Le femmine e i cani non possono entrare

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© 2023 Cart’Armata edizioni Srl Terre di mezzo Editore via Calatafimi 10 20122 Milano

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Direzione editoriale: Miriam Giovanzana

Coordinamento editoriale: Sara Ragusa

Comitato editoriale DiMMi:

Elona Aliko

Natalia Cangi

Michele Colucci

Antonio Damasco

Patrizia Di Luca

Laura Ferro

Alba Marina Ospina

Alessandro Triulzi

Paule Roberta Yao

DiMMi-Diari Multimediali Migranti è svolto in collaborazione con ITHACA-Interconnecting Histories and Archives for Migrant Agency: Entangled Narratives Across Europe and the Mediterranean Region.

Stampato nel mese di luglio 2023

Rubbettino Print, Soveria Mannelli (CZ)

Questo libro è stampato su carte dotate di certificazione FSC®, che garantisce la provenienza della materia prima da fonti gestite in maniera responsabile.

Lilith

Le femmine e i cani non possono entrare

Diario di una donna che ha lottato per sopravvivere

Nota al testo

Il racconto autobiografico Le femmine e i cani non possono entrare è stato presentato al concorso DiMMi 2022 con il titolo La fenice e firmato con uno pseudonimo. Inviato insieme alle altre storie alle commissioni di lettura per una valutazione collettiva, il testo è stato considerato, per la sua forza drammatica e lucidità narrativa, non scomponibile come estratto per l’antologia, e la sua pubblicazione come libro a sé è stata indicata come auspicabile da più di una commissione. Lo proponiamo quindi in forma integrale in questo volume.

Uno

I miei genitori hanno litigato, mio padre ha dato un calcio molto forte a mia madre proprio sulla schiena, mia madre è triste, piange. La mia povera madre, vorrei consolarla, vorrei poterla aiutare, ma sono impotente. Così resto semplicemente lì, seduta accanto a lei, sopra il suo janamaz, il tappetino con l’immagine della Mecca che si usa per pregare, che ha steso sul pavimento per eseguire il namaz, la preghiera islamica canonica. Con una mano appoggiata sulla sua spalla sinistra ogni tanto con l’altra mano asciugo le sue lacrime. Mi dice: “Forse questa volta mi ha proprio rotto la schiena, tuo padre è un mostro crudele”. Singhiozza e ricomincia: “Io non voglio più sopportare tutta questa umiliazione, voglio andare via, andrò a fare la domestica a casa di mio zio e gli chiederò se mi dà un posticino per dormire la notte. Hanno tutte quelle serve, avranno sicuramente un posto e un pasto al giorno anche per me”.

Rimango in silenzio, ma dentro di me mi sento disperata, perché non so proprio come vivere senza di lei. Sento il cuore che mi si spezza in mille pezzi, ho solo undici anni e vorrei che mia madre non mi abbandonasse mai, perché ho solo lei, solo lei riesce a farmi sentire protetta e al sicuro, solo lei mi fa sentire amata e io senza

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di lei non so come potrei vivere. Però non mi piace che lei viva questa vita tormentosa e se crede che troverà un po’ di pace facendo la domestica a casa di suo zio non posso certo fermarla, ma mi sento triste, solo all’idea di perderla, il mondo mi sembra troppo buio senza di lei, piango in silenzio. Ho la netta consapevolezza di non poter contare più su nessuno, nemmeno su mia madre perché mi sono appena accorta che anche lei ha bisogno di aiuto e non ha risorse per aiutare me. Mi sento sola e abbandonata dentro un buco nero, poi mi sveglio sconvolta dal dolore e dalla disperazione...

Mi accorgo che era solo un sogno e adesso ho trentotto anni e ormai è da venti anni che non la vedo. È uno dei miei incubi che faccio molto spesso. Non so perché questi ricordi mi perseguitano ancora. So che non avrò più undici anni e non mi succederanno più quelle cose, ma nei miei incubi li rivivo di continuo. E quando mi risveglio tutta la vita mi passa davanti come una pellicola.

Quando mia madre era incinta di me, mio padre si aspettava un maschio e aveva scritto una lunghissima lettera destinata al suo prediletto primogenito ancora prima che nascessi. L’aveva consegnata a mia madre dicendole di custodirla finché non avessi compiuto diciotto anni.

Alla fine, nel maggio del 1984 nacqui, ma femmina e mio padre ne rimase così deluso che non venne a trovarmi per più di due mesi. Mia madre, poi, lasciò quella lettera con noncuranza tra i vecchi libri perché non aveva più bisogno di essere custodita dal momento che non ero un maschio. La trovai a sedici anni frugando tra le cose di mia madre e leggendola mi sono sentita così in colpa di averlo deluso per essere nata femmina che avrei fatto qualsiasi cosa per rimediare.

Mio padre era figlio di un mullah molto conosciuto in quel villaggio del Bangladesh. Dicevano che aveva

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dei poteri magici. La gente veniva da lui per chiedere una cura per delle malattie gravi, lui allora bisbigliando qualche frase del Corano soffiava sul malato ed ecco che quello iniziava a guarire. In caso contrario, quindi se non guariva solo con il soffio, il paziente doveva tenere un amuleto appeso al collo, dove mio nonno scriveva alcuni versi del Corano. Tutti i jinn, ovvero i demoni, avevano paura di lui.

Ho sentito dire che una volta un ragazzo era stato posseduto da un jinn molto cattivo, il ragazzo da un giorno all’altro non parlava più, stava seduto incantato mentre gli colava la bava dalla bocca. L’hanno portato da mio nonno che gli legò mani e piedi e poi iniziò a soffiare su di lui pronunciando in arabo frasi difficilissime del Corano gettandogli dell’acqua santa, ma il demone era troppo resistente e non voleva parlare. Allora mio nonno prese un bastone e iniziò a colpire sulla schiena del ragazzo dicendo: “Parla o jinn, dì il tuo nome, da dove sei venuto e cosa vuoi!?”. Il demone allora cominciò a parlare con la voce del ragazzo ma in diverse lingue sconosciute, chiedeva perdono promettendo di sparire per sempre. Il ragazzo non era guarito subito, ma un po’ alla volta iniziò a riprendersi.

Giravano leggende simili o ancora più spaventose e assurde su mio nonno e arrivavano sempre nuovi clienti. C’era chi veniva con la richiesta di un amuleto per la sua malattia e c’era chi voleva essere liberato dai jinn, ma c’era anche chi voleva un amuleto da mettere al collo della propria figlia con la speranza che il marito smettesse di picchiarla. Venivano anche tante donne incinte per un amuleto che potesse far nascere loro un bambino maschio, conquistando così il cuore del marito. Mio nonno, però, ammoniva tutti che il potere non era del tutto suo ma era di Allah. Diceva: “Se Allah pensa che sei una pec-

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catrice il mio amuleto non ti aiuterà, devi piangere e chiedere il perdono di Allah, altrimenti avrai solo femmine, o non guarirai o tuo marito non smetterà di picchiarti”.

Le famiglie delle persone guarite o a cui nascevano figli maschi, per ringraziare mio nonno gli davano sempre dei doni e qualche soldo con cui la famiglia di mio padre riusciva a sostenersi. Oltre a questo non avevano altre entrate se non un piccolo campo di riso.

Il mio nonno materno diede mia madre in sposa a mio padre non per la sua ricchezza, ma per la fama del mio nonno paterno. Lei aveva diciotto anni e mio padre trentacinque. Mia madre era di una famiglia abbastanza benestante, ma dopo il matrimonio si ritrovò con un uomo molto povero che non aveva neanche una casa, viveva e lavorava a Khulna, dormiva in un ostello con altre persone mentre mia madre viveva a casa dei suoi genitori. Io ero nata lì. Lui ogni tanto passava per trovarci e si fermava qualche giorno per poi ritornare a Khulna. Finché mio nonno era vivo questo non era un problema perché mia madre era la sua figlia preferita tra le sette femmine e due maschi, ma alla sua morte, il fratello minore di mia madre – zio Omar – non la sopportava più, così non fu più la benvenuta.

Queste cose le ho sapute da mia madre, mi ha raccontato che quando avevo un anno stavo giocando con un cucchiaino mordicchiandolo con la mia gengiva ancora quasi priva di denti e mio zio me lo strappò di mano dicendo: “Qui bisogna stare attenti perché tutti i poveri sono ladri! Oggi il cucchiaino, domani la forchetta e così un giorno ci svegliamo e la casa sarà vuota”. Lei ci restava male per tutte quelle cattiverie da parte di suo fratello, ma non aveva un posto dove andare.

Quando io avevo quattro anni mia madre partorì la seconda figlia, non mi ricordo molto bene di lei, ricordo

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solo una scena dove mia madre piangeva con in braccio la mia sorellina morta. Una volta che sono cresciuta ho scoperto che era morta di polmonite a soli ventun giorni dalla sua nascita.

Mia madre aveva grandi sogni per me, mi amava più della sua vita. Voleva mandarmi in una buona scuola in città perché credeva che così un giorno sarei potuta diventare un medico. Per questo continuava a chiedere a mio padre di portarci a vivere con lui in città. Ma lui era ancora più povero di prima perché si era fidato ciecamente di mio zio Aman e aveva versato tutti i suoi risparmi della vita nel conto corrente dello zio. Questo perché mio zio gli aveva detto che avrebbe preso una fabbrica di riso in affitto e avrebbero lavorato insieme per poi dividere i guadagni, ma alla fine non gli ha mai restituito i suoi centocinquantamila taka, la valuta del Bangladesh, e non gli ha mai più dato nemmeno la parte dei guadagni che gli spettava. Mio padre era sempre arrabbiato e nervoso per questo motivo. Spesso urlava a mia madre offendendola con tutti gli insulti che si possono immaginare in bengalese e dicendole: “Tu sei fortunata che non ho divorziato da te nonostante tuo fratello mi abbia fregato tutti i soldi e nonostante hai partorito solo femmine”. Aveva incominciato a trattarla male anche se non era stata lei a dirgli di dare tutti i suoi soldi a mio zio.

Mia madre non lavorava perché in quel periodo in Bangladesh una donna di buona famiglia lavorava di rado. Continuare a vivere a casa di mia nonna con suo fratello Omar e la sua famiglia era diventato difficile perché più io diventavo grande più cominciavo a toccare di qua e di là e a dare fastidio, così loro ci trattavano sempre male e mia madre non ne poteva più. Perciò mio padre ci portò a casa di zio Aman a Khulna e ci abbandonò lì. Disse a mio zio: “Siccome hai tutti i miei soldi, le mantieni tu”.

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