La golosa

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settembre 2011 € 3,00

Poste Italiane Spa Spedizione in abbonamento postale D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art.1 comma 1, LO/MI Roserio.

ghost town non incolpate quella frana roscigno vecchia, in provincia di salerno, era destinata a essere la pompei del novecento.

ma né la pioggia di fondi europei, nè i cugini d’america sono bastati a salvarla. così il simbolo di un’italia fragile canta il suo requiem.

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scrittori nel cassetto | a cura di | scuola holden | www.scuolaholden.it

Pizzette, burro e salatini. L’amore di Federica per il cibo si scontra con l’incubo della madre: avere una figlia grassa.

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osa

| racconto | federica bosi | illustrazione | serena micieli

Mi chiamo Federica,

grassa ho quindici anni e sono

Mia mamma è preoccupata, dice che dobbiamo fare qualcosa, che non è possibile che due persone magre ne facciano una grassa. (Me). Dice che lei non è mai stata grassa, che quando si è sposata pesava quarantatré chili; era alta un metro e 60 e mangiava il pane, la pasta e tutto il resto. Dice che è una questione di metabolismo, dice, che a forza di mangiare schifezze mi sono rovinata lo stomaco e adesso non dimagrisco più. Un giorno mi ha portata dal medico, mia mamma. Che poi non era proprio un medico. “Andiamo dalla dietologa” mi ha detto quando è venuta a prendermi a scuola. “Oggi non mangiamo” ha aggiunto. Ma lei un panino, dal benzinaio, se lo è mangiato. L’ho vista io. Quando è andata a pagare il pieno, si è nascosta dietro l’espositore dell’arbre magique, ha ingoiato il carboidrato ripieno senza masticare. Anche la dottoressa ha detto che sono grassa, troppo grassa. Mi ha mostrato un depliant con sopra disegnata una tabella. “Tu sei qui” mi ha detto indicando la zona rossa, “e dovresti essere qui”. Dovrei essere nella zona verde e invece sono in quella rossa. Ma io nella zona rossa non ci sto male, riesco a mangiare un bauletto del Mulino Bianco tutto in una volta. Parto dalla fetta con la crosta e mangio quelle che vengono dopo, in ordine, quando arrivo all’altra crosta vuol dire che sto per finire. Ci vuole metodo.

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Federica Bosi

Serena Micieli

Nata a Cuneo 25 anni fa, cerca di costruire mobili di legno, imparare i nomi delle piante, fare la raccolta differenziata e scrivere. Vorrebbe correre con Murakami, conoscere Zadie Smith e aver girato il mondo con Kapu´scinski. ´

Nata nella primavera del 1985 a Brescia, ora vive in uno di quegli alti condomini di Milano dove gli inquilini non si conoscono. Vorrebbe vivere in una fattoria per insegnare a parlare agli animali. Per adesso, li disegna soltanto. I miei compagni mi chiamano focamonaca, così, tutto attaccato. “Focamonaca, passami la cartella”, “Focamonaca, sei così grassa che mi occupi il posto”, mi dicono. Anche il professore di educazione fisica mi chiama così, si avvicina e mi dice nell’orecchio: “Focamonaca, alza quelle gambe”. Io ci provo ad alzarle, ma gli ostacoli sono troppo alti e non li riesco a saltare. Tutti vogliono che dimagrisca, anche mio padre. Da piccola mi portava alle feste di pensionamento dei suoi colleghi, mio padre lavora in banca e i suoi colleghi vanno sempre in pensione. Appena arrivati alla festa mio papà mi lasciava la mano, andavo al banchetto del buffet e iniziavo a mangiare. C’erano dei salatini buonissimi a forma di omino, con sopra appiccicati i granelli di sale grosso. Ne pescavo una manciata, poi mi sedevo e li mangiavo con calma mentre mio padre parlava con i colleghi. Avevo le gambe corte e dondolavo i piedi avanti e indietro colpendo con i talloni il fondo della sedia, a ogni sforbiciata mangiavo un omino. Finiti quelli, passavo alle patatine di mais gialle e tonde e alle San Carlo e a quelle rigate e alle focaccine con l’oliva verde sopra e alle pizzette, che erano le mie preferite. Potevo mangiarne dieci o venti una dopo l’altra, senza stare male. Quando sono cresciuta mio padre non mi ha più portato alle feste, mamma mi ha detto che qualcuno si è lamentato, dicevano che mangio troppo. Non m’importa se sono grassa, voglio bene alla mia pancia. Quando sto seduta scivola sulle cosce e arriva fino a metà femore. Ogni tanto, quando sono a letto, sollevo la maglia del pigiama e ci affondo il palmo della mano: sembra pasta per fare il pane. Non so perché tutti vogliano essere magri, a me le persone magre non piacciono. C’è una ragazza alla mia scuola che è troppo magra: “È anoressica” mi ha detto Silvia, una mia compagna. Mi ha detto che si chiama Veronica e che mangia un cetriolo a mezzo-

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| scrittori nel cassetto

giorno, e basta. Io non so come si possa vivere mangiando un cetriolo al giorno, che poi a me neanche fanno impazzire i cetrioli. Veronica è talmente magra che non si può mettere i jeans, nessuna cintura glieli tiene su, mette solo i fuseaux e pure quelli le stanno larghi. Quando parlano di Veronica le mie compagne si fanno serie e guardano in basso: “Era così bella”, dicono. Ma io mica me la ricordo Veronica prima che diventasse così magra. L’ho raccontato a mia madre, le ho detto che a scuola c’è una ragazza tanto magra che non riesce a mettersi i jeans, lei mi ha risposto che non corro di questi rischi. Da qualche giorno mia mamma ha chiuso a chiave la dispensa. Ha comprato un mobiletto basso, di legno, ha messo dentro tutta la roba da mangiare e poi l’ha chiuso a chiave. È rimasto soltanto un po’ di zucchero, nel barattolo di fianco al tè. Ieri pomeriggio avevo fame, ho preso il burro dal frigo, l’ho tagliato a fettine e ho versato sopra una cucchiaiata di zucchero. Poi avevo ancora fame, ho preso un po’ di farina e l’ho mangiata con lo zucchero che avanzava, metà farina e metà zucchero. Avevo ancora fame, così ho provato a forzare la serratura del mobiletto. Sono andata in bagno per prendere una forcina, di quelle che teniamo nella scatola bianca di Mykonòs, vicino all’asciugacapelli. Quando mi sono avvicinata allo specchio ho visto la faccia sporca di farina e le labbra incrostate di zucchero, ho pensato a Veronica e agli omini ricoperti di sale grosso. Tutto il burro mi è risalito su per la trachea, è arrivato in bocca e l’ho vomitato nel lavandino. Tutto. Sono scoppiata a piangere, piangevo tanto forte che mia mamma mi ha sentita dall’ingresso, quand’è tornata. È corsa in bagno con il cappotto addosso e le borse della spesa ancora in mano. “Cos’è successo?” mi ha chiesto, io non riuscivo a parlare tanto che piangevo. Ha visto il vomito bianco nel lavandino, mi ha abbracciato la testa e ha detto “Finalmente”. Solo questo, e mi ha baciato i capelli.


i ferri del mestiere

la golosa Il titolo “La golosa” non è quello che l’autrice aveva pensato in origine. È un omaggio a Giuseppe Pontiggia, superbo narratore, che tra gli altri scrisse un racconto “Goloso”, di cui questo pare una citazione. Coincidenza che involontariamente dimostra come si possa scrivere di sé mentendo e intercettare altri sé lontani dal proprio. In entrambi i racconti gli autori non solo filtrano la propria esperienza, ma si concentrano su un conflitto interiore (mangiare/non mangiare; vuoto/ pieno) che affligge i protagonisti al punto da diventare l’estremizzazione di un difetto esteriore. La Bosi utilizza la prima persona, come Pontiggia, e ci illude che vi sia una corrispondenza tra autrice e personaggio. Un ottimo modo per allenare l’immaginazione narrativa sia di chi scrive che di chi legge. l a parol a ai maestri

la potenza dell’autoironia di Jerome K. Jerome Qualche riga più su di questa, il protagonista (che poi è l’autore) elenca tutte le malattie possibili e annuisce soddisfatto in una sorta di paradossale: ce l’ho, ce l’ho, mi manca. In attesa di confrontarsi con il proprio medico per dirgli: Caro mio, non starò a rubare il tuo tempo con la narrazione di tutto quello che ho. La vita è breve e, probabilmente, prima che io finissi tu saresti già all’altro mondo. Ma ti dirò quello che non ho. Non ho il ginocchio della lavandaia. Perché proprio non abbia anche il ginocchio della lavandaia non lo capisco, ma il fatto è che non ce l’ho. Però, qualsiasi altra cosa, io ce l’ho. Tre uomini in barca (per non parlar del cane), Feltrinelli, 2003 No, non è Woody Allen. È Jerome K. Jerome, raffinato umorista d’epoca vittoriana dall’ironia straordinariamente attuale. La sua vena comica è virale: sentiamo i medesimi sintomi, ci angustiamo per la nostra ipocondria fino a quando l’autore non ci tranquillizza, poche righe dopo, introducendoci George, il suo migliore amico: “un malato immaginario, credete pure, che non ha proprio niente”. ≈ “Scrittori nel cassetto” è anche una

sezione del nostro sito dove leggere i racconti già pubblicati e trovare i temi dei prossimi mesi. Vi aspettiamo su terre.it!

il lato comico della vita | testo | Alessandra Minervini

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crivere non è uno scherzo. In particolare, scrivere un racconto comico. Il rischio, infatti, è di non far ridere. E questo crea un doppio disagio. Quello di aver passato ore e ore davanti al pc per scrivere mila e mila battute senza nemmeno una risata. Ma anche il disagio, da lettore, di aver investito tempo (e denaro) in un libro che di ironico ha solo la quarta di copertina. La stessa che ha definito il romanzo: “Il più divertente degli ultimi 150 anni.” Così si finisce per liquidare il libro velocemente, convinti che persino noi avremmo fatto di meglio. Sì, perché immaginare di poter fare ridere è più facile che farlo davvero. Ma c’è di mezzo anche il background culturale: avete mai letto un romanzo comico eschimese? Beh, io no. Ma questo non mi autorizza a pensare che non esista o che gli eschimesi abbiano meno senso dell’umorismo di altri popoli (al massimo posso supporlo). In realtà non esiste un testo comico e basta. Il “comico” è un genere letterario meticcio. È una forma di narrazione che restringe la distanza narratore/lettore, rendendoli complici o nemici per sempre. La risata arriva quando non te l’aspetti. Per questo amiamo la comicità crudele di Chuck Palahniuk, l’ironia fulminea di Charles Dickens, lo stile grottesco di Gadda e quello spigliato di Benni. Ecco allora qualche suggerimento: 1 Per far ridere, non bisogna imitare l’umorismo altrui. Sarebbe come raccontare una barzelletta che non si è capita fino in fondo: imbarazzante. 2 L’ironia è una medicina da versare con il contagocce, per evitare effetti collaterali piuttosto fastidiosi, tipo la noia. 3 Attenzione al ritmo narrativo: meglio una stilettata breve e inaspettata, come un fulmine a ciel sereno. 4 Al pari della poesia l’ironia non va spiegata, tanto meno commentata magari dal protagonista “con un sorriso sornione” . 5 Se c’è un mondo dove l’ironia la fa da maestra, è la vita. Fate quindi buon uso della vostre piccole tragedie quotidiane. 6 Create sempre le migliori aspettative nel lettore, e poi sovvertitele peggio che potete. Del resto, ride bene chi ride ultimo. ≈ Raccontare storie è un’arte che si può imparare. Lo dimostra la Scuola Holden di Torino, fondata da Alessandro Baricco nel 1994. Tra gli allievi anche Paolo Giordano, vincitore del Premio Strega 2008.

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