Controtempo

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Antonio Tabucchi Controtempo

Illustrazioni di Marina Marcolin

Era stato così: l’uomo si era imbarcato da un aeroporto italiano, perché tutto cominciava in Italia, e che fosse Milano o Roma era secondario, l’importante è che fosse un aeroporto italiano che permetteva di prendere un volo diretto per Atene, e da lì, dopo una breve sosta, una coincidenza per Creta con l’Aegean Airlines, perché di questo era certo, che l’uomo aveva viaggiato con l’Aegean Airlines, dunque aveva preso in Italia un aereo che gli dava una coincidenza da Atene per Creta intorno alle due del pomeriggio, lo aveva visto sull’orario della compagnia greca, il che significava che costui era arrivato a Creta intorno alle tre, tre e mezza del pomeriggio. L’aeroporto di partenza ha comunque un’importanza relativa nella storia di colui che aveva vissuto quella storia, è un mattino di una qualsiasi giornata di fine aprile del duemilaotto, una giornata splendida, quasi estiva. Il che non è un particolare insignificante, perché l’uomo che stava per prendere l’aereo, meticoloso com’era, dava molta importanza al tempo e seguiva un canale satel-

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litare dedicato alla meteorologia di tutto il globo, e il tempo, aveva visto, a Creta era davvero splendido: ventinove gradi diurni, cielo sgombro, umidità nei limiti consentiti, un tempo da mare, l’ideale per stendersi su una di quelle spiagge bianche che diceva la sua guida, immergersi nel mare azzurro e godersi una meritata vacanza. Perché questo era anche il motivo del viaggio di quell’uomo che stava per vivere quella storia: una vacanza. E in effetti così pensò, seduto nella sala d’attesa dei voli internazionali di Roma-Fiumicino, aspettando che l’altoparlante lo chiamasse all’imbarco per Atene. Ed eccolo finalmente sull’aereo, installato comodamente in business class – è un viaggio pagato, come si vedrà dopo – rassicurato dalle premure degli assistenti di volo. L’età è difficile da definire, anche per colui che conosceva la storia che l’uomo stava vivendo: diciamo fra i cinquanta e i sessanta, magro, robusto, di aspetto sano, capelli brizzolati, baffetti sottili e biondi, occhiali da presbite di plastica appesi al collo. La professione. Anche su questo punto colui che conosceva la sua storia aveva qualche incertezza. Poteva trattarsi di un manager di una multinazionale, uno di quegli anonimi uomini d’affari che passano la vita in un ufficio e dei quali un giorno la sede centrale riconosce il merito. Ma anche di un biologo marino, uno di quegli studiosi che osservando al microscopio le alghe e i microrganismi senza muoversi dal loro laboratorio sono in grado di affermare che il Mediterraneo diven-

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terà un mare tropicale come forse fu milioni di anni fa. Ma anche questa ipotesi gli pareva poco soddisfacente, i biologi che studiano il mare non restano sempre chiusi nel loro laboratorio, vanno per spiagge e scogli, magari si immergono, fanno rilevamenti scientifici personali, e quel passeggero appisolato sulla sua poltrona di business su un volo per Atene, di biologo marino non aveva proprio l’aspetto, magari nei fine-settimana andava in palestra e teneva in buona forma il proprio corpo, nient’altro. Ma poi, se davvero andava in palestra, perché ci andava? A che pro mantenere il suo corpo con quell’aspetto così giovanile? Davvero non c’era motivo: con la donna che aveva considerato la compagna della sua vita era finita da tempo, non aveva un’altra compagna né un’amante, viveva solo, da impegni seri si teneva alla larga, a parte qualche rara avventura che può capitare a tutti. Forse l’ipotesi più credibile è che fosse un naturalista, un moderno seguace di Linneo, e che si recasse a un congresso a Creta insieme con altri esperti di erbe e piante medicinali che a Creta abbondano. Perché una cosa era sicura, si stava recando a un convegno di studiosi come lui, il suo era un viaggio che premiava una vita intera di lavoro e di dedizione, il convegno si teneva nella città di Retimno, sarebbe stato alloggiato in un albergo fatto di bungalow, a pochi chilometri da Retimno, dove una macchina di servizio lo avrebbe condotto il pomeriggio, e aveva tutte le mattine a disposizione.

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L’uomo si svegliò, dal sacco a mano prese la guida e cercò l’albergo dove avrebbe alloggiato. Il risultato lo rassicurò: due ristoranti, una piscina, servizio in camera, l’albergo, chiuso durante l’inverno, riapriva solo alla metà di aprile, il che significava che dovevano esserci pochissimi turisti, i clienti abituali, i nordici assetati di sole, come li definiva la guida, erano ancora nelle loro casette boreali. La gentile voce al microfono pregò di allacciare le cinture, era iniziata la discesa verso Atene dove sarebbero atterrati fra venti minuti circa. L’uomo chiuse il tavolinetto e rialzò lo schienale della poltrona, ripose la guida nel sacco a mano e dalla reticella del sedile di fronte sfilò il giornale che la hostess aveva distribuito e al quale non aveva prestato attenzione. Era un giornale con molti supplementi a colori, come ormai si usa nei fine-settimana, quello economico e finanziario, quello dello sport, quello dell’arredamento e il magazine. Evitò tutti i supplementi e aprì il magazine.

Sulla copertina, in bianco e nero, c’era la fotografia del fungo della bomba atomica, con questo titolo: “Le grandi immagini del nostro tempo”. Cominciò a sfogliarlo con una certa riluttanza. Dopo la pubblicità di due stilisti con un giovanotto a tronco nudo, che lì per lì pensò fosse una grande immagine del nostro tempo, la prima vera immagine del nostro tempo: la lastra di pietra di una casa di Hiroshima dove per il calore dell’atomica il corpo di un uomo si era liquefatto lasciandovi impressa la propria ombra. Non l’aveva mai vista e se ne

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stupì, provando una specie di rimorso verso se stesso: quella cosa era successa oltre sessant’anni prima, possibile che non l’avesse mai vista? L’ombra sulla pietra era di profilo, e nel profilo gli parve di riconoscere il suo amico Ferruccio che a Capodanno del millenovecentonovantanove, poco prima della mezzanotte, senza motivi comprensibili si era buttato dal decimo piano di un edificio di via Cavour. Possibile che il profilo di Ferruccio, schiacciatosi al suolo il trentuno dicembre del millenovecentonovantanove, assomigliasse al profilo assorbito da una pietra di una città giapponese nel millenovecentoquarantacinque? L’idea era assurda, eppure gli attraversò la mente in tutta la sua assurdità.

Continuò a sfogliare la rivista, e intanto il suo cuore cominciò a battere con un ritmo disordinato, uno-duepausa, tre-uno-pausa, due-tre-uno, pausa-pausa-duetre, le cosiddette extrasistole, niente di patologico, gli aveva garantito il cardiologo dopo una giornata intera di esami, solo un fatto ansioso. Ma ora, perché? Non potevano essere quelle immagini a provocare la sua emozione, erano cose lontane. Quella bambina nuda a braccia alzate che correva incontro alla macchina fotografica sullo sfondo di un paesaggio apocalittico l’aveva già vista più di una volta senza provare un’impressione così violenta, e ora invece gli provocò un forte turbamento. Girò pagina. Sul bordo di una fossa c’era un uomo inginocchiato a mani giunte mentre un ragazzetto dall’aria sadica gli puntava una pistola alla tempia.

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“Khmer rossi”, diceva la didascalia. Per rassicurarsi si obbligò a pensare che erano anch’esse cose di posti lontani e ormai lontane nel tempo, ma il pensiero non fu sufficiente, una strana forma di emozione, che era quasi pensiero, gli stava dicendo il contrario, quell’atrocità era successa ieri, anzi era successa proprio quella mattina, mentre lui prendeva l’aereo, e per stregoneria si era impressa sulla pagina che stava guardando. La voce dell’altoparlante comunicò che per motivi di transito avrebbero ritardato l’atterraggio di un quarto d’ora, e intanto i passeggeri potevano godersi il panorama. L’aereo disegnò un’ampia curva, inclinandosi sulla destra, dal finestrino opposto riuscì a scorgere l’azzurro del mare mentre il suo inquadrò la bianca città di Atene, con una macchia di verde nel mezzo, certo un parco, e poi l’Acropoli, si vedeva perfettamente l’Acropoli, e il Partenone, sentì che le palme delle mani erano umide di sudore, si chiese se non fosse una sorta di panico provocato dall’aereo che girava a vuoto, e intanto guardava la fotografia di uno stadio dove poliziotti con il casco schermato puntavano la canna dei mitra contro un gruppo di uomini scalzi, sotto c’era scritto: “Santiago del Cile, 1973”. E nella pagina accanto a quella una fotografia che gli sembrò un montaggio, sicuramente era un trucco, non poteva essere vero, non l’aveva mai vista: sul balcone di un palazzo ottocentesco si vedeva papa Giovanni Paolo II accanto a un generale in divisa. Il papa era senza dubbio il papa, e il generale era senza

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dubbio Pinochet, con quei capelli pieni di brillantina, il volto grassoccio, i baffetti e gli occhiali Ray-Ban. La didascalia diceva: “Sua santità il pontefice nella sua visita ufficiale in Cile, aprile 1987”. Si mise a sfogliare in fretta la rivista, come ansioso di arrivare in fondo, quasi senza guardare le fotografie, ma a una dovette fermarsi, si vedeva un ragazzino di spalle rivolto a un furgone della polizia, il ragazzino aveva le braccia alzate come se la sua squadra del cuore avesse fatto goal ma a guardare meglio si capiva che stava cadendo all’indietro, che qualcosa più forte di lui lo aveva abbattuto.

C’era scritto: “Genova, luglio 2001, riunione degli otto Paesi più ricchi del mondo”. Gli otto Paesi più ricchi del mondo: la frase gli provocò una strana sensazione, come qualcosa che è allo stesso tempo comprensibile e assurdo, perché era comprensibile eppure assurda. Ogni fotografia aveva una pagina argentata come se fosse Natale, con la data in caratteri grandi. Era arrivato al duemilaquattro, ma indugiò, non era sicuro di voler vedere la fotografia seguente, possibile che intanto l’aereo continuasse a fare dei giri a vuoto?, voltò la pagina, si vedeva un corpo nudo accasciato per terra, era evidentemente un uomo ma nella foto avevano sfo-

cato la zona pubica, un soldato in divisa mimetica allungava una gamba verso il corpo come se allontanasse col piede un sacco di spazzatura, il cane che teneva al laccio tentava di mordergli una gamba, i muscoli dell’animale erano tesi come la corda che lo reggeva, nell’altra mano

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il soldato aveva una sigaretta. C’era scritto: “Carcere di Abu Ghraib, Iraq, 2004”. Dopo quella, arrivò all’anno in cui si trovava lui, l’anno di grazia duemilaotto dopo Cristo, cioè si trovò sincronico, fu quello che pensò anche se non sapeva con che cosa, ma sincronico. Quale fosse l’immagine con cui era sincronico lo ignorava, ma non girò la pagina, e intanto l’aereo stava finalmente atterrando, vide la pista che correva sotto di lui con le strisce bianche intermittenti che per la velocità diventavano una striscia unica. Era arrivato.

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