Gli anfibi slacciati di Ernesto Guevara

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andrea  semplici

Gli anfibi slacciati di

Ernesto

Guevara Viaggio in Argentina sulle tracce del Che




Š 2012 Cart’Armata edizioni Srl Terre di mezzo Editore via Calatafimi 10, 20122 Milano Tel. 02-83.24.24.26 e-mail editore@terre.it libri.terre.it Direzione editoriale: Miriam Giovanzana Coordinamento editoriale: Davide Musso Fotografie di Andrea Semplici La fotografia di pagina 122 è di Bruno Zanzottera Stampato nel mese di settembre 2012 Reggiani spa - Brezzo di Bedero (VA)


andrea  semplici

Gli anfibi slacciati di

Ernesto

Guevara Viaggio in Argentina sulle tracce del Che



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quegli anfibi slacciati 15

prove di

nomadismo 59

argentina

tour 90

i mezzi di trasporto del che 92

dimenticare i caraibi

il viaggio mai raccontato di ernesto 95

la maiuscola

america 137

in ricordo di un compagno di viaggio 138

consigli per partire

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Una mattina di estate del 1972 mi affacciai dal ponte di un malandato traghetto. Era l’alba e la costa che si avvicinava era il Nordafrica. Gli scogli di Cartagine, le case bianche di Tunisi. Avevo 19 anni e con l’incoscienza dell’età ce ne stavamo andando verso il Sahara racchiusi, in tre, in una Cinquecento Fiat dal colore rosso. Lo avevamo deciso appena tre giorni prima e per varcare il Mediterraneo eravamo scesi fino a Trapani. I chilometri, allora, non ci spaventavano. Oggi questo stesso viaggio non sarebbe possibile: occorrono visti e, in più, la frontiera terrestre fra Algeria e Marocco è chiusa da anni. Erano altri tempi. Non fanno più auto come la Cinquecento. Con qualche piaggeria, dico a me stesso che la mia vita non sarebbe stata la stessa senza quel viaggio. Certamente furono settimane che decisero molte cose dei miei anni a venire. Sono certo di quanto sto scrivendo? Manca la prova del contrario, ma penso di sì: quel viaggio spostò di un po’ l’asse della mia vita. In quegli anni leggevamo i poeti della beat generation (e i diari del Che) e avremmo detto: “Il viaggio allarga l’area della mente”. In Nordafrica non incontrai Fidel Castro, come invece era accaduto a Ernesto in Messico, ma, ad Algeri, mi ritrovai a passare una serata con un nero americano che mi disse di essere una Pantera Nera in esilio. Ne scrissi in una pagina di un diario che non ho mai più ritrovato.


N

on sono questi i tempi (era del web, delle tecnologie digitali, dei viaggi affrettati) per sostenere che il viaggio è ancora catarsi, metamorfosi o cambiamento. Vorrei crederci, ma, come molti, ho nostalgia di anni più confusi e inesatti. Più lenti. Allora partivamo felicemente senza sapere bene dove stavamo andando. Viaggiavamo a istinto e non eravamo mai connessi con il mondo. Ma, nonostante internet, l’idea del viaggio, ancor oggi, mi provoca emozione, adrenalina, sensazione di lievità. Compone fotogrammi di felicità nella mia mente. Era così anche per Ernesto: dopo gli anni sgangherati di Córdoba, il progetto di un viaggio, del viaggio in se stesso, era, per lui, irresistibile. Non sono sorpreso: per un ventenne argentino viaggiare, negli anni Cinquanta come oggi, fa parte di un Dna nomade. Il viaggio, per loro, è normalità, vita quotidiana. Ma è anche consapevole formazione, scuola del mondo, incontro. Piacere assoluto, frenesia pura e, allo stesso tempo, malinconia profonda. È affollamento e solitudine. Libertà totale e forma sottile di prigionia (non ci libera del desiderio dell’andare). I giovani del Latinoamerica hanno un grande privilegio rispetto ai coetanei che vivono in altri continenti: dalla Patagonia al Río Grande, dalla Fine del Mondo ai confini con i “maledetti” States, si parla la stessa lingua e, in qualche modo, si è fratelli. argentina tour

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Ernesto, però, non si accontenta. Deve stupire. Deve trasformare il suo primo, grande viaggio, un gran tour dell’Argentina, in una microleggenda. Deve avere qualcosa di cui vantarsi con gli amici sedentari. “Mentre voi rimanete qui a preparare queste tre materie, io penso che girerò la provincia di Santa Fe, il nord di Córdoba e la parte orientale di Mendoza.” Questo è l’annuncio-sberleffo, scarno e piccato, con il quale Ernesto mette al corrente i compagni di università che per almeno due mesi lui se ne andrà in giro per il mondo. Ernesto ha il senso del palcoscenico e ventidue anni. Sceglie di partire il primo gennaio del 1950, con sessanta pesos in tasca. Un buon modo di festeggiare il capodanno. Anche Jack Kerouac, in quel periodo, si sta preparando a mettersi in cammino, ma bisognerà aspettare ancora sette anni per leggere il suo On the road. Pagine che El Che non potrà sfogliare subito: quando viene pubblicato, lui è già nelle Sierras cubane. Peter Fonda e Dennis Hopper saliranno sulle moto di Easy Rider ben vent’anni dopo di lui. Ernesto non lo ha mai saputo, ma è stato un pioniere beat. El Che adatta alla sua bicicletta un piccolo motore ausiliario e, con un coraggio da folli, fra l’entusiasmo dei fratelli minori e lo sconforto dei genitori, si dirige, pedalando, verso le strade che conducono al Grande Nord dell’Argentina. Una foto celebre lo ritrae con occhiali scuri, un berretto in testa e una incongrua (data la stagione) giacca di pelle addosso. Attorno alle spalle, come se fosse Ottavio Bottecchia, campione di ciclismo degli anni Venti, ha una gomma di ricambio. Dalla tasca del giaccone sembra spuntare una borraccia. I suoi genitori sono certi che non raggiungerà nemmeno Pilar, grande sobborgo di Buenos Aires. E, invece,

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all’alba è già a San Antonio de Areco, a settanta chilometri dalla capitale, uno dei luoghi simbolo dell’Argentina. Qui lo scrittore Ricardo Güiraldes aveva ambientato la storia di gauchos di Don Segundo Sombra, grande libro della pampa. E ora nessuno può fermare questo gitano solitario. Ernesto comincia a tenere un diario. Il viaggio diventa ben presto una iniziazione: “Mi rendo conto di aver maturato in me qualche cosa che da tempo cresceva nel frastuono cittadino: l’odio per la civiltà, per la ruvida immagine di persone che si muovono come impazzite al ritmo di quel tremendo rumore”. Viaggia con lenta velocità, Ernesto. Arriva a Rosario, prosegue per Córdoba, le città dei suoi anni passati. Niente può arrestare la sua pedalata aggressiva: cade a terra mentre si fa trainare da un camion, temporali furiosi lo ostacolano e provano a impedirgli di proseguire, viene a sapere della morte di un motociclista con cui aveva fraternizzato, ma lui va avanti indomito. Incontra vagabondi, girovaghi, camionisti, contadini. Tiene i suoi conti: quando entra a Córdoba, calcola che ha pedalato per 41 ore e 17 minuti. Si inventa alpinista quando, con sventatezza, cerca di arrampicarsi su una parete a picco delle cascate Chorrillos nelle sue amate Sierras. Ernesto raggiunge l’amico Granado al lebbrosario di San Francisco del Chañar. I due giovani progettano il loro futuro, ma El Che non ha tempo. Non si ferma. Vuole andare a Nord. Imbocca, allora, la strada che attraversa le grandi piane di Salinas Grandes, conosciute come il “Sahara argentino”. Sono “le terre tinte di argento”. Una regione desolata, arida, dai paesaggi biancastri. La bicicletta motorizzata resiste anche al deserto di sale, Ernesto arriva a San Miguel de Tucumán, la città crocevia per chi vuole raggiungere il Grande Nord. argentina tour

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Tucumán passaggio verso Nord Strani i miei ricordi di Tucumán. Ho dormito all’hostal Vasca: doveva aver conosciuto altre glorie questo palazzo cadente, veniva giù a pezzi quando vi ho passato la notte. Sembrava che, là dentro, niente fosse cambiato da decenni. Aveva un’aria intrigante. Questi sono i luoghi dove mi trovo a mio agio. Grandi poltrone sdrucite, la porta della nostra camera fuori dai cardini, una corte con una palma altissima accerchiata da un giardino incolto. La palazzina doveva essere stata progettata da un architetto che amava i labirinti tanti erano i corridoi che si intrecciavano uno all’altro. Era gestito solo da donne, l’hostal. Donne vedove, direi. Dai capelli scuri, basse di statura, dagli abiti dimessi. Ma sul bancone c’erano piccoli dépliant di un gruppo fotografico che portava il nome del Che. Gli affreschi della cattedrale di Tucumán, nella piazza centrale, santificano la storia coloniale dell’Argentina. Un impietoso San Miguel sta tagliando la testa a un diavolo. Il demonio, nero e sconfitto, assomiglia molto a un indigeno. In un altro affresco, gli angeli scacciano i nativi con fulmini e saette. Gli indios scappano e gli spagnoli, protetti dalle loro armature, ringraziano il cielo per la battaglia vinta. Sotto una pioggia fastidiosa cammino fino a una casa bianca di calce. Nell’androne, i soldati si danno il cambio con ingombranti movimenti da marionette. Nell’inverno del 1816, qui, residenza di doña Francisca Bazán de Laguna, ventinove notabili (avvocati, mercanti, militari nazionalisti, preti unitaristi) di undici province argentine e tre boliviane ruppero, con una dichiarazione di indipendenza, ogni legame con

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la monarchia spagnola. In questa casa nacque l’embrione dell’Argentina. Passeggio per il patio della casa. C’è una grande mostra che glorifica Evita Perón. Ho chiesto più volte ai miei amici argentini di spiegarmi che cosa sia stato e cosa sia oggi il peronismo. Ma le mie categorie europee sono rimaste incapaci di comprenderlo. Mentre Ernesto pedalava per l’immensità dell’Argentina, Juan Domingo Perón, portato in trionfo dai descamisados, viveva la prima stagione del suo grande potere. Nel 1946 era stato eletto presidente con il 55% dei voti. Eva Duarte, bellissima stellina della televisione, era la sua musa e la sua compagna. Per gli argentini era già Evita. La maggior parte del paese, ancor oggi, la adora come una divinità. E l’indefinibile peronismo (populista, giustizialista, anticomunista, fascista, rivoluzionario, innovatore, ribelle, di sinistra e anche di destra) è, tutt’oggi, il nervo centrale del sistema politico argentino. Néstor Kirchner, il presidente salito al potere dopo la profonda crisi del 2001, rassicurò il presidente Usa, George Bush spiegandogli: “Non sono né comunista, né anticomunista. Sono peronista”. La famiglia dei Guevara non poteva amare Perón: lo consideravano un tiranno, militarono in un gruppo antiperonista e scrivevano i testi di volantini antigovernativi. La borghesia radicale e intellettuale di Córdoba detestava quel colonnello populista capace di infiammare le piazze dell’Argentina.

La Quebrada de Cafayate Nei pressi di Tucumán El Che incontra un bracciante che va di piantagione in piantagione. Si raccontano le proprie stoargentina tour

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rie. Alla fine l’uomo, come riflettendo sul viaggio di Ernesto, sospira: “Quanta energia sprecata!”. Ernesto scrolla le spalle e ricomincia a pedalare verso nord, verso le valli andine. A gennaio piove da quelle parti: il ciclista motorizzato deve averne presa molta di acqua in questo viaggio avventuroso. Ma i paesaggi si fanno strepitosi. La Quebrada de Cafayate è un lungo canyon scavato dalle acque del Río de las Conchas: le montagne impazziscono di colori, si trasformano in scultura, in arcobaleno. Alla fine El Che scriverà di sentirsi “colmo di bellezza”. Alla sua andatura ha tutto il tempo di godersi le forme che assumono le montagne della Quebrada. Oggi, cartelli turistici annunciano, passo dopo passo, i luoghi più belli e panoramici. Ernesto, grazie alla sua lentezza, avrà sicuramente osservato con curiosità le rocce trasformarsi nel Sapo (il Rospo), nel Fraile (il Frate), e nei Castillos. Spero che abbia fatto una piccola deviazione per riposarsi nella Garganta del Diablo, la Gola del Diavolo, un anfratto profondo, uno spettacolare anfiteatro di rocce, dove oggi sostano cantori girovaghi. La strada attraversa la Quebrada per ottanta chilometri di meraviglia. Il motore Cucciolo spinge la bicicletta nelle salite del canyon, Ernesto canta a squarciagola. Peccato che non avesse ancora la passione (né i soldi) per la fotografia. Non abbiamo immagini di questo viaggio. Molti, inconsapevoli, hanno seguito le strade nomadi del Che. Il Latinoamerica è sempre affollato di gitani, vagabondi, ragazzi, bella gente in viaggio perenne. Ernesto non deve illudersi di essere stato l’unico a salire e scendere le valli andine in bicicletta. In una finca, una delle fattorie solitarie della Quebrada de las Conchas, osservo un piccolo gruppo di francesi. Sotto lo sguardo indifferente di un pastore indio e di due lama mangiano formaggio di pecora e bevono

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Nella solitudine della Quebrada conosco Helmut, viandante tedesco, nomade contemporaneo. Aspetta un passaggio nel nulla di fronte alla roccia dell’Obelisco. Helmut è molto più vecchio del Che. Non ha nessuna intenzione di fermarsi. Viaggerà per tutta la vita. Mi dice: "L’Argentina è perfetta se vuoi trovare spazio". [Nella pagina precedente] Verso nord l’Argentina diventa terra di canyon e di montagne. Ernesto pedalò attraverso la Quebrada de Cafayate. Voleva raggiunge Salta. Anche noi ci perdiamo nella Garganta del Diablo, la Gola del Diavolo, dove le voci risuonano in una eco infinita.


Coca-Cola. Sono due coppie con bambini piccoli. Viaggiano in bicicletta. Sul tandem, vi è una scritta: vuelta del mundo. Sono in giro da un anno, vanno in Patagonia. Le due coppie sono un modello di “biodiversità”: una indossa magliette tecniche e pantaloncini da ciclista; l’altra sembra stia facendo una scampagnata in Camargue, ciabattine ai piedi e pantaloni larghi alla araba. Hanno tutti un’aria felice. Rimandano serenità. Poco prima mi ero fermato a osservare Helmut. Protetto da un cappello da cow boy stava seduto a bordo strada di fronte a El Obelisco, un altro dei luoghi celebri e solitari della Quebrada. Era lì da almeno un’ora. Non è che il traffico qui sia molto intenso. Ma lui, giramondo austriaco, non se ne curava. Aspettava, con aria placida e indifferente, un passaggio. Dall’altra parte della strada, due indios sonnecchiavano dietro a una desolata bancarella di artesanías. È molto più vecchio del Che, Helmut. Nomade di mezza età. Pelle bruciata, capelli e barba bianca. In viaggio da tre anni. Mi ha detto: “L’Argentina è perfetta se vuoi trovare spazio”. L’ho lasciato con una forte stretta di mano. Ad aspettare una macchina che forse non sarebbe mai passata. Ma il suo viaggio non si sarebbe certo fermato per così poco. I gitani sedentari non hanno smesso di viaggiare. Come ai tempi del Che, come cinquant’anni fa, come trent’anni fa, epoca della mia prima avventura latinoamericana. Gli ho già incontrati. Più volte. A San Cristóbal de las Casas, a Managua, perfino a Leticia, ultimo porto amazzonico della Colombia. Uomini e donne nomadi. Da sempre. Come El Che. Ma senza rivoluzione. Il Latinoamerica offre qualcosa in più: la facilità di spostarsi, sconosciuta in Africa, troppo dispendiosa in Europa, troppo yankee negli States. Si può vivere con poco qui. Arrangiandosi. E poi c’è la saggia indifferenza di chi ti argentina tour

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vede passare e pensa che è normale che uomini e donne se ne vadano in giro senza una meta apparente. Anche se il pastore indio che, sessanta anni fa, con finta impassibilità, si incuriosì della strana bicicletta del Che, e oggi lancia sguardi obliqui al tandem dei francesi o al cappello di Helmut, non si è mai mosso dalla sua valle. Sono certo che il suo silenzio, allora come oggi, approva le avventure di questi strani bianchi. Nomadi contemporanei e sedentari dalla pelle antica. A dimostrare che niente è impossibile.

Salta, la Bella San Felipe de Salta, capoluogo del Nord dell’Argentina, oramai è vicina. Sono vicine le grandi Ande. La Bolivia non è più irraggiungibile. Ernesto è oramai un esperto scroccone. Appena entra in città si dirige verso l’ospedale e chiede ospitalità come studente di medicina. Questa volta gli offrono il sedile di un camion. Salta la Bella. Ciudad linda. Conservatrice, coloniale, pretenziosa. Le empanadas offerte dalle osterie sotto i portici della piazza centrale (una volta tanto non è dedicata a San Martín, ma ricorda quel nove di luglio del 1816 nel quale a Tucumán fu dichiarata l’indipendenza dell’Argentina) sono eccellenti. La città sfoggia eleganza, modernità, superbia e, allo stesso tempo, è fiera dell’eredità di gauchos dal poncho scarlatto. Saltimbanchi sulla piazza e opulenza rurale. A notte, si balla il tango senza la presunzione dei porteños. Si mangia carne e locro, saporito sformato di mais, da Doña Salta, celebre ristorante a un passo dalla chiesa di San Francisco, con i camerieri (tutti maschi) roteanti nei loro costumi tradizionali. Si sta bene a Salta.

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Salta, Ciudad linda. La capitale del Nord dell’Argentina. Le Ande sono a un passo. A sera si passeggia nella grande piazza, si mangiano empanadas , si entra nella Cattedrale. Città di gauchos dal poncho scarlatto e di Madonne. Nei quartieri del centro si venera la Virgen de Cochabamba. La Bolivia non è lontana. Davanti all’ospedale di Salta, in una piccola pensione, i parenti di chi è ricoverato aspettano con pazienza. Passano il loro tempo nel piccolo patio dell’albergo. Ernesto Guevara, studente di medicina a Buenos Aires, provò a farsi ospitare in qualche stanza del grande ospedale. Niente da fare. Non poteva nemmeno permettersi la pensione. Trovò rifugio in un camion.


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