Adorno

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Luciano Bianciardi

Adorno

Illustrazioni di

Lucio Schiavon



Q

uando avevo dodici anni la mia città, piccola sempre, era più piccola ancora, e stava quasi tutta dentro le vecchie mura, costruite chissà quando dai caporioni di Santa Fiora, gli Aldobrandeschi. Uscendo dalla Porta Vecchia imboccavi una strada polverosa che portava fino all’Ombrone, il più bel fiume del mondo, se non ricordo male. Faceva un’ansa verde che in quel punto lo accostava alla città e ti ripagava di quei due chilometri nel polverone, perché ci si poteva fare il bagno nudi, e poi stendersi al sole sulla spiaggetta della riva opposta, o anche salire carponi fino al poponaio di Bernardo a rubare i cocomeri, e poi rotolarli giù per la scarpata fino all’acqua, dove galleggiavano, così bastava spingerli con una mano, nuotando, e Bernardo, quando se ne accorgeva, di lassù alzava il pugno e urlava minacce ma nient’altro, perché era vecchio e non sapeva nuotare come noi. Per il nuoto, avendo la bicicletta si capisce, potevamo anche andarcene al mare, lontano una decina di chilometri, e far merenda in pineta, con le cicale che strilla9


vano impazzite dal gran caldo; oppure fare la guerra con le pine cadute, che lasciavano sulla mano uno strato di resina, appiccicosa e profumata. C’era poi il divertimento di spaccare a sassate – sia a mano che con la strombola di gomma – tutte le lampadine di piazza del mercato: così, arrivando la mattina presto, prima del levar del sole, gli ortolani coi carretti delle verdure trovavano tutto buio e non ci si raccapezzavano. Certo, andavano a denunziarci alle guardie del Comune, ma cosa potevano fare le guardie contro di noi, contro la banda dei piazzaioli, la più forte della città? Però, se ci ripenso, c’era un’altra banda che non riconosceva il nostro predominio: erano i tripolini, così chiamati perché abitavano in una delle poche strade fuori le mura, appunto via Tripoli. Ma siccome dalle parti di via Tripoli non c’era altro che fango e marruche, questa banda a noi nemica voleva a tutti i costi venirsene a far baldoria in città. A quei tempi si entrava o dalla Porta Vecchia o dalla Porta Nuova, e per i tripolini era un giro lungo e pericoloso, per via dei dazieri sempre sull’avviso. Però, accanto alla fortezza, col passare degli anni, parecchi macigni erano caduti, s’era formata una specie di breccia, chiamata “la buca” e da lì era semplice e svelto entrare in città. Non solo: subito dopo la breccia, dalla parte nostra, interna, c’era un bel boschetto di pini, che finiva in un ripido pendio. Era un posto bellissimo per giocare, ma se volevamo restarne padroni, bisognava impedire ai tripolini di passare la buca. 10



Ecco perché due di noi stavano sempre a guardia con le strombole cariche, mentre gli altri giocavano in pace al boschetto. A quei tempi i giochi preferiti erano gli schiri, saltacerro e ciccì tre fiaschi di vin. Quest’ultimo era così: uno stava “sotto”, cioè dentro un cerchio tracciato per terra, curvo, le mani sulle ginocchia, e gli altri lo dovevano saltare ripetendo a turno questa filastrocca: ciccì tre fiaschi di vin, una la luna, due il bue, tre un bacino alla figlia del re, quattro la spazzatura del gatto, cinque lo cioccolato, sei gli incrociatori, sette pioppini, otto tamburini, nove gazzarra, dieci regalo, undici la camicia da cucì, dodici è bella e cucita, tredici cavallino sardo, quattordici foco, quindici la via, sedici con tre passi me ne vado a casa mia. Saltacerro invece si giocava tra due squadre, di tre o al massimo quattro ragazzi ciascuna. Una squadra stava sotto, in fila, il primo curvo, appoggiato a un albero, e gli altri, sempre curvi, a ridosso, come fanno i giocatori di palla ovale durante le mischie, in modo da formare una fila di schiene. L’altra squadra saltava addosso alla prima, cercando poi tutti di restare in groppa, quattro su quattro, resistendo agli scrolloni di quelli sotto. Prima del salto bisognava dare l’avviso. “Saltacerro!” “Salterai”, rispondevano i curvi. “Abbassa le corna sennò te n’avvedrai.” C’era da rompersi il filo della schiena. Il gioco degli schiri invece non era pericoloso. Divisi in due gruppi, 12


ladri e carabinieri, i secondi cercavano di agguantare i primi, e una volta preso il ladro diventava carabiniere, e toccava a lui rincorrere: così il gioco poteva durare anche all’infinito, e a me piaceva più di tutti, perché io al boschetto arrivavo sempre per ultimo, dovendo prima finire i compiti di scuola. Facevo la seconda ginnasiale, ed ero l’unico studente nella banda dei piazzaioli, ma anche il più piccolo e il più mingherlino. Di soprannome mi chiamavano Diaccino, perché ero un po’ goffo, parlavo poco e mi entusiasmavo di rado. Confesso che mi vergognavo confrontandomi con tipi come il Picchiadiavoli, o il Sordo, o l’Arronzabussoli, o Mario il Terrosi, per non dire poi del capo, Adorno. Persino il Chiavetta era più svelto di me, così stento e storto, ma furbo e lesto come un gatto: questo Chiavetta saltava diversi pasti ogni settimana, perché la mamma gli era morta, il babbo lo avevano messo in galera nel ventuno, condannato a vent’anni per la morte di un fascista, e lui stava con una vecchia zia che vendeva le castagne arrosto d’inverno, e i lupini salati d’estate. Anche il Chiavetta era più in gamba di me. Eppure Adorno, il capo della banda, mi voleva bene, forse perché ero io l’unico a sapere il latino, l’algebra e il disegno, tutte cose che al Picchiadiavoli o al Sordo sembravano inutili, e Adorno invece, non so come, s’era convinto che potevano far comodo a tutta la banda. Tanto vero che quando fu il giorno della grande batta13


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