia antica – si sofferma sugli aspetti a lui piú cari: la cultura andalusa, sefardita e cristiana medievali. Un panorama alquanto diversificato che troviamo nella penisola iberica e in particolare nella città di Granada, un simbolo straordinario, con la reggia dell’Alhambra, della cultura andalusa. Ricca è la tradizione musicale dell’Andalusia, dove, già prima dell’anno Mille – all’indomani della romanizzazione della penisola iberica –, si era stabilita la liturgia visigoto-mozarabica, nella quale ritornano molte influenze bizantine, frutto dei numerosi scambi e relazioni con Bisanzio.

Granada 1013-1502 Waed Bouhassoun, Lior Elmaleh, Driss El Maloumi Hespèrion XXI Capella Reial de Catalunya Direttore: Jordi Savall AliaVox, AVSA 9915, 1 CD www.alia-vox.com

Conquiste e riconquiste Dopo il periodo «romano», si intensificano le dominazioni d’oltremare. Il «regno» di Granada viene fondato nell’XI secolo, dal berbero Zawi ibn Ziri, la cui dinastia dura sino al 1090, quando la città venne occupata dagli Almoravidi berberi e successivamente, nel 1157, dagli Almohadi. Riconquistata

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dalla coalizione cristiana nel 1212, Granada torna a soccombere nel 1238 con Muhammad inb Nasr al-Ahmar, primo sultano della dinastia nasride, che stabilí un patto di non aggressione con il re di Castiglia Ferdinando III: si creano dunque le basi per un periodo di tranquillità e di grande

sviluppo culturale. Ciononostante, la pressione castigliana finí con l’avere la meglio, con la definitiva conquista da parte di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona che – il 2 gennaio del 1492 – mettono fine al regno della «Damasco andalusa», come veniva chiamata la città di Granada per via della sua ricchezza e bellezza. Le tre culture che convivono nel regno di Granada nell’ambito cronologico coperto dall’antologia – araba, ebraica, cristiana – fanno da leit motiv alle varie sezioni in cui si organizza il repertorio proposto da Savall. Le musiche ebraiche e sefardite sono tratte da antichi repertori orali dell’XI secolo, di cui febbraio

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Granada. Una veduta dell’Alhambra, il complesso palaziale edificato dagli emiri nasridi nel XIV sec. sul sito di una precedente fortezza.

l’antologia offre alcuni splendidi esempi. Alla cultura mozarabica ci riconducono gli ascolti dedicati alla musica cristiana tratti dal Codice de las Huelgas e dalle Cantigas de Santa Maria, come anche dal Cancionero musical de Palacio. Il repertorio andaluso è rappresentato da innumerevoli generi vocali e strumentali tramandati oralmente anche al di fuori dell’Andalusia, ovvero da quei luoghi – Siria, Nord Africa e Medio Oriente – in cui molta popolazione andalusa si riversò in seguito alla reconquista culminata nel 1492 con la fine del regno di Granada. Molti degli interpreti del repertorio andaluso sono di provenienza siriana, marocchina, turca, greca e

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israeliana, eredi di una prassi e una cultura musicale millenarie, che ci riconducono a quelle andaluse. Il talento di Savall non manca mai di colpire nel segno con programmi affascinanti, che rievocano la cultura musicale legata a un luogo, o a personaggi ed eventi storici di particolare rilevanza.

Prestiti e reciproche influenze A fare da sfondo geografico a questi progetti sono spesso Paesi lambiti dal Mediterraneo, un mare che ha veicolato popoli e culture e favorito un intenso processo di scambi, prestiti e reciproche influenze che ritroviamo nell’espressione musicale. L’eccezionale competenza del

maestro catalano si unisce, in questo disco, alla magnifica interpretazione dei suoi due storici gruppi, Hespèrion XXI e la Capella Reial de Catalunya, ai quali si aggiungono, per i repertori ebraici e andalusi, cantanti di varia provenienza, come Lior Elmaleh, Driss El Maloumi e Waed Bouhassoum. Nell’organico strumentale sono rappresentati sia il mondo occidentale (salterio, arpa, viella da mano, rebab, viella, viola da gamba, cornetto, trombetta, e percussioni), sia l’arabo (oud, ney, duduk, kanun, percussioni), che si alternano e/o si mescolano in un dialogo che esalta le peculiarità della cultura musicale andalusa. Franco Bruni

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