Sui sentieri del Tor

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Saint-Rhémy-en-Bosses

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Rhêmes-Notre-Dame

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Valgrisenche
Chardonney Ollomont

Franco Faggiani

Sui sentieri del Tor

Viaggio lento nei luoghi del leggendario trail

Gli ultimi irriducibili

Prima che cada la neve

L’unico rumore che si avverte è un ronzio vagante nel cielo blu cobalto. Per il resto intorno c’è solo un silenzio magico e quasi inaspettato, disturbato ogni tanto da fugaci fruscii di passi e timidi cigolii, provocati da qualcuno che entra ed esce dai negozi di prima necessità: il bar, il fornaio, il giornalaio, tutti allineati nella centrale via Roma. Stamattina hanno pure aperto con un po’ di ritardo sul solito orario, forse per riprendere fiato dalla caotica settimana appena conclusa, quando la lunga via del passeggio era un fiume in piena, folle sciamanti su e giù in abbigliamenti colorati e indecisi –chi con indosso già il piumino, chi con la maglietta tecnica dai colori fosforescenti che pesa solo cinque grammi – tra lingue e dialetti che non saranno mai abituali ai courmayeurins, che pur vivono di turismo. La gente del luogo la riconosci perché cammina svelta, non si condensa mai in capannelli e non sosta davanti alle vetrine, che espongono per lo più articoli sportivi, prodotti enogastronomici, immagini di case in vendita, abbigliamento e accessori di lusso. Tutte

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cose che a loro non servono. I courmayeurins autentici, che sono ormai pochi, quando si intersecano si fanno appena un cenno; tutt’al più, sempre senza fermarsi, fanno volare due parole nel locale patois e via.

Rapidamente il ronzio proveniente dal cielo terso si avvicina, si abbassa, diventa più frenetico e prende una forma, quella di un elicottero rosso e lucido, ora nitido contro il candore immacolato delle creste che chiudono la valle a nord. Lassù, sull’arcata rocciosa da cui sbuca il Dente del Gigante che forse appartiene a Gargantua – partorito cinque secoli fa dalla fantasia dello scrittore parigino François Rebelais –, stanotte c’è stata una pennellata di neve fresca che mette ancora più in risalto il colore intenso del cielo.

È appena passata la metà di settembre e Courmayeur, l’antica Curia Majori dalla quale deriva il nome attuale, si sta togliendo il vestito da cittadina alpina internazionale per indossare, come consuetudine, i più confortevoli abiti del paesone di montagna, del villaggio isolato che a lungo è stato, anche se le rustiche case non esistono quasi più, se non in qualche frazione intorno, orgogliosamente incantucciate tra chalet e maison di vacanza.

Sulla via di struscio e di commercio si aggirano due coppie di stranieri – tutti e quattro sono in formato extra large – con gli zaini rigidi, in assetto perfetto, l’abbigliamento in ordine e gli scarponi puliti e ben allacciati; piccoli ma inequivocabili segni di una partenza e non di un arrivo. Parlottano in inglese aperto, con le vocali strascicate, e la loro voce a tratti sembra rimbombare nella quiete del mattino. Si fermano davanti alle vetrine spente di due negozi vicini che propongono le stesse cose, materiale da trekking – “si sa mai abbiamo dimenticato qualcosa”, si staranno dicendo –, poi entrano in un bar. Probabilmente berranno l’ennesimo capusino prima di imboccare la salitella in direzione dei sen-

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tieri che fanno il tour completo del Monte Bianco. Un giro classico e collaudato, 170 chilometri, dieci tappe, tre Paesi – Italia, Svizzera e Francia –, paesaggi ovunque grandiosi: un’avventura da raccontare nei mille dettagli agli amici di Dallas. Chissà perché mi sono messo in testa che possano essere texani o di un altro stato occidentale americano, tipo Nevada o California. In ogni caso, i trekker made in Usa stanno per andare via, mentre nonni e nipoti nostrani sono già partiti da qualche giorno... quanto era più consolante quando la scuola iniziava a ottobre!

Le seconde case sono quasi tutte con le finestre sbarrate e diversi negozi di generi non indispensabili, aperti fino a due giorni fa, appena scesi a valle milanesi e romani, quelli con la maggior predisposizione all’acquisto, hanno messo fuori la scritta: “Chiuso per ferie”. L’ambientazione è ormai questa, c’è appena stato il fuggi fuggi generale, come gli gnu del Serengeti che nello stesso periodo di fine estate migrano in massa verso sud, alla ricerca dei vecchi pascoli rigenerati dalle piogge. Qui, dunque, se ne sono andati tutti insieme; comprese anche le centinaia di atleti, accompagnatori, familiari, i turisti del fine settimana che ancora l’altro giorno trasformavano la flemmatica Courmayeur in una specie di Rio de Janeiro nei giorni del carnevale. Colori, musiche, via vai incessanti, libagioni, gruppuscoli di amici vaganti, risate, chiacchiericci in lingue sconosciute, in via Roma, nelle piazze, davanti ai bar. Gran parte delle combriccole erano arrivate all’inizio di settembre, dando di fatto il cambio ai villeggianti stagionali. Una settantina i Paesi di provenienza, in rappresentanza dei cinque continenti: tutti, se lasciamo fuori l’Antartide. Stati che, a volte, abbiamo pensato fossero frutto della fantasia. Non solo India, Nepal, Nuova Zelanda, per dire, ma anche Isole Wanatu, Nuova Caledonia, Tonga, Goa, Samoa, isole Wallis e

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Futuna, che sono un territorio francese perso nell’Oceano Pacifico di cui ignoravo proprio l’esistenza.

Cosa erano venute a fare queste migliaia di persone, oltre che a rallegrare i commercianti, gli albergatori e baristi locali per questo prolungamento di stagione? Per partecipare alle competizioni più blasonate di corsa in montagna, su lunghezze variabili tra i 30 (“ce la posso fare”) e i 450 chilometri (“gente squilibrata”). Tutte non stop e in un tempo prestabilito: quello per portare a termine il Tor des Géants – che è la gara più famosa, ambita, amata, partecipata – è di 150 ore, non un minuto di più. Tradotto in giorni ne vengono fuori sei e mezzo. Insomma, si parte la domenica mattina e si deve arrivare al traguardo – che poi è lo stesso punto da cui si è partiti – entro il sabato successivo. Visto che ho la calcolatrice alla mano e che i numeri rendono a volte meglio delle parole: 330 (chilometri) diviso 6,5 (giorni) fa poco meno di 51 chilometri. Al giorno! Se poi ci aggiungiamo i dislivelli...

Fascino e follia sotto il marchio TORX, che garantisce sport e avventura e ancora è in evidenza sui cartelloni sparsi e sulle insegne che presto qualche addetto all’organizzazione verrà a togliere. Qualcun altro invece le lascerà per vanto, per quelli che arriveranno fra quattro mesi con gli sci in spalla: “Hai visto?!? Qui fanno il Tor!”.

Anche l’elicottero che gira sopra la mia testa è al momento il simbolo dello smantellamento generale di fine stagione. Ha appeso a una lunga fune un enorme sacco bianco a forma di cipolla, stracolmo di materiale da portar giù da qualche rifugio in quota che ha iniziato a chiudere i battenti. Anche dalla montagna gli umani si stanno ritirando, lasciandola nelle mani delle nuvole e ai passi cauti degli animali, in attesa della prima neve che metta finalmente ogni cosa e ogni luogo a tacere.

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Uno zaino senza mezze stagioni

Alla vigilia della partenza

Tutto torna a valle in questi giorni di fine settembre. Tranne il sottoscritto, che va in direzione ostinata e contraria, come forse direbbe il musicista-poeta Fabrizio De André. E non è una metafora: ostinata, perché per percorrere quasi 350 chilometri tra le terre, i passi e le creste in quota, un po’ di ostinazione ci deve per forza essere, e contraria perché la direzione lungo le Alte Vie 1 e 2 che fanno il periplo della Valle d’Aosta la seguo nel senso inverso a quelle indicate su segnaletica, carte, mappe e opuscoli turistici.

C’è un motivo comunque: ho intenzione di calpestare i sentieri che hanno appena finito di percorrere gli atleti, gli ultrarunner del Tor des Géants. Per dimostrare cosa? Che non è necessario essere supersportivi a tutti i costi per percorrere queste antiche mulattiere, questi tracciati di montanari, pastori, boscaioli che ancora oggi, dopo essere stati riparati dagli inevitabili e periodici guasti climatici e geologici, mettono in contatto valli e borgate;

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basta saper camminare con un po’ di allenamento e di voglia e disporre di minimo spirito di sacrificio e di avventura. E poi, prima ancora di voler dimostrare chissà che a chissà chi, penso proprio di godermela. Di ogni singola cosa e di tutto l’insieme: di persone che tornano a essere assoggettate alle regole della natura, di cime, panorami, valloni, boschi, di silenzi, solitudini e anche di piogge e di nuvole basse, se si faranno vive. Anzi, che di certo si faranno vive, perché il cambio di stagione di solito lo prevede, anche se il caos (ormai non è più neanche un cambiamento) climatico è costantemente in agguato e non si sa più cosa aspettarsi davvero. Tutto quel che posso fare davanti a ogni evenienza è essere ben attrezzato, prudente e previdente, oltre che consultare ogni mattina, prima di muovere il primo passo, le previsioni meteo. Di solito quelle valdostane non sbagliano mai, nonostante anche in questa cerchia di grandi montagne occidentali le mezze stagioni non esistono più da un bel pezzo, e da qualche anno neanche le stagioni intere. Ma chi va in montagna ormai dovrebbe saperlo che le imprevedibilità climatiche sono assolutamente... prevedibili. Può succedere ogni cosa: bisogna star sereni, ma anche vigili.

Proprio per questo motivo, seduto davanti all’ingresso della centrale parrocchia di San Pantaleone, di fronte all’edificio della storica (1850) Società delle guide alpine, a causa di dubbi e di possibili dimenticanze – che volete, l’età avanza – svuoto, controllo e riempio di nuovo, per l’ennesima volta (questa è la terza, solo stamattina) il mio zaino. Operazione non facile, perché le cose vanno messe dentro con un certo criterio e al tempo stesso devono essere rapidamente pronte all’uso.

Passano altri due escursionisti, anch’essi stranieri e diretti pure loro verso i sentieri circumnaviganti il Monte

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Bianco e uno, indicando il mio eterogeneo bagaglio sparso sui gradini della chiesa, mi fa: “Himalaya?”. Vorrei replicare ma mi limito a un gesto con la mano, non un saluto ma un “vai vai, cammina”; perché in effetti il mio zaino forse non lo accetterebbe nemmeno uno sherpa, tanto è voluminoso, ingombrante. Colpa (ma all’occorrenza anche merito) della mia pluridecennale abitudine di portarmi sempre dietro tutto per poter affrontare tutto, dalla tempesta di neve all’umido della foresta amazzonica, dal blizzard polare al bollente e graffiante ghibli libico. Contravvenendo alle norme del “moderno escursionista” che suggeriscono di viaggiare leggeri: pochi capi tecnici (definizione che non ho mai capito cosa stia a significare davvero) e via. Se poi sei un vero runner d’alta quota, il necessario “deve stare” in uno zainetto grande come il borsellino che usava mia madre, e che ogni tanto, tanto era piccolo, non riusciva nemmeno a trovare, pur avendolo in qualche tasca. Io niente, ancora maglioni di lana, magliette della salute, giacca a vento che non si chiama “guscio” ma proprio giacca a vento. Anche un bel po’ fuori moda, ma che già in passato è stata capace di proteggermi alla perfezione. E poi gli scarponi ai piedi e le scarpe più leggere da trekking in una tasca dello zaino: non sono “performanti”, sono comodi. Oltre che molto collaudati e spesso risuolati. Ormai insostituibili, e familiari, come le pantofole che ti danno nei rifugi prima di entrare nelle stanze.

Uso questo abbigliamento un po’ d’antan non per taccagneria – perché quello “tecnico” costa un botto – o perché i nuovi modelli cambiano quasi ogni mese promettendo pregi sempre maggiori, ma perché, essendoci abituato, mi dà conforto.

È comprovato che fisico e testa, per affrontare una qualsiasi impresa, devono partire da una zona delle mente

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che sia confortevole e questa condizione vogliono mantenerla il più a lungo possibile, anche quando il cammino, la fatica, l’impegno, l’avventura, quasi ti impongono di uscirne.

L’insieme del mio bagaglio pesa un po’, è vero, ma io mica devo raggiungere un traguardo entro un giorno preciso alla tal ora, non mi devo affatto confrontare con altri. Non ho soste forzate o a tempo limitato. Certo, quelli del Tor vanno veloci, in fondo la loro è una gara anche se molti ne sono messi al margine già poco dopo la partenza, quando vedono i primi scappar via alla velocità della luce; hanno perciò uno zainetto tecnico davvero minimalista, dalla trama sottile, e leggerissimo, in cui mettono le cose essenziali per sopravvivere, specie ai cambiamenti atmosferici del giorno. Tanto nei tratti da una base vita all’altra – ampie strutture in genere poste ogni cinquanta chilometri dove recuperare le forze con l’aiuto di doccia, branda, massaggiatore, cibo – poi troveranno il loro borsone “privato” che l’organizzazione si preoccupa di trasportare lungo vari punti del percorso in anticipo sul passaggio del proprietario.

Nei borsoni c’è di tutto, quello che uno ci vuole, o meglio, ci può mettere. Una mia amica runner, per esempio, ci ha ficcato dentro anche l’asciugacapelli, l’accappatoio e un libro per leggere qualche pagina prima di dormire, per rilassarsi e dunque prendere sonno. Cosa che può sembrare strana, perché uno dopo cinquanta chilometri di corsa o di cammino svelto dovrebbe schiantarsi sulla branda come una sequoia violata dalla motosega. Ma non è così, l’eccessivo stato di affaticamento, il pensiero della ripartenza, impediscono spesso di dormire anche se si è sull’orlo del disfacimento fisico. Più la stanchezza avanza, più il sonno arretra, spesso funziona così.

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Un’altra concorrente, una gentile signora francese che fa la psicoanalista e la regista e che godrà per sempre della mia incondizionata ammirazione, aveva nella borsa da gara anche la scatola del trucco. Correre con il rossetto fresco sulle labbra e le sopracciglia in ordine, sotto il caldo torrido o con la neve che si spalma addosso, l’ho sempre trovato segno di grande distinzione. Chapeau, madame Claudine!

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Un cammino su misura

Finalmente si parte, o quasi

Io non avrò basi vita a disposizione e probabilmente nemmeno rifugi, perché di solito, dopo che sono passati gli atleti del Tor, chiudono bottega o in qualche caso restano aperti solo nei fine settimana, finché il tempo tiene e qualche irriducibile escursionista può ancora farsi vivo.

Comunque sono attrezzato, non miro ai rifugi in quota ma ai borghi di fondovalle. Ogni volta che sarò stanco mi fermerò e questo mi permetterà di riprendere fiato e soprattutto di osservare meglio quello che mi circonda. Perché spesso, se si ha una linea di arrivo da oltrepassare in un tempo determinato, si finisce con l’andare sempre di fretta, con l’assillo del cronometro, della gara da portare a termine.

Mi è capitato più volte di andare sui sentieri del Tor con persone che in precedenza li avevano percorsi in gara, dunque correndo a testa bassa, e di far caso al loro stupore davanti a certi panorami o a certi luoghi. Che, è naturale, durante la loro prestazione atletica non avevano minimamente notato, impegnati com’erano a controllare l’altimetro, il cro-

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nometro, il cardiofrequenzimetro o un altro concorrente che stava sopraggiungendo. Del resto se si partecipa a una competizione, pur se un po’ speciale come nel caso del Tor, è giusto che quegli strumenti siano tenuti sott’occhio.

A Dolonne, a solo un chilometro o poco più dal punto in cui sono ufficialmente partito – la piazza del municipio, all’imbocco della centrale via pedonale – faccio già una sosta. Incominciamo bene, dirà qualcuno. Ma non posso passare di lì senza fare un saluto a Ivan Parasacco, che chissà se si è ripreso dagli impegni del Tor che lo vedono, fin dall’edizione numero uno, come uno dei due speaker in prima fila.

Ivan lo trovo proprio sul percorso, ovvero in fondo a una stretta e ordinata via che si insinua tra due file di belle case in pietra che si portano addosso gli anni con disinvoltura. Entro nel suo negozio, il Savoye sport, “classe 1968”, quindi una delle prime botteghe di articoli sportivi della zona, gestita sempre dalla stessa famiglia, quella di Sabrina Savoye, moglie di Ivan ed erede di illustri alpinisti. Compreso quel Cipryen Savoye che, a cavallo del 1900, il Duca degli Abruzzi volle al suo seguito nelle spedizioni esplorative e alpinistiche extraeuropee; spedizioni che poi condusse in proprio, accompagnando anche l’americana Fanny Bullock Worckman, la viaggiatrice ed esploratrice dei record, stabiliti spesso insieme al marito William, un medico altrettanto sportivo e facoltoso.

In quegli anni, per essere precisi nel 1909 e sempre a Courmayeur, il fabbro Henry Grivel (il cognome da tempo è un marchio mondiale in fatto di attrezzature da montagna) costruì su ordinazione dell’ingegnere inglese Oscar Eckenstein il primo paio di ramponi da alpinismo “moderni”. L’ingegnere aveva condotto la prima spedizione britannica al K2, nel 1902, ma non era riuscito ad andare oltre i

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6.500 metri perché parte della sua attrezzatura si era dimostrata inadeguata. Così se l’era reinventata grazie a preziosi artigiani come Henry.

Ma, visto che qui affronto itinerari che vanno in orizzontale e non pareti di ghiaccio in verticale, torno a Sabrina Savoye, che è anche autrice di un libro intitolato Con zaino e guinzaglio (End edizioni), racconto di un viaggio lento sui sentieri della Valle d’Aosta in compagnia di due amiche e del suo cane, Genepy. Il quale, nel libro, esprime pure le proprie opinioni, a volte un po’ scettiche, sull’impresa a cui è stato legato. Dal guinzaglio, appunto.

Ivan sta già armeggiando con un paio di sci nuovo di zecca, in previsione dell’imminente stagione sulle piste innevate, e lui sa trattarli bene. Non a caso è maestro di sci, professione che ha esercitato anche in Colorado, dove è nato lo sci a stelle e strisce. Poi, lasciate le Montagne Rocciose, ha girato mezzo mondo, ha imparato un po’ di lingue e infine è tornato con uno zaino stracolmo di idee, iniziative, invenzioni. L’ultima che ha messo in esercizio è quella del minimarket aperto 24 ore su 24. Avete presente quei distributori automatici che ci sono nelle stazioni, quelli da cui estrarre bottigliette di acque minerali, snack, patatine o simili? Beh, è la stessa cosa, funziona uguale, solo che al posto delle bevande gassate o di quei pallidi sandwich che sembrano confezionati durante la Guerra del ’15-’18, i distributori “erogano” gnocchi freschi, confezioni di mocetta, sughi di malga, tagli di fontine, paste di farro e quant’altro prodotto dall’artigianato gastronomico della Valle.

“Funziona?” gli chiedo.

“Tu non sai a quanta gente viene fame in piena notte.”

“E io che ho già fame adesso che sono solo le dieci del mattino?”

Ivan non si scompone: “C’è il panino fresco con il lardo di Arnad, che ti dà energie per la salita”.

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