La barca sublime

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Geodata G. Canale & C. Gruppo Ferrero-Presider Intesa SanPaolo Italgas Lavazza Martini & Rossi Megadyne M. Marsiaj & C. Reale Mutua Assicurazioni Reply Rockwood Italia Skf Telecom Italia Unione Industriale di Torino Vittoria Assicurazioni Zoppoli & Pulcher

LA BARCA

SUBLIME Palcoscenico regale sull’acqua

Palcoscenico regale sull’acqua

2a Alleanza Toro Assicurazioni Armando Testa Buffetti Burgo Group Buzzi Unicem Camera di Commercio di Torino C.L.N. Compagnia di San Paolo Deloitte & Touche Ersel Exor Fenera Holding Ferrero Fiat Fondazione Crt Garosci

LA BARCA SUBLIME

La Peota dei Savoia, barca da parata commissionata agli squeri veneziani nel 1729 da Vittorio Amedeo II su progetto di Filippo Juvarra, e giunta a Torino nel 1731, è stata concessa in comodato al Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale dalla Fondazione Torino Musei. Per la sua valorizzazione e l’esposizione al pubblico nelle Scuderie Juvarriane, la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino ne ha promosso e sostenuto il complesso restauro, avviato nel 2011 e realizzato dal Centro Conservazione e Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale. Il Bucintoro dei Savoia, protagonista di sfarzose feste fluviali sul Po e prezioso apparato per i matrimoni reali, venne ceduto nel 1873 da Vittorio Emanuele II al Museo Civico torinese e trasferito dal Castello del Valentino per essere musealizzato come oggetto artistico dalla straordinaria decorazione scultorea e pittorica. Questo catalogo presenta il vivace dibattito culturale tra gli studi ormai consolidati e le nuove interpretazioni storico-artistiche intorno all’eccezionale manufatto, unico esemplare settecentesco conservato al mondo, oggi finalmente presentato sul palcoscenico della Reggia di Venaria Reale.

SilvanaEditoriale


LA BARCA

SUBLIME



LA BARCA

SUBLIME Palcoscenico regale sull’acqua

a cura di Elisabetta Ballaira Silvia Ghisotti Angela Griseri

SilvanaEditoriale


LA BARCA

SUBLIME Palcoscenico regale sull’acqua Reggia di Venaria, Scuderie Juvarriane dal 16 novembre 2012 Realizzazione Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale in collaborazione con la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino

2a Alleanza Toro Assicurazioni Armando Testa Buffetti Burgo Group Buzzi Unicem Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Torino C.L.N. Compagnia di San Paolo Deloitte & Touche Ersel Exor Fenera Holding Ferrero Fiat Fondazione Crt Garosci Geodata G. Canale & C. Gruppo Ferrero-Presider Intesa SanPaolo Italgas Lavazza Martini & Rossi Megadyne M. Marsiaj & C. Reale Mutua Assicurazioni Reply Rockwood Italia Skf Telecom Italia Unione Industriale di Torino Vittoria Assicurazioni Zoppoli & Pulcher

Coordinamento generale Alberto Vanelli, Direttore Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale Lodovico Passerin d’Entrèves, Presidente Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino

Progetto esecutivo dell’allestimento e direzione lavori Giovanni Tironi con Valeria Plasmati con il supporto di Paolo Armand, Fabio Soffredini Progetto tecnico apparati multimediali Black Engineering

Luigi Quaranta, Presidente Fondazione Centro per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale

Ufficio Conservazione Silvia Ghisotti, Donatella Zanardo

La Peota dei Savoia è stata data in comodato al Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale, Presidente Fabrizio Del Noce, dalla Fondazione Torino Musei, Presidente Maurizio Braccialarghe, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, Direttore Enrica Pagella

Registrar Giulia Zanasi con Patrizia Raineri

L’intervento di restauro è stato promosso e finanziato dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, Presidente Lodovico Passerin d’Entrèves e realizzato dalla Fondazione Centro per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale, Presidente Luigi Quaranta, con l’alta vigilanza e supervisione della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte, Soprintendente Edith Gabrielli

Promozione ed evento inaugurale Sonia Amarena, Silvia Penna in collaborazione con Agenzia Uno

Organizzazione Gianbeppe Colombano, Elisabetta Ballaira, Francesco Bosso, Tomaso Ricardi di Netro Coordinamento organizzativo per la Consulta Angela Griseri, Mario Verdun di Cantogno Direzione artistica, drammaturgia e allestimento Davide Livermore

Consulenza storico-artistica Andrea Merlotti, Clara Goria

Servizi educativi Silvia Varetto con Chiara Urso Amministrazione Francesca Cassano Segreteria Stefania Mina

Comunicazione e Stampa Andrea Scaringella, Elena Alliaudi, Matteo Fagiano, Cristina Negus, Carla Testore con Costantino Sergi, Alessandra Zago Comunicazione per la Consulta Maria Cristina Lisbona Coordinamento della grafica per la comunicazione Domenico De Gaetano con Anna Giuliano, Chiara Tappero Grafica in mostra Bellissimo & the Beast Traduzioni Language Point Multimedia Video Design: D-wok Regia: Davide Livermore & Paolo Gep Cucco Direzione di Produzione: Lisa Baudino


3D Designer: Giuliano Poretti Video Editor: Mami Béthaz Motion Graphics Designer: Eugenio Pini - Rudy Catarinelli Attori: Sara Brusco - Sax Nicosia Dialoghi e voce Personaggi: Alfonso Antoniozzi - Davide Livermore Direttore della fotografia: Alessandro Dominici Stylist: Agostino Porchietto Sound Design: Mario Conte Make up: Marco Piras Ass.te Produzione: Marco Pianelli Ass.te Operatore Video: Claudio Grifalconi Macchinista di scena: Marco Piretto Elettricista di Scena: Paolo Monetti Ass.te riprese subacquee: Matteo Corino Produzione video didattici CCR La Venaria Reale: Alessandro Bovero, Elena Biondi, Stefania De Blasi

Restauro, monitoraggio e documentazione Direzione Lavori Clelia Arnaldi di Balme (Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica di Torino), Mario Epifani e Tiziana Sandri (Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte), Silvia Ghisotti ed Elisabetta Ballaira (Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale), Angela Griseri e Mario Verdun di Cantogno (Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino) Il restauro è stato realizzato dalla Fondazione Centro per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale Presidente Luigi Quaranta

Fotografie dell’inserto Ernani Orcorte

Direttore scientifico Edith Gabrielli

Realizzazione dell’allestimento Nussli Italia s.r.l.

Segretario generale Vincenzo Portaluri

Sicurezza Gianfranco Lo Cigno, Carlo Riontino Assicurazione Studio Pastore Insurance Brokers Trasporti Gondrand Spa Servizi di gestione, accoglienza, sicurezza e pulizie La Corte Reale, Telecontrol, Diamante, Res Nova s.p.a AVTA-Associazione Venariese Tutela Ambiente-Amici della Reggia Restauro della Scuderia e della Citroniera Supervisione architettonica, impiantistica e allestimento Francesco Pernice Francesca Evangelisti, Filippo Ronsisvalle, Giorgio Ruffino, Vincenzo Scarano con Elena Buonfrate, Alberto Miele

Comitato tecnico per il restauro della Peota Pinin Brambilla Barcilon, Stefania De Blasi, Annamaria Giovagnoli, Massimo Ravera, Barbara Rinetti, Annarosa Nicola (Nicola Restauri srl) Restauro Pinin Brambilla Barcilon (direttore), Massimo Ravera (responsabile), Elena Albera, Paola Buscaglia, Marie-Claire Canepa, Roberta Capezio, Michela Cardinali, Marco Demmelbauer, Alessandra Destefanis, Lorenzo Dutto, Gianna Ferraris di Celle, Alessandro Gatti, Paolo Luciani, Soledad Mamani, Stefania Negro, Davide Puglisi, Michela Spagnolo, Valentina Tasso, Sandra Vazquez Perez, Bernadette Ventura, Francesca Zenucchini

Analisi scientifiche Annamaria Giovagnoli (direttore), Tiziana Cavaleri, Paola Croveri, Marco Nervo, Anna Piccirillo (Università degli Studi di Torino), Tommaso Poli (Università degli Studi di Torino) Imaging e produzione video Elena Biondi, Alessandro Bovero, Daniele Demonte, Paolo Triolo Radiografie Luciano e Giuseppe Malcangi (Milano) Documentazione grafica Lorenza Ghionna Documentazione e ricerca storica Stefania De Blasi, Marianna Ferrero Comunicazione Sara Abram

Catalogo Curatori Elisabetta Ballaira, Silvia Ghisotti, Angela Griseri Saggi Clelia Arnaldi di Balme Elisabetta Ballaira Pinin Brambilla Barcilon Giovanni Caniato Alessandra Castellani Torta Paolo Cornaglia Stefania De Blasi Mario Epifani Silvia Ghisotti Clara Goria Andreina Griseri Angela Griseri Gianfranco Gritella Luigi Griva Davide Livermore Giorgio Marinello Andrea Merlotti Anna Rosa Nicola Riccardo Pergolis Francesco Pernice Ugo Pizzarello Massimo Ravera Tomaso Ricardi di Netro Enrico Ricchiardi Carla Enrica Spantigati Lina Urban Franca Varallo Mario Verdun di Cantogno Mercedes Viale Ferrero


Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale

Direttore Alberto Vanelli Segreteria generale Sonia Amarena (Resp.) - staff del Direttore Gustavo Barone Lumaga Alberto Blazina Luca Naccarato Silvia Penna Giuseppe Sprovieri Centro Studi Andrea Merlotti (Resp.) - staff del Direttore Clara Goria Paolo Palumbo con Paolo Cornaglia, Lara Macaluso

Presidente Fabrizio Del Noce Assemblea dei Consorziati Lorenzo Ornaghi, Ministro per i Beni e le Attività Culturali Roberto Cota, Presidente della Regione Piemonte Giuseppe Catania, Sindaco della Città di Venaria Reale Sergio Chiamparino, Presidente della Compagnia di San Paolo Rosaria Cigliano, Presidente della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura Consiglio di Amministrazione Luigi Quaranta (per il Ministero per i Beni e le Attività Culturali) Michele Coppola (per la Regione Piemonte) Giuseppe Catania (per la Città di Venaria Reale, sdv) Enrico Filippi (per la Compagnia di San Paolo) Claudia De Benedetti (per la Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura) Collegio dei Revisori dei conti Giuseppe Mesiano (Presidente) Mario Montalcini Lionello Savasta Fiore

Ufficio Fundraising, Marketing, Promozione e Negoziazione spazi Alberto Vanelli (Resp. ad interim) Sonia Amarena (Coord.) Sabrina Repetto Silvia Schiappa con Paola Francabandiera, Enrico Frutaz, Manuela Gullo Ufficio Comunicazione e Stampa Andrea Scaringella (Resp.) - staff del Direttore Matteo Fagiano Cristina Negus Carla Testore con Elena Alliaudi, Domenico De Gaetano, M. Clementina Falletti, Anna Giuliano, Costantino Sergi, Chiara Tappero, Alessandra Zago Settore Amministrazione e Risorse umane Daniele Carletti (Dir.) Salvatore Buonaiuto Sara Lucchetta Desirée Padula Sonia Pagano Erika Paggioro Germana Romano Giorgio Ruffino con Valentina Darida, Valentina Gariglio, Piero Antonio Pastore, Federica Pulimeno Settore Conservazione Beni Architettonici e impianti Francesco Pernice (Dir.)

Alessandra Del Soldato Vincenzo Scarano con Elena Buonfrate, Francesca Evangelisti, Alessandro Grazzini, Stefano Gullotta, Giorgio Sogno Fortuna Settore Conservazione Giardini Francesco Pernice (Dir.) Maurizio Reggi (Coord.) Alessia Bellone Diego Bernardi Emilio Fugazzi Mariangela Mocciola Area Fruizione e Valorizzazione Gianbeppe Colombano (Dir.) Francesca Cassano Stefania Mina Ufficio Fruizione Reggia e Giardini Francesco Bosso (Resp.) Paolo Armand Antonio Crivelli Carlo Riontino Fabio Soffredini con Loredana Iacopino, Giovanni F. Lo Cigno, Alberto Miele, Filippo Ronsisvalle, Giovanni Tironi Ufficio Conservazione Beni Mobili Silvia Ghisotti (Resp.) Donatella Zanardo Ufficio Attività Espositiva Tomaso Ricardi di Netro (Resp.) Giulia Zanasi con Patrizia Raineri Servizi Educativi Silvia Varetto (Coord.) con Chiara Urso

La Reggia di Venaria Reale è dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO.


Dopo tre secoli di viaggi e peripezie approda alle Scuderie Juvarriane della Venaria Reale la Peota dei Savoia, l’imbarcazione regale di Carlo Emanuele III, l’ultimo Bucintoro originale veneziano del Settecento esistente al mondo. Si tratta di un evento eccezionale per diversi aspetti: innanzitutto per il valore dell’evento in sé, che offre finalmente al pubblico la possibilità di ammirare questo autentico capolavoro, un’opera d’arte unica e assoluta che non poteva più restare “nascosta”. In secondo luogo, perché il Bucintoro, inserito negli spazi del Teatro di Storia e Magnificenza della Venaria Reale, all’interno della coeva Scuderia Grande dello Juvarra, anche autore del progetto decorativo della stessa Peota, arricchisce ulteriormente la Reggia dotandola di un’attrazione imperdibile che si aggiunge (e forse supera) alle altre che già valevano la motivazione di considerarla come meta di visita. Infine, La Barca Sublime non rappresenta una “mostra” tradizionale, ma un evento espositivo permanente che consentirà anche di abbinare a rotazione approfondimenti sul tema del loisir di corte, prendendo spunto proprio da questo straordinario capolavoro. Per tutti questi motivi sono più che mai doverosi e sentiti i ringraziamenti che rivolgiamo alla Fondazione Torino Musei e al Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama, proprietari dell’opera, che ci hanno consentito il privilegio di averla in comodato; alla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino che ha avuto il merito storico di promuovere e finanziare l’intervento di restauro, sbloccando una situazione di stallo che durava da troppi anni di dibattiti sulla sorte della Peota; e alla Fondazione Centro per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale che ha realizzato l’intervento di recupero, dimostrando ancora una volta l’eccellenza delle proprie professionalità. Un grazie, infine, come ormai da tradizione, a tutto il nostro personale del Consorzio per questo ennesimo traguardo conquistato.

Fabrizio Del Noce Presidente del Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale Alberto Vanelli Direttore del Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale


A guardarla dalla prospettiva di oggi, la storia moderna del Bucintoro di Carlo Emanuele III di Savoia, qui ricostruita da Clelia Arnaldi di Balme, ci appare come un caso interessante, se non emblematico, della funzione di tutela esercitata dai musei locali sorti all’indomani dell’Unità d’Italia. Fu il Comune di Torino a scongiurare, nel 1868, il trasferimento dell’imbarcazione all’Arsenale di Venezia e a garantirne il deposito e la conservazione nel Museo Civico, pur con un allestimento minimale, misurato sulla cronica esiguità di risorse in cui si dibatteva la giovane istituzione. Ancora, fu un grande collezionista e conoscitore torinese come Emanuele Taparelli d’Azeglio, direttore del museo dal 1879 al 1890, a evitarne, nel 1884, l’uso sconsiderato come corredo scenografico fluviale della grande Esposizione Generale Italiana del parco del Valentino. Nel suo vibrante appello, scritto quando la delibera della Giunta era già stata approvata dal Consiglio Comunale, egli difendeva le ragioni della qualità dell’opera e le regole per la sua salvaguardia nel tempo, stigmatizzando l’ideologia della spettacolarizzazione a tutti i costi portata avanti dai commissari dell’esposizione, che avevano avuto l’ardire di scrivere che “quella nave potrebbe benissimo rimettersi in uso e calata nel fiume, vogata da otto gondolieri veneti in appropriato costume”. Sarebbe interessante sapere quale fosse, su questo punto, l’opinione di Alfredo d’Andrade, che andava in quei mesi approntando il Borgo Medievale, ma è certo che questo documento potrebbe trovare spazio in una futura storia della tutela in Piemonte, magari accanto al più celebre discorso pronunciato in Senato nel 1859 da Roberto d’Azeglio, padre di Emanuele, a difesa della Regia Galleria. Dal cortile del vecchio museo, il Bucintoro passò nel 1934 alla grande aula di Palazzo Carignano per la mostra del Barocco piemontese organizzata da Vittorio Viale, antefatto dell’altra esposizione epocale, aperta trent’anni dopo; da lì, per mezzo secolo, nella Corte medievale di Palazzo Madama, dove nel frattempo erano state trasferite le civiche raccolte di arte antica. È un segno dei tempi che nel 1982, quando i musei civici sono ormai privi di una vera direzione, l’imbarcazione raggiunga Palazzo Nervi per la mostra mercato dell’antiquariato e che da questo momento si inneschi il capitolo di uno uno dei tanti dibattiti intorno alle nuove collocazioni da dare ai beni museali della città, tanto più sterili quanto più mancava un’autentica volontà politica di ammodernamento, di ampliamento e di potenziamento delle strutture e dei servizi. Nei decenni successivi il destino del Bucintoro si intreccia con le difficoltà dei cantieri legati alla ristrutturazione di Palazzo Madama, fino al momento in cui viene sancita progettualmente, all’interno del gruppo di lavoro coordinato dall’architetto Carlo Viano, la destinazione d’uso degli unici ambienti adatti, per dimensioni, a ospitarlo, ossia la Corte medievale e la sala del Senato. Siamo nel 1999: l’obiettivo è riaprire al pubblico Palazzo Madama e il suo museo riuscendo a documentare estensivamente le collezioni e creando nel contempo nuove aree di servizio all’interno di spazi purtroppo identici a quelli che Vittorio Viale aveva avuto a disposizione nel 1934. Occorreva quindi individuare con precisione le “aree di sacrificio” per garantire al futuro museo un assetto accettabile sia sotto il profilo della proposta culturale, sia per l’organizzazione delle sue attività, in un contesto di fruizione e di attese radicalmente mutato rispetto ai primi decenni del secolo. Il grande cantiere impiantato a Palazzo Madama dalla Città di Torino con il sostegno della Fondazione CRT appariva come un’occasione irripetibile per riaprire, ristudiare e reinterpretare lo scavo archeologico della Corte medievale, già messo in luce dalle ricerche


di Alfredo d’Andrade nel 1884, ma poi sacrificato alle necessità logistiche del percorso viario che fino al 1924 attraversava il palazzo in direzione nord-sud, sulla direttrice dell’antico decumano. Fu così definito, al piano terra, il riassetto di quella formidabile “macchina del tempo” che illustra le stratificazioni di Torino dal I al XVII secolo, attraverso la valorizzazione delle presenze antiche, dei resti medievali e delle possenti volte a crociera volute da Cristina di Francia. Al di sopra della Corte, nel grande salone, si tracciarono i confini dell’unico spazio polivalente di cui il palazzo potesse disporre, a beneficio di quelle attività espositive, divulgative e ricreative che costituiscono l’irrinunciabile motore della vita di un museo moderno, rivolto non solo allo studio e alla conservazione, ma anche e soprattutto all’educazione alla partecipazione. Nel 2000, mentre il Bucintoro prendeva la strada del nuovo deposito attrezzato presso il laboratorio della ditta Nicola di Aramengo, si ponevano, in collaborazione e in accordo con gli uffici statali di tutela, le basi per la sua definitiva collocazione alla Venaria Reale, anch’essa, all’epoca, investita da un grandioso progetto di restauro. A dodici anni di distanza da quelle decisioni e a pochi mesi dal 150° anniversario dell’apertura al pubblico del Museo Civico (4 giugno 1863), ci pare che la lunga marcia per la conservazione e la valorizzazione di questo straordinario e raro esempio di imbarcazione fluviale abbia raggiunto il suo obiettivo senza pregiudicare prospettive diverse e altrettanto importanti. La Corte medievale di Palazzo Madama, ad accesso gratuito, è visitata ogni anno da oltre un milione di cittadini e di turisti; la sala del Senato ha ospitato otto mostre, la ricostruzione dell’aula del primo Senato italiano, oltre a una lunga serie di iniziative culturali e ricreative che hanno contribuito a consolidare l’identità e il ruolo del museo all’interno della sua comunità di riferimento e verso i visitatori italiani e stranieri. Questo grazie anche a un concetto di bene culturale più libero e più civile, che vede nella proprietà giuridica non tanto l’idea di un valore patrimoniale fisso, da difendere con le unghie e coi denti, ma bensì la semplice attribuzione di una responsabilità rispetto al migliore vantaggio che la comunità nel suo insieme ne può trarre. Il restauro e la nuova collocazione del Bucintoro alla Venaria Reale, realizzati grazie al prezioso contributo della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, rappresentano un punto di arrivo e, insieme, un punto di partenza. Il Bucintoro è un capolavoro di sapienza artistica e artigianale, ma, insieme, la testimonianza di una civiltà delle acque che appartiene alla storia dell’identità italiana e che meriterà, dopo due secoli di oblio, di essere riscoperta e ritrovata come importante occasione di ricerca e di progresso.

Enrica Pagella Direttore di Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica Maurizio Braccialarghe Presidente della Fondazione Torino Musei e Assessore alla Cultura Città di Torino


La Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino manifestava, fin dal 2006, l’intenzione di avviare il restauro della Peota Reale. L’iter progettuale si è rivelato lungo e complesso, a partire dalla messa in sicurezza dell’opera secondo precise istruzioni fornite dalla Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte, finalizzata al trasporto dell’imbarcazione dal laboratorio Nicola Restauri di Aramengo al Centro di Restauro di Venaria. Il 14 settembre 2011 la Peota, accuratamente imballata e collocata su un autoarticolato lungo quasi venti metri, affrontava l’avventuroso trasferimento giù dalle colline del Monferrato, scortata dalla Polizia stradale; giunta a Venaria, veniva imbragata e fatta “volare” sopra i tetti per poter essere collocata nei laboratori del Centro di Restauro, pronta per l’intervento. Oggi, a restauro concluso, finalmente viene presentata ed esposta al pubblico nella prestigiosa sede delle Scuderie Juvarriane, valorizzata da un allestimento spettacolare. La Consulta è lieta di rinnovare la collaborazione con il Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale, iniziata nel 2007 con il restauro e l’allestimento nel rondò alfieriano delle statue delle Quattro Stagioni opera di Simone Martinez, provenienti dal Palazzo Reale di Torino e sistemate nella loro collocazione originaria. La Consulta è nata nel 1987 per collaborare con gli Enti e le Istituzioni pubbliche a migliorare la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico della città, all’epoca in forte degrado e bisognoso di interventi. I Soci, dai dodici fondatori, sono oggi trentaquattro, quarantasei interventi realizzati, oltre venti milioni di euro investiti e più di due milioni di ore di lavoro di professionisti e restauratori impiegate. La Consulta ha operato sui principali beni della città iniziando dai restauri, ampliando l’interesse alla valorizzazione e alla fruizione, collaborando ad avviare percorsi progettuali, ad esempio il Polo Reale, promuovendo momenti di riflessione tra le imprese e i responsabili dei beni culturali e delle istituzioni. Le aziende e gli enti soci della Consulta provano affetto e un debito di riconoscenza verso la loro città, consapevoli che i beni storico-artistici sono luoghi di identità attorno ai quali è possibile costruire un concetto dinamico di cittadinanza: appartenere a un territorio ed essere universali come sono i beni culturali.

Lodovico Passerin d’Entrèves Presidente della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino


Uno dei primi lavori di studio e ricerca programmati per l’avvio delle attività del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, all’indomani della sua inaugurazione nel 2005, fu la progettazione di un complesso e articolato intervento sulla Peota Reale che il Museo Civico d’Arte Antica di Torino si stava apprestando ad affidare in comodato alla Reggia di Venaria per un nuovo futuro espositivo. L’allora soprintendente per i Beni Artistici, Storici ed Etnoantropologici e direttore scientifico del Centro, per norma statutaria, si fece promotrice presso il nostro istituto di un programma di lavori propedeutici al futuro intervento che si sarebbe svolto a Venaria, non solo per ovvie ragioni logistiche di vicinanza con la nuova sede museale, ma anche per la natura di ente di formazione e di ricerca multidisciplinare che il Centro stava assumendo. Nel 2007 si avviò infatti il primo corso di Formazione per Formatori che vide il “Progetto Peota” tra le materie di studio di un piccolo gruppo di restauratori specialisti, oggi docenti del corso di laurea in Conservazione e Restauro attivato in convenzione con l’Università degli Studi di Torino. Tra gli esiti di questo primo corso emerse proprio il Progetto di fattibilità per il trasporto, il restauro, la movimentazione in reggia e la manutenzione programmata della Peota Reale. Parallelamente il Centro di Documentazione, formato da storici dell’arte e bibliotecari, veniva incaricato di avviare una ricognizione bibliografica e archivistica per approfondire il tema delle manutenzioni e restauri che avevano riguardato l’opera in modo da comprendere meglio la situazione complessa stratificata di ridipinture, ridorature e rifacimenti che si presentava ai restauratori. Il restauro è terminato dopo un anno esatto dall’arrivo del prezioso manufatto al Centro, nel settembre 2011, con un eccezionale dispiegamento di forze e professionalità (diciotto i restauratori coinvolti, oltre al resto dello staff degli storici dell’arte, a quello dei laboratori di imaging e scientifici). Tutto il Centro ha contribuito alla consegna della “Barca Sublime” nei tempi prefissati e con la certezza del buon esito delle operazioni grazie all’assiduo e scrupoloso confronto di un’allargata direzione lavori e grazie all’apporto scientifico offerto dagli studiosi dell’opera che, su nostro invito, si sono confrontati durante il convegno internazionale organizzato al Centro con il contributo della Compagnia di San Paolo nel marzo scorso. Il restauro della Peota Reale è stata anche la prova del perfetto funzionamento dell’anima formativa del nostro istituto perché a oggi due sono state le tesi di laurea avviate all’interno del Corso interfacoltà in Conservazione e Restauro dell’Università degli Studi di Torino i cui studenti sono stati accolti nella squadra dei restauratori, coordinata dalla loro docente-restauratrice del Centro, e che hanno avuto il privilegio di assistere e contribuire alla riscoperta delle cromie e decorazioni originali della barca. Ringraziamo tutti coloro che hanno contribuito all’affidamento di questo restauro al CCR che può così dimostrare sul campo la sua professionalità, contribuendo in maniera diretta e operativa a far rivivere un oggetto bellissimo, portatore di una parte di “sogno” che nella vita attuale, permeata di tecnologia e scientificità, crediamo sia importante. Il costo, la difficoltà di trasporto all’epoca della sua costruzione, la bellezza dimostrano a nostro avviso che i Savoia erano sensibili al bello e aperti alle manifestazioni di cultura, in chiara controtendenza con la definizione di “rudi montanari”.

Luigi Quaranta Presidente della Fondazione Centro Conservazione e Restauro dei Beni Culturali La Venaria Reale


Sommario

I Savoia e la Serenissima 17

“Colle armi e col consiglio”. Note su Savoia e Repubblica di Venezia in età moderna Andrea Merlotti

27

Da Venezia a Torino. Influenze dell’architettura veneta nel Piemonte sabaudo tra Cinquecento e Settecento Paolo Cornaglia

35

Tra Venezia e Torino: l’Opera in viaggio Mercedes Viale Ferrero

43

Maestri veneti alla corte sabauda tra Cinque e Settecento Clara Goria

53

Il silenzio delle fonti. Sulle tracce della Peota fra Torino e Venezia Giovanni Caniato

65

Barche cerimoniali a Venezia Lina Urban

73

La peota veneziana. Origine e evoluzione di un mezzo di comunicazione e trasporto nell’era preindustriale Riccardo Pergolis, Ugo Pizzarello

La Peota Reale: studi a confronto per committenza sabauda, cerimoniale e apparati decorativi 81

Una sfida, altre performances per la Peota Andreina Griseri

89

La Peota e Torino: uno straordinario arrivo veneziano per le arti di corte Carla Enrica Spantigati

99

Le feste sull’acqua Franca Varallo

107

“Chi segue gli altri non gli va mai innanzi”. Una regata sul Po per la corte di Carlo Emanuele I e le allegorie del mito per un vascello reale di età juvarriana Gianfranco Gritella

121

La committenza di Vittorio Amedeo II: aspetti giuridico-economici e costruttivi Giorgio Marinello


127

I due volti del Bucintoro sabaudo Alessandra Castellani Torta

137

Da Venezia a Torino risalendo il Po Luigi Griva

145

La Peota imbandierata Enrico Ricchiardi

149

Il viaggio del re. Cerimoniali e significati nei viaggi dei Savoia nel Settecento Tomaso Ricardi di Netro

154

La Peota dei Savoia La Peota Reale: conservazione, restauro e valorizzazione

173

La Peota Reale al Museo Civico di Torino Clelia Arnaldi di Balme

183

La Peota Reale e la tutela Mario Epifani

187

Restauro e valorizzazione: l’impegno della Consulta per la Peota Reale Angela Griseri e Mario Verdun di Cantogno

191

La conservazione della Peota in laboratorio Anna Rosa Nicola

197

Il restauro del Bucintoro dei Savoia Pinin Brambilla Barcilon, Stefania De Blasi, Massimo Ravera

205

La Scuderia Juvarriana Francesco Pernice

211

La Peota alla Reggia di Venaria: conservare e custodire Silvia Ghisotti

217

Allestire la Peota dei Savoia alla Reggia di Venaria Elisabetta Ballaira con interventi di Davide Livermore

223

Bibliografia essenziale



I Savoia e la Serenissima



“Colle armi e col consiglio”. Note su Savoia e Repubblica di Venezia in età moderna Andrea Merlotti Il restauro e l’esposizione del Bucintoro di Carlo Emanuele III riportano all’attenzione un’opera che – al di là del suo senso più proprio di manufatto ludico e del suo valore artistico – costituisce un simbolo raro e prezioso delle relazioni che fra Quattro e Settecento legarono lo Stato sabaudo e la Repubblica di Venezia. Queste, in realtà, nonostante diversi lavori eruditi realizzati per lo più nella seconda metà dell’Ottocento, attendono d’essere ricostruite come meriterebbero1. Lasciando a Paolo Cornaglia e Clara Goria, nelle pagine che seguono, l’esame dei rapporti artistici e architettonici, dedicherò queste poche pagine ad alcune considerazioni sulle vicende politico-militari dei due Stati nell’età moderna e sul modo in cui esse si sono riflesse nella successiva storia d’Italia. Volendo restare in ambito nautico, infatti, il Bucintoro di Carlo Emanuele III trova un ideale pendant – artistico e storico – nella Scalea reale con cui Vittorio Emanuele II entrò a Venezia nel 1866, immortalato in un noto dipinto di Induno, oggi al Museo del Risorgimento di Milano. Lo Stato sabaudo e la Repubblica di Venezia furono certo fra i principali attori della storia d’Italia fra Cinque e Settecento2. La progressiva decadenza del potere del Papato, giunta a compimento già a metà Seicento; il passaggio alla Spagna del Ducato di Milano e del Regno di Napoli (che nel Basso Medioevo avevano svolto una dinamica politica d’espansione); l’incapacità – o l’impossibilità – del Granducato di Toscana, della Repubblica di Genova e ancor più dei piccoli ducati padani (artisticamente rilevanti, ma poli-

ticamente insignificanti) di sviluppare un’azione indipendente: tutti questi elementi avevano lasciato libero campo ai due Stati, unici in grado di svolgere una politica autonoma – se pur entro limiti ben definiti – nel quadro prima della pax hispanica del Cinque-Seicento e poi dell’equilibrio asburgico-borbonico nel XVIII secolo3. Sia lo Stato sabaudo sia la Repubblica di Venezia fondarono tale autonomia sul loro status di potenze militari, uniche realtà della Penisola in grado di reagire all’immagine dell’italiano militarmente imbelle affermatasi nella cultura europea dopo la crisi delle Guerre d’Italia fra XV e XVI secolo. Potenza di mare l’una, di terra l’altro, entrambi svilupparono una politica di rappresentazione che, attraverso pittura, letteratura e musica (quest’ultima soprattutto nel caso veneziano), diffuse in Italia e in Europa una serie di miti destinati a durare nei secoli: la Serenissima come baluardo dell’occidente cristiano contro il turco; il Piemonte come Stato guerriero, arroccato sui monti delle Alpi, capace, pur piccolo, di confrontarsi alla pari con le grandi potenze del continente. Eroi veneziani come Marco Bragadin e il doge in armatura Francesco Morosini ebbero così i propri contraltari sabaudi in sovrani in armi come Emanuele Filiberto e Vittorio Amedeo II e in militari pronti al sacrificio come il soldato Pietro Micca o il più fortunato generale Leutrum. Diverse poi erano state le figure che avevano militato in entrambi gli eserciti: in particolare esponenti della nobiltà di Terraferma, che, entrati al servizio dei duchi di Savoia, erano anche divenuti loro feudatari; mi riferisco a per-

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2. Pianta dell’assedio di Candia da parte delle truppe veneto-sabaude, in Giovanni Battista Rostagno, Viaggi del Marchese Ghiron Francesco Villa in Dalmatia e Levante, Sinibaldo, Torino 1668. Torino, Archivio di Stato di Torino, Biblioteca antica, F.IX.40 1. Anonimo, Memoria sepolcrale del marchese Alessandro del Monte presso il monte dei Cappuccini a Torino, circa 1655

sonaggi come il vicentino Guido Piovene († 1590), per decenni accanto a Emanuele Filiberto che lo volle governatore di Torino, poi creato conte di Dros e infine morto al servizio della Serenissima mentre era governatore di Candia; il bergamasco Francesco Martinengo Colleoni (1548-1622), comandante generale della cavalleria di Emanuele Filiberto, gran scudiere di Savoia nel 1584 e marchese di Pianezza (vicino a Torino), poi comandante veneziano contro gli uscocchi; il veronese Alessandro del Monte (1596-1653), generale della cavalleria sabauda e marchese di Farigliano nel 1650, morto combattendo per i Savoia all’assedio di Trino (fig. 1). Ma vi erano anche italiani e stranieri – soprattutto tedeschi – che passavano al servizio dell’uno e dell’altro Stato. Ricordo solo i casi del ferrarese Ghiron Francesco Villa († 1670), comandante della cavalleria sabauda e fra 1665 e 1668 a capo delle truppe congiunte sabaudo-venete inviate alla guerra di Candia4 (fig. 2), e del tedesco Johann Matthias von der Schulenburg (1661-1746), colonnello di Vittorio Amedeo II, 18

poi del principe Eugenio e infine comandante veneziano di Corfù, vincitore nel 1716 dell’assedio contro i turchi, cui Vivaldi dedicò l’oratorio Juditha triumphans, dove i personaggi biblici di Giuditta e Oloferne rappresentavano Venezia e l’Impero Ottomano. Furono diversi anche i piemontesi che in varie epoche militarono in oriente agli ordini della Serenissima. Fra essi – cosa rara e di per sé indicativa – anche un Savoia: il principe Filippo di Savoia Soissons (16591693), fratello maggiore del principe Eugenio (che come lui aveva rifiutato il destino di abate al quale lo avrebbe voluto indirizzare la famiglia), che fra 1684 e 1685 fu ufficiale nella flotta comandata da Ambrogio Bembo5. In occasione della sua morte precoce, il “Mercure Galant” ricordò che “avoit servi avec glorie dans l’armée des venitiens contre les turcs”6. Questa fitta rete di militari attivi fra i due Stati – di cui ho ricordato solo alcuni dei personaggi più i vista, ma che riguardava, in realtà, centinaia di persone – originava a cascata una rete di rapporti e conoscenze che andavano ben oltre il


solo terreno dell’esercito. Basti pensare ai tanti nobili di Terraferma che nel Settecento inviavano i figli a studiare e formarsi nelle aule della curia e dell’Accademia Reale di Torino. Anche in questo caso, fra i tanti esempi possibili, mi limito a ricordare che se il marchese Pietro Emanuele Martinengo chiese nel 1728 l’intervento di Juvarra per il palazzo familiare di Brescia fu in virtù dei suoi anni trascorsi alla corte di Vittorio Amedeo II e che esponenti dei Martinengo Colleoni risultano fra gli studenti dell’Accademia Reale ancora negli anni sessanta del Settecento. Tornando alle vicende politiche dei due Stati, è importante notare che la potenza militare della Serenissima si concluse quando ebbe inizio quella del Piemonte sabaudo, come in un ideale, seppur certo non voluto, passaggio di consegne. Da Emanuele Filiberto (duca dal 1553 al 1580) sino, infatti, alla reggenza di Maria Giovanna Battista (1675-1684) l’esercito dei duchi di Savoia fu un formidabile strumento di controllo interno, ma certo non una macchina bellica capace di resistere agli attacchi di Francia e Spagna. Al contrario, le armate “da mar” della Serenissima furono ancora in grado, se non di garantire, almeno di tentare, con non poche vittorie, la difesa dei possessi in Dalmazia e in Grecia. La perdita di Candia nel 1669, dopo una guerra ventennale, fu parzialmente vendicata vent’anni dopo con la conquista della Morea, sancita dalla pace di Carlowitz (1699). Fu quella l’epoca dell’ultimo grande eroe militare veneziano, il già citato Morosini, incoronato doge dai suoi soldati durante un assedio in terra ottomana (fig. 3). Nei settantacinque anni dal 1643 (inizio della guerra di Candia) al 1718 (pace di Passarowitz) la Serenissima combatté quattro guerre contro l’Impero Ottomano e gli anni di pace furono non più di venti (cui va aggiunto un decennio di neutralità armata). Una condizione di guerra quasi permanente che, fra gli Stati italiani, è paragonabile solo a quella del Ducato il Savoia, che nello stesso periodo fu in guerra anch’esso per quarant’anni. Fu a cavallo fra Sei e Settecento che risultò chiara la crisi militare della Serenissima e il

3. Anonimo, Trionfo di Francesco Morosini, post 1687. Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo

parallelo affermarsi dello Stato sabaudo come principale potenza della Penisola. Per comprenderlo basta notare la profonda diversità di due paci quasi contemporanee: quella di Utrecht del 1713 e quella di Passarowitz nel 1718. Nella prima Vittorio Amedeo II divenne re di Sicilia (poi, fra 1718 e 1720, sostituita con la Sardegna), inserendo stabilmente il suo Stato nel novero delle potenze europee; nella seconda la Serenissima, nonostante le tante battaglie e le numerose vittorie dei decenni precedenti, dovette prender atto non solo che il suo impero era finito, ma che ormai la principale potenza italiana era lo Stato sabaudo. Se ne era dovuto accorgere anche l’inviato veneziano a Utrecht, quel Carlo Ruzzini (1653-1735), destinato a diventare doge nel 1732, che era attonito per l’attivismo degli ambasciatori di Vittorio Amedeo II, sovrano “sempre disposto a cose nuove et a nuovi pensieri”, a differenza degli altri principi italiani “stanchi”, “et timorosi della ventura”. Venezia fu apertamente ostile alla cessione della Sicilia al duca, perché questa realizzava il vecchio sogno sabaudo di primeggiare sugli altri Stati italiani. Il suo progetto, al contrario, era che la Sicilia andasse all’Impero e che questo in compenso restituisse Mantova ai Gonzaga, così da riportare l’Italia più o meno all’assetto del 1700. D’altra parte, gli scopi della politica estera di Venezia e Torino 19


non potevano essere più diversi. La prima aveva a cuore unicamente la conservazione dello status quo; il secondo, al contrario, aveva bisogno della guerra per ridefinire a proprio favore i rapporti di forza nella Penisola. Poiché la condotta del governo sabaudo si sposava con la necessità delle grandi potenze europee, la politica di Venezia era inevitabilmente destinata al fallimento. Indicativa della considerazione di cui ormai Venezia godeva, la risposta che diede il segretario di Stato inglese, Lord Bolingbroke, alle sue richieste: “pour une république qui ne sert à rien, l’on ne veut pas négliger les intérêts d’un allié aussi nécessarie que le duc de Savoie, ni se brouiller avec lui”. L’ambasciatore toscano Rinuccini, ancor più chiaramente, esprimeva un giudizio che, pur riferito al secondo decennio del Settecento, si può estendere senza difficoltà a tutto il secolo: “un tempo nel quale nessuno teme o spera niente dalla Repubblica e nel quale molti temono o sperano qualche cosa dalla Casa di Savoia”7. Perché uno Stato conti qualcosa – allora come oggi – deve avere qualcosa da offrire, anche la paura, ma Venezia appariva allora esaurita e, di conseguenza, inutile. Restava, certo, il mito politico della Repubblica, su cui tanto si era scritto e tanto si sarebbe ancora riflettuto8. Ma col passare dei decenni anche questo perse fascino: altri erano i modelli di repubblica che si stavano imponendo. Con la nascita degli Stati Uniti, Venezia diventò, anche per i più conservatori fra i riformatori, un modello superato. Non che nella Serenissima mancassero forze riformatrici di prim’ordine. Franco Venturi le studiò in quello che era destinato a esser il suo ultimo lavoro9. Ma esse poco poterono fare per rinnovare uno Stato ormai votato per scelta all’immobilismo e al declino. Nel Settecento Stato sabaudo e Repubblica di Venezia ebbero una politica opposta: il primo monetizzava il proprio intervento; la seconda la propria neutralità. Solo che il primo aveva un mercato, la seconda no. Per questo, se Utrecht fu per il primo un punto di arrivo e insieme di partenza, Passarowitz fu per la seconda l’inizio della fine. Da allora, infatti, Venezia entrò in un 20

lungo periodo di pace e progressiva marginalizzazione dalla politica, in cui, come scrisse Sismondi, la Serenissima trovò “la maniera di sottrarsi intieramente alla storia”. Ma in fondo, come ha notato con la consueta sensibilità, Piero Del Negro, la decadenza militare di Venezia non era certo iniziata allora: gli stessi “eroici furori delle guerre contro il turco” erano serviti, infatti, “a mascherare quella debolezza militare della Repubblica, che si sarebbe manifestata agli occhi di tutti nel Settecento”10. Certo alla fine sia Torino sia Venezia dovettero piegarsi alle armate della Francia rivoluzionaria, ma proprio quanto accadde allora mostra la differente realtà dei due Stati. Per vincere lo Stato sabaudo furono necessari quattro anni di guerra, il ricorso al terrorismo interno (finanziando congiure e insurrezioni) e la violazione della neutralità della Repubblica di Genova (unica mossa possibile per aggirare il poderoso sistema delle fortezze difensive sabaude); inoltre la Francia, almeno inizialmente, preferì cercare di trasformare lo Stato sabaudo in un alleato e, se Carlo Emanuele IV avesse avuto anche solo una vaga somiglianza con Vittorio Amedeo II, per il suo regno sarebbe stata possibile una storia ben diversa: solo dopo oltre due anni, e dopo aver eroso lo Stato dall’interno, il governo di Parigi poté procedere a un’annessione che, almeno sino alla pace di Amiens, tuttavia, parve poter esser ancora reversibile. Del tutto diversa – com’è noto – la vicenda della Repubblica, caduta senza combattere e dove, anzi, il governo di Venezia in diversi casi punì, invece di sostenere, coloro che cercarono di resistere. Fu così che, alla Restaurazione, lo Stato sabaudo, che mai aveva accettato di riconoscere Napoleone, fu riportato in vita, ingrandito con le reliquie dell’altra repubblica marinara. Venezia, invece, non risorse; unita alla Lombardia in uno Stato che era una vera e propria invenzione, fu “capta”, ma non “coepit ferum victorem”. Sebbene le dichiarassero entrambe capitali del Lombardo-Veneto, gli Asburgo privilegiarono Milano rispetto a Venezia, ponendovi la sede del vicereame. Non solo per il lungo rapporto di


sudditanza della città lombarda verso di loro, ma per la lucida consapevolezza che a fronte della gloria, del passato, della fierezza della millenaria capitale della Serenissima, ben poco poteva opporre il capoluogo di una provincia periferica dell’Impero, che negli ultimi tre secoli non aveva mai svolto alcuna politica propria, ma era stata solo sede di viceré con diverse casacche. Lo aveva già capito Napoleone. Dovendo scegliere su quale città puntare, per così dire fra Torino, Milano e Venezia la sua scelta era caduta sulla seconda. Il passato di capitali di Torino e Venezia ne faceva città sulla cui fedeltà si poteva contare sino a un certo punto. Esse erano state per secoli sedi di governi, magistrature e burocrazie, dove s’erano formati non solo ceti dirigenti autoctoni, ma anche coscienze semi-nazionali. Non così a Milano, poco più di un capoluogo, il cui passato di capitale risaliva ai secoli del Medioevo. Proprio per questo Napoleone scelse la città lombarda come sua capitale per il Regno d’Italia11. Come ha ben notato Francesco Bartolini, l’epoca napoleonica fu centrale nell’elaborazione d’un nuovo ruolo e d’una nuova immagine di Milano, che assume allora un’“inedita funzione guida nella vita politica italiana”12. Non a caso nel Risorgimento, messa definitivamente fuori gioco Venezia dalla “catastrofe” del 1798, non furono poche le forze che a Milano avrebbero voluto che essa fosse la capitale d’Italia e non Torino: lo si vide bene prima nel 1848 e poi, soprattutto, fra 1860-1861, quando Milano rivendicò più volte i suoi diritti a esser capitale, contro Torino, accusata di esser città di corte. Solo gli eventi del 1864 e del 1870 fecero sì che la contrapposizione fra Milano e Torino si trasformasse in quella fra Milano e Roma, con la prima assai abile a elaborare una serie di miti, a partire da quello dell’invenzione del titolo di “capitale morale”13. Ma, questa è un’altra storia. Certo se Venezia e la sua Repubblica non fossero state cancellate e l’Ottocento avesse visto sventolare ancora la bandiera della Serenissima, allora la storia del nostro Risorgimento sarebbe certo stata diversa. In fondo ancora a metà Seicento, quando lo Stato sabaudo era ridotto a vas-

4. Patenti di Luigi Mocenigo, doge di Venezia, per quali dichiara il duca Emanuel Filiberto, Carlo, di lui figlio, e suoi discendenti nobili e patrizi veneziani e del Consiglio maggiore, 22 luglio 1574, Torino, Archivio di Stato di Torino, Mat. pol. rapp. est., Venezia, mazzo 1, f. 3 (ma rectius Museo storico)

sallo della Francia del re Sole e Venezia era impegnata nella ventennale guerra di Candia, ben pochi avrebbero immaginato il diversi destino dei due Stati nel secolo successivo. Alla fine del Settecento, ragionando sui rapporti fra le due potenze italiane, Giovan Francesco Galeani Napione, uno dei più importanti studiosi e funzionari sabaudi dell’epoca, rilevò che Emanuele Filiberto “soleva compiacersi […] che non vi fosse esempio – e anche dopo di lui mai non è stato – che i nostri sovrani abbiano avuto guerra colla Repubblica di Venezia; com’era ben conveniente che seguir dovesse tra il più antico Principato e la più antica Repubblica d’Italia, che da tanto tempo ne sostengono colle armi e col consiglio la libertà e la gloria”14. Emanuele Filiberto e suo figlio Carlo Emanuele I cercarono sempre di avere ottimi rapporti con Venezia. Pochi sanno, per esempio, che fra Cinque e Seicento era tradizione che il principe di Piemonte fosse accompagnato al fonte battesimale anche da un rappresentante della Serenissima e da uno del papa. Così fu, per esempio, per Carlo Emanuele I e per Filippo Emanuele. La Serenissima, poi, volle accogliere il duca e i suoi discendenti nelle fila del proprio patriziato, approfittando della visita che il duca compì a Venezia nel 1574, per incontrate Enrico III di Valois15 (fig. 4). I Savoia tenevano a tale titolo: nel21


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5. Gerolamo Righettino, Carlo Emanuele I “Reipublicae Venetae filius”, particolare da Idem, Pianta della città di Torino,1583. Torino, Archivio di Stato di Torino, Biblioteca antica

6. Ludovico II di Savoia e Carlotta di Lusignano, re e regina di Cipro, da Filiberto Pingone, Imagines Ducum Sabaudiae,1572. Torino, Archivio di Stato di Torino, Corte, cc. 78v-79

la pianta di Torino che Carlo Emanuele I fece realizzare nel 1583 al frate agostiniano Gerolamo Righettino, per esempio, volle esser raffigurato nelle vesti di “Sanctae Romanae Ecclesiae Defensor”, di “Christianae Religionis Protector”, di cavaliere francese del Santo Spirito e, appunto, di “Reipublicae Venetae filius”16 (fig. 5). All’epoca, vi fu anche chi volle vedere nel cimiero con il leone alato, adottato dai Savoia per il loro stemma nel XIV secolo, lo stesso di San Marco, il cui uso sarebbe stato concesso ai conti di Savoia dalla Serenissima Venezia in segno di riconoscenza o dell’impresa di Rodi di Amedeo V o della mediazione di Amedeo VI per le paci con Padova e con Genova (una tesi, peraltro, poi rigettata da Cibrario e Promis nella loro opera sui Sigilli dei principi di Casa Savoia del 1834). Carlo Emanuele I non andò a Venezia, ma vi mandò ben tre dei suoi cinque figli: Vittorio Amedeo (futuro duca) ed Emanuele Filiberto (II) nell’aprile 160817, Tomaso di Carignano nel 1610. Il principale motivo di scontro fra i due Stati era il titolo di re di Cipro, l’isola contesa fra Carlotta di Lusignano, ultima della dinastia sovrana che vi aveva regnato per secoli, e il suo fratellastro Giacomo. Carlotta, appoggiata dal papa, aveva sposato Luigi di Savoia con cui aveva regnato per qualche anno, venendo poi cacciata dal fratello, sostenuto da Venezia, che

aveva sposato Caterina Cornaro. Le due donne avevano poi lasciato i propri diritti rispettivamente ai duchi di Savoia e alla Repubblica di Venezia (fig. 6). Essendo Cipro stata poi conquistata dai turchi, si trattava di un titolo virtuale, che però conferiva a chi lo possedeva l’ideale preminenza sui sovrani d’Italia. Vittorio Amedeo I nel 163218 assunse il titolo regio, provocando la rottura dei rapporti diplomatici fra i due Stati. Questi ripresero, per breve tempo, una trentina d’anni dopo: quando le truppe piemontesi si unirono a quelle veneziane e, sotto il comando del citato marchese Villa, combatterono contro i turchi a Candia. Lo stesso Carlo Emanuele II si recò nel febbraio 1667, in incognito con il titolo di marchese di Susa, per incontrarsi con la sorella Adelaide, elettrice di Baviera19. I rapporti diplomatici fra i due Stati si interruppero nuovamente qualche anno dopo, ma ciò non impedì a Vittorio Amedeo II di trascorrere in laguna l’intero febbraio del 1687 (sotto il titolo di conte di Tenda) ufficialmente per il Carnevale, ma in realtà per vedere il cugino Max Emanuel di Baviera e il principe Eugenio e stringere con loro alleanza contro la Francia20. Anche se le relazioni ufficiali ripresero solo negli anni quaranta del Settecento, con l’ambasciata a Torino di Marco Foscarini21, già dopo Utrecht un agente piemontese a Venezia permise la ripresa dei contatti.


7. Jacques-Philippe Le Bas su disegno dei fratelli Galliari, Tempio di Ercole, scena II, da La Vittoria d’Imeneo, testo di Giuseppe Bartoli, musica di Baldassarre Galuppi, 1750. Milano, Museo Poldi Pezzoli

Dalla fine del Cinquecento e per tutto il Settecento lo Stato sabaudo ebbe, del resto, stretti rapporti culturali con Venezia. Lasciando al saggio di Clara Goria l’analisi del terreno delle arti figurative, mi limiterò qui ad alcuni appunti sparsi sul settore letterario e musicale. Considerando la sede dell’esposizione, non posso non ricordare che nel dicembre 1673, in occasione delle feste di San Nicola, proprio nella Reggia di Venaria fu rappresentata l’Atalanta, su musiche di Jan Sebencic (Giovanni Sebenico), considerato il fondatore della moderna musica croata, e allestito da registi veneziani. In quegli anni non fu l’unica volta che ciò accadde e, anzi, si può dire che l’opera italiana sia arrivata a Torino tramite Venezia. Ma sia Vittorio Amedeo II sia Carlo Emanuele III si servirono spesso di uomini di cultura provenienti dalla Serenissima. Scipione Maffei, per esempio, non solo possedeva feudi in Piemonte (dove si era trasferita una linea della sua famiglia), ma fu assai legato a Vittorio Amedeo II, con il quale collaborò alle ri-

forme dell’Università di Torino, organizzandone anche il lapidario22. Da Padova provenivano invece invece Giuseppe Pasini (1687-1770) e Giuseppe Bartoli (1717-1788), alcuni dei principali docenti della stessa Università: Pasini fu dal 1745 alla morte prefetto della biblioteca e fu a lui che Carlo Emanuele III affidò la stesura delle memorie ufficiali del suo regno; Bartoli fu creato “regio antiquario” e operò anche come poeta di corte. In questa veste a lui si deve, fra l’altro, il testo de La vittoria d’Imeneo, rappresentata al Teatro Regio nel 1750 in occasione delle nozze di Vittorio Amedeo III e Maria Antonietta di Borbone Spagna, musicata dal buranese Baldassarre Galuppi, uno dei musicisti di maggior successo nella capitale sabauda (fig. 7). Ad assistere alle nozze fu anche Giacomo Casanova, in uno dei suoi tanti soggiorni torinesi (non meno di sette). Lo scrittore e avventuriero veneziano apprezzava particolarmente le bellezze della città, delle sue donne e della sua cucina. Se le dame della corte sabauda lo avevano 23


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“sorpreso per la loro bellezza” tanto quanto quelle della corte di Francia “per la loro bruttezza”, Torino era la città d’Italia in cui “le donne avevano tutte le doti che l’amore può desiderare”. Inoltre, raccontava a proposito del suo viaggio del 1763, “ho sempre creduto che da nessun’altra parte si mangi così bene come a Torino”. Certo per un veneziano, Torino rappresentava una realtà quanto mai differente da quella della sua patria. Goldoni, estimatore della città non meno di Casanova, nell’introduzione alla commedia La donna volubile (1751), scrisse: “Torino è una città che onora infinitamente la nostra Italia, quantunque situata, dirò così, sul margine della Francia, non poche abbia adottate delle sue lodevoli costumanze, onde avendo essa il comodo di potersi scegliere delle due nazioni il meglio, ha formato un sistema degno di ammirazione e di lode”. Il tema di Torino come città con un carattere “misto” di italiano e francese, torna ancora nei Mémoires. In essi, anzi, composti dopo vent’anni di soggiorno a Parigi, Goldoni

scriveva che i torinesi “partecipando assai dei costumi ed usi dei Francesi, […] vedendo arrivare nella lor patria un milanese, un veneziano o un genovese hanno perfino l’abitudine di dire: Ecco un Italiano”. E quanti torinesi nelle commedie goldoniane, basti pensare ai caratteri di Beatrice e Placida del Servitore di due padroni e della Bottega del caffè, ma anche una commedia ambientata a Vercelli – L’osteria della posta – con nobili piemontesi e lombardi a confronto. Ma il rapporto fu anche in senso inverso. Si pensi al torinese Giuseppe Baretti, che fra 1763 e 1765 pubblicò a Venezia il quindicinale “La frusta letteraria”, il primo giornale italiano di critica23. Maffei, Galuppi, Casanova, Goldoni, Baretti: gli esempi potrebbero continuare a lungo, ben oltre lo spazio di queste poche pagine, a testimoniare un rapporto continuo, vario e proficuo. Di tutto questo mondo, il Bucintoro, con le tante barche che lo hanno preceduto e seguito sulla rotta Torino-Venezia, ora in un senso ora in un altro, può ben esser preso a simbolo.

1 Fra i principali ricordo C. Biliotti, Dei rapporti della Repubblica di Venezia con la Casa di Savoia, Naratovich, Venezia 1872; G. Claretta, Delle principali relazioni politiche fra Venezia e Savoia nel secolo XVII, in “Nuovo archivio veneto”, IX, 1895, pp. 252-324; A. Segre, Delle relazioni tra Savoia e Venezia da Amedeo VI a Carlo II, in “Memorie della Reale Accademia delle scienze di Torino”, s. II, XLIX, 1900, pp. 1-46; Idem, Emanuele Filiberto e la repubblica di Venezia (1545-1580), in “Miscellanea di storia veneta”, n.s., VII, 1901, pp. 350-356; Idem, Alcu-

ni documenti sulle relazioni tra Savoia e Venezia nel secolo XVI, in “Nuovo archivio veneto”, n.s., t. III, 1902; C. Contessa, Per la storia della decadenza della diplomazia italiana nel secolo XVII. Aneddoti di relazioni veneto-sabaude, in “Miscellanea di storia italiana”, 1906, pp. 63208. 2 La bibliografia sui due stati è, ovviamente, amplissina. Rimando qui solo a due opere d’insieme in cui si può trovare ampia bibliografia: P. Merlin, C. Rosso, G. Symcox, G. Ricuperati, Il Piemonte sabaudo. Stati e territori in età


moderna, Utet, Torino 1994; G. Gullino, Storia della Repubblica Veneta, La scuola, Brescia 2010. 3 Per una lettura sintetica della storia italiana sei-settecentesca rimando ai sempre utili D. Sella, L’Italia del Seicento, Laterza, Roma 2000; D. Carpanetto e G. Ricuperati, L’Italia del Settecento, Laterza, Roma 1986; R. Greco, M. Rosa (a cura di), Storia degli antichi Stati italiani, Laterza, Roma 1996; A. Spagnoletti, Le dinastie italiane nella prima età moderna, il Mulino, Bologna 2003. 4 G.B. Rostagno, Viaggi [del] signor marchese Ghiron Francesco Villa in Dalmazia e Levante con la distinta relatione dei successi di Candia per il tempo che fu dal medesimo difesa in qualità di generale dell’infanteria della Serenissima Repubblica di Venezia, Sinibaldo, Torino 1668; L. Dalmasso, I piemontesi alla guerra di Candia (16641669), in “Miscellanea di storia italiana”, s. III, XIII, 1906, pp. 1-71. 5 M. Foscarini, Istoria della Repubblica Veneta, in Degl’istorici delle cose veneziane li quali hanno scritto per pubblico decreto, Lovisa, Venezia 1722, t. X, p. 165. 6 “Mercure Galant”, ottobre 1693, p. 71. 7 A. Bozzola, Venezia e Savoia al Congresso di Utrecht (17121713), in “Bollettino storico-bibliografico subalpino”, XXXV, 1933, pp. 246-287. 8 Sul mito di Venezia si vedano, da prospettive assai diverse, R. Pecchioli, Dal “mito” di Venezia all’“ideologia americana”: itinerari e modelli della storiografia sul repubblicanesimo dell’età moderna, Marsilio, Venezia 1983; E. Crouzet-Pavan, Venezia trionfante: gli orizzonti di un mito, Einaudi, Torino 2001. 9 F. Venturi, Settecento riformatore, vol. V, L’Italia dei Lumi, t. II, La Repubblica di Venezia, Einaudi, Torino 1990. 10 P. Del Negro, Il tramonto della tradizione militare italiana: il caso veneziano tra Sei e Settecento, in Lo spirito militare degli Italiani, a cura di P. Del Negro, atti del seminario del Centro interuniversitario di studi militari (Padova, 16-18 novembre 2000), Università di Padova, Padova 2002, pp. 23-32. 11 Su Milano napoleonica esiste un’ampia letteratura. Accanto al classico F. Della Peruta, Esercito e società nell’Italia napoleonica, Franco Angeli, Milano 1988, rinvio al volume Armi e nazione. Dalla Repubblica Cisalpina al Regno d’Italia (1797-1814), a cura di Maria Canella, Franco Angeli, Milano 2009, che riporta un’aggiornata bibliografia. 12 F. Bartolini, Rivali d’Italia. Roma e Milano dal Settecento ad oggi, Laterza, Roma 2006. Fondamentale sulla storia di Milano e Venezia nella Restaurazione resta M. Meriggi, Il Lombardo-Veneto, Utet, Torino 1987. Dello stesso si veda anche Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), il Mulino, Bologna 1983. 13 Su questo curioso titolo di cui i milanesi si sono più volte autoinvestiti (e che, invero, contrasta pesantemente con il ruolo di diversi suoi politici nella storia dell’Italia unita) rinvio ai saggi raccolti in Milano 1848-1898: ascesa e trasformazione della capitale morale, a cura di R. Pavoni e C. Mozzarelli, atti del convegno (Milano, 26-28 novembre 1998), Marsilio, Venezia 2000, 2 voll.; e soprattutto a F. Bartolini, Rivali d’Italia. Roma e Milano dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2006.

G.F. Galeani Napione, Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, Con un discorso intorno alla storia del Piemonte, Balbino e Prato, Torino 1791. 15 P.A. Paravia, Sul patriziato veneto dei Reali di Savoia e sulle relazioni tra Venezia e Piemonte al tempo di Emanuele Filiberto, in Idem, Memorie piemontesi di letteratura e storia, Stamperia Reale, Torino 1853, pp. 1-70; Segre, Emanuele Filiberto e la repubblica di Venezia cit., pp. 350-356. 16 Si veda la scheda dedicata a tale opera da F. Paglieri in La reggia di Venaria e i Savoia. Arti, magnificenza e storia di una corte europea, a cura di E. Castelnuovo et alii, catalogo della mostra (Reggia di Venaria, 12 ottobre 2007 30 marzo 2008), Allemandi, Torino 2007, vol. II, p. 71. 17 N. Barozzi, G. Berchet, Delle accoglienze ai principi di Savoia fatte dai Veneziani. Note storiche 1367-1722, Tipografia della Gazzetta, Venezia 1868; P. Faustini, I principi di Savoia a Venezia nell’aprile 1608, Tipografia della Gazzetta, Venezia 1875. 18 Sulla rivendicazione sabauda del titolo regio, avviata sin dalla fine del XVI secolo nell’ambito della lotta per la precedenza tra Savoia e Medici, ma pubblicamente espressa molto più tardi da Vittorio Amedeo I con un editto pubblicato nel 1632, cfr. R. Oresko, The House of Savoy in search of a royal crown in the seventeenth century, in Royal and Republican Sovereignty in Early Modern Europe. Essays in Memory of Ragnhild Hatton, a cura di R. Oresko, G.C. Gibbs, H.M. Scott, Cambridge University Press, Cambridge 1997, pp. 272-350. Sugli scontri che questa generò con Toscana e Venezia si veda F. Angiolini, Medici e Savoia. Contese per la precedenza e rivalità di rango in età moderna, in P. Bianchi, L.C. Gentile (a cura di), L’affermarsi della corte sabauda. Dinastie, poteri, élites in Piemonte e Savoia fra tardo Medioevo e prima età moderna, Zamorani, Torino 2006, pp. 435-479. 19 G. Claretta, Delle principali relazioni politiche fra Venezia e Savoia nel secolo XVII, in “Nuovo archivio veneto”, IX, 1895, pp. 252-324; C. Contessa, Per la storia della decadenza della diplomazia italiana nel secolo XVIII. Aneddoti di relazioni veneto-sabaude, in “Miscellanea di storia italiana”, n.s., XII, 1906, pp. 63-208. 20 G. Roberti, Vittorio Amedeo II a Venezia (1687), in “Il Filotecnico”, XXI, 1887, ff. 3-4; V. Dainotti, Vittorio Amedeo II a Venezia nel 1687 e la Lega di Augusta, in “Bollettino storico-bibliografico subalpino”, XXXV, 1933, pp. 434-477. 21 F. Gandino, L’ambasceria di Marco Foscarini a Torino (1741-1742), in “Nuovo archivio veneto”, II, 1892, f. 2, pp. 387-452. 22 G.P. Romagnani, Scipione Maffei e il Piemonte, in “Bollettino storico-bibliografico subalpino”, LXXXIV, 1986, f. I, pp. 113-227; L. Levi Momigliano, Scipione Maffei, Filippo Juvarra e le collezioni torinesi di antichità, in A. Griseri, G. Romano (a cura di), Filippo Juvarra a Torino. Nuovi progetti per la città, Editris, Torino 1989, pp. 328-338 23 B. Anglani, Il mestiere della metafora. Giuseppe Baretti intellettuale e scrittore, Mucchi, Modena 1997; C. Bracchi, Prospettiva di una nazione di nazioni: “An account of the manners and customs of Italy” di Giuseppe Baretti, Edizioni dell’orso, Alessandria 1998. 14

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Da Venezia a Torino. Influenze dell’architettura veneta nel Piemonte sabaudo tra Cinquecento e Settecento Paolo Cornaglia L’interesse storiografico in merito all’attività di architetti e ingegneri militari veneti in Piemonte non è cosa recente. Nel 1869, a Vicenza, l’abate Antonio Magrini1, “socio corrispondente della Reale Accademia delle Scienze di Torino” pubblica le Reminiscenze vicentine della Casa di Savoja. Il testo non riguarda solo il tema prima citato ma anche aspetti politici, artistici e letterari pertinenti il rapporto fra Vicenza e i territori sabaudi. Magrini, peraltro, si occupò in particolare del maggior architetto veneto del Cinquecento pubblicando nel 1845 le Memorie intorno la vita e le opere di Andrea Palladio e nel 1847 Il Teatro Olimpico nuovamente descritto e illustrato, arrivando a dirigere nel 1885 il restauro del palladiano Palazzo Chiericati in qualità di sede del Museo Civico. Nel suo testo sui rapporti tra Vicenza e gli Stati sabaudi Magrini si sofferma sulla figura di Francesco Horologi, basandosi in parte su quanto già scritto da Carlo Promis2, per poi toccare quelle di Palladio e Scamozzi. Il tema dell’architettura militare in Piemonte, e quindi lo studio di figure come quella di Horologi o dei Sanmicheli3 ma anche di Ferrante Vitelli, che – al contrario – soprintendente alla fortezze sabaude tra il 1572 e il 1581 viene ingaggiato da Venezia nel 1576-1578, è stato affrontato in anni recenti nelle ricerche di Claudia Bonardi e Micaela Viglino4. Preziosi disegni sono conservati nei volumi dell’Architettura Militare dell’Archivio di Stato di Torino, già nelle raccolte sabaude: di Ferrante Vitelli, fra gli altri, le fortificazioni di Corfù5, di Francesco Horologi quelle di San Damiano d’Asti e le opere a Bre-

scia6, seppur in disegno di altra mano, e una delle prime vedute di Torino, con pianta, nel periodo di dominio francese7. Presso lo stesso archivio altri fondi conservano tracce dell’opera di Horologi, ad esempio nella serie iconografica del Camerale è presente il progetto per fortificare Montichiaro d’Asti, del 15578. Un’opera teorica, la Ragione del fortificare, presso la Biblioteca Nazionale di Firenze9, mostra invece come l’idea di dotare Torino di una cittadella pentagonale – sebbene prevista attorno al castello, in luogo differente da quello in cui venne poi collocata10 – fosse già presente nel dibattito sulle fortificazioni prima che il Paciotto la realizzasse dal 1564 per Emanuele Filiberto di Savoia, il duca che elesse la città a capitale permanente del ducato. La carriera di Francesco Horologi non è lineare, pur essendo radicata tra Piemonte e Veneto: al servizio del re di Francia Enrico II fino al 1559, e per questo sovrano attivo nelle terre francesi al di qua delle Alpi, nel 1560 risulta già al servizio del governo veneto, ma nello stesso anno Emanuele Filiberto, con lettera da Nizza datata 9 febbraio, richiede la sua presenza di nuovo in Piemonte, in virtù della profonda conoscenza che l’ingegnere militare ha acquisito “per due o tre mesi, acciocché colla venuta sua io possa aver l’avviso et la relazione dello stato di esse fortezze che io desidero”11. L’ingegnere aveva peraltro interessi personali in Piemonte, avendo ottenuto terre nel Monferrato in epoca francese. Al limite tra la presenza della Francia in Piemonte e il ritorno di Savoia nei loro territori si colloca il

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progetto per la cittadella pentagonale, inviato – come dimostra Magrini – a Francesco II, successore per solo un anno di Enrico II. L’idea, solo descritta in questo documento, compare invece in disegno, come si è detto, nel codice conservato a Firenze e in copia a Torino, collocando la figura dell’Horologi al centro del dibattito sulle fortificazioni in Piemonte, indipendentemente dal committente, e sulla bontà della sua ideazione, poi ripresa dal Paciotto, al punto che l’ambasciatore veneto Correr la riterrà opera proprio di Horologi. Andrea Palladio, Vincenzo Scamozzi e una deviazione, Sebastiano Serlio Nel volume sui grandi vicentini e il Piemonte Magrini non poteva omettere la figura di Palladio, a cui va associata quella di Vincenzo Scamozzi in ragione di un medesimo fattore, ovvero la dedica a un duca sabaudo di un volume di trattato. Non si può omettere però un terzo architetto e trattatista, Sebastiano Serlio, che veneto non è, bensì bolognese, ma che per un periodo è stato attivo in Venezia e che ha influenzato certi aspetti dell’architettura in Piemonte a cavallo tra Cinquecento e Seicento. Il rapporto – mai chiarito del tutto – tra Palladio e la capitale in formazione del rinnovato Stato sabaudo è chiamato in causa dalla dedica al “Serenissimo e Magnanimo Principe Emanuel Filiberto Duca di Savoia” del III volume de I Quattro Libri dell’Architettura pubblicati da Andrea Palladio nel 1570: “Dovendo io, Serenissimo Principe, mandare in luce una parte della mia architettura, nella quale ho posto in disegno molte di quelle superbe e meravigliose fabbriche antiche, i vestigi delle quali in varie parti del mondo, ma più che in ogn’altro loco si ritrovano in Roma, ho preso ardire di consacrarla all’immortalità del chiaro et illustre nome dell’Altezza Vostra, come di quel principe, il qual solo a’ tempi nostri, con la prudenza e col valore, s’assimiglia a quelli antichi romani eroi”12. Il volume non è scelto a caso: gli argomenti iniziali riguardano proprio ciò che concerne una città che deve essere riprogettata come capitale: vie e traccia28

1. Andrea Palladio, Progetto non eseguito per Villa Pisani a Lonigo, 1542. Londra, Royal Institute of British Architects

mento degli isolati. Nell’introduzione Palladio è preciso, e ricorda “che da lei fui chiamato in Piamonte”. Il viaggio sembra essere avvenuto nel 1568, tra aprile e giugno, successivamente al passaggio che Emanuele Filiberto compie a Vicenza due anni prima avendo modo di vedere le opere di Palladio13. Evidentemente una simile affermazione di mano diretta di Palladio ha spinto a ricercare le tracce di una sua possibile opera in Piemonte. Equivoci si sono creati sul casino del Regio Parco, identificato da Tommaso Temanza in un progetto palladiano pervenutogli in copia. Per quanto vi siano concordanze tra la descrizione del disegno e la pianta effettiva del casino, è ormai noto che quest’ultimo venne eretto nel 1601 su progetto di Ascanio Vitozzi, derivando il suo impianto dalle ville romane cinquecentesche come Villa Madama, Villa Pia al Vaticano, Villa Giulia. I rapporti tra Emanuele Filiberto e Palladio non si limitano però all’ipotetico viaggio del 1568 e alla dedica del 1570: il duca concede all’architetto vicentino, con patente del 24 gennaio 1574, il privilegio di stampa per


i Commentari di Giulio Cesare da lui illustrati. Probabilmente la dedica del terzo libro al duca era un palese tentativo di guadagnare un ruolo eminente nella costruzione delle fabbriche in uno stato in formazione, che – per motivi ancora non noti – non ebbe esito. Il successore di Emanuele Filiberto nel 1584 chiamerà il romano Ascanio Vitozzi, attivo sino al 1615. L’influenza reale di Palladio, come vedremo, non si eserciterà in forma diretta, ma attraverso altri architetti, nel Settecento. Un’altra dedica a principe sabaudo è quella collocata da Vincenzo Scamozzi, anch’esso vicentino, al secondo dei dieci libri dell’Idea dell’Architettura Universale, pubblicata nel 161514. Scamozzi completa opere palladiane come il Teatro Olimpico (realizzando le scene a prospettiva accelerata) e la Rotonda, poi mutuandola come modello per la sua Rocca Pisana a Lonigo. La dedica troverebbe origine nella positiva accoglienza che Carlo Emanuele I avrebbe concesso a Scamozzi – secondo lo stesso autore – nel 1600 a Parigi, ivi presente con l’ambasciatore veneto Pietro Duodo, appena giunti dalla Boemia. Nella dedica, ovviamente, sono lodate le virtù del duca (l’antichità e la nobiltà della dinastia, le qualità eroiche) ma anche quelle dello Stato (“un così ampio Stato, si può dire un piccolo Regno, qual è il Piemonte, e la Savoia con termine all’Italia, alla Francia, alla Liguria e a Svizzeri”) e della capitale dove gli viene attribuita la committenza di “cotanti sontuosi palazzi, e nobilissimi edifici”. La storiografia critica ha da tempo individuato un influsso del palladianesimo, e in particolare dell’opera di Scamozzi, nella villa fatta realizzare da Alessandro Tesauro a Salmour nel 1620, in particolare in relazione alle tavole relative a ville Verla (1574-1615) e Corsaro (1588)15. Peraltro una forte influenza di Scamozzi si ebbe in Gran Bretagna (Inigo Jones, “palladiano” si ispira alle stesse fonti per la residenza del principe Carlo al Newmarket nel 1618-1619) e soprattutto in Olanda dove negli anni trenta del Seicento gli architetti Jacob van Campen e Constantijn Huygens introducono l’architettura classicista

adottando i principi di Scamozzi, il cui trattato è pubblicato nel 1640, poi seguito da numerose riedizioni e ristampe16. Se le influenze di questi due architetti e dei loro trattati in Piemonte è tutto sommato limitata o indiretta, trasposizioni dirette si ritrovano invece tra le tavole del IV libro di Sebastiano Serlio pubblicato nel 1537 e alcuni edifici presenti in un tessuto urbanistico e architettonico che si è conservato immutato più che nelle zone centrali, meno toccato dalle grandi riplasmazioni barocche. Si tratta di episodi – non isolati – che caratterizzano la Valle Bormida cuneese. Un territorio dove esempi notevoli sono già stati individuati dalla critica, come la chiesa di Roccaverano, o quella di Saliceto. In questi stessi paesi si assiste alla diffusione di modelli presentati sui trattati: è il caso, ad esempio, dei portali dei castelli di Saliceto di Priero, realizzati a fine Cinquecento proprio in base a una tavola del volume citato17. Si tratta di proposte di immutata fortuna, riprese nuovamente dal neopalladianesimo settecentesco, come vedremo più avanti nei disegni di Cavalleri di Groscavallo. Juvarra e Palladio A fronte di una ridotta attività edilizia nel XVI secolo a Torino e in Piemonte e di una potente trasformazione delle preesistenze operata in epoca barocca, i riferimenti palladiani più aulici e al tempo diretti emergono nell’opera del grande protagonista dell’architettura del Settecento in Piemonte, ovvero Filippo Juvarra. Il messinese è attivo anche in area sottoposta al governo della Repubblica Veneta, realizzando il Palazzo Martinengo a Brescia nel 1728 e il campanile di Belluno nel 1732, ma è a Torino che si deve spostare lo sguardo per individuare legami e parafrasi palladiane. Un interesse verso Palladio che si intreccia con quello – molto più marcato evidentemente – che emerge nel XVIII secolo in Gran Bretagna, attraverso il famoso taccuino di schizzi juvarriani donato a Lord Burlington, il più rilevante promotore del palladianesimo in quella nazione. Richard Boyle, conte di Burlington, compie il suo viaggio in Italia a fine 1714 e, 29


tettura juvarriana e quella palladiana è stato messo in luce da Henry Millon nel 199520, è peraltro evidente, ad esempio, la trasposizione dell’abisde a colonne libere che Juvarra compie traslandola dalla basilica del Redentore in Venezia (1577) alla cappella di Venaria Reale (1716). A integrazione di questa tradizionale lettura si può sottolineare un’altra acquisizione di Juvarra da Palladio, in questo caso con scivolamento dei modelli dall’architettura civile a quella religiosa. Si tratta del progetto per la Villa Pisani a Bagnolo di Lonigo (1541), una variante non realizzata conservata presso il Royal Institute of British Architects di Londra21: il pronao colonnato e le due finestre laterali sembrano fonte diretta per la facciata della chiesa di San Filippo in Torino (1730). 2. Filippo Juvarra, Progetto per la facciata di San Filippo, 1730. Torino, Archivio dei Musei Civici di Torino, in deposito presso i Padri Filippini

come ricorda Rudolf Wittkower18, pur passando due volte a Torino non ha probabilmente possibilità di incontrare Juvarra: nella prima occasione l’architetto non è ancora giunto da Messina, nella seconda forse è già a Roma. La figura di mediazione tra il conte e l’architetto viene suggerita nella persona di William Kent, che conosce Juvarra in Roma quando quest’ultimo è attivo per il cardinale Ottoboni. Kent si stabilisce a Londra presso il circolo di Lord Burlington dal 1719. Millon individua nel soggiorno di Juvarra a Londra del 1720 un possibile incontro tra il messinese e Lord Burlington, a cui l’architetto in seguito, nel 1730, dona e dedica la raccolta di schizzi. Il conte aveva acquistato già nel 1719 presso la villa di Maser la raccolta di disegni palladiani in merito alle terme romane: appare decisamente simbolico che in un volume della raccolta di disegni juvarriani presso la Biblioteca Nazionale di Torino19 sia inserita la prova di acquaforte di Filippo Vasconi per Villa Barbaro di Maser (Venezia, 1711), proprio il luogo dove Burlington acquista i disegni palladiani che darà alle stampe nel 1730. Il rapporto tra l’archi30

Il palladianesimo nel Settecento È nella seconda metà del Settecento che il palladianesimo riemerge nel dibattito, nei disegni e nelle opere degli architetti in Piemonte. Una precoce avvisaglia di questo interesse, in ambito di corte, si identifica con una figura singolare, quella di Carlo Emanuele Cavalleri di Groscavallo22. Abilitato architetto civile e militare nel 1736 presso l’Università di Torino, è già Governatore dei Palazzi Reali l’anno seguente. Conosce l’Europa: nel 1736 è a Parigi e ad Amsterdam, nel 1769 a Napoli. È lui che nel 1765 accompagna il De Lalande nella visita agli appartamenti e alle collezioni di pittura del Palazzo Reale. Secondo alcuni studi recenti in alcune dispute di palazzo non sembra essere orientato verso i sostenitori del nuovo gusto, ma una raccolta di disegni conservata presso la Biblioteca Reale di Torino, frutto dell’attività legata alla formazione della principessa diciottenne Luisa Gabriella, figlia di Carlo Emanuele III divenuta poi monaca, documenta invece un forte interesse verso l’antichità. I Disegni di fabbriche si antiche, che moderne fatte per trattenimento di SAR Madama Luisa di Savoia da Carlo Emanuel di Groscavallo nell’anno 1747, secondo l’autore eseguiti spesso in sua presenza, mostrano un’attenzione verso un’architettura genericamente palla-


diana, verso la ricostruzione a volte fantastica di complessi architettonici romani e la documentazione di monumenti antichi presenti nel regno23, come quello di La Turbie presso Nizza o l’arco di Susa, quest’ultimo visto da Cochin e De Lalande24. I disegni della raccolta, suddivisi in base all’ordine architettonico, se mostrano da un lato un’attenzione verso il Cinquecento, con tracce – ad esempio – dei portali di Serlio, tradiscono anche la conoscenza del Vitruvius Britannicus e della villa di Chiswick. Tra gli edifici “moderni” è presente una chiesa effettivamente realizzata, il Santo Stefano di Alessandria, visibilmente palladiana nell’ordine unico di facciata e in passato attribuita all’architetto Ottavio Magnocavalli25. Groscavallo non è una figura a valenza semplicemente regionale ma è in rapporti con l’ambiente neopalladiano veneto: è amico e corrispondente di Giuseppe Poleni, Tommaso Temanza e Francesco Algarotti. In una lettera26 del 1758 l’Algarotti (che altrove sostiene di voler vivere di fronte a un palazzo palladiano ma… in una casa francese) gli domanda la data prevista per l’uscita del suo trattato di architettura in quanto vi è bisogno di testi che costituiscano una guida in una situazione in cui solo qualcuno degli edifici che sono costruiti è corretto. Algarotti critica il principio di autorità degli antichi, le cui opere a volte sono ben in contrasto con i le indicazioni di Vitruvio e che giustificano – ad esempio – licenze di Serlio nel suo Straordinario libro sulle porte. Forse Algarotti non aveva ancora visto la tavola IV della raccolta, un portale rustico alla Serlio con colonne cinghiate, e – in relazione all’uscita del trattato – lo adula paragonandolo a un nuovo Palladio, a un nuovo Alberti. Groscavallo nell’ambito della corte protegge e promuove l’architetto Francesco Valeriano Dellala di Beinasco, che verrà però messo da parte a favore di Giuseppe Battista Piacenza al momento di affidare il rinnovo del castello di Chambéry nel 1773. È possibile che Piacenza, che aveva viaggiato in Italia, recandosi tra l’altro a Venezia e nel sud tra il 1755 e il 1767, entrando in contatto con l’ambiente neopalladiano veneto e – soprattutto – con i siti archeologici

3. Disegni di fabbriche si antiche, che moderne fatte per trattenimento di SAR Madama Luisa di Savoia da Carlo Emanuel di Groscavallo nell’anno 1747. Torino, Biblioteca Reale di Torino, tav. IV, Progetto di villa

campani, fosse percepito come maggiormente aggiornato e adeguato alle esigenze del momento. A una visione neopalladiana viene preferito un approccio più legato al Gôut Grec, come dimostrano le lettere anonime che riceve in cui lo si accusa per il suo gusto classico, tratteggiando con parole derisorie “piramidi d’Egitto” e “architravi di Grecia”27 che si suppone apprezzi, e come rendono manifesto i raffinati appartamenti progettati nel 1789 per i duchi d’Aosta, guarniti di decori “alla greca”. Piacenza, e non Dellala, verrà nominato Primo architetto di Vittorio Amedeo III nel 1796. Dellala è peraltro artefice di una delle più belle ville presenti in Piemonte e uno dei pochi edifici sei-settecenteschi che in regione si presenti tipologicamente e perentoriamente come villa e non come palazzo di campagna o trasformazione di preesistenza: la Villa Carpeneto dei Graneri della Roccia (17691779), guarnita da un timpano centrale seppur posto a coronamento non di un canonico pronao ma di un loggiato a serliana28. Una figura che è stata considerata pionieristica del palladianesimo in Piemonte è comunque il già citato Francesco Ottavio Magnocavalli29, forte di una diretta esperienza veneta, ovvero di un “tour” effettuato nel 1756 ospite di Enea Arnaldi a Vicenza, membro dell’Accademia del Teatro Olimpico di 31


4. Ottavio Bertotti Scamozzi, Progetto di facciata per il Palazzo Morozzo della Rocca in Torino, 10 maggio 1789. Torino, Archivio Storico della Città di Torino

Vicenza. Al di là delle sue opere, spesso di non immediata filiazione palladiana, rilevante è l’epistolario con l’Arnaldi, iniziato nel 1750 e proseguito sino al 1772. Nel 1764 Magnocavalli invia suggerimenti in merito al restauro del Teatro Olimpico, coinvolgendo anche l’architetto Giovanni Battista Borra, attivo in Gran Bretagna prima di essere al servizio dei principi di Carignano per il Castello di Racconigi, il cui fronte viene concepito come vera e propria “villa inglese” di matrice palladiana. Il cerchio del palladianesimo in Piemonte nel Settecento si chiude – indirettamente – nel nome di Scamozzi: Ottavio Bertotti Scamozzi (Vicenza, 1719-1790), che dell’architetto predecessore prende il nome, avendo ottenuto il lascito disposto per favorire i giovani nello studio dell’architettura, e che è artefice della ripubblicazione dell’opera palladiana Le fabbriche e i disegni di Andrea Palladio, raccolti ed illustrati da Ottavio Bertotti Scamozzi, edita in Vicenza, in quattro volumi, tra il 1776 e il 1783, nel maggio del 1789 redige il progetto per la facciata del Palazzo Morozzo della Rocca30, rimasta incompiuta

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dal Seicento. Il reperimento del progetto della facciata31, la sua attribuzione a Ottavio Bertotti Scamozzi32, architetti vicentino e il suo inquadramento critico è cosa tutto sommato recente: negli anni trenta del Novecento il fronte era ancora individuato come appartenente “a quel tipo di massiccia e punto espressiva architettura che caratterizzò le costruzioni sulla metà del secolo scorso”33. Bertotti Scamozzi nel 1789 è attivo anche in Casale, dove amplia il Palazzo Gozzani di Treville e interviene nella facciata. L’anno è sintomatico: nello stesso momento l’architetto di corte Giuseppe Battista Piacenza e il suo collaboratore Carlo Randoni, intervenendo nella residenza di Venaria Reale, esprimono ampio aggiornamento nel progetto neoclassico d’interni ma perseguono uno stretto mimetismo nella definizione dei fronti del nuovo scalone, calco perfetto della facciate realizzata da Michelangelo Garove. Bertotti Scamozzi invece agisce in rottura: nulla del genere si era ancora visto in Torino – se non il palladianesimo presente nelle opere religiose di Juvarra – e non è un caso che una lettura poco approfondita lo vedesse come opera pertinente già al XIX secolo. Effettivamente il palazzo doveva sembrare una novità assoluta nel panorama tardobarocco torinese, aggiornato da Filippo Castelli in epoca precoce, nel 1763, con la cappella dell’ospedale di San Giovanni (opera però non identificabile nel profilo urbano), e successivamente, nel 1790, con le monumentali scuderie neocinquecentesche dei principi di Carignano. La facciata classicheggiante a lesene corinzie di Dellala per Palazzo Dal Pozzo (1773) è ancora altra cosa: timpani, bugnati e lesene ioniche diverranno in effetti patrimonio comune, ad esempio nel Borgo Nuovo, solo durante la Restaurazione.


F. Zavalloni, ad vocem Magrini, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2007, vol. LXVII, www. treccani.it/ enciclopedia/antonio-magrini_(Dizionario_Biografico). 2 C. Promis, Gl’ingegneri militari che operarono o scrissero in Piemonte dall’anno MCCC all’anno MDCL, 1871 (ristampa anastatica, Bologna 1973). 3 Michele Sanmicheli, veronese, e il cugino Matteo sono attivi in Piemonte per interventi in aree non ancora sabaude in quel momento: Casale Monferrato, Alessandria, Novara. 4 Sul tema si vedano M. Viglino Davico (a cura di), Fortezze “alla moderna” e ingegneri militari del ducato sabaudo, Celid, Torino 2005 e M. Viglino Davico, E. Chiodi, C. Franchini, A. Perin, Architetti e ingegneri militari in Piemonte tra ’500 e ’700. Un repertorio biografico, Omega, Torino 2007. Su Vitelli, in particolare, si veda C. Bonardi, Gli anni settanta: il soprintendente Vitelli, un bombardiere e un ingegnere di acque, in Viglino (a cura di), Fortezze “alla moderna” cit., pp. 287-298. 5 AST, Biblioteca Antica, Architettura Militare, vol. V, ff. 115v-116, 119. 6 Ivi, vol. I, f. 64, vol. V, foll. 77v-78r. 7 Ivi, vol. V, f. 156, Rilievo delle fortificazioni di Torino, s.d. [ma metà XVI secolo]. 8 AST, Camerale Piemonte, Disegni serie IV, n. 469. 9 BNCF, Magliabechiano, XIX, 127. In copia ottocentesca presso BRT, Misc. Mil. 62. 10 BNCF, Magliabechiano, XIX, 127, f. 62. 11 A. Magrini, Reminiscenze vicentine della Casa di Savoia […], Vicenza 1869, p. 64. 12 Andrea Palladio, I Quattro Libri dell’Architettura, Venezia 1570, BNT, ris. 69.50. Nella versione a cura di M. Biraghi (Studio Tesi, Roma 1992), si vedano le pp. 191-192. 13 G. Beltramini, scheda n. 59, in Il Teatro di tutte le Scienze e le Arti. Raccogliere libri per coltivare idee in una capitale di età moderna. Torino 1559-1861, a cura di M. Carassi, I. Massabò, S. Pettenati, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 22 novembre 2011 - 26 febbraio 2012), Centro Studi Piemontesi, Torino 2011, p. 94. In Biraghi (a cura di), I Quattro Libri dell’Architettura si indica l’estate del 1566, p. 420. 14 Nell’edizione pubblicata nel 1687 la dedica non è più presente. 15 Su Alessandro Tesauro architetto si veda I. Ferraro, Un contributo sull’architetto Alessandro Tesauro, in “Bollettino della società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo”, n. 130, I semestre 204, pp. 148-157. 16 Il tema è stato oggetto di una recente mostra: Perfection in proportion. The legacies of Palladio and Scamozzi in the Golden Age (Amsterdam, Palazzo Reale, 30 giugno - 12 settembre 2010). 17 Sebastiano Serlio, Il Quarto Libro, Vicenza 1618, p. 148. Si veda P. Cornaglia, Il patrimonio architettonico della Valle Bormida: memoria e conoscenza, in S. Belforte, Oltre l’Acna: identità e risorse per la rinascita della 1

Valle Bormida, Franco Angeli, Milano 1993, pp. 49-83. R. Wittkower, Un libro di schizzi di Filippo Juvarra a Chatsworth, in “Bollettino S.P.A.B.A”., III, 1949, pp. 95-118. 19 BNT, Riserva 59.4, fol. 92r. 20 H.A. Millon, Filippo Juvarra e Palladio, Pavan, Vicenza 1995. 21 SC227/XVII/2 verso, 7, 17, 18 recto. I disegni mostrano l’evolversi del progetto, l’alzato presente nel disegno comprendente anche la pianta ha notevoli analogie con il progetto juvarriano, candidandosi a possibile riferimento. I disegni vennero acquistati in Italia da Inigo Jones nel 1613-1614 e vennero poi acquistati da Lord Burlington nel 1721. 22 T. Ricardi di Netro, Carlo Emanuele Cavalleri di Groscavallo. Ascesa sociale e committenze artistiche alla corte sabauda tra Sei e Settecento, in “Studi Piemontesi”, XXVI, 1, marzo 1997, pp. 47-60. 23 Presenti per altro (in certi casi sia nello stato presente sia in ricostruzione) nella grande raccolta di vedute degli stati del duca di Savoia pubblicata ad Amsterdam nel 1682, il Theatrum Statuum Sabaudiae. 24 Joseph-Jérôme de Lalande, Voyages d’un François en Italie en 1765 et 1766, Yverdon 1769, t. I, p. 38. 25 Costruita nel 1741, è forse attribuibile all’architetto Magnocavalli, uno dei pionieri del neoclassicismo in Piemonte, attivo a Casale sin dagli anni quaranta del Settecento. L’attribuzione non è confermata in A. Dameri, R. Livraghi, Il nuovo volto della città. Alessandria nel Settecento, Alessandria 2005, pp. 67-72. 26 Opere scelte di Francesco Algarotti, Società tipografica dei classici italiani, Milano 1823, vol. III, p. 300. 27 Ricardi di Netro, Carlo Emanuele Cavalleri di Groscavallo cit., p. 56. 28 Ignazio Sclopis di Borgostura, Castello di Carpenetto […], 1775 (Galleria Sabauda, cart. 19bis 2493). 29 Si veda Francesco Ottavio Magnocavalli (1707-1788). Architettura, letteratura e cultura europea nell’opera di un casalese, a cura di A. Perin, C.E. Spantigati, atti del convegno internazionale (Casale Monferrato, Moncalvo, 1113 ottobre 2002), Casale Monferrato 2005. 30 P. Cornaglia, L’architecte Benedetto Alfieri, l’Hôtel Morozzo à Turin et les “Capricciosi Modellini Francesi”, in C. Henry, D. Rabreau (a cura di), Le public et la politique des arts au siècle des lumières, Annales du Centre Ledoux, tomo VIII, William Blake & Co., Bordeaux 2011, pp. 155-167. 31 ASCT, Collezione X, vol. 1, fol. 90v, Torino, 7 maggio 1789. 32 Su Ottavio Bertotti Scamozzi (Vicenza, 1719-1790) si vedano F. Franco, Ottavio Bertotti Scamozzi, in “Bollettino del Centro Internazionale di Studi d’architettura Andrea Palladio”, V, 1962, pp. 152-161; L. Olivato, Ottavio Bertotti Scamozzi studioso di Andrea Palladio, Neri Pozza, Vicenza 1975. 33 C. Merlini, Palazzi e curiosità storiche torinese. La Camera di Commercio, in “Torino”, gennaio 1932, pp. 171-180. 18

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Tra Venezia e Torino: l’Opera in viaggio Mercedes Viale Ferrero

È l’imbrunire del 10 febbraio 1667: alla stazione di posta di Marghera “donde si passa à Venetia cinque miglia lontana con le gondole”1 giungono numerosi forestieri, allettati dai piaceri del Carnevale che sta per concludersi e dalla “libertà delle maschere concessa sin à quaresima”2. Nei teatri d’opera in musica “si recita ogni sera sin’al dì delle ceneri”3 e molti tra i viaggiatori sono diretti al Teatro di SS. Giovanni e Paolo, proprietà dei nobili fratelli Giovanni Carlo e Vincenzo Grimani, dove “con spesa notabile” è stata messa in scena La Dori4 riscuotendo l’“applauso universale”5. Forse qualcuno spera che si affacci a un palchetto la dama molto chiacchierata cui è dedicato il libretto, Maria Mancini, nipote del cardinale Mazzarino e un tempo amata dal re di Francia, ora sposa del principe Colonna6; i più sono attratti dalle virtù canore dei musici protagonisti, Cavagnino e Rascarino, abitualmente al servizio del Duca di Savoia7. Ma questa sera gli spettatori dovranno accontentarsi di sostituti; nella confusione degli arrivi nessuno fa caso a due persone in partenza: sono proprio i due musici che il Duca, tramite il suo ambasciatore a Venezia, conte Bigliore, ha richiamato a Torino “per servir(lo) in un balletto con macchine bellissime”8. Sarebbe del resto difficile riconoscerli, avvolti come sono in tabarri e sciarpe per salvaguardare, nel lungo viaggio attraverso la gelida pianura padana, il loro più prezioso bene: la voce, che da “gente bassa”9 li ha elevati a una condizione privilegiata e addirittura a un rapporto con il principe che si potrebbe definire di vicendevole sudditanza. I cantanti devono obbedire

all’ordine del Duca, a rischio di perdere un cospicuo ingaggio teatrale, ma Carlo Emanuele II per realizzare i suoi programmi spettacolari deve sopportare i loro capricci, perfino tollerare i loro misfatti. A Cavagnino, recalcitrante a partire da Venezia, il Duca fa ricordare d’averlo in passato “liberato dalla morte che non avrebbe sfuggita da questa giustitia per una pistolettata che sparò proditoriamente ad un altro Musico in piazza Castello mentre v’er(a) facendo una festa a cavallo”10. L’impunità accordata a Cavagnino è sintomatica dell’importanza attribuita alla vocalità melodrammatica anche in caroselli e balletti. Lo spettacolo per cui Carlo Emanuele II ha fatto tornare a Torino i due musici, Il Falso amor bandito, l’Humano ammesso et il Celeste esaltato, è un ballet de cour e alla sua codificata tipologia appartiene la comparsa finale sul palcoscenico dei sovrani “in gloria”11 (fig. 1); tuttavia nello svolgimento si riconoscono arie e duetti (fig. 2) che seguono il modello esemplare dell’opera in musica cosiddetta “veneziana”, infiltratasi dunque nel riservato terreno delle rappresentazioni dinastiche con una insolita commistione di linguaggi. Una parallela commistione di interessi e di intenti si avverte nelle lettere scambiate tra i personaggi fin qui nominati. Carlo Emanuele II mira al diletto festivo, si compiace delle “macchine bellissime” già approntate, minaccia i cantanti restii (“non lasceremmo di fargli provare gli effetti del nostro giusto sdegno”)12, si rallegra che questi siano “giunti ancora in tempo per sodisfare alle parti loro”13. Giovanni Carlo Grimani, tra profuse formule d’ossequio (“mi paleserò

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1. Tommaso Borgonio e Carlo Conti, Il Falso amor bandito, l’Humano ammesso et il Celeste esaltato, Torino 1667. “Macchina” della Gloria con il duca Carlo Emanuele II. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria

2. Tommaso Borgonio e Carlo Conti, Il Falso amor bandito, l’Humano ammesso et il Celeste esaltato, Torino 1667. Duetto di Araldo e Nemesi. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria

con tutta la mia Casa di V.A.R. Hum.mo Devot.mo et Obblig.mo Serv.e”) parla di soldi, insiste sui “molti milliaia di schudi” già spesi per mettere in scena La Dori. Ancor più franco è il conte Bigliore: per “la mancanza” dei due musici “verrebbe la compagnia de gl’interessati à perdere da sette in otto milla Ducati”; quanto ai musici, non vogliono rinunciare ad avere “l’uno le Doppie 150, e l’altro le 100 pattuite” con l’impresario14. A Venezia l’opera non è solo un diletto, è una industria e “gl’interessati” non si limitano a gestirla nei numerosi teatri cittadini, tendono a diffonderla, a metterla in viaggio. Viaggiano i libretti e le partiture; viaggiano le persone che alle opere attendono, numerose perché molteplici sono le competenze richieste; Torino è una delle mete. I passaggi possono essere casuali o programmati, gli impieghi stabili o temporanei: un veneziano, Giovanni Sebenico, è assunto dal Duca quale maestro di cappella nel 1673, vi resta fino al 1690 e vi compone opere in musica tra cui nel 1681 il Lisimaco (figg. 3-4), rifacimento di un dramma dato al Teatro di SS. Giovanni e Paolo nel 1674 (fig. 5). Da Venezia giunge a Torino, nel 1677, Alessandro Stradella ma è una presenza scomoda perché il celebre compositore è in fuga con l’amante Agnese van Uffele, rapita al “protettore” Alvise Contarini. Il nobile veneziano non perdona l’offesa e Stradella, pugnalato da sicari, ripara a Genova: la sua carrie-

ra torinese è terminata prima ancora di iniziare15. Poche tracce lasciano i brevi soggiorni di impresari e compagnie itineranti, iniziati nel 1648 con i Feboarmonici che rappresentano a corte La finta pazza16. Un programma preciso si delinea invece con l’intervento dei Grimani, ben accreditati alla corte sabauda. L’abate Vincenzo, in particolare, alterna alle trame politiche e agli interessi letterari una costante attività di intermediazione musicale. I tempi dell’opera sono brevi – il Carnevale, alcune ricorrenze locali – e per uno stabile e continuato impiego i cantanti devono essere assunti da una delle numerose corti europee, con il permesso di viaggiare durante le “stagioni” in modo da offrire agli spettatori il piacere di voci nuove e variate e da assicurare la presenza dei maggiori virtuosi nei più importanti teatri. Una sintetica campionatura del carteggio tra i Grimani e i regnanti sabaudi può dare un’idea dell’estensione e frequenza delle trattative17. Il 26 gennaio 1669 Vincenzo Grimani raccomanda a Carlo Emanuele II Antonia Coresi che con “angelica voce” canta nel Teatro di SS. Giovanni e Paolo e il 16 marzo lo ringrazia della accoglienza fattale a Torino (nn. 3-4); l’11 marzo e il 12 maggio 1673 analoghe lettere sono inviate per Vincenza Giulia Masotti “che nella virtù della musica sostiene il primo ruolo” (nn. 14-15).


3-4. Tommaso Borgonio, Lisimaco, Torino 1681. Giardino e Accampamento. Per Lisimaco furono utilizzate alcune scene eseguite da Domenico e Pietro Mauro nel 1678 per Eliogabalo, tra esse il Giardino e l’Accampamento. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria

Nel febbraio e nel novembre 1676 l’abate Vincenzo ringrazia la reggente Maria Giovanna per aver concesso in prestito al suo teatro “il musico Alessandrino” che “ha riportato universale l’applauso” e lo richiede per la stagione successiva (nn. 18, 24). Il 29 marzo 1687 Vincenzo informa Vittorio Amedeo II che Clarice Gigli, dopo aver cantato a Torino, è giunta alla corte di Mantova (n. 51); il 17 ottobre nuovamente “si porta la Sig.ra Clarice Gigli a servire l’A.V.R.” (n. 67). Da altre lettere apprendiamo che nel 1688 la Clarice ha chiesto permesso a Mantova e si trova a Venezia; che tornerebbe a Torino ma è desiderata dal “Sr prencipe di Toscana”, al quale Grimani comunica che Vittorio Amedeo II ha concesso “licenza” per il viaggio (nn. 78-79, 82, 86, 90). Ben più ardue le negoziazioni per un famoso contraltista, Pistocchino (Francesco Antonio Pistocchi)18. Il 29 marzo 1687 Vincenzo Grimani scrive a Vittorio Amedeo che il “musico Ferdinando” è partito alla volta della corte di Brunswick e potrebbe essere sostituito da Pistocchino; ma questo vuole 150 doppie! E occorre il permesso del Duca di Parma che lo ha al suo servizio (n. 51). In aprile Grimani tratta l’ingaggio, purtroppo il Duca di Parma ha promesso Pistocchino al conte di Fuensalida per Milano; forse si può chiederlo a quel teatro, oppure verrebbe Ascanio “musico contralto in egual stima”. Tra maggio e giugno la situazione non si risolve e il Duca dovrà attendere il ricercatissimo “divo” fino al novembre 1688; intanto ha ottenuto Cor-

tona (Domenico Cecchi), un’altra celebrità (nn. 53, 55, 60, 61/1). Si potrebbe continuare a estrarre consimili notizie dalle centinaia di lettere scambiate tra autorità detentrici del massimo livello di potere nei rispettivi campi d’azione e da tutte si avrebbe conferma del particolare status dei musici di grido, inseriti in un circuito sociale di reciproca gratificazione: al vanto del cantante di far parte della corte di un principe corrisponde quello del principe di avere alla sua corte un artista celebre, ovunque ammirato; ma è un circuito artificioso che non potrebbe reggersi se non fosse ideato, messo in opera, sapientemente amministrato da un gruppo di capitalisti elitari, quanto dire “dall’aristocrazia teatrale veneziana”19. I cantanti sono la più vistosa tra le presenze che l’opera in musica richiede e che con l’opera si mettono in viaggio ma nell’itinerario tra Venezia a Torino si possono incontrare con loro anche buon numero di “ingegneri”, “macchinisti”, “pittori delle scene” (oggi diremmo scenografi) affiancati da noleggiatori di abiti e vestiaristi. Il tramite è sempre Vincenzo Grimani: “Mediante il Patrocinio dell’Ecc.mo Sig.r Abbate Grimani” giungono a Torino nel 1678 Domenico e Pietro Mauro che vi ritornano nel 1688-168920. Il 29 marzo 1687 Vincenzo informa il Duca d’avere “stabilito l’ingegnere che è anche pittore per le scene et è lo stesso [Ippolito Mazzarino che] serve nel Teatro di S. Gio: Grisostomo” (n. 51); il 28 giugno gli trasmette una lettera di Gasparo 37


5. Antiporta del libretto di Lisimaco, Venezia, Teatro di SS. Giovanni e Paolo, 1674. Venezia, Casa Goldoni

6. Antiporta del libretto di L’oppresso sollevato, Venezia, Teatro di SS. Giovanni e Paolo, 1674. Venezia, Casa Goldoni

Torelli il quale “s’esibisce pure egli per gli abiti che essendone bisogno non sarebbe mal servito” (nn. 60-61). Le trattative, in questi casi, si svolgono in modo ben diverso da quelle per i musici: in genere spetta al marchese Carron Ceva di San Tommaso districarsi in un labirinto di richieste, di promesse, di contestazioni, di mancati pagamenti, di suppliche; Vincenzo Grimani è il suo paziente interlocutore, rifà i conteggi, giustifica le note degli scenografi e dei lavoranti al seguito, tratta con gli impresari torinesi, spesso insolventi, anticipa perfino quanto dovuto con la certezza che se a Torino non si è avuto riguardo allo “stato de poveri artisti”21 si dovrà averne a lui che è il loro nobile protettore e “Padrone”. Il fitto carteggio riguardante Ippolito Mazzarino22, venuto da Venezia con una squadra di cinque dipendenti nel Carnevale 1688 per allestire l’opera Gli Amori delusi da Amore23 (fig. 9), è una dimostrazione sia delle resistenze incontrate dallo scenografo a Torino, dove i “maestri da bosco” si sentono estromessi e un impresario improvvisato, il medico Revelli, cerca di ridurre al minimo le spese, sia dell’accordo costante tra i Grimani e Vittorio Amedeo II per assicurare l’importazione dell’opera in musica veneziana a Torino (lettere di V. Gri-

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7. Antiporta del libretto di L’Amante eroe, Venezia, Teatro Vendramin di San Salvador, 1691. Venezia, Casa Goldoni

8. Antiporta del libretto di Amar per virtù, Venezia, Teatro Vendramin di San Salvador, 1699. Venezia, Casa Goldoni

mani nn. 51, 53, 63, al Duca; nn. 69-70-7172, 89, 93, 93/ 1 al marchese di San Tommaso). Non tutti gli addetti all’opera in musica viaggiano dall’una all’altra “piazza” con la stessa frequenza: di rado si spostano gli strumentisti ma qualche volta troviamo anche loro nel percorso tra Eridano e Adria. Il 25 gennaio 1692 Vincenzo Grimani scrive al marchese di San Tommaso: “Venendomi da mio fratello ricercato efficacemente di mandarli subito quattro suonatori di Aboa per servirsene nell’opera restano da me accordati Perino, Soage, Gionò e Mattis quali partiranno immediatamente quando habbino la permissione di S.A.R.”24. L’“opera” è Leonida in Sparta, musicata dal Sebenico nel 1688-1689 e in cui aveva suonato il complesso di oboisti della cosiddetta “Scuderia” del Duca di Savoia25, da trasferire ora al Teatro Grimani di SS. Giovanni e Paolo con il nuovo titolo L’oppresso sollevato (fig. 6): una vera rarità, perché la regola era che il viaggio delle opere partisse da Venezia per approdare a Torino. La parola “viaggio” non significava il semplice trasporto di un libretto e di una partitura ma una operazione metamorfica per cui lo spettacolo rappresentato a Torino poteva essere anche molto diverso dall’originale veneziano. Un frequentatore abituale dei teatri di Ve-


9. Ippolito Mazzarino (incisore anonimo, da) Antiporta del libretto di Gli Amori delusi da Amore, Torino, Teatro Regio, 1688. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense

10. Giorgio Tasnière, Antiporta del libretto di Amar per virtù. Overo i Generosi Rivali, Torino, Teatro Regio, 1702. La vignetta era in origine stata incisa per l’antiporta del libretto I Gemelli rivali, Torino, Teatro Regio, 1690. Torino, Civica Biblioteca Musicale Andrea Della Corte

nezia che avesse sfogliato i libretti torinesi si sarebbe subito accorto che, salvo rare eccezioni26, vi mancava l’invito figurato della vignetta di antiporta, segno certo di una inclinazione al risparmio. Non l’avrebbe sorpreso trovare molte arie cambiate, era pratica corrente che queste venissero adattate o adottate a piacere dei musici. L’avrebbero invece incuriosito le trame mutate in parte (o addirittura per intero) per i più svariati motivi, deducibili dagli avvisi “Al lettore”. Poiché a Torino si era “apud reges” e non “in libera Civitate” l’Eliogabalo terminava, anziché con le nozze del dissoluto protagonista, con la sua uccisione e l’ascesa al trono dell’ottimo principe Alessandro Severo27. Per via delle “angustie del Teatro” e della “vivacità” del pubblico l’Ales-

sandro amante eroe (fig. 7) aveva subito una riduzione delle scene ma s’era “arricchito co’ la molteplicità delle arie”28; quanto al Tito Manlio era stato necessario che “soffr(isse) qualche leggiero colpo di forbice e puntura d’ago” per potervi far recitare due “Attori” non previsti nello scenario originale29. Non sempre il “Cortese Lettore” era informato dei mutamenti e il libretto di Amar per virtù. Overo i Generosi Rivali (fig. 10) poteva suscitare qualche perplessità: il titolo corrispondeva a due distinte opere del repertorio veneziano (fig. 8), il testo era diverso da entrambe30. Sostituzioni, modifiche, sforbiciate erano, evidentemente, accettate dal pubblico torinese; infine gli spettatori non erano filologi e bastava a garantire la qualità degli spettacoli la 39


loro provenienza da Venezia, espressa dalla rievocazione di un successo: “L’Amazone Corsara, che ne’ Teatri dell’Adria spiegò le vele all’aura degli applausi, ti si presenta risorta dall’onde natie, se pure quella può chiamarsi risorta, che nacque per mai morire alla gloria delle Scene”31. Poteva bastare anche un rapido accenno: “Questo Drama, già rappresentato in Venezia nel Teatro Vendramino”32; addirittura soltanto l’identità di un titolo, come nel caso di Amar per virtù. Si è giunti con quest’opera al 1702, in un nuovo secolo e con una nuova organizzazione degli spettacoli, gestiti ora da un gruppo di “partitanti”, cioè di privati associati, ai quali il duca Vittorio Amedeo II concede regolari contributi “per l’anticipata accordatagli”, “per conto delle spese delle recite”, per “supplemento”33. Torino è entrata nel circuito produttivo del melodramma e questo comporta un diverso rapporto con Venezia in quanto il viaggio delle opere non parte soltanto dai Teatri di SS. Giovanni e Paolo o di San Giovanni Grisostomo, quelli cioè dei Grimani,

ma anche dal Teatro Vendramin di San Salvador, gestito dall’impresario Gaspare Torelli (lo stesso che Vincenzo Grimani aveva raccomandato per la fornitura di abiti) e dal Teatro di Sant’Angelo dove è attivo l’architetto e scenografo Francesco Santurini. Inoltre il campo d’interazione tra le varie sedi teatrali si è esteso e a Torino giungono apporti e influenze da Bologna, Firenze, Roma, Napoli. Significativo è l’intervento del massimo scenografo del tempo, il bolognese Ferdinando Galli Bibiena che pubblica i “Disegni delle Scene” da lui progettate per il “Reggio Teatro” nel Carnevale 1699. Improvvisamente a Torino si interrompono i viaggi dell’opera: sono già stati erogati i fondi per la stagione 1703-1704 quando la guerra di successione spagnola coinvolge il territorio piemontese, le armate francesi minacciano la capitale sabauda, il Teatro Regio viene chiuso. Riaprirà soltanto nel 1723 con l’Artenice, nuovo titolo attribuito all’Ormisda, dramma per musica del veneziano Apostolo Zeno34.

F. Scoto, Itinerario o vero nova Descrittione de’ viaggi principali d’Italia [...], In Padoa per Mattio Cadorin detto Bolzetta, MDCLXX, p. 7. 2 Il conte Bigliore di Luserna a Carlo Emanuele II di Savoia, 5 febbraio 1667, AST, Lettere Ministri Venezia, mazzo 12, n. 6. 3 Ibidem 4 La Dori, poesia di Apollonio Apolloni, musica di Marco Antonio Cesti, era già stata più volte rappresentata a partire dalla prima edizione di Firenze nel 1661, tra gli altri luoghi anche a Torino nel 1662 (M. Viale Ferrero, La sce-

nografia dalle origini al 1936, vol. III della Storia del Teatro Regio di Torino, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1980, pp. 13-15). Elenco dei libretti in C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, Bertola & Locatelli, Cuneo, 1990-1997, I-VII (nel seguito: Sartori), nn. 8333-8358. 5 Giovanni Carlo Grimani a Carlo Emanuele II di Savoia, 1 febbraio 1667 (1666 more veneto), AST, Lettere particolari G, mazzo 51. 6 Sartori n. 8346. 7 Giovanni Antonio Cavagna e Francesco Maria Rascari-

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no. Si conserva una lettera di Cavagna all’impresario del Teatro di SS. Giovanni e Paolo, Marco Faustini, per il suo impegno in quel teatro (ASVe, Scuola grande S. Marco, busta 128, c. 121). 8 Carlo Emanuele II di Savoia al conte Bigliore di Luserna, 2 gennaio 1667, AST, Lettere Ministri Venezia, mazzo 13. Il balletto è Il Falso amor bandito, l’Humano ammesso et il Celeste esaltato. 9 Il conte Bigliore di Luserna a Carlo Emanuele II di Savoia, 5 febbraio 1667, cit. 10 Carlo Emanuele II al conte Bigliore di Luserna, 11 gennaio 1667, AST, Lettere Ministri Venezia, mazzo 13. La festa era La gloria delle Corone delle Margherite, per le nozze di Margherita di Savoia con Ranuccio II di Parma, 1660. 11 La “Gloria” era una macchina calata dall’alto e sospesa sul palcoscenico in forma di nube, aprendosi la quale comparivano uno o più personaggi. Abitualmente riservata alle apparizioni degli dei (deus ex machina) nel Falso amor bandito è destinata ai regnanti come rappresentazione metaforica della divina origine del potere sovrano. 12 Carlo Emanuele II di Savoia al conte Bigliore di Luserna, 11 gennaio 1667, cit. 13 Lo spettacolo ebbe luogo il 17 febbraio 1667, ultimo giorno di Carnevale. Carlo Emanuele II di Savoia al conte Bigliore di Luserna, 19 febbraio 1667, AST, Lettere Ministri Venezia, mazzo 13. 14 Il conte Bigliore di Luserna a Carlo Emanuele II di Savoia, 5 febbraio 1667, cit. 15 Una fluviale letteratura narrò e romanzò la vicenda; per la bibliografia e la documentazione archivistica: M. Viale Ferrero, Alessandro Stradella a Torino (1677). Nuovi documenti, in Da Carlo Emanuele I a Vittorio Amedeo II, a cura di G. Ioli, atti del convegno (20-22 settembre 1985), Città di San Salvatore Monferrato 1987, pp. 167-179. C. Gianturco, Alessandro Stradella (1639-1682). His Life and Music, Clarendon Press, Oxford 1994; Idem, Stradella uomo di grido, ETS, Pisa 2007. 16 Poesia di Giulio Strozzi, musica di Francesco Sacrati; sull’opera, portata dai Feboarmonici in molte “piazze” italiane e a Parigi: L. Bianconi, Illusione e simulazione: “La finta pazza”, in F. Milesi (a cura di), Giacomo Torelli, Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, Fano 2000, pp. 7787. Libretto della recita torinese a Roma, Biblioteca Alessandrina (Sartori n. 10501 a). 17 I numeri accanto alle lettere citate nel testo sono quelli loro attribuiti nella fonte archivistica, AST, Lettere ministri Venezia, mazzo 11. 18 Un ampio e piacevole studio su questi cantanti è quello di A. Heriot, I castrati nel teatro d’opera, Rizzoli, Milano 1962. La biografia di Pistocchi, che fu anche notevole compositore e maestro di canto, alle pp. 199-203. 19 S. Durante, Il cantante, in L. Bianconi, G. Pestelli (a cura di), Storia dell’opera italiana, vol. IV, Il sistema produttivo e le sue competenze, EDT, Torino 1987, pp. 349415. 20 AST, Lettere particolari M, mazzo 31, lettera in data 10 luglio 1679; anche in successiva lettera del 22 novembre 1687 i Mauro ricordano d’essere venuti a Torino per “seguire li Comandi del Sig.re Abbate Grimani”. 21 Così si autodefiniscono i Mauro.

22 Dettagli sulle vicende dei Mauro e di Mazzarino a Torino in Viale Ferrero, La scenografia cit., pp. 21-22, 29-31, 46-51, 464, 468-469, 479-487. Nuovi documenti sugli allestimenti scenici di opere in musica a Torino nell’ultimo ventennio del Seicento sono stati rinvenuti da Winnie Starke e se ne attende la pubblicazione. 23 Rappresentata nel Teatro Regio costruito nel 1681 in una sala del Palazzo di San Giovanni da Amedeo di Castellamonte; p. di anonimo, m. di Giovanni Carisio detto l’Orbino, Sartori n. 1800. 24 AST, Lettere particolari G, mazzo 51. 25 Sui musicisti della Scuderia, di cui facevano parte gli oboisti Pierre Perrin, Giovanni Souvage, Pietro Ghionot e Giovanni Francesco Mattis: M.T. Bouquet, Musique et musiciens à Turin, in “Memoria dell’Accademia delle Scienze di Torino”, s. IV, n. 17, 1968. 26 Le antiporte figurate si trovano in pochissimi libretti torinesi, una sola è firmata, quella di Giorgio Tasnière per I Gemelli rivali, 1690, riutilizzata nel 1702 per il libretto di Amar per virtù. Overo i Generosi Rivali. 27 Eliogabalo, p. Aurelio Aureli, m. Giovanni Antonio Boretti, Venezia, Teatro di SS. Giovanni e Paolo, 1668, Sartori n. 8759; Torino, Teatro provvisorio nel Palazzo di San Giovanni, 1678, Sartori n. 8764 . 28 L’ Amante eroe, p. Domenico David, m. Marco Antonio Ziani, Venezia, Teatro Vendramin di San Salvador, 1691, Sartori n. 1038; L’Alessandro amante eroe, Torino, Teatro Regio,1695, Sartori n. 686. 29 Tito Manlio, p. Matteo Noris, m. Carlo Francesco Pollaroli, Firenze, Villa di Pratolino 1696, Sartori n. 23217; Venezia, Teatro San Giovanni Grisostomo 1697; Torino, Teatro Regio 1703, Sartori n. 23227. 30 L’amar per virtù, p. Donato Cupeda, m. Antonio Draghi, Venezia, Teatro Vendramin di San Salvador, 1699 (Sartori n. 1162); I rivali generosi, p. Apostolo Zeno, m. Marco Antonio Ziani, Venezia, Teatro Vendramin di San Salvador, 1697 (Sartori n. 20023). La metamorfosi di Amar per virtù. Overo i Generosi Rivali, Torino, Teatro Regio, 1702, p. e m. di anonimi (Sartori n. 1154) è esaminata in un erudito studio di A.F. Ivaldi, La rappresentazione torinese di “Amar per virtù”, in “Quel novo Cario, quel divin Orfeo”. Antonio Draghi da Rimini a Vienna, a cura di E. Sala, D. Daolmi, atti del convegno internazionale (Rimini, Palazzo Buonadrata, 5-7 ottobre 1998), Libreria Musicale Italiana, Lucca 2000, pp. 347-369. 31 L’Amazone corsara, overo l’Alvilda regina de’ Goti, p. Giulio Cesare Corradi, m. Carlo Pallavicino, Venezia, Teatro di SS. Giovanni e Paolo 1686, Sartori n. 1172; Torino, Teatro Regio 1696, Sartori n. 1179. 32 Dal libretto di Alessandro amante eroe; vedere qui la nota 28. 33 Documenti in AST, Archivio Camera dei Conti, Art. 689 Patenti Controllo Finanze, Reg. 43, 1697-1699, c. 64r; Art. 217, Conti Tesoreria generale Real Casa, 1698 in 1699, parte I, cap. 249, parte II, cap. 169; 1699-1702, capitoli 435, 939 (38), 366 (492-493), 449 (139), 172. 34 Ormisda, p. Apostolo Zeno, m. Antonio Caldara, Vienna 1721, Sartori n. 17506; Artenice, m. Giuseppe Orlandini e Giovanni Antonio Giay, Torino, Teatro Regio 1723, Sartori n. 3143.

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Maestri veneti alla corte sabauda tra Cinque e Settecento Clara Goria

La Peota regale ordinata nel 1729 a Venezia, all’orizzonte l’ultimo bucintoro del doge e le imbarcazioni da parata delle corti europee, s’inserisce nel racconto delle relazioni secolari tra i Savoia e la Serenissima: nell’estate del 1731 è in viaggio per quasi due mesi, con una gondola e una burchiella, nel risalire il corso del Po fino alle rive di Torino, città di montagne e di fiumi se non di mare e velieri come appare nel visionario Capriccio di Juvarra (fig. 1)1. Venezia Torino coast to coast, a ritroso nel tempo, una traccia che ripercorre gli intensi e intermittenti rapporti figurativi e culturali seguendo il passaggio di opere e di artisti tra le due capitali alle estremità del nord della Penisola. Intorno alla Peota restaurata e ora approdata nei grandiosi spazi della Scuderia juvarriana della Reggia di Venaria, in sinergia con il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale e la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino sono stati avviati diversi progetti tra storia e arte. In questo contesto i due grandi quadri dipinti per Carlo Emanuele I dall’atelier del Veronese e da Francesco Bassano, rispettivamente la Regina di Saba offre doni a Salomone e il Ratto delle Sabine (figg. 2-3, Torino, Galleria Sabauda), – ora in corso di restauro presso il Centro di Venaria Reale, realizzato grazie ai finanziamenti ministeriali e al sostegno della Consulta – si presentano come ideale incipit del percorso dedicato ai rapporti tra lo Stato sabaudo e la Repubblica veneziana. Grazie all’intervento del laboratorio del Centro Conservazioen e Restauro della Venaria Reale, sostenuto

dal finanziamento della Consulta, le tele saranno così restituite alla pubblica fruizione nell’ambito dello stesso progetto di valorizzazione. Le due opere, tra i primi capolavori delle collezioni ducali fin da subito orientate verso la scuola veneta, sono tempestivamente ricordate dalle fonti. Già Raffaele Borghini nel 1584 annotava che Paolo Veronese “ha poi fatto molti quadri a Principi e a persone particolari, come al Serenissimo Carlo Duca di Savoia quattro grandi quadri bellissimi, nel primo quadro è la Reina Saba, che presenta Salomone, nel secondo l’Adoratione de’ Magi, nel terzo Davit con la testa di Golia, e nel quarto Giuditte con la testa di Oloferne”2. Delle quattro tele, databili al 1582, pervenute entro il 1584 nella quadreria ducale, è oggi identificabile soltanto la Regina di Saba attribuita al Veronese e aiuti (con l’intervento del fratello Benedetto Caliari)3. Un’opera di seducente qualità, la cui fortuna registra anche il folgorante entusiasmo di Ruskin che nel 1858 si trattenne per settimane in pinacoteca a copiare pazientemente i particolari veronesiani, attratto dai disegni delle stoffe materiche, dalla cromia e dalla sensualità delle vive figure4. Il dipinto firmato da Francesco Bassano è invece descritto dal milanese Lomazzo che nell’Idea del tempio della Pittura del 1590, tra le “rare opere del novello Bassano”, ricordava la “rapina delle Sabine fatta da Romani, ch’egli già dipinse per Carlo Emanuello duca di Savoia, con tanta arguzia nella espressione de i loro affetti, che la natura istessa non li può agguagliare” 5. È un indirizzo che emerge dalla prima testimonianza a noi nota riguardante gli acquisti per le

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1. Filippo Juvarra, Capriccio con il monte dei Cappuccini e la chiesa reale di Superga, 1715-1730. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, Ris. 59.1, n. 16

3. Francesco Bassano, Ratto delle Sabine. Torino, Galleria Sabauda

2. Paolo Caliari, detto il Veronese, e bottega (Benedetto Caliari), La regina di Saba offre doni a Salomone. Torino, Galleria Sabauda

collezioni di Carlo Emanuele I, all’origine dunque delle raccolte sabaude forti di un cospicuo nucleo veneto via via incrementato nel tempo. Si tratta dell’informazione fornita al duca dall’agente sabaudo a Venezia, Domenico Belli, inerente il ritardo di un quadro ivi richiesto fin dal 1579 e terminato nel 1580, di cui s’ignora autore e soggetto sebbene se ne possa ipotizzare una provenienza dalla bottega dei Bassano (intermediario lo scultore cremonese Giovanni Battista Cambi, detto il Bombarda)6. Un’ipotesi che sembra trovare conferma se connessa alla committenza ordinata dallo stesso Belli, consigliere di Emanuele Filiberto e poi di Carlo Emanuele I (a Venezia dal 1579 al 1582), per l’altare di proprio patronato nella cattedrale di Asti della pala dell’Epifania, attribuita al44

lo stesso ambito bassanesco, con una datazione posteriore al 15807. Alla pittura veneta di secondo Cinquecento si guarda anche per i grandi progetti celebrativi. Nel 1582 Carlo Emanuele commissiona a Palma il Giovane la Battaglia di San Quintino (Torino, Palazzo Reale, salone degli Svizzeri), conclusa nel 1585, per celebrare il padre Emanuele Filiberto e la vittoria decisiva per il destino degli stati sabaudi. Sulla scelta del pittore veneto gioca non soltanto la fama della sua impresa nella sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale a Venezia, ma anche la continuità con il gusto di Emanuele Filiberto, già ritratto da Tiziano nel 1548 in un dipinto ora disperso, e destinatario della dedica di Palladio del suo trattato di archi-


tettura nel 1570 (a Carlo Emanuele spetterà la dedica di Vincenzo Scamozzi nel 1615)8. Un progetto celebrativo e propagandistico divulgato anche dalla grafica, con il Ritratto di Emanuele Filiberto per i celebri tipi veneziani della bottega di Jan Sadeler (pubblicato nel 1596) e, prima ancora, con la Pianta della città di Torino del 1583, disegnata dal canonico agostiniano veneto Gerolamo Righettino9. Quest’ultima è una raffigurazione allegorica della città, nel momento in cui diventa capitale dello Stato sabaudo, circondata da acque fluviali e marine quasi fosse un’isola, un dispositivo grafico macchinoso e carico di simbologie e temi tra cui la rivendicazione del titolo regio, tramite il dominio sul regno di Cipro, e il legame con la Serenissima di cui il duca si dichiara “Reipublicae Venetae filius”. Dal 1574 infatti il Senato di Venezia riconosceva a Emanuele Filiberto il titolo di “patrizio veneto” con il privilegio di sedere nel Senato della Serenissima, accanto ai più importanti sovrani europei, come qui illustra Andrea Merlotti trattando delle relazioni storiche e politiche tra i due stati. La contesa sul regno di Cipro, ambito dalla repubblica veneziana, fu invece cruciale e dirompente fino a decretare una lunga crisi dei rapporti diplomatici quando Vittorio Amedeo assunse nel 1632 il titolo regio. Una contesa anche di immagini, in cui rientra la figura di Carlotta di Lusignano (consorte di Luigi di Savoia) che, contrapposta alla veneziana Caterina Cornaro ben più celebre e attrattiva per le arti, si ritagliò una particolare fortuna nell’iconografia sabauda secentesca: dalla genealogia figurata di Emanuele Filiberto Pingone (1581) al libro illustrato delle Memorie della vita di Carlotta dedicato al cardinal Maurizio (1621), fino a comparire tra i fregi dipinti ideati da Emanuele Tesauro in Palazzo Reale oltre la metà del secolo10. Configurato il ruolo di Venezia per il collezionismo sabaudo, gli scambi tra le due capitali, frequenti nei secoli d’oro dell’arte veneta, si allentano nel corso del Seicento, a livello politico e non solo, a eccezione di sporadici episodi. Si ricorda tra questi l’esperienza dello scultore luga-

4. Sebastiano Ricci, Madonna in gloria, l’arcangelo Gabriele e i santi Eusebio, Sebastiano e Rocco, 1724. Reggia di Venaria, chiesa di Sant’Uberto

nese Bernardo Falconi, di salda formazione veneta, chiamato nel dicembre del 1664 da Venezia a Torino da Carlo Emanuele II, poco dopo la riapertura delle relazioni diplomatiche tra i Savoia e la Serenissima, nominato nel 1665 “scultore de’ bronzi e marmi” del duca, subito attivo con un ruolo da protagonista anche nel cantiere della Venaria Reale (1665-1671). Delle sculture, “fatiche nobilissime dello scalpello di Bernardo Falconi”, di cui oggi non restano che ben pochi frammenti, Amedeo di Castellamonte nel dialogo immaginario con Bernini in visita al palazzo si soffermava non a caso sui grandi “quattro schiavi mori” davanti la facciata (di cui resta memoria nelle tavole incise), la cui idea, come ha indicato Giuseppe Dardanello, si ritrova a Ve45


nezia negli stessi anni nel mausoleo del doge Giovanni Pesaro nella chiesa dei Frari (16651669): analoghe statue realizzate da Melchior Barthel, sculture in bronzo di Falconi e iscrizioni dedicate alle imprese del doge, ambasciatore alla corte di Savoia nel 1620, affidate nientemeno che al Tesauro, autore del programma iconografico della reggia di Diana11. Percorrendo gli spazi della reggia si coglie ancora il nuovo registro figurativo orchestrato nel primo Settecento dall’architetto Filippo Juvarra per il re Vittorio Amedeo II. Nella cappella regia juvarriana sono esibite sui due altari laterali le superbe pale di Francesco Trevisani (trasferitosi nel 1678 da Venezia a Roma) e del bellunese Sebastiano Ricci, rispettivamente l’Immacolata con i santi Luigi IX re di Francia e il beato Amedeo di Savoia e la Madonna in gloria, l’arcangelo Gabriele e i santi Eusebio, Sebastiano e Rocco (fig. 4) (1724), tanto ammirata dai viaggiatori francesi, a inaugurare la rinnovata fortuna degli artisti veneti nel regno sabaudo12. Sono tra i protagonisti di quella stagione che Andreina Griseri ha definito “vera e propria internazionale accademica” a uso dei palazzi e dell’arcadia rocaille, tra artisti veneti, romani e napoletani13. A partire dal 1724 Ricci per un intero decennio dipinge a Venezia per la corte sabauda un cospicuo numero di opere, poi spedite via Canonica d’Adda a Torino, città interdetta al cosmopolita pittore, dalla vita avventurosa e libertina, a causa di un precedente penale14. In questi anni conta il canale veneziano per la committenza di Vittorio Amedeo: per la Peota (nel 1729), per i quadri di Ricci15. La regia è di Juvarra che stringe il rapporto con il pittore assicurando ai nuovi cantieri alcune tra le opere più significative della virata rococò del suo itinerario16. Una pittura di tocco, rimeditata sulla tradizione del Veronese, cangiante di luminosa cromia, con teatrali impianti spaziali, emerge fin dai primi arrivi: dalle tele per Palazzo Reale e per il Castello di Rivoli, alle pale sacre della regia basilica di Superga (1729), probabilmente identificabili con i “due quadri per S.M.” esposti al pubblico a Venezia con “applauso universale” alla festa di San Rocco, fino 46

alle sovrapporte con Il festino di Baldassarre ed Ester davanti ad Assuero, ora a Roma al Quirinale (1733)17. Con Sebastiano collabora il nipote Marco Ricci per interventi architettonici e paesaggistici. A Marco, nel 1723, Juvarra commissiona a Venezia la grande tela con Il salone del Castello di Rivoli (ora Racconigi, castello), parte della serie di vedute architettoniche affidate a Giovanni Paolo Pannini, Andrea Locatelli e Massimo Teodoro Michela: nel 1724 il piemontese Domenico Olivero invia “sei figurine fatte sopra la carta” per essere dipinte da Marco, mentre sulla tela è riportato il disegno preparatorio tracciato da Juvarra nel 1722-172318. Il colore della pittura veneta, di cui era maestro Sebastiano, seduce Claudio Francesco Beaumont, primo pittore di corte dal 1731, che nel 1735 richiede a Venezia il prezioso e costoso “azzuro oltremare”: “una scatoletta” con “un’oncia del più bello e del più sottile” (e poi, trovandolo “perfettissimo”, ancora “altre due oncie”). Così registra il carteggio tra il ministro d’Ormea a Marini, residente di Savoia nella città lagunare, ricordando: “Ne mandai nel 1733 per ordine della Regina di felice memoria, e me lo scelse il pittore Sebastiano Ricci; ma questo è morto […]”19. Si ritrova nella tavolozza di colori usata da Beaumont in questi anni di fervente attività per le impegnative e prestigiose imprese decorative del regio palazzo di Carlo Emanuele III, a capo dell’équipe di artisti e artigiani attiva anche per la manutenzione della Peota nel 1731-1732 (come rileva Andreina Griseri ipotizzando un coinvolgimento diretto del pittore, sostenuto da Juvarra, nel progetto decorativo dell’imbarcazione)20. In seguito Beaumont, per volere del re, si reca a Venezia nel 1737 per valutare un delicato acquisto di opere, soprattutto olandesi e fiamminghe, proposte dal mercante veneziano Giovanni Battista Bodissoni, tanto scaltro da scandalizzare lo stesso Sebastiano Ricci (così aveva confidato il pittore al Marini). L’acquisizione dei quadri (in parte identificabili in un piccolo nucleo della Galleria Sabauda), “incamminati alla volta di Torino sopra una barca del patron Pietro Golgia”, segna un precedente significativo dell’af-


fermarsi di un nuovo gusto collezionistico prima dell’acquisto delle collezioni del principe Eugenio di Savoia Soissons21. Non si esclude che Beaumont durante questo breve soggiorno, desiderato fin dai tempi della sua formazione, entrasse in contatto con artisti già attivi per Torino, come Giambattista Pittoni, rinsaldando la lezione veneta cresciuta con l’apprendistato presso Trevisani e attraverso opere dei maestri veneti presenti a corte, importanti per la sua evoluzione stilistica (come si rileva già nelle Storie di Enea nella Galleria della Regina, 1738-1742)22. È d’altronde all’insegna di questa scuola pittorica che le fonti narrano degli inizi di Beaumont, nell’esercitarsi a copiare Veronese e in particolare Mosè esposto nel Nilo (Torino, Galleria Sabauda), tra i primi arrivi delle collezioni ducali di cui si è trattato precedentemente23. Altri artisti piemontesi raggiungeranno la città lagunare per il perfezionamento: da Ignazio Nepote, documentato a Venezia nel 1734 (che ne Il pregiudizio smascherato del 1770 decantava il “chiaro scuro e tinger veneziano” di Beaumont e, tra “i pittori di gran merito” presso la corte, “Trevisani veneto”, Ricci, Pittoni, Piazzetta e Crosato “buon inventor, ed ottimo coloritore veneto”), fino alle più tarde permanenze dei pittori e incisori Francesco Antonio e Lorenzo Pelleri e Pietro Peiroleri, sostenuti dalla corte24. Intanto i cantieri regi della capitale registrano sempre più fitte presenze venete. È un capitolo aperto dai fondamentali studi di Andreina Griseri su Torino come laboratorio del rococò e sulla carriera del veneziano Giovanni Battista Crosato, scenografo e frescante, durante i soggiorni del 1730-1735, poi del 1740-1745, intervallati da un ritorno nella città lagunare25. Esordisce nella grande decorazione nel 1733 con una pittura rocaille di ariosa e accesa naturalezza per favole arcadiche non irregimentate dall’accademismo romano, aggiornata sugli inizi tiepoleschi, in gara con Charles-André van Loo e Giaquinto alla palazzina di caccia di Stupinigi, a Villa della Regina e a Palazzo Reale, lavorando in seguito anche per chiese cittadine e della provincia26. Recentemente Carla Enrica Spantigati ha avan-

5. Bernardo Bellotto, L’antico ponte sul Po. Torino, Galleria Sabauda

zato l’ipotesi di una prossimità stilistica tra la produzione di Crosato e le delicate allegorie della Peota, in blu di Prussia (tangenti ai modelli decorativi promossi negli stessi anni da Juvarra)27. Un dibattito riaperto sull’autografia pittorica della Peota, non circoscrivibile a un unico artista (esteso inoltre alla paternità del programma iconografico e alla cronologia degli interventi decorativi, da scalare tra Venezia e Torino). Il confronto si misura sui dipinti mitologici di Crosato per il fregio ligneo ora a Palazzo Madama e sul pannello con Venere e Marte (Dronero, Museo civico Luigi Mallé), in origine probabilmente una portantina (circa 1733)28. E si riaggancia all’attività di Crosato figurista, fin dal primo arrivo torinese (da Venezia nel 1731), per le scenografie del Regio Teatro accanto al veneziano Alessandro Mauro ideatore di apparati effimeri, bizzarre peote e bucintori per la corte di Dresda29. Per un affresco più completo sul vivo contesto musicale e letterario si rimanda invece alle pagine di Andrea Merlotti per i rapporti con la Venezia di Vivaldi, Goldoni e Casanova (e per le arie vivaldiane, protagoniste nell’allestimento della Peota curato ora da Davide Livermore, si rammenta la storia, questa volta tutta novecentesca, dell’approdo torinese della più importante raccolta di partiture autografe del musicista, presso la Biblioteca Nazionale Universitaria)30. La predilezione per la pittura veneta incontra nel quarto e quinto decennio le rinnovate ten47


denze decorative degli ambienti progettati dal primo architetto Benedetto Alfieri che per palazzo Reale richiede dipinti agli ambitissimi Jacopo Amigoni, per la sovrapporta La continenza di Scipione “atteggiata con una tipica eleganza di teatro da camera” (1739), e Giovanni Battista Piazzetta (1742)31. Si avvia nel contempo il soggiorno di Giuseppe Nogari, protetto del marchese Ferrero d’Ormea, allievo di Antonio Balestra e legato a Piazzetta, giunto da Milano a Torino nel 1740: autore, sulla scorta della maniera di Amigoni, di levigate e soffici allegorie e “teste di carattere all’olandese” assai alla moda, organiche a specchi e boiseries alfieriane (1740-1741), ancora attivo nel 1748 a Venezia per quadri di committenza sabauda32. Quasi in contemporanea si svolge l’esperienza di Mattia Bortoloni, eccezionale frescante, interprete eccentrico della poetica tiepolesca portata all’eccesso, quasi sfibrata e smagliata in un sorprendente illusionismo, attivo fin dai primi anni quaranta tra Torino e la provincia, anche per edifici sacri di patrocinio regio: a Vicoforte nel santuario mariano mette a segno una delle sue ultime e grandiose prove misurandosi con l’immane impresa decorativa della cupola ellittica (17461748)33. Non è questo un episodio isolato per la fortuna dei veneti nella provincia piemontese interessata per tempo da significativi casi di aggiornamento, nel cuneese, con l’arrivo della pala d’altare dell’Adorazione dei pastori di Sebastiano Ricci nella cattedrale di Saluzzo (di discussa cronologia ma verosimilmente databile al 1733-1734) e con gli affreschi di Crosato al monastero della Visitazione di Pinerolo, nella cappella ornata dalla tela di Beaumont (1740)34. Mentre il territorio di Casale Monferrato è particolarmente interessato

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da diverse esperienze venete, per vie indipendenti dai tracciati della capitale. Si segnalano un mancato tentativo di commissionare a Tiepolo gli affreschi della cappella di Sant’Evasio in duomo e l’intensa attività di un affiatato sodalizio neoclassicheggiante. Il veronese Francesco Lorenzi, fedelissimo allievo di Tiepolo, forte di una lunga e accreditata carriera, lavora infatti a più riprese al servizio della nobiltà casalese, con affreschi e quadri, per cicli decorativi mitologici e allegorici, in collaborazione con il quadraturista vicentino Paolo Guidolini, nei palazzi Gozzani di San Giorgio e Treville, e Cocconito da Montiglio (17781783). La fabbrica di Palazzo Gozzani di Treville coinvolge inoltre un altro vicentino, l’architetto Ottavio Bertotti Scamozzi, tra gli ultimi interpreti, come qui illustra Paolo Cornaglia, della fortuna settecentesca del palladianesimo in Piemonte (sulla rotta già aperta con Vicenza dal casalese Magnocavalli, architetto e scrittore di teatro)35. Per chiudere queste brevi note conviene tornare indietro, alla Torino in guerra del 1745 con il passaggio di Bernardo Bellotto diretto verso Dresda. È in quest’occasione che il pittore dipinge su committenza di Carlo Emanuele III le due celebri vedute panoramiche della città (Torino, Galleria Sabauda), firmate con il soprannome dello zio Canaletto, incisive per l’indirizzo del gusto di corte verso gli sviluppi del genere pittorico. Torino dal lato del Giardino reale e l’Antico ponte sul Po (fig. 5, sullo sfondo le rive dove era approdata la Peota, custodita nella rimessa al Valentino): inedite riprese ottiche della realtà, sperimentali e fuori da ogni retorica, nodali nel percorso dell’artista, immagini di una cultura internazionale già illuminista in cui anche Torino avrebbe svolto la sua parte36.


1 Sul Capriccio con il monte dei Cappuccini e la chiesa reale di Superga di Filippo Juvarra (1715-1730), a penna e inchiostro bruno acquerellato (Torino, Biblioteca Nazionale, Ris. 59.1, n. 16): G. Dardanello, Pensieri e disegni – ragione e seduzione – Guarini e Juvarra, in G. Dardanello, R. Tamborrino (a cura di), Guarini, Juvarra e Antonelli. Segni e simboli per Torino, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Bricherasio, 28 giugno - 14 settembre 2008), Silvana Editorale, Cinisello Balsamo 2008, pp. 29-30. 2 R. Borghini, Il riposo in cui della Pittura e della Scultura si favella de’ più illustri Pittori e Scultori […], Firenze 1584, pp. 562-563. 3 Sulle opere veronesiane e la formazione del nucleo di dipinti di scuola veneta nelle collezioni ducali: A.M. Bava, La collezione di pittura e i grandi progetti decorativi, in G. Romano (a cura di), Le collezioni di Carlo Emanuele I, Fondazione e Banca Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1995, pp. 212-221; Eadem, Arti figurative e collezionismo alle corti di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I, in G. Ricuperati (a cura di), Storia di Torino, III. Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello stato (1536-1630), Einaudi, Torino 1998, pp. 312-326; Eadem, I maestri veneti del Cinquecento nelle collezioni sabaude, in Capire la pittura attraverso i capolavori dei musei piemontesi, vol. III, Torino 2009 (Centro Congressi Unione industriale di Torino). 4 Fu una scoperta fatale per il critico d’arte inglese che retrospettivamente la chiamerà “Il crollo della Regina di Saba” per l’impatto che ebbe sulla sua poetica: R. Cocke, Veronese, Jupiter Books, London 1980, p. 5; C. Bertolotto per la conferenza l’Opera del mese (Galleria Sabauda, 1990); D. Levi, P. Tucker, Ruskin didatta. Il disegno tra disciplina e diletto, Marsilio, Venezia 1997, pp. 202-203. 5 G.P. Lomazzo, Scritti sulle arti, a cura di R.P. Ciardi, vol. I, Centro Di, Firenze 1973, p. 366. Sulla cronologia del dipinto, databile alla prima metà degli anni ottanta e l’ingresso nella quadreria (già nel 1584 Borghini segnalava due quadri del Bassano dipinti per il duca “che per lo colorito e la vaga maniera piacciono molto”, non altrimenti specificati): A.M. Bava, in Romano, Le collezioni di Carlo Emanuele I cit., p. 214; N. Gabrielli, Galleria Sabauda. Maestri italiani, Ilte, Torino 1971, pp. 64, 88; Guide brevi della Galleria Sabauda. Primo settore. Collezioni dinastiche: da Emanuele Filiberto a Carlo Emanuele I, Allemandi, Torino 1991, pp. 39-41. 6 A.M. Bava, in Romano, Le collezioni di Carlo Emanuele I cit., p. 212. 7 Sulla pala d’altare, gentilmente segnalatami da Gelsomina Spione: N. Gabiani, La Cattedrale di Asti nella storia e nell’arte, Vinassa, Asti 1920, pp. 201-202; I. Bologna, F. Percopo, M.A. Rocco, Cattedrale di S. Maria Assunta. Asti, L’Angolo Manzoni, Torino 1995, pp. 44-45. 8 Sulla tela di Palma il giovane e il ritratto dipinto da Tiziano ad Augusta, ancora inventariato a Palazzo Ducale nel 1635, poi disperso e sulle ultime proposte attributive: A.M. Bava, in Romano, Le collezioni di Carlo Emanuele I cit., pp. 212-214. Le grandi tele di Veronese, Bassano e Palma il Giovane erano allestite nel 1631 in Palazzo Ducale nella camera bassa verso il giardino, con una posi-

zione di grande prestigio, così il nucleo veneto fu accorpato nel 1635 nella “Camera dei segni celesti”; altri acquisti veneti sono effettuati nel 1633 a Milano per Vittorio Amedeo I. Opere dei maestri veneti furono offerte dai Savoia come doni di grande importanza, come I pellegrini in Emmaus del Veronese, donato da Vittorio Amedeo I al duca di Créqui (ora al Louvre), o Adamo nel Paradiso di Jacopo Bassano, regalato a Filippo IV dal principe Emanuele Filiberto, figlio di Carlo Emanuele I (oggi al Prado): A.M. Bava, in Romano, Le collezioni di Carlo Emanuele I cit., pp. 219-220; M. di Macco, Quadreria di palazzo e pittori di corte. Le scelte ducali dal 1630 al 1684, in G. Romano, Figure del barocco in Piemonte, Cassa di risparmio di Torino, Torino 1988, pp. 42-44. Per i rapporti con Palladio e con Scamozzi si rinvia alle pagine di P. Cornaglia in questo volume. 9 G. Romano, scheda n. 4, in I rami incisi dell’Archivio di Corte: sovrani, battaglie, architetture, topografie, a cura di B. Bertini Casadio, I. Massabò Ricci, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, novembre 1981 - gennaio 1982), Archivio di Stato, Torino 1981, pp. 169-170; A. Griseri, Nuovi programmi per le tecniche e la diffusione delle immagini, in Ricuperati, Storia di Torino, III cit., p. 302; per la pianta di Torino di Righettino, in ultimo: F. Paglieri, scheda n. 4.3, in La Reggia di Venaria e i Savoia. Arte, magnificenza e storia di una corte europea, a cura di E. Castelnuovo, catalogo della mostra (Reggia di Venaria Reale, 12 ottobre 2007 - 30 marzo 2008), Allemandi, Torino 2007, p. 71. 10 Per il ritratto della regina Carlotta eseguito da Giacomo Grimaldi, chierico della basilica vaticana, nel libro dedicato al cardinal Maurizio (tratto dalla pittura della chiesa romana di Santo Spirito in Sassia): I. Massabò Ricci e M. Gattullo (a cura di), L’Archivio di Stato di Torino, Nardini, Firenze 1994, pp. 25, 30-31; il riferimento al fregio riguarda la modesta tela con Luigi II di Savoia e la regina Carlotta in partenza dall’isola di Cipro, ora nei depositi di Palazzo Reale (già sala della Concordia), in correlazione con la serie dell’anticamera delle principesse, dipinta dall’équipe di pittori lombardo-ticinesi attiva nel 1663: M. di Macco, schede nn. 133-134, in Diana trionfatrice. Arte di corte nel Piemonte del Seicento, a cura di M. di Macco, G. Romano, catalogo della mostra (Torino, Parco del Valentino, 27 maggio - 24 settembre 1989), Allemandi, Torino 1989, pp. 120-122; C.E. Spantigati (a cura di), 1996. Restauri in Piemonte, Allemandi, Torino 1997, scheda di P. Astrua, p. 62. 11 A. di Castellamonte, Venaria Reale palazzo di piacere e di caccia […], 1674 (ma 1679), pp. 21-22, tav. IX; G. Dardanello, schede nn. 29-30, in Diana trionfatrice cit., pp. 28-29; P. Cornaglia, Giardini di marmo ritrovati. La geografia del gusto in un secolo di cantiere a Venaria Reale (1699-1798), Lindau, Torino 1994, pp. 117-136; C. Bertolotto, schede nn. 9.14-9.15, in La Reggia di Venaria e i Savoia cit., vol. II, pp. 173-174; P. Cornaglia, Venaria Reale. La più importante residenza dei duchi di Savoia e dei re di Sardegna, ivi, pp. 185-198; si ricordi il viaggio di Carlo Emanuele II a Venezia nel 1667, e su Tesauro in relazione alla città lagunare si veda anche: M. Maggi,

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“Sconcertati concerti”: Tesauro, la “supposition” e l’“arte nuevo”, in “Lettere Italiane”, 3, 2003, pp. 428-430. Si segnala inoltre la presenza di scuola veneziana delle tele del pittore Federico Cervelli all’Abbazia di Casanova, Carmagnola (1685): G. Dardanello, Cantieri di corte e imprese decorative a Torino, in Romano, Figure del barocco in Piemonte cit., p. 248. 12 F. Grana, schede nn. 18.2-18.3, in La Reggia di Venaria e i Savoia cit., pp. 288-291; C.E. Spantigati (a cura di), Restauri per gli altari della Chiesa di Sant’Uberto alla Venaria Reale, Nardini, Firenze 2007. 13 A. Griseri, Le metamorfosi del Barocco, Einaudi, Torino 1967, pp. 323-331. 14 Si tratta della fuga d’amore di Ricci con Maddalena figlia del pittore Antonio Francesco Peruzzini, scappati nel 1688 da Bologna a Torino presso lo zio della giovane (l’artista di corte Giovanni Peruzzini), che gli valse la condanna a morte per ratto e bigamia (poi commutata per intervento del duca di Parma in bando perpetuo dalla città): A. Matteoli, Le vite di artisti dei secoli XVII e XVIII di Giovanni Camillo Sagrestani, in “Commentari”, 1971, p. 202; A. Scarpa, Sebastiano Ricci, Alfieri, Milano 2006, pp. 20-21, 62. 15 Sullo sfondo, si ricorda l’antefatto del viaggio veneziano di Vittorio Amedeo nel 1687, durante il quale aveva assistito anche a spettacoli con il bucintoro e peote da parata: G. Roberti, Vittorio Amedeo II a Venezia (1687), Torino 1887, pp. 1-23. 16 Juvarra dedica a Ricci, e al nipote Marco, due sepolcri immaginari nelle Memorie Sepolcrali dell’homini più insigni di questo secolo conosciuti da me (C. Ruggero, schede nn. 21, 24, in C. Ruggero [a cura di], La forma del pensiero. Filippo Juvarra. La costruzione del ricordo attraverso la celebrazione della memoria, Campisano, Roma 2008, pp. 257-261, 265-268). È da considerare per questi anni anche la presenza a corte dello studioso veronese Scipione Maffei, in stretti rapporti con l’architetto (di cui scrisse l’Elogio), che nel 1724 era a Torino al suo terzo soggiorno (sul suo ruolo centrale per la cultura antiquaria, il collezionismo e la formazione dei primi musei pubblici torinesi: L. Levi Momigliano, Scipione Maffei, Filippo Juvarra e le collezioni torinesi di antichità, in A. Griseri, G. Romano [a cura di], Filippo Juvarra a Torino. Nuovi progetti per la città, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1989, pp. 324-338) cfr. A. Merlotti in questo volume. 17 Schede Vesme, III, 1968, p. 925; Scarpa 2006, pp. 42, 291, 308-314; Gabrielli, Galleria Sabauda cit., pp. 215-217. 18 A. Griseri, Juvarra regista di una rivoluzione del gusto, in Griseri, Romano, Filippo Juvarra a Torino cit., pp. 3337; A. Scarpa Sonino, Marco Ricci, Berenice, Milano 1991, pp. 34-35, 130-131; G. Dardanello, scheda in Guarini, Juvarra e Antonelli cit., pp. 32-33. 19 Schede Vesme, I, pp. 102-103. 20 A. Griseri, Torino 1731: il palcoscenico sul fiume e le sue quinte, in Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci, Editrice Compositori, Bologna 2004, pp. 273-275. 21 Sulle opere acquistate nel 1737 da Beaumont, ora iden-

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tificabili presso la Galleria Sabauda (sul retro, un biglietto con sigillo a firma di “Giuseppe Mozzoni notaro veneziano” in data 15 febbraio 1734, secondo l’uso veneziano corrispondente in realtà al 1735): Schede Vesme, 1963, I, p. 103; C.E. Spantigati, Gli acquisti di Carlo Emanuele III a Venezia: l’affermazione di un gusto, in Le raccolte del principe Eugenio condottiero e intellettuale. Collezionismo tra Vienna, Parigi e Torino nel primo Settecento, a cura di Eadem, catalogo della mostra (Reggia di Venaria, 5 aprile - 9 settembre 2012), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2012, pp. 274-278. 22 A. Griseri, ad vocem Beaumont, Claudio Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto per l’Enciclopedia Italiana, Roma 1965, vol. VII, pp. 378-381; A. Cifani, F. Monetti, Contributi documentari per il pittore torinese Claudio Francesco Maria Beaumont (1694-1766), in “Storia dell’arte”, 116-117, 2007, pp. 203-248; S. Mattiello, Per una revisione della biografia giovanile di Claudio Francesco Beaumont, in G. Dardanello (a cura di), Beaumont e la scuola del disegno. Pittori e scultori in Piemonte alla metà del Settecento, Nerosubianco, Cuneo 2011, pp. 33-44; C. Goria, Claudio Francesco Beaumont, Giuseppe Maria Crespi e le accademie, ivi, pp. 45-52; G. Dardanello, Claudio Francesco Beaumont, ivi, pp. 110-111. Giambattista Pittoni è in relazione con la corte dal 1733, quando invia la sovrapporta con il Sacrificio per la figlia di Jefte (1732-1733) per Palazzo Reale, accanto a opere di Sebastiano Conca, Agostino Masucci, e Francesco Monti (1733-1738): L. Leoncini (a cura di), Museo di Palazzo Reale. Genova. Catalogo generale, vol. I, Skira, Milano 2008, pp. 60-61; L. Leoncini, scheda n. 3.2.5, in La bella Italia. Arte e identità delle città capitali, a cura di A. Paolucci, catalogo della mostra (Venaria Reale, 17 marzo - 11 settembre 2011), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2011, p. 170. 23 S. Mattiello, in Dardanello, Beaumont e la scuola del disegno cit., p. 41. 24 I. Nepote, Il Pregiudizio smascherato da un pittore, colla descrizione delle migliori Pitture della Real Città di Torino, Venezia 1770, pp. 6, 40, 46, 57, 51, 62. A. Rizzo, Ignazio Nipote, in Dardanello, Beaumont e la scuola del disegno cit., pp. 123-124; per i soggiorni dei Pelleri e di Peiroleri: Schede Vesme, III, 1968, pp. 800-803, 805-807. 25 A. Griseri, Il “rococò” a Torino e Giovan Battista Crosato, in “Paragone”, XII, n. 135, 1961, pp. 52-65; Eadem, Le metamorfosi del Barocco cit., pp. 323-337; Eadem, Arcadia: crisi e trasformazione fra Sei e Settecento, in F. Zeri (a cura di), Storia dell’arte italiana, Einaudi, Torino 1981, IV, I, pp. 580-590. 26 A. Griseri, in Griseri, Romano Filippo Juvarra a Torinocit., pp. 43-52; Eadem, Aequa potestas “tra architettura e pittura”, in R. Gabetti, A. Griseri (a cura di), Stupinigi: luogo d’Europa, Allemandi, Torino 1996, pp. 59-82; Eadem, Il gusto di vivere in villa: Crosato con Juvarra, in C. Mossetti, P. Traversi (a cura di), Juvarra a Villa della Regina. Le storie di Enea e di Corrado Giaquinto, Torino 2008, pp. 51-58. 27 Si rimanda a C.E. Spantigati in questo volume. 28 C. Mossetti, scheda n. 307, in Il tesoro della città: ope-


re d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, a cura di S. Pettenati, G. Romano, catalogo della mostra, Allemandi, Torino 1996, p. 147: Ang. Griseri, in E. Ragusa (a cura di), Museo Mallé, L’artistica Savigliano, Savigliano 1995, pp. 80-81. 29 M. Viale Ferrero, Giovanni Battista Crosato e la sua attività di scenografo al Teatro Regio di Torino, in M.T. Muraro (a cura di), Venezia e il melodramma, Leo S. Olschki, Firenze 1978, pp. 47-62; Eadem, Storia del Teatro Regio di Torino. III. La scenografia dalle origini al 1936, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1980, p. 506. 30 Si veda il saggio introduttivo di A. Basso al catalogo della mostra Antonio Vivaldi 1678-1978. Mostra dei manoscritti dei fondi Foà e Giordano, Torino 1978; M.L. Sebastiani, F. Porticelli (a cura di), Torino musicale “scrinium” di Vivaldi. Il teatro vivaldiano nelle raccolte manoscritte della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, catalogo della mostra (Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, 14 febbraio - 3 giugno), Biblioteca Nazionale Universitaria, Torino 2006. 31 A. Griseri, L’ultimo tempo dell’Amigoni e il Nogari, in “Paragone”, 123, 1960, pp. 21-26; Eadem, La pittura, in Mostra del barocco piemontese, a cura di V. Viale, catalogo della mostra, Tipografia F.lli Pozzo-Salvati-Gros Monti e C., Torino 1963, II, pp. 87-88; per la committenza di una Lucrezia romana (andata perduta) a Piazzetta: Schede Vesme, III, 1968, p. 830; a questo proposito si citano i due importanti volumi di disegni realizzati da Piazzetta per le illustrazioni della Gerusalemme liberata, per l’editore veneziano Giambattista Albrizzi (1745), tra i più bei libri illustrati del Settecento veneziano, conservati presso la Biblioteca Reale a Torino, giunti entro il 1832: A. Bettagno, schede 117-117b, in G.C. Sciolla (a cura di), Da Leonardo a Rembrandt. Disegni della Biblioteca Reale di Torino, Allemandi, Torino 1990, pp. 290-296; lo sfarzo della corte di Carlo Emanuele III è descritto nella relazione di Marco Foscarini al Senato veneto (1743): Relazioni dello Stato di Savoia negli anni 1574, 1670, 1743, scritte dagli ambasciatori veneti, Torino 1830. 32 C. Mossetti, La politica artistica di Carlo Emanuele III, in S. Pinto (a cura di), Arte di corte a Torino da Carlo Emanuele III a Carlo Felice, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1987, pp. 22-25; S. Villano, schede nn. 9.13 a-b, in De Van Dyck à Bellotto. Splendeurs à la cour de Savoie, a cura di C.E. Spantigati, catalogo della mostra (Bruxelles, Palais des Beaux-Arts, 20 febbraio - 24 maggio 2009), Allemandi, Torino 2009, pp. 214-215; per un intervento decorativo di Antonio Pellegrini non andato in porto, malgrado la raccomandazione inoltrata a corte da Rosalba Carriera (“per dipingervi alcune volte a Palazzo reale”), probabilmente ostacolato dal “signor Nagari”: Schede Vesme, III, 1968, pp. 740, 805. 33 Su Bortoloni si veda in ultimo: M. Dell’Omo, Per il per-

corso di Mattia Bortoloni in Piemonte, tra documenti, ipotesi e contesti, in F. Malachin e A. Vedova (a cura di), Bortoloni Piazzetta Tiepolo. Il ’Settecento veneto, catalogo della mostra (Rovigo, Pinacoteca di Palazzo Roverella, 30 gennaio - 13 giugno 2006), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2010, pp. 61-73. 34 M. di Macco, La pittura del Settecento in Piemonte (E. Ragusa, Il cuneese), in G. Briganti, La pittura in Italia. Il Settecento, Electa, Milano 1989, I, pp. 33-34, 51-52; S. Damiano, Settecento saluzzese: luoghi e interpreti, in R. Allemano, S. Damiano, G. Galante Garrone (a cura di), Arte nel territorio della diocesi di Saluzzo, L’Artistica Savigliano, Savigliano 2008, pp. 320-323; scheda di X.F. Salomon, in Sebastiano Ricci. Il trionfo dell’invenzione nel Settecento veneziano, a cura di G. Ravanello, catalogo della mostra (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 24 aprile 11 luglio 2010), Marsilio, Venezia 2010, pp. 78-79. 35 Francesco Lorenzi. Gli affreschi, a cura di I. Chignola, catalogo della mostra (Mozzecane, Villa Vecelli-Cavriani, 16 novembre 2002 - 19 gennaio 2003), Via Postumia, Verona 2002, pp. 108-186; G. Mazza, Rapporti tra Veneto e Casale Monferrato nel Settecento, in Francesco Lorenzi (1723-1787): un allievo di Tiepolo tra Verona, Vicenza e Casale Monferrato, a cura di I. Chignola, E. M. Guzzo, A. Tomezzoli, atti della giornata di studio, Cierre Edizioni, Caselle di Sommacampagna (Verona) 2005, pp. 203-211; I. Turri, schede, nn. 40 a-b, in Il Settecento a Verona. Tiepolo, Cignaroli, Rotari. La nobiltà della pittura, a cura di F. Magani, P. Marini, A. Tomezzoli, catalogo della mostra (Verona, 26 novembre 2011 - 9 aprile 20121), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2011, pp. 163-166. Nell’ambito del collezionismo, in contesto casalese, si considerino gli acquisti veneti dei Mossi di Morano: C. Mossetti, La “copiosa galleria di buoni quadri” di casa Mossi a Casale: primi accertamenti documentari, in Le collezioni del Museo Civico di Casale. Catalogo delle opere esposte, a cura di G. Mazza, C. Spantigati, Derthona, Tortona 1995, pp. 111-121; L. Mana, Le dodici vedute di Venezia nella “più bella collezione che vi sia stata nel Paese”: note sulla quadreria di monsignor Vincenzo Maria Mossi di Morano, in A. Cifani e F. Monetti (a cura di), Tra Canaletto e Guardi. Dodici vedute veneziane della Pinacoteca Albertina di Torino, Allemandi, Torino 2009, pp. 19-21. 36 Galleria Sabauda cit., p. 73; G. Romano, Studi sul paesaggio, Einaudi, Torino 1978 e 1991, p. 96, fig. 51; C. Mossetti e G. Romano, schede nn. 23-24, in S. Marinelli (a cura di), Bernardo Bellotto. Verona e le città europee, Electa, Milano 1990, pp. 98-101; S. Villano, scheda 11.10, in La Reggia di Venaria e i Savoia cit., p. 196; M. di Macco, Duchi, Madame Reali e Re sabaudi: forme dell’arte di corte a Torino dal Cinquecento al Settecento, in La Reggia di Venaria e i Savoia cit., vol. I, pp. 266-267.

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Il silenzio delle fonti. Sulle tracce della Peota fra Torino e Venezia Giovanni Caniato Nell’ambito del convegno tenutosi alla Venaria nella scorsa primavera s’era dato conto in via preliminare di alcuni dispacci trasmessi al Senato dal residente veneto a Milano nel 1730: l’anno in cui Amedeo II abdica a favore del figlio, in singolare coincidenza con l’avvio della costruzione in laguna della “Peota-Bucintoro” destinata alla corte sabauda1. Le formali relazioni diplomatiche fra la Serenissima e Torino erano da tempo interrotte e verranno ripristinate solo a decorrere dal 1741: sullo scorcio di quest’ultimo decennio – quando, da altre fonti, sappiamo che venne inviata da Venezia al Valentino un’altra peota destinata alla corte sabauda – sono numerosi e assai circostanziati i dispacci inviati fra l’estate del 1748 e l’inizio del 17502 dal residente veneziano in Torino, Domenico Maria Cavalli, cui subentrerà di lì a breve Giovanni Colombo3. I dispacci inviati a cadenza ravvicinata al Senato si soffermano soprattutto sui preliminari di pace in corso di definizione, che porteranno alla firma del trattato di Nizza, sugli accordi presi con i Barbareschi e su episodi di pirateria che avevano coinvolto navi battenti la bandiera di San Marco. Ma non mancano gli accenni alle vicende della corte reale alla Venaria e ai preparativi in corso, in previsione delle nozze fra il duca di Savoia e l’infanta di Spagna: eppure – come era stato per il 1730-1731 – non è stato a tutt’oggi individuato riferimento alcuno circa l’arrivo al Valentino o l’impiego di peote sul Po. Nell’ottobre 1748, ad esempio, il residente scrive che “domenica scorsa, giorno in cui sogliono i forastieri ministri trasferirsi in ogni settimana alla

Veneria, mi vi sono trasferito secondo l’usato ancor io”4 e, nell’aprile dell’anno successivo, partecipa l’auspicio del sovrano piemontese, affinché “la Serenissima Repubblica di Venezia avesse destinato un ambasciatore la cui rappresentanza aggiugnesse splendore alla grandezza della occasione”; e rimarca che “nacque tal desiderio nell’animo del Re stesso da certa tenera sollecitudine ch’egli sente di decorare in ogni maniera la celebrazione sudetta”: un evento per il quale nulla vieta di supporre fosse collegato l’arrivo a Torino di una seconda peota di gala5, anche se la documentazione diplomatica lascia intuire che la passione del sovrano non si rivolgesse all’acqua, bensì ai cavalli e alla caccia6. La ridefinizione dello status della reciproca rappresentanza diplomatica sembrerebbe essere un chiodo fisso per il sovrano sabaudo: forse perché ben sapeva che gli ambasciatori della Serenissima – selezionati fra i patrizi veneti più illustri – erano diretta emanazione del “corpo sovrano” dell’aristocratica Repubblica, mentre i residenti, di regola scelti fra i “cittadini originarii”, occupavano una posizione gerarchicamente inferiore nel cerimoniale di corte. Un paio di mesi dopo, infatti, il residente veneto riferisce di essere stato “a passeggio” nel parco della Venaria con tutta la corte e che il Re “continuò meco parlando con somma grazia, sino all’ora di passare alla capella” e, ragionando “sopra la buona salute che gli concilia l’aria di quel soggiorno”, gli chiese espressamente “quale tratamento avesse il residente inglese a Venezia”, confermandogli di aver richiesto analoghe informazioni a Londra sullo

Vincenzo Coronelli, Cerimonia dello Sposalizio con il mare. In primo piano, in basso, una peota vogata da otto uomini; al centro altre due peote, riservate alle antiche comunità dei pescatori di Poveglia e di San Nicolò dei Mendìgoli, navigano al traino del bucintoro dogale. Incisione a stampa, fine XVII secolo. Venezia, collezione privata

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1. Veduta a volo d’uccello dell’Arsenale nel tardo Seicento. A destra, nel particolare, un’imbarcazione di rappresentanza associabile alla tipologia delle peote. Vincennes (Parigi), Bibliothèque du Service historique de l’Armée de terre, Atlas 184, pl. 2

status giuridico di quel residente veneto7. Il diplomatico veneziano riferisce altresì, a fine giugno, che “è ritornato il Re con tutta la reale famiglia dalla Veneria e presentemente fa apparecchiare un alloggio in Vaudier per trasferirvisi tra pochi giorni e far esperimento di quei bagni in addolcimento delle flussioni che suol soffrire principalmente nell’inverno su gli occhi”8. Anche se, non tralasciando “di frequentare anche gli essercizi suoi di cavallo e di caccia”, il re “pressiede a tutti li consigli di Stato, dissamina tutti li negozi colli ministri e tutti dispone li provedimenti che occorrono con tale diligenza, intendimento e maturità che prommetteno a questa nazione un ottimo principe”9. Questa del tutto preliminare introduzione alle fonti documentarie di natura diplomatica, se, per un verso, non ha consentito d’individuare evidenza alcuna circa l’utilizzo delle peote per gli svaghi di corte – né, tantomeno, per cerimoniali di Stato – per l’altro verso evidenzia pertanto l’incontenibile passione del sovrano per la caccia, alla quale sembrerebbe anteporre ogni cosa: nel dispaccio del 18 ottobre il residente veneto lamenta infatti “le incertezze che, nella spedizione di tutti gli affari, sogliono derivare dal soggiorno del re alla Veneria e dalle caccie”10. Quali possono essere invece gli itinerari di ricerca negli archivi della Serenissima, qui giocoforza solo abbozzati, per tentar d’individuare documentazione relativa alla committenza, alla costruzione in laguna e al trasferimento a Torino 54

della Peota-Bucintoro del 1730? Documentazione che si conserva invece, relativamente abbondante, negli archivi della corte sabauda11. La prima impressione è che ci fosse stata una sorta di damnatio memoriae nelle carte dei diversi uffici veneziani direttamente o indirettamente coinvolti, le quali per l’epoca considerata non presentano significative soluzioni di continuità o dispersioni e scarti evidenti. Fra le deliberazioni – trascritte a registro con cadenza quasi quotidiana – degli organi superiori dello Stato, in primis il Senato o Pregadi, nulla di significativo è stato a oggi rintracciato. Accanto alle due grandi serie in cui le delibere medesime venivano riordinate (Terra e Mar)12, dal 1715 era stata inoltre istituita una specifica sottoserie dedicata all’Arsenale e, dal 1732, un’altra concernente l’attività degli inquisitori all’Arsenal, istituiti prima saltuariamente e, in forma permanente, solo nel tardo Settecento13. La costruzione degli scafi del bucintoro dogale e dei pubblici peatóni, la loro periodica manutenzione e la realizzazione degli apparati decorativi, permanenti o precarii, ricorrono frequenti, né difettano le perizie e i collaudi in corso d’opera o a consuntivo, preliminari al saldo delle competenze alle maestranze. Le quali ultime potevano essere sia incardinate nei ranghi dell’Arsenale, sia ingaggiate all’occorrenza fra gli artigiani inquadrati nelle singole corporazioni veneziane – soprattutto dell’ornato – come sarà ad esempio nelle fasi finali della costruzione del bucintoro dogale, comple-


tato fra il 1727 e 172814. Un decreto del gennaio 1797 – pochi mesi avanti l’abdicazione della Repubblica – approva, per fare un solo esempio, la vendita dei vecchi corredi delle imbarcazioni di rappresentanza conservate in Arsenale, avendo i provveditori alle rason vecchie segnalato essere “eseguita la facitura delli tre nuovi copertori di veluto cremese, con galloni di oro, per li publici peatoni”15. I Provveditori, alle rason vecchie, fra le varie competenze loro assegnate nel tempo, avevano giurisdizione, anche criminale, sugli “intacchi” di denaro pubblico e amministravano i beni pubblici – in particolare quelli non più necessarii all’attività dello Stato – e controllavano le spese sostenute dall’erario in occasione di “vacanze dogali” (fra la morte di un doge e l’insediamento del successore), di ricorrenze pubbliche o di visite di principi, ambasciatori e altre personalità di rilievo: nulla emerge nei documenti riferibile all’arrivo in Venezia di emissari – più o meno in incognito – dei sovrani sabaudi. La liquidazione delle spese deliberate per intagli e dorature di navigli pubblici, invece, non mancano; nel 1693, ad esempio, si registra un’analitica distinta di quelle sostenute per una galera, che ci offre preziose indicazioni circa i materiali utilizzati (“pezzoni di cirmolo n.° 20 d’once 14 in 15 a ducati 4 l’uno”, “tavole di cirmolo n.° 6 a ducati 1 l’una”) e i nomi degli artigiani coinvolti: Piero Morandi e Alessandro Gasparini, maestri intagliadori, “per fattura d’intagli da loro fatti nella galera ducal, in conformità del loro partito” e altri su feluche, “comandati da Sua Serenità di più del dissegno e non compresi nel loro partito”; Gio. Batta Toppe “indorador a San Felise” e Santo Giuliato a Santa Marina “per oro e fatture da loro fatte nel indorar la galera sudetta”; Zuanne Venantio indorador “per oro e fattura d’indorar la seconda feluca”. E poi pittori, fabbri (“Christofollo Astori favro todesco per suste et altre fatture fatte nelli fenestroni della puppa della galera sudetta”), falegnami (marangoni), tornitori in legno, cuoridoro e finestrai: Daniel Marchetti, “fenestrer” a Santa Caterina, viene ad esempio saldato “per sue mercedi d’haver fatto le portelle di

2. Porta monumentale della “Casa dell’arsenal” (1460) sormontata dal san Marco in figura de leon attribuito a Bartolomeo Bon, ornata nel 1578 con la statua della Giustizia opera di Girolamo Campagna per celebrare la vittoria della flotta cristiana nella battaglia di Lepanto e integrata nel 1692 con gli apparati scultorei di Giovanni Comin antistanti l’ingresso (fotografia Giovanni Caniato)

larese e li fenestrini da basso nella galera sudetta con lastre, ferramente, ramade di fil de rame et altre fatture”, nonché “per tanti da lui spesi in lastre di christal con altre robbe di rispetto per le finestre della detta gallera”. Né potevano mancare i vessilli e la contabilità delle rason vecchie ci consente di sapere che Gasparo Pelizari, Valentin Sarini e Zuanne Venentio, maestri di bandiere, avevano ricevuto ben 1125 ducati “per loro fattura, mordenti, pittura, oro et ogni altra cosa necessaria per far le bandiere di seda e di buratto della galera sudetta”15. Alla costruzione e al completamento di una nave o di un’imbarcazione concorrevano quindi le più disparate maestranze specializzate, a ciascuna delle quali competevano fasi lavorative ben definite; la rigida e spesso farraginosa normativa 55


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3. La bottega di un battiloro nel secondo Settecento. Tecniche e procedure per la riduzione in lamine sottilissime dell’oro e dell’argento sono le medesime ancor’oggi in uso nell’unico laboratorio ancora attivo in Venezia. Incisione di Francesco Griselini. Venezia, collezione privata

4. La “tavoletta” dipinta dell’arte dei segadori, datata 1445 ma in gran parte rifatta nel 1729, documenta la riduzione in tavole di un tronco di quercia, con strumenti e procedure rimaste invariate fino agli anni cinquanta del secolo scorso. Venezia, Museo Correr, classe I, n. 2133

protezionistica del così variegato mondo corporativo veneziano – oltre un centinaio di arti e un numero imprecisato di sottocategorie (colonelli) – non consentiva infatti ai singoli artigiani di affrontare lavorazioni anche perfettamente complementari, o preparatorie, a quelle di propria spettanza. Ed era il “controllo reciproco” fra le migliaia di maestri attivi in città, quasi gomito a gomito, che consentiva di far rispettare quanto previsto negli statuti corporativi (mariegole): in caso contrario, i ricorsi dei rappresentanti delle arti avanti le magistrature competenti erano immediati e i fascicoli processuali che ne conseguivano sono per noi la fonte privilegiata per ogni indagine nel settore17. Si può quindi ragionevolmente ipotizzare che, anche nella costruzione, nell’arredo e nella decorazione della Peota destinata ai Savoia avessero compartecipato, quantomeno, squerarioli, remèri, fabbri, alboranti, veleri, falegnami da rimessi e da soàze, dipintori, doradori e battiloro, oltre, naturalmente, ai maestri intagliatori i cui nomi sembrerebbero ormai accertati; eppure – fatta eccezione forse per qualche doratore, che operò a fianco degli scultori in legno – nemmeno negli archivi delle singole arti, per quanto più o meno gravemente depauperati, è stato possibile individuare riferimenti precisi a interventi specifici sulla nostra Peota.

Analogo silenzio delle fonti si è riscontrato negli archivi delle diverse magistrature centrali che incrociavano la loro giurisdizione sul microcosmo artigiano: ad esempio il Collegio della milizia da mar, istituito nel 1545 per sovrintendere all’arruolamento delle ciurme per la flotta, costituite in larga misura da rematori liberi, forniti dalle comunità del Dogado (Chioggia, Cavarzere, Murano, Burano, Caorle, Grado), dalle fraglie dei traghetti e dalle arti della Dominante, proporzionalmente alla loro consistenza numerica; una prestazione d’opera personale, questa, che venne peraltro gradualmente sostituita da un’imposta (tansa insensibile), ma che ci ha consentito la trasmissione di molti elenchi nominativi dei componenti le singole arti. I Provveditori di comun, istituiti nel XIII secolo, con le più diverse competenze accresciute nel tempo (fra le quali la manutenzione dei rii interni e degli scoperti e manufatti pubblici della Dominante), esercitavano la loro giurisdizione anche sulla navigazione interna e sui traghetti, mentre i Provveditori alle pompe, magistratura istituita saltuariamente nella seconda metà del Trecento e divenuta permanente dal 1515. Aveva quale principale funzione la limitazione del lusso e l’osservanza delle “leggi suntuarie”, almeno teoricamente estesa all’intero “Stato da terra”. La repressione delle ostentazioni del lus-


so, anche nelle imbarcazioni private, venne perseguita con alterni risultati fin dal Cinquecento e nel 1606, giunti “a tale eccesso li ornamenti delle gondole di questa città”, i provveditori ordinano che siano “assolutamente prohibite le pezze da barca de renso schiete o a opera, con merli o senza” e il “dorare in alcuna parte esse gondole o alcuna cosa che si potesse adoperare in esse”. Divieti estesi nel 1623 a “tolelle e trasti da pope e da prova, tressi et altri ornamenti delle gondole intersiadi o remessi con avorio, ebano o con qualsivoglia sorte di legname, nonché ai “pironi delli trastolini da pope con figure, piramide, pomoli o cose simili”18. Venezia era stata nel Settecento – e in parte forse lo è ancora - il luogo più ricco al mondo di navigli con forme, tipologie e dimensioni le più diverse, ciascuna creata e utilizzata, fino a epoche ancora recenti, per le più svariate necessità di collegamento e di lavoro. Ogni aspetto della vita quotidiana, lungo i canali interni e nelle isole, lungo i litorali e la maglia di fiumi e canali navigabili del vicino entroterra, si svolgeva infatti sull’acqua e sull’acqua si affacciavano numerosi i cantieri dove i natanti venivano costruiti o riparati. Quanto al numero delle gondole o altre imbarcazioni per il trasporto di persone, le stime sono le più varie e per lo più prive di riscontri attendibili: Leandro Alberti nella sua descrizione dell’Italia (1573) valutava che a Venezia ve ne fossero in circolazione 8000, Francesco Sansovino 10.000; i primi dati quantitativi cui prestar fede risalgono invece alla prima metà del Settecento, quando erano state censite circa 1500 gondole, molte delle quali forse più simili alle barchéte in uso a Venezia fino agli anni Sessanta: una tipologia da tempo scomparsa, rimpiazzata da tozzi “gondoloni”, più capienti e con un’asimmetria longitudinale ridotta rispetto alle gondole da nolo. Venne introdotta a partire da quegli anni a uso esclusivo dei traghetti cittadini lungo il Canal Grande e, nella sua più rara versione “di lusso”, era destinata al servizio di privati (barchéta da fresco, un esemplare della quale è stato ricostruito trent’anni or sono da Giovanni Giuponi), mentre l’unico “pezzo d’epo-

5. Prua di una caorlìna da seràgie, costruita a Burano negli anni cinquanta del secolo scorso con tecniche, materiali (rovere e larice, pece e stoppa catramata) e struttura costruttiva paragonabili a quelli della peota sabauda. Venezia, collezione museale Arzanà (fotografia Giovanni Caniato)

ca”, costruito nello squèro di Menego Tramontin fra fine Ottocento e primissimo Novecento, è conservato nel Museo storico navale di Venezia19. In epoca veneta l’esigenza di un puntuale controllo sulle barche destinate al pubblico servizio, che intorno al 1730 erano oltre un migliaio, aveva sollecitato replicati provvedimenti, volti a identificare agevolmente i barcaroli in caso di contenziosi e quanti esercitavano il mestiere abusivamente; sarà lo stesso Senato a introdurre l’obbligo di contrassegnare “le barche, gondole e remurchi de’ traghetti esterni sul trasto da prova, incidendo e profondando nel legno li numeri unitamente all’impronto di San Marco e di quello del magistrato20”, disposizione che verrà ribadita anche dopo la fine della Serenissima, quando la giurisdizione sui traghetti verrà trasferita al Comune21. Particolare rilevanza, per accennare alla fabbricazione delle sovrastrutture e alla realizzazione di rifiniture e apparati decorativi di manufatti navali, era data dalla categoria dei marangóni da case, nelle loro varie articolazioni interne specializzatesi in singole fasi lavorative, spesso tra loro 57


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6. 1564, novembre 29. Delibera del Consiglio di dieci che autorizza i maestri intagliatori a costituirsi in corporazione autonoma. ASVe, Consiglio di dieci, Comuni, filza 92, alla data

7. Intagliatore anonimo del primo Settecento. Sculture lignee dorate provenienti, con ogni probabilità, dai resti del bucintoro dogale incendiato dalla truppa napoleonica nel gennaio 1798, ricomposti su un unico pannello: a sinistra l’ora quinta del giorno, a destra il mese di maggio, in basso un trofeo marino. Banca d’Italia, sede di Venezia

concatenate: la corporazione, dalla quale nel 1564 si staccarono definitivamente i maestri intagliatori, aveva l’altare di devozione nella chiesa di San Samuel, dove disponeva di un apposito spazio per la sepoltura dei confratelli22 e, nelle immediate vicinanze, esiste ancora l’edificio che fu sede della loro scuola di mestiere23, abbellita con dipinti di pregio (fra i quali due di Santo Peranda e una visitazione di Baldissera Diana), successivamente dispersi alla pari di un pregevole bassorilievo del 1588 raffigurante San Giuseppe, protettore dell’arte, di cui si sono perdute le tracce nel 1883. Nella loro mariegola (corpus statutario trascritto a registro) particolarmente accurata è la normativa sugli obblighi contrattuali reciproci fra maestri e garzoni, sul divieto di lavorare senza esse-

re iscritti nei ranghi dell’arte e sugli obblighi d’assistenza ai confratelli inabili, anziani o ammalati. I garzoni erano tenuti a rimanere al servizio del maestro per almeno cinque o sei anni, con facoltà di recedere solo se il maestro avesse commesso “grande inzuria, la qual fosse manifesta”; eppure le ricorrenti lamentele dei vertici della corporazione lasciano intuire che tale obbligo non venisse sempre rispettato, come segnalerà ad esempio il gastaldo nel 1752: “quando principierebbe a saperne qualche cosa e ad essergli in qualche lavoro utile, il garzon l’abbandona e va a lavorar di qua e di là, anche con altri capimistri da quali vien pagato, né più si cura del patron che l’ha accordato”24. I marangóni da case lamentavano inoltre che i marangóni da nave (cioè i carpentieri navali) “non


8. La Serenissima, ammiraglia delle imbarcazioni da parata del Comune di Venezia, costruita da Giovanni Giuponi nel 1955, nel 2008 è stata radicalmente restaurata nell’opera viva, a proprie spese, da Agostino Amadi, decano dei maestri d’ascia di Burano. (fotografia D. Resini)

si fanno scrupolo di pregiudicarci: si vanno a puntar all’Arsenal e, d’intelligenza con i portonieri, poi escono e vanno a lavorar per le case e ci privano del pane c’è nostro, intrigandosi in tutte le sorte di lavoro”; e che “tutti guadagnano sul nostro mestier e il minor utile è si può dir il nostro: il specchier ci fa far le soazze ai specchi e ce le paga una mica, e poi lui nel rivenderle insieme col specchio vi fa dei guadagni da mercante”25. Pur tra alti e bassi i marangoni furono da sempre una delle arti numericamente più consistenti, giungendo intorno alla metà del Settecento a circa 2000 unità, fra le quali 25 maestri da remessi (la cui “prova d’arte” consisteva nell’esecuzione di un altarino d’ordine dorico intarsiato) e una cinquantina da soaze, questi ultimi probabilmente intervenuti nella realizzazione della cabina della Peota, poiché a loro era riservata la realizzazione di cornici (“non intagliate ma impresse, che servivano ad uso di specchi e di quadri, di legno tinto in nero”) e delle altre componenti lignee mobili per le cabine (felzi) delle gondole26.

A metà strada fra l’artigiano e l’artista vero e proprio, affiliati in origine ai marangoni da case, gli intagliatori in legno non mancheranno anch’essi di porsi in contrasto con specializzazioni complementari e, in particolare, con i colleghi dell’arte-madre che “non ne sanno nulla d’intaggio, oppur per avervi la mano vi perdono troppo tempo se capitan loro fatture che devano aver ornamento d’intaggio per averlo a miglior prezzo si servono di lavoranti e non di capimaestri”. La “prova d’arte” per il passaggio da garzone a lavorante o maestro intagliatore. Veniva effettuata al cospetto di una commissione (banca) di dodici maestri, utilizzando il consueto e particolarmente duttile legno di cirmolo: prevedeva la realizzazione di un intaglio che contemplasse il grottesco (“quel lavoro ove vi entrano animali, bisse e sassi”), o l’arabesco (“un avviato di fiori e frutti”), ovvero una figura a tutto tondo27. Quanto all’opera viva della nostra Peota – e ovviamente di qualsiasi altra imbarcazione o naviglio che non fosse realizzato all’interno della Ca59


sa dell’arsenal – era prerogativa dei maestri squerarioli; i quali, intesi come corporazione di mestiere giuridicamente riconosciuta, nascono piuttosto tardi grazie a una peraltro contrastata scissione dall’arte-madre dei marangoni da nave. Nel 1607 il Consiglio di dieci decreta “che possano erigger di loro una scola in questa città”, sottoposta come le altre al controllo dell’ufficio della Giustizia vecchia e retta da un gastaldo e due sìndici o revisori contabili, integrati da esattori, tansadori e da un massaro. I garzoni erano tenuti ad assolvere un apprendistato di sei anni, trascorsi i quali e superata la “prova d’arte”, entravano a pieno diritto nei ranghi della corporazione; la loro età media era di dodici-tredici anni e al maestro che li ingaggiava era fatto obbligo di registrare il contratto di apprendistato. L’altare di devozione della corporazione, dedicato a Santa Maria Elisabetta, è ancora esistente nella chiesa di San Trovaso, nell’area occidentale della città dove erano particolarmente numerosi i cantieri minori e maggiori. Lo squerariòl – nella sintetica definizione di Giuseppe Boerio, autore dell’ancor oggi preziosissimo Dizionario del dialetto veneziano (1856) – è “quell’artefice che lavora e costruisce barche”, operante in uno dei numerosi squèri (“Piccolo cantiere. Estensione di luogo dove si fabbricano le barche, come i battelli e le gondole”), una cinquantina in città all’epoca delle costruzione della Peota sabauda, costituiti da uno scoperto di terra battuta digradante verso il vicino canale e da un capannone ligneo (teza) dove si svolgevano le costruzioni. La categoria, relativamente numerosa (circa 300 addetti nel pieno Settecento), si articolava in due principali specializzazioni (da sotìl o da fìn e da grosso), il cui più tipico prodotto finito è inciso sui basamenti laterali dell’altare in San Trovaso: una

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gondola e una “nave tonda”28. Eppure gli squerarioli non ebbero mai una scuola – cioè, nell’accezione veneziana, una sede propria – e venivano ospitati per le periodiche riunioni del capitolo generale e della banca (il “consiglio direttivo”) in quelle di altre corporazioni: dai fabbri e frutariòli ai varotèri o specchieri29. In una capitale completamente circondata e difesa dalle acque, ma il cui dominio territoriale diretto, e l’ancor più ampio raggio d’azione commerciale, coinvolgeva da un lato l’intera maglia fluviale dell’Italia settentrionale, dall’altro l’Adriatico – fino a tutto il Settecento “Golfo di Venezia” – e buona parte del Mediterraneo, si svilupparono quindi nei secoli altrettante macrocategorie di navigli: le une per i trasporti in città e nei suoi contorni (con alcune varianti di maggior stazza, predisposte per la navigazione fluviale, ma sempre a fondo piatto), le altre per la navigazione d’altura e marittima. Se la gondola e le tipologie a essa assimilabili, quelle private e quelle inquadrate nelle fraglie dei traghetti per il “trasporto non di linea”, erano destinate a un numero ridotto di passeggeri, in ambito soprattutto urbano30, il trasporto “di linea”– lungo itinerarii prefissati che da Venezia si dipanavano in tutta la pianura padana – era affidato in particolare ai più capienti burchielli, che garantivano quotidiano collegamento con i principali centri dell’entroterra31; ma anche la più agile peota (comunemente utilizzata, per quanto si sappia, anche per il trasporto di animali destinati alla macellazione o di mercanzie) veniva destinata, nelle sue varianti più eleganti, al trasporto di passeggeri. Per la sua versatilità e velocità, era anche la più diffusa fra le imbarcazioni di servizio di molte magistrature con sede nella capitale32.


Rinvio al riguardo a G. Caniato, Peotìne e batelóni. Note sulle maestranze addette alla cantieristica navale veneziana nel Settecento, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro, a cura di S. De Blasi, atti del convegno internazionale di studi (Venaria Reale, 22-23 marzo 2012), Editris, Torino 2012, pp. 21-31. 2 ASVe, Senato, Dispacci degli ambasciatori e residenti, Torino, b. 5, dispacci da 421 a 496. 3 Ivi. Il dispaccio 497 del 10 gennaio 1749 more veneto (cioè 1750: l’anno nello stile veneto infatti inizia l’1 marzo e pertanto i mesi di gennaio e febbraio si riferiscono all’anno precedente). Il dispaccio è sottoscritto congiuntamente dal Cavalli e dal subentrante residente Giovanni Colombo; i due diplomatici segnalano che l’inviato britannico, mylord Rocheford, “soggetto di finissimo accorgimento”, aveva loro riferito circa lo stato delle regie finanze, oberate dai forti debiti contratti (63 milioni) nelle guerre trascorse e che l’esercito del regno era ridotto a soli 15.000 uomini. Nella seconda parte del documento, di mano del nuovo residente Colombo, si accenna al lutto osservato a corte per la morte del principe d’Assia, Reinsfeld Rotembourgh, padre della regina Polissena, madre del duca di Savoia. 4 Ivi. Dispaccio 434 del 28 ottobre 1748. Il residente segnala che “a me chiese il Re come andavano in Aquisgrana le negoziazioni di pace”; il 14 settembre 1748 (disp. 427) il residente aveva chiesto di poter rientrare per un mese a Venezia (per seguire gli “affari miei quasi interamente negletti per lo spazio di circa ott’anni da che servo in Milano e in Torino”), partecipando l’approssimarsi della “vicina stagione in cui è il Re con tutta la reale famiglia per trasferirsi alla Veneria”. 5 Ivi. Dispaccio 459 del 5 aprile 1749, con il quale il residente veneto “uscente” riscontra la ducale del 22 marzo “in cui la Signoria Vostra per sua clemenza mi riconferma la sua piena disposizione di sollevarmi da queste incombenze dove servo per il corso non interotto di quasi nov’anni”. Quanto al desiderio espresso dal re, riferisce, “risposi che l’eccellentissimo Senato, quando adoperava un ministro di secondo ordine, conferire non gli soleva altro nome che di residente e ritrovarsi presentemente un residente della Repubblica in Londra ed un residente dell’Inghilterra in Venezia”. Una settimana più tardi, con dispaccio del 12 aprile (ivi, n. 460) nell’informare il Pregadi che il re avrebbe comunque bene accolti sia il nuovo residente, sia un nuovo ambasciatore, il Cavalli sottolinea “che se per questo primo corso di uffizio, nel quale si debbono celebrare gli sponsali del Duca di Savoia, l’eccellentissimo Senato nominasse un ambasciatore ordinario, la cui rappresentanza aggiugnerebbe splendore alla grandezza della occasione, farebbe cosa gratissima al Re”. 6 Con dispaccio del 2 agosto (ivi, n. 476) il residente comunica l’arrivo dell’ambasciatore di Spagna, che trova il modo di vedere il duca di Savoia quando “si riconduceva dalla caccia di Stopinigi in città” e riferisce di lì a breve (ivi, disp. 478) di essere stato invitato, alla pari degli altri ministri esteri, a “intervenire alle caccie” autunnali, il che gli avrebbe richiesto “l’impegno di non picciole spese in vestiti a foggia di caccia, in cavalli ed in altro”. E, il primo 1

novembre, aggiunge (ivi, disp. 487) che “occupata quasi ogni giorno nelle caccie di Stopinigi la corte, passati alle case loro di campagna li ministri del Re e li ministri esteri parte in un luogo parte in un altro villeggiando nelle vicinanze della città, giacciono nella sospensione tutti gli affari e mancano tutte le fonti donde trarre si sogliono le più importanti e le più sicure notizie”. 7 Ivi. Dispaccio 468 del 7 giugno 1749. Con dispaccio del 12 luglio (ivi, n. 473) il residente riferisce di aver saputo, per vie confidenziali, dell’arrivo a Torino di informazioni relative al cerimoniale di corte e alle prerogative dei residenti, provenienti sia “per parte dell’agente de re in Venezia il signor Ortolani”, sia dall’inviato sabaudo in Londra, conte Perron. 8 Ivi. Dispaccio 470 del 21 giugno 1749, in cui il residente riferisce circa episodi di pirateria di un armatore che agiva sotto bandiera di Sardegna, a danno anche di navi venete, segnalando di aver comunicato alla corte sabauda l’arrivo in Tirreno di una nave e due fregate venete “per proteggere il proprio commercio e navigazione”, confidando nella buona accoglienza nei porti del regno. 9 Ivi. Dispaccio 475 del 26 luglio. 10 Ivi. Dispaccio 485, nel quale il residente uscente Cavalli comunica di aver “ricercati al segretario di Stato li passaporti sì per la persona e domestici, sì per l’equipaggio del signor residente Colombo”, nominato suo successore a Torino. 11 Rinvio in particolare, al riguardo, alle comunicazioni di Alessandra Castellani Torta, Luigi Griva e Giorgio Marinello, in Il Bucintoro dei Savoia cit. 12 Nel 1440 l’archivio del Senato viene ripartito nelle due serie “deliberazioni Terra”e “deliberazioni Mar”, quest’ultima relativa soprattutto ai provvedimenti concernenti lo Stato da Mar, ma anche la flotta e l’Arsenale. Le due serie si conservano integralmente, senza soluzioni di continuità, fino al 1797 quanto alle trascrizioni delle parti a registro; dalla metà del Cinquecento per le complementari filze, contenenti documentazione istruttoria alle delibere. 13 ASVe, Senato, Deliberazioni, Arsenal, costituita da 181 filze (1715-1797), dal 1732 integrata da altra sottoserie, con lacune temporali, dedicata all’Inquisitorato all’Arsenal (4 registri e 17 filze). 14 Sull’ultimo bucintoro dogale rinvio in particolare a L. Urban, Intagliatori e doratori del bucintoro del Settecento e I peatoni dogali, in G. Caniato (a cura di), Con il legno e con l’oro. La Venezia artigiana degli intagliatori, battiloro e doratori, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Verona) 2009, nonché ai saggi della medesima negli atti del citato convegno Il Bucintoro dei Savoia e in questo stesso volume. 15 ASVe, Senato, Deliberazioni, Arsenal, f. 180, parte 1796, gennaio 26 more veneto (= 1797). 16 ASVe, Provveditori alle rason vecchie, b. 222, reg. D. 17 Nell’ambito della ricchissima produzione bibliografica relativa alle corporazioni di mestiere di Venezia, si possono citare, I capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia vecchia dalle origini al MCCCXXX, a cura di G. Monticolo, voll. I-II, Forzani Roma 1896-905, integrati dal vol. III, a cura di E. Besta

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(Fonti per la Storia d’Italia, 26, 27, 28); A. Sagredo, Sulle consorterie delle arti edificative in Venezia, Naratovich, Venezia 1856; E. Concina, La costruzione navale, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, vol. XII, Il mare, a cura di A. Tenenti e U. Tucci, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, pp. 211-257; G. Bonfiglio Dosio, L’organizzazione corporativa del lavoro nella Venezia basso medievale, in G. Caniato (a cura di), L’arte dei remeri, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Verona) 2007, pp. 25-43; fra i lavori più recenti mi permetto di rinviare a G. Caniato, Intagliatori, doratori e battiloro a Venezia dal tardo Medievo ai giorni nostri, in Con il legno e con l’oro cit., pp. 11-41, passim. Le fonti statutarie più rilevanti sono in ASVe, Provveditori sopra la giustizia vecchia, b. 1, reg. 1; per i marangoni BMCVe, Mss, serie IV, cod. 152 per la mariegola del 1335. 18 Sui ferri decorati di prua era consentito “usar altro che le semplici brocche di ferro senza alcun lavoro”: ASVe, Provveditori alle pompe, b. 1, Capitolare 1, cc. 76v, 105v e passim). Sulla terminologia degli arredi e paréci mobili delle gondole o di analoghi natanti a uso privato, la quale peraltro non si discosta molto dalla parlata che sopravvive ancor oggi nei traghetti, rinvio a Caniato, La parlata degli squerarioli. Glossario, in Idem (a cura di), Arte degli squerarioli, La stamperia di Venezia, Venezia 1985, ad vocem. 19 Per una sintesi della settantennale attività di Giovanni Giuponi nel settore della cantieristica tradizionale rinvio a G. Caniato (a cura di), Giovanni Giuponi. Arte di far gondole, La Stamperia di Venezia, Venezia 1985, passim e alla più recente sintesi biografica Giovanni ‘Nino’ Giuponi, maestro squerariol, in G. Caniato (a cura di), Trofeo Nino Giuponi (2002-2011). Edizione del decennale, Venezia 2011; sulla dinastia dei Tramontin, giunta alla quarta generazione, fra i più apprezzati costruttori di gondole ancor oggi in attività, rinvio a G. Cargasacchi Neve, La gondola. Storia, tecnica, linguaggio, Editrice EVI, Venezia 1979 e, buon ultimo, a G. Munerotto, La gondola nei secoli, Vianello Libri, Venezia 2011. 20 l numeri identificativi della barca dovevano essere “dipinti a oglio di color bianco in maniera che siano visibili e manifesti ad ogni persona”: la parte approvata in Senato il 2 giugno 1770, verrà ribadita il 26 settembre 1771 e resa esecutiva nel quinquennio successivo. 21 Durante il napoleonico Regno d’Italia, ad esempio, nel 1812 si dispone “che restino avvertiti tutti li gondolieri esercenti barche avventizie, specialmente stazionanti nel sestiere di Cannaregio, onde nel preciso termine di otto giorni abbiano nuovamente ad essere contrasegnate colla numerica prescritta” (Archivio municipale di Venezia, 1812, Traghetti, I, fasc. prot. 6272); obbligo teoricamente ancor oggi vigente, benché caduto in desuetudine. 22 Chiesa succursale, già parrocchiale, di San Samuel: SEPOLTURA DELLA SCOLA DE MARANGONI MDXCII. 23 La sede della corporazione è stata trasformata nel 2009 da residenza in struttura alberghiera; edificata a partire dal 1463, come ricorda una lapide apposta sulla facciata, ora scomparsa, che Emmanuele Antonio Cicogna aveva trascritto nel XIX secolo: MCCCCLXIII, IN TEMPO DE MAISTRO ZORZI BIANCO GASTOLDO E COMPAGNI […] FO COM-

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PRADO QUESTO TEREN E PRINCIPIADA QUESTA FABRICA.

Sussiste invece ancor oggi, incisa sull’architrave in pietra d’Istria di un ingresso laterale, un’iscrizione che ricorda gli interventi di restauro o ricostruzione dell’edificio nel 1573 (“Proprietà della scola de marangoni, in tenpo de mistro Paolo chastaldo e chompagni”), ornata alle estremità dalla sagoma di due attrezzi tipici del mestiere: l’ascia dolaòra e la squadra. Un’altra dolaòra e una manèra (accetta), in marmo policromo intarsiato, ornano i basamenti laterali dell’altare ricostruito nel 1683 dall’arte su progetto di Alessandro Tremignon. 24 G. Caniato, Arte dei Marangoni da case, in G. Caniato, M. Dal Borgo, Le arti edili a Venezia, Edilstampa, Roma 1990, pp. 179-196. 25 Per una più diffusa trattazione dell’arte nelle sue diverse articolazioni e dei reciproci contenziosi insorti fra colonelli o con gli intagliatori e con i marangoni da nave, rinvio a Caniato, Intagliatori, doratori e battiloro a Venezia dal tardo Medievo ai giorni nostrie cit. e Idem, Marangoni cit. 26 Idem, in particolare, per il primo alle pp. 14-20. 27 Ibidem. 28 Rinvio nello specifico a quanto sviluppato in Caniato, Peotine e batelòni cit., passim. Più in generale, si veda M. Bonino, Archeologia e tradizione navale fra la Romagna e il Po, Longo, Ravenna 1978; Cargasacchi Neve, La gondola. Storia, tecnica, linguaggio cit.; P.G. Zanetti (a cura di), I mestieri del fiume. Uomini e mezzi della navigazione, Gabinetto di Lettura di Este (Pd) 1998; Idem (a cura di), La navigazione fluviale e il Museo di Battaglia Terme, Provincia di Padova, Padova 1998; Caniato (a cura di), Arte degli squerarioli cit.; Canali e burci, La Galiverna, Battaglia Terme (Pd) 1980; F. Boscolo, C. Gibin e P. Tiozzo (a cura di), Un mestiere e un paese. I sabionanti di Sottomarina, Marsilio, Venezia 1986; G. Caniato, Lo squero Casal ai Servi, in “Navis”. Rassegna di studi di archeologia, storia e etnologia navale”, I, a cura di M. Marzari, Venezia 1999, pp. 123-138; M. Marzari, Tipologie navali adriatiche dal XVIII secolo ad oggi, in Marineria tradizionale in Adriatico, a cura di M. Marzari, atti della conferenza internazionale, Edizioni della Laguna, Grado (Go) 1995, pp. 67-84; G. Caniato, Brevi note su alcune barche tradizionali della laguna veneta, in Le marinerie adriatiche tra ’800 e ’900, a cura di P. Izzo, catalogo della mostra (Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 15 novembre 1989 - 30 giugno 1990), De Luca, Roma 1989. Sulle vicende del trasporto passeggeri via acqua tra Venezia e la terraferma cfr. A. Bernardello, La ferrovia e i traghetti. Gondolieri, barcaioli e remiganti nella Venezia di metà Ottocento, in “Venetica. Rivista di storia delle Venezie”, 3, 1985. Sulla terminologia costruttiva e le tipologie d’imbarcazioni cui s’è fatto cenno, oltre ai precedenti, G. Crovato, M. Crovato e L. Divari, Barche della laguna veneta, Arsenale, Venezia 1980, ad vocem; G. Caniato, La parlata degli squerarioli. Glossario, in Arte degli squerarioli cit.; fra gli aggiornamenti più recenti rispetto all’impianto del precedente glossario si segnala quello, splendidamente illustrato, edito in Munerotto, La gondola cit.; L. Divari, Barche tradizionali del golfo di Venezia, Il leggio, Chioggia (Venezia)


1995, passim; R. Pergolis, U. Pizzarello, Le barche di Venezia, L’Altra Riva, Venezia 1981, gli ultimi due recentemente riediti con integrazioni e aggiornamenti. 29 Caniato, Arte degli squerarioli cit., passim. 30 Giovanni Caniato, Traghetti e barcaroli a Venezia, in M. Cortelazzo (a cura di), La civiltà delle acque, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 1993 e Idem, Gondole e gondolieri ultimi testimoni della Serenissima, in G. Zanelli, Traghetti veneziani. La gondola al servizio della città, Il Cardo, Venezia 1997 e 20042, pp. 8-21. 31 Il burchiello, o burchiello da fenestrelle nella sua versione di lusso, era comunemente noto come barca da Padoa,

essendo il collegamento fluviale fra la capitale e il Padovano il più frequentato in assoluto, con più corse quotidiane che garantivano il servizio “in giornata”. La navigazione ascendente, lungo il fiume Brenta, veniva effettuata grazie alle compagnie di cavalanti che trainavano da terra controcorrente le imbarcazioni. Rinvio, al riguardo, a G. Caniato, Commerci e navigazione lungo il Brenta e La barca da Padova, in A. Bondesan, G. Caniato, D. Gasparini, F. Vallerani e M. Zanetti (a cura di ), Il Brenta, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Verona) 2003, pp. 255-271. 32 Caniato, Peotine e batelòni cit., passim.

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Barche cerimoniali a Venezia Lina Urban In Europa, Venezia fu tra i primi stati ad avere un cerimoniale sull’acqua. L’uso di assegnare una nave da parata al doge deriva probabilmente da un’analoga tradizione bizantina: infatti sappiamo che il basileus possedeva una nave destinata alle sole cerimonie1. Dell’uso veneziano delle barche da parata abbiamo testimonianze a partire dalla Cronaca Altinate2, in cui si afferma che il doge accoglieva gli ospiti “in navi sua quam magnifice praeparaverat”. Martin da Canal, nell’Estoires de Venise, citandola usa il termine “maistre nef”3. Nel cerimoniale della chiesa di San Marco (databile tra il 1250 e il 1289) compare il termine “buzo”. Del 1253 è il primo documento che usa esplicitamente il termine “bucentaurum” per indicare la nave del doge4 e, in epoca assai più tarda, Marin Sanudo (19 luglio 1530) la chiama “burchion over bucintoro”5. Una delle più antiche descrizioni del bucintoro si trova nel poemetto di Pace da Ferrara6, Descriptio festi gloriosissimae Virginis Mariae, dedicato al doge Pietro Gradenigo (12891311). Preziose informazioni sulla struttura del bucintoro nel secolo XV ci sono offerte dal resoconto scritto in occasione della seconda visita a Venezia dell’imperatore di Bisanzio Giovanni VIII Paleologo (febbraio 1438): l’esterno delle murate era decorato con ornamenti in legno, in parte dipinti in rosso e blu, in parte dorati, e con sculture, mentre su entrambi i lati della poppa e della prua erano collocati due leoni marciani scolpiti e dorati7. Nel 1502, in occasione del soggiorno a Venezia di

Anna de Foix regina d’Ungheria, Le Roux de Lincy ricorda due leoni dorati a prua in grandezza naturale, la statua della Giustizia, il tiemo ricoperto di drappo d’oro, la poppa con un loggiato molto alto in cui era posto un globo dorato reggente un’asta con lo stendardo di raso cremisi nel cui campo era dipinto un leone marciano reggente le armi del doge Leonardo Loredan. La prima raffigurazione di un bucintoro in disarmo, conosciuta a tutt’oggi, si trova in un bacino dell’Arsenale nella Pianta di Venezia di Jacopo de’ Barbari del 1500. A due ponti, è dotato di un tiemo centinato privo di copertura in cui è evidente la zona sopraelevata a poppa in corrispondenza al luogo destinato al doge. A prua si nota la statua della Giustizia con la spada sguainata. Ma esistevano bucintori anche fuori Venezia. Sul finire del Seicento il procuratore Marco Contarini ne possedeva uno, che aveva collocato in una peschiera della sua villa di Piazzola sul Brenta (Padova), che poteva ospitare ottanta persone a bordo (fig. 1)8. Bucintori ne ebbero gli estensi. Nel 1562, il duca Alfonso II (1533-1591) farà solenne ingresso a Venezia su un suo bucintoro e, nel 1574 Enrico III re di Francia, su tre bucintori messi a sua disposizione dagli estensi, risalirà il Po nel viaggio da Ferrara verso la Francia. Ne ricordo alcuni altri: quello commissionato da Enrichetta Adelaide di Savoia (1636-1676), sposa del duca Ferdinando Maria Wittelsbach duca di Baviera, posto nel lago di Starnberger, e quello realizzato dall’architetto teatrale veneziano

Andrea Zucchi, Peota raffigurante la ‘China’ condotta in trionfo dall’Asia, su progetto di Alessandro Mauro, incisione. Collezione privata 65


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1. Il bucintoro del procuratore Marco Contarini nella peschiera della villa di Piazzola sul Brenta, da Francesco Maria Piccioli, L’orologio del piacere, Piazzola 1685

pi intessuti d’oro, erano imbarcate (tre per barca) dodici statue lignee, le Marie appunto, rivestite in abiti preziosi, ornate con gioielli e corone d’oro in capo tempestate di gemme, seguite da altre scaule con a bordo dame e damigelle veneziane. Il percorso rituale iniziava dalla chiesa di San Pietro di Castello (allora vescovile), sostava in bacino San Marco, per alcune cerimonie in basilica, quindi tra canti, suoni e danze il corteo imboccava il Canal Grande. All’altezza di Rialto le sole scaule raggiungevano, attraverso lo stretto rio del fontego, la chiesa di Santa Maria Formosa. La festa fu dispendiosissima, tanto da essere abolita in seguito alle ristrettezze economiche derivate dalla guerra di Chioggia nel 1379. Come è noto, su questa festa fiorì ben presto la leggenda del ratto delle spose veneziane da parte di pirati slavi narentani, avvenuto (afferma la tradizione) nel 948, dogante Pietro Candiano III10.

Alessandro Mauro per il principe ereditario Federico Augusto di Sassonia, sul quale andò incontro fino a Pirna alla promessa sposa Maria Josepha, figlia dell’imperatore d’Austria Giuseppe I9. Legate a celebrazioni religiose laico-nazionalistiche sono alcune barche di piccola dimensione, le scaule. Le troviamo protagoniste assieme al bucintoro nella Festa delle Marie o Ludi mariani (che avevano il loro apice il 2 febbraio, celebrazione della Madonna Candelora, ossia della Purificazione della Vergine). Si tratta a tutt’oggi della più antica festa veneziana di cui si abbia memoria, che coinvolgeva la quasi totalità dei cittadini, richiamando altresì forestieri da tutta Europa. Se le prime notizie risalgono al 1039, cento anni più tardi, due decreti del doge Pietro Polani (1138 e 1143) ci offrono elementi più esaurienti. Nel secondo documento, noto come Ordo Processionis scolarum (ordine della processione delle scaule) si fa esplicito riferimento al corteo di queste barche, mosse a remi e a rimorchio. Su quattro di queste, ornate di drap-

I peatoni dogali Con il nome di peatoni sono ricordate quelle tre imbarcazioni dogali che misuravano in lunghezza circa un terzo del bucintoro. Ornate da intagli dorati e provviste di un tetto (felze) erano destinate al doge e al seguito per le sue “andate” (fig. 2), visite che il Serenissimo doveva fare annualmente a determinate chiese e monasteri della città, per condurre re, principi, ambasciatori e prelati in visita a Venezia e per l’ingresso solenne del patriarca neoeletto a San Pietro di Castello. I peatoni della prima metà del secolo XVII sono raffigurati nel dipinto di Joseph Heintz il Giovane che ritrae Il solenne ingresso nella cattedrale di San Pietro di Castello del patriarca Federico Cornaro, evento accaduto il 27 giugno 163211. Il primo (quello destinato al Serenissimo) reca sulla poppa dorata una sirena a due code, mentre i rimanenti due sono ornati con un leone marciano in moleca, reggente il Vangelo aperto. Un altro dipinto attribuito all’Heintz, Il Canal Grande a Rialto12, ha come protagonisti i tre peatoni dogali. Le poppe, intagliate e dorate sono simili a


2. Bucintoro, peatone e peote in navigazione verso il Lido per la festa della Sensa, da Vincenzo Coronelli, Navi e vascelli, Venezia 1697

quelle raffigurate nel dipinto sopra citato. Diversi sono i felzi, nel cui centro spiccano, ricamati in oro su campo rosso, leoni andanti. Tra il 1732 e il 1734, come risulta dallo studio di Virgilio Giormani, furono varati tre nuovi peatoni, essendo i precedenti vetusti e insicuri per la navigazione13. Come accadeva per il bucintoro, anche questi peatoni settecenteschi erano simili per struttura ai precedenti prototipi. I documenti ricordano due intagliatori che nel 1733 avevano presentato il preventivo più vantaggioso per la loro realizzazione e pertanto eseguirono i lavori sul primo peatone: Lorenzo Fanoli, già autore con il padre di alcuni intagli sul bucintoro settecentesco, ed Egidio Goyel14. Finiti gli intagli, l’appalto per la doratura spettò a Iseppo Scozzia abitante “dietro san Zulian”, che chiese e ottenne 1000 ducati. Il Senato, il 3 dicembre 1733, approvò la decisione di varare contemporaneamente i tre peatoni che scesero in acqua il 14 aprile 1734. A motivo di risparmio per i felzi fu utilizzato il tessuto del-

la coperta del tiemo del bucintoro seicentesco, che si trovava in deposito presso le monache di San Girolamo15. Le livree dei rematori, custodite in un cassone, pure presso dette monache, sempre per motivi di risparmio, furono riutilizzate, tanto che nel 1740 vennero rifatti solamente gli abiti dei quattro rematori del peatone del Serenissimo16. I peatoni intagliati da Lorenzo Fanoli, Egidio Goyel e Zuanne Marchiori sono ritratti, corredati da scritte esplicative, in un’incisione siglata “Angelo Minoretti scolp.-Giuseppe Filosi curavit”, databile per lo stemma del doge Pietro Grimani ricamato sul felze tra il 1741 e il 175217. Inoltre nel volume IV degli Abiti di Giovanni Grevembroch è raffigurato uno dei peatoni, progettato nel 1732, con a prua lo stemma del doge Pietro Grimani posto tra due leoni18. Nella pagina di testo a corredo del citato acquerello si ricorda tra l’altro che nelle pubbliche funzioni ogni peatone aveva a bordo quattro arsenalotti (dipendenti dell’Arsenale) ed era rimorchiato da due peotine, su ciascuna delle 67


3. Peota usata durante il Carnevale, da Vincenzo Coronelli, Navi e vascelli, Venezia 1697

quali vogavano altri sei arsenalotti. Inoltre il Grevembroch dedica la carta 96 del volume III al capo dei ducali peatoni, ritratto nel suo splendido costume. Costui, tra le varie incombenze, doveva aver cura particolare “de mobili, specchi, livree di velluto trinate d’oro, con montiere da testa ad uso antico” e delle sei peotine “ben dipinte”. I trionfi (insegne del potere), portati dai comandadori (araldi), che accompagnavano il doge nelle solenni andate, erano a bordo di barche scoperte dell’Arsenale. I peatoni vennero rinnovati durante il dogado di Alvise IV Mocenigo (1763-1778). L’ideazione del peatone del doge spettò allo scenografo Girolamo Mauro: lo attesta Pietro Gradenigo nei Notatori, in data 4 marzo 1765, ricordando la morte di questo “primario pittore teatrale”19. Le peote Dagli inizi del Seicento, a Venezia, abbiamo un’ampia documentazione sulle peote (a dodici remi), barche ornate, prive di copertura (felze), usate del pari delle margarote (a sei remi), balotine (a quattro remi) e bissone (a otto remi), nei cortei delle regate in luogo dei rinascimentali palischermi e dei brigantini. A fondo piatto (co68

me il bucintoro e i peatoni) le peote in lunghezza misuravano circa la metà del bucintoro dogale. Nel 1625 venti peote, alcune ornate a foggia di animali, parteciparono al corteo della regata indetta la Domenica di Lazzaro in Quaresima in onore del figlio del re di Polonia20. E ancora altre venti, fecero parte del corteo per la regata indetta nel 1628 in onore del duca di Toscana Ferdinando II21. Nel 1632 per la regata in onore di Ladislao VII di Polonia si videro venti peote in forma di animali. Dal 1686 (regata a spese del duca di Brunswick) fino a tutto il Settecento è un susseguirsi di splendide peote, con decorazioni in legno e stucco sempre più elaborate: mostri marini, fontane, delfini, Rinaldo e Armida, Galatea, L’Aurora, Venere in trionfo, Diana ed Endimione, Gli orti esperidi, Il carro di Apollo, Flora e Cupido, Le Arti liberali, La Sassonia incoronata dalla Polonia, I quattro elementi, L’imperator dei Tartari, La pesca dell’orca. Dalla fine del Seicento conosciamo anche i nomi degli ideatori delle peote, quasi sempre famosi scenografi e pittori. Tra le più famose peote veneziane del Settecento le ventiquattro (che raffiguravano giardini, fontane, draghi, navi rostrate) degli architetti


4. Burchielli e peote in bacino San Marco per la commemorazione della Passione di Cristo, 1682

Rotta, Tomasi, Mauri e Meneghini22, ideate per la regata in onore del re Federico IV di Danimarca disputata il 4 marzo 1709 e ritratte nel dipinto di Luca Carlevarijs del Nationalhistorike Museum di Frederiksborg23, e la Cina condotta in trionfo dall’Asia24, dello scenografo Alessandro Mauro, che fece la sua comparsa il 27 maggio 1716 durante la regata in onore del principe elettorale di Sassonia e reale di Polonia Federico Augusto II. Nel 1740 si disputò una splendida regata in onore di Federico Cristiano, principe elettorale di Polonia. Le peote furono dodici. Tra gli ideatori, troviamo, oltre ad Antonio Joli, Gaetano Zompini, Francesco Gandolfi (con Alvise Vanzetta), Romualdo Mauro, Pietro Zangrandi, Lorenzo Gamba, Ottavio Romano, Giovanni Battista Tiepolo che rappresentò il Trionfo della Polonia25. Il 4 giugno del 1764 per la regata in onore di Edoardo Augusto duca di York, fratello del re d’Inghilterra Giorgio III, le peote furono ideate

da Giorgio Fossati, Michiel Beltrame detto “cuori d’oro”, Gerolamo Mingozzi, Giovanni Pellestrin, Francesco Zotti intagliatore, Pietro Monaco incisore e mosaicista. Giovanni Grimani, Marco Priuli, Vettor Pisani e Francesco Pesaro, i quattro patrizi delegati dal governo di onorare il duca, salirono invece su quattro peote che rappresentavano I quattro elementi. L’Acqua e la Terra erano state ideate dai “cugini Gerolimi Mauri”, il Fuoco e l’Aria da Giorgio Fossati. Altre peote rappresentavano: La Gran Bretagna guidata in trionfo dall’ Europa, Il trionfo di Venere sopra un carro tirato da colombe, Il carro di Apollo tirato da quattro destrieri, preceduto dall’Aurora in atto di fugare la notte (di Michiel Beltrame), Il trionfo di Pallade (di Zuanne Pellestrin), La pesca dell’orca (dei cugini Gerolami Mauri). Ma troviamo anche alcune peote dedicate ai divertimenti carnevaleschi (fig. 3) ed estivi nelle lunghe notti lagunari, dove si imbarcavano i ve69


neziani per suonare, cantare e stare in allegria: si tratta delle peote solazziere, cui il Grevembroch dedica un suo acquerello nel volume IV degli Abiti26. Particolari tipi di peote, quasi sempre dotate di un felze, facevano parte del corteo acqueo per l’ingresso solenne del patriarca, accompagnato dal doge e dalla Signoria sui peatoni dogali alla sua sede a San Pietro di Castello. L’organizzazione e la scelta dei temi allegorici delle peote spettava al clero veneziano. Per la solenne entrata a San Pietro di Castello del patriarca Giovanni Badoer nel 1688, un prezioso opuscolo edito per la circostanza27, ci offre anche i nomi degli ideatori delle peote: Valentin Serini e Francesco Maestri “ingegniere et architetto virtuosissimo che […] nelle pubbliche regatte dell’Altezza Serenissima di Bransvich e Lunimburg dierno a divider al mondo l’impossibile fatto possibile”. Nell’opuscolo è citato anche il costumista teatrale Andrea Bona “che ne’ veneti teatri, ogn’anno con sue rare bizarie fa inarchar le ciglia ad ognuno”. Interessanti i temi di alcune peote allestite, come voleva la tradizione, a spese delle parrocchie. Quella della chiesa di San Severo, raffigurante san Lorenzo, decorata con stucchi e angeli dorati, portava sul felze lo stemma del patriarca e tre figure in grandezza naturale ingioiellate (gli abiti erano tutti bianchi in vetro lattimo). La peota della parrocchia di San Moisè, coperta di fiori d’oro a rilievo, aveva sopra il felze il vitello idolatrato dagli ebrei e, a prua, Mosè che spezzava le tavole della legge ricevute sul monte Tabor. Quella di San Luca, col tiemo sostenuto da due buoi che reggeva un angelo con le penne, recava a poppa lo stendardo che nei giorni festivi veniva issato nel campo omonimo. Sul tiemo della peota di San Geminiano era stato posto un chierico che vestiva gli abiti del santo, i barcaioli indossavano abiti alla persiana. La peota della

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chiesa di Sant’Angelo recava l’arcangelo Michele in atto di fulminare il demonio con la lancia, quella di San Canciano, con il felze sostenuto da quattro satiri, era intagliata con rilievi raffiguranti grandi fiori e frutta (a simboleggiare gli Orti Esperidi). La peota della chiesa dei Santi Apostoli, a dodici remi, con altrettanti rematori vestiti da apostoli, recava a prua la raffigurazione del Salvatore in atto di benedire l’arma del patriarca. A sua volta il cappellano delle monache di Santa Croce aveva fatto raffigurare sulla sua peota una maestosa croce con accanto sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino. Sull’acqua si svolgevano anche particolari celebrazioni religiose, con interventi del nunzio pontificio, del patriarca e di molti parroci. Dette funzioni erano indette specialmente nella ricorrenza del giovedì grasso o negli ultimi giorni di Carnevale. Su peote e burchielli erano imbarcati pellegrini e orfanelli che andavano a visitare sette chiese della città, cantando litanie. Uno di questi cortei è raffigurato in bacino san Marco in una stampa che reca la scritta: “Divota commemorazione della Passione di N.S. solennizzata in Venezia l’anno 1682, il giovedì grasso” (fig. 4)28. Dall’esame di quanto detto innanzi la splendida Peota cerimoniale, commissionata dai Savoia a Venezia29 – lo scafo era stato fatto a Burano dal maestro Cristoforo Chibischin30 – risulta essere stata costruita per durare nel tempo del pari del bucintoro e dei peatoni dogali (non a caso straordinariamente è giunta sino ai nostri giorni). Pertanto, rispetto alle imbarcazioni da parata sopra ricordate, è un unicum. Perché gli allestimenti delle splendide peote, margarote, bissone, delle macchine per serenata o per regata, erano destinati a durare per il solo giorno della festa: una gloria, questa, tutta veneziana che rappresentava il trionfo dell’effimero.


Cfr. Costantino Porfirogenito, De cerimoniis, vol. I, ed. Paris 1935, p. 101. 2 “Archivio storico italiano”, 1845, p. 175. 3 Edizione a cura di A. Limentani, Leo S. Olschki, Firenze 1973, p. 260. 4 Promissione del doge Renier Zeno. 5 Marin Sanudo, I diarii, a cura di N. Barozzi, R. Fulin, G. Berchet, F. Stefani, Venezia 1879-1903, LIII, c. 361. 6 Stadter, Planudes, Plutarch and Pace da Ferrara, in “Italia Medievale e Umanistica”, XVI, 1973, pp. 140-148. 7 Cfr. A. Pertusi, L’umanesimo greco dalla fine del secolo XIV agli inizi del secolo XVI, in “Storia della cultura veneta”, 3/1, Neri Pozza, Vicenza 1980, pp. 219-220. 8 Cfr. Francesco Maria Piccioli, L’orologio del piacere, Nel luogo delle Vergini, Piazzola 1685. 9 Cfr. L. Urban, L’iconografia dell’ultimo bucintoro della Serenissima e bucintori oltre Venezia, in in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro, a cura di S. De Blasi, atti del convegno internazionale di studi (Venaria Reale, 22-23 marzo 2012), Editris, Torino 2012, pp. 47-59. 10 Cfr. L. Urban, Feste ufficiali e trattenimenti privati, in Storia della Cultura Veneta, Il Seicento, IV/1, Neri Pozza, Vicenza 1983, pp. 579-591; L. Urban, Ai primordi del teatro a Venezia: i ludi mariani ossia la festa delle Marie, in “Biblioteca teatrale”, n. 5/6, pp. 5-27; L. Urban, Tra sacro e profano. La festa delle Marie, Centro Internazionale della Grafica di Venezia, Venezia 1988. 11 Il dipinto firmato e datato 1649 (olio su tela, 117 × 107 cm), si trova al Museo Correr di Venezia (inv. 2060). 12 Olio su tela, 123 × 228 cm, Modena, Galleria estense. 13 V. Giormani, I peatoni, fratelli minori del Bucintoro, in “Studi veneziani”, n.s., XXXIX (2009), p. 289. 14 M. De Grassi, Giovanni Marchiori, appunti per una lettura critica, in “Saggi e Memorie di Storia dell’Arte”, 21, 1997, pp. 126-127; P. Rossi, Per gli inizi di Giovanni Marchiori, scultore in legno, in Per l’arte da Venezia all’Europa. Studi in onore di Giuseppe Maria Pilo, Edizioni della Laguna, Monfalcone 2001, pp. 489-490; B. Cogo, Antonio Corradini scultore veneziano. 16881752, Libreria gregoriana estense, Este (Padova) 1996, p. 90. 15 ASVe, Uffiziali alle Rason Vecchie, b. 133, c. 112, 26 agosto 1730; ivi, Patroni e Provveditori all’Arsenal, parti del Senato, XXIII, in Pregadi, 23 dicembre 1728, c. 188r-189r. 16 ASVe, Uffiziali alle Rason Vecchie, b. 134, alla data 22 settembre 1740. 1

Un esemplare è conservato al Museo Correr di Venezia (stampe Cicogna, n. 1639). 18 Giovanni Grevembroch, Gli abiti de’ veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti, IV, c. 121, Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo Dolfin 65. 19 Notatorio XVI, cc. 6-7, marzo 1766, ms. Gradenigo Dolfin 67, Venezia, Museo Correr. 20 Diario mss. di Francesco Luna, cod. marc. Classe VII, n. CCCLXXVI; Cicogna, cit., p. 27. 21 Cicogna, cit. pp. 27-28; Fabio Mutinelli, Annali urbani, Merlo, Venezia 1841, pp. 577-579. 22 Jacopo Capitanio, La magnificenza nella comparsa delle sontuose peote […] 1709. 23 Inv. n. 1027. 24 È riprodotta in incisione su rame da Andrea Zucchi (mm. 556-900). Cfr. G.D. Romanelli, F. Pedrocco, Bissone, peote e galleggianti, Alfieri, Venezia 1980, p. 20, n. 69. 25 Già collezione duca di Talleyrand, poi collezione privata inglese. Cfr. ms. Cicogna 2991/II, Venezia, Museo Correr; Cicogna, Lettera cit., p. 53; G. Lorenzetti, Le feste e le machere veneziane, Venezia 1937, p. 46, n. 59; Disegni veneti di collezioni inglesi, a cura di J. Stock, catalogo della mostra (Fondazione Cini), Neri Pozza, Vicenza 1980, n. 80. 26 Cfr. G. Grevembroch, IV, c. 132, ms. Gradenigo Dolfin 65, Venezia, Museo Correr. 27 Nova e distinta / relatione / Del solennissimo ingresso a farsi i giorni 22 e 25 novembre 1688 / da Monsignor Illustrissimo e Reverendissimo / Giovanni Badoaro / Patriarca di Venetia e Primate della Dalmatia etc […] Con la dichiarazione delle superbissime peote, macchine, figure / livree et adobbi, che devono corteggiarlo. Con il nome, cognome di tutti i Reverendissimi piovani assistenti a detta funzione, In Venetia 1688 con licenza de’ superiori. Si vende da Mario Seredi in Piazza S. Marco, in ms. Gradenigo Dolfin 182, Cerimoniali, cc. 204-205, Venezia, Museo Correr. 28 Cfr. L. Urban, Il Carnevale veneziano, in Storia della cultura veneta, 5/1, Il Settecento, Neri Pozza, Vicenza 1985, p. 639. 29 Cfr. C.E. Spantigati, Il Bucintoro dei Savoia e il progetto La Venaria Reale, in G. Caniato (a cura di), Con il legno e con l’oro. La Venezia artigiana degli indoratori, battiloro e doratori, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Verona) 2009, pp. 187-195. 30 Cfr. Pietro Gradenigo, Notatorio I, c. 34, ms, Gradenigo Dolfin 67; Commemoriali IX, c. 22v, ms. Gradenigo Dolfin 200, Venezia, Museo Correr. 17

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La peota veneziana. Origine e evoluzione di un mezzo di comunicazione e trasporto nell’era preindustriale Riccardo Pergolis, Ugo Pizzarello La peota veneziana conservata presso la Venaria Reale a Torino, e nota come il “Bucintoro dei Savoia”, per quanto arricchita con decorazioni, dorature e sculture di gran pregio e dotata di una cabina, il tiemo o felze, sfarzosa, elegante e comoda, non rappresenta, per ciò che riguarda le dimensioni, le proporzioni e le strutture, la realizzazione di un progetto specifico, ma il ricorso a un tipo di imbarcazione frutto di secoli di evoluzione e adattamento per scopi ben precisi e funzionali. Ben prima della nascita di Venezia, l’Adriatico era solcato e attraversato da un gran numero di barche e navi di ogni tipo, sia locali sia provenienti dal Mediterraneo orientale. Mentre la resistenza al tempo e alle intemperie della pietra e del marmo ci permettono di apprezzare il livello, non solo artistico, ma anche ingegneristico e tecnico di strutture edili – ponti, templi, anfiteatri, palazzi, fortezze – la durata limitata del legno e l’opera distruttrice degli incendi hanno eliminato una grandissima parte di ciò che l’uomo dell’antichità aveva ideato e realizzato. Per questi motivi, si è diffusa l’idea che nel campo dell’architettura navale i progressi significativi si siano manifestati in tempi relativamente recenti, come se vi fosse uno sfasamento delle capacità umane in settori diversi del sapere, teorico e pratico. La linea di costa che sale più o meno da Ravenna verso la foce del Po e continua, quindi, inclinata verso nord-est, fino all’ Isonzo, era molto diversa da quella attuale. Centri importanti come Aquileia, Adria e Ravenna erano posti con il lo-

ro porto direttamente sul mare. I contatti lungo le vie d’acqua – lagune, fiumi, canali – erano verosimilmente frequenti e intensi, in particolare per il movimento di carichi pesanti, molto problematico, se non impossibile, su strada in zone fangose e acquitrinose. Basti pensare che il mausoleo di Teodorico (493-526) a Ravenna fu costruito in pietra d’ Istria: il blocco emisferico della cupola ha un diametro di ben 11 metri! Solo per via marittima era possibile trasportarlo dall’Istria. È evidente, dunque, che la stessa edificazione dell’antica Rivoalto, e più tardi di Venezia, fu resa possibile fin dalle origini e per tutta la sua storia dall’esistenza di un’ampia varietà di naviglio. Questo era costituito da navi e barche di tipo e dimensioni diverse, secondo tipologie locali che si sono mantenute per secoli. La peota può, dunque, sicuramente vantare una lunga storia secolare. Il nome stesso deriva dalla sua funzione particolare, quella di portare il pilota, pedotta o peota, a bordo delle navi che dovevano entrare in laguna e il cui capitano e gli ufficiali non conoscevano il difficile percorso da seguire tra bassifondi e secche. Dunque, la peota era principalmente una barca agile e veloce, per servizi di collegamento, trasporto di persone e merci leggere. Tra le più antiche e attendibili fonti iconografiche in cui è possibile riconoscere la peota ci rimane la veduta di Venezia a volo d’uccello di Jacopo de’ Barbari dell’anno 1500. Il corteo di barche provenienti dal Lido e diretto verso il bacino di San Marco, si sposta seguendo la barca di

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1. Corteo di barche provenienti dal Lido. Particolare della xilografia con la veduta di Venezia di Jacopo de’ Barbari (1500)

3. Alcune peote tratte dalla ricca iconografia del vedutismo veneziano

2. Barca lagunare con caratteristiche e dimensioni molto simili a quelle di una peota. Particolare del dipinto di Carpaccio Il rimpatrio degli ambasciatori inglesi, ciclo di sant’Orsola. Venezia, Gallerie dell’Accademia

testa, contraddistinta da uno stendardo issato su un’asta a prua. Altre due barche simili, a cinque o a sei remi, tra una moltitudine di altre più piccole, seguono tra le onde magistralmente “intagliate” dall’artista (fig. 1). Tra l’iconografia, più o meno coeva alla xilografia del de’ Barbari, in cui si può individuare qualche imbarcazione simile alla peota, ci sono delle pitture di Vittore Carpaccio, in particolare il quadro che rappresenta Il rimpatrio degli amba74

sciatori inglesi del ciclo di sant’Orsola, del 1495 circa (fig. 2). Nel corso del XVII secolo si stabilizzano le dimensioni, minime e massime, la forma e le caratteristiche salienti della peota: trasporto di persone – protette da un tiemo (o felze) centrale – bagaglio, merci leggere e poco ingombranti, con manovrabilità e propulsione garantita da un numero di vogatori da due fino a un massimo di otto.


4. Le diverse fasi della costruzione di una peota – come di altre barche lagunari – secondo la tradizione veneziana

Un’ importante testimonianza sulla peota è data dalla preziosa raccolta manoscritta di piani e descrizioni di navi e barche mediterranee redatta dal costruttore navale inglese Edmund Dummer: in essa si trova un disegno, elevazione (con tiemo) e pianta, di una “piotta” di circa 10 metri di lunghezza, da lui stesso misurata a Venezia alla fine del Seicento. Nel XVIII secolo la diffusione della peota raggiunge il suo apice, come risulta dalle numerosissime vedute di Venezia e della sua laguna, siano esse pitture, incisioni o disegni (fig. 3). Si è soliti pensare che il collegamento con Venezia, almeno per le persone, fosse assicurato dal Burchiello, ma ciò è vero solo in parte, in quanto tale tipo di servizio, con orari prestabiliti e comodità ben superiori a quelle di altre barche era molto costoso e pertanto precluso alla gran parte dei veneziani. Esistevano, tuttavia, altri

servizi svolti con barche di caratteristiche appropriate al tipo di carico, persone o cose, e anche al percorso prefissato: batele, gondole, malgarote, padoane, rascone, burchi, caorline, magani, pescantine, e altre ancora. Da un’analisi dell’iconografia settecentesca risulta che la presenza delle peote era predominante nei canali maggiori della città e in laguna. La lunghezza dello scafo della peota poteva variare, più o meno, da 10 a 16 metri, con un numero di vogatori da quattro a otto. Le altre dimensioni, larghezza e puntale, variano di conseguenza, ma non in proporzione esatta, perché costanti, più o meno, sono le dimensioni dei vogatori, per cui bisogna tener conto della forcola, della lunghezza del remo e del punto di appoggio sulla forcola stessa e della sua altezza sul livello dell’acqua. Inoltre, proprio la forcola offriva più possibilità di appoggio per tener conto 75


della posizione del vogatore, con i piedi sul pagliolato oppure sulla coperta. Osservando l’iconografia dell’epoca si noteranno questi dettagli, tutt’altro che secondari. Date le caratteristiche particolari che la peota doveva possedere – velocità e maneggevolezza in primo luogo – la larghezza doveva essere mantenuta entro certi limiti, ma allo stesso tempo non doveva essere troppo ridotta per non dover variare la posizione della forcola come fu fatto, per esempio, alla fine dell’Ottocento, nel canottaggio con voga alla veneziana. Il fondo della peota era, come in tutte le barche lagunari, piatto e senza chiglia sporgente, per ridurre al minimo il pescaggio. Verso le estremità di poppa e di prora il fondo si alzava leggermente per evitare di conficcarsi con troppa facilità nel fondo sabbioso o melmoso della laguna, per tirare più facilmente in secco la barca e per non ostacolare le evoluzioni e le manovre in acque ristrette: questione di grande importanza nei canali veneziani. Le sezioni trasversali dello scafo sono svasate, cioè si allargano verso l’alto: non solo, ma la parte più bassa, sotto il galleggiamento, è leggermente arrotondata fino a incontrare lo spigolo del fondo. In tal modo, la barca risulta più larga sull’orlo superiore (falca). Questo accorgimento, presente in moltissimi tipi di barche, porta diversi vantaggi, tra cui quello di ridurre la resistenza al moto, cioè la forza propulsiva necessaria che si esercita mediante i remi, e di aumentare la stabilità trasversale. Come altre barche veneziane, particolarmente quelle di qualche secolo fa, il profilo della poppa era arrotondato in modo da oltrepassare la verticale e inclinarsi, in alto, verso prora. Ciò che potrebbe sembrare un vezzo estetico permetteva al timone, alzandosi, di scorrere sugli agugliotti inclinandosi, allo stesso tempo, verso prua. Poiché la pala del timone, debitamente arrotondata nel profilo anteriore, era molto più profonda dello scafo, ciò evitava, in caso di contatto con il fondo della laguna, di venir danneggiata. Il rematore di poppa, che dirigeva la barca, poteva, contemporanea76

mente, spostare la barra del timone e agire sul suo remo. Un gran traffico di barche si svolgeva in ogni stagione dell’anno: oggi, purtroppo, Venezia, come città, ha una vita alquanto artificiale, cadenzata secondo le stagioni del turismo. D’inverno, i rifornimenti alimentari e di altri beni di consumo, utili e non, sono contenuti, mentre d’estate, un consumismo esasperato raggiunge livelli parossistici e insani. Al tempo in cui vide la luce il “Bucintoro” dei Savoia, notevole era il traffico anche nei mesi invernali. Chi conosce Venezia sa che, anche climaticamente, la città è un punto di contatto tra l’Europa continentale e i paesi del Mediterraneo orientale. Capita dunque che, alle volte, la temperatura si abbassi tanto da far gelare la laguna. Quando soffia la bora, gelida come la Siberia da cui proviene, la laguna è agitata da onde, non alte, ma con creste spumeggianti che s’infrangono malignamente sulla prua delle barche che, dalla terraferma, si dirigono verso la città. Gli spruzzi violenti sollevati dalla prua della peota ridurrebbero a degli stracci fradici d’acqua salsa il vestiario dei vogatori. Per questo motivo, alla falchetta che corre lungo i bordi da poppa a prora, veniva dato, sulla prua, un angolo verso l’esterno, tale da deviare l’impatto del vento. Altre barche veneziane, che non dovevano necessariamente navigare in tali condizioni, ne erano prive. In effetti, la peota era un mezzo di trasporto veloce, funzionale, non inquinante, silenzioso e affinato nel corso del tempo: come una vera opera d’arte, lo scopo della sua esistenza era assolto e giustificato dai risultati raggiunti. Inoltre, la peota, come la bissona, si prestava perfettamente per le feste sull’acqua quando, per accogliere degnamente ospiti nobili o regali, si organizzavano “Regatte” in costume su temi storici, mitologici o esotici. Spettacoli questi, ai quali non sarà stato certamente insensibile Carlo Emanuele di Savoia. Sarà ora utile descrivere brevemente le varie fasi della costruzione dello scafo. L’approvvigionamento del legname era assicurato dai boschi riservati dal governo della Serenissima alle costruzioni navali, sia militari, sia mer-


cantili o per il servizio di collegamento lagunare e fluviale. Tali riserve si trovavano sul territorio veneziano, sia in pianura che in montagna e, oltremare, in Istria e Dalmazia. Solo verso la fine della Repubblica, il tavolame si otteneva per mezzo si seghe idrauliche, per il resto la lavorazione era tutta manuale, dopo un’accurata stagionatura del legname. Si può ben capire che, data la laboriosità e il tempo richiesti per ottenere manualmente i vari elementi strutturali e di finitura di ogni nuovo scafo, i metodi di lavorazione dovevano venire rispettati con scrupolosità e profonda conoscenza del mestiere o, come si diceva a Venezia, dell’Arte degli Squerarioli. Inizialmente, viene preparato il cantier sul quale viene posta la tavola centrale del fondo, appoggiata su spessori di legno che assicurano la leggera curvatura verso le estremità dove le aste di prora e di poppa sono sostenute da appositi cavalletti e sòncole. In posizioni prestabilite, al centro e verso le estremità, vengono montate, già preparate in precedenza, le tre corbe (ordinate) principali che determinano la forma di tutto lo scafo. La parte orizzontale e rettilinea di ogni corba è detta piana, mentre alle sue estremità sono fissati, verticalmente, i sanconi che, con una curva parabolica si alzano, allargandosi, verso l’alto. A questo punto, attorno ai tre sanconi, su ogni lato, si montano i serci, ossia le tavole più alte, già preparate, dei fianchi della peota. Piegate a caldo e bagnate, sono fissate alle aste e ai sanconi. In questo modo la forma dello scafo, curva, svasata e rastremata è stabilita definitivamente. Si preparano tutte le ordinate, ognuna con piana e sanconi, e si fissano alla giusta distanza. Esternamente, resta da completare il fasciame del fondo e dei fianchi, mentre si fissano le strutture interne e della coperta (fig. 4).

Questa attività non era semplicemente un lavoro “manuale”, ma più esattamente artigianale e, nei casi più raffinati, artistico: affine, pur nella differenza dimensionale, all’arte della liuteria musicale. Ultimato dunque lo scafo, le peote destinate al trasporto di persone, bagaglio o merci leggere venivano dotate di un tiemo, posto leggermente più a poppavia della metà lunghezza dello scafo, generalmente costituito da una leggera struttura di canne e aste a forma semicircolare a sostegno di una copertura di tessuto o stuoia. Nelle peote per passeggeri i lati del tiemo potevano venir sollevati e sostenuti con degli scontri come in certi tipi di persiane o tende da sole. In tal modo, i passeggeri potevano godersi al fresco il panorama e lo spettacolo unico dei palazzi sull’acqua e del traffico di barche di ogni specie e misura, su uno sfondo di brusio umano e naturale difficile da immaginare al giorno d’oggi. Una particolarità di queste peote con tiemo circolare è data dal fatto che l’altezza di questo dalla superficie dell’acqua non superava, di solito, quella dell’asta di prua o della testa del timone in modo da non costituire un impedimento al passaggio sotto i ponti. Alcune peote erano decorate sontuosamente, arricchite da sculture fantasiose e dotate di un tiemo a sezione rettangolare e altezza più che adeguata per stare in piedi, con struttura rigida a uno o più balconi (finestre), molto simile a quella del Burchiello, ma molto più elaborata e sfarzosa, come nelle “gondole degli ambasciatori”. A questa categoria speciale di peote di rappresentanza appartiene, dunque, il “Bucintoro” dei Savoia, unico, autentico e tangibile esempio “acquatico” di un mondo da sogno, ma realmente esistito.

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La Peota Reale: studi a confronto per committenza sabauda, cerimoniale e apparati decorativi



Una sfida, altre performances per la Peota Andreina Griseri

Albero genealogico mirabile, per Vittorio Amedeo II e per Carlo Emanuele III, memoria storica a profilo europeo, e presagi di svolte; su tutto segni vitali, traits-d’union di un’intelligenza politica sensibile, e non è difficile riconoscerli: Juvarra per Vittorio Amedeo II, e Piffetti per Carlo Emanuele III, protagonista di un nuovo modo di vivere nella reggia e oltre. La capitale, mondo storico in divenire, scopre il suo orizzonte con l’arrivo di Juvarra da Roma, 1714, filo conduttore dei disegni politici di re Vittorio, calibrati in unità di visione vibrante, forza guida di una sperimentazione inedita, esattezza luminosa pronta per le scelte dell’età dell’Illuminismo. Il gran teatro urbanistico del Castellamonte si apriva a un segno dinamico autonomo, offerto alla percezione accesa dell’occhio, fulcro di suggerimenti infiniti prelevati dai “pensieri” dei taccuini di Juvarra, materia prima del cantiere. Da Santa Cristina a Palazzo Madama, da Rivoli alla Venaria, e poi a Stupinigi, la “grande passion”, il sublime di Juvarra, scavalca il vocabolario retorico del Tesauro e decide passaggi e risultati per il nuovo secolo1. Sono anni strategici, a corte si avverte il colloquio in competizione difficile con il gusto internazionale, voci coltivate per i primi piani del Potere tra tensioni e attacchi all’equilibrio europeo, anni spinosi vissuti da Vittorio Amedeo con la madre, Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, e dal 1684 altri scambi per il suo matrimonio con Anna Maria d’Orléans2. Altra linea per Carlo Emanuele: matrimoni mirati, nel 1722 con Anna Cristina Ludovica di Ba-

viera Sultzbach, 1724 con Polissena d’Assia Rheinfels, 1737 con Elisabetta di Lorena, unioni irrobustite con doni e apparati, accueil eloquente come carte d’archivio. L’onda del nuovo secolo aveva toccato Juvarra a Roma, di casa dal 1710 al 1714 con le famiglie di Corelli e di Scarlatti al lavoro per il teatrino del cardinal Ottoboni, polo autentico di scambi internazionali. Porterà questo respiro decisivo a Torino, commentando il Seicento magnifico con alternative radicali; di qui, a Rivoli, 1720, al Castello, l’ornato erotizzante degli ornemanistes, e grottesche, divertimento respirante di mano di Nicolò Malatto, di Filippo Minei, suggerimento autentico dei Menus Plaisirs di Jean Bérain, clima apristrada per Villa della Regina e per Stupinigi. Altre proposte d’avanguardia per il Palazzo Reale, nel 1720 la scala delle Forbici, sorpresa e fascino, humour come autodifesa, a taglio deciso verso chi a corte osservava scettico e diffidente l’innesto dei due Poteri, re Vittorio e il figlio sostenuto dalle spose. Si avvertirà il timbro accentratore di Vittorio Amedeo: nel 1729 il Regio Biglietto decide con Juvarra l’inizio della Palazzina di Caccia di Stupinigi, la luce della rocaille come avventura dell’intelligenza, la volta festosa spazio assoluto, passaggio al futuro dell’uomo che si sente infinitamente piccolo, alla pari di Gulliver, di Micromégas in visita ai giganti. Era una sfida di Vittorio Amedeo II, il vecchio Re determinato a lasciare un segno forte, memoria di momenti sapienti: gli allestimenti delle feste piscatorie, le imbarcazioni celebrative ipermanieriste di Carlo

Filippo Juvarra, Disegno per candeliere. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria 81


1. Giovanni Battista van Loo, Le Stagioni, affresco, particolare. Castello di Rivoli

Emanuele I3; aveva sostenuto la sua decisione rigorista di preparare Carlo Emanuele all’arte di governo, e in quello stesso anno 1729 poteva entrare a buon diritto la Peota, connessione incantevole, utile alle redini del Potere, fulcro dinastico, di fronte agli eventi difficili che portano all’abdicazione drammatica, sofferta – Rivoli, settembre 1730 – e il seguito ostinato di lui a Chambéry, avvertito dal marchese d’Ormea come spettacolo preoccupante per Torino, dove “il meccanismo che muove le marionette è in Savoia”; realtà difficile, con il trasferimento di Vittorio Amedeo a Moncalieri, e la fine, il 31 ottobre 17324. I rendiconti di quell’anno sono chiari, spese mirate, così dai Conti Tesoreria: nell’aprile 1732 certo confetture e orzada per i balli, gros de Tours bianco per la regina e vini da Vienna, ma in gennaio vino vecchio di Nebiolo per re Vittorio “rinchiuso a Rivoli”, e “due para di sandali per i Cappuccini che lo seguono”, e ancora da gennaio ad aprile spese “per scaldar le Camiggie di S.M. il Re Vittorio a Rivoli e a Moncalieri”, per fattura di “due vesti da Camera e Giuppone” per S.E. la Marchesa di Spigno “che lo assiste”5. Risultava uno stacco deciso, tra il vecchio re e il figlio, altro costume del vivere che legava molti particolari a Villa della Regina: spese vistose per maschere eccentriche, piume, ciniglie, galloni, passamanerie, un berretto (1733) per il fratello, principe d’Assia, e bottoni anche per il ca82

ne; spesa di bocca sofisticata per limoni, the, cioccolato, l’esotismo percepito come realtà tangibile. Si apriva la strada verso un nuovo pensiero del vivere, il gusto per profili agili, scelte sicure per il confort e l’agrément, e lo dicono nel 1731-1732 le proposte per i nuovi appartamenti in Palazzo Reale, il Segreto Maneggio degli Affari di Stato, progetti strategici di Juvarra, abbinati all’acquisto delle lacche cinesi a Roma, 1732, e le prime commissioni a Carlo Andrea van Loo, artista colto, delizioso, richiesto per Stupinigi, e per le tele della Gerusalemme Liberata, misura perfetta per il pregadio della regina Polissena, 173217336. È un crescere del gusto dell’ornato che rimanda in primo piano alla segnalazione intrapresa dal marchese d’Ormea a Roma 1730, quando avvista l’intagliatore torinese Pietro Piffetti, e avverte il Sovrano per un rientro prezioso; l’artista ringrazierà con “canna di legno violetta, pomo in ornamento avorio”, si procederà con incarichi per tavoli, librerie e mobili a doppio corpo. Nello spazio robusto del Palazzo Reale – cornici in oro, metafore ossessive affidate agli emblemi – con Piffetti entrava una cultura perfezionata, imperniata sul dominio raffinato, razionale, del lavoro, pilota della mano, pronta ad alternare progetti per la ritualità celebrativa – il disegno del mobile fissato con i pensieri di Juvarra e il timbro carismatico del gusto rocaille, intrecci stupendi, intensità emotiva orchestrata con palissandro, ebano, madreperla, tartaruga, oro, avorio, argento, così nel 1731 per il tavolino in Palazzo Reale. Che il percorso fosse amato da Carlo Emanuele e da Polissena, è dimostrato in molte scelte, profili ben documentati, e tra le prove tangibili, al centro dei sottarchi nel mobile capolavoro a due corpi in Palazzo Reale, le placchette d’avorio con incisi i ritratti a mezzo busto della regina e di Carlo Emanuele III7. Contava il ritmo festoso degli interni, la magnificenza alleggerita, antidoto al vivere nel respiro della retorica, e già il Tesauro avvertiva quel nodo, essenziale alle dimore regie: “Gran Sudor, gran Fatica, e Tutto è Gioco”. La nuova stagione


in Palazzo Reale è segnata dal gusto illuminato di una percezione liberata, arcadia divertita, che unisce gli ornemanistes e il mestiere perfetto del Beaumont, al lavoro per volte dove l’affresco trova il nodo tangibile dell’immaginazione visionaria, di fronte alla mitologia. Si celebra certo il nuovo Regno, ma su tutto il pensiero libertino, “perno della curiosità intellettuale […] si affida a esperienze variabili, le seleziona, ne gode, si arricchisce. Il pensiero libertino segna la fine del dogma e la nascita della coscienza autonoma. Della libertà. Le ripercussioni sul costume vanno nella stessa direzione”. Così il breviario illuminato, in viaggio con Diderot, di Eugenio Scalfari, Per l’alto mare aperto. La modernità e il pensiero danzante, Einaudi, Torino 2010. Nei profili meditati per segnare nuovi momenti mediatici, il laboratorio degli eruditi attivi a corte offriva scelte suggestive: il desiderio di Vittorio Amedeo di lasciare un segno, sostenuto da Juvarra per Stupinigi, indirizzava la scelta di uno spazio dinamico, siglato dall’archetipo delle acque del Po. È il momento strategico che segna la Peota, il Bucintoro regio, Reggia sull’acqua, tassello prezioso ordinato da Vittorio Amedeo II nel 1729 per le feste che toccheranno gli anni intensi di Carlo Emanuele III, capitolo pilota il “suo modo di essere”, fissato con una normativa suntuaria precisa. Lo documenta l’ordine del 30 giugno 1731: la Peota entra a Torino il 4 settembre, il pagamento concluso nel 1732, dati attentamente vagliati in anni recenti8. Tra questi, chiaramente collezionati e commentati, emerge l’aggancio essenziale – nel documento del “Conto del costo” – per il “Regallo che avrà dato all’architetto o Pittore per il disegno”: di qui, con sicurezza, si è pensato a Juvarra, per cui le carte inventariali del Sottis, ora Biblioteca Reale, Torino, citano “Disegni di Tre Gondole, e la Popa di un Bucintoro”, senza altre indicazioni, e si tratta in realtà di disegni non rintracciati. Leggendo in filigrana questo riferimento, la Peota risalta al centro di un incarico richiesto a Juvarra per un disegno regio, da progettare con il pittore, indicato nello stesso documento, regìa che riservava all’architetto il giudi-

2. Michele Antonio Milocco, Studio per decorazioni. Torino, Palazzo Madama -Museo Civico di Arte Antica

zio globale, compresa la valutazione del lavoro che proseguiva a Venezia nello squero, con gli specialisti, padroni per altro intoccabili del risultato operativo. Altro punto nodale con Juvarra, il risultato celebrativo che collega le scene figurate dei pannelli per la decorazione dell’interno: autentici manifesti, segnale del Potere politico fissato con i motti FERT e OPPORTUNE, ritmo acceso per vesti e particolari curiosi. È un insieme che indirizza al cantiere del Beaumont, sostenuto da Juvarra quale protagonista in Palazzo Reale, maestro degli affreschi per le volte, arcadia purissima, pittura elegante, glittica, statuina, omaggi agli incontri dell’Accademia romana, oltre il Trevisani. Il gusto dell’équipe diretta dal pittore regio emerge nel timbro dei pannelli, in particolare rivolti ai lavori del pittore Antonio Milocco, sostenuto dai principi di Carignano, “compagno del Beaumont” come sottolinea il Lanzi, scelto nelle residenze regie per decorazioni, un’eleganza effimera, veloce, per sovrapporte, finestre, pareti, pannelli per carrozze, chiaro sempre il disegno di Juvarra. Contava l’esempio degli affreschi di Rivoli, l’avanguardia del Minei, e da quelle volte l’educazione a godere la bellezza con metafore serene, così nel disegno di Milocco, con la83


3. Manifattura torinese, Ritratto di Carlo Emanuele III, papier-mâché su specchio. Collezione privata

bari, trombe, armonia legata al gioco dei puttini. In quegli anni Milocco è presente con intonazioni mediatiche, rituali, nelle chiese parrocchiali; così a Racconigi, pale suggestive, quale il Battesimo di Cristo in San Giovanni Battista, avvio di un percorso di recente indagato9. Altret84

tanto inerenti alla fucina reale i lavori documentati, 1731, per il raccomodamento della Peota, “l’Indoratura di parte degli intagli”, guscio avvolgente che impegna il Monticelli, allora attivo per lavori prestigiosi, maestro nell’indorare gli stucchi a Palazzo Reale per l’incantamento delle


volte dipinte dal Beaumont. Altri riferimenti all’équipe regia si individuano fissati nella Peota, grottesche e cavalli marini, corteo intrigante che rimanda ai decori, agli ornati stupendi, animati, di Minei a Rivoli per le volte affrescate nella camera dei Trofei, delle Fatiche di Ercole, e nella Camera di Parata, Appartamento del Re, repertorio unico, voce perdurante, assestata sulla ricchezza della cultura juvarriana cara a Vittorio Amedeo II10. Più di un tassello continuerà a essere dominante nella decorazione, chiaro il messaggio politico della volta protagonista di Giovanni Battista van Loo, Rivoli 1719, dove anche il Tempo è accompagnato da Apollo, ogni figura allegorica, comprese le Virtù, panneggiate in azzurro luminoso, modello esplicito che si ritroverà nelle svolte pittoresche della Peota, così negli intrecci per la volta dell’interno. Quell’innesto sicuro aiutava a leggere i “pensieri” di Juvarra per i decori, i geroglifici, a trovare le fila per interpretare i modelli ricchissimi offerti dalle volte parigine; così resteranno numero uno i nuovissimi modelli di Giovanni Francesco Fariano, e poi di Pietro Massa, pronto a intrecciare l’esotismo con il gusto della rocaille internazionale11. Di fronte alla ricchezza degli intagli lignei e delle sculture dell’apparato stupendo, lavorato a Venezia, ora studiato nell’area di Matteo Calderoni, l’occhio di Juvarra con Beaumont aveva rafforzato la prova d’orchestra: il crescere del profilo per la Peota consegnava un risultato pittoresco, festoso; quel mobile d’architettura – secondo una definizione di Pierre Verlet, che torna qui perfetta – avrebbe segnato il timbro giusto del treno di vita di momenti oltre le mura del Palazzo, anni d’inizio del regno, feste e autentiche performances, come documentano le spese puntuali degli Uffici di Bocca e di Vasella, la musica dei Somis, Giovanni Battista e Lorenzo, gli stessi che saranno ricordati da Rousseau. Nel percorso dal 1730 al 1750, Carlo Emanuele III apriva le residenze con suggerimenti dei principi di Carignano e dei viaggiatori, dando spazio al gusto sciolto, frastagliato, lo dice in Palazzo Reale la sottigliezza sorprendente dei Pre-

4. Peota Reale, particolare decorativo del tiemo

gadio, le scelte che lo indirizzano a Venezia per acquisti di quadri, e ne è incaricato il Beaumont, 1737; fino al momento sorprendente che aggancia il Bellotto, nel 1745 a Torino, in viaggio verso Dresda: il re chiede due paesaggi, due vedute della città, e ne risultano nella loro strepitosa intrigante densità, alternativa sapiente, i giardini, il Po, le rive con il cantiere aperto, la cupola di Guarini, il campanile concluso da Juvarra: l’architetto è ritratto in primo piano, mole poderosa, tonaca nera, gesto sicuro, gran regista che indica la chiesa dei Cappuccini, e sullo stesso spiazzo lui, Bellotto, che disegna12. Quell’incontro pareva segnare la convinzione di un traguardo raggiunto, giusta autostima. Carlo Emanuele, curioso verso aggiornamenti di cultura vagliati nel rigido cerimoniale di entrata e di partecipazione alla reggia, era attento al prospetto strategico delle sue stanze, di qui l’appoggio convinto alla crescita dell’équipe di Piffetti e di Luigi Prinotto, maestri di boiseries, specchio eccezionale dei regi ambienti. Al Prinotto era toccato illustrare, nel 1723, la Battaglia di Torino del 85


1706, una scrivania davvero straordinaria, per la libreria del principe Carlo Emanuele, storia calibrata con mano virtuosa, sapiente13; il risultato alternava il mestiere eccezionale appreso dal Piffetti con il gusto appassionato aperto a cogliere la realtà tangibile di un’identità che non era certo sovrastruttura: la realtà di quel vivere, fissata tra ornati fogliacei nell’hinc et nunc delle scene, autentiche radici nei particolari dei Dragoni a cavallo, la Sosta con vivandiere, la Ferratura di un cavallo; sono elementi che affiorano fissati nelle sequenze veloci per il tiemo della Peota, programmata per divertimenti, incontri e conversazioni giocati fuori della reggia. Era progetto strategico, bilanciato per distinguere momenti alternativi per il riposo con gli amici della corte, attratti da paradigmi riconoscibili in vicende e diplomazie dinastiche, animate dal piacere della “curiosità”, della “varietà”, della “sorpresa”, appuntate nel Saggio del Gusto di Montesquieu, 1757. In questo clima erano maturate scelte dinamiche per lo spazio del vivere civile a corte e in villa, altre tipologie per l’arredo, un’attenzione percettiva dominata dal sensismo, interesse per gli erbari, la

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porcellana, i giochi d’acqua per il giardino, gioco principe14. Negli stessi anni sono le medaglie e le monete a suggerire i ritratti, specchio pertinente di Carlo Emanuele III, forte delle sue terre in Sardegna, e lo dicono i ritratti a Cagliari, e qui in Piemonte numeri di precisa celebrazione, con altri legati alle stanze aristocratiche. Così il ritratto raffinato, lavorato in papier maché su specchio, circa 1740, autocompiacimento e narcisismo immedesimato nel fascino della capigliatura, busto corazzato, trofeo archetipo guerresco, cornice raffinata, alla base leoni, ai lati robuste ninfe entro panneggi, sostegno della corona dominante. L’ornato iperelegante risolve il gusto sottile del dopo Juvarra, riconosciuto da Voltaire nel 1736: “Ce temps profane est tout fait pour mes moeurs. J’aime le luxe, et même la mollesse, touts les plaisirs, les arts de toute espèce, la propreté, le goût, les ornements […]. Tout sert au luxe, aux plaisirs de ce monde […] le superflu, chose très nécessaire, a reuni l’un et l’autre émisphère”. In questo clima la Peota risolveva il momento aperto, il timbro pittoresco illuminista di una performance regale.


1 Il primo riferimento è al catalogo classico, decisivo, curato da V. Viale, Filippo Juvarra. Architetto e scenografo, catalogo della mostra (Messina, Palazzo dell’ Università, ottobre 1966), Tipografia F.lli Pozzo-Salvati-Gros-Monti & C., Torino 1966; altre aperture A. Griseri, G. Romano (a cura di), Filippo Juvarra a Torino. Nuovi progetti per la città, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1989; G. Gritella, Juvarra. L’architettura, 2 voll., Panini, Modena 1992. 2 Cfr. il contributo di M.T. Reineri, Anna Maria d’Orléans. Regina di Sardegna Duchessa di Savoia, Centro Studi Piemontesi, Torino 2006. 3 Cfr. F. Varallo (a cura di), Da Nizza a Torino. I festeggiamenti per il matrimonio di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria, Centro Studi Piemontesi, Torino 1992 e ora il saggio di Gianfranco Gritella in questo volume. 4 Decisivo il capitolo analizzato da G. Symcox, Vittorio Amedeo II, l’assolutismo sabaudo, 1675-1730, Società Editrice Internazionale, Torino 1985. 5 La ricerca documentaria è confluita in A. Griseri, La cornice e il quadro. Il Palazzo e gli Uffici di Bocca e di Vassella, in Porcellane e argenti del Palazzo Reale di Torino, a cura di A. Griseri, G. Romano, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, settembre-dicembre 1986), Fabbri Editori, Milano 1986, pp. 49-75. 6 Cfr. A. Griseri, “Aequa Potestas” tra Architettura e pittura, in R. Gabetti, A. Griseri (a cura di), Stupinigi. Luogo d’Europa, Allemandi, Torino 1996, pp. 59-82; per altri nuovi contributi filologici, A. Rizzo, L’abecedario di un pensionnaire du roi: Carle Vanloo a Roma (1728-1732), in G. Dardanello (a cura di), Beaumont e la scuola del disegno. Pittori e scultori in Piemonte alla metà del Settecento, Nerosubianco, Cuneo 2011. 7 V. Viale, Mobili e intagli, in Mostra del Barocco Piemontese, a cura di V. Viale, catalogo della mostra (Torino, Museo Civico d’Arte Antica - Palazzo Madama, Palazzo Reale, Stupinigi, 22 giugno - 10 novembre 1963), Tipografia F.lli Pozzo-Salvati-Gros Monti & C., Torino 1963, vol. III, pp. 16-17; G. Ferraris, A. González-Palacios, R. Valeriani, Pietro Piffetti e gli ebanisti a Torino 1670-1838, Allemandi, Torino 1992; F. Corrado, P. San Martino, Piffetti: l’arte, il lavoro, in “Studi Piemontesi”, vol. XXXIV, fasc. 2, 2005, pp. 313-326; C.E. Spantigati e S. De Blasi (a cura di), Il restauro degli arredi lignei. L’ebanisteria piemontese. Studi e ricerche, Nardini Editore, Firenze 2011. 8 Cfr. L. Griva, La peota di Carlo Emanuele III di Savoia (1730). Nuovi documenti, in “Studi Piemontesi”, vol. XXIV, fasc. 2, 1995, pp. 411-417 e Idem, in “Studi Piemontesi”, vol. XXXI, 2, fasc. 2002; A. Griseri, Torino 1731: il palcoscenico sul fiume e le sue quinte, in Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci, Dipartimento Arti Visive - Università di Bologna, Bologna 2004, pp. 269275. Per il contributo che ho pubblicato a Bologna nel 2004, vorrei ancora ringraziare la generosa amichevole attenzione di Silvia Ghisotti per la ricerca archivistica – relativa ai lavori del Monticelli con il Beaumont – e per le os-

servazioni sul prezioso manufatto allora in deposito nel Laboratorio Nicola. Determinanti ora le ricerche di Alessandra Castellani Torta e Giorgio Marinello con analisi di documenti inediti per vari aspetti economici relativi alla Peota; sono presentati in questo stesso volume, cfr. il saggio di Giorgio Marinello. 9 Per i recenti contributi, M. Biasi, F. Ventimiglia, Michele Antonio Milocco, in Dardanello, Beaumont e la scuola del disegno cit. Per il disegno qui presentato, cfr. A. Griseri, Pittura, nel catalogo Mostra del Barocco piemontese cit., vol. II, tav. 454, p. 126, capitello con scelte significative per il percorso grafico da Galeotti a Beaumont a Milocco. 10 Il capitolo del Castello di Rivoli si vale ora di una lettura filologica inedita di G. Dardanello, Juvarra e l’ornato da Roma a Torino: repertori di motivi per assemblaggi creativi, C. Mossetti, Luce e colori per la decorazione. Indicazioni dai cantieri di restauro, in G. Dardanello (a cura di), Disegnare l’Ornato. Interni piemontesi di Sei e Settecento, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Torino 2007, pp. 277-323. 11 Le ricerche e i risultati fondamentali sono riuniti in L. Caterina, C. Mossetti (a cura di), Villa della Regina. Il riflesso dell’Oriente nel Piemonte del Settecento, Allemandi, Torino 2005. Per Pietro Massa, cfr. Ang. Griseri, Villa della Regina: l’esotismo e i modelli d’avanguardia per l’ornato, in Villa della Regina. Il riflesso dell’Oriente nel Piemonte del Settecento cit., pp. 27-44. 12 Cfr. A. Griseri, Juvarra e Bellotto illuminista sui ponti di Torino, in “Arte Veneta”, XXXIII, Venezia 1979, pp. 87-94. 13 Cfr. V. Viale, in catalogo Mostra del Barocco Piemontese cit., vol. III, p. 10, scheda 1, tav. 1, per il documento di pagamento “Regi Discarichi” al Prinotto, 1723; per recenti interventi F. Corrado, Le medaglie di Luigi XVI, lo scrigno di Luigi Prinotto e l’impazienza di Carlo Emanuele III, in Uomini libri medaglieri. Dalla Storia Metallica di Casa Savoia alle Raccolte Numismatiche Piemontesi, catalogo a cura di S. Pennestrì, “Bollettino di Numismatica”, n. 25, Roma 1995, pp. 22-25; F. Corrado, Luigi Prinotto, in S. Pettenati, G. Romano (a cura di), Il Tesoro della Città. Opere d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, Allemandi, Torino 1996. 14 Per le svolte del Settecento a Torino, capitoli e revisioni critiche in G. Ricuperati, Il Settecento, in P. Merlin, C. Rosso, G. Symcox, G. Ricuperati, Il Piemonte Sabaudo. Stato e territori in età moderna, Utet, Torino 1994; A. Merlotti, L’enigma della nobiltà. Stato e ceti dirigenti nel Piemonte del Settecento, Leo S. Olshki, Firenze 2000; P. Bianchi, Il Piemonte in età moderna. Linee storiografiche e prospettive di ricerca, a cura di P. Bianchi, Centro Studi Piemontesi, Torino 2007; R. Allio (a cura di), Il Piemonte e la frontiera. Percorsi di storia economica dal Settecento al Novecento, Centro Studi Piemontesi, Torino 2008.

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La Peota e Torino: uno straordinario arrivo veneziano per le arti di corte Carla Enrica Spantigati Gli studi storici recenti stanno gettando nuova luce sulla Peota sabauda e sulle vicende che furono alla base di una committenza così impegnativa: l’arrivo dell’imbarcazione a Torino – fornita di tutto punto – nel settembre del 1731 è fatto noto da tempo1, ma l’incarico agli squeri veneziani deve essere retrocesso nel tempo e attribuito a Vittorio Amedeo II e non a Carlo Emanuele III, che la fece propria con sicuro apprezzamento, ostentandola quale status symbol nella placida navigazione sul fiume, come ricorda nelle sue Memorie il cavaliere d’Orioles nel sabato successivo alla formale presa in carico al Valentino [8 settembre, festa della Natività di Maria] “Il dopo pranzo le LL. MM. presero il divertimento col Bucintoro sul Po, che vi attirò concorso innumerabile per la novità”2. Se la genesi progettuale presenta ancora qualche lato oscuro, inscrivendosi in un periodo complesso e tormentato qual è quello dell’abdicazione di Vittorio Amedeo II e del passaggio dei poteri regii, e se in parte sfuggente è tuttora la lettura del programma iconografico degli apparati decorativi, l’oscillazione della datazione non interferisce però con i caratteri stilistici del manufatto, così ben inquadrati da Andreina Griseri negli orientamenti e nel variare del gusto di una corte ormai solidamente assestata sullo scenario europeo3. Appare ormai chiaro che al progetto non dovette essere estraneo Filippo Juvarra, né poteva essere altrimenti, stante il ruolo da lui svolto in quegli anni di creatore e regista della nuova immagine della capitale sabauda a seguito dell’am-

bito riconoscimento del titolo regio conseguito da Vittorio Amedeo. Ma è lecito interrogarsi sul come un manufatto così scenografico si incastonasse nel gusto aggiornato affermatosi a Torino e sul suo possibile dialogare con le realizzazioni che avevano visto approdare in città artisti e opere che costituivano un modello per le corti più à la page. Che anche a Torino l’uso di imbarcazioni più o meno elaborate sul piano dei decori fosse una tradizione da tempo affermata e declinata nel doppio registro di strumenti di loisir o di uso cerimoniale non è certo novità4, ma se il “Bussentoro” che nel 1660 recò fino a Piacenza Violante Margherita di Savoia per le nozze con Ranuccio Farnese duca di Parma era prodotto squisitamente torinese con gli intagli di Pietro Luca Bertolina e Bartolomeo Botto, secondo le Istruzioni di Amedeo di Castellamonte5, quali i caratteri stilistici della Peota e in quali rapporti con l’arte di corte? Come già detto l’imbarcazione, con una gondola e un burchiello, arriva da Venezia pienamente compìta in ogni suo dettaglio, compresi i tessuti dei rivestimenti interni, le giazze delle finestre del tiemo, le bacchette dorate, gli anelli e le borchie dei fornimenti. E se qualche parte è andata perduta – come i fragili e deperibili apparati tessili originari – o ha subito qualche rifacimento negli interventi che il trascorrere del tempo e l’uso hanno reso necessari – come nel caso delle decorazioni monocrome di alcune ante delle finestre, le riprese delle dorature o la consunzione superficiale delle figure allegoriche dipinte al

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1. Filippo Parodi, specchiera con Narciso, ultimo quarto del XVII secolo. Albisola Marina, Collezioni di Villa DurazzoFaraggiana

di sopra dei sedili, per la loro collocazione più facilmente soggette a usura – l’insieme è comunque sostanzialmente integro e pienamente percepibile nel dialogo tra elementi scolpiti e apparati dipinti6. Si impone all’attenzione il trionfo delle monumentali sculture lignee dorate di prua e di poppa, opera di Matteo Calderoni e della sua bottega (a Egidio Goyel si deve il raffinato drago del timone), ben note alla critica7 e richiamate dagli studi incentrati nel rapporto con l’attività di Antonio Corradini, autore in anni vicinissimi degli apparti scultorei dell’ultimo bucintoro dogale, com’è noto perito nel rogo del 1798 voluto dal governo napoleonico8. Ma vogliamo qui guardarle con l’occhio avvezzo alla frequentazione della corte torinese, e se al confronto con le guizzanti realizzazioni in stucco di Tantardini a Palazzo Madama (o con le sue sculture marmoree di tante sedi anche ecclesiastiche torinesi) sem90

brano forse un po’ spaesate, esse evocano un clima non poi così distante, pur nella differenza della materia e della finitura, dagli stucchi e dalle sculture in marmo di Carrara per Palazzo Madama e dalle sculture marmoree per Sant’Uberto a Venaria di Giovanni Baratta9. E se per quest’ultimo ci volgiamo ad anni di poco precedenti, le sintonie sono ancora più evidenti come quelle con gli stucchi di Palazzo Marucelli Fenzi a Firenze, impresa che Baratta condivise con Sebastiano Ricci per gli apparati pittorici trattando con ariosa naturalezza anche temi mitologici marini10. Ma ancora le sculture della Peota dialogano agevolmente con quanto andava facendo nel legno a Torino e a Venaria Carlo Giuseppe Plura, e, forse anche per la scelta del materiale intagliato e dorato, ci piace evocare il paliotto a lui attribuito ed eseguito intorno al 1718 per l’altar maggiore della parrocchiale di Costigliole d’Asti, fatto ricostruire dal 1715 dal marchese di San Marzano Ghiron Roberto Asinari dei conti di Costigliole secondo un progetto ancora una volta di Juvarra11. Certo il trionfo barocco dell’intaglio dell’imbarcazione, con il rifrangersi della luce sull’oro, ne dichiara la matrice veneziana ed evoca – in particolare – il fasto di certe contemporanee o di poco precedenti esperienze romane, e ho già avuto modo di proporne il confronto con le superbe sculture delle quattro carrozze eseguite nel 1716, su progetto dell’architetto Carlo Gimac, per l’ingresso a Roma del marchese Di Fontes, ambasciatore di Portogallo12. In una cultura che elabora e aggiorna i grandi modelli romani seicenteschi, la Peota ritrova a Torino illustri precedenti, come i superbi tavoli da muro – dalle massicce figure nella serrata composizione – assegnati da Gonzáles-Palacios a Filippo Parodi sullo scadere del Seicento13. Ma di Parodi ricordiamo ancor più l’eccezionale specchiera per Villa Durazzo ad Albisola (fig. 1), dalla cui sommità un Narciso, evidente antenato del nostro, si sporge a rimirarsi nello specchio inserito anche sul ripiano del tavolo che la sorregge14. Di Filippo Parodi non possiamo dimenticare i


2. Sebastiano Ricci, disegno per un letto con cavalli e Fortuna, circa 1710. Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. 1737

3. Michele Fanoli, tavolo da muro con Nettuno e Galatea, 1701, particolare. Soragna (Parma), Rocca

soggiorni a Venezia e le consonanze e gli scambi con Andrea Brustolon, cui già Andreina Griseri ci aveva invitato a guardare per Corradini, e suggestivi sono gli accostamenti del volto del nostro Narciso a quelli degli Angeli reggilampada eseguiti nel 1700 da Brustolon per Santo Stefano di Belluno15. Ancora la circolazione dei modelli romani si impone, come ha evidenziato Enrico Colle, con ricordi berniniani, la conoscenza dell’attività di Giovanni Paolo Schor, la diffusione delle incisioni, come quella di Pietro Sante Bartoli del monumentale letto eseguito da Schor per la principessa Colonna (1663) cui fa riferimento anche il bel disegno di Sebastiano Ricci (fig. 2) che ci piace richiamare per le figure dei due grandi cavalli marini che lo sorreggono, già da Paola Rossi avvicinati a quelli della Peota16. Né possiamo dimenticare in questo contesto i due tavoli da muro eseguiti da Michele Fanoli (quello stesso che collaborerà con Corradini per il bucintoro dogale) nel 1701 per Niccolò Meli Lupi alla Rocca di Soragna, di cui Colle ha indicato i collegamenti con le sculture della Peota17 (fig. 3).

Per Torino il richiamo a Genova evoca prepotentemente quella temperie di gusto affermato negli anni di Maria Giovanna Battista, un gusto che Juvarra non esita a governare e a indirizzare negli impegnativi cantieri di Palazzo Madama con Domenico Guidobono e il già ricordato Giovanni Baratta, lo scultore toscano così amato anche nelle prestigiose imprese genovesi del marchese Sauli18. Nel loro vibrante volgere a un più ammorbidito naturalismo non è solo con gli aspetti stilistici della scultura e dell’ammobigliamento che possono dialogare il Narciso che guida la navigazione della Peota rispecchiandosi nelle acque del Po, affiancato e come sorretto dai due grandi, placidi fiumi semisdraiati ai suoi piedi, il Po appunto e l’Adige (ma per quest’ultimo ci si interroga sulla correttezza dell’identificazione)19 o i cavalli marini dalle zampe rese mutanti dall’acqua da cui emergono a poppa. Fissando l’attenzione sugli aspetti iconografici e coinvolgendo nella lettura i rilievi che corrono lungo il bordo esterno dell’imbarcazione, l’apparato si propone infatti in piena sintonia con l’ambiente torinese 91


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4. Filippo Minei, apparato decorativo, 1721-1722, particolare. Castello di Rivoli, appartamento del Re, Gabinetto delle Fatiche di Ercole

5. Peota Reale, particolare decorativo del tiemo

e ben aderente alla raffinata cultura juvarriana, con il suo inequivocabile rimando anche ai modelli di derivazione e di gusto antiquariale diffusi dalle incisioni, e per restare in anni non troppo lontani ricordiamo il successo dell’infaticabile impegno di Pietro Sante Bartoli e le sue imprese editoriali con Giovan Pietro Bellori20. Portando l’attenzione alle pitture dell’interno del tiemo troviamo altri rimandi, anch’essi in piena sintonia con il gusto moderno affermatosi a corte. Nell’ambiente, sorta di prezioso cabinet, si impongono non tanto le scene di storia al centro e alle estremità del “cielo” o la serie di dieci allegorie delle scienze e delle arti per il buon governo disposte a guisa di dossali dei sedili, quanto piuttosto le leggere e ariose figurette a monocromo nel variare dei toni dell’azzurro e del blu che compongono il fregio all’imposta del soffitto e che scandiscono le partizioni verticali tra le allegorie emergendo dai bagliori dorati dei fondi. E ancora a monocromo, ma questa volta su chiari fondi cilestrini, altri decori, festoni, cartigli al di sotto dei sedili o coppie di putti alle due estremità interne dell’imbarcazione. Alla circolazione delle immagini attraverso i re-

pertori – in parte di diversa matrice rispetto a quelli usati per le sculture e in riferimento allo studio e alla diffusione dei modelli pittorici dell’antichità filtrati attraverso i grandi esempi dei maestri del Cinquecento – rimanda l’esame dell’apparato decorativo dell’interno del tiemo, anch’esso da leggere nel confronto con quanto si va affermando nei cantieri torinesi. Grazie ad Angela Griseri conosciamo il gusto raro che connota i moderni ambienti con il loro ammobigliamento, la cultura degli ornemanistes e la circolazione dei modelli di Bérain21 e Giuseppe Dardanello ci ha fornito le chiavi di lettura per riconoscere, a partire dai dipinti murali di Filippo Minei al Castello di Rivoli, la sottile e coltissima rete di rimandi che rimette in gioco, anche attraverso moderne riedizioni parigine, le incisioni di Jacques Androuet du Cerceau22 (fig. 4). Con le composizioni di Minei – all’epoca ormai lontano da Torino – le arabescate e sottili incorniciature che inquadrano vasi straripanti di fiori e frutta da cui emergono agili e snelle figurine mitologiche o animali (un coniglietto, un pappagallo, aironi, uccelli fantastici) alle pareti del tiemo o i festoni al disotto dei sedili rivelano stret-


6. Giovanni Battista Crosato, Teti dea del mare, circa 1733. Torino, Villa della Regina, appartamento di Sua Maestà, camera verso levante detta del Trucco, sovrafinestra

tissimi apparentamenti, così da indicare il ricorso agli stessi modelli e repertori. Sul soffitto si impongono le due festose sfilate, dominate al centro dai due carri di Venere, trainato dalle coppia di colombe, e di Arianna, o forse Cerere, trainato dalla coppia di pantere, tra scherzose danze e gruppetti alle estremità nell’idilliaco riposo campestre allietato dalla musica. Satiri e amorini si intrecciano con le compagne e i compagni delle divinità in un lieto inneggiare alla vita e alla fertilità della terra. Ancora affiorano ricordi di precedenti illustri, ma rielaborati in chiave di leggiadro e festoso gusto ormai avviato all’affermazione prorompente del rococò. Difficile identificare la mano sapiente e sicura cui ascrivere questi apparati e se, come appare assodato, dobbiamo cercare a Venezia, il fregio del soffitto parrebbe evocare Giovanni Battista Crosato, anche alla luce dei suoi rapporti con Torino documentati a partire dal 1730. Si tratta di una suggestione che trova sostegno non solo nello spirito arioso che, nella reinterpretazione degli insegnamenti tiepoleschi, caratterizzerà gli interventi piemontesi dell’artista nei cantieri ju-

varriani (fig. 6), ma anche e soprattutto nella sua straordinaria attività di scenografo, proprio quella stessa attività che determina la sua prima presenza a Torino per il Regio Teatro con Alessandro e Romualdo Mauro in qualità di “figurista”23. Diversa la stesura delle tre scene storiche sul soffitto del tiemo, memori dei grandi teleri dei soffitti veneti nel taglio dall’accentuato sottinsù. Sull’iconografia, ancorché non del tutto chiara soprattutto negli aspetti programmatici che dovettero legare le diverse rappresentazioni, ho già avuto modo di soffermarmi più diffusamente ripartendo dal già citato documento redatto all’arrivo dell’imbarcazione a Torino che ne attesta la presenza24. La scena centrale con Amedeo VIII, l’antipapa Felice V, che consegna la tiara a Nicolò V ricomponendo così l’armonia spezzata all’interno della chiesa cattolica, può agevolmente essere interpretata in relazione al concordato sottoscritto nel 1727 tra Vittorio Amedeo II e Benedetto XIII che suggella il superamento di un lungo periodo di tensioni tra il regno sabaudo e il papato, un concordato che aveva proprio al primo punto il riconoscimento da parte del pontefice dei benefici e privilegi concessi da Ni93


colò V ai Savoia. Alle estremità, in spazi triangolari pensati quali unghie miniaturizzate di una volta, i riferimenti a due predecessori, Amedeo V con il motto FERT che, riferendosi alla leggendaria liberazione dei cavalieri ospitalieri di Rodi, nuovamente esalta il buon governo sabaudo nel sostegno alla cristianità, e Carlo Emanuele I con il Sagittario e il motto OPPORTUNE – quella stessa impresa ricordata da Emanuele Tesauro come scelta sulla base dell’ascendente astrologico, e densa di riferimenti all’educazione del principe – che accompagna il duca vittorioso su Invidia ed Eresia nella bella incisione di Raphael Sadeler su disegno di Giovanni Caracca25. Certe discontinuità nella fattura – spiccano la scena centrale con le pennellate veloci che definiscono il volto del pontefice e con i volti dei cardinali che assistono all’evento, ritratti chiara-

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mente indagati ma al momento non individuati, o i particolari degli sfondi della due scene alle estremità, sapientemente affidati a pochi, rapidi tocchi – rendono ardua l’individuazione dell’autore, che riteniamo comunque ben distinto dal raffinato pittore dei monocromi. Con il suo raffinato apparato decorativo che condivide scelte e orientamenti della corte, dal settembre 1731 a Torino la Peota maestosamente afferma la sovranità sulle acque o accoglie e accompagna i piacevoli momenti di svago, segnata dal variare del gusto fino alla sua definitiva messa a terra con la musealizzazione che – se ne decreta la morte quale superbo natante – ne afferma prepotentemente l’importanza in chiave storico artistica. Ma questa è un’altra storia che altri affrontano, una storia suggellata nel lieto fine dell’attuale restauro e dell’approdo alla Reggia di Venaria.


1 G. Vico, Il Real Castello del Valentino, Stamperia Reale, Torino 1858; L. Rovere, Il Bucintoro di Venezia e la Peota di Carlo Emanuele III, in “Torino” rassegna mensile della città, 1931, pp. 487-493; la Peota viene poi significativamente riproposta all’attenzione evidenziandone l’aspetto scenografico da M. Viale Ferrero, in Mostra del Barocco Piemontese, a cura di V. Viale, catalogo della mostra (Torino, Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama, Palazzo Reale, Stupinigi, 22 giugno - 10 novembre 1963), Tipografia F.lli Pozzo-Salvati-Gros Monti, Torino 1963, vol. I, pp. 53-54. L. Mallé, Matteo Calderoni e Monsieur Egidio, Venezia 1730, Grande Peota […], in Catalogo del Museo Civico di Torino, Mobili e arredi lignei, Torino 1972, pp. 147-148. I riflettori si riaccendono con gli studi di L. Griva, La “peota” di Carlo Emanuele III di Savoia, in “’L Caval’d Brôns”, marzo, 1983; Idem, La peota di Carlo Emanuele III di Savoia (1730). Nuovi documenti, in “Studi Piemontesi”, novembre 1995, vol. XXIV, fasc. 2, pp. 411-417; Idem, Venezia Torino 1731: un Bucintoro per i Savoia, in “Studi Veneziani”, n.s., XLVI, 2003, pp. 341-353, ma per l’inquadramento storico artistico A. Griseri, Torino 1731: il palcoscenico sul fiume e le sue quinte, in Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci, Dipartimento Arti Visive-Università di Bologna, Bologna 2004, pp. 269-275; L. Griva, La fraglia degli intagliatori e la costruzione di navi lusorie nel primo Settecento a Venezia, in “Studi Veneziani”, n.s., LI (2006), 2007, pp. 375-385; Idem, Lo scultore Matteo Calderoni e la costruzione del Bucintoro Sabaudo nel 1731, in “Studi Piemontesi”, XXXVI, fasc. 2, dicembre 2007, pp. 427434; C.E. Spantigati, Il bucintoro dei Savoia e il progetto “La Venaria Reale”, in Archeologia, storia etnologia navale, a cura di S. Medas, M. D’Agostino, G. Caniato, atti del I Convegno Nazionale ISTAEN (Cesenatico, 4-5 aprile 2008), “Navis”, 4, 2010, pp. 199-202; Eadem, Il bucintoro dei Savoia e il progetto “La Venaria Reale”, in G. Caniato (a cura di), Con il legno e con l’oro. La Venezia artigiana degli indoratori, battiloro e doratori, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Verona) 2009, pp. 187-195. Le novità degli studi recenti di G. Marinello e A. Castellani Torta hanno avuto una prima anticipazione in occasione del Convegno organizzato dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale dedicato interamente alla Peota e al suo restauro ai cui atti si rimanda integralmente per tutti gli interventi, compreso quello di chi scrive. 2 Memorie del Cavaliere d’Orioles, BRT, Storia Patria 932, riportato in Griva, Venezia Torino 1731 cit., p. 348. 3 Griseri, Torino 1731: il palcoscenico sul fiume e le sue quinte cit. 4 Anche per i riferimenti alla bibliografia precedente C.E. Spantigati, Il “Bucintoro” nelle arti di corte, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro, a cura di S. De Blasi, atti del convegno internazionale di studi (Venaria Reale, 22-23 marzo 2012), Editris, Torino 2012, e ricco di utilissimi apporti Feste barocche, a cura di C. Arnaldi di Balme, F. Varallo, catalogo della mostra (Torino, Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama, 7 aprile - 5 luglio 2009), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2009. 5 Il documento con la dettagliata descrizione è stato reso

noto da B. Antonetto, I Botto. Una famiglia di intagliatori nel Piemonte del sec. XVII, Centro Studi Piemontesi, Torino 1994, pp. 208-210. 6 Ovviamente il mantenimento funzionale della Peota nella sua qualità di natante fino al secondo Ottocento richiese operazioni sullo scafo, ma per tutti gli aspetti dell’attuale restauro, oltre al rimando agli atti del convegno già ricordati con le ricerche di Stefania De Blasi sulla storia degli interventi conservativi, si vedano qui i testi relativi. 7 Griva, La fraglia degli intagliatori cit., e Idem, Lo scultore Matteo Calderoni cit.; Griseri, Torino 1731 cit.; E. Colle, Il mobile barocco in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1600 al 1738, Electa, Milano 2000, pp. 304, 444. Recentemente sull’artista sono intervenuti M. De Vincenti e S. Guerriero, Intagliatori e scultura lignea nel Settecento a Venezia, in Con il legno cit., pp. 133-134. 8 Oltre ai testi di cui alla nota precedente, per Corradini e il bucintoro dogale L. Urban in questo volume e in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro cit. con la sua ricca bibliografia precedente. Più in generale per Corradini, dalle sculture in legno o in materiale lapideo acclamate in tutta Europa, B. Cogo, Antonio Corradini scultore veneziano (1688-1752), Libreria Gregoriana Estense, Este 1996. 9 G. Dardanello, Prima ancora di parlare di Juvarra e la scultura.., e Carlo Tantardini: percorso di uno scultore indipendente, in Idem (a cura di), Sculture nel Piemonte del Settecento “Di differente e ben intesa bizzarria”, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Torino 2005, pp. 17-28 e 29-118; Idem, Modelli decorativi a gara per le nuove residenze di Madama Reale (1700-1724) e Lo scalone di Filippo Juvarra, la facciata seicentesca e il salone del palazzo delle Madame Reali, in G. Romano (cura di), Palazzo Madama a Torino. Da castello medioevale a museo della città, Editris Duemila, Torino 2006, pp. 175-234 e 253-280. In particolare per i rapporti dello scultore con Juvarra anche in cantieri non torinesi F. Freddolini, Giovanni Baratta e Filippo Juvarra a Torino, con una postilla su Giovanni Battista Bernero, in “Nuovi Studi. Rivista di Arte Antica e Moderna”, XIII, 2008, n. 14, pp. 163-182. 10 A. Bacchi, La nobiltà soccorre la virtù, in N. Roversi (a cura di), Sculture, dipinti e disegni, Bottega di San Luca, Torino 1991, pp. 10-13; F. Freddolini, Mecenatismo e ospitalità: Giovanni Baratta a Firenze e la famiglia Guerrini, in “Nuovi Studi. Rivista di Arte Antica e Moderna”, VIII, 2003, n. 10, pp. 183-205; Idem, Nuove proposte per l’attività giovanile di Giovanni Baratta, in “Paragone” 2010, gennaio, n. 89, pp. 11-27; A. Bacchi, F. Freddolini, Giovanni Baratta. Due modelli fiorentini in terracotta, Walter Padovani, Milano 2010. 11 C. Bertolotto, scheda n. 28, in Il Teatro del Sacro, scultura lignea del Sei e Settecento nell’Astigiano, a cura di R. Vitiello, catalogo della mostra (Asti, 18 aprile - 18 ottobre 2009), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2009; ma si veda Ibidem F. Gualano, Maestri scultori del Settecento in territorio astigiano, pp. 59-75 e schede passim; Idem, Il “ signor Plura scultore rarissimo”. Un luganese alla corte sabauda, in Svizzeri a Torino, in “Arte e Storia”, 2011, ottobre, n. 52, pp. 376-397; sull’attività di Plura in ambito ecclesiastico, G. Gentile, 95


Sculture per le processioni e gli apparati rituali, in Dardanello, Sculture nel Piemonte cit., pp. 237-254. 12 M.F. Apolloni, Le carrozze dell’ambasceria del Marchese De Fontes nel Museo Nazionale delle Carrozze a Lisbona, in S. Vasco Rocca, R. Borghini (a cura di), Giovanni V di Portogallo (1707-1750) e la cultura romana del suo tempo, Argos, Roma 1995, pp. 413-422 con la documentazione sulla paternità del progetto segnalata da O. Michel; nello stesso volume si veda anche A. Gonzáles-Palacios, Appunti per un lessico romano-lusitano, pp. 441-457 (per la produzione romana di carrozze, pp. 453-456). Per il progetto delle carrozze dell’ambasciatore portoghese era stato avanzato il nome di Juvarra (M. Terrier, La mode des espagnolettes. Oppenord et Juvarra, in “Antologia di Belle Arti. Melanges Verlet”,1985, n.s., nn. 27-28, pp. 123146), ipotesi che i rapporti dell’architetto con il marchese Di Fontes e le loro frequentazioni del circolo del cardinal Ottoboni rendeva verosimile, C.E. Spantigati, Il bucintoro dei Savoia e il progetto “La Venaria Reale” cit. e Eadem, Il Bucintoro nelle arti di corte cit.; T. Caserta, Rodrigo de Sa Ameida e Menez, Marchese di Fontes e Abrantes, I e II, schede nn. 42 e 43, in C. Ruggero (a cura di) con la collaborazione di T. Caserta, La forma del pensiero. Filippo Juvarra. La costruzione del ricordo attraverso la celebrazione della memoria, Campisano, Roma 2008, pp. 310-316 e per la situazione romana di quegli anni A. Delaforce, Giovanni V di Braganza e le relazioni artistiche e politiche del Portogallo con Roma, in Vasco Rocca, Borghini (a cura di), Giovanni V di Portogallo (1707-1750) cit., pp. 21-39. 13 Dell’insieme dei quattro tavoli da muro tre si conservano tutt’ora a Torino in Palazzo Reale, mentre il quarto, riemerso nel 1995 sul mercato antiquario, è in proprietà privata; A. Gonzáles-Palacios, Il mobile in Liguria, Sagep, Genova 1996, pp. 91-91, Colle, Il mobile barocco in Italia cit. pp. 222-223; Idem, Magnificenze barocche, in Magnificenza e progetto. Cinquecento anni di grandi mobili italiani a confronto, a cura di L. Settembrini, E. Colle, M. De Giorgi, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 22 aprile - 21 giugno 2009), Electa, Milano 2009, pp. 86113 e scheda della console ora in proprietà privata a cura di B. Matucci, p. 227. 14 Gonzáles-Palacios, Il mobile in Liguria cit., pp. 77-80; Colle, Il mobile barocco in Italia cit., pp. 218-220. 15 A.M. Spiazzi, Altari e arredi sacri di Andrea Brustolon “civis celeberrimi, sculptor egregii, patriae decus et honor”, in Andrea Brustolon 1662-1732. “Il Michelangelo del legno”, a cura di A.M. Spiazzi, M. De Grassi, G. Galasso, catalogo della mostra (Belluno, Palazzo Crepadona, 28 marzo - 12 luglio 2009), Skira, Milano 2009, pp. 29-45, schede nn. 141-142, pp. 364-365, ma all’intero catalogo si rimanda più in generale 16 E. Colle, Fonti decorative per Andrea Brustolon e gli intagliatori veneti d’inizio Settecento, pp. 93-107 (con ulteriori riferimenti al tema delle carrozze) e P. Rossi, La scultura a Venezia al tempo di Brustolon, in Andrea Brustolon cit., pp. 69-81(in particolare p. 77); il disegno di Sebastiano Ricci è alla scheda n. 50, pp. 333-334 di A. Perissa Torrini. Per la cultura romana di quegli anni Disegni decorativi del ba-

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rocco romano, a cura di G. Fusconi, catalogo della mostra (Roma, Gabinetto Nazionale dei Disegni e delle Stampe, 22 maggio - 14 luglio 1986), Quasar, Roma 1986. 17 Colle, Il mobile barocco in Italia cit., pp. 304-307, ma per i mobili di Soragna si veda anche A. Gonzáles-Palacios, Il tempio del gusto. Le arti decorative in Italia tra classicismi e barocco, Longanesi, Milano 1986, consultato nell’ed. Vicenza 2000, pp. 791-800. 18 Dardanello, Modelli decorativi a gara per le nuove residenze di Madama Reale (1700-1724) cit. Per la presenza torinese dei fratelli Bartolomeo e Domenico Guidobono si veda ora Favole e magie. I Guidobono pittori del Barocco, a cura di C. Arnaldi di Balme, G. Romano, M. Newcome Schleier, G. Spione, catalogo della mostra (Torino, Museo Civico d’Arte Antica - Palazzo Madama, 29 maggio - 2 settembre 2012), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2012; a entrambi i testi si rimanda anche per la bibliografia precedente, ma si vedano anche le note 9 e 10. 19 La lettura iconografica dell’intero apparato si affida tradizionalmente al documento redatto a posteriori, nel 1731 all’arrivo dell’imbarcazione a Torino, ma si vedano C.E. Spantigati e A. Castellani Torta in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro cit. 20 E. Borea, Bellori e la documentazione figurativa fra l’antico, il moderno e il contemporaneo, in L’Idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, a cura di Eadem e C. Gasparri con la collaborazione di L. Arcangeli e L. de Lachenal, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 29 marzo - 26 giugno 2000), De Luca, Roma 2000, vol. I, pp. 141-151; L. de Lachenal, La riscoperta della pittura antica nel XVII secolo: scavi, disegni, collezioni, ivi, vol. II, pp. 625-636, con le incisioni dei mosaici pavimentali di soggetto mitologico marino; E. Borea, Pietro Sante Bartoli, le pitture antiche, l’età di mezzo e il dopo, in Eadem, Lo specchio dell’arte italiana. Stampe in cinque secoli, Edizioni della Normale, Pisa 2009, vol. I, pp. 319- 328. Risalendo alla prima metà del Seicento non possiamo dimenticare l’importanza delle incisioni della Galleria Giustiniani, Eadem, La Galleria Giustiniana, ivi, vol. I, pp. 277-284; I Giustiniani e l’antico, a cura di G. Fusconi, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Fontana di Trevi, 26 ottobre 2001 - 27 gennaio 2002), L’Erma di Bretschneider, Roma 2001. 21 Ang. Griseri, Un inventario per l’esotismo. Villa della Regina 1755, Centro Studi Piemontesi, Torino 1988; Eadem, I nuovi protagonisti della decorazione, in Filippo Juvarra a Torino. Nuovi progetti per la città, a cura di A. Griseri, G. Romano, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1989, pp. 229250; Eadem, Villa della Regina: l’esotismo e i modelli d’avanguardia per l’ornato, in L. Caterina, C. Mossetti (a cura di), Villa della Regina. Il riflesso dell’Oriente nel Piemonte del Settecento, Allemandi, Torino 2005, pp. 27-44, ma si veda qui anche C. Mossetti, I Gabinetti di Villa della Regina. Modelli e confronti, pp. 123-152. 22 Dardanello, Modelli decorativi a gara per le nuove residenze di Madama Reale (1700-1724) cit.; Idem, Juvarra e l’ornato da Roma a Torino: repertori di modelli per assemblaggi creativi e Circa 1730: Filippo Juvarra e le origini del rococò a Torino, in Idem (a cura di), Disegnare l’ornato. In-


terni piemontesi di Sei e Settecento, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Torino 2007, pp. 103-171 e 173-216. 23 M. Viale Ferrero, Storia del Teatro Regio. La Scenografia dalle origini al 1936, a cura di A. Basso, vol. III, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1980, Eadem, Affanni e diletti di “inventori” e “pittori”, in L’arcano incanto. Il Teatro Regio di Torino 1740-1990, a cura di A. Basso, catalogo della mostra (Torino, Teatro Regio, 16 maggio - 29 settembre 1991), Milano 1991, pp. 441461 e ivi, p. 462 la scheda di F. Blanchetti del più tardo bozzetto di Crosato con il Tempio del Sole (scena di Siroe di G. Scarlatti, 1749) conservato in Galleria Sabauda che ben evidenzia, ancorché più tardi, il fare di Crosato scenografo. Per l’attività di Crosato a Torino A. Griseri, “Aequa potestas” tra architettura e pittura, in Stupinigi. Luogo d’Europa, a cura di R. Gabetti, A. Griseri, Allemandi, Torino 1996, pp. 59-82; Eadem, Il gusto di vivere in Villa: Crosato con Juvarra, in Juvarra a Villa della Regina. Le storie di Enea di Corrado Giaquinto, a cura di C. Mossetti e P. Traversi, catalogo della mostra (Torino, Villa della Regina), Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, Torino 2008, pp. 51-58; G. Dardanello, Due disegni di Juvarra per la “rimodernazione” di Villa della Re-

gina, ivi, pp. 59-70. Di Crosato ricordiamo anche l’attività per i probabili decori di una portantina, Ang. Griseri, Giovanni Battista Crosato, Venere e Marte, in Museo Mallé. Dronero, catalogo a cura di E. Ragusa, L’Artistica Savigliano, Savigliano 1995, pp. 80-81. 24 Spantigati, Il “Bucintoro” nelle arti di corte cit., a questo testo rimando anche per i necessari riferimenti bibliografici. Le indagini eseguite nel corso dell’attuale restauro non hanno rilevato né stesure precedenti a quanto ora visibile, né significativi rifacimenti, come confermano le accurate verifiche sui documenti successivi all’arrivo che attestano ripetute operazioni di manutenzione a eccezione degli interventi ottocenteschi sulle ante delle finestre, ma si veda S. De Blasi, La storia conservativa del “Bucintoro” sabaudo: strumenti per il supporto e la documentazione di un restauro, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro cit. 25 Si veda alla nota precedente; per l’incisione di Sadeler M.B. Failla, scheda n. 37 in “Il nostro pittore fiamengo”. Giovanni Caracca alla corte dei Savoia (15681607), a cura di P. Astrua, A.M. Bava, C.E. Spantigati, catalogo della mostra (Torino, Galleria Sabauda), Allemandi, Torino 2005, p. 152.

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Le feste sull’acqua Franca Varallo

Aqua Triumphalis. Così titolava la relazione dello straordinario ingresso a Londra di Carlo II e della sua sposa, l’infanta Caterina di Braganza, nell’agosto 1662, stilata da John Evelyn e da lui stesso definito “the most magnificent Triumph that certainly ever floted on the Thames”. I sovrani percorsero il tragitto da Hampton Court a Whitehall sul fiume accompagnati da uno smisurato corteo di imbarcazioni riccamente decorate sulle quali erano divinità mitologiche, animali esotici, musici, rappresentanti della Città e del Parlamento. Il Father Thames, da sempre al centro dei grandi eventi londinesi, signoreggiò in tutta la sua fastosa magnificenza, così come nuovamente accadde nel 1685 in occasione delle nozze di Giacomo II e di Maria Beatrice di Modena nel breve il tratto da Whitehall a Westminster, in un tripudio di apparati e di fuochi d’artificio; ma il fiume fu protagonista anche di altri spettacoli come le celebri gelate che, a partire da quella del 1683-1684 e fino alla demolizione del London Bridge nel 1832, nei freddi inverni ne trasformavano la superficie in una lastra di ghiaccio donando ai londinesi meravigliosi e inconsueti divertimenti1. Le feste sull’acqua, a Londra come in altre città, rappresentarono tra il XV e il XIX secolo momenti centrali di cerimonie e celebrazioni. Di volta in volta la via liquida accompagnava il trionfo del sovrano esaltandone la grandezza, lo accoglieva nella veste di figura allegorica a fianco di divinità e Virtù, si prestava a roboanti ma innocue battaglie navali simulacri di ben più ardue esibizioni di forza, si faceva gioioso specchio di fantasmagorici fuochi d’artificio che, illuminando il cielo, vi si ri-

flettevano moltiplicandosi. Ma non solo, anche in assenza di fiumi, mari e torrenti, l’acqua ugualmente era protagonista di spettacoli e intrattenimenti introdotta a forza nelle sale dei palazzi, simulata con macchine sceniche, fatta scultura in ardite fontane ed eccedenti forme di ghiaccio. Vitale elemento simbolico, era dunque irrinunciabile e privilegiata presenza in ogni forma di esibizione del potere, amata in tutte le corti sia per solennizzare nuove alleanze dinastiche sia per celebrare natali di principi e sovrani. Lungo e inutile risulterebbe ogni tentativo di proporre un elenco anche solo dei casi eccellenti e limitatamente alle grandi città d’acqua come Venezia, Nizza, Genova, Amsterdam, o fluviali come Parigi, Londra, Dresda, Roma, Firenze o Vienna: tutte si servivano del mare e del fiume come ondeggiante e riverberante palcoscenico su cui esibire mostri, figure mitologiche, isole natanti, stravaganti imbarcazioni e, calata la notte, accendere fuochi. Così a Torino dove le feste sull’acqua furono declinate nel loro molteplice repertorio spettacolare, sperimentate prima con una maggiore vaghezza, poi assestate in formule rodate e suscettibili di poche varianti fino all’Ottocento. Il Po e la residenza del Valentino sulle sue sponde furono una irresistibile location che nel corso dei secoli si prestò a rendere omaggio alla casata e alla città e di cui si può provare a tracciare una linea di continuità che tenga conto dei mutamenti di gusto, di mode, di stili di vita. Agli estremi di questo percorso due matrimoni esemplari, quello del 1585 tra Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria, Infanta di Spagna, e del 1842 tra Vittorio Emanuele II e Maria Adelai-

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de l’arciduchessa d’Austria, avvio e chiusura di un’epoca di feste e celebrazioni fastose trasmesse dai documenti e da fonti iconografiche. Lungo questo arco temporale, scandito perlopiù da eventi nuziali, la data del 1678 introduce la variante del compleanno del principe ereditario, una sorte di spartiacque tra i due eventi citati, che a sua volta ci fa retrocedere di cinquanta anni esatti a un altro natale celebrato non sull’acqua del Po, ma sull’effimero mare creato nel salone del Castello per la giovane Cristina di Francia nel febbraio del 1628. In quella occasione le onde fittizie furono solcate da una grande imbarcazione, La Nave della Felicità – tanto elogiata dal Ménestrier – la quale, dopo la rappresentazione dell’Arione, favola piscatoria, ospitò la principessa e le sue dame per un raffinato banchetto. L’avvenimento, ricordato da tutti gli studiosi con non poco di rammarico causa la scomparsa, dopo la sua pubblicazione nel 1930 (vuoi perché sottratta vuoi perché usurata), della sola immagine finora nota di una festa del regno di Carlo Emanuele I (1580-1630), per di più opera dell’estroso Giovenale Boetto, induce a prendere in considerazione, prima di spostarci sulle rive del fiume, gli spettacoli sull’acqua nelle sale dei palazzi, che non escludevano l’utilizzo dell’elemento liquido introdotto con un sistema di canali nei luoghi deputati alla festa, così da accentuare quel fin di meraviglia che l’effimero richiedeva. La grande stagione di questa tipologia spettacolare alla corte sabauda coincise con i primi tre decenni del Seicento; in seguito durante la lunga reggenza di Cristina la predilezione della Madama Reale per i balletti concesse poco spazio ad altri divertimenti e anche in occasione delle nozze dei figli, la duchessa preferì la consolidata forma del carosello con carri di trionfo e combattimenti a cavallo in piazza Castello. Diversamente il duca Carlo Emanuele I, nonostante i tornei fossero indubbiamente gli spettacoli più funzionali alla sua strategia politica e culturale, sperimentò ogni altra forma di rappresentazione che potesse celebrare sé e la casata. La ricorrenza del suo compleanno, che coincideva con il lungo periodo del Carnevale, costituiva l’occasione perfetta per una ininterrotta sequenza di feste che alternavano combatti100

menti, corse in slitta sulle strade innevate, banchetti sontuosi con tavolate animate da sculture e invenzioni scenografiche, commedie e favole piscatorie2. Queste ultime, presupponendo una ambientazione marittima o fluviale, consentivano artificiose creazioni sceniche con onde fittizie mosse da macchine teatrali realizzate da artisti, spesso confermate dai pagamenti nei registri di conti delle Fabbriche e Fortificazioni. Se perlopiù si trattava di simulazioni in legno e tela, non mancarono gli allagamenti veri e propri del salone basso del Castello con acqua portata dalla chiesa di San Lorenzo. Questo suggestivo espediente spettacolare, in uso anche presso altre corti (ci sono pervenute testimonianza di allagamenti di cortili e saloni a Roma come a Firenze), fu sicuramente impiegato nel 1611 quando, con un sofisticato marchingegno idraulico, l’acqua allagò il salone grande dei tornei per ospitare una battaglia navale, una sorta di carosello piscatoria intitolata L’espugnazione dell’Isola di Cipro, e forse ripetuta in altre occasioni festive tra il 1606 e il 1620. Se imprigionare l’acqua all’interno di edifici richiedeva sistemi sofisticati, più semplici ma non meno spettacolari erano le ambientazioni della battaglie navali su fiumi o laghi, come l’Argonautica, con apparati di Giulio Parisi, sull’Arno a Firenze per il matrimonio di Cosimo de’ Medici con Maria Maddalena d’Austria nel 1608 e, nello stesso anno, quella ideata da Gabriele Bertazzolo a Mantova per le nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia con “castello di fuochi trionfali”. Né va sottaciuta la battaglia navale allestita il 10 novembre del 1619 al Moncenisio per il passaggio di Cristina di Francia, sposa del principe Vittorio Amedeo di Savoia. Sulle acque del lago “amplissimo, chiaro, & fertile d’ogni sorte di pesci, & massime di Trutte grandi oltre misura” fu messa in scena, con accorta regia di Carlo di Castellamonte e con l’intento di celebrare una pagina eroica della storia dinastica, la conquista di Rodi per mano di Amedeo V. La giovane Madama Reale e il suo seguito furono ospitati nel palazzo, costruito all’uopo in pochi giorni, dalla cui finestre la principessa poté ammirare l’isola, la città cinta da mura merlate, il bellissimo porto con i vascelli, e, po-


1. Accursio Baldi e Sebastiano Marsili, Il carro del Delfino, acquaforte, in R. Gualterotti, Feste nelle nozze del Serenissimo Don Francesco Medici Gran Duca di Toscana, Firenze 1579. Londra, British Library

co discosto da questa, le armate dei cavalieri cristiani e turchi con abiti vistosi, turbanti e mezze lune argentate. Il giorno seguente i due sposi furono raggiunti dal duca e dai principi Filiberto, Tommaso e cardinale Maurizio e insieme assistettero al combattimento concluso dalla trionfale liberazione di Rodi dall’assedio degli infedeli3. La festa al Moncenisio, con la quale – scrive il cronista – Carlo Emanuele I volle mostrare alla nuora come “nell’horridezza di [quei] monti si trovasse tutto quello, che per l’Europa è di più curioso, & memorabile”, fu in verità poca cosa rispetto alle magnificenze che il duca aveva organizzato nel 1585 per le proprie nozze con Caterina d’Austria. L’Infanta di Spagna prima fu accolta sul mare di Nizza da tre giganteschi mostri marini pieni di occhi di specchio d’argento e di vari colori, con ali e un grande scoglio sul dorso adorno di alghe e coralli, forse ispirati agli apparati medicei del 1579 (fig. 1)4, i quali, alla sua vista, piegarono il capo in segno di omaggio. Quindi procedette via terra in un susseguirsi di ingressi trionfali nelle diverse città dello stato fino a Moncalieri; infine percorse l’ultimo tragitto sul Po giungendo al Castello del Valentino dove sostò in attesa dell’entrata nella capitale. Gli apparati sul fiume, come già quelli di

Nizza, furono affidati alla squisita fantasia di Alessandro Ardente che previde isole galleggianti con colli, boschi, giardini, grotte e fontane, condotte da rematori camuffati da rocce. Saliti su una di queste il duca condusse l’Infanta in una spelonca circondata da caverne dalle quali sgorgavano limpide fonti dove, dalla rottura di sassi, comparvero Alfeo e poi Aretusa che intonarono versi accompagnati da musiche soavi, e “incontinente si vide sparire una grotta […] e apparve in suo luogo una ricchissima e lauta mensa, colma di confetti et eletti vini”. Non lontano da questa prima tavola riservata alle dame, ne apparve una seconda per gli sposi ornata di sculture e giochi d’acqua per rinfrescarsi le mani, mentre Venere e Amore omaggiarono i duchi con canti e musiche5. Suggestiva ed elaborata espressione del gusto tardo manierista, i festeggiamenti del 1585 costituirono per il giovane e ambizioso duca un vero banco di prova, un accorto strumento politico e celebrativo funzionale a tratteggiarne l’immagine di grande principe europeo; furono inoltre la prima occasione di coinvolgimento del Po in apparati spettacolari in una formula che, tuttavia, non avrà diretta continuità. Negli anni successivi furono preferite acque più quiete nei parchi di Millefon101


2. Giovanni Antonio Belmond, Fuochi di gioia sul Po, 1753-1761 (1750), acquaforte a più morsure con rifinitura a bulino. Torino, Archivio Storico di Torino, inv. B 32

ti e Vibocone o le onde di tela meccanicamente mosse. Mutate le condizioni e le necessità celebrative, il fiume rimase a lungo lontano dai festeggiamenti, a esclusione della sua figura allegorica presente al pari delle immancabili allusioni all’elemento acqua nelle sue molteplici vesti simboliche e mitologiche. Vascelli, navi della felicità, veloci imbarcazioni su ruote, come la nave raptile (ne La Primavera trionfante dell’Inverno, 1657, c. 39), le fantasie di Filippo d’Agliè per Cristina di Francia, illustrate nelle tavole del Borgonio, non avevano limiti, ma durante la lunga reggenza della Madama Reale non possiamo annoverare nessuna festa sull’acqua. Bisogna aspettare Maria Giovanna Battista e la seconda reggenza perché il fiume ritorni nuovamente in primo piano e non per un matrimonio, ma per il già citato compleanno del principe Vittorio Amedeo nel 1678. Fu quella una circostanza di particolare importanza; la duchessa, rimasta vedova nel 1675, volle festeggiare il proprio natale e quello del figlio con grandiosi spettacoli di fuochi d’artificio in piazza Castello e al Valentino con il palese intento di affidare a questi un chiaro messaggio politico. Nel primo la duchessa/ Virtù sconfigge i mostri che ne insidiano il tempio, dunque il suo governo, così da assicurare una giu102

sta e felice reggenza; nel secondo, in veste di madre e “Reina, anzi d’una nuova Pallade”, protettrice della filosofia e promotrice di Accademie Letterarie e Cavalleresche, incita il figlio a “perfezionar coll’educazione le Doti Auguste” di futuro sovrano6. Il confronto con l’Educazione d’Achille del 1650 è stringente e rende manifesto come Maria Giovanna Battista intendesse il proprio progetto educativo: al balletto con l’entrata dei “Maestri delle Arti”, esercizi ginnico-guerreschi e “Giuochi Puerili” risponde facendo costruire sulle rive del fiume la classicheggiante macchina dei Portici d’Atene, con “balaustrate” sormontate da sculture e arcate con “altre Statue esprimenti li più famosi Letterati della Grecia”, a significare come Torino, grazie a lei, ne fosse l’erede e come “Sua Altezza Reale” potesse con comodità “esercitarsi ne’ Studi, e […] mettersi al possesso di quelle Scienze, e di quelle Virtù, che per sì lunga serie d’anni hanno sempre regnato come hereditarie sul Trono de’ Suoi Augustissimi Progenitori”. Giunta la sera, dunque, davanti al palco delle Altezze Reali apparve, “scherzando su l’onde”, la Nave trionfante di Minerva, “tutta risplendente di lucidissime faci, ornata di lamiglie d’oro e d’argento”, sulla quale sedeva la dea in abito guerriero con l’elmo, la


3. Virginia ed Emilia Lombardi, Ricordi delle Feste Torinesi nell’Aprile 1842. Fuochi artificiali del Real Valentino eseguiti dagli artificieri romani. Torino, Archivio Storico della Città di Torino, Collezione Simeom, D 2085, tav. 14

4. Virginia ed Emilia Lombardi, Ricordi delle Feste Torinesi nell’Aprile 1842. Fuochi artificiali del Real Valentino eseguiti dagli artificieri Nazionali. Torino, Archivio Storico della Città di Torino, Collezione Simeom, D 2085, tav. 15

lancia e lo scudo di Gorgone, e i musici di Madama Reale che impersonavano la filosofia, la retorica, l’astrologia, la geometria, l’aritmetica, la geografia, l’architettura, la poesia, la storia, la musica, la pittura e altre arti. Quindi, mentre delfini carichi di fuochi lavorati e girandole “artificiosamente adattate sopra galleggianti ordegni, che le guidavano, scoppiavano con giocondo spettacolo in mezzo all’acque”, si avvicinò al palco un secondo vascello con Nettuno condotto da due grandi cavalli marini. Reso omaggio ai sovrani, questo si diresse nuovamente in mezzo al fiume quando il principe, avuto il permesso della madre, accese una miccia che portò la fiamma fino alla nave scatenando un tripudio “di globi di fuoco, che scoppiando in diverse maniere cadevano da tutte le parti sul suolo, e pareva che dall’acque sorgendo gli incendij, precipitassero dalle Sfere prodigiosi diluvij di fuoco”. Contemporaneamente dalla riva opposta al Valentino altri furono lanciati in aria “li quali tant’alto salivano, che pareva volassero à guerreggiar le Stelle”; in ultimo, volando dai due padiglioni del palazzo fino ai Portici di Atene, Castore e Polluce diedero il via allo spettacolo finale che illuminò tutto il cielo di una densa grandine di fiamme, lampi e strepiti tanto che pareva “risplendesse un Mezzo giorno di fuoco in quelle Rive”. A partire, dunque, dal 1678 i fuochi d’artificio trovarono sulle rive del Po il loro palcoscenico ideale. Fu così per i matrimoni di Vittorio Amedeo III con Antonia Ferdinanda di Spagna nel 1750 e di Carlo Emanuele IV con Maria Clotilde di Francia nel

1775. In entrambi i casi la formula fu pressoché la medesima e i modelli quelli ampiamente diffusi in Italia come in Europa. Per quanto riguarda il 1750 (fig. 2), come evidenziato da Paola Astrua, lo spettacolo di fuochi sul fiume, con un apparato di barche sull’acqua e il Tempio d’Imeneo di fronte al Valentino, si ispirò, sul piano formale, alle feste svoltesi a Dresda sull’Elba nel 1719 per le nozze del principe elettore, che avevano visto la partecipazione di Alessandro Mauro, scenografo attivo anche al Teatro Regio di Torino tra il 1742-1743 e poi nuovamente ingaggiato dalla Società dei Cavalieri nell’aprile 17497. Altra sicura fonte di ispirazione per Benedetto Alfieri, ideatore e regista delle cerimonie, furono certamente i fuochi d’artificio sulla riva della Senna per la nascita del Delfino nel 1730. La realizzazione delle macchine fu affidata a diversi artisti: Giuseppe Salazza costruì l’ossatura dei vascelli, Gaetano Perego si occupò della loro decorazione pittorica di “colore turchino, rosso e giallo colli ombreggiamenti bisognevoli”; Giovanni Battista Alberoni fu incaricato di dipingere la struttura del tempio d’Imeneo con i suoi “corniciamenti, bugne, statue, armi, et altri ornati”, nonché lo sfondo di montagne e alberi come previsto dall’Alfieri, mentre Giovan Battista Leone provvide ai “lumini di tola”8. Le feste sul Po si ripeterono pressoché uguali nel 1775 per le nozze di Carlo Emanuele IV con Maria Clotilde di Francia; anche in quella circostanza furono realizzate macchine di fuoco sull’acqua affidate a Giuseppe Salazza su disegno di Carlo Ali103


regata, cominciò lo spettacolo sull’acqua con grandi macchine a forma di castelli merlati che ingaggiarono una battaglia di fuochi tra delfini e cavalli marini (figg. 3-5). Gli apparati, ideati dal Palagi, furono descritti dal Cibrario12; alla sua prosa e ai suggestivi Ricordi grafici di Virginia ed Emilia Lombardi13 è affidata la memoria di questa ultima e grande festa sull’acqua durante la quale il Bucintoro, ornato di sculture e rilucente d’oro, ancora una volta fu, insieme al Po, ammirato protagonista: La sera dell’8 di maggio s’accesero al real castello del Valentino i fuochi di gioia da tanto tempo aspettati, e per l’infelicità delle condizioni atmosferiche differiti. Più magnifico festeggiamento non vide il gran padre Eridano, né quando, imperando la bella Cristina, quel castello risuonava di scenici ludi e di giulive armeggerie, né quando uno e due secoli prima la Corte degli Estensi brillava d’ar-

5. Programma della festa al Real Valentino nella sera del 8 maggio 1842 in occorrenza del faustissimo matrimonio di S.A.R. il Duca di Savoia con S.A.I. e R. l’Arciduchessa d’Austria Maria Adelaide. Torino, Archivio Storico della Città di Torino, Carte sciolte, n. 1148

mi e d’amori. Appena la notte avea disteso il bruno suo velo, la collina mandò fuori su cento punti diversi, tra le fronde e i fiori, un’infinità di lumi e di fiamme […]. Sul fiume vedeansi molte barche splendidamente inghirlandate di globi a va-

berti e ideazione complessiva di Benedetto Alfieri9. Negli anni successivi i mutamenti politici e culturali modificarono e fissarono l’etichetta in formule sempre più rigide e definite10, ma dopo la dominazione francese e la restaurazione il collaudato modello settecentesco si ripropose per il matrimonio di Vittorio Emanuele II nel 1842. Le spettacolari nozze del 1842 in verità si avvalsero di un articolato repertorio di modelli, da quello di ispirazione cavalleresca per il grandioso carosello di gusto trobadorico in piazza San Carlo, alle feste popolari, dagli ingressi trionfali con corteo in piazza Vittorio ai fuochi sul Po la sera dell’8 maggio. Se il torneo aveva impegnato Luigi Cibrario, Pelagio Palagi e Francesco Gonin in una raffinata ricostruzione storica, gli spettacoli sul fiume guardarono espressamente alle collaudate formule del 1750 e del 1775 più volte richiamati nei documenti11. Il Castello del Valentino accolse i festeggiamenti attirando una grande quantità di pubblico la cui presenza fu regolata con una preventiva vendita di biglietti per posti a sedere e in piedi nei diversi settori. Dopo la 104

rio colore, e moversi maestosamente per l’onda quattro grandi ed alte fortezze natanti, di forma quadrata, con piazza d’armi, con torrione e ballatoio, guernite ad ogni piano di difensori; e soprattutto ammiravasi il real Bucintoro, ricco lavoro veneziano del secolo scorso, ornato di sculture, rilucente d’oro, che per aver assistito a molte feste, nissuna ha mai potuto vederne più degna di quella che descriviamo. Poco dopo le otto giunsero nella loggia reale le LL.MM. colle Reali Famiglie di Torino e di Milano […]. Miracol novo operarono in quella sera gli Artiglieri Piemontesi, poiché ci mostrarono uniti in fratellevole amistà due elementi che sono in perpetua guerra fra loro. Dapprima fiamme di vario colore galleggiaron sull’acqua; e il Po sorrise all’irradiarsi di quelle luci tranquille, e riverberò le tinte del zaffiro, del topazio e del rubino. Poi si videro fendere l’onda delfini e cavalli marini, né acqua gittavano da’ fiatatoi del capo e dalle sbuffanti narici, ma turbini di faville. S’alzavano poscia dal fiume trombe di fuoco, e roteavano lungo spazio di qua e di là; indi succedeano fuochi di più maniere e di più colori, che andavano saltellando e crepitando pel fiume, tuffandosi nel-


l’onde e rimbalzando da quelle, come stuoli di melagastri

strema riva destra del fiume apparve allora leggiadra-

nei mari del Sud. […].

mente illuminato; e lo erano già da gran tempo splendi-

Quella festa, degna d’un grande Monarca, e tanto onore-

damente il castello del Valentino, i viali che metton capo

vole pe’ nostri Artiglieri, finì verso mezzanotte. Uno stu-

a Porta Nuova ed a Porta di Po, il tempio della Gran Ma-

pendo colonnato, disegno dell’illustre Sada, posto all’e-

dre di Dio, e le vie principali della città.

Si veda il recente catalogo Royal River. Power, Pageantry and the Thames, a cura di S. Doran, guest curator D. Starkey, Royal Museums Greenwich, Scala, Northburgh House 2012, pp.52-57 2 Sulle piscatorie si veda lo studio di M. Emanuele, Commedie in musica, pastorali e piscatorie alla corte dei Savoia 1600-1630, Libreria Musicale Italiana Editrice, Lucca 2000. 3 Relatione della Festa fatta fare da S.A. Serenissima A Madama Nel passare che fece del Moncenisio alli 9 di Novembre 1619, appresso Luigi Pizzamiglio Stampator Ducale, In Turino 1619. 4 Gli apparati furono affidati ad Alessandro Ardente il quale, come giustamente osservato da Clelia Arnaldi di Balme, potrebbe aver attinto a modelli fiorentini, come il carro del delfino realizzato da Accursio Baldi e Sebastiano Marsili per il matrimonio di Francesco de’ Medici con Bianca Cappello nel 1579, vedi C. Arnaldi di Balme, Alessandro Ardente: un artista poliedrico per le nozze di Catalina, in L’Infanta. Caterina d’Austria, duchessa di Savoia (1567-1597), Carrocci, Roma 2012 (in corso di stampa). 5 F. Varallo, Da Nizza a Torino. I festeggiamenti per il matrimonio di Carlo Emanuele I e Caterina d’Austria, Studi Piemontesi, Torino 1992; oltre agli apparati fiorentini del 1579, Alessandro Ardente, nota ancora Clelia Arnaldi di Balme, si ispirò sicuramente alle “magnificence di Fontainebleau e di Bayonne”. 6 M. Viale Ferrero, Giovanni Abbiati, “I Portici di Atene, macchina di fuochi di gioia progettata da Amedeo di Castellamonte”, 1678, scheda n. 99 in Diana trionfatrice. Arte di corte nel Piemonte del Seicento, a cura di M. di Macco, G. Romano, catalogo della mostra (Torino, Parco del Valentino, 27 maggio - 24 settembre 1989), Allemandi, Torino 1989, pp. 92-93. 7 P. Astrua, Le scelte programmatiche di Vittorio Amedeo duca di Savoia e re di Sardegna, in S. Pinto (a cura di), Arte di corte a Torino da Carlo Emanuele III a Carlo Felice, Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1987, pp. 65-100: 66-69; si veda inoltre U. Bertagna, Gli apparati celebrativi, in I rami incisi dell’Archivio di Corte: sovrani, battaglie, architetture, topografia, a cura di B. Bertini Casadio e I. Massabò Ricci, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, novembre 1981 - gennaio 1982), Archivio di Stato, Torino 1981, pp. 227-233; sulle scenografie si veda M. Viale Ferrero, La scenografia dalle origini al 1936, in Storia del Teatro Regio di Torino, diretta da A. Basso, 5 voll., Cassa di Risparmio di Torino, Torino 1976-1988, III, 1980, pp. 170-176; mi permetto inoltre di rinviare al mio contributo F. Varallo, Le relazioni delle feste nuziali alla corte sabauda da Carlo Ema1

nuele III a Vittorio Amedeo III: mutamenti di un modello narrativo, in Annibale, Torino e Annibale in Torino, a cura di A. Rizzuti, atti della giornata di studi (Torino, 22 febbraio 2007), Leo S. Olschki, Firenze 2009, pp. 151-177. 8 AST, Miscellanea Quirinale, Materie Militari, mazzo 55, registro 11, 1750 Minutario Contratti Fabbriche. Una memoria delle spese fatte in quella occasione, conservata nell’Archivio di Stato e in copia tra le carte della Collezione Simeom, fornisce una descrizione sintetica ma efficace degli apparati, AST, Materie militari, Fabbriche e fortificazioni, mazzo 3°, n. 24 1748 in 1751. Memoria delle spese fattesi negli anni 1748-1751 per i Palazzi Reali di Torino e Venaria in occasione del matrimonio di Vittorio Amedeo III, ms, s.d.; altra copia è conservata in ASCT, Collezione Simeom 1750 serie C 2465. 9 AST, Corte, Matrimoni Real Casa, mazzo 49, anno 1775. 10 F. Varallo, Cerimonie ed etichetta per le feste matrimoniali a Torino nella seconda metà del Settecento, in La festa teatrale nel Settecento. Dalla corte di Vienna alle corti d’Italia, a cura di A. Colturato e A. Merlotti, atti del convegno internazionale (Reggia di Venaria, 13-14 novembre 2009), Libreria Musicale Italiana Editrice, Lucca 2011, pp. 189217. 11 Vale la pena di ricordare che anche la città di Genova celebrò i reali sponsali con cerimonie, cortei e spettacoli tra cui, il 26 giugno, la dispendiosa festa al porto (la somma ammontò a £ 160.649) che comprese la realizzazione di un’isola natante con ninfeo per il rinfresco, una navicella per il trasporto degli sposi, l’illuminazione del porto, delle mura e della lanterna, la regata e lo spettacolo di fuochi d’artificio, AST, Corte, Miscellanea Quirinale, secondo versamento, mazzo 15, fasc. 7, Spese fatte dalla Città di Genova in occasione del Matrimonio di S.A.R. il Duca Vittorio Emanuele II di Savoia. Estratto delle deliberazioni prese dall’Ill.mo Consiglio Generale della Città di Genova in sua adunanza dei 23 Dicembre 1842. 12 L. Cibrario, Le feste torinesi del 1842, Giacomo Caula, Cuneo 1842, pp. 98-102. 13 M. Viale Ferrero, Le nozze del 1842, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Regno di Sardegna, a cura di E. Castelnuovo e M. Rosci, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Museo Civico d’Arte Antica - Palazzo Madama, Società Promotrice delle Belle arti, maggio-luglio 1980), 3 voll., Torino 1980, vol. II, pp. 873-881; Le nozze di Vittorio Emanuele II, in Pubbliche allegrezze. Feste e potere a Torino dal Cinquecento all’Ottocento, a cura di L. Manzo, Fulvio Peirone, catalogo della mostra (Torino, Archivio Storico, 22 giugno - 31 ottobre 2007), Arti grafiche DIAL, Mondovì 2007, pp. 80-111.

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“Chi segue gli altri non gli va mai innanzi”. Una regata sul Po per la corte di Carlo Emanuele I e le allegorie del mito per un vascello reale di età juvarriana Gianfranco Gritella Presso l’Archivio Storico della Città di Torino, nel vasto fondo Simeom, è conservato un disegno, anonimo, secentesco, raffigurante una veduta grandangolare di Torino presa dalla collina, in prossimità della riva del Po1 (fig. 1). Il disegno, poco noto, è stato sino a oggi genericamente interpretato come l’ingresso in città di un corteo ducale dal ponte sul Po. In realtà si tratta di un foglio di alta qualità grafica, che raffigura non un corteo, bensì una regata di barche che discende il fiume, mentre i duchi con la corte e l’aristocrazia locale assistono alla competizione dalle sponde del fiume e sul ponte medesimo, ingombro di carrozze, cavalieri e una gran folla di popolani. Il disegno, già noto al Cavallari Murat che lo pubblica con una breve scheda2, va collocato intorno al 1619 e svela, nella precisa raffigurazione topografica del territorio visto a volo d’uccello, particolari essenziali per la comprensione della sua genesi e del soggetto che l’opera raffigura. L’impianto grafico rivela una profonda padronanza della tecnica utilizzata dall’autore. Il controllo della prospettiva e la capacità di descrivere i particolari e i dettagli più minuti nelle scene in primo piano, si amalgamano con una sintesi che esprime un’abilità non comune nella raffigurazione all’acquerello dei piani di fondo e delle lontananze estreme. Su un primo tracciato di base eseguito a grafite, i singoli dettagli sono ripresi con inchiostro seppia che definisce i contorni e le linee essenziali delle figure e del paesaggio. Un’uniforme stesura di acquerello grigio scuro o bruno intenso, forse bistro, mette in evidenza le

ombre e i volumi del paesaggio, e precisa la topografia della città. La prolungata esposizione del foglio alla luce solare ha quasi del tutto cancellato l’acquerellatura policroma originale di cui oggi si riscontrano deboli tracce, ma che dimostra che in antico sussisteva una leggera coloritura prevalentemente assegnata all’architettura e al paesaggio, policromia giocata sui toni del rosa, giallo e azzurro, con rialzi e lumeggiatture bianche. Mediante una scansione digitale a elevata risoluzione dell’originale e applicando successive procedure di contrasto e di saturazione dei toni di colore e di bianco/nero, e con l’aiuto della luce ultravioletta, il disegno rivela altri dettagli, non percepibili a occhio nudo, attinenti la costruzione dell’impianto grafico. Sulla superficie del foglio compare infatti un fitto reticolo di linee ortogonali che definiscono la “quadrettatura” necessaria per consentire di riprodurre a grande scala il soggetto. Si distinguono almeno sedici linee orizzontali e cinquanta linee verticali tracciate con passo differente. Il reticolo s’infittisce in corrispondenza della scena con i cavalieri, le carrozze e il ponte con il Borgo di Po e si dirada iniziando all’incirca dalla metà del foglio procedendo verso sinistra. Su questo reticolo base s’imposta un secondo sistema di riferimento geometrico, costituito principalmente da tre linee orizzontali equidistanti e rispettivamente corrispondenti all’asse che identifica all’incirca la metà del foglio e due linee parallele superiori. Queste corrispondono alla linea di orizzonte, oltre la quale si eleva la catena

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1. Anonimo (Antonio Tempesta?), Regata di voga sul Po alla presenza della corte di Carlo Emanuele I in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Vittorio Amedeo I e Cristina di Francia, circa 1620, inchiostro, acquerello e matita su carta, 400 × 1070 mm. Torino, Archivio Storico della Città di Torino, Collezione Simeom, D141

di montagne che occupa la parte centrale del disegno con l’imbocco della Valle di Susa, e la sottostante linea di terra, sulla quale è adagiata la città di Torino con i bastioni, il castello, oggi Palazzo Madama, e la lunga galleria ducale che si protende verso il complesso del palazzo vescovile. L’asse di mezzeria verticale è invece contrassegnato dalla torre civica che emerge netta a segnalare il baricentro dell’area urbana; si distinguono i campanili del duomo con la cupola e quello della basilica di Sant’Andrea (Consolata). Il punto di osservazione prescelto dall’artista – che corrisponde all’incirca alla base della collina del monte dei Cappuccini – e l’ampiezza del cono visivo – che è prossimo a 120° – hanno determinato un’aberrazione prospettica molto accentuata nei piani prossimi all’orizzonte. Questa distorsione è particolarmente accentuata agli estremi del disegno, dove la campagna, con le radure boscose, s’incurva progressivamente verso il basso sino a dare origine a profondi valloni che creano un’apparente sfericità della superficie; una distorsione così singolare che può essere paragonata a un’immagine fotografica ripresa con l’impiego di moderno obiettivo fisheye. Il controllo di questa particolare prospettiva distorta è garantito da una sequenza di linee radiali, invisibili a occhio nudo, e divergenti da due punti posti molto all’esterno dei margini la108

terali del foglio. Le linee s’incrociano in corrispondenza dell’asse verticale su cui si trova il fuoco prospettico che controlla il disegno della città fortificata e che corrisponde alla citata torre civica. L’elaborata costruzione dimostra che l’autore conosceva perfettamente le tecniche della prospettiva accidentale e poteva adattarle in funzione dello strumento. Gli espedienti costruttivi della geometria latente che sta alla base del disegno, come il punto di vista rialzato rispetto all’occhio e la vista grandangolare dilatata al di là del naturale quadro visivo compreso nel cono dell’occhio umano (all’incirca 35°), conferiscono particolare effetto alla scena (fig. 2). Il risultato è ottenuto con un particolare espediente: mantenere fermo il punto di vista e disegnare due o più prospettive ruotando il quadro prospettico gradualmente. In questo caso si ottiene un unico punto di vista ma diversi punti principali, uno per ciascuna prospettiva di base. Il disegno è il risultato della composizione di diverse prospettive e si basa sostanzialmente sul medesimo principio delle fotocamere panoramiche rotanti. Un analogo artificio era adottato sia da Canaletto sia da Bellotto, ma scartando o “raddrizzando” poi dalla scena finale le porzioni periferiche più scorciate, qui invece conservate. La particolarità delle distorsioni curvilinee del paesaggio visibili nel foglio di Torino, inducono a ipotizzare che l’autore forse disponeva di un


2. Il reticolo delle geometrie latenti utilizzate dall’autore per la costruzione dell’impianto prospettico e la quadrettatura di riporto per l’ingrandimento del disegno identificati sul foglio di fig 1.

meccanismo dotato di una lente a forte curvatura, e non è escluso che tale obiettivo fosse stato applicato a uno strumento ottico, probabilmente una camera oscura portatile, che l’artista impiegò per tracciare le linee principali della costruzione prospettica su un “primo foglio” in piccolo, per poi riportarle sul “secondo disegno” definitivo – quello di cui trattiamo – attraverso la quadrettatura oggi riscoperta, utilizzabile anche per la successiva e ultima trasposizione del disegno in opera pittorica a grande scala. Veniamo ora alle origini di questo disegno. Il foglio può essere collocato intorno alla metà del 1620, ciò in relazione all’argomento descritto nella scena e a un particolare architettonico essenziale. Il soggetto rappresenta una regata di voga libera “alla veneta”, in favore della corrente, a squadre di barche, tipo batane, ossia particolari imbarcazioni fluviali a fondo piatto il cui profilo poteva variare a seconda delle regioni, ma che sostanzialmente presentava uno scafo con profilo a mezzaluna e con voga in piedi a due o quattro remi e con possibilità di alzare una vela al terzo. A riguardo il disegno è molto chiaro. Nella metà di destra del foglio una prima squadra di sei barche, a due vogatori, è in procinto di raggiungere il traguardo posto in prossimità del ponte quattrocentesco che scavalca il Po e sul quale vi è la corte ducale che assiste alla regata. In prossimità del margine sinistro, in adiacenza dell’albero che fa da quinta estrema che chiude la ve-

duta, una seconda squadra di cinque imbarcazioni, questa volta con quattro vogatori ciascuna, si appresta alla partenza in prossimità di un battello d’appoggio dotato di tiemo, forse una peota o una burchiella, utilizzando termini della tradizione lagunare veneta, nella quale probabilmente trovava posto l’arbitro di partenza che dava il segnale, a suono, di inizio della regata. Le barche della prima squadra sono dotate di due bandiere a fiamma poste nelle sezioni di poppa e di prora. Ciascun vogatore è dotato di una fascia che cinge la testa e che termina con due lunghi nastri che evidentemente identificano i colori delle squadre in competizione. In prossimità dell’approdo alla riva sinistra del fiume, una seconda imbarcazione dotata anch’essa di tiemo appartiene al giudice o arbitro di arrivo e definisce il caposaldo dell’immaginaria linea di traguardo che taglia il fiume. In adiacenza del ponte altre imbarcazioni si stanno predisponendo per aggiungersi alla competizione mentre la folla si raduna incitando i concorrenti. I protagonisti della veduta sono rappresentati e magistralmente raffigurati in primo piano; essi danno vita a un corteo che si snoda lungo la sponda destra del Po e senza soluzione di continuità prosegue sul ponte. In primo piano un gruppo di personaggi a cavallo assiste alla regata e un cavaliere indica, ad alcuni personaggi raffigurati di spalle, la competizione che si svolge dinanzi a loro in prossimità del traguardo. 109


3. Particolare del disegno di fig. 1 con dettaglio della sezione centrale in prossimità del ponte sul Po

La sezione centrale della scena (fig. 3) è occupata da tre carrozze con all’interno numerosi personaggi tutti rivolti, come la folla che li circonda, verso il fiume, per assistere alle fasi finali della voga. Le vetture sono descritte con minuziosa precisione; si notano i dettagli costruttivi dei timoni per il traino vincolati ai mozzi delle ruote anteriori, le “sacche” sospese agli assali tramite cinghie e catene, i dispositivi per l’apertura parziale dei tettucci, onde agevolare l’ingresso dei passeggeri, addirittura i dispositivi per il freno delle ruote anteriori. I veicoli sono trainati da coppie di cavalli con guida montata alla sinistra, su cui trovano posto cocchieri dotati di una particolare uniforme e armati di frusta. La datazione al 1620, e precisamente verso la metà dell’anno, deriva dall’osservazione di un particolare architettonico, raffigurato sullo sfondo a sinistra della città. Nella campagna semideserta si eleva infatti la massa poderosa di una porta urbica. Si tratta della Porta Nuova, eretta tra il 1619 e il 1620 su progetto di Carlo di Castellamonte, e frettolosamente completata con l’aggiunta di elaborate strutture posticce in legno 110

e tela, poste in opera in occasione del trionfale ingresso in città del corteo ducale con Carlo Emanuele I e Cristina di Francia, novella sposa del principe ereditario Vittorio Amedeo. Questo dettaglio architettonico rivela la situazione urbanistica della città alla vigilia del primo ampliamento verso mezzogiorno e sostanzialmente riprende l’impianto topografico raffigurato nelle piante assonometriche di Giovanni Carracha (1572) e di Girolamo Righettino (1583). Più precisamente l’immagine della città qui raffigurata va confrontata con una veduta a forte scorcio prospettico che rappresenta lo stesso lato orientale di Torino, inserita in calce a una pianta della città cinquecentesca e attribuita a Francesco Horologi, oggi all’Archivio di Stato di Torino3. Elemento di cerniera e essenziale confronto con il disegno anonimo qui descritto, è una nota incisione di Giovenale Boetto, conosciuta attraverso un unico esemplare conservato nella Collezione Simeom dell’Archivio Storico della Città di Torino, e raffigurante i lavori per la fortificazione del primo ampliamento sotto la direzione di Carlo di Castellamonte, qui raffigurato mentre con un foglio in mano è a colloquio con Carlo Ema-


nuele I che osserva i lavori dalla collina oltre Po4. Nel disegno anonimo con la regata il paesaggio è ricco di dettagli. In lontananza si distingue il profilo sfocato della cittadella con le garitte che segnalano i vertici dei bastioni e l’ingresso al mastio dotato di ponte levatoio. In vicinanza della romana Porta Marmorea, aperta al centro della cortina sud, qui ancora presente ma privata del ponte antistante smantellato in occasione dell’apprestamento delle difese della città contro i francesi, si scorge chiaramente il nuovo ponte ligneo che scavalcando il fossato introduceva nella città murata sull’asse della Contrada Nuova, in prossimità del bastione angolare cinquecentesco. Nell’antistante pianura un gruppo di edifici identifica sommariamente due isolati che saranno poi inglobati nella nuova espansione. Non vi è ancora traccia delle nuove fortificazioni e indistinte linee acquerellate paiono suggerire un semplice contorno dell’area destinata a essere inglobata nella imminente espansione. Solo la nuova porta monumentale emerge isolata, qui enfaticamente raffigurata di dimensioni alquanto maggiori del reale, a dimostrazione che l’esigenza rappresentativa del nuovo potere ducale anticipava, pur in tempi di costanti confronti bellici, le esigenze della difesa del territorio. La “spina di Borgo Po”, condensata in un agglomerato di edifici rurali di impianto medievale e di alcune emergenze architettoniche religiose, identifica il tracciato della futura “Contrada di Po” che di lì a poco sarà inglobata nella seconda espansione orientale della Città capitale. La cura con cui è raffigurata la scena si palesa nell’illustrazione dei personaggi che animano il ponte. Su tre carrocci ricoperti da baldacchini e drappi decorati, aperti su tutti i lati, siede la corte ducale. Nel primo veicolo, anticipato dalla guardia a piedi armata di picche, e trainato da due coppie di cavalli, si distinguono il duca con la consorte Margherita di Valois e Cristina con il giovane Vittorio Amedeo. Le fisionomie del duca e della futura reggente sono identificabili con sorprendente precisione, sebbene fermati

sul foglio con piccoli tocchi di colore che precisano il taglio delle vesti, dei copricapi e persino dei dettagli delle acconciature5. Nella seconda vettura trovano posto sei personaggi femminili, quasi certamente le Infante sorelle dell’erede al trono e le dame della corte. Nel terzo veicolo altri membri del seguito sostano tra la folla che si accalca sul ponte, in attesa di superare la quattrocentesca torre del pedaggio con il ponte levatoio abbassato, ben raffigurata ancora oltre un secolo dopo nella celebre tela del Bellotto ora alla Galleria Sabauda. L’autore, descrivendo con meticolosa precisione i singoli episodi che animano la scena, non tralascia aneddoti di vita quotidiana. Lungo il fiume, in prossimità di un rio affluente, pascola un gregge di pecore, mentre poco distante un gruppo di lavandaie stende sui prati al sole i panni estratti dal fiume. Verso la città, sfocate macchie di acquerello individuano i contadini intenti al lavoro dei campi. Oltre il ponte sul fiume, un mulino natante ormeggiato alla riva sinistra espone chiaramente i tamburi delle sue ruote. In primo piano, nell’angolo in basso a destra, un nobile cavaliere raggiunge la riva in rapido galoppo mentre il cavallo s’impenna al latrare di un cane. Lo precedono due figure che conversano mentre lentamente incedono anticipate da un fanciullo. Ancora un dettaglio architettonico significativo: sulla sponda sinistra del fiume, al centro della scena e in prossimità dell’approdo delle imbarcazioni di gara, si scorge un’architettura imponente. Costituito da un’aulica residenza a pianta quadrata, questo edificio fortificato si eleva su un poderoso basamento circoscritto da un alto muro di cinta che racchiude un giardino terrazzato. I vertici del poligono sono contrassegnati da quattro torrette concluse da un tetto a cuspide con alti spioventi. Il fabbricato è la trasformazione cinquecentesca della preesistente rocca tardomedioevale che controllava il transito sul ponte, e che comunicava visivamente con la duecentesca “torre della bastida” uno dei cardini del complesso e ampio sistema difensivo a scala territoriale, poi in111


globata nelle strutture della vitozziana chiesa di Santa Maria dei Cappuccini. La residenza principale, a due piani, riprende il tema compositivo dell’impianto architettonico maggiore esterno. La sezione centrale del prospetto verso il fiume è contrassegnata da una loggia tripartita su due livelli, compressa da modesti avancorpi angolari nei quali si aprono finestre arcuate. Il singolare impianto architettonico del complesso indurrebbe a ritenere a prima vista che si tratti di un’architettura di fantasia, ipotesi però smentita a priori dalla precisione didascalica dei dettagli architettonici del disegno. Che il complesso edilizio si fosse ancora in parte conservato sino alla metà del XVIII secolo ne dà ancora conferma la tela del Bellotto con la veduta dell’antico ponte sul Po. Nel dipinto bene si distinguono infatti le strutture superstiti del preesistente edificio con il lungo muro di cinta innalzato sulla riva del fiume e le due superstiti torri angolari anteriori caratterizzate dai loggiati, mentre è del tutto scomparsa la residenza principale, forse in parte inglobata dagli edifici rurali e dalle abitazioni che si sono aggregate sul luogo6. Veniamo ora alla possibilità di assegnare un’attribuzione all’autore del disegno. Innanzitutto dobbiamo evidenziare che la già ricordata qualità dell’opera e le caratteristiche della quadrettatura depongono a favore di un artista avvezzo a trattare temi figurativi complessi, ove architettura, topografia e figura contribuiscono all’orchestrazione di scene composite, che registrano innumerevoli dettagli, e che sono vergate con didascalica ricerca del particolare senza per altro trascurare un controllo rigoroso dell’impaginato grafico e chiaroscurale di tutto l’insieme. La qualità grafica dei personaggi in primo piano, gli atteggiamenti e le posture di alcuni di essi, lo scorcio di natura accuratamente disegnato in cui si cala il paesaggio con le montagne e la città, sono tracce di una cultura figurativa e di un modus operandi che consentono riscontri con alcuni artisti coinvolti nei vasti cantieri decorativi attivati negli anni del ducato di Carlo Emanuele I e in particolare per gli apparati pittorici e la riqualificazione delle residenze ducali predisposti per le 112

nozze del 1608 e soprattutto per quelle del 1620. Sono quelli gli anni in cui è maggiormente documentato il consolidarsi di una nuova tradizione figurativa che vede attivi artisti di provenienza centro italiana e pittori di origine nord europea, alcuni dei quali radicalmente consolidati nella corte di Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I. Se per gli apparati effimeri legati ai pubblici festeggiamenti e alle feste che, prevalentemente con Carlo Emanuele I e Cristina di Francia, segnano un incremento deciso di artisti italiani rispetto alla predominanza di figure di formazione “fiamminga”, è d’altronde vero che sulla base della documentazione oggi conosciuta saranno ancora le opere di Giovanni Caracha e di Antonio Tempesta che qualificano la produzione pittorica che descrive i fasti legati alle nozze e ai festeggiamenti ducali e alla rappresentazione delle grandi macchine sceniche allestite in piazza Castello, con i tornei e le giostre cavalleresche che vedevano protagonisti proprio i principi di Savoia. Il “clima” del paesaggio disegnato nel foglio di Torino è senza dubbio quello degli anni ultimi del XVII secolo di ambiente romano con le complesse relazioni che legavano le botteghe e le collaborazioni di artisti provenienti dalle Fiandre e che si stabilirono a Roma operando, con relazioni e intrecci sottili, con i pittori locali. Sono gli anni dei cantieri delle stanze di Gregorio XIII in Vaticano con la creazione dei cicli celebri della torre dei Venti e della Galleria delle Carte geografiche e delle anticamere della Biblioteca Sistina. In quel periodo e in quei cantieri in cui si celebrano i fasti romani con la nuova tendenza della veduta e del paesaggio elevato a dignità d’arte, la cultura tardomanierista fiorentina, le esperienze del nord e la limpidezza della tradizione romana si amalgamano e fanno da proemio agli anni fecondi di Jacopo Zucchi e di Paul Brill. In quel retroterra culturale matura l’esperienza di Antonio Tempesta, attivo nelle decorazioni a fresco popolate da multicolori personaggi inseriti in paesaggi allegorici caratterizzati dai toni freddi e cristallini propri della materia pittorica di Matthijs Brill. Entrambi gli artisti lavorarono a


4. Antonio Tempesta, Torneo in piazza Castello per le nozze di Vittorio Amedeo I con Cristina di Francia, circa 1620, particolare. Torino, Galleria Sabauda

lungo assieme, integrando stilismi personali e modi pittorici di maniera, e contribuendo da protagonisti alla storia della pittura di paesaggio. È in quell’entroterra culturale che avevano attinto con scelte sicure per gli acquisti “alla moda” gli emissari di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I; contatti costanti con la cultura centro italiana che saranno determinanti per Torino nei primi decenni del Seicento con la venuta in Piemonte proprio del Tempesta e poi di Federico Zuccari. In questo clima la corte sabauda attinge feconda al mercato artistico romano, sia con acquisti antiquari mirati, sia con specifiche commesse, così che al ritratto aulico le collezioni ducali rapidamente affiancano le vedute da cavalletto delineate con minuzia documentativa senza precedenti. Uno di questi protagonisti, chiamato a Torino, sarà proprio il Tempesta, forte della sua esperienza di scrupoloso narratore di storie romane descritte nel fortunato ciclo ad affresco allora appena concluso nella terza loggia vaticana e celebrato dal Baglione7. L’autore del disegno di Torino va cercato all’interno di questo gruppo di artisti e a tutt’oggi i modi stilistici espressi nelle tele del Tempesta paiono ravvisare il riferimento più convincente. La scelta di raffigurare i personaggi di schiena, la foggia dei costumi, la tecnica dello sfumato che introduce le modalità chiaroscurali con cui Tempesta esegue le sue incisioni a bulino, rivelano convergenze e parallelismi non marginali. Un solo confronto; il celebre quadro del Tempesta con il torneo del saracino in piazza Castello a Torino, del 1619 circa, oggi alla Galleria Sabau-

da, consolida questa ipotesi (fig. 4). In primo piano nella tela sono dipinti alcuni personaggi di schiena con un gruppo di aristocratici; nell’angolo sinistro un cavaliere in abito giallo, mantello azzurro e cappello, alza il braccio destro per indicare il centro della scena; il tema è analogo al gruppo di personaggi a cavallo in primo piano nel disegno di Torino. Le due figure immediatamente vicine al cavaliere nel disegno anonimo, con l’uomo con il cappello e il mantello sulla spalla sinistra che abbraccia la donna alla sua destra, riprendono per intero i due personaggi dipinti alla destra della statua del saracino nella tela della Sabauda. Un altro dei temi cari al Tempesta che ritroviamo in molte delle opere del pittore fiorentino sono le cavalcature disegnate di tergo, spesso statiche, affiancate da personaggi e da scene di genere sovente con la presenza di cani che giocano con fanciulli o inseguono le cavalcature. A tale riguardo il confronto illuminante con la poliedrica attività del Tempesta esercitata fuori Roma ci conduce ad analizzare il ciclo di affreschi nel Palazzo Orsini di Monterotondo. Qui, nelle stanze con i Paesaggi e le Cacce, gli affreschi dispiegano ampi brani con scene e personaggi il cui clima è quello del foglio di Torino, dove Tempesta e Brill scompongono e assemblano oggetti ed episodi diversi tratti da disegni e schizzi destinati a essere trasferiti nelle incisioni, dove alla scena “di genere” con viandanti, soldati, nobili e popolani, pastori e greggi che pascolano accanto a cavalieri e cani che rincorrono fanciulli e cacciagione, sono affiancati alcuni particola113


5. Paul Brill con figure tratte da disegni di Antonio Tempesta, Paesaggio con scene di caccia, circa 1611-1612, particolare. Roma, Palazzo Pallavicini Rospigliosi (già di Scipione Borghese), lunetta della sala della Pergola

ri presi dal vero, con i paesaggi urbani minuziosamente e analiticamente descritti nella loro realtà topografica. Nel disegno con la regata torinese la rappresentazione urbana della città all’orizzonte si riscontra un graficismo che riprende nella prospettiva aerea la pianta di Roma incisa dal Tempesta nel 1593. Essa documenta l’affermarsi a Torino del paesaggio topografico con una precisione che sorprende la capacità e la memoria dell’osservatore ed è un episodio che depone tutta la sua origine nell’humus documentario, e nel frattempo visionario, del paesaggio fiammingo romano di tardo Cinquecento e di primissimo Seicento, con gli episodi pittorici di Paul Brill tratti in parte da incisioni del Tempesta per la sala delle Pergola in Palazzo Pallavicini Rospigliosi, già di Scipione Borghese, e in particolare nella lunetta con la scena della caccia al cervo dove nei personaggi a cavallo visti di spalle il ricorso ai disegni di Tempesta è più che probabile (fig. 5). La precisione e la qualità del disegno torinese fanno ipotizzare che questo fosse destinato a essere trasferito in incisione e che probabilmente rientrava in un programma agiografico destinato a raccogliere in vedute di grande qualità gli episodi salienti dell’ingresso a Torino di Cristina di Francia e delle feste e degli apparati effimeri allestiti in occasione delle nozze ducali. Oltre al significato encomiastico della veduta, il disegno dimostra inequivocabilmente, al di là delle rappresentazioni di imbarcazioni di gala raffigurate nelle incisioni del Theatrum Sabaudiae, 114

che già agli inizi del XVII secolo la corte di Torino disponeva di alcune imbarcazioni fluviali i cui scafi, probabilmente peote o burchielle, erano stati dotati di sontuosi allestimenti speciali, riccamente decorati. La Peota di Carlo Emanuele III è l’ultima di questa serie; non un unicuum, ma piuttosto un “episodio” predisposto non per uno specifico evento speciale; l’unico fino a ora documentato, l’unico conservatosi. La barca giunta via Po da Venezia è l’ammiraglia splendida di una minuscola flotta che integra e sostituisce precedenti imbarcazioni di parata armate nel Seicento per Carlo Emanuele I e i suoi diretti successori. Le imbarcazioni raffigurate nel disegno attribuibile al Tempesta sono certamente le medesime che pochi anni prima, nel 1618, furono le protagoniste di una “festa piscatoria” svoltasi nelle acque della residenza di Millefonti, festeggiamenti di cui si conserva traccia rara in un manoscritto ora presso la Biblioteca Nazionale di Torino8. L’acqua e la festa fluviale divengono, a iniziare dalla cultura tardomanierista, elementi essenziali di ogni celebrazione festiva legata a eventi dinastici e alle entrate trionfali nella capitale dei cortei nuziali. La sequenza d’imbarcazioni che compaiono nel foglio attribuito al Tempesta ripropone direttamente i cortei che con mirabolanti componenti fantastiche e scenografiche accompagnarono nel 1585 la solenne entrata di Carlo Emanuele I e di Caterina di Spagna a Torino, la cui regia dell’elaborato programma pittorico e allegorico va ricondotta al virtuosismo di


Alessandro Ardente. Come difatti dimostrano le fonti documentarie, fu quest’artista che, seguendo le specifiche indicazioni del duca, ideò le grandi macchine con mostri marini a Nizza e le complesse isole/imbarcazioni predisposte per il tragitto da Moncalieri a Torino9. Sino a oggi le fonti d’archivio non hanno ancora rivelato le origini e la struttura di quella flotta regale secentesca, più volte rinnovata a seguito delle vicende belliche del 1640 e del 1706 che ne dispersero i navigli la cui sorte fu legata alle rovine delle residenze ducali extra moenia. Bisognerà attendere un nuovo secolo affinché una barca sontuosa, costruita in uno squero di Venezia, risalga le acque del Po sino a Torino per ricucire il filo sottile che, ancora oggi, lega indissolubilmente la città al suo fiume e alle gesta della dinastia che la rappresentò; sarà un’imbarcazione raffinata e luminescente d’oro che esprimerà in tutta la sua efficacia retorica il gusto del principe che rappresenta la cultura assolutistica sabauda nel Settecento. Come le sue precedenti consorelle essa presiederà a molte altre regate sul Po, raggiungerà il campo sabaudo di Guastalla, e poi Milano negli anni in cui la Lombardia è soggetta al governo di Carlo Emanuele III, che la impiega sul Ticino e in parata sul Naviglio grande per circa tre anni. Svanite le speranze dei Savoia di controllare la Lombardia, l’imbarcazione tornerà a Torino con gli apparati allegorici e decorativi interni in gran parte rivisti e aggiornati 10. Nel complesso e sottile gioco decorativo si individuano subito due filoni tematici, uno scultoreo, del tutto esterno all’imbarcazione, e uno pittorico, riservato alle partiture interne del tiemo. La compagine decorativa esterna, di non immediata decodificazione, appartiene, sostanzialmente, all’impianto strutturale originario costituito dalle sculture e dagli intagli lignei attuati nella fase costruttiva dell’imbarcazione. Internamente sussiste invece una decorazione prevalentemente pittorica, verosimilmente modificata in tempi successivi alla costruzione della barca e, per la parte iconografica, attuata verosimilmente non in ambito veneziano. Le decorazioni interne appartengono a due fasi

decorative distinte: quelle del celino del tiemo, di evidente minore qualità pittorica rispetto ai fregi in blu di Prussia disposti lungo i bordi inferiori delle pareti interne, propongono un corteo bacchico con putti, divinità e carri trionfali impossibili; soggetti che alludono apertamente a grottesche di ispirazione classica, allineati con le decorazioni leggere e sofisticate di maestri come Pietro Antonio Milocco, Francesco Fariano, Filippo Minei e Niccolò Malatto, esponenti di un gusto decorativo erudito e aggiornato, tutti attivi per la corte e nelle residenze extra moenia, protagonisti non minori di un’internazionale accademica voluta e creata da Juvarra. I carteggi e i riscontri d’archivio documentano, negli anni immediatamente successivi all’arrivo della Peota a Torino, una consistente serie di lavori di manutenzione e di adeguamento decorativo, sia alle sculture dorate sia alle pitture, dove sono coinvolti oltre agli indoratori guidati dal Monticelli anche i pittori della cerchia del Beaumont, in anni precoci per la carriera dell’artista, tra il 1732 e il 1734. È evidente che in quel periodo, e poi ancora in anni successivi al 1738, l’imbarcazione è sottoposta a un revisionismo decorativo che coinvolge le allegorie sabaude dipinte su fondo oro nel soffitto del tiemo, estranee per cultura e per qualità al tema dispiegato nel giocoso fregio azzurro con le Naiadi danzanti esplicitamente inserito nell’età juvarriana. I temi allegorici raffigurati nel soffitto sono più espliciti nelle due scene dipinte in corrispondenza delle lunette triangolari. A prua compare una scena che trae ispirazione dal Teatro gallico o vero la monarchia della Real casa Borbone di Gregorio Leti, edito nel 1691, soggetto che si riferisce alla conquista da parte di Carlo Emanuele I del marchesato di Saluzzo alle spese della Francia di Enrico IV a seguito del trattato di Lione del gennaio 1601. Gli attributi sono chiaramente decifrabili: un cavaliere allude a un gruppo di soldati che si allontanano verso una città dipinta sullo sfondo; compare la bandiera bianca con i gigli dorati di Francia. Un paggio segue il cavaliere in primo piano e ostenta uno scudo con raf115


figurato un centauro, simbolo allegorico scelto da Carlo Emanuele I assieme al motto OPPORTVNE. Nello specchio opposto, verso poppa, una seconda scena, dello stesso pittore, allude invece alla spedizione di Amedeo VI a Rodi, qui ben identificabile dalla bandiera con la mezzaluna e dalla presenza del mitico acronimo FERT, che in epoca barocca era sciolto con il riferimento più arcaico ma improprio in Fortitudo Ejus Rhodum Tenuit. Veniamo ora alla scena centrale, quella apparentemente meno decriptabile. Nessun riferimento iconografico consente di identificarla come pertinente all’abdicazione papale di Amedeo VIII di Savoia (antipapa Felice V) o all’incontro dello stesso con il pontefice Niccolò V. La scena raffigura certamente un pontefice che non espone in prima persona le insegne pontificali – la tiara e la ferula a croce tripla compaiono in secondo piano – che accoglie con familiarità, alzandosi dal trono, un personaggio vestito con abito talare ma privo di attributi che ne identifichino il soggetto, e al quale sta per imporre la berretta nera sacerdotale che un chierico sostiene su un vassoio. Al centro della scena compare l’allegoria della Fede che osserva l’incontro. Tutti i personaggi raffigurati, tranne i protagonisti, volgono lo sguardo in alto verso destra, in direzione di un punto di vista fuori campo, all’esterno del tiemo e in direzione della prua dell’imbarcazione. La struttura del dipinto, eseguito su fondo oro, è più rigida delle altre due contigue ed è eseguita con pennellate rapide, con poche sfumature. La scena è eseguita giocando su toni soprammessi e utilizzando una tecnica a chiaroscuro monocromatico per descrivere con un solo tono bruno il complesso disegno del trono che utilizza l’oro come campo neutro di riempimento ai contorni del disegno, senza impiego di colore. L’allegoria della Fede, la mancanza di riferimenti iconografici e la generica trattazione dei personaggi sono elementi che paiono escludere il nesso con un preciso fatto storico e per contro rivelano la volontà di dare consistenza figurativa a una sequenza di eventi politici che vedono come protagonista la Chiesa Romana, mentre i riferi116

menti allo Stato Sabaudo, coprotagonista delle circostanze a cui allude il dipinto, non compaiono nella scena in quanto sono, per estensione, rappresentati dall’intera imbarcazione. Senza ulteriori accrediti, la composizione può, in forma dubitativa, riferirsi ai fatti legati al concordato stipulato nel 1727 tra i Savoia e la Santa Sede con la ratifica da parte pontificia delle richieste di Vittorio Amedeo II circa i benefici ecclesiastici in Piemonte e soprattutto l’estensione dell’indulto di Niccolò V riguardante le nomine dei vescovadi e delle abbazie. Non è pero escluso che il dipinto alluda al secondo concordato, ratificato il 5 gennaio 1741, tra Carlo Emanuele III e Benedetto XIV auspice il cardinale Albani. Se così fosse si spiegherebbe il taglio di non elevato profilo qualitativo della pittura eseguita in un secondo tempo a sostituzione di un precedente decoro, coevo con la fase di allestimento iniziale dell’imbarcazione, e al quale appartengono le delicate raffigurazione dei cherubini con le ghirlande di fiori che circondano le lunette delle testate. Le allegorie fanno dunque riferimento ad alcuni momenti significativi della casata sabauda ma non a quelli più essenziali e recenti, come ad esempio le consistenti conquiste territoriali conseguenti alle guerre di successione dinastica settecentesche. Le scene annunziano un tema comune, più universale, legato alla diplomazia, ai rapporti con la chiesa cattolica, e paiono encomiare la capacità di transazione politica più che esaltare virtù militari. Esse sembrano destinate alla contemplazione di un pubblico particolare, ospitato sull’imbarcazione come veicolo d’eccezione usato in un’occasione speciale e in epoca prossima alla metà del Settecento. I temi affrontati non sono pertinenti all’uso per cui la Peota fu originariamente costruita, ossia perché servisse “di divertimento alle LL.M.à sul fiume Po”. Le origini dei decori vanno ricercate altrove, forse in quel soggiorno milanese, quando la ricca imbarcazione ostentava il fasto della corte sabauda che si alludeva di conservare il milanese tra i suoi territori. Gli intagli e le sculture lignee esterne rientrano


invece più coerentemente nella concezione allegorica e decorativa tipica della cultura veneziana della prima metà del Settecento, senza tuttavia raggiungere gli esiti sfarzosi e quasi impossibili raffigurati nelle tavole di Giorgio Fossati, o gli allestimenti attuati nel 1685 per la visita nella città lagunare di Ernesto Augusto di Brunswick-Lüneburg o ancora quelli delle imbarcazioni lusorie raffigurate dal Bellotto nelle peschiere del parco del Castello di Nymphenburg. La scultura prodiera, a guisa di polena, tratta verosimilmente da un modello in cera, raffigura quasi certamente Narciso e definisce gli ambiti entro cui si sviluppa un percorso filosofico e mitologico giocato sull’esortazione al buon governo. La complessa metafora è la figurazione per immagini di un monito, e va riferita alla condotta che deve essere propria del sovrano assoluto che deve prendersi guardia dal cadere nelle vacuità e nelle ambiguità rappresentate dal mito di Narciso, pericolo costante come l’alterigia derivata dal potere, che è fragile come l’immagine riflessa. È proprio il riflesso, attraverso l’acqua che lo genera, che dà sostanza tangibile alla figura che il medesimo elemento liquido sostiene, cioè la barca reale, sorretta da un elemento fragile in perenne, costante equilibrio, impalpabile e drammaticamente evanescente. Qui la figura di Narciso simboleggia gli aspetti negativi e allude alle conseguenze derivanti dalla sparizione del mitico mondo degli dei che tutto spiegava. Il mito introduce i temi filosofici della natura come sorella dell’uomo e dell’acqua come fonte di vita da cui scaturisce la natura medesima e quindi l’indole umana, e introduce una critica, sulla strada della conoscenza, alla filosofia dell’essere. Narciso ritto sulla prua dell’imbarcazione appare come la figura che esorta costantemente a tenere diritta e ben salda la giusta rotta di noi stessi, a mantenere un comportamento opposto all’esito del mito che condusse a morte la divinità che si specchiava alla fonte amando solo l’immagine di se stessa. L’allegoria sollecita a perseguire con rigore la rotta della conoscenza di sé, alla quale gli uomini migliori devono impegnare le proprie energie intellettuali per essere e non divenire so-

lo apparenza. Singolare e metafisica l’allegoria per immagini che pare trarre fonte di riferimento da un’iconologia criptica e sottilmente psicologica. In un’imbarcazione di parata che gioca il suo ruolo nell’ostentazione della magnificenza della sua immagine esterna, sono proprio queste sembianze esteriori che sottendono a non abusare dell’apparire per non cadere nel fatale errore di perire di se stessi. Le comunicazioni tra la natura differente delle cose, le relazioni tra il mondo esterno e il proprio io, tra la natura di noi stessi e la natura che ci circonda e a cui apparteniamo non devono rimanere confinate nel singolo personaggio perché ciò lo porterebbe a morire. Narciso rappresenta pertanto la strada dell’apprendimento, del viaggio lungo il fiume della conoscenza di noi stessi e verso gli altri, esortando a essere coscienti della nostra realtà e non soltanto apparire come riflesso dell’espressione altrui. Si apre un gioco di rimandi sul carattere intransitivo della conoscenza e sulla molteplicità delle relazioni tra l’essere e il nulla, tra l’apparente e la concretezza, tra l’ego e il tangibile, tra l’essere e il divenire. Quella di Narciso è l’immagine simbolica del comportamento da evitare per l’uomo a cui il destino ha assegnato le sorti del governo. Narciso è la figura mitologica che identifica l’atto del dividere, lo specchio e il suo doppio, le due sponde del fiume, le due estremità di una unica natura. La scultura di prua è la polena di una barca che nel suo incedere divide le acque e mentre le separa tiene unite le due sponde dello stesso fiume; sono queste simboleggiate dalle due allegorie fluviali identiche che affiancano Narciso, qui rappresentate da due figure maschili che versano acqua dagli otri; sono le due metà di una stessa natura, le doppie figure di un’unica fonte, la stessa acqua di un unico fiume. Esse non simboleggiano né l’Adige né il Po, ma lo scorrere eterno della vita, il mitico viaggio verso la perduta Arcadia, l’acqua che perennemente scaturisce dalla grotta di Teti e dalla caverna di Platone. Dopotutto l’uno, la totalità, si può ottenere dall’unione di due metà, o dalla fusione di due unità, poiché già lo stesso due è un’altra unità. Le due figure distese simboleggiano il perenne fluire del117


la duplicità della natura umana, e nel contempo il perdurare del viaggio dinastico sempre in bilico tra le avverse fortune. E come Tiresia, che predisse il futuro di Narciso, così il buon governatore della barca reale deve poter dimostrare di vedere non tanto le cose immediate, vicine, prossime e sensibili, quanto intuire e provvedere per le cose che riguardano il futuro. La giusta rotta della nave reale, cioè dello stato assoluto medesimo, qui così sottilmente identificata dalle sculture prodiere, è ripresa nella esternazione della sua entità opposta, il negativo che in perenne agguato incalza il percorso del battello, cioè il divenire naturale delle cose. Questa presenza insita nell’animo umano è sottolineata da una piccola scultura posta a decoro della barra timoniera, qui intagliata a guisa di serpente marino con le fauci aperte secondo un’iconografia non rara nella tradizione lagunare veneta. Il “drago”, o serpente d’acqua, proviene dal fantastico mondo del bestiario medioevale e la sua posizione non è casuale. Il brandeggio della stan-

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ga che controlla il timone ripropone nel suo movimento l’incedere sinuoso proprio del serpente acquatico, chiaramente identificabile come un’entità negativa, pronta a coinvolgere e aggredire la parte più importante della barca, ossia il timone, per estensione figurativa l’intelletto umano. Perdute nel tempo le ragioni sottili della filosofia che sosteneva i temi reconditi del decorativismo settecentesco sostenuti dall’interpretazione del mito classico, nel secolo successivo, tradizionalmente, quasi tutti gli anni la Peota tornerà almeno una volta sul fiume torinese per presiedere alle regate ottocentesche, come quella svoltasi il 14 maggio 1860 e documentata da un’incisione che pare l’eco lontana del disegno del Tempesta: una regata di voga alla veneta dinanzi alla corte in prossimità di piazza Vittorio; mentre a Torino si festeggiava in Sicilia si combatteva, a Calatafimi, una delle battaglie simbolo di un Risorgimento crudele; sulla Peota Reale furono innalzate le insegne dell’Unità d’Italia.


ASCT, Collezione Simeom, D 141. Cfr. A. Cavallari Murat (a cura di), Forma urbana ed architettura nella Torino barocca, Utet, Torino 1968, vol. II. A; doc. 31 p. 550, figg. pp. 570-571. Lo stesso A. pubblica anche un secondo disegno acquerellato, derivato dal primo foglio, riportando che entrambi i disegni risultavano conservati presso il fondo Simeom al tempo (1968) non ancora depositato presso l’ASCT. Come rivela la scheda di catalogo, che non riporta le dimensioni degli originali, il commento è stato probabilmente redatto solo su base fotografica, disponendo di due riproduzioni allora conservate presso l’archivio fotografico dell’Istituto di Architettura Tecnica del Politecnico di Torino. Il disegno acquerellato, la cui collocazione è oggi sconosciuta, corregge alcune deformazioni grafiche del primo foglio, ma dalla sola riproduzione fotografica posseduta si intuisce che risulta di assai più tarda esecuzione con una maggiore attenzione al dettaglio geografico della catena montuosa topograficamente assai più precisa che nel disegno preparatorio, ma a scapito di una freschezza e registrazione critica del dettaglio di primo piano. Accenni di gusto e di tecnica rappresentativa che inducono a collocare il disegno in tarda età settecentesca. 3 AST, Corte, Architettura militare, vol. 5, J.b III 11, f. 109r. 4 ASCT, Fondo Simeom, D 142. L’incisione, di qualche anno posteriore al disegno con la regata, riprende l’immagine della Porta Nuova ancora isolata mentre tutto intorno si stanno scavando i fossati ed erigendo i terrapieni delle fortificazioni: gli isolati del nuovo ampliamento sono già tracciati e in parte edificati. 5 La figura di Cristina seduta nel primo carroccio è facilmente distinguibile dalla foggia del velo che cinge il capo, del tutto uguale a quello raffigurato nell’incisione di Giovenale Boetto su disegno di Giovanni Gaspare Baldoino nell’allegoria della riconciliazione tra Cristina e i cognati principi Tommaso e Maurizio di Savoia nel 1644, in BRT, U.II.85/2 6 Dell’impianto architettonico principale rimane traccia in alcune planimetrie di primo Settecento, predisposte per la pianificazione delle fortificazioni della città, in previsione di poter difendere il borgo oltre il fiume sino alle pendici della collina. Le ultime vestigia sopravvivono sino all’età napoleonica. 1 2

G. Baglione, Le vite dei pittori, scultori e architetti, Roma 1642, p. 18 e 196. Per la formazione culturale romana del Tempesta in rapporto con i Brill, cfr. F. Cappelletti, Paul Bril e la pittura di paesaggio a Roma 1580-1630, Bozzi, Roma 2006, pp. 4 sgg. Su Antonio Tempesta e la sua attività nei cantieri romani come in Palazzo Giustiniani o nella sala dei Mesi in Palazzo Costaguti si veda: E. Leuschner, Antonio Tempesta: ein Bahnbrecher des römischen Barock end sein europäsche Wirkung, Michael Imhof Verlag, Petersberg 2005. M. Chiarini, in Mostra di disegni italiani di paesaggio del Seicento e del Settecento, Leo S. Olshki, Firenze 1973, pp. 27-28. Oltre alla testimonianza del Baglione (1642, pp. 18, 196) l’attività di Matteo Brill e di Antonio Tempesta e quella delle botteghe fiamminghe di Jan Soens e di Cornelis Loots nei cicli pittorici delle imprese vaticane di Gregorio XIII è ricordata anche da van Mander che così riporta: “In una di queste ultime [ stanze ], al piano superiore, ha dipinto ad affresco diversi paesaggi, vedute e processioni che si usano far a Roma”, in K. van Mander, Le vite degli illustri pittori fiamminghi, olandesi e tedeschi, a cura di R. de Mambro Santos, Apeiron Editori, Sant’Oreste 2000, p. 347. A riscontro comparativo con il foglio di Torino, non estraneo per alcuni aspetti ai modi di Cesare Arbasia, vanno riferite alcune vedute attribuite alla collaborazione BrillTempesta nelle logge di Gregorio XIII tra cui in particolare la Veduta di Castel Sant’Angelo con una processione e scena di barche sul Tevere. 8 Giovan Matteo Cavalchino (gondoliere veneziano), Relazione delle feste avvenute a Millefonti nel 1618, BNT, N.VI.37. Devo questa segnalazione ad Andrea Merlotti; il manoscritto alla Biblioteca Nazionale di Torino sarà oggetto di un prossimo studio specifico curato dal Centro Studi La Venaria. 9 Per un confronto di sintesi sulle feste cinquecentesche a Torino con riferimento all’impiego di imbarcazioni di parata e allestite a guisa di stanze e false isole galleggianti, si veda F. Varallo (a cura di), Da Nizza a Torino. I festeggiamenti per il matrimonio di Carlo Emanuele I e Caterina d‘Austria, Centro Studi Piemontesi, Torino 1992 pp. 79-80. Trascrizione e commento critico di un testo anonimo della seconda metà del XVI secolo: Relatione degli apparati e feste fatte nell’arrivo del Serenissimo Signor Duca di Savoia […]”. 7

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La committenza di Vittorio Amedeo II: aspetti giuridico-economici e costruttivi* Giorgio Marinello La committenza del Bucintoro costruito a Venezia per i Savoia è stata sinora attribuita a Carlo Emanuele III in base ad alcuni dati presenti in una documentazione manoscritta di circa 200 pagine conservata all’Archivio di Stato di Torino1. Si tratta della richiesta di lasciapassare sul fiume Po (30 giugno 1731), a imbarcazione ormai ultimata, e dell’ordine di pagamento di 215002 lire di Piemonte (L.P.te) (11 febbraio 1732), firmati dal sovrano all’epoca regnante. La documentazione torinese riporta un estimo costruito a posteriori da Filippo Juvarra, primo architetto di corte, il 2 gennaio 1732, che contribuisce a stabilire l’importo da pagarsi per la fabbrica del Bucintoro (13608 L.P.te e 500 L.P.te di “regalo all’architetto”) e di una gondola (2120 L.P.te), per un totale di 16228 L.P.te. Sorprende che nell’ordine regio di pagamento di Carlo Emanuele III, di complessive 21500 L.P.te, le sole gratificazioni ammontino a ben 2540 lire, il 18,7% del valore dell’intero Bucintoro (13608 L.P.te) e che le spese non connesse a costi di fabbricazione (spese di viaggio, sua preparazione, prestazione d’opera e gratificazioni) raggiungano un valore di 5769 lire, ovvero il 42% dell’intero valore stimato per la fabbrica del Bucintoro. Stupisce inoltre che l’amministrazione sabauda non sia a conoscenza del costo del Bucintoro e si debba ricorrere a un estimo, quando era prassi consolidata una valutazione preventiva, con rigido controllo di anticipi, pagamenti in corso d’opera e saldo finale. L’insieme dei documenti non restituisce alcuna indicazione sugli avvenimenti precedenti la par-

tenza da Venezia, e conferma con chiarezza l’assenza di una commissione scritta. Poiché il pagamento del Bucintoro del 1732 proviene dalla Gabella del Tabacco, si è avviata una ricerca nei relativi fondi economici dell’Archivio di Stato di Torino3. La ricerca ha dato risultati inattesi e prova con chiarezza la committenza nell’agosto 1729 e il pagamento di una enorme somma di denaro ordinato da Vittorio Amedeo II4 in favore del padre agostiniano Cristoforo Ceccati, del monastero di Santa Margherita di Treviso. Il costo reale è superiore alle 34000 L. P.te, come restituito in una delle lettere del fondo torinese; il pagamento attraverso la Gabella del Tabacco avrebbe assicurato anche lo svolgersi dell’impresa in assoluta segretezza, come risulta da un’altra lettera della stessa documentazione. Dai fondi del tabacco si comprende come padre Ceccati lasci Torino nel 1729 dopo aver ricevuto 7 di 10 annualità da 5000 L.P.te ciascuna, riconosciute dal re a padre Cristoforo per la fruttuosa opera prestata a beneficio delle regie finanze, con l’implicito accordo che le 15000 L.P.te mancanti sarebbero state rimborsate nella forma di un pagamento ufficiale del Bucintoro, all’arrivo dell’imbarcazione a Torino. Padre Cristoforo si è ben meritato tale riconoscimento: dal 1722 ha lavorato per l’introduzione della coltivazione del tabacco in Piemonte, introducendo anche il know-how della pratica impiegata nello stato veneto per fertilizzare il terreno e trattare le foglie. Se nella Serenissima si fosse venuti a conoscenza della vicenda le

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1. Arsenale di Venezia. Ingresso da terra e dall’acqua, con mura e torri merlate (fotografia dell’autore) 2. Arsenale di Venezia; darsena vecchia, squeri da nave (fotografia dell’autore) 3. Ingresso di terra all’Arsenale di Venezia, con ponticello sul rio di San Martino; a lato l’approdo dal rio dell’Arsenale (fotografia dell’autore)

conseguenze sarebbero state gravi per il religioso, ma il pagamento delle annualità ricevute dalla corte di Torino era celato dal commercio di stoffe che padre Ceccati esercitava con la procura del fratello Bonaventura, negoziante in Venezia. Nell’agosto 1731, mentre il Bucintoro stava risalendo il fiume Po, rimorchiato verso Torino, la morte coglie improvvisamente padre Ceccati quando si trova a Milano, nel convento del proprio ordine. Alla sua morte emerge tra i possibili eredi una controversia giuridica in merito al pagamento della somma attesa: i frati agostiniani di Treviso se l’importo speso è considerato come denaro personale del defunto e il fratello mercante Bonaventura se si prova che è stato invece utilizzato denaro riconducibile alla ditta familiare. La ben nota stima di Juvarra non ha altro scopo se non quello di fornire un conto falso da utilizzarsi nella costruzione di un’opportuna definizione della questione finanziaria a favore del fra122

tello di padre Ceccati. Il tetto dell’estimo è dettato opportunamente dal generale delle Finanze sabaudo, Vittorio Amedeo di Saint Laurent; Juvarra avrà il compito di armonizzare fra loro i costi di fabbrica. Questi fatti si sono provati attraverso la ricostruzione a calcolo sia del conto fittizio del Bucintoro che di quello reale in esso nascosto, con il supporto di tavole esplicative basate sui dati del fondo. Juvarra avrà un ruolo ben più importante nella costruzione dell’imbarcazione, consono alla sua attività istituzionale. Tra gennaio e febbraio 1729 Juvarra è a Venezia5. La reale ragione della visita alla Serenissima trova puntuale riscontro nei disegni di Juvarra conservati a Chatsworth House. Le collezioni dei duchi di Devonshire comprendono un album di disegni dell’archietto dedicato a Lord Burlington6. L’album nell’intestazione è datato 1730, ma i disegni riportano la data 1729. Due di essi ci consentono di identificare l’Arsenale di Venezia; Juvarra riprende nelle sue co-


4. Filippo Juvarra, album, f. 25. Arsenale marittimo. Chatsworth, Devonshire Collection 5. Filippo Juvarra, album, f. 9. Ingresso a un arsenale marittimo, con ponte e approdo. Chatsworth, Devonshire Collection 6. Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto, Venezia, rio dei Mendicanti. Sulla destra: squero. Venezia, Ca’ Rezzonico

struzioni ideali elementi che ne caratterizzano il luogo e la funzione7. Esso è chiuso da mura che lo separano dalla città, circondato da un canale, con le due torri merlate d’ingresso dall’acqua e bacini interni, all’epoca tre, dove affacciano gli squeri, o cantieri navali coperti per i vascelli (figg. 1-2); si accede all’ingresso da terra attraversando un ponte che passa il canale che circonda le mura; accanto è l’approdo delle barche (fig. 3). Nel disegno f. 25 (fig. 4) possiamo osservare mura e torri merlate, bacini, squeri per ricoverare le imbarcazioni; nell’altro, f. 9 (fig. 5), un ponte attraversa il canale e conduce all’entrata da terra; accanto è l’approdo verso il canale che porta all’Arsenale. Possiamo supporre che il progetto iconografico del Bucintoro sia stato avviato prima della sua partenza per Brescia e perfezionato nella prima metà del 1729, seguito dalla committenza della costruzione nell’agosto dello stesso anno. Anche se Juvarra ha visto l’Arsenale di Venezia

non significa che il Bucintoro vi sia stato costruito; la probabilità che ciò sia avvenuto appare da escludersi per diverse ragioni. A Venezia le imbarcazioni erano costruite in Arsenale o da squeri (cantieri) privati. Nel primo caso i navigli lì costruiti erano di committenza statale8 e un mercante non poteva farvi costruire una nave, ma doveva rivolgersi a uno squero privato, ossia a un proto-fabbricatore9, che si potrebbe definire come capo commessa, cui facevano capo le maestranze, responsabile della buona esecuzione dell’imbarcazione. Solo chi era suddito della Serenissima poteva farsi costruire un’imbarcazione negli squeri della repubblica e per questa ragione Vittorio Amedeo II si era servito di padre Ceccati, che con la procura del fratello Bonaventura poteva occuparsi della committenza del Bucintoro allo squero per poi rivenderlo a Torino. Per una corte straniera non sarebbe stato impossibile ottenere dalla Serenissima il permesso di farsi costruire una barca in Arsenale, o di potervi ri123


coverare un proprio naviglio, ma tra Venezia e Torino le relazioni diplomatiche erano interrotte dal 1670. Un contenzioso divideva le due città per via del titolo regio di Cipro e Gerusalemme, ma anche per quello di Sardegna. Nel quadro europeo alla Serenissima erano riconosciute da tempo immemorabile delle precedenze, che si voleva ribadire alla corte di Torino, considerata inferiore per anzianità e rango. La questione era certamente legata ad aspetti formali più che a gravi ragioni di disputa, ma nel caso del Bucintoro si sarebbe toccata proprio la materia del contrasto. Molto difficilmente infatti il senato veneto avrebbe accettato in quegli anni di far costruire nel proprio Arsenale l’imbarcazione del re di Sardegna, con la grande corona regale all’ingresso del tiemo, sovrastante lo stemma recante le insegne regie di Sardegna, Cipro e di Gerusalemme che la Serenissima si rifiutava ostinatamente di riconoscere ai Savoia. Il proto-fabbricatore cui si rivolge padre Ceccati può identificarsi con Zuanne, squerariol in rio dei Mendicati. Nello squero ai Mendicanti in Venezia maestro Antonio, squerariol di Buran, ossia dell’isola di Burano, evidentemente patria di esperti maestri d’ascia, fabbricherà il corpo della Peota, e Zuanne, come proto, pagherà anche i calafati dell’Arsenale, e padron Bortolo dell’Arsenale per il lancio all’acqua. Lo squero di Zuanne, in città, avrebbe riunito agevolmente le risorse umane indispensabili a completare la fabbrica. Poiché la partenza di padre Ceccati da Torino è

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segnalata dal residente veneto a Milano nel novembre 172910 e la conclusione dell’opera viene a collocarsi tra maggio-giugno 1731, i tempi costruttivi appaiono di circa sedici-diciassette mesi. Il dato risulta coerente con i tempi richiesti da analoghe imbarcazioni realizzate in quel periodo11, tenendo in conto le pitture, che caratterizzano il solo Bucintoro sabaudo, e alcune significative indicazioni a esse riferite, restituite dal fondo torinese. Nel mese di luglio si procede all’imballatura del Bucintoro e degli intagli che sono rinchiusi in cassoni e si attende che venga completata e saldata la spesa della gondola, per la quale è ipotizzabile la committenza di Carlo Emanuele III. L’imbarcazione avrebbe potuto esser costruita proprio nello squero di Zuanne ai Mendicanti, come possiamo osservare dal dipinto del Canaletto, datato in quegli anni, nel terzo decennio del 1700 (fig. 6). Nello stesso luogo esiste ancora oggi uno squero. L’analisi di conti e pagamenti, il viaggio a Venezia di Juvarra e i disegni di Chatsworth riportano la committenza a Vittorio Amedeo II nel 1729; la valutazione delle fasi e tempi costruttivi suggeriscono invece una seconda indicazione: nel 1729 si era consapevoli che il Bucintoro sarebbe stato portato a termine nel 1731. L’inattesa abdicazione di Vittorio Amedeo II il 3 settembre 1730, atto esaminato con cura tra il 1728 e il 172912, appare rivelare una decisione anticipata rispetto ai tempi preventivati13.


* La ricerca è stata effettuata congiuntamente e “a tutto campo” per le diverse argomentazioni da Alessandra Castellani Torta e Giorgio Marinello, e quindi suddivisa in due relazioni per esigenze di pubblicazione. Lo studio esposto da Giorgio Marinello riconduce la committenza del Bucintoro sabaudo a Vittorio Amedeo II sulla base dell’analisi del conto, del viaggio a Venezia di Juvarra, dei tempi costruttivi e della sistemazione delle rive del Po al castello del Valentino in previsione dell’arrivo delle imbarcazioni. Alla luce di tali premesse il saggio di Alessandra Castellani Torta esamina le motivazioni possibili della committenza e il suo significato. 1 AST, Carte Topografiche e Disegni, Palazzi Reali e altre Fabbriche Regie, Torino, Valentino, mazzo 1, fascicoli 1.1 e 1.2. 2 I valori indicati sono in lire di Piemonte, senza le frazioni in soldi e denari. Non è riportato il punto per la suddivisione in migliaia, attualmente in uso, in conformità con la documentazione torinese, dove il punto è impeigato per la suddivisione in lire, soldi, denari, corrispondente alla moneta dell’epoca. 3 I risultati della ricerca sono stati presentati nel corso del convegno: Il Bucintoro dei Savoia: contributi per la conoscenza e per il restauro, a cura di S. De Blasi, atti del convegno internazionale di studi (Venaria Reale, 22-23 marzo 2012), Editris, Torino 2012. Per lo studio completo si vedano i saggi di A. Castellani Torta e di G. Marinello, lì pubblicati. 4 Come noto Vittorio Amedeo II (1668-1732) abdica a favore del figlio Carlo Emanuele il 3 settembre 1730. 5 “[…] sto anche attendendo il Signor Cavaliere Juvara che si è fermato in Brescia” (AST, Materie politiche per rapporto con l’estero, Lettere Ministri, Venezia, mazzo 20. Lettera inviata dal cav. Marini a Torino, al M.se Solaro del Borgo, ministro per gli affari stranieri. Venezia, 29 gennaio 1729). In assenza di relazioni diplomatiche uffi-

ciali, il Marini ricopriva il ruolo di ambasciatore senza carattere dei Savoia a Venezia. 6 Richard Boyle, terzo conte di Burlington (1694-1753). 7 Ringrazio Mr Charles Noble, Curator (Fine Art & Loans) di The Devonshire Collection-Chatsworth per la preziosa collaborazione. Lo studio di Wittkower (R. Wittkower, Un libro di schizzi di Filippo Juvarra a Chatsworth, Satet, Torino 1949) non restituisce la riproduzione dei disegni e al f. 25 dell’album annota: “rappresenta una scena di un porto antico con in primo piano la colonna rostrata”. I disegni ricevuti (f. 25 e f. 9) ci hanno consentito di identificare con chiarezza l’Arsenale di Venezia. 8 Il Lane evidenzia il progressivo accentrarsi in Arsenale della costruzione di navi, anche mercantili. (F.C. Lane, Venetian Ships and Shipbuilders of the Renaissance, John Hopkins University Press, Baltimore 1992). 9 A proposito del proto-fabbricatore, o proto-maestro, si veda: G. Caniato (a cura di), Arte degli squerarioli, Stamperia di Venezia, Venezia 1985, p. 38; G. Marinello, Appendice 1: Costruzione, equipaggio e vendita delle imbarcazioni nel XVIII secolo, in Il Bucintoro dei Savoia: contributi per la conoscenza e per il restauro cit. 10 ASVe, Dispacci, Ambasciatori, Milano, filza 177, 17291730 lettera del residente veneto n. 184, del 2 novembre 1729. 11 Si tratta dei tre peatoni dorati, costruiti nell’Arsenale di Venezia tra il 1732 e il 1734, che trasportavano doge e signoria in occasione di pubbliche solennità, e del Royal Barge del principe di Galles, varato a Londra nel 1732. 12 BRT, Palazzi di Selve, Della Abdicazione del re Vittorio Amedeo, St. Patria 76, libro I, Torino, 1755, manoscritto. 13 Desidero infine ringraziare Maria Paola Niccoli (ASTS.R.) per il supporto fornito nel corso dello sviluppo della ricerca.

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I due volti del Bucintoro sabaudo Alessandra Castellani Torta

Il Bucintoro di Vittorio Amedeo II A differenza delle tante imbarcazioni di corte che nel XVIII secolo come in quelli precedenti hanno presentato carattere o appellativo di bucintoro unicamente per la magnificenza dell’apparato decorativo rilevato in oro, la nave voluta da di Vittorio Amedeo II1 contiene ben più importante riferimento all’imbarcazione dogale. La ritrovata committenza a Venezia dell’imbarcazione sabauda, nel 1729, l’elevato costo (oltre 34000 lire di Piemonte cui va aggiunto il premio al primo architetto di corte Filippo Juvarra), i tempi necessari alla fabbrica e alla navigazione, che ne fissano la consegna a Torino non prima del luglio-agosto 17312, consentono di indagare le motivazioni alla radice della costruzione, nonché i possibili utilizzi in relazione all’operato del demiurgo3 e della sua personalità4. Si può escludere a priori che Vittorio Amedeo intendesse costruire un’imbarcazione di “divertimento” inteso quale puro e semplice svago. Non è infatti consono alla sua forma mentis e all’attenzione costantemente volta a evitare lo spreco di denaro, sia dello Stato che personale, fabbricare un vascello per un’attività che non costituisce loisir né suo né del figlio5. Il Bucintoro di Vittorio Amedeo II, per la sua stessa natura di nave, rappresenta i due maggiori successi del sovrano: il conseguimento della titolatura regia unitamente al raggiunto dominio sul mare. L’imbarcazione dorata porta sia la Sardegna che Venezia sulle acque della città capitale dei possedimenti, che è anche residenza del

sovrano. La presenza della Sardegna sul Po non è solo simbolica: la nave, dotata di bandiera di navigazione del Regno soddisfa la volontà o la possibile esigenza di rappresentare legalmente la terra di Sardegna sulle acque del Po6. La presenza di Venezia è dovuta al voluto riferimento all’imbarcazione dogale e alla cerimonia che per antonomasia lo contraddistingue, lo Sposalizio del mare, con cui viene annualmente conclamato il dominio sul Mediterraneo7. Dal soggiorno nella Serenissima, ove giunge nel febbraio del 1729 per avviare la fabbrica, Filippo Juvarra lascia un disegno che contiene un’importante allusione alla sovranità sulle acque8. All’interno dell’Arsenale, una colonna rostrata, che il Wittkower identifica con quella eretta per onorare la vittoria navale di Caio Duilio sui cartaginesi, costituisce chiaro richiamo al significato del bucintoro dogale quale sede di potere ed espressione di dominio sul mare e, per estensione, riferimento a quello sabaudo con il quale Vittorio Amedeo intende esprimere lo stesso concetto. All’interno del progetto iconografico, invece, il concetto di dominio sul mare è espresso dalla fecondità che esso apporta, rappresentata nella danza sull’acqua di naiadi e tritoni, generati dalle nozze di Nettuno e Anfitrite, i cui carri sono raffigurati sulle due murate9. Il concetto di stato è affidato al timone e al sottinteso presupposto sulla necessità di un valido nocchiero che determini la giusta rotta. Compito bene assolto dal fondatore e che il figlio, ben preparato dallo stesso padre a

Peota Reale, Amedeo VIII di Savoia consegna la tiara a papa Niccolò V, particolare del voltino del tiemo 127


1. La ribolla o timone del Bucintoro sabaudo

seguirne le orme, saprà proseguire nella direzione corretta. La barra del timone è infatti intagliata a forma di drago, o serpente marino, che rinnova annualmente la propria pelle. Le spire avvolgono una maschera dal volto di vecchio, a indicare il tempo che passa e la necessità di un rinnovo, concetto ulteriormente sottolineato da quello della gioventù nel gruppo statuario di poppa, costituito da putti che non a caso montano cavalli marini. La vera chiave di volta del significato del Bucintoro è nella figura del Narciso che, ergendosi trionfante a prua, focalizza l’attenzione dello spettatore oggi come all’epoca. Derivato dalla favola ovidiana, il personaggio mitologico ha qui una posizione contrastante con le note immagini che lo rappresentano chino sull’acqua della fonte a rimirare la propria bellezza, atto che lo porterà alla morte, oppure a terra, immerso nel sangue da cui nasce il fiore che porterà il suo nome. L’impiego di episodi tratti dalle Metamorfosi quale metafora di rinascita in riferimento alla continuità dinastica non è nuovo alla corte di Torino. Si pensi all’omonima sala10 nel Castello del Valentino in cui Cristina di Francia indica, tramite l’immagine dei fiori che sbocciano dal sangue dell’eroe giacente a terra, la continuità di ruolo del figlio Carlo Emanuele, dopo la morte del padre Vittorio Amedeo I episodi che costituiscono la giustificazione della propria reggenza data la minore età del principe11. 128

Il Narciso del Bucintoro di Vittorio Amedeo II presenta un immagine del tutto innovativa e corrispondente ad un pensiero politico diverso. Nel Bucintoro il protagonista della favola si erge vittorioso mentre i fiori sono solo un particolare sulla roccia al suo fianco. L’implicita ricezione in termini politici della vittoria della vita sulla morte indica il criterio dell’immediata successione di un sovrano al suo predecessore; metafora in cui è leggibile il ruolo del fondatore che prosegue nel successore immediato e in quelli futuri. Nel gruppo statuario di prua è leggibile anche il mito di Eco, la ninfa trasformata in roccia con il destino di ripetere per sempre il dolore per il fato dell’amato. Eco e Narciso formano un gruppo con le due statue fluviali di cui l’Inventario dell’imbarcazione ha tramandato il nome, il Po e l’Adige. Mentre il primo ha una connotazione geografica pertinente al Piemonte, non è così per il secondo. Si tratta molto probabilmente di un retaggio delle istruzioni date da Juvarra allo scultore Matteo Calderoni, che ne è l’autore, con indicazione iconografica di noti modelli da seguire. È molto probabile che s’intendesse rappresentare solo il concetto di acqua, che all’epoca non faceva distinzione tra fiumi e mare. Il gruppo di prua è pertanto leggibile come immagine del sovrano del regno Sardegna al di là del mare, rappresentato rispettivamente dal Narciso, da Eco e dal concetto di acqua. Il carattere di Reggia sull’acqua è affidato alle pitture celebrative della dinastia, vera e propria glorificazione indiretta di Vittorio Amedeo. Il dipinto raffigura un episodio della storia genealogica, la pacificazione tra papa Niccolò V e Amedeo VIII, in seguito alla rinuncia di quest’ultimo al soglio anti-romano cui era stato eletto nel corso del concilio di Basilea con il nome di Felice V nel 144012. Per porre fine allo scisma, Amedeo VIII trattò lungamente con Roma ottenendo benefici e privilegi ecclesiastici. Il dipinto allude, sotto forma di metafora storica, a Vittorio Amedeo II e al concordato del 1727 da lui concluso con papa Benedetto XIII, capolavoro diplomatico a opera del marchese d’Ormea13, risoltosi a fa-


vore del Savoia dopo una lunga negoziazione, con il quale furono sostanzialmente confermati i benefici e privilegi ottenuti dall’avo. Il riferimento ad Amedeo VIII consente indirettamente ulteriori confronti: come l’avo è stato primo duca di Savoia, e ha abdicato in favore del figlio, così Vittorio Amedeo, primo re della casata, intende rinunciare al trono. Il riconoscimento del ruolo di vicario imperiale perpetuo, conferito insieme alla nomina ducale dall’imperatore Sigismondo, comporta nel presente l’orgogliosa affermazione dell’antichità della propria legittima indipendenza, argomento particolarmente sentito da Vittorio Amedeo. L’antichità della stirpe è anche concettualmente presente nei pennacchi del soffitto, in cui sono raffigurate “due vittorie rappresentanti di Surani di Savoia”, a ribadire che l’arte militare è da sempre uno dei fondamenti della continuità di potere della dinastia. I motti FERT e OPPORTUNE costituiscono ulteriore rimando a tale considerazione: il primo in quanto collegato ad Amedeo VI fondatore del collare dell’Annunziata14, il secondo all’avo Carlo Emanuele I in quanto suo emblema. Sfumato ai tempi di quest’ultimo per l’evidente richiamo alla teoria del Machiavelli, il motto riportato nel tiemo ha valore di diktat politico per il futuro re a seguire la condotta del padre anche nelle ambiguità di comportamento. Sottolinea il soffitto un fregio a monocromo blu su fondo oro che rappresenta una danza di satiri e ninfe con ghirlande di fiori e frutta, richiamo all’età aurea di virgiliana memoria ed espressione della felicità generata dal buon governo, sotto il quale prosperano anche le arti e le scienze, rappresentate sugli schienali dei sedili. Vista la complessità del progetto globale e i suoi molteplici riferimenti al passaggio di regno, è ragionevole ritenere che la reggia galleggiante sia stata costruita per essere utilizzata all’epoca della cerimonia di abdicazione15. Alla luce di tale considerazione si può presupporre, anche se appare improbabile, che Vittorio Amedeo II abbia affrontato una spesa così elevata con il semplice intento di effettuare una parata cerimoniale sul Po dopo la firma dell’atto. Parrebbe più realisti-

co prendere in considerazione l’intenzione di siglare l’atto di abdicazione nella Reggia sull’acqua. Ipotesi questa, confortata dalla presenza all’interno del tiemo di due piccoli troni dorati, o cadreghe alla dolfina, e da un prezioso tavolo intagliato e rivestito d’oro, arredi ora dispersi ma attestati dall’inventario coevo contenuto nella nota documentazione torinese. Poiché tali arredi costituiscono un notevole impaccio per i dignitari in abbigliamento curiale costretti a prender posto sulle panche laterali in uno spazio limitato, considerate le ridotte dimensioni della cabina, la presenza del tavolo trova plausibile giustificazione nella volontà o necessità di firmare un documento a bordo. La possibilità che il Bucintoro sia stato fabbricato in vista di una cerimonia ufficiale contempla due ulteriori ipotesi. La prima è la risonanza che un evento così concepito avrebbe potuto avere tra le corti e l’opinione pubblica europea, argomento cui Vittorio Amedeo era estremamente sensibile16. In tal caso modello, non per analogia di rituale ma per eco e propaganda suscitati, potrebbe essere la cerimonia sull’acqua svoltasi sull’isoletta posta in mezzo al torrente spartiacque che tuttora segna il confine tra Francia e Spagna in vicinanza dei Pirenei. Tale cerimonia, nota come lo scambio delle principesse sul Bidassoa, ebbe luogo il 9 novembre 1615 in occasione del matrimonio tra Luigi XIII re di Francia e l’infanta di Spagna Anna d’Austria e tra Elisabetta di Francia con il futuro re di Spagna, Filippo IV17. La seconda ipotesi è che Vittorio Amedeo abbia voluto portare la Sardegna sul Po per esigenze di carattere giurisdizionale, all’epoca materia di competenza di Pietro Mellarède18. Come si è visto, il Bucintoro che innalza la bandiera di Sardegna è vera e propria porzione di territorio del regno. All’epoca della committenza Vittorio Amedeo è impegnato dal trattato di Londra del 1718, con cui gli è stata conferita la titolatura di Sardegna, e dall’atto firmato in Cagliari nel 1720 alla presa di possesso del territorio, a non apportare modifiche alle leggi locali19. Indipendentemente dal fatto che siano occorsi due anni per 129


liberare l’isola dalle truppe ispaniche che ancora l’occupavano per la resistenza della Spagna a cedere il territorio, il luogo di apposizione della firma potrebbe indicare che per legge del Regno, mentre la titolatura poteva essere acquisita indipendentemente dal luogo dove veniva firmato l’atto, la presa di possesso dovesse comportare la formalizzazione in loco. Nell’esigenza di seguire la stessa procedura Vittorio Amedeo, impossibilitato per età e malanni a recarsi in Sardegna, non avrebbe certamente affidato a plenipotenziari la firma di un atto importante come l’abdicazione, rinunciando a un ruolo di primo piano nel trasferimento al figlio sia della titolatura che del territorio del regno. La firma apposta a bordo della Reggia sull’Acqua, pertanto, avrebbe reso legali entrambe le procedure. Ove non fosse stato necessario sotto un profilo giurisdizionale siglare l’atto in terra sarda, l’ipotesi di una cerimonia a bordo rimane valida quale volontà di Vittorio Amedeo di uscire di scena con un coup de théâtre di risonanza europea. Anche in caso di morte mentre il Bucintoro è in corso di fabbrica, e quindi con la successione di Carlo Emanuele per diritto di sangue, l’imbarcazione avrebbe potuto essere usata per svariate occasioni cerimoniali, mantenendo funzione di ricordo del ruolo fondamentale avuto da Vittorio Amedeo II nella creazione del Regno. L’abdicazione Mentre il Bucintoro è in costruzione, con il suo carico simbolico volto a celebrare il buon governo del fondatore e il suo ruolo nel passaggio di regno, Vittorio Amedeo decide inopinatamente di cedere il potere al figlio20. La formula di abdicazione rimette a Carlo Emanuele tutti gli stati “al di qua e al di là del mare”21; e riprende, seppur in forma edulcorata, i concetti già espressi come testamento morale nei dipinti all’interno del tiemo. La difesa della fede nella chiesa cattolica romana, proclamata nel testo come valore osservato dalla casata, ha come sottinteso significato politico l’invito a proseguire nella distinzione tra gli aspetti religiosi e quelli attinenti gli affari di stato; l’esortazione a governare secondo 130

giustizia e con rispetto dei sudditi è fondamentale premessa per il mantenimento di uno stato prospero e pacificato per il bene della popolazione, raffigurato nel Bucintoro come età aurea; lo speciale riguardo riservato alle truppe che con la loro dedizione e il loro sangue da sempre hanno consentito le vittorie militari dei Savoia è, come si è visto, anch’esso rappresentato nel tiemo. Ufficialmente attribuita alle precarie condizioni di salute del sovrano, la frettolosità della rinuncia al regno è stata da alcune fonti collegata ad altre impellenti motivazioni22. Conforta quest’opinione non solo la costruzione stessa del Bucintoro, di per sé forse di scarso peso, ma anche altri segnali. Tra questi l’immediato abbandono di Torino per l’esilio volontario di Chambéry, prima di vedere aperte al culto le real chiese di Sant’Uberto alla Venaria Reale e di Superga23, opere alla quali attendeva sin dai tempi della nomina a re di Sicilia e ormai ultimate. Non sarebbe quindi da escludersi che la ben nota tesi alternativa relativa a un ennesimo cambio di schieramento di Vittorio Amedeo, questa volta a detrimento dell’impero, corrisponda perlomeno parzialmente a realtà. L’anziano sovrano potrebbe essersi reso conto della pericolosità per i territori sabaudi di una sua apertura nei confronti di Francia e Spagna che avrebbe potuto suscitare un rapido intervento militare dell’imperatore Carlo VI. Infatti, alle frontiere del Piemonte, nel Milanese e Mantovano, era una formidabile armata di circa 47.000 uomini tra fanteria e cavalleria che, se pur presente per far fronte alla crisi di successione del ducato di Parma, poteva in qualunque momento esser deviata dall’imperatore contro il Savoia24. Una lettera indirizzata dal conte Filippi, residente cesareo a Torino, al principe Eugenio di Savoia, plenipotenziario per l’impero in Italia, riporta le parole che Vittorio Amedeo lo ha incaricato di riferire. Pare di poter scorgere in esse la risposta a una minaccia di Carlo VI. Vittorio Amedeo sembra voler scongiurare un imminente pericolo con l’immediato allontanamento della sua persona non solo da ogni ulteriore azione di governo ma anche dal territorio piemontese.


La partenza per l’esilio volontario di Chambéry avviene infatti la mattina susseguente all’atto, che come si è visto è stato firmato il giorno 3 settembre, ma la decisione è già stata anticipata al conte, che ne riferisce immediatamente al principe Eugenio25. Il sovrano abdicatario si appella pertanto al cugino come intermediario presso l’imperatore a protezione del figlio, non responsabile di eventuali azioni precedenti: […] Je lui recomande mon Fils, et qu’il se souvienne, que nous venons tout du meme sang […]. J’ay eu du malheur: mes services ne sont pas eté reconnu, ainsi je

2. Gruppo statuario di prua: Narciso, Eco e la simbologia dell’acqua

ne veux plus servir a Personne, et ne veux songer, qu’au salut de mon ame. Je m’en vais en Savoje, ma demeure serà a Chamberi, ou je trouverais des vieux amis avec les quels je vivrais comme avec des bons amis.

Il Bucintoro di Carlo Emanuele III Non è solo l’abdicazione di Vittorio Amedeo II, avvenuta mentre la fabbrica del Bucintoro è in corso d’opera, a cambiare drasticamente il destino dell’imbarcazione che, progettata per celebrare i fasti del padre, la fondazione del regno e il passaggio di potere, diventa imbarcazione per il “divertimento” di Carlo Emanuele III e della consorte Polissena d’Assia-Rheinfels, come testimonia il documento di consegna al concierge del Valentino già citato da Giovanni Vico26. Si tratta di una specifica non necessaria, che indica un utilizzo particolare e limitato: il semplice “per servizio di S. Maestà”, dicitura frequentemente usata per forniture di corte, e menzionato nella richiesta di lasciapassare ai potentati rivieraschi del 30 giugno 1731, parrebbe essere ragione più che sufficiente. In effetti il proclamato utilizzo è dovuto alla crisi dinastica causata dal ritorno dell’anziano sovrano. I tempi sono mutati e nel loro mutare sono scorse vicende politiche anche dolorosamente umane. Durante la costruzione del Bucintoro Vittorio Amedeo attende da Chambéry di essere tenuto a conoscenza dell’operato del figlio a Torino, come espressamente richiestogli alla partenza per l’esilio volontario. Le relazioni inviate, all’inizio

regolari, si rarefanno a partire dal febbraio 1731, mentre i rapporti personali si inaspriscono per i contrasti su alcune questioni di governo, in primis il modo di condurre le trattative con la corte di Roma, ove il nuovo pontefice Clemente XII mette in discussione le clausole del concordato amedeano del 1727. Il mese di agosto 1731, mentre il Bucintoro è in navigazione alla volta di Torino, segna una rottura tra padre e figlio, che avviene nel corso di un viaggio in Savoia di Carlo Emanuele III. Al suo rientro, avvenuto il 22 agosto, segue una settimana più tardi il ritorno dell’anziano sovrano, che si stabilisce nel Castello extraurbano di Moncalieri. Dalla corte di Torino, principalmente a opera del marchese d’Ormea27, si diffondono voci di un possibile complotto di Vittorio Amedeo per riprendere il potere e di una sua probabile volontà di ricorso all’imperatore per dirimere il conflitto interno allo stato. La crisi dinastica si conclude brutalmente, sempre sotto la condotta del d’Ormea, con l’arresto di Vittorio Amedeo il 28 settembre 1731 e la reclusione nel Castello di Rivoli, fino alla morte il 31 ottobre 1732 a Moncalieri, ove era stato ricondotto. È anche ben nota la riluttanza di Carlo Emanuele a non raccogliere le richieste di visita fattegli pervenire dal padre e a firmare l’ordine di arresto. La concomitanza tra l’arrivo del Bucintoro e la crisi dinastica è sorprendente. Vista la data di partenza da Venezia e tenendo conto del mese necessario alla navigazione, pare pertanto ragio131


nevole ipotizzare che la consegna fosse programmata per un’uscita sull’acqua intesa come celebrazione del primo anno di regno di Carlo Emanuele III, il giorno stesso o nei dintorni del 3 settembre, data della sua salita al trono. Conforta quest’ipotesi una delle Istruzioni consegnate alla partenza da Venezia da padre Ceccati, esecutore dell’aspetto finanziario del Bucintoro, al “sovraccarico” e scrivano di bordo Antonio Brunello, documento restituito dal fondo Torino-Valentino. In prossimità della capitale, la nave dovrebbe infatti fare sosta alla chiesa della Madonna del Pilone28, in attesa di ulteriori ordini della corte sabauda. La posizione della chiesa è celata da un’ansa del Po alla vista della città; all’epoca la località era dotata di una larga piattaforma di attracco creata ai tempi della costruzione della reale chiesa di Superga per lo sbarco dei marmi a essa destinati. Facilmente raggiungibile via terra da Torino mediante la carrozzabile per Casale, pare luogo adatto a un rapido riallestimento del Bucintoro (si tenga a mente che l’apparato statuario ha viaggiato imballato in cassoni) e per la salita a bordo di Carlo Emanuele III e la navigazione verso Torino a effetto sorpresa. Tanto più che una lettera, anch’essa parte della documentazione Torino-Valentino, ren-

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de noto il desiderio di segretezza della corte29. Se infranta essa potrebbe sminuire la meraviglia, nel senso barocco e teatrale del termine, suscitata dalla comparsa della nave d’oro in vista della città. Ma quando il Bucintoro giunge nel porto di Crescentino il 28 agosto, viene comunicato l’ordine di corte di portarsi direttamente al Valentino, senza la prevista sosta al Pilone. L’imbarazzante ritorno di Vittorio Amedeo II, evidentemente noto alla corte, sconsiglia la più che probabile entrée verso Torino per via d’acqua. Tuttavia nel corso del mese di settembre, il Bucintoro viene frequentemente utilizzato da Carlo Emanuele III, come chiaramente documentato30. Quando tutti i regnanti d’Europa si interrogano sugli avvenimenti di Torino, l’apparizione fisica del giovane re sull’imbarcazione d’oro con le insegne di Sardegna costituisce per gli osservatori esteri, per la stessa corte e per i sudditi, un forte segno di centralità e di continuità del potere. Applicando i concetti appresi dal padre ed esplicitati all’interno del tiemo, Carlo Emanuele III applica il concetto del motto OPPORTUNE riconducendolo a uno dei suoi significati, l’arte della dissimulazione.


Per Vittorio Amedeo II si veda: D. Carutti, Storia del Regno di Vittorio Amedeo II, Felice Le Monnier, Firenze 1863; G. Symcox, Vittorio Amedeo II, l’assolutismo sabaudo, Societa Editrice Internazionale, Torino 1989; A. Merlotti, Vittorio Amedeo II: La costruzione di una potenza europea, in La Reggia di Venaria e i Savoia. Arte, magnificenza e storia di una corte europea, a cura di E. Castelnuovo, catalogo della mostra (Reggia di Venaria Reale, 12 ottobre 2007 - 30 marzo 2008), Allemandi, Torino 2007. vol. I, pp. 49-56, cui si rimanda anche per una bibliografia aggiornata. 2 Si veda in questo stesso volume il contributo di Giorgio Marinello. 3 Il termine è ripreso da G. Ricuperati, che definisce il sovrano “individuo demiurgico”. Si veda G. Ricuperati, presentazione in G. Symcox, Vittorio Amedeo II, l’assolutismo sabaudo 1675-1730, SEI, Torino 1985, p. XIX. 4 Vittorio Amedeo II costruisce progressivamente il proprio potere mediante una machiavellica politica di cambio di alleanze, che lo vede partecipare a fianco dell’impero nei conflitti che arrestano l’espansionismo di Luigi XIV in Europa, la guerra della Grande Alleanza (1688-1697) e quella di successione spagnola (17011713). Con il trattato di Utrecht, che nel 1713 conclude il conflitto, Vittorio Amedeo II ottiene, grazie al personale valore militare e all’abile scelta dei propri rappresentanti al tavolo delle trattative, il titolo di re di Sicilia. A Utrecht l’imperatore Carlo VI non riconosce titolo e territorio di Sicilia a Vittorio Amedeo. Riconoscerà invece quello di Sardegna sottoscritto nel trattato di Londra con l’affidamento fattogli dalle potenze firmatarie di rimetterlo al Savoia. Pur con il diminutivo cambio della titolatura di Sicilia con quella di Sardegna, forzatamente accettato con il trattato di Londra del 1718 ed effettivo dal 1720 con la cessione del territorio, Vittorio Amedeo II raggiunge al contempo due obiettivi a lungo e separatamente perseguiti dai predecessori: il titolo regio di Sardegna, comporta infatti l’importante affaccio sul mare che gli consente, pur in assenza quasi totale di flotta, di controllare con l’appoggio dell’Inghilterra il traffico commerciale e militare del Mediterraneo e di ottenere riconoscimento internazionale quale potenza marittima. La fondazione del regno non è limitata alla conquista del titolo e del dominio sul mare: con le note riforme in materia fiscale, amministrativa e giuridica, con il potenziamento dell’esercito e il rinnovato assetto dell’università, Vittorio Amedeo ha saputo porre le basi di uno stato moderno, solido strumento di buon governo per i futuri regnanti della sua casata. Contemporaneamente, e nel modo pragmatico a lui congeniale, ha avviato la trasformazione di Torino in città capitale dei territori a vario titolo posseduti, nonché luogo scelto quale residenza reale. La visibilità del titolo è assicurata non solo dalla magnificenza delle residenze e delle chiese reali della Venaria e di Superga, ma anche dalla funzionalità degli edifici governativi, monumenti perenni all’operato del Demiurgo concepiti da Filippo Juvarra, che coniuga con geniale abilità la bellezza 1

dell’architettura e la piena adesione al pensiero del sovrano. Negli ultimi anni di regno, Vittorio Amedeo consegue ulteriori successi diplomatici che pongono fine al lungo contenzioso con il papato. Benedetto XIII riconosce il titolo regio nel 1726; l’anno seguente approva il concordato nei termini voluti da Torino; e nel 1728 concede il breve pontificio di erezione della cappella regia, la cui formazione avviene nel corso del 1729-1730. 5 L’uscita in barca, come quella in slitta, appare infatti attività più riservata alle dame di corte e ai loro accompagnatori, che non una consuetudine del sovrano. Notoriamente alieno da balli, festeggiamenti e spettacoli, che considera un inutile sperpero, Vittorio Amedeo II per decisa scelta riconosce importanza soltanto all’opera in musica in quanto, se rappresentata in un teatro pubblico, costituisce strumento politico atto ad abolire tutta una serie di privilegi. Si veda M. Viale Ferrero, Itinerario per le feste perdute, in Feste Barocche. Cerimonie e spettacoli alla corte dei Savoia tra Cinque e Settecento, a cura di C. Arnaldi di Balme, F. Varallo (Torino, Museo Civico d’Arte Antica - Palazzo Madama, 7 aprile - 5 luglio 2009), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2009, p. 46. Diporto reale è la caccia, che in questi anni si va sviluppando sempre più in magnificenza e funzione cerimoniale, e per cui non vengono lesinate spese. Proprio nel 1729 infatti viene avviata a tal specifico scopo la costruzione della palazzina di Caccia juvarriana a Stupinigi, che va ad aggiungersi allo sviluppo già avuto in tale direzione dalla reggia della Venaria Reale. 6 L’imbarcazione è dotata di tre bandiere con le “armi impresso di Sua M:tà”: è per antico diritto marittimo vera e propria porzione di territorio del regno. 7 Si veda L. Urban, Il Bucintoro, la Festa e la Fiera della Sensa, dalle origini alla caduta della Repubblica, Centro Internazionale della Grafica di Venezia, Venezia 1988. L’affinità dell’imbarcazione sabauda con il Bucintoro veneziano è stata categoricamente negata da L. Rovere in Il Bucintoro di Venezia e la Peota di Carlo Emanuele III di Savoia, in “Torino”, Rassegna Mensile della Città, 1931, p. 487. Di conio dello stesso Rovere è la riduttiva denominazione “Peota Reale”, priva di fondamento storico. Ancora in epoca napoleonica, in un inventario del 1810 conservato nel noto fondo archivistico Torino-Valentino, viene fatta distinzione tra il Bucintoro e due altre peote, all’epoca custodite al Castello del Valentino. “P°Le Bucentaure construit de bois fort, coloré en fond rouge avec des ornements en rélief sculptés et dorés […]. Au milieu de ce bâteau il se trouve un longement couvert ayant sur les deux cotés cinq fenêtres.” “2° Deux Péottes avec longement au milieu à lattes colorées dont une avec des ornements sculptés et dorés […]”. 8 Il disegno in questione, foglio 25 dell’album nelle collezioni di Chatsworth House, è commentato ma non riprodotto in: R. Wittkower, Un libro di schizzi di Filippo Juvarra a Chatsworth, Satet, Torino, 1949, p. 14. 9 Un ringraziamento a Gérard Sabatier che ha rilevato questo importante particolare nel corso di una visita al Laboratorio di restauro Nicola di Aramengo, dove al tempo era custodito il Bucintoro.

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C. Roggero, A. Scotti, Il Castello del Valentino, Politecnico di Torino, Edizioni L’arciere, Borgo San Dalmazzo (Cn) 1994, p. 75. Il tema della morte dell’eroe e della sua rigenerazione in forma di fiore lega i quattro episodi Giacinto, Piramo e Tisbe, Aiace, Prometeo. 11 Per la reggenza della prima Madama Reale si veda C. Rosso, Le due Cristine: Madama reale fra agiografia e leggenda nera, in F. Varallo (a cura di), “In assenza del re. Le reggenti dal XIV al XVII secolo (Piemonte ed Europa)”, Leo S. Olschki, Firenze 2008, pp. 367-392. 12 P. Monod, Amadeus Pacificus, 1616; F. Cognasso, Amedeo VIII: 1383-1451, G.B. Paravia & C., Torino 1930; F. Cognasso, Amedeo VIII: 1383-1451, G.B. Paravia & C., Torino 1930; E. Mongiano, La cancelleria di un antipapa: il bollario di Felice V (Amedeo VIII di Savoia), Deputazione Subalpina di Storia Patria, 1988; Maria Josè di Savoia, Le origini di Casa Savoia, Amedeo VIII, tomo secondo, Mondadori, Milano 2001. 13 G. Ricuperati, La scrittura di un ministro: a proposito della Relazione sulle Negoziazioni con la corte di Roma di Carlo Vincenzo Ferrero, marchese d’Ormea, in “Rivista Storica Italiana”, vol. CXIV, fasc. II, agosto 2002 e B. Alice Raviola, “Le tout-puissant” l’Ormea nella corrispondenza degli ambasciatori francesi, in A. Merlotti (a cura di), Nobiltà e Stato in Piemonte, I Ferreo d’Ormea, atti del Convegno Torino-Mondovì, Zamorani, Torino 2002. 14 Si veda a tal proposito: P. Cozzo, La Chiesa e gli ordini cavallereschi. Dimensione religiosa e risvolti istituzionali fra età moderna e contemporanea, in A. Barbero, A. Merlotti (a cura di) “Cavalieri. Dai Templari a Napoleone. Storie di crociati, soldati, cortigiani”, Electa, Verona 2009, p. 163. 15 Tale cerimonia non poteva essere prevista prima del maggio-giugno del 1731. Si tenga in mente che dai calcoli effettuati sui tempi di costruzione, a cui va aggiunto il mese di navigazione necessario alla consegna, il Bucintoro non può giungere a Torino prima del luglio agosto del 1731. 16 Nella propaganda amedeana, sia prima che dopo il conseguimento del titolo reale, ha grande rilievo l’opera del veronese Scipione Maffei, savant cosmopolita cui viene dato accesso agli archivi gelosamente custoditi. Quale auctoritas bene accetta sia presso le corti europee che gli ambienti intellettuali, egli contribuisce a diffondere l’importanza della dinastia dei Savoia anche nel passato, smentendo rumori connessi alla recente acquisizione del titolo regio. Si vedano le numerose pubblicazioni di Gian Paolo Romagnani e in particolare Il “parere” di Maffei per l’Università di Torino e la sua opera per il lapidario, in Nuovi studi maffeiani, atti del convegno “Scipione Maffei e il museo maffeiano” (Verona, 18-19 novembre 1983), Comune di VeronaDirezione Musei, Verona 1985, pp. 311-329; Scipione Maffei e il Piemonte, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, 84, 1986, 1, pp. 113-227; La culture dans le Royaume de Sardaigne pendant l’époque des lumières, in Bâtir une ville au siècle des lumières, Archivio di Stato, Torino 1986, pag. 457-467. 10

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17 Si veda nell’insieme: M.J. del Río Barredo, Imagénes para una cerimonia de frontera. El intercambio de las princesas entre las cortes de Francia y España en 1615, in “La historia imaginada, Costrucciones visuales del pasado en la edad moderna”, Joan Lluís Palos e Diana Carrio-Invernizzi, CEEH Centro de Estudios Europa Hispánica, Madrid, 2008. L’eco suscitata fu vastissima e la descrizione dell’evento ebbe numerose relazioni a stampa anche tempo dopo l’avvenimento, in Spagna e soprattutto in Francia, dove l’evento fu oggetto di studio da parte dello storico e giurista esperto di cerimoniali francesi, Théodore Godefroy, autore di L’Ordre et cérémonies observées aux mariages de France et d’Espagne [...] entre Louys XIII [...] et Anne d’Autriche, et entre Philippes IV, roy d’Espagne et Elisabeth de France [...], E. Martin, Paris 1627. 18 Si veda A. Merlotti, ad vocem Pietro Mellarède de Bettonet, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LXXIII, Istituto dell’Encicloperia Italiana, Roma 2009. 19 L’atto è firmato l’8 agosto 1720 dai due rappresentanti di Savoia e dell’Impero, rispettivamente il Pleinpouvoir Lieutenant Maréchal Desportes e Giuseppe de’ Medici principe di Ottaiano, e viene successivamente ratificato il 24 agosto da Vittorio Amedeo II, e il 10 ottobre dall’imperatore Carlo VI. I testi del trattato di Londra e dei successivi atti sono pubblicati in E. Mongiano, “Universae Europae securitas”. I trattati di cessione della Sardegna a Vittorio Amedeo II di Savoia, Giappichelli, Torino 1995, pp. 128-130. L’adesione alle clausole del trattato di Londra presenta difficoltà anche in campo amministrativo, come viene sottolineato da P. Merlin, Per una storia dei vicerè nella Sardegna del Settecento: gli anni di Vittorio Amedeo II, in P. Merlin (a cura di), Governare un regno. Vicerè, apparati burocratici e società nella Sardegna del Settecento, Carocci editore, Roma 2005, p. 31. 20 L’atto di abdicazione viene letto il 3 settembre 1730 nel Castello di Rivoli, non a caso nella stanza di Amedeo VIII, i cui affreschi riconducono ai dipinti all’interno del tiemo e ai plurimi significati del parallelo ivi istituiti con l’avo. L’atto è pubblicato da Felice Amato Duboin, Raccolta per ordine di materie di leggi, editti, manifesti […], tomo VIII, vol. X, libro 7, Eredi Bianco e Comp., Torino 1832, pp. 36-37; D. Carutti, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Felice Le Monnier, Firenze 1863, pag. 504-506 21 Dato che il regno non ha continuità territoriale con gli altri possedimenti ma ne è separato dalle acque, la designazione dell’insieme dei territori è diventata nel linguaggio amministrativo “al di qua e al di là del mare”, in sostituzione dell’antico citra e ultra montes. 22 Come è noto la vicenda dell’abdicazione di Vittorio Amedeo ha due versioni ufficiali: Le memorie aneddotiche sulla corte di Sardegna del Conte Blondel, ministro di Francia a Torino sotto i re Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III, edite da Vincenzo Promis, in “Miscellanea di Storia italiana”, XIII, 1871, pp. 487-489 e la versione affidata nel 1755 da Carlo Emanuele III all’abate Palazzi di Selve, Della Abdicazione del re Vittorio. Esiste anche una


versione dei fatti non ufficiale e discorde, pubblicata anonima ma riconosciuta opera di Alberto Radicati di Passerano, The History of the Abdication of Victor Amedeus II, late King of Sardinia, with his confinement in the Castle of Rivole [...]. Edita per la prima volta a Londra nel 1732, il booklet ebbe numerose edizioni sia a stampa che manoscritte e grande diffusione in Piemonte e in Europa. Segue questa versione, più convincente sia sotto il profilo politico che sotto quello militare, lo storico C. Paoletti, in Idem, Il principe Eugenio di Savoia, Stato Maggiore dell’Esercito Ufficio storico, Stabilimento Grafico Militare, Gaeta 2001, pp. 526-528. 23 Per la chiesa di Sant’Uberto si veda: A. Castellani Torta, Giorgio Marinello, La queste di Sant’Uberto, in F. Pernice (a cura di), La chiesa di Sant’Uberto a Venaria Reale. Storia e Restauri, Celid, Torino 2003, pp. 81-97. Per quanto riguarda Superga, Vittorio Amedeo riuscì a fondare la Reale Congregazione della Madonna di Superga il 26 agosto 1730 a una settimana dall’abdicazione. La chiesa fu aperta al culto l’1 novembre 1731 da Carlo Emanuele III. 24 Paoletti, Il principe Eugenio di Savoia cit., p. 526 asserisce che “La situazione cominciò a peggiorare nel marzo del 1730, quando truppe imperiali iniziarono a scendere in Italia. In maggio erano già 30.000 ed entro settembre sarebbero ascese a 60.000 fanti e 20.000 cavalieri”. Tra i dati relativi alla consistenza delle truppe, riscontrabili in varie fonti archivistiche, emergono con chiarezza quelli comunicati da Venezia a Torino dal cavalier Marini, in particolare nella lettera che specifica in dettaglio la situazione nella penisola italiana. Lettera del cavalier Marini al ministro per gli affari stranieri, marchese Ignazio Francesco Solaro del Borgo, 3 agosto 1730, in AST, materie Politiche per rapporto con l’estero, lettere Ministri, Venezia, mazzo 56, Venezia. 25 La lettera del conte Filippi inviata a Vienna a S.A.S. il

principe Eugenio di Savoia è in data 3 settembre 1730. L’epistola era stata citata in precedenza da A. Tassoni d’Este, diplomatico laureato in giurisprudenza e archivistica, senza menzione della fonte. Si veda A. Tassoni Estense, Eugenio di Savoia, Garzanti, Milano 1939, p. 195 e da Paoletti, Il principe Eugenio di Savoia cit., p. 527. L’originale è stato individuato negli archivi di Vienna: Österreichisches Staatsarchiv, Haus-, Hof-und Staatsarchiv, Staatenabteilungen Sardinien 2, fol. 1-30, Copie di relationi et altre lettere, dalli 24 giugno 1730 sino li 14 luglio 1731. Philippi. Si ringrazia il professor Leopold Auer. 26 G. Vico, Il Real Castello del Valentino, Stamperia Reale, Torino 1858, p. 45. 27 G. Ricuperati, La scrittura di un ministro: a proposito della Relazione sulle Negoziazioni con la corte di Roma di Carlo Vincenzo Ferrero, marchese d’Ormea, in “Rivista Storica Italiana”, vol. CXIV, fasc. II, agosto 2002 e B. Alice Raviola, “Le tout-puissant” l’Ormea nella corrispondenza degli ambasciatori francesi, in A. Merlotti (a cura di), Nobiltà e Stato in Piemonte, I Ferreo d’Ormea, Atti del Convegno Torino-Mondovì, Zamorani, Torino 2002. 28 “8° […] proseguendo il viaggio da Casale a Torino, quando sarete giunto alla Madonna del Pilone, doverete fermarvi collà, e spedire un homo delle Barche a Torino ad avisarmi ne partire dalla madonna del Pilone, se non vengo io stesso […]” (AST, Fondo Torino-Valentino, fasc. 1.1/f. 98v). 29 AST, Fondo Torino-Valentino, fasc. 1.2/4. Lettera del sig. Vagnera, direttore della Gabella del Tabacco, a padre Ceccati. Torino, 11 agosto 1731. 30 “Alli Barcaroli, che hanno servito in d.e occasioni à remigar per g.te n° 178 tra tutti dalli 15 a 30.7bre à Ss 20 cad.o […] 178”. BRT, Registro terzo Discarichi dal 1727 sin per tutto il 1731 (1727-1731), p. 356.

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Da Venezia a Torino risalendo il Po Luigi Griva

Nel giugno 1731 il Bucintoro realizzato per i Savoia su uno scafo di peota, costruita da Mastro Antonio di Burano, è ormai pronto per la consegna a Torino. Il padre Cristoforo Ceccati, l’agostiniano che ha diretto l’operazione per conto di Carlo Emanuele III, ne ha predisposto l’allestimento lusorio presso lo squero di mastro Zuanne, in rio dei Mendicanti a Venezia. I lavori sono stati seguiti dal confratello padre Francesco Gandolfi, che ha quotidianamente controllato l’avanzamento dell’opera da parte di marangoni, calafati, artigiani e artisti. L’imbarcazione dei Savoia è veramente splendida1: il padre Ceccati ha dovuto rinunciare all’idea di chiederne il progetto ad Antonio Corradini, lo scultore che ha diretto la realizzazione – per conto del Senato Veneto – dell’ultimo bucintoro dogale, quello varato nel 1729, perché questi è stato chiamato a corte, a Vienna2. Tuttavia, il padre Ceccati ha trovato ugualmente – nella fraglia degli intagliatori veneziani – artisti giusti; come quel Matteo Calderoni, ch’egli ha voluto capomastro dell’intaglio, che aveva già lavorato con Corradini, proprio per il grande bucintoro dogale, e lo scultore Egidio Goyel, che ha intagliato la ribolla, la grande barra di manovra del timone3. Il risultato è ora davanti a loro, ed è decisamente ammirevole, anche in una città, come Venezia, abituata a vedere sfilare, alla Sensa e al Redentore, le più belle barche del mondo4. La nave lusoria misura quasi 16 metri di lunghezza per altri 2,50 di larghezza al centro, dove ospita una cabina con dieci finestre, destinata ai reali sabaudi e ai loro ospiti. La prua, che sporge di circa mezzo metro, si eleva di un metro e mezzo, e fornisce un piedestallo ideale per le figure dorate,

un Narciso che si protende per specchiarsi nelle acque della laguna, affiancato da due divinità fluviali – il Po e l’Adige –, ritratte sotto forma di vecchioni che versano acqua da otri, secondo l’atteggiamento solito della statuaria classica. Anche la sensazione cromatica non è da meno. Al nero dell’opera viva della nave fanno contrasto il colore rosso cinabro dell’opera morta – la parte che emerge oltre la linea di galleggiamento e le dorature delle statue e della fascia che corre lungo le murate. A poppa, ci sono altre sculture di cavalli marini, putti, e uno splendido timone scolpito, la cui asta di manovra raffigura un drago. La cabina centrale – tiemo in veneziano – misura 5 metri per l’altezza di 2, e presenta cinque finestre vetrate per lato, alcune delle quali munite di vetri scorrevoli. Gli ingressi della cabina sono sormontati da intagli riproducenti gli stemmi e la corona sabauda. Non è stata impresa facile, pensa il padre Ceccati. Dalla corte sabauda, a parte le belle parole, non c’è stato alcun acconto, ed è toccato a lui occuparsi anche dei finanziamenti. Certo, si è trattato di un impegno inferiore a quelli per l’ultimo bucintoro dogale, venuto a costare 7000 ducati. Per fortuna aveva trovato credito presso il banchiere Durando, e i patrizi Nicolò Venier e Gaetano Gradenigo. Per non parlare della disponibilità, dimostrata a più riprese dal fratello Bonaventura, un mercante di stoffe che abita a San Francesco. Trovare fondi per l’ultima fase, il viaggio di risalita lungo il Po, da Venezia a Torino, è stato il più difficile, e ha dovuto chiedere anche al confratello Gandolfo. Ma ora è tutto pronto.

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1. Venezia, Pianta prospettica di Jacopo de’ Barbari, 1500, particolare con l’Arsenale. Venezia, Museo Correr

Numerosi documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Torino, ci consentono di ricostruire la vicenda della costruzione e dell’alaggio contro corrente, lungo il Po, del Bucintoro da Venezia a Torino. Si tratta di una miscellanea, racchiusa sotto il titolo Lettere e Conti concernenti il Bucintoro, e Gondola fatti costruire da S.M. in Venezia nel 1731 e già esistenti nel Real Castello del Valentino, conservata all’Archivio di Stato di Torino5. Anzitutto il padre Ceccati ha lasciato al converso frate Antonio Brunello, incaricato di accompagnare sul fiume la preziosa consegna, delle Instrutioni di quello dovrà fare, et eseguire per il viaggio che farà per sovracarico della peota, o sia Bucintoro che mando in Torino per servitio di S.M. di Sardegna. Oltre alle Instrutioni, il Brunello ha ricevuto un fondo spese, accompagnato da una Notta del soldo consegnato da spender per il viaggio. Come si è impegnato, il converso registra man mano le spese che effettua in una Nota delle spese fatte da me sotto scritto in qualità di sopra carrico per la condota del Bucintoro, e Gondola di S.M. di Sardegna, da Venezia a Torino […] e da questo suo “diario di bordo” possiamo ricostruire l’itinerario in risalita del convoglio. Altre note di spese, presenti nel carteggio, sono quelle del padre Gandolfo. La cronologia è stata controllata sull’Almanacco Palmaverde per l’anno 17316. La preparazione del viaggio Bonaventura Ceccati, il fratello di padre Cristoforo, è un mercante veneziano – abita a San Fran138

cesco – come figura dalla Nota dell’esposto in Venezia da me sottoscritto per il Bucintoro e Gondola di S.M. di Sardegna, è anche il primo finanziatore dell’impresa, e aveva anticipato delle spese anteriormente alla redazione della Nota. La sua funzione risulterà essenziale quando, essendo morto il fratello a Milano, e sottratto o andato perduto il libro mastro delle spese, il veneziano collaborerà col generale delle Finanze alla ricostruzione dei movimenti finanziari dell’impresa, che per lui e la sua famiglia rappresentano l’asse ereditario. Dalla ricostruzione a posteriori delle spese effettuate, risulteranno tuttavia vuoti e imprecisioni non risolvibili. A Bonaventura Ceccati è intestata la bolletta “Esenti d’uscita” conservata nel carteggio, che registra i ventiquattro colli imbarcati sulle tre imbarcazioni del convoglio. Dai conti di Bonaventura Ceccati ci si rende anche conto di quanto laboriosa possa essere stata l’operazione di imballaggio e protezione delle sculture del Bucintoro e della gondola. Sono state acquistate “pezze 18 telle incerade per coprir il Bucintoro […] cassoni da poner dentro le draperie et intagli dorati […] risme (di) carta per coprir le indorature”. L’“imballatura”, con le mance agli operai, è costata 154 lire venete. Intanto, il generale delle Finanze ha usato i suoi contatti presso i governi dei paesi rivieraschi per ottenere i permessi necessari al transito sul fiume. Cronologicamente è il re di Sardegna a emettere il primo documento. Si tratta dell’Ordine, in data 30 giugno 1731, con il quale Carlo Emanuele “colle presenti di nostra mano firmate ordiniamo a tutti li nostri Governatori, Comandanti e altri Officiali […] di lasciare liberamente passare una peota con gli arredi, che vi sono dentro, e le persone destinate a condurla, la quale facciamo venire da Venezia qua per il nostro servizio, senza recargli né permettere gli venga recato impedimento, o ritardo alcuni di sorta”7. Il lasciapassare del generale della Marcanzia dello Stato di Milano, Carlo Gerolamo Negri – un personaggio che incontreremo più avanti nella vicenda, alla morte del padre Ceccati a Milano –, è in data 11 luglio 1731. L’ordine del reggitore dei Dazi della Repubblica veneta, Lorenzo Maria Cossali, è invece del 29 luglio


1731. Oltre al comando di lasciare liberamente passare il carico di ventiquattro colli, intima anche “a chiunque di (non) aprire, o sciogliere li coli medesimi”. Il 31 luglio 1731 inizia il carico. Della stessa data è la bolletta “Esenti d’uscita” n. 7127, emessa a nome di Bonaventura Ceccati. Nei documenti non è specificato se le operazioni si siano svolte presso lo stesso cantiere di allestimento, allo squero “alli Mendicanti”, ma è la soluzione più razionale. Esiste un inventario, scritto dal Brunello, “di tutto quelo si è caricato nel Burchiello, e nella peota”. La gondola segue a traino. Nel burchiello, che è stato appositamente acquistato per 8 zecchini, 176 lire di Venezia8 come imbarcazione di appoggio al trasporto, viene caricata anzitutto la caponera ossia il felzo, la copertura della gondola. Sempre attinenti a quest’ultimo sono “fornimenti di damasco, i cuscini, e due coperte di tela nera”. Ancora sul burchiello vengono caricati i mobili di bordo del Bucintoro, i prospetti di prua e poppa, una cassa lunga con la bandiera; sono complessivamente otto cassoni, casse e cassette. La cassa più pesante è quella contenente dieci vetri molati destinati al tiemo. Ne sono giunti sino a noi nove. All’interno della cassa con gli intagli, a evitare rotture, sono state messe delle spugne. I fregi e le sculture non movibili sono stati imballati con stracci e carta da Paolo Simonatto, il carpentiere che ha preso servizio il 19 luglio; quindi ricoperti con incerate. Nel Bucintoro sono stati imbarcati elementi propri della imbarcazione lusoria, come il timone dorato e la splendida ribolla, lunga oltre tre metri, e scolpita da mastro Egidio Goyel a forma di drago; le forcole (scalmi) da parata, quelle di ricambio e i remi. Sono inoltre stati caricati i colli di maggior valore, come i regali destinati a Sua Altezza, le commissioni per i confratelli di Pavia, il modello di abito da barcaiolo che a Torino sarà riprodotto per tutto l’equipaggio del Bucintoro sabaudo, bauli, scatole e cassette riempiono all’inverosimile le stive delle due navi. Il viaggio di risalita prevede il traino con cavalli o buoi lungo le alzaie, i camminamenti posti sugli argini del fiume. L’operazione necessita di due squadre: una a terra per guidare gli animali e far

2. Antonio Canal, detto il Canaletto, Ponte sull’arsenale. Woburn, Collezione duca di Bedford

superare i canapi ogniqualvolta si incontrano ostacoli, come le sagome dei molini natanti, dei porti e dei traghetti, e l’altra composta da padroni e barcaioli e suddivisa sulle tre imbarcazioni9. Il padre Ceccati ha disposto nelle “istruzioni” che il comando sia assunto da padron Francesco Rossino di Casale. Nei fatti, padron Francesco, non è alla partenza a Venezia. Per il tratto lagunare e oltre, interviene un padrone veneziano, Antonio Corrin, che guiderà il rimorchio sino a Pavia. Due barcaioli saranno imbarcati sul burchiello, dove prenderà pure posto il frate Brunello. Altri due uomini governeranno la gondola; sul Bucintoro, infine, si alterneranno, oltre a Paolo Simonatto, che abbiamo visto imbarcarsi in funzione di carpentiere, Domenico Rossi da Papozze a Pavia e Padron Francesco Rossino, che da Casale è stato mandato dal generale delle Finanze a Ponte di Lago scuro (oggi Pontelagoscuro) sin da luglio, tant’è che ha dovuto acquistare un abito estivo per affrontare la stagione calda. Intanto, sempre da Casale è partito con barche e cavalli il padrone Pietro Carenzana, che attende all’imboccatura del Ticino e guiderà il traino sino a Torino. La partenza Il carico è terminato giovedì 2 agosto10; lo stesso giorno si forma il convoglio: prima la burchiella, dove ci sono i rematori, che governano la direzione e fungono da assistenti al traino, poi il Bucintoro e la gondola. Le barche sono assicurate tra di loro con canapi. Il padre Ceccati aveva raccomandato al frate Brunello di dire al comandante di non 139


3. Michele Marieschi, Il Canal Grande a Venezia. Potsdam, Castello di Sanssouci

correre inutili rischi “Partiti che saranno da Venezia – aveva scritto nelle istruzioni – dovrete osservare con certezza se sarà tempo quieto da passar li porti e così vi fosse ogni piccolo mare, dire ai suddetti […] del mio ordine, che non passi li porti, se non in bonazza”. Per fortuna, quell’agosto il mare è tranquillo, e il Bucintoro dà prova di un buon assetto nautico, nonostante il sovraccarico al quale è sottoposto. Il padrone Antonio Corrin è esperto delle acque di laguna. Ha ricevuto “per rimorchiare il Bucintoro e Gondola sopra il fiume Po sino a Pavia” 80 Filippi, 840 lire, più 12 di bonaman (mancia). In quel primo giorno è anche da registrare un incontro con i doganieri, soldati di trata, ai quali Brunello elargisce una mancia di sei lire; incontri che si verificheranno sovente, via via risalendo il Po. La presenza, come vedremo ancora a Brescello e a Bergantini Parpanesi, di diversi uffici doganali e di polizia fluviale, dovuti ad altrettanti stati rivieraschi, spezzava l’unità della via d’acqua, rallentando con i controlli l’effettiva durata del percorso. Soltanto nel 1749 si sarebbe giunti a una convenzione per il trasporto del sale con la Reale Camera Ducale di Parma e Piacenza e, quindi, nel 1753 si sarebbe arrivati a un trattato di libera navigazione sul fiume tra il governo sardo e quelli di Modena e austriaco. Giunto a Chioggia, Brunello scrive al padre Ceccati – secondo le istruzioni ricevute – sul buon esito del primo tratto del viaggio. Il padrone Corrin, che ha guidato la navigazione in 140

Laguna, a Chioggia ingaggia i Nicolotti, fraglia di navaroli, già esperti nel traino del bucintoro dogale, permetteranno con il traino dalle sponde lungo i canali lagunari la risalita sino a Bronzolo (oggi Brondolo). È questo il tratto dell’itinerario di più difficile ricostruzione, a causa dei grandi cambiamenti che in tre secoli hanno interessato il reticolo dei canali endolagunari, né i documenti torinesi ci forniscono particolari indicazioni. A Bronzolo il 2 di agosto Antonio Brunello registra nel suo libro mastro d’avere pagato 48 lire ai Nicolotti “per aver remorchiato il Bucintoro, e gondola”. Altre 4 lire vengono date agli stessi come mancia, “per effetto di cortesia”. Il viaggio riprende. Era preoccupazione del padre Ceccati che le imbarcazioni – durante il traino – avessero sempre qualche uomo a bordo, in maniera da poter affrontare qualsiasi evenienza o superare ostacoli improvvisi, come tronchi trasportati dalla corrente o le frequenti palificate poste in alveo per alimentare le ruote dei molini; “non fate mai – aveva scritto – quando incominceranno a taccar li cavalli sotto il Burchiello, che la peota sii senza nessuno a proua, e così pure nella Gondola dovrete stare sempre un homo dentro”, con turni di due o tre ore11. Il 5 agosto, domenica, il convoglio giunge al Ponte di Lago scuro, il porto di Ferrara nello Stato delle Legazioni (pontificie). Anche qui Brunello scrive al padre Ceccati. Lo scalo ferrarese era un punto di riferimento per la navigazione del Po, e i navaroli piemontesi della linea per Venezia gestita dalla società Riccardi, Truchi & Albera vi avevano corrispondenti12. Qui è stato mandato fin da luglio dal Coppo, il funzionario delle Dogane di Casale, per conto del generale di Saint Laurent, e per guidare il convoglio sino a Torino il padrone Francesco Rossino. Secondo la Nota delle Spese del Brunello a Pontelagoscuro inizia il servizio dei bovari Benedetto Mora e Antonio Sangio, venuti anch’essi da Casale con il Rossino. A Berzello, oggi Brescello, il paese di don Camillo, sul confine del Ducato di Modena, dove giunge il 9 agosto, Brunello registra sulla sua nota spese di aver pagato “per fondo di barche due lire e ot-


to”. Si tratta di una tassa di transito. Una Memoria circa il commercio quasi coeva (1725), conservata presso l’Archivio di Stato di Torino, ci informa che sulla linea del Po “[…] li passi più gravosi sono di Cremona, di Borgoforte e di Ferrara, e da Casale Monferrato sino a Venezia se ne contano circa ventidue”. Il converso paga inoltre i barcaioli di burchiello, che già hanno ricevuto un acconto, 796 lire, per il traino sino a Pavia, con i cavalli. Il 13 – lo testimonia un visto sul lasciapassare del generale della Mercanzia di Milano – il convoglio passa per Cremona, ed è autorizzato a proseguire. Vengono anche effettuate alcune spese per rinforzare le protezioni del Bucintoro. È notte di luna; il fiume è un nastro d’argento. Padron Antonio ha comunque ricevuto l’ordine di non viaggiare assolutamente di notte: il compito ricevuto è troppo importante per correre alcun rischio: “Ordino – ha scritto il padre Ceccati al punto 6 delle Instrutioni – che non lasciate mai camminare di notte sopra il Po per quanto potesse essere chiaro di luna, ma bensì il viaggiare la mattina di bon hora quanto vogliono”. Il 14 giungono alle Papozze, dove il Ticino immette in Po. Il padre Ceccati aveva predisposto che qui il convoglio venisse raggiunto con le sue barche dal padrone casalese Pietro Carezana, mandato dal generale delle Finanze. Mentre viene fatto il trasloco delle merci dal burchiello sulle barche – probabilmente il primo non avrebbe potuto proseguire molto oltre per le dimensioni e il pescaggio – il frate Brunello ne approfitta per fare le commissioni delle quali è stato incaricato a Pavia. Con la barselina, la barca che collega la foce del Ticino con il ponte di Pavia, centro del commercio fluviale milanese qualche chilometro a monte, si sarebbe dovuto recare a Pavia, al convento degli Agostiniani, così come indicato dal Ceccati: “consegnerete il fagoto da noi al p. Questore de Aguirre, ed il fagoto da noi al Pré Maestro Gavardi, al pré Maestro Cerri, acciò li faccino avere ad ognuno, il suo […] e mi scriverete a Milano”. Dai documenti sembra però che ci sia stata una variazione: sul lasciapassare dello Stato di Milano già citato, una nota del 14 agosto dell’Ufficio della Mercanzia presso il Ponte con-

4. Giovanni Battista Brusa, Squero di San Trovaso, circa 1860-1870

ferma la prosecuzione del viaggio, ma anche che il Bucintoro è giunto sino al ponte, non il solo frate Brunello. D’altro canto, dai conti di Brunello risulta essere stato pagato Domenico Rossi, un personaggio marginale del quale è però ancora da chiarire il ruolo, per “aver assistito a remorchiare il Bucintoro dalle Papozze sino a Pavia più al sudeto per spesa cibaria di giornate quindeci […]”. Quindi il Bucintoro non si è fermato alla foce in Po del Ticino, ma è risalito sino al ponte coperto. Il motivo ci è oscuro: una richiesta dei doganieri, il timore di Brunello di lasciare anche solo per poco la barca reale? A Pavia il convoglio si ferma il giorno dell’Assunta. Al traino, a Domenico Rossi subentra Pietro Carezana, che guiderà dalle alzaie con i bovari Mora e Savio la risalita del convoglio, ora quattro barche, sino al Valentino. Da Pavia a Casale Il 16 agosto il convoglio supera un altro posto doganale, a Bergantin Parpanesi (Cremona) nello Stato milanese. Brunello registra il pagamento di 7 lire per “fondo di barche”. Brigantino è un termine navale fluviale che sta a indicare una imbarcazione a remi, di facile manovra e quindi adatta per i servizi di polizia e di repressione del contrabbando, come abbiamo già visto per Brescello. La sera del 20 agosto accade un fatto imprevisto: un violento acquazzone estivo si riversa sulle barche, causando quanche danno al carico. Fra’ An141


tonio controlla preoccupato. La notte successiva, all’una di martedì 21 agosto, il padre Ceccati muore a Milano, dove ha dovuto interrompere il viaggio, presso il convento di San Marco, ma della notizia il frate Brunello e – forse – padron Antonio restano all’oscuro sino a Torino. I danni causati dall’acqua sono fortunatamente limitati. Simonatto, il carpentiere salito a Venezia, deve rifare le protezioni alle dorature del tiemo e delle fiancate. Gli intagli sono stati ben protetti dalle incerate, basta sostituire qualche foglio di carta e fissare meglio con chiodi e corde le tele di protezione. Sono ormai in territorio sabaudo. Il convoglio supera quindi la confluenza con il Tanaro a Valenza. Giunge a Frassinetto, il porto di Casale, il 28 agosto. Giovanni Antonio Coppo, direttore delle regie Gabelle del Monferrato, informa il generale: “È giunta a questa rippa sta mane circa le hore quindeci il consegnato bastimento felicemente […]”. Brunello non viene ancora informato sulla morte del padre Ceccati, per cui – secondo le istruzioni – scrive ancora al superiore: “[…] grazie al Cielo siamo giunti in Casale […] il bastimento, sano e senza alcun male […]”13. È il giorno di Sant’Agostino, il protettore dell’ordine; il converso può ringraziarlo in modo particolare. Coppo ospita Brunello a casa sua, e gli comunica gli ordini giunti da Torino: “Hanno dato ordine da parte dell’Ill.mo sig. Generale delle Regie Finanze di doversi portare a vitessa al Valentino con il Bastimento”14. Questa istruzione stupisce non poco il converso agostiniano, al quale il padre Ceccati aveva prescritto di fermarsi alla Madonna del Pilone, il sobborgo fluviale a valle di Torino, e lì attendere i suoi ordini personali, per concordare l’ingresso ufficiale. Il tratto da Casale a Torino è il più difficile per la navigazione del Po, a causa della presenza in alveo di rocche e tronchi che possono rappresentare ostacoli improvvisi, ma paron Rossino, da buon lupo di fiume casalese, conosce molto bene i filoni del fiume, e governa con perizia l’avvicinamento a destinazione. Attende intanto a Crescentino il Bucintoro un altro agente del generale di Saint Laurent, Marco Triffone. Questi si è imbarcato su un barchetto al142

la pearda di Torino15 il 28 agosto per andare incontro al Bucintoro. Il convoglio doppia i porti natanti in Trino, Gabiano e Moncestino, e giunge in vista di Verrua, la fortezza che è stata per secoli avanposto savoiardo sul confine del Monferrato. Crescentino è al di là del fiume, in riva sinistra. Triffone può inviare la sua relazione al Saint Laurent: “Gionto in Crescentino il Bucintoro. Trovasi in buono stato”. Triffone riprende la staffetta e torna a Torino il primo settembre. L’arrivo Il 2 settembre il convoglio, formato da Bucintoro, gondola e dalle due barche casalesi sfila davanti al santuario della Madonna del Pilone. Lungo le sponde comincia a spargersi la voce dell’arrivo del Bucintoro. Soprattutto il passaggio al vecchio ponte – dipinto quattordici anni dopo da Bernando Berlotto, e oggi alla Galleria Sabauda di Torino – dov’è il porto fluviale della città, crea animazione e curiosità nella gente, che corre a vedere la nave venuta da Venezia. Le dorature e le statue sono ancora celate da teli e cartoni. L’arrivo al Castello del Valentino, dove è stata ricostruita appositamente la darsena coperta destinata ad accogliere il Bucintoro, è per lo stesso 2 settembre. Viene avvertito il custode del palazzo, Giovanni Battista Lanfranchi. È domenica, quindi le operazioni di scarico vengono rimandate all’indomani. Brunello viene informato di quanto successo durante il viaggio: la notizia della morte del padre Ceccati lo coglie di sorpresa, anche se le variazioni imposte al programma dal Saint Laurent gli avevano fatto intuire qualche avvenimento imprevisto. Il generale fa intendere al converso – che si trova come un pesce fuor d’acqua – di poter contare sulla sua protezione e ospitalità. Intanto, può procedere – come indicato dal padre Ceccati – a pagare gli uomini dell’equipaggio e portare a termine la sua missione16. Pur con la tristezza di non trovare il superiore, il frate Brunello ha svolto diligentemente il suo compito. “Dovrete, con l’opinione di Paron Francesco – concludevano al punto 9 i Capitoli del padre Ceccati – regolarvi al fine di condurre il bastimento a salvamento, che Iddio lo concedi”. Così ha fatto. Brunello resterà ancora sei mesi a Tori-


no, in casa del generale, e in corrispondenza con Bonaventura Ceccati a Venezia, del quale curerà gli interessi. L’11 febbraio 1732, appena un mese dopo che l’expertise di Filippo Juvarra ha valutato congrua la somma richiesta dal Ceccati, un Ordine di Carlo Emanuele autorizzerà il tesoriere generale a pagare la somma di 19.597:1:10 lire di Piemonte (circa il doppio, in valore, di quelle di Venezia) relativa alla fornitura del Bucintoro, della gondola e le spese conseguenti il trasporto, mediante lettera di cambio intestata a Bonaventura Ceccati. Frate Brunello avrà per sé 500 lire, e potrà tornarsene a Venezia, arricchito di una esperienza straordinaria. Le operazioni di sdoganamento vengono effettuate il 3 settembre: le casse trasportate vengono caricate da un bovaro, e portate alla dogana, presso il ponte. Bucintoro e gondola vengono sballati e le parti smontate, reintegrate: la barca dorata appare finalmente anche per i torinesi in tutto il suo splendore.

I padroni Rossino e Carezana riceveranno per la loro collaborazione, comprensiva di barche e cavalli, la somma di 236.13 lire di Piemonte17 dal direttore Coppo. Il 4 settembre, con atto notarile, avviene la consegna ufficiale dell’imbarcazione al signor Giovanni Battista Lanfranchi, custode del Reale Palazzo del Valentino18. L’atto ha per oggetto un Bucintoro con la sua gondola “fatti venire da Venezia d’ordine di S.M., e qui condurre dal barcaiolo Francesco Rossino di Casale, per servire di divertimento alle loro MM sovra il fiume Po”. Il sabato seguente, giorno della natività di Maria, Sua Maestà “tenne Cappella in S. Giovanni e col solito accompagnamento intervenne alla processione di M.V.” – registra il cavalier Orioles nella sue Memorie – (e) […] la Regina per gravidanza restò nella Tribuna19. Il dopo pranzo le LLMM presero il divertimento col Bucintoro sul Po, che vi attirò concorso innumerabile per la novità”. Da allora si inserisce nella vita di corte ed è presente nelle occasioni festive e nelle cerimonie dinastiche.

1 L. Griva, La peota di Carlo Emanuele III di Savoia (1730). Nuovi documenti, in “Studi Piemontesi”, vol. XXIV, fasc. 2, novembre 1995. 2 L. Griva, La fraglia degli Intagliatori e la costruzione di navi lusorie nel primo Settecento a Venezia, in “Studi Veneziani”, n.s., a. LI, 2006, MMVII, pp. 375-386. 3 L. Griva, Lo scultore Matteo Calderoni e la costruzione del Bucintoro sabaudo nel 1731, in “Studi Piemontesi”, vol. XXXVI, fasc. 2, dicembre 2007, pp. 427-434. 4 B. Tamassia Mazzarotto, Le feste veneziane, Sansoni, Firenze 1980; L. Urban, La festa della Sensa nelle arti e nella iconografia, in “Studi Veneziani”, n.s., a. X, 1968, pp. 299-341. 5 AST, Corte, Palazzi Reali, Torino Valentino 1. Lettere, scritture, conti […]. 6 Il corso delle stelle osservato dal pronostico moderno. Palmaverde, Almanacco Piemontese per l’ano 1731, Torino, Fontana. 7 AST, Lettere, scritture, conti cit., R. Ordine, 30 giugno 1731 (in copia), riprodotto in L. Griva, Il Bucintoro dei Savoia, in “Studi Piemontesi”, vol. XXXI, fasc. 2, dicembre 2002, p. 317. 8 AST, ibidem, s.d., c. 96v, Inventaro di tutto quelo si è caricato […]. 9 AST, ibidem, 2 gennaio 1731, Nota dell’esposto (Ceccati). L. Griva, Le barche del Po. Tipi navali tradizionali in una relazione d’inizio Novecento, in F. Ciciliot (a cura di), Navalia. Archeologia e storia, The Int. Propel-

ler Club-Port of Savona, Savona 1996, pp. 197-217. 10 AST, ibidem, 31 luglio 1731, Esenti d’Uscida. 11 AST, ibidem, Instrutioni a fra Antonio […], s.d., s.f., sigla C. (Ceccati). In L. Griva, Venezia-Torino 1731: un Bucintoro per i Savoia, in “Studi Veneziani”, n.s., a. XLVI, 2003, pp. 341-353. 12 L. Griva, Imprese di navigazione sul Po in Piemonte tra Sei e Settecento, in “Studi Piemontesi”, marzo 1997, vol. XXVI, fasc.1, pp. 93-100. 13 AST, ibidem, 28 agosto 1731, Lettera (Brunello) al p. Ceccati. 14 AST, ibidem, 28 agosto 1731, Lettera (Coppo) al generale delle Finanze. 15 AST, ibidem, 4 settembre 1731, Copia della Nota del s. Triffone pp. spese nella Condotta del Bucintoro […]. 16 AST, ibidem, 1 agosto 1731, Nota delle spese […] (Brunello) 17 AST, ibidem, 1 agosto 1731, Stato delle spese pagate alli paroni Rossino e Carezana (Coppo). 18 AST, 4 settembre 1731, Atto notarile di consegna “al sig. Gio.Batt. Lanfranchi Custode del R. Palazzo del Valentino di un Bucintoro colla sua gondola” (copia da AST, Soprintendenza Generale della Lista Civile). 19 Cav. Orioles, Memorie, BRT, Storia Patria 932. La gravidanza alla quale accenna il memorialista è quella del duca d’Aosta Emanuele Filiberto, nato il17 maggio 1732, e che morrà il 20 aprile 1735. 143



La Peota imbandierata Enrico Ricchiardi

Le bandiere Le bandiere marittime sono nate allo scopo di fornire alle imbarcazioni che incrociavano la loro rotta informazioni fondamentali per la sicurezza della navigazione. In epoche in cui navi di potenze nemiche e pirati di varia nazionalità imperversavano nel Mediterraneo era necessario apprendere in anticipo se la nave all’orizzonte era amica o nemica, inerme o pericolosa. Viceversa, una nave, anche mercantile, appartenente a una nazione dotata di una potente flotta, inalberando la propria bandiera nazionale “avvertiva” gli eventuali malintenzionati della pericolosità di un’azione di forza. Oltre alla bandiera nazionale le navi inalberavano anche molti altri vessilli, tra i quali una bandiera o pennone che indicava il porto di armamento del legno, il suo proprietario o la presenza a bordo di un qualche personaggio importante. Anche la piccola flotta che la marina sabauda armava all’epoca di Carlo Emanuele III portava a poppa la grande bandiera araldica rosso crociata (fig. 1) dei Savoia e agli alberi altri vessilli di minore importanza. I vari bucintori veneziani erano però imbarcazioni a remi, senz’alberi, che navigavano in occasioni importanti in laguna o, addirittura, nel solo Canal Grande, e non necessitavano di tutto il repertorio di bandiere di una nave che doveva navigare mari e oceani. Per questo motivo essi inalberavano un unico drappo, inastato sulla cabina di poppa. Si trattava della grande bandiera della Serenissima, che sfoggiava tra ricchi ricami il leone di San Marco. Le imbarcazioni che erano utilizzate nella scarsa navigazione fluviale che si effettuava nell’Italia del

XVIII secolo navigavano solitamente nell’ambito di un singolo stato preunitario. Facevano eccezione i traffici lungo l’asse del Po, navigabile da Torino (città dotata di un piccolo porto fluviale collocato all’incirca dove oggi è la parte terminale di corso San Maurizio)1 a Venezia e dove i traffici, specialmente di merci provenienti dall’oriente e di produzione veneziana, erano abbastanza diffusi nei periodi in cui il volume di acqua era adeguato, escludendo quindi le secche estati. Lo scorrere del fiume nel Settecento bagnava il Regno di Sardegna, il Lombardo-Veneto, e i ducati di Modena e Parma. A seconda del momento, alcuni di questi stati erano nemici e la navigazione diveniva difficoltosa. Durante la pace, invece, le imbarcazioni navigavano tranquillamente, scendendo il fiume aiutate dalla corrente e risalendolo trainati dai cavalli predisposti a riva. Forse, quando i natanti fluviali dovevano navigare lungo il grande fiume, inalberavano a poppa, per identificarsi, la bandiera dello stato di appartenenza che non sempre coincideva con quella navale, utilizzata, quest’ultima esclusivamente per la navigazione. Questo è il senso della “bandiera di navigazione” (fig. 2c) della quale la Peota Reale fu fornita da parte degli artigiani veneziani, ricostruita sulla base di documenti dell’epoca. Era di seta cremisi, ornata con la “grande arme del Regno di Sardegna”, sulla quale era posta la corona reale sabauda sorretta da due leoni (i “tenenti”), caratteristici degli stemmi sabaudi. Il tutto sovrastava il collare dell’ordine dell’Annunziata. Presumibilmente la bandiera di navigazione era l’unica inalberata dalla Peota (peraltro con le parti au-

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1. Galera appartenente alla flotta sabauda, circa 1747. Collezione privata

liche smontate e protette) durante il suo lento risalire il Po verso Torino. La presenza del vessillo sabaudo certificava l’appartenenza dell’imbarcazione della quale era stato preventivamente richiesto il permesso di transito. Dai documenti dell’epoca risulta che assieme alla bandiera che è stata descritta, la Peota fosse dotata di altre due insegne sabaude. La prima, più importante, era quella di poppa. Stranamente i documenti ce la descrivono come più piccola di quella di navigazione, mentre normalmente avveniva il contrario. Era anch’essa di seta cremisi, ornata della stessa grande arme del Regno di Sardegna, ma con in più vari trofei dorati, non sappiamo se ricamati o dipinti (fig. 2b). Infine, sull’albero, era inalberata una lunga fiamma cremisi (circa 270 cm), con due punte al lato sventolante (il “battente”), ornata della stessa grande arme (fig. 2a). Ricostruito il corredo di bandiere e la fiamma che costituivano la dotazione veneziana della Peota è facile ipotizzare che durante le prime ostensioni dell’imbarcazione negli anni trenta del settecento questa fosse come minimo pavesata con la bandiera di poppa e con la fiamma sull’albero. Non è però escluso che per aumentare l’apparato aulico del Bu146

2. Bandiere della quale era dotata la Peota sabauda quando giunse nel 1731 a Torino. Rispettivamente: a, fiamma portata sull’albero; b, bandiera di poppa; c, bandiera di navigazione portata a prua. Ricostruzione ipotetica effettuata sulla base di documenti dell’epoca

cintoro piemontese anche la bandiera di navigazione a prua fosse utilizzata. Lo stemma La “grande arme del Regno di Sardegna”2 che ornava anteriormente il tiemo era quella classica adottata dai Savoia nel 1720 (fig. 4, in alto) quando la dinastia fu costretta dalle Potenze europee a scambiare il Regno di Sicilia con quello di Sardegna. In realtà un secondo scudo (fig. 4, in basso) era presente, la cui forma era circolare stellata, ma che, essendo interamente dorato, non pare aver mai portato dipinto alcun simbolo sabaudo. La grande arme era dipinta su uno scudo a forma lobata, sopra il quale vi era la corona reale sabauda, a sua volta sormontata dalla crocetta trifogliata di San Maurizio. L’arme è sorretta da due leoni dorati (i “tenenti”) controrampanti, con la testa rivolta, e contornata dal collare dell’ordine sovrano della Santissima Annunziata3. Essa è formata da quattro quarti, sui quali, secondo un preciso ordine, sono dipinti gli stemmi delle cosiddette “pretese” dei Savoia, cioè di regioni sulle quali essi pensavano di poter dimostrare un qualche possesso, ma che non facevano effettivamente parte dei loro stati (come, per esempio, la regione tedesca della Sassonia o il


3. Ricostruzione ideale della Peota con la sua dotazione completa di bandiere e fiamma. Il disegno in bianco e nero che costituisce la base della ricostruzione è di Marco Bonino 4. Sulla traversa anteriore del tiemo della Peota (in alto) era posta la “Grande arme del Regno di Sardegna”, adottata dai Savoia nel 1720, quando entrarono in possesso dell’isola mediterranea e furono insigniti del titolo regio che questa comportava. Su quella posteriore era posto un secondo scudo (in basso), di forma circolare stellata, completamente dipinto in oro.

regno di Cipro e Gerusalemme). Oltre a questi sono dipinti sullo scudo gli stemmi delle regioni effettivamente in possesso sabaudo, come, per esempio, il Monferrato, il Piemonte, il Genevois (la regione della Savoia posta a sud della città svizzera di Ginevra), Nizza, la Valle d’Aosta, il Chiablese (la regione savoiarda posta a sud del lago di Ginevra) eccetera. Al centro dello scudo (nella posizione araldica-

mente denominata “al cuore”) è posto lo scudetto di Savoia antica con in petto lo stemma di Savoia moderna, a rappresentare il possedimento d’origine della casata, dal quale essa prese il nome. Al di sopra (nel punto araldicamente detto “d’onore”) era infine posto lo scudetto con l’arme di Sardegna, regno che aveva finalmente dato in dote alla famiglia, con il suo possesso, l’ambito titolo regio4.

Al riguardo della navigazione sul Po e, più in generale, su fiumi piemontesi sono stati pubblicati da parte di Luigi Griva numerosi studi che è qui opportuno elencare per consentire di approfondire l’argomento: Tradizione navale delle acque interne nell’area padana occidentale: i fiumi, in “Studi Piemontesi”, vol. VIII, fasc. II, novembre 1989; Navigazione fluviale nell’alto corso del Po ai primi dell’Ottocento, in “Studi Piemontesi”, vol. XI, fasc. I, marzo 1992; Scali fluviali sul Po nella Torino del Settecento, in “Studi Piemontesi”, vol. XXII, fasc. II, novembre 1993; Barche sul Po. Archeologia e tradizione navale a Valenza, in “Valensa d’na vota”, n. 10, 1995; Le barche del Po. Tipi navali tradizionali in una relazione di inizio Novecento, in F. Ciciliot (a cura di), Navalia, archeologia e storia, Societa savonese di storia patria, Savona 1996; Imprese di navigazione sul Po in Piemonte tra Sei e Settecento, in “Studi Piemontesi”, vol. XXVI,

fasc. 1, marzo 1997; La carica di Ammiraglio di Po nel Piemonte sabaudo, in “Studi Piemontesi”, vol. XXVIII, fasc. I, marzo 1999; I Francesi sul Po (1798-1802), in “Studi Piemontesi”, vol. XXX, fasc. I, marzo 2001; Capitani delle barche e barcaroli del Po nel Piemonte ducale, in “Studi Piemontesi”, vol. XXX, fasc. I, giugno 2006. 2 In uso fino al 1815, con un intervallo però tra il 1806 e il 1814, quando essendo i domini sabaudi ridotti alla sola isola di Sardegna, l’arme fu semplificata riflettendo la situazione politica del momento. 3 Il cui gran maestro era il duca di Savoia. 4 Per approfondire le tematiche relative agli stemmi sabaudi, alla loro composizione ed evoluzione consiglio di accedere al sito http://www.blasonariosubalpino.it / Appendiceg1.html, creato da Federico Bona.

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Il viaggio del re. Cerimoniali e significati nei viaggi dei Savoia nel Settecento Tomaso Ricardi di Netro La livrea rossa dei cocchieri e degli staffieri era a Torino il segno che quella carrozza apparteneva alla corte: dentro non poteva che esserci un principe o una principessa reale, se non il sovrano stesso. In genere una carrozza della corte non si muoveva da sola, ma era preceduta da scudieri e guardie, secondo le rigide e molteplici regole del cerimoniale, che mira a esplicitare rango e ruolo di chi si sposta. Spesso quello è l’unico momento in cui il sovrano si mostra in pubblico. Le pagine seguenti cercheranno di sviluppare alcune riflessioni su modalità e significati dei viaggi dei sovrani sabaudi nel corso del Settecento, passando dal piano dell’immagine a quello politico e sociale. Il più bel viaggio del re Qualche giorno dopo la cerimonia con cui Vittorio Amedeo II assume il titolo regio il 17 settembre 1713, inizia quello che può essere indicato come il più spettacolare viaggio intrapreso da un sovrano sabaudo. Vittorio Amedeo II, da poco indicato dalle grandi potenze come re di Sicilia, si reca a prendere possesso del nuovo regno, a visitarlo e a riceverne l’omaggio1. Il viaggio, che durerà undici mesi, dal settembre 1713 alla fine di agosto del 1714, viene pianificato e realizzato come uno straordinario evento di creazione di consenso. Tutte le lusinghe, tutti i tecnicismi che uno stato assoluto può mettere in campo per coinvolgere, suscitare ammirazione e quindi appartenenza sociale, vengono adottati. Il nuovo re parte da Torino, pernotta a Racconi-

gi ospite dei principi di Carignano, passa da Savigliano e giunge a Nizza. Qui si imbarca sui vascelli inglesi, messi a disposizione dal governo di S.M. britannica, il vero pilastro dell’unione della Sicilia al Piemonte, e infine giunge a Palermo. Le grandi e fastose cerimonie che hanno luogo durante tutto il soggiorno sono volte in primis a presentare all’isola il nuovo sovrano: l’entrata trionfale a Palermo con un corteo di centinaia di persone il 21 dicembre 1713, la solenne incoronazione nella cattedrale di Palermo con il cerimoniale utilizzato da Federico II e da Carlo V nel pomeriggio della vigilia del Natale, il susseguente grande pranzo pubblico dei sovrani nel Palazzo dei Normanni, e infine il giuramento da parte del Parlamento siciliano, radunatosi al completo delle sue componenti, il braccio ecclesiastico, il braccio militare e il braccio demaniale. E dopo Palermo, ovviamente la tappa principale perché capitale del Regno, il viaggio toccherà anche Trapani, Catania, Taormina e infine Messina, all’epoca la seconda città dell’isola. Sono gli antichi riti nei quali viene incanalato l’incontro tra due realtà che non si conoscono e che cercano di trovare nei rispettivi ruoli gli equilibri necessari per iniziare una storia comune. Il fatto che poco dopo questa sia stata bruscamente interrotta per motivi essenzialmente esogeni, non annulla le aspettative dell’incontro e quanto realizzato nel viaggio. Il presentarsi nel porto di Palermo a bordo di navi inglesi, l’assunzione voluta e ricercata dei cerimoniali degli antichi re normanni, l’incontro con il Parlamento siciliano, vertice delle libertà

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e dei privilegi isolani, marcano appieno il quadro internazionale, politico e sociale di tutta la vicenda. La cura dei dettagli, che traspare sottotraccia nel lavorìo dei delegati piemontesi e siciliani, è evidente, volta a magnificare ed esaltare la figura del sovrano, vero fulcro delle cerimonie. I primi hanno il compito di sottolineare la regalità del nuovo regnante sulla stessa scia dei grandi predecessori, mentre i secondi, pur nell’ovvia accettazione del loro ruolo di sudditi, cercano di ribadire il carattere pattizio nel rapporto tra re e regno. Inoltre puntano a codificare e rafforzare la loro posizione come corpi intermedi tra il sovrano e la popolazione. È una concezione di lontana origine medievale, che stride nei nuovi tempi dell’assolutismo sei-settecentesco, ma che fa ancora capolino, specie nei territori dove l’autorità regale era rimasta in disparte, come nella Sicilia governata dai viceré spagnoli. Di contro, i rappresentanti piemontesi cercano di evitare tale interpretazione delle cerimonie, ma emergeranno comunque alcuni contrasti, in particolare durante la seduta solenne del Parlamento. Qui si manifesta il confronto diretto fra re e regno, mentre nella cattedrale viene sottolineata l’origine divina della regalità, con l’unzione con l’olio sacro e l’incoronazione da parte dell’arcivescovo di Palermo. Il viaggio del re ha dunque chiari ed evidenti significati sociali e politici, sottolineati dal cerimoniale stesso che ne regola i ritmi. Il solenne corteo che nelle prime ore del pomeriggio della vigilia di Natale del 1713 esce dal portone dal Palazzo dei Normanni per portare Vittorio Amedeo II e Anna d’Orléans nella cattedrale di Palermo dove saranno incoronati come re e regina di Sicilia è, forse, il più solenne della storia sabauda. È formato da quattro carrozze trainate da sei cavalli. Nella prima vi sono il gran ciambellano e i due gentiluomini di camera di servizio, nella seconda il cavaliere d’onore della regina con gli elemosinieri reali. Poi segue una folla di gentiluomini palermitani a cavallo che procedono senza ordine gerarchico. Seguono i cavalieri dell’Annunziata, anch’essi a cavallo, a due a due e, 150

solitario, il quindicenne principe Tomaso di Carignano. Infine arriva la carrozza con le Loro Maestà, trainata da otto destrieri. Ai suoi lati, all’altezza delle portiere, camminano le guardie del corpo guidate dai loro ufficiali, insieme alle guardie svizzere, i cui ufficiali sono a cavallo. A fianco dei destrieri di testa cavalcano il primo scudiere del re e il primo scudiere della regina, seguiti dai secondi scudieri a piedi; a fianco delle ruote posteriori il gran scudiere e il capitano delle guardie. Seguono, poi, a cavallo le guardie del corpo precedute dai suonatori di trombette e di timballi. Infine procedono alcune carrozze con le dame e le figlie d’onore della regina. Chiude il corteo un’ultima carrozza, vuota… forse scaramantica! Il responsabile dell’organizzazione e del funzionamento delle cerimonie esterne della corte sabauda è il gran scudiere che ha alle sue dipendenze una ventina di scudieri, divisi tra primi e secondi, tutti appartenenti a famiglie di antica e conclamata nobiltà e cospicuo censo. Al di sotto sta il personale preposto alla scuderia: in totale una cinquantina di addetti. Gli scudieri servono a coppie per periodi di tre mesi, secondo il sistema detto “a quartieri”, in modo da riuscire ad adempiere anche i loro doveri militari o diplomatici, mentre gli altri addetti sono fissi e stipendiati. La competenza della scuderia inizia appena il sovrano o i principi reali escono dai palazzi e dalle residenze reali. Pertanto è il gran scudiere, o in sua assenza lo scudiere di servizio a seguire il sovrano sia sulla carrozza sia a cavallo, o raramente a piedi. Il rosso è il colore delle uniformi e delle livree dei cortigiani e degli addetti della scuderia. Carrozze, portantine, e poi cavalli e cani per gli spostamenti e soprattutto per la caccia, sono gli strumenti e i mezzi affidati alla gestione della scuderia, cui appartiene anche l’equipaggio di caccia nelle due sedi di Venaria e di Stupinigi. I viaggi all’interno degli stati sabaudi Nel corso del Settecento non si registrano viaggi dei re di Sardegna al di fuori dei loro stati. L’unico


1. Adam Frans van der Meulen, La solenne entrata di Louis XIV e della regina Maria Teresa d’Austria nella città di Douai il 23 agosto 1667: la regina in carrozza riceve l’omaggio dei sindaci della città, olio su tela, circa 1667. Château de Versailles

risulta quello bellico compiuto da Carlo Emanuele III durante la Guerra di Successione polacca (1733-1735), quando generalissimo dell’esercito alleato franco-piemontese, scende lungo il Po fino a Piacenza e Mantova, ottenendo la bella vittoria di Guastalla del 19 settembre 1734, che conferma la precedente presa di Milano del 10 dicembre 1733. Il complicatissimo cerimoniale delle visite ufficiali dei sovrani, reso ancora più arduo dalle continue e intricate pretese sui vari troni europei, la difficile codificazione delle precedenze tra vecchi e nuovi regni, specie quelli nati nel corso del secolo (Sardegna appunto, e Prussia) rendono del tutto sporadici, se non assenti, i viaggi regali. Ad esempio, non si registrano viaggi all’estero di Luigi XV di Francia o Filippo V di Spagna o, ancora, di Maria Teresa d’Austria.

Nelle corti europee, e specialmente in quella sabauda, era ancora ben nota la diatriba sulle precedenze che nel 1658 aveva opposto la diplomazia francese a quella piemontese in occasione dell’incontro di Lione2. Non concordando a chi spettasse la precedenza tra il duca di Savoia e il duca d’Orléans, il primo sovrano effettivo, il secondo fratello ed erede del primo re della Cristianità, non venne organizzato alcun pranzo seduto per non rendere manifesta la diatriba tra i due cugini, Carlo Emanuele II e Filippo d’Orléans3. Ovviamente questo non impedirà ai loro figli, Vittorio Amedeo II e Anna d’Orléans, di sposarsi ventisei anni dopo. Diverso il caso dei principi reali, per i quali il viaggio è momento di formazione, specie se compiuto intorno ai vent’anni. Questi viaggi appar151


tengono al fenomeno del Grand Tour che attraversa, per tutto il secolo, le grandi capitali europee e rappresenta un momento di unità della cultura occidentale. La formula del viaggio in incognito, seppure l’identità dei viaggiatori è ben nota, semplifica enormemente il cerimoniale. In tal modo, il viaggiatore non è costretto a risiedere nel palazzo reale, ma in un albergo o in un edificio della capitale, da cui può effettuare le visite di cortesia (e non protocollari). Ciò non toglie però, che venissero organizzate occasioni ufficiali, come i ricevimenti a corte in loro onore. Una delle visite più significative alla corte sabauda fu quella dei conti del Nord, il figlio e la nuora di Caterina la Grande di Russia, che giungono a Torino nell’aprile del 1782, provenienti da Venezia, Vienna e Monaco e diretti a Parigi4. Pur viaggiando anch’essi in incognito, Vittorio Amedeo III vuole riceverli con grande enfasi, in modo da dare inizio ai nuovi rapporti diplomatici con la Russia che sarà il lascito politico della visita. Pertanto decide di accoglierli alle porte di Torino, nel paese di Settimo a una decina di chilometri lungo la strada per Vercelli. L’incontro avviene in un clima di grande cordialità, nonostante i presenti non si conoscessero personalmente. I russi scendono dalle carrozze di posta e salgono su quelle della corte sabauda. I posti vengono così distribuiti: nella prima, dopo vari complimenti, siedono, in quest’ordine, la granduchessa, il re di Sardegna, il granduca e infine il principe di Piemonte; nella seconda salgono il gran scudiere e il capitano della Prima compagnia delle guardie con due gentiluomini russi; nella terza il primo scudiere del re e il primo scudiere del principe di Piemonte con altri gentiluomini russi. Compongono il corteo anche un palafreniere, un caporale dei valletti a piedi, due paggi a cavallo e alcuni “volanti”, cioè servitori a piedi. Il fatto che il sovrano si sposti per accogliere personalmente un visitatore e lo inviti nella sua carrozza è un episodio del tutto straordinario, segno di profonda considerazione. Diversi per valenza politica e più numerosi sono i viaggi reali all’interno dei propri stati. In questo caso la preminenza del sovrano, re o duca che 152

fosse, non è messa in discussione, ma la sua presenza nelle città, specie quelle riottose, diventa causa e motivo di coesione politica e sociale. Anche in questo caso, lo splendore del corteo reale, le carrozze, i reggimenti della guardia, i valletti, i paggi e gli scudieri, esaltano la centralità della figura del sovrano, intorno al quale le élites locali, i ceti borghesi e il popolo sono invitati a riconoscersi e a compattarsi. Tra gli altri, Vittorio Amedeo III effettua due viaggi nelle regioni più difficili del regno. Nel 1765, ancora principe ereditario, con la moglie Maria Antonia Ferdinanda di Spagna, visita Alessandria, la principale città delle province di nuovo acquisto. Nel 1775 visiterà, tra la metà di giugno e la fine di luglio, la Savoia5. Ambedue i viaggi sono emblematici per la loro complessa valenza politica. Ad Alessandria, ospite nello splendido palazzo dei marchesi Ghilini, oggi sede della Provincia, il sovrano ottiene la definitiva adesione della città, che ancora non aveva compiutamente accettato l’entrata nella compagine sabauda, mantenendo velleità filo-spagnole e milanocentriche. A memoria del grandioso evento, nel 1768 sarà edificato un arco di trionfo, ancora oggi presente. Anche la Savoia soffriva dell’assenza del sovrano, maggiormente concentrato sulle più ricche province piemontesi. Il viaggio del 1775, che prende spunto dall’accoglienza della neosposa del principe ereditario, Clotilde di Francia, si trasforma anche in occasione per rinsaldare il legame tra la dinastia e la sua terra d’origine. Il sovrano e la corte si stabiliscono a Chambéry e da lì compiono visite alle varie città savoiarde, Annecy, Aiguebelle, Bonneville, Thonon, Evian e saranno ospiti presso alcuni dei feudatari più influenti, come il marchese di Sonnaz e il conte di Blonay. Due periferie, dunque, Alessandria e la Savoia, che vivono in maniera difficile il rapporto con il centro dello stato, trovano nel viaggio del re, con tutte le sue cerimonie pubbliche e private, un momento di forte coesione. Infatti, anche nei secoli dell’assolutismo, la fedeltà personale di lontana origine medievale ha un rilievo di grande importanza. L’obiettivo del viaggio reale, dunque, è quello di farla scivolare


L’ultimo viaggio Per i Savoia il Settecento si chiude con un viaggio6. La notte del 9 dicembre 1798, in una sera dal freddo pungente, di nevischio ventoso, nove carrozze escono dal portone del Palazzo Reale di Torino alla volta di Casale. A bordo vi sono i due sovrani, Carlo Emanuele IV e la moglie Clotilde di Francia, il fratello del re ed erede al trono Vittorio Emanuele con la moglie Maria Teresa d’Austria Este, i loro due figli Maria Beatrice e il piccolo Carlo Emanuele (di due anni, destinato a morire qualche mese dopo), e i tre fratelli cadetti, i duchi di Monferrato e Genevese ed il conte di Moriana. C’è anche lo zio del re, il duca del Chiablese con la moglie Marianna e la

zia del sovrano, la principessa Felicita di sessantotto anni. È un viaggio cupo, forse senza speranza, che li allontana dalla loro secolare capitale, vista la ormai difficile convivenza con il governo francese che presidia la cittadella di Torino. Non sanno quale sarà la meta: Firenze, Roma o la Sardegna, il dominio di cui portano il titolo regio, ma che conoscono solo dai dispacci dei loro funzionari. Sulle carrozze reali non sono saliti, invece, i principi di Carignano, Carlo Emanuele e Cristina di Sassonia-Curlandia, i futuri genitori di Carlo Alberto. La loro assenza non è dettata dalla casualità: restando a Torino smarcano il loro destino da quello del ramo primogenito e si allineano al governo francese giacobino che si instaura compiutamente nella capitale sabauda. La politica del viaggio, anche nell’assenza, dunque.

1 Sul viaggio in Sicilia e le cerimonie connesse all’assunzione del titolo regio da parte di Vittorio Amedeo II, cfr. T. Ricardi di Netro, Il duca diventa re. Cerimonie di corte per l’assunzione del titolo regio (1713-1714), in P. Bianchi, A. Merlotti (a cura di), Le strategie dell’apparenza. Cerimoniali, politica e società alla corte dei Savoia in età moderna, Silvio Zamorani Editore, Torino 2010, pp. 133-146; A. Lo Faso di Serradifalco, Vittorio Amedeo II, un anno in Sicilia (ottobre 1713-settembre 1714), edito sul sito www.socistara.it (consultato il 25 settembre 2012). La documentazione ufficiale delle cerimonie è presente nel Cerimoniale di corte del marchese d’Angrogna, conservato in BRT, Storia Patria 726, vol. anno 1713. 2 Cfr. D. Séré, Mazarin et la “comédie de Lyon”: au-delà de la légende, in “Dix-septième siècle”, 2, 2006, n. 231, pp. 327-340.

3 L’episodio è riportato, tra gli altri, da Mademoiselle de Montpensier [Anne-Louise d’Orléans], Mémoires, Adolphe Chéreul, Paris 1858. 4 M. di Macco, Il viaggio dei Conti del Nord a Torino nel 1782. Sedi diplomatiche e collezioni di ambasciatori, in San Pietroburgo 1703-1825. Arte di corte dal Museo dell’Ermitage, catalogo della mostra (Stupinigi, Palazzina di Caccia, 4 maggio - 8 settembre 1991), Electa, Milano, 1991, pp. 417-436. La documentazione è riportata nel Cerimoniale di corte del cavalier Villanovetta, BRT, Storia Patria 726, vol. anno 1782. 5 Ambedue le relazioni degli avvenimenti sono riportate nel Cerimoniale di corte del cavalier Villanovetta, BRT, Storia Patria 726, vol. anno 1775. 6 Cfr. D. Perrero, I reali di Savoia nell’esilio (1799-1806): narrazione storica su documenti inediti, Fratelli Bocca, Torino 1898.

sul piano sociale e poi su quello politico. Sarà lo stato di diritto ottocentesco a eliminare queste forme di rapporti personali tra stato e singoli.

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La Peota dei Savoia


Mastro Antonio da Burano, squero (cantiere navale) del Mastro Zuanne in Rio dei Mendicanti, Venezia Scafo; legno di quercia e conifera, 16 × 2,50 m Matteo Calderoni e bottega, Narciso e le allegorie del Po e dell’ Adige (prua), Cavalli marini cavalcati da putti (poppa), Nereidi, tritoni, delfini con fauna e flora marina (fascione) Egidio Goyel, Dragone a spire (timone); legno di quercia e di conifera, intagliato, dorato, biacca, minio, vernice a olio, terre, foglia d’oro a missione, bronzina Decorazione pittorica del tiemo con soggetti storici, allegorici, mitologici; tempera su legno 1729-1731


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La Peota Reale: conservazione, restauro e valorizzazione



La Peota Reale al Museo Civico di Torino Clelia Arnaldi di Balme

Il Bucintoro sabaudo fu realizzato a Venezia come imbarcazione di gala della corte torinese e per circa due secoli incarnò la regalità del sovrano in occasione dei suoi spostamenti sul fiume. Quando approdò al Valentino nel 1731, esso fu sistemato in un capanno a fianco della facciata del castello, e lì rimase per quasi due secoli, calato in acqua periodicamente per ogni genere di festa e ricorrenza. Fu usato per il matrimonio di Carlo Emanuele IV con Clotilde di Francia nel 1775, per le fastose nozze di Vittorio Emanuele II nel 1842 e per il matrimonio del principe Amedeo di Savoia duca d’Aosta con Maria dal Pozzo della Cisterna, celebrato nel 1867. Lo troviamo ancora in una litografia dell’epoca, condotto da due coppie di rematori davanti alle tribune lungo i murazzi alla regata sul Po organizzata il 14 maggio 1860 per la festa dello Statuto (fig. 1)1 . Il baraccone a palafitta che accolse inizialmente la peota2 fu presto sostituito da una costruzione più stabile, atta a ospitare anche le quattro imbarcazioni lusorie che la accompagnavano. Si trattava di due peote scolpite e dorate e di due gondole, che nei documenti di epoca napoleonica risultavano affidate insieme al Bucintoro alla custodia della famiglia Rivetti, concessionaria del servizio di traghetto sul Po3. Il capanno è ben visibile nelle vedute ottocentesche del Valentino dalla parte del Po realizzate con meticolosa precisione da Angelo Cignaroli e da Carlo Bossoli4, tutte precedenti all’aggiunta nel 1857 delle ali laterali del cortile d’onore progettate da Domenico Ferri5. Nel 1858, Giovanni Vico parla di un’ampia tettoia “espressamente costrutta lungo il bastione

che fiancheggia il palazzo verso Moncalieri”6 . A quel tempo, il castello ospitava i militari del Corpo Reale d’Artiglieria e della Compagnia del Genio Pontieri7 che periodicamente lasciavano liberi alcuni locali per consentire l’allestimento delle prime esposizioni artistiche e industriali torinesi. Questi spazi non sembrarono più sufficienti per la VI Esposizione Nazionale dei Prodotti dell’Industria del 1858 e si decise di affrontare alcuni importanti lavori di trasformazione dell’edificio. Il sistema castellamontiano di bassi portici terrazzati per collegare le torri e i padiglioni venne demolito e fu sostituito da nuove ali espositive di maggior ampiezza. Poco dopo, l’insediamento nella residenza della Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri istituita nel 1859 comportò, tra il 1862 e il 1864, la costruzione delle due nuove terrazze concluse dai bassi fabbricati dell’ingresso e della portineria, presto anch’esse insufficienti. Nel 1869 fu progettata una nuova manica parallela al fiume verso sud, sul lato meridionale del palazzo, per contenere lo stabilimento e la torre idraulica della scuola di ingegneria. Fu a questo punto che si pose il problema della Peota, che si trovava ancora nel capanno posto proprio dove era previsto che sorgesse l’edificio idraulico. Il Ministero della Real Casa propose di trasferire il Bucintoro sabaudo all’Arsenale di Venezia8 , dove si trovava gran parte della flotta storica reale. Il Comune, per evitare che la città perdesse la Peota, si dichiarò disposto a far costruire un nuovo ricovero altrove, a condizione che gli venisse fatta formale cessione dell’imbarcazione. Il 26 maggio 1868 il prefetto di Torino Costantino Radicati di

La Peota alla Mostra mercato dell’antiquariato di Torino del 1982. Torino, Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei 173


1. P. Briolla su disegno di Giovanni Ceva, Ricordi nazionali. Piazza Vittorio Emanuele e Regata sul Po il dì 14 Maggio 1860. Torino, Archivio Storico della Città di Torino

Passerano scriveva al Ministro della Real Casa a Firenze Filippo Antonio Gualterio chiedendo che l’“aulico monumento” potesse restare a Torino9 . La giunta accettò di ricevere in consegna la Peota nella seduta del 12 giugno 186810 e l’atto venne sottoscritto il 18 marzo 186911. La proprietà dell’oggetto rimaneva a favore della Lista Civile e la Città si impegnava a “provvedere un locale che fosse atto alla custodia e alla conservazione del medesimo”. Oltre all’imbarcazione vera e propria, definita “ricco ed elegante Buccintoro [...] bisognevole però di ristauri, mancando d’alcuni tratti d’ornato, e dei vetri agli sportelli”, la consegna riguardava “lo scalame ossia armatura per copertura della prora”, una grande tela bianca per difendere il naviglio dalla polvere, “il grand’albero maestro”, due antenne, il timone a forma di serpente e “la grande asta con buchi per l’illuminazione del naviglio”. Nel documento di cessione non viene fatto cenno alla nuova destinazione della Peota, ma è lecito pensare che l’amministrazione comunale avesse già in mente dove sistemarla. Era stato da pochi anni istituito il Museo Civico di Torino, allora diretto dall’avvocato e appassionato d’arte Pio Agodino12 . La nascita del museo traeva origine dai dibattiti culturali sui temi dell’istruzione e del progresso portati avanti in Europa alla metà dell’Ottocento e sfociati nella formazione di musei come il South Kensington di Londra, ora Victoria 174

and Albert, e il Musée de Cluny di Parigi. Nato all’indomani dell’Unità d’Italia non solo con lo scopo di preservare il patrimonio della comunità, ma anche e soprattutto di offrire al mondo contemporaneo repertori di oggetti con finalità didattiche per l’artigianato e la nascente industria, il Museo Civico di Torino era stato aperto al pubblico il 4 giugno 1863, nell’anniversario di promulgazione dello Statuto Albertino. Ospitava reperti archeologici, collezioni etnografiche e oggetti d’arte, accomunati dal concetto di “storia del lavoro” che analizzava i progressi della civiltà, l’evoluzione della storia del gusto e le abitudini di vita attraverso gli oggetti d’uso più disparati. La Peota rivestiva un duplice interesse per il ruolo svolto nel rapporto della corte sabauda con la Serenissima e soprattutto per le sue eccezionali qualità di materia e tecnica in rapporto alle arti decorative del Settecento. L’effettivo trasferimento della Peota richiese ancora diverso tempo. La questione dell’allestimento venne affrontata dal Comitato direttivo del museo nel corso della seduta del 20 febbraio 1873. Le collezioni avevano sede in una parte del fabbricato appena terminato del nuovo mercato del vino in via Gaudenzio Ferrari 1 e per il Bucintoro era necessario costruire un apposito padiglione, “ove non si trovasse di mantenerlo presso il castello del Valentino”, vista la sua importanza, poiché, “essendo stato distrutto l’antico, divenne tanto più prezioso per se stesso e qual ricordo dei rapporti tra il Dogato veneto e la nostra corte”13. L’Ufficio d’Arte del Comune presentò due progetti: il primo collocava il padiglione in mezzo al cortile tra il portico e l’ala centrale del mercato, il secondo lo addossava alla parete orientale del cortile. La seconda soluzione risultava meno costosa, ma si rischiava che l’edificio assumesse l’aspetto di un ripostiglio poco luminoso e soprattutto che l’accesso diretto dalla galleria preistorica creasse “un anacronismo troppo grave nell’ordine delle raccolte”. La collocazione in mezzo al cortile appariva più idonea perché molto più luminosa e – riguardo all’ordinamento – il Bucintoro si sarebbe trovato “in buona e neutra situazione”.


2. Pianta della sede del Museo Civico in Via Gaudenzio Ferrari 1. Piano terreno e primo piano, 1900. Torino, Archivio dei Musei Civici (Fondazione Torino Musei)

3. Fiancata della Peota fatta costruire a Venezia da Carlo Emanuele III […], in Museo Civico di Torino. Sezione Arte antica. Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti […], Torino 1905, tav. 28. Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica

Il Comitato approvò il progetto di un padiglione in mezzo al cortile e il 2 aprile 1873 la giunta deliberò la spesa di 4430 lire, “limitando le opere al puro necessario”14. Finalmente, nel giugno 1873, il Bucintoro venne registrato nell’Inventario generale collezione Storia del Lavoro15 al n. 655, come dono di S.M. il re e con un valore stimato di 10.000 lire. Le dimensioni del cosiddetto “edificio Bucintoro” – visibile nella pianta del Museo databile al 190016 (fig. 2) – erano così esigue da ostacolare la visione d’insieme della barca. Nella sua guida di Torino del 1884 Emilio Borbonese menzionava la Peota nel “padiglione nel mezzo del cortile” dando semplicemente le informazioni sulla sua storia, ma nella successiva edizione del 1898 commentava amaramente: “Peccato, diremo anche noi, con tutti i visitatori del Museo, che la ristrettezza e la meschinità del padiglione impediscano di poter ammirare nel suo complesso questa importantissima ed artistica opera!”17. La prima immagine della Peota in museo, offerta dalle due fototipie realizzate da Edoardo Balbo Bertone di Sambuy per il volume Museo Civico di Torino. Sezione Arte antica. Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo del 190518 (fig. 3), riflette la carenza degli spazi e evidenzia come tale allestimento concentrasse l’attenzione solamente sugli

aspetti legati alle arti decorative, ignorando del tutto la funzione di imbarcazione della Peota. Ciò nonostante, il presidente della Commissione dei festeggiamenti per l’Esposizione Generale Italiana tenuta a Torino nel 1884, Edoardo Scarampi di Villanova, il 26 aprile 1883 scriveva al sindaco Ernesto Balbo Bertone di Sambuy: “giace inoperoso nella sua rimessa il Bucintoro e questa Commissione, dopo essersi assicurata dello stato in cui egli si trova, si è potuta convincere che con lievi e prudenti riparazioni che essa è disposta a fare a proprie spese, quella nave potrebbe benissimo rimettersi in uso e calata nel fiume, vogata da otto gondolieri veneti in appropriato costume”. La Peota avrebbe aggiunto un elemento di spettacolarità alle feste fluviali: la commissione proponeva perciò di far costruire un ricovero stabile sulla sponda del Po per ospitare l’imbarcazione, riutilizzando in parte i materiali della tettoia di via Gaudenzio e affidando la custodia della barca alla Società dei canottieri l’Eridano19 (fig. 4). La giunta deliberò la concessione in uso del Bucintoro per tutto il periodo dell’Esposizione Generale e approvò la costruzione di “una semplice cuffia mobile con telone impermeabile sostenuto da leggere armature in ferro per riparo del Bucintoro quando sarà varato nel fiume”. Villanova offriva anche di porre rimedio ai guasti nella dora175


4. Progetto di un padiglione per il Bucintoro a sponda destra del Fiume Po, disegno a matita e inchiostri colorati, 1883. Torino, Archivio Storico della Città di Torino

tura e nelle parti in legno scolpito, che a suo parere non impedivano di calarla in acqua, ma richiedevano una sistemazione con semplice doratura in bronzo, più economica di quella con oro nuovo e più coerente cromaticamente con l’oro vecchio20. La giunta autorizzò i restauri e stanziò 500 lire del bilancio del 188421. Il Comitato Direttivo del Museo non fu coinvolto in nessun modo nella decisione. Venuto a conoscenza “dai giornali e dalla voce pubblica” delle determinazioni della giunta, il direttore Emanuele d’Azeglio non tardò a indirizzare al sindaco una accalorata lettera di protesta22: “il Bucintoro, contrariamente a quanto si crede da parecchie persone, non è moderno [...] come opera d’arte è veramente lavoro pregevolissimo della scuola del celebre Brustolon, e le scolture dorate rappresentano un’epoca importantissima e sono eseguite con singolare maestria. Il Bucintoro ha adunque un secolo e mezzo”. Per metterlo in acqua, era necessario demolire il casotto in cui si trovava ricoverato, effettuare le operazioni di calafataggio, trasportarlo in qualche modo e sottoporlo a una lunga permanenza sul fiume. Tutto ciò avrebbe comportato diversi rischi per la sua conservazione, trattandosi di un oggetto estremamente delicato e prezioso. “E da tutto questo: cui bono? Non si sa precisamente a qual fine vogliasi trasportare il Bucintoro sul Po. Non ha nulla a che fare coll’industria nazionale, non ha nulla a che fare col 176

5-6. La Peota nel cortile di Palazzo Carignano durante il trasporto da via Gaudenzio Ferrari e in fase di allestimento per la Mostra del Barocco piemontese del 1937. Torino, Archivio dei Musei Civici (Fondazione Torino Musei)

castello medioevale [...]. Se trattasi solamente di esporlo può essere visitato al Museo. Museo poco visitato, e lo sarà meno se nelle occasioni solenni si priva de’ suoi ornamenti, mentre chi va all’esposizione non si occuperà molto del Bucintoro”. D’Azeglio lamentava anche il fatto che “le riparazioni, da discutersi fra persone competenti e soprattutto da non farsi in vista di risparmi, o co-


me si dice al ribasso” erano invece già state eseguite, da maestranze che si erano offerte di farlo per sole 500 lire contro un’offerta iniziale di 600, e annotava di suo pugno: “N.B. Il Comitato visitò i ristauri e ne rimase sfavorevolmente impressionato”. La lettera, che si chiudeva con la minaccia di “dar luogo a qualche grave determinazione”, sortì un effetto immediato. Nell’adunanza del 12 marzo 1884, la giunta revocò la precedente deliberazione, vietando la concessione all’Esposizione Generale e ordinando che venissero portati a termine i restauri23. Per l’Esposizione Generale Italiana poterono sfilare sul Po solamente quattro bissone venute da Venezia con alcune gondole, mentre il Bucintoro sabaudo comparve sul manifesto disegnato da Cesare Simonetti24. Quanto al restauro, d’Azeglio incaricò Vittorio Avondo25 di valutare alcuni preventivi e, quantificata la spesa in 2000 lire, propose al sindaco di impiegare almeno per la metà dell’importo i proventi degli ingressi al museo26. Gli fu risposto che l’intervento doveva necessariamente attingere al fondo municipale allogato per la dotazione del Museo Civico: ciò rendeva difficile reperire i fondi necessari e d’Azeglio decise di rimandare a tempi migliori27. Nel 1929, sulla base di un’analoga valutazione dei rischi, il prestito della Peota fu di nuovo negato. Questa volta si trattava della mostra sul Settecento italiano, in programma a Venezia a cura di Nino Barbantini. L’imbarcazione non doveva navigare, ma il trasporto apparve all’allora direttore Lorenzo Rovere troppo impegnativo e pericoloso. Il Bucintoro continuò a rimanere chiuso nel suo padiglione in via Gaudenzio Ferrari e anche dopo il trasferimento del museo a Palazzo Madama, nel 1934, esso rimase nella vecchia sede in attesa che si trovasse una sistemazione adeguata nella nuova. A una prima ipotesi di esporlo nella sala Acaia insieme con la carrozza dell’arcivescovo di Torino, presto abbandonata, seguì l’idea di collocarlo nell’androne, che tra il 1931 e il 1932 fu oggetto di lavori di sistemazione per riportare il pavimento a livello del cortile medievale e demolire il ponte di passaggio verso via Po28. Quando tre anni dopo, nel 1937, la Peota fu richiesta in prestito all’importante Mostra del Barocco piemontese, prima tappa del per-

7. La Peota alla Mostra del Barocco piemontese del 1937. Torino, Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei 8. Studio per l’allestimento della sala della Peota alla Mostra del Barocco piemontese del 1937, disegno a matita e pastello. Torino, Archivio dei Musei Civici (Fondazione Torino Musei)

corso di riscoperta e valorizzazione dell’arte del Sei e del Settecento in Piemonte, essa si trovava ancora nella vecchia sede del Museo Civico, “intrappolata” nel suo padiglione nel cortile. Fu allora che lasciò via Gaudenzio Ferrari e si mosse verso Palazzo Carignano, sede della mostra. Il suo viaggio attraverso corso San Maurizio, via Napione, piazza Vittorio Veneto, è documentato da un filmato dell’Istituto Nazionale Luce trasmesso nel cinegiornale del 17 marzo 193729: arrivata in piazza Carlo Alberto la Peota venne sollevata con un argano all’interno di una fitta impalcatura montata sulla facciata posteriore del palazzo e di lì issata al primo piano (figg. 5-6). L’allestimento alla mostra, presentato 177


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9. La Peota alla Mostra del Barocco piemontese del 1963 nel “Voltone” di Palazzo Madama. Torino, Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

10. La Peota alla Mostra mercato dell’antiquariato di Torino del 1982. Torino, Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

con un disegno a pastello conservato nell’Archivio dei Musei Civici30 (figg. 7-8), evocava la funzione di barca di gala che nel museo era stata ignorata. All’interno della sala il Bucintoro era ambientato tra piante, vasche di fontane e statue da giardino – proprietà dell’antiquario Accorsi – su un letto di ghiaia, a richiamare l’ambiente delle sponde del Po e delle residenze fluviali31. Chiusa la mostra, la Peota approdò finalmente a Palazzo Madama e fu sistemata nella Corte medievale (già detta Voltone). Le conseguenze della lunga permanenza in ambienti umidi e sprovvisti di controllo climatico apparivano evidenti32: nel 1955 furono preventivati lavori di pulitura delle figure del fregio, con ricerca delle parti dorate originali “imbrattate da bronzina e colore ad olio”, nonché il restauro pittorico delle dieci portelle e della volta del tiemo33. Dalla Corte medievale la barca non si mosse per quasi mezzo secolo. In occasione della Mostra del Barocco piemontese del 1963, essa fu inclusa nella sezione di scenografia allestita nella grande sala di Palazzo Madama34 (fig. 9), mentre nel 1982 la Peota fu richiesta in prestito alla Mostra mercato dell’antiquariato, collezionismo, antichità prevista a Palazzo Nervi tra il 29 maggio e il 20 giugno di quell’anno (fig. 10). La giunta municipale autorizzò il prestito “in vista della successiva collocazione della medesima nell’atrio di Palazzo Carignano”35. L’imbarcazione doveva essere rimossa da Palazzo Madama, nel quale erano previsti lavori di manu-

tenzione straordinaria, ed era urgente avviare il primo lotto di lavori di restauro già affidato al laboratorio di Guido Nicola36. L’intervento iniziale fu realizzato a Palazzo Nervi prima della mostra dell’antiquariato, il secondo lotto fu programmato immediatamente dopo la manifestazione. La destinazione finale del Bucintoro rimaneva Palazzo Madama, eventualmente nella sala del Senato al primo piano, perché le altre sedi prese in considerazione non risultavano adatte. Ne discussero in un fitto carteggio il soprintendente reggente per i Beni Artistici e Storici del Piemonte Rosalba Tardito Amerio, l’assessore alla Cultura Giorgio Balmas e il conservatore del Museo Civico Silvana Pettenati, che scartarono l’ipotesi di Palazzo Carignano perché la Peota era commissione sabauda e non del ramo cadetto dei Carignano, e mal si sarebbe accordata con l’ala ottocentesca risorgimentale, e del Valentino, che si sarebbe prestato solo in caso di trasferimento della facoltà di Architettura37. Quando a Palazzo Nervi si aprì la seconda edizione della Mostra dell’antiquariato, la Peota giaceva ancora “ai margini del salone […] ricoperta di spesso strato di polvere. Tutto ciò, oltre a vanificare il restauro dell’anno passato, di così notevole impegno finanziario, è lesivo anche per l’immagine del bene culturale citato, ridotto al ruolo di oggetto ingombrante e inutile”38. L’imbarcazione fu allora riportata nella corte medievale di Palazzo Madama, dove rimase fino al 14 gennaio 2000, quando


11. La Peota nella Corte medievale a Palazzo Madama, 2000. Torino, Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

12. L’uscita da Palazzo Madama nel 2000. Torino, Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

l’esigenza di liberare l’ambiente per consentire lo scoprimento degli scavi archeologici, sigillati sotto il pavimento nel 1886 da Alfredo d’Andrade, la fece trasferire al laboratorio Nicola di Aramengo d’Asti in un locale climatizzato realizzato ad hoc (figg. 11-12). In occasione del riallestimento delle collezioni del Museo Civico a Palazzo Madama, con il recupero degli scavi romani, è stato impossibile inserire la Peota nel per-

corso di visita e nel 2002 il Bucintoro è stato concesso in comodato alla Reggia di Venaria Reale, insieme a un nucleo di altre opere tra cui le Cacce di Miel, tornate nella sala di Diana, e la statua di Ercole dalla fontana d’Ercole39. Ha avuto così inizio il progetto di studio, restauro e valorizzazione che ha condotto all’attuale presentazione della Peota restaurata nelle Scuderie Juvarriane40.

1 La scena è raffigurata nella litografia stampata da P. Briolla su disegno di Giovanni Ceva riguardo alla quale Immagini di Torino nei secoli, a cura di A. Peyrot, V. Viale, catalogo della mostra (Torino, 20 maggio - 2 giugno 1969), Tipografia torinese editrice, Torino 1969 (riedizione nel 1973), pp. 37-38, 316, n. 500 e R. Maggio Serra, Carnevale e feste patriottiche, in P.L. Bassignana (a cura di), Torino in festa, Torino Incontra, Torino 2005, pp. 266, 271. Un esemplare si trova all’ASCT, Collezione Simeom, D2108. 2 Come quello evocato nell’acquaforte di Friedrich Bernhard Werner del 1731 per cui A. Peyrot, Torino nei secoli, Tipografia torinese editrice, Torino 1965, vol. I, pp. 203216, n. 144/3 e A. Peyrot, R. Roccia (a cura di), Torino nei disegni di Friedrich Bernhard Werner, viaggiatore e vedutista del Settecento, Archivio Storico della Città di Torino, Torino 1994. 3 La Peota arrivò da Venezia con una gondola di servizio e

una burchiella per il trasporto degli utensili, successivamente le imbarcazioni di accompagnamento salirono a quattro. Cfr. L. Griva, Il Bucintoro dei Savoia, in “Studi Piemontesi”, dicembre 2002, vol. XXXI, fasc. 2, pp. 301319 con bibliografia precedente; A. Griseri, Torino 1731: il palcoscenico sul fiume e le sue quinte, in Arti a confronto: studi in onore di Anna Maria Matteucci, a cura di D. Lenzi, Editrice Compositori, Bologna 2004, pp. 269-275 e L. Griva, Il Bucintoro e il traghetto del Valentino al tempo dei francesi (1805-1810), in “Studi piemontesi”, giugno 2005, vol. XXXIV, fasc. 1, pp. 125-130. 4 Per la serie di quarantuno vedute di luoghi sabaudi di Angelo Cignaroli, ora divise tra il Castello di Agliè e Palazzo Chiablese, si vedano R. Medico, scheda n. 5.15, in La Reggia di Venaria e i Savoia. Arte, magnificenza e storia di una corte europea, a cura di E. Castelnuovo, catalogo della mostra (Reggia di Venaria Reale, 12 ottobre 2007 30 marzo 2008), Allemandi, Torino 2007, vol. II, pp. 100-

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102 e Angelo Cignaroli. Vedute del Regno di Sardegna, a cura di V. Natale, catalogo della mostra (Torino, Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto, 13 settembre 2012 - 6 gennaio 2013), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2012, p. 83. Per il dipinto di Bossoli, A. Peyrot, Carlo Bossoli. Luoghi, personaggi, costumi, avvenimenti nell’Europa dell’Ottocento, visti dal pittore ticinese, Tipografia torinese editrice, Torino 1974, vol. I, tav. 437. 5 Cfr. C. Roggero (a cura di), Il Castello del Valentino, testi di A. Dameri e C. Roggero, in C. Roggero, A. Vanelli (a cura di), Le residenze sabaude, Allemandi, Torino 2009, pp. 110-119. 6 G. Vico, Il Reale Castello del Valentino, Stamperia Reale, Torino 1858, p. 45. 7 Con la Restaurazione la Scuola di Veterinaria che dal 1805 aveva sede al Valentino fu trasferita a Venaria Reale. 8 ACS di Roma, Real Casa, Divisione III, Amministrazione, Archivio Generale (1865-1951), 1869, busta 10, fascicolo 25 (Affari diversi), Consegna del Bucintoro al Municipio di Torino. Lettera del 15 gennaio 1868 dal Ministero della Real Casa all’Amministrazione della Real Casa nelle Antiche Province (Torino). Ringrazio Giorgio Marinello per la segnalazione dei documenti all’Archivio Centrale dello Stato di Roma. 9 ACS di Roma, ivi, lettera di Buisson direttore dell’Amministrazione Antiche Provincie al Ministero della Real Casa a Firenze (23 marzo 1868). 10 ASCT, Affari Lavori pubblici, cartella 31, fasc. 8, n. 1 e 3. Nella corrispondenza compaiono anche le “due barche che fanno parte della consegna unitamente alla nave il Bucintoro”, ma di esse si dice “trovasi in istato da essere ritenute per inservibili” e successivamente risultano trasportate altrove dalla Real Casa (fasc. 8, n. 4, 17 febbraio 1869 e n. 7, 10 marzo 1969). 11 ASCT, Atti speciali, vol. 1, 1869, pp. 442-443. Dopo la firma dell’atto si procedette con la consegna delle chiavi del magazzino. 12 La storia del museo e delle sue collezioni viene ripercorsa ne Il tesoro della città. Opere d’arte e oggetti preziosi di Palazzo Madama, a cura di S. Pettenati, G. Romano, catalogo della mostra (Stupinigi, 1996), Allemandi, Torino 1996, con ampia bibliografia precedente; in seguito E. Pagella, Il Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, Allemandi, Torino 2008 e Eadem, Progetti, usi e restauri tra il XIX e il XX secolo, in G. Romano (a cura di), Palazzo Madama a Torino. Da castello medievale a museo della città, Editris Duemila, Torino 2006, pp. 281-330. Sul riallestimento del 2006 vedi E. Pagella, C. Viano (a cura di), Palazzo Madama a Torino. Dal restauro al nuovo museo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2010. Per le ricerche documentarie, si faccia riferimento a C. Ceresa, V. Mosca, D. Siccardi (a cura di), Archivio dei Musei Civici di Torino. Inventario 1862-1965, Città di Torino, Grugliasco 2001. 13 ASCT, Affari Istruzione e beneficenza, cart. 47, fasc. 2, n. 15. 14 ASCT, Affari Istruzione e beneficenza, cart. 47, fasc. 2, delibera n. 29.

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15 Le raccolte del Museo Civico si dividevano all’epoca in Collezione preistorica, Collezione Storia del lavoro e Collezione di oggetti d’arte italiana moderna. La collezione di Storia del Lavoro includeva ceramiche, vetri, legni intagliati, stoffe e libri miniati. Cfr. C. Isaia, Torino. Guida del viaggiatore, Paravia, Torino 1894, pp. 55-56. 16 AMCT, CMS 1, n. 2958, Prima sede del Museo Civico - Via Gaudenzio Ferrari. Il foglio, segnalato da Sara Abram in occasione della giornata di studi I direttori del Museo Civico dalle origini al 1930, Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 19 aprile 2008, si conserva insieme alla pianta del primo piano, datata luglio 1900. 17 E. Borbonese, Torino illustrata e descritta: guida pel 1884, Petrini, Torino 1884, pp. 220-221 e Idem, Guida di Torino: storia, descrizione della città, edifizi del culto, edifizi civili [...], Petrini, Torino 1898, pp. 306-307. 18 Stampato a Torino, Vincenzo Bona, tavole 28-29. 19 ASCT, Affari Istruzione, cart. 59, fasc. 19, n. 41. 20 ASCT, ibidem, n. 42, Delibera n. 50 del 1° maggio 1883 e Relazione della Giunta Municipale del novembre 1883; n. 84, nota della Commissione Festeggiamenti del 26 novembre 1883. 21 ASCT, ibidem, n. 86. 22 ASCT, Affari Istruzione, cart. 52, fasc. 50, n. 8, 23 febbraio 1884. Sulla figura di Emanuele Tapparelli d’Azeglio, direttore del museo dal 1879 al 1890, cfr. C. Maritano, Emanuele d’Azeglio, collezionista a Londra, in G. Romano (a cura di), Diplomazia musei collezionismo tra il Piemonte e l’Europa negli anni del Risorgimento, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, Torino 2011, pp. 37-117 e C. Maritano, La direzione di Emanuele Tapparelli d’Azeglio (gennaio 1879 - aprile 1890), nel volume I direttori del Museo Civico di Torino dalle origini al 1930, atti della giornata di studi, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti (Torino, 19 aprile 2008), in corso di stampa. 23 ASCT, Giunta Municipale, vol. 70, verbale n. 33, 12 marzo 1884; vedi anche ASCT, Ufficio Gabinetto del Sindaco, car. 78, Esposizione Generale Italiana 1884, fasc. 5, nn. 26-27. 24 Litografia E. Passero, Udine. Torino, Archivio storico Bolaffi. 25 Su Vittorio Avondo, direttore del Museo dal 1890 al 1910, si veda R. Maggio Serra, B. Signorelli (a cura di), Tra verismo e storicismo: Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, ottobre 1995), Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, Torino 1997. 26 ASCT, Affari Istruzione, cart. 52, fasc. 50, n. 32, 9 ottobre 1884. Vedi anche AMCT, CAA 12.5, anno 1884, pratica 3, n. 34. 27 ASCT, Affari Istruzione, cart. 52, fasc. 50, nn. 33 e 38 e ASCT, Affari Istruzione, anno 1885, cart. 67, fasc. 51, n. 25. 28 Il pavimento del Voltone era stato realizzato nel 1886 per ricoprire gli scavi archeologici condotti tra il 1883 e il 1886 da Alfredo d’Andrade. Vedi E. Lavezzo, Riapertura e restauro dello scavo di Alfredo d’Andrade, in Pagella, Viano (a cura di), Palazzo Madama cit., pp. 126-129. 29 Archivio Storico Luce, B 1062 (www.archivioluce.com).


AMCT, CMS 82, n. 3046. Il disegno anonimo riporta anche lo schizzo della collocazione delle opere in pianta nella sala. 31 Cfr. F. Ruento, Torino 1937: la mostra del Barocco piemontese, tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore Enrica Pagella, anno accademico 2008-2009, pp. 59-61 e 105-107. 32 Solo nel 1951 furono costruite “delle grandi porte a vetri sul tipo di quelle che già lo stesso Juvarra disegnò e fece costruire al primo piano del Palazzo [...] perché durante l’inverno le nebbie d’umido invadono l’attuale profondissimo atrio e vi stagnano [...]”. Cfr. Banca dati Palazzo Madama, coordinamento scientifico di G. Dardanello, 1998-1999, presso Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica di Torino. Schede nn. 9067 e 9127 di C. Thellung. 33 AMCT, CAA 897, n. 1255. Si tratta di tre preventivi di Luigi Favini, doratore e laccatore (1 febbraio 1955), di Onorato Verdoja, pittore e restauratore (1 febbraio 1955), e di Piero Ciravegna, doratore e laccatore (3 febbraio 1955). 34 Nel catalogo della mostra la scheda della Peota figura in coda alla sezione “Decorazioni per feste”: Mostra del Barocco piemontese, a cura di V. Viale, catalogo della mostra (Torino e Stupinigi, 1963), 3 voll., Città di Torino, Torino 1963, vol. I, Scenografia pp. 53-54; seguì la catalogazione in L. Mallé, Museo Civico di Torino. Mobili e ar30

redi lignei, arazzi e bozzetti per arazzi, Museo civico di Torino, Torino 1972, pp. 147-148, tavv. 212-217. 35 AMCT, CAA, 1754, n. 2112, Restauri 1982-1983, n. 6/16. 36 La relazione del primo lotto di lavori, datata 29 giugno 1982, si trova in AMC, CAA, 1754, n. 2112, Restauri 1982-1983, n. 6/22. 37 AMCT, CAA 1754, n. 2112, Restauri 1982-1983, nn. 6/30-6/36. 38 Così scrive Silvana Pettenati l’11 aprile 1983 all’assessore Balmas (AMC, CAA 1754, n. 2112, Restauri 19821983, n. 6/36). 39 Cfr. C. Arnaldi di Balme, L’allestimento delle Cacce di Jan Miel a Palazzo Madama, in C.E. Spantigati (a cura di), Delle cacce ti dono il sommo impero. Restauri per la Sala di Diana alla Venaria Reale, Nardini, Firenze 2008, pp. 49-53. 40 C.E. Spantigati, Il Bucintoro dei Savoia e il progetto “La Venaria Reale”, in G. Caniato (a cura di), Con il legno e con l’oro. La Venezia artigiana degli intagliatori, battiloro e doratori, Cierre Edizioni, Sommacampagna (Verona) 2009, pp. 187-195. Inoltre gli atti della giornata di studio Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e il restauro (Venaria Reale, 22-23 marzo 2012), Editris, Torino 2012, in cui si è dato conto della prima fase dei lavori di restauro condotti dal Centro con fondi della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino.

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La Peota Reale e la tutela Mario Epifani

Il restauro e la musealizzazione della Peota Reale rappresentano un caso esemplare dell’attività di tutela e valorizzazione esercitata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali attraverso le Soprintendenze, suoi organi periferici. Questi due ambiti strettamente interdipendenti – tutela e valorizzazione – sono regolati da due ampie sezioni (titolo I e titolo II) del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), lo strumento normativo che definisce i casi e i modi in cui lo Stato svolge l’azione di salvaguardia del patrimonio storico e artistico, a esso attribuita dall’art. 9 della Costituzione italiana. Per la sua eccezionalità – in quanto raro esemplare superstite di imbarcazione di parata settecentesca, di dimensioni e qualità artistica ugualmente ragguardevoli – la Peota riassume in sé diversi punti nodali della duplice attività di tutela e valorizzazione affidata alle Soprintendenze. La tipologia stessa del manufatto è significativa della frequente sovrapposizione tra oggetto d’uso e bene culturale: l’imbarcazione di parata, creata per essere conservata e utilizzata (seppure solo in occasioni particolari) sulle acque del Po, fin dalla seconda metà dell’Ottocento ha perso il suo ruolo originario per assumere quello di opera d’arte, nonché monumento del passato glorioso della dinastia sabauda. Un isolato tentativo di tornare a utilizzare la Peota come natante, proposto in occasione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, suscitò giustamente una ferma reazione negativa da parte del Museo Civico (cfr. il testo di Clelia Arnaldi di Balme in

questo stesso volume). Come può accadere quando il bene culturale è un mobile, una carrozza, un’arma, uno strumento scientifico, una marionetta o uno stendardo processionale, la Peota è stata dunque ormai da tempo sottratta alla propria funzione primaria. Non sempre ciò avviene in modo altrettanto netto – ad esempio, nel caso dei beni che costituiscono oggetto di culto. Inoltre, il fatto che tali manufatti siano nati per essere usati comporta spesso la presenza di interventi storicizzati eseguiti con criteri diversi da quelli previsti per i beni culturali: ai fini del mantenimento in funzione di un pezzo di arredamento o di un’imbarcazione di parata, oggi individuati come oggetto di tutela da parte dello Stato, in passato possono essere state adottate metodologie non in linea con la “protezione” e la “conservazione per fini di pubblica fruizione” indicate dal Codice all’art. 3 come compito istituzionale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Proprio a fronte del rischio di un uso improprio di beni culturali aventi specifiche funzioni pratiche, il legislatore ha ritenuto necessario specificare, all’interno della già citata legge del 2004, che sono sottoposti a tutela anche “le navi e i galleggianti aventi interesse storico od etnoantropologico” (art. 10, comma 4, lettera i). La Peota non può peraltro essere ricondotta esclusivamente a tale categoria, avendo una doppia valenza di imbarcazione d’interesse storico e di opera d’arte tout court, in ragione dell’alto valore artistico del “pezzo” in sé1. L’intervento di restauro appena concluso è stato condotto dal

Matteo Calderoni e bottega, Peota Reale, particolare della decorazione scultorea

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Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale nel rispetto delle linee guida fissate dalla Carta del Restauro, diramata nel 1972 dal Ministero per la Pubblica Istruzione (tre anni prima dell’istituzione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali) con una circolare rivolta a tutte le Soprintendenze. Il Codice dei Beni Culturali condensa nell’art. 29, in cui si tratta delle misure di conservazione, i principi contenuti nella carta, definendo al comma 4 il restauro come “l’intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali”. Coerentemente, l’intervento sulla Peota si è concentrato sul recupero di una corretta leggibilità dell’opera, creando le condizioni migliori per il mantenimento della sua integrità, il che non significa negare gli interventi storicizzati che ne hanno segnato la “vita” senza per questo comprometterne la conservazione e la percezione da un punto di vista estetico. All’art. 6, il Codice dei Beni Culturali stabilisce che “la valorizzazione è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze”. Dunque, accanto alla tutela esercitata attraverso l’autorizzazione e la vigilanza sulle tipologie di interventi elencati all’art. 21 (ivi compreso il restauro), la stessa attività di valorizzazione costituisce un ambito sottoposto all’alta sorveglianza del Ministero, attraverso la Soprintendenza. Nel caso della Peota, un intervento altrettanto impegnativo del restauro è stata la complessa movimentazione dal deposito della ditta Nicola Restauri, sulle colline di Aramengo, alla sede del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, ove è stato portato a termine l’intervento, e da lì alle vicine Scuderie Juvarriane, individuate come collocazione museale definitiva di un manufatto la cui storia è in gran parte segnata dalla difficoltà di trovare uno spazio adatto a contenerlo e a favorirne la conservazione e la fruizione. Non a caso, lo spostamento è espressamente menzionato all’art. 21 del Codice (comma 1, lettera b) tra gli interventi che necessitano di autorizzazione da parte del 184

Ministero. Va detto che, nella fattispecie, la salvaguardia della Peota è stata assicurata dall’alto grado di competenza dei soggetti coinvolti, dalla proprietà (il Museo Civico) al restauratore (il Centro di Venaria), fino al consorzio che gestisce il contenitore destinato a ricevere la Peota in comodato, ovvero la Reggia di Venaria. Nondimeno, le operazioni di spostamento, restauro e musealizzazione hanno costituito un’utile occasione di confronto tra questi soggetti e la Soprintendenza, che ha seguito tutte le fasi, anche con il coinvolgimento del proprio laboratorio di restauro. La fase di progettazione dell’allestimento di un ambiente idoneo – dal punto di vista della tutela e della fruizione – per l’esposizione della Peota è stata un momento particolarmente denso di dibattiti. La tipologia dell’opera non è certo facilmente riconducibile alle categorie con cui la Soprintendenza si trova a doversi confrontare nell’ordinario svolgimento delle proprie funzioni: non si tratta di un semplice esempio di “arti decorative”, né di un’opera d’arte in senso tradizionale. Comprensibilmente, sono state soprattutto le dimensioni eccezionali della Peota a orientare la soluzione finale. Il modello di riferimento non poteva che essere quello dei musei navali, benché né quello dell’Arsenale di Venezia, né il National Maritime Museum di Londra – per citare alcuni esempi tra i più vicini e meglio conosciuti – esibiscano pezzi paragonabili alla Peota per dimensioni e valore artistico. Il confronto più calzante resta quello con il Vasamuseet di Stoccolma, l’edificio (appositamente concepito) in cui dal 1990 è esposto il maestoso galeone costruito per il re Gustavo II Adolfo di Svezia, inabissatosi subito dopo il varo, nel 1628, e recuperato dal fondo del Mar Baltico nel 1961. Nel caso – tipicamente italiano – della Peota, tuttavia, una differenza fondamentale sta nel fatto che il contenitore non è stato disegnato ad hoc, ma è esso stesso un bene culturale, trattandosi delle monumentali scuderie disegnate da Filippo Juvarra. La sfida, dunque, si è rivelata doppiamente stimolante. Le decisioni, prese in accordo con la direzione del Museo Ci-


vico e quella della Reggia di Venaria, sono andate in direzione di una presentazione della preziosa imbarcazione svincolata dagli accessori che pure in gran parte ci sono pervenuti: scartata l’ipotesi di ricollocare l’albero (ormai privo di vela) per motivi di stabilità ma anche di spazio, non saranno esposti per ora i remi, né verranno riproposti i finimenti mancanti. L’intento è stato

infatti quello di favorire una fruizione – comunque emotivamente coinvolgente – della Peota come opera d’arte e non come imbarcazione di parata pronta per l’uso: una più approfondita comprensione e percezione della sua funzione è stata demandata agli apparati didattici, che potranno ricreare la suggestione delle feste di corte in cui essa era utilizzata.

Va sottolineato che uno studio delle navi storiche come tipologia specifica di bene culturale in Italia è stato avviato solo di recente Una giornata di studi dedicata al tema del-

la tutela delle imbarcazioni storiche si è tenuta a Genova il 16 aprile 2011, su iniziativa della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Liguria.

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Restauro e valorizzazione: l’impegno della Consulta per la Peota Reale Angela Griseri e Mario Verdun di Cantogno Il 14 settembre 2011, dalle colline del Monferrato che degradano verso il fiume Po, si poteva assistere al passaggio di uno strano convoglio speciale, lungo oltre venti metri, scortato da automezzi della Polizia di Stato, che percorreva con qualche difficoltà ma in piena sicurezza le tortuose e strette strade collinari. Era la Peota Reale di Carlo Emanuele III, imbarcazione da parata ricoperta di vistosi teli di protezione che, dopo un accurato lavoro di imbragatura e imballaggio, poteva finalmente percorrere a ritroso la strada che aveva compiuto nel 2000 per trovare rifugio lontano da Torino, nel Laboratorio Nicola Restauri, altamente specializzato nella conservazione e nel restauro di importanti manufatti artistici. La Consulta aveva potuto finalmente avviare, dopo lunghe e faticose pratiche burocratiche, quel complesso processo che avrebbe portato prima al restauro e poi alla esposizione al pubblico della prestigiosa imbarcazione reale. L’ultima volta era comparsa nel 1982 in un ambiente spettacolare sì, ma abbastanza dispersivo e straniante, quale era il Palazzo del Lavoro di Pierluigi Nervi in occasione di una Mostra mercato dell’antiquariato a Italia ’61. Nell’ambito delle proprie attività di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio storico e artistico torinese, la Consulta aveva riscoperto un tesoro che meritava di essere nuovamente portato alla pubblica fruizione degli studiosi e del pubblico, dopo i necessari interventi di diagnostica e restauro che sono qui ampiamente illustrati in altri saggi.

La grande imbarcazione lunga quasi diciassette metri non poteva più ritrovare l’originaria collocazione nel Museo Civico di Palazzo Madama, perché questo edificio era stato completamente trasformato e riorganizzato per meglio raccontare la sua storia ed esporre nel contempo le sue ricche collezioni di arte e alto artigianato. Una lunga serie di incontri e corrispondenze hanno animato il dibattito tra i numerosi enti ed istituzioni coinvolti a vario titolo nel progetto “Peota”: la Città di Torino quale ente proprietario, il Museo Civico di Palazzo Madama quale originario depositario, il laboratorio Nicola Restauri che aveva temporaneamente il bene in consegna, la Regione Piemonte quale ente comodatario, la Soprintendenza per la tutela, il mecenate Consulta che avrebbe sostenuto gli oneri di trasporto e restauro, il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale a cui veniva affidato l’intervento di restauro e il Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale che avrebbe accolto il prezioso manufatto nelle grandiose Scuderie Juvarriane, realizzando uno spettacolare allestimento. Raggiunto un accordo generale sulle modalità tecniche ed organizzative del progetto, la Consulta individuava una ditta specializzata in trasporti di opere d’arte e, con l’insostituibile collaborazione della laboratorio Nicola, provvedeva al trasferimento dell’imbarcazione su un apposito pianale progettato appositamente per consentire il passaggio nei punti critici del percorso da Aramengo a Venaria (balconi, strettoie, ponti) e in particolare per poter superare, con uno spettacolare “volo” sopra i tetti, il cancello di ingresso al Centro di

L’arrivo della Peota dal laboratorio Nicola Restauri di Aramengo al Centro Conservazione e Restauro di Venaria Reale 187


1. Peota Reale, Imprese sabaude con i motti FERT e OPPORTUNE, particolari della decorazione pittorica del tiemo

Restauro che, date le sue ridotte dimensioni, non consentiva un normale superamento “terrestre”. Per poter adeguatamente ricevere il grande Bucintoro e consentire lo svolgimento di tutte le attività connesse con il restauro, il Centro stesso ha dovuto subire alcune modifiche degli allestimenti interni; durante nove mesi di lavoro la scelta si rivelava correttamente adeguata. Il modello organizzativo adottato dalla Consulta per questa iniziativa è stato analogo a quello messo a punto, fin dall’origine nel 1987, per la realizzazione dei primi restauri di edifici monumentali a forte rischio di degrado, successiva188

mente affinato, facendo tesoro delle numerose esperienze, anche quando la scelta e la gestione degli interventi spostava il focus verso processi di arricchimento del patrimonio culturale e di miglioramento della fruizione dei beni artistici. La Consulta nasce nel 1987 proprio con lo scopo di contribuire a conservare, valorizzare e migliorare la fruizione del patrimonio storico artistico cittadino. Le dodici aziende ed enti che per prime si sono associate sono diventate oggi trentaquattro e destinano ogni anno un importo paritetico per interventi in favore di Torino: in venticinque anni sono stati investiti oltre venti milioni di


2. Il trasporto della Peota dal laboratorio Nicola Restauri di Aramengo al Centro Conservazione e Restauro di Venaria Reale

euro. Sono stati portati a termine quarantasei progetti, in stretta collaborazione con le istituzioni e gli enti di tutela, mettendo a disposizione della collettività risorse sia manageriali che finanziarie. La scelta degli interventi è effettuata, con ap-

proccio pragmatico e flessibile, in base a criteri di rilevanza e urgenza, certezze autorizzative, rapidità di esecuzione, ritorno di immagine per i propri soci, nell’ottica di favorire l’attrattività di un territorio e di assicurare un formidabile biglietto da visita per le imprese che si presentano sul mercato nazionale e internazionale. I soci che in venticinque anni hanno dedicato tempo e risorse per progetti culturali sentono la responsabilità di mantenere e sviluppare questo unicum che il “sistema Torino” ha rispetto ad altre città italiane. Gli imprenditori torinesi provano un concreto affetto e un debito di riconoscenza per la loro città, consapevoli che i beni storico-artistici sono luoghi d’identità attorno ai quali è possibile costruire un concetto dinamico di cittadinanza: appartenere a un territorio e essere universali come sono i beni culturali.

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La conservazione della Peota in laboratorio Anna Rosa Nicola

Per oltre undici anni, dal 14 gennaio del 2000 fino al 14 settembre dello scorso anno, la Peota è rimasta conservata e monitorata quotidianamente nel nostro laboratorio di Aramengo, ma il primo incontro con questo straordinario manufatto risale a trent’anni fa, all’aprile del 1982, quando, su incarico della direzione dei Musei Civici torinesi, provvedemmo a un restauro conservativo strutturale dell’opera che versava purtroppo in gravi condizioni. L’imbarcazione era collocata a piano terreno nell’ampio atrio di Palazzo Madama, coperta da uno spesso deposito di polvere e smog che si insinuava all’interno degli intagli dorati ovattandone la luminosità (fig. 1). Apparivano evidenti gravi dissesti strutturali: apertura degli assemblaggi, rotture sia verticali che orizzontali con perdita di piccole porzioni lignee e parziale mobilità o caduta delle numerose stuccature a piastrone apposte in precedenti interventi e grossolanamente ritoccate con bronzina o con colore ormai alterato nei toni. Numerosi frammenti di modellato, varie scaglie e zeppe lignee che si erano staccate erano raccolte in una grande scatola. Alcuni intagli erano mobili, fermati sommariamente con grossi chiodi o legati con cordicelle (fig. 2). L’intervento di restauro, svolto in occasione dell’esposizione della Peota alla Prima Mostra mercato dell’antiquariato tenutasi a Palazzo Nervi a maggio-giugno del 1982, si era preoccupato di risolvere soprattutto queste problematiche relative alla struttura lignea. Si erano delicatamente staccati e catalogati i numerosi frammenti mobili, puliti gli allogamenti

dai residui di stucco e dalle colle applicate in vecchi restauri e quindi riposizionati e rincollati correttamente al loro posto. Erano stati rimossi i chiodi e le numerose zeppe lignee che bloccavano in posizione errata gli elementi scolpiti e ridotte le numerose fenditure presenti; una, in prossimità della conchiglia era larga oltre 5 centimetri. Tutte le parti lignee, comprese le tavole di calpestio e il fasciame erano state trattate con consolidante e antitarlo, si era eseguita un’accurata spolveratura su tutta la superficie e alcuni saggi di pulitura più approfondita, operando sia con solventi che a bisturi per rimuovere le stuccature debordanti (fig. 3). Fatta uscire da Palazzo Madama, l’imbarcazione era stata sollevata con una gru e caricata su un rimorchio ribassato a otto assi per essere trasferita nella sede della mostra a Palazzo Nervi scortata da due mezzi dell’ATM incaricati di sollevare all’occorrenza i fili elettrici del tram e naturalmente da noi, sul nostro vecchio furgoncino 238. Nella sede espositiva, non senza difficoltà, provvedemmo anche al montaggio dell’’albero e dei remi. Dopo la mostra, dove la Peota riscosse un grande successo, l’intenzione sarebbe stata quella di continuare il restauro ma non si trovò un luogo adatto dove esporla permanentemente e così l’imbarcazione tornò a Palazzo Madama dove rimase fino al gennaio del 2000, momento in cui con nostra grande soddisfazione arrivò in laboratorio. Eravamo infatti riusciti ad aggiudicarci la gara per il rimessaggio in ambiente protetto e climatizzato.

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1. La Peota nell’androne di Palazzo Madama, aprile 1982

Adeguammo per il rimessaggio della Peota il grande salone, lungo 23,50 metri e largo quasi 7, situato accanto al reparto dedicato alle opere di grande formato, salone che normalmente utilizzavamo per le operazioni di pulitura e reintegrazione pittorica. Sul lato lungo del locale venne realizzata una camera di compensazione con doppi vetri e schermatura dagli UV della luce. Venne smantellato il vecchio impianto di riscaldamento, coibentato il portone e realizzati doppi serramenti. Un’équipe di professionisti esperti1 progettò un particolare sistema di climatizzazione, in grado di distribuire uniformemente l’aria climatizzata e trattata termoigrometricamente mediante un impianto in grado di mantenere la temperatura dell’aria nel periodo invernale compresa tra 18 e 22 °C con percentuale di umidità relativa compresa tra il 45 e il 60%, mentre nel periodo estivo compresa tra i 22 e 25°C con percentuale 192

di umidità tra il 50 e il 64%, in conformità alle specifiche dettate dalla UNI e dalla Soprintendenza. Venne costruito un gruppo di trattamento dell’aria per il mantenimento della temperatura e dell’umidità dell’ambiente durante il periodo invernale mediante una batteria di scambio alimentata ad acqua calda e un umidificatore adiabatico, mentre per la fase estiva venne installata una batteria di scambio a espansione diretta alimentata da unità moto condensante. L’intero impianto fu dotato di regolazione della temperatura e dell’umidità in grado di contenere le escursioni di temperatura e di gestire con precisione le condizioni microclimatiche in ambiente. Al fine di contenere eventuali effetti perturbanti dovuti alle condizioni meteorologiche esterne, l’aria trattata era prevalentemente ricircolata e in minima parte ricambiata con l’aria esterna. L’ambiente di conservazione era già stato dotato


2. Particolare prima dell’intervento del 1982. L’imbarcazione presentava dissesti strutturali importanti, fenditure lungo gli assemblaggi, ampie fratture, frammenti mobili o staccati trattenuti con chiodi, viti e cordicelle

in precedenza di sistema di allarme collegato con le forze dell’ordine e ovviamente anche di rilevatori antifumo. I sistemi di sicurezza furono tuttavia ulteriormente potenziati aggiungendo anche una telecamera esterna per la videosorveglianza. Questo l’ambiente preparato per ricevere la barca. Avvolta in un sottile telo in tessuto non tessuto la barca, caricata con una gru su un bilico lungo 22 metri, lasciò Torino scortata dalla polizia (e da noi) e, dopo circa due ore di viaggio, affrontando prima il traffico cittadino e poi strade sempre più tortuose e strette tra le colline del Monferrato, approdò ad Aramengo. Da quel momento, fino alla sua partenza undici anni dopo, l’opera è stata quotidianamente monitorata, le registrazioni dei valori termoigrometrici venivano raccolte settimanalmente e regolarmente fornite alla committenza. Naturalmente la speranza di poter rimetterci

mano era molto viva in tutti noi e in Guido Nicola in modo particolare e, nonostante nel 2006 ci fosse stata comunicata l’insindacabile volontà di eseguire il restauro presso il Centro di Venaria, quando giunse l’invito da parte della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino a presentare un nostro progetto dettagliato e una offerta economica per il restauro, almeno per un momento, si riaccesero le nostre speranze. Nel progettare l’intervento, fu nostra cura effettuare uno studio approfondito supportato anche da alcune indagini strumentali non invasive al fine di poter stilare un preventivo che riducesse il più possibile gli imprevisti. Contattammo vari tecnici ed esperti, fotografi, radiologi, chimici per cercare di trovare insieme la soluzione migliore che conducesse al restauro ottimale dell’imbarcazione. Vennero eseguite, a titolo gratuito, esami stru193


3. Il grande salone del laboratorio, dotato dei necessari sistemi di sicurezza e appositamente climatizzato e schermato dagli UV per la conservazione della Peota

mentali non invasivi, analisi chimiche2 e persino un test di rilievo laser 3d3, utile non solamente per documentare minuziosamente ed esattamente tutta la morfologia della superficie, ma anche per eventuali riproduzioni in scala dell’imbarcazione. Si trovò la soluzione per ottenere, attraverso un buon numero di riprese fotografiche realizzate con una particolare tecnica multiscatto4, un’illuminazione appositamente predisposta e un successivo laborioso intervento di postproduzione al computer, immagini d’insieme della barca prive di deformazioni e distorsioni, prospettivamente corrette, a colori, fedeli ad altissima risoluzione, quindi con una capacità di ingrandimento eccezionale, fin nei più minuti dettagli. Il nostro progetto per il restauro della Peota prevedeva poi, naturalmente, tutti gli interventi conservativi necessari sulla struttura lignea e un’accurata pulitura, che sarebbe stata ovviamente preceduta da nuovi test di pulitura per la messa a punto delle miscele più idonee (rispet194

to al 1982 oggi si sarebbe potuto disporre di una gamma ben più ampia di possibilità) e si sarebbe realizzata verosimilmente sia per via chimica che per via meccanica con bisturi, laser e/o ultrasuoni. La previsione era quella di eliminare anche le numerose brutte stuccature in corrispondenza delle fenditure tra gli assemblaggi, ampiamente debordanti sull’originale e di riscoprire la lacca rossa originaria o quantomeno quella della stesura dell’intervento più antico apportata su una base di minio che purtroppo in fasi più recenti era stata più volte completamente e pesantemente ripresa con un tono rosso arancio più sordo. Una volta riscoperta la doratura a foglia, che dai saggi eseguiti nel 1982 prometteva essere ancora discretamente conservata al di sotto di riprese a bronzina e ridorature a foglia più recenti, si sarebbero infine reintegrate le mancanze in tono neutro e all’occorrenza con oro zecchino applicato a missione secondo la tecnica originaria (fig. 4).


4. Uno dei saggi di pulitura eseguiti nel 1982. Al di sotto delle riprese e stuccature di rifacimento ricompaiono la doratura antica applicata a missione e la cromia rosso minio velata con una splendida lacca rossa

5. Velinature di protezione eseguite nei punti più critici prima del trasporto

Il nostro progetto preventivo tuttavia non fu scelto e nel giugno 2011, la decisione definitiva di trasferire la Peota al Centro di Venaria e l’incarico per noi da parte della Consulta di eseguire consolidamenti e protezioni della pellicola pittorica funzionali al trasporto. Vennero individuate e documentate pertanto le zone più critiche che avrebbero potuto con il trasporto subire sollecitazioni pericolose. Furono

fissati i sollevamenti pericolanti e velinate con carta giapponese le zone più a rischio (fig. 5). La Peota, accuratamente imballata, partì da Aramengo lasciando un grande vuoto – e non solamente nell’immenso salone del laboratorio. La seguimmo ancora una volta nel suo viaggio di destinazione, un po’ tristi, ma sereni per la certezza di aver fatto, tutti come laboratorio, del nostro meglio.

L’impianto di climatizzazione fu realizzato dai tecnici della IM.ECO Engineering, con a capo l’ingegner Gregorio Tosi 2 Fu possibile ottenere l’autorizzazione per eseguire sulla Peota alcune analisi non invasive con XRF e due microprelievi da utilizzare come confronto con altre analisi svolte su un significativo frammento dello storico bucintoro distrutto dalle truppe napoleoniche proveniente

da collezione privata. Il proprietario lo aveva portato in laboratorio dopo aver visto la Peota a Superquark. Le analisi furono eseguite da Marco Nicola (Adamantio srl). 3 Il test venne realizzato dal dottor Gianfranco Quaranta, tramite Adamantio srl. 4 Tale tecnica è stata messa a punto dal fotografo Filippo Gallino di Torino.

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Il restauro del Bucintoro dei Savoia Pinin Brambilla Barcilon, Stefania De Blasi, Massimo Ravera

Restaurare un’imbarcazione storica, che pur ha perso la sua connotazione di “natante”, si pone come una interessante e innovativa esperienza nell’ambito del restauro tradizionale. Nel corso dell’intervento sono state prese in considerazione sia le parti strutturali, affondando la conoscenza nelle tecniche di costruzione navale e nelle prassi di manutenzione ordinaria e straordinaria, che nel tempo si sono susseguite e stratificate, sia gli apparati decorativi composti da imponenti sculture lignee dorate e tavole dipinte allestite nel tiemo della barca. Anche per gli oggetti amovibili ancora conservati di pertinenza della Peota come i remi, l’albero maestro e le forcole è stato necessario ricorrere alle conoscenze di materia più etnografica che storico-artistica che analoghi interventi, soprattutto nell’ambito dell’archeologia navale, hanno già affrontato secondo prassi condivise. Il restauro ha richiesto la messa a punto di una metodologia che consentisse di recuperare l’immagine unitaria del prezioso manufatto, preservando ovviamente la testimonianza delle diverse fasi storiche che ha attraversato. Le scelte motivate dallo studio dei differenti momenti di utilizzo e di fruizione museale dell’imbarcazione ha attraversato nei secoli sono state infatti un costante elemento di confronto e hanno rappresentato la sfida maggiore per una buona conduzione del restauro. L’intento primario del Centro e della direzione lavori, sempre presente e disponibile a condividere e discutere scelte ed esiti, è stato quello di restituire parte di questo mondo stratificato e complesso nel risultato finale dell’intervento conservativo. L’im-

magine che oggi consegniamo del Bucintoro dei Savoia è quella della sua storia: le dorature e la cromia rossa degli sfondi sono stati troppe volte ripresi e i materiali originari sono stati in gran parte alterati dai numerosi interventi passati. Restituiamo l’idea e la percezione, estetica e di rappresentanza, che la barca doveva suggerire, recuperando le tonalità che gli ultimi restauri ottocenteschi – peraltro ben documentati – ci hanno tramandato, eliminando depositi e sovrammissioni incoerenti che impedivano di leggere la qualità degli intagli e l’eleganza delle figure dipinte in blu di Prussia, innovativo pigmento settecentesco il cui utilizzo sulla Peota è stato confermato dalle analisi. In questo senso le indagini tecniche e scientifiche, preliminari e in corso d’opera, coniugate con la ricerca storica, hanno fornito un supporto imprescindibile per studiare approfonditamente lo stato di conservazione, la natura dei materiali costitutivi, originali e di restauro, e la tecnica esecutiva. Stato di conservazione e tecnica esecutiva Dopo l’arrivo al Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale (CCR) e sulla base delle valutazioni espresse dal CNR-IVALSA (Istituto di Valorizzazione delle Specie Arboree), fondamentali per progettare le modalità di trasporto, sono state eseguite verifiche strutturali sull’orditura, sul fasciame e sugli elementi costitutivi del tiemo (figg. 1-2). L’analisi condotta ha confermato il buono stato di conservazione degli elementi lignei che compongono la struttura; non sono stati rilevati attacchi di insetti xilofagi in atto e i fori di sfarfallamento presenti erano limitati ad alcune assi in co-

Peota Reale, particolare della figura scolpita di Narciso a metà pulitura 197


1. Interno verso prua: attraverso l’apertura si vedono orditura e fasciame della Peota

Fig. 3. Fori di sfarfallamento localizzati sulla volta del tiemo

2. Interno verso poppa prima del restauro.

nifera della volta del tiemo (fig. 3) e alle limitate zone di alburno dei masselli in quercia. Allo stato attuale lo scafo e la slitta sottostante vanno considerati come elementi inscindibili e tutta la struttura si è pertanto adattata dal punto di vista statico a questa situazione. È stata eseguita inoltre una verifica sui gruppi scultorei, da cui è emersa l’assenza di rilevanti problemi di assemblaggio e di funzionalità strutturale a carico dei vari masselli che li compongono, a eccezione di piccole fratture ed elementi di intaglio mancanti e sostituiti. Le indagini radiografiche eseguite hanno rivelato che tutti gli elementi lignei sono uniti da un numero elevato di chiodi di diversa fattura, molti originali e alcuni inseriti durante i numerosi interventi di manutenzione precedente (fig. 4). Per quanto riguarda la presentazione estetica dell’opera all’arrivo nei laboratori di restauro, le numerose riprese di finiture ormai alterate risultavano molto evidenti, in modo particolare sulle dorature del fregio del fasciame e sui gruppi scultorei, e di ostacolo alla corretta lettura dei valori cromatici e materici del manufatto. Tale situazione era accentuata dagli ingenti strati di depositi accu198

mulati e in parte inglobati nei film manutentivi. Sopra una stesura di minio che ricopre il fasciame nella parte esterna (presente anche all’interno del tiemo) si rilevano tre strati o fasi decorative, di cui due sovrapposti (fig. 5): uno più tenace, di colore bruno ocra, di natura oleosa con presenza di biacca, presente sia sulle parti dorate che sullo sfondo rosso, e uno a base di terre, di colore rosso-aranciato applicato a chiusura delle commettiture delle tavole lignee e dei masselli delle parti scolpite e infine una stuccatura sottile di colore rosso scuro presumibilmente più recente a chiusura delle fessurazioni (figg. 6a-b). Anche le dorature presentano più applicazioni di foglia metallica sovrapposta distesa a missione (da due a cinque strati): il maggior numero di strati è in questo caso localizzato in corrispondenza di aree soggette a maggiore usura. Dalle indagini multispettrali (UV, fig. 6b) e scientifiche effettuate (FT-IR, spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier), le dorature e in generale tutte le parti provviste di cromia sono state protette da un film a base di colofonia. Per quanto riguarda l’interno del tiemo, pur rilevando ridipinture meno debordanti e alterate, sono presenti numerosi interventi localizzati eseguiti in


4. Radiografia effettuata in corrispondenza del gruppo scultoreo di prua: si notano viti, chiodi forgiati e di fattura seriale; al centro è evidente una bandella metallica di collegamento posta all’interno dello scafo (Radiografie Malcangi, Milano) 5. Particolare del fondo rosso del fregio che evidenzia i tre strati soprammessi

diversi momenti manutentivi, come peraltro conferma la documentazione storica1. Particolarmente evidente appare il degrado (sollevamenti del film pittorico e lacune) riscontrabile sull’anello di accrescimento tardivo dei pannelli in conifera con le Allegorie delle scienze e delle arti collocati all’interno del tiemo (figg. 7a-c). Questo è presumibilmente dovuto al fatto che la particolare duramificazione degli anelli di accrescimento è stata di ostacolo alla necessaria adesione degli strati preparatori. Le assi che compongono la volta del tiemo mostrano una diminuzione volumetrica dovuta a variazioni termoigrometriche che lasciano disgiunte le varie commettiture, in parte colmate da filzet-

6a-b. Sezione stratigrafica osservata al microscopio ottico in luce visibile (1A) e luce ultravioletta (1B) di un microcampione prelevato dallo sfondato rosso della fascia decorativa dello scafo. Si osservano a partire dal basso, lo strato di preparazione a minio e biacca, lo strato pittorico rosso originale costituito da minio, cinabro e lacca, gli strati sovrammessi rossi. Lo spesso strato superiore è una stuccatura di restauro, di colore marrone chiaro, costituita da biacca, olio, terre, calcite, gesso

te riconducibili a precedenti interventi (fig. 8). Delle dieci antine scorrevoli che caratterizzano le finestre del tiemo, quattro risultano completamente sostituite e una fortemente ridipinta, come viene in parte confermato da un documento relativo all’intervento datato 1842 a opera del pittore scenografo Angelo Moja che viene pagato per aver “dipinto ad olio n. 5 portine a due lati ed accomodato un freggio nell’interno” in occasione dei preparativi per le nozze del principe Vittorio Emanuele con Maria Adelaide d’Asburgo2. Si osservano infatti estese riprese pittoriche in corrispondenza dei profili blu perimetrali e delle figure a monocromo realizzate al centro dei pannelli. Gli incastri dei regoli che incorniciano i pannelli sono differenziati: quelli più antichi presentano un incastro tenone-mortasa, mentre quelli più recenti sono realizzati a forcella. I pannelli recenti si distinguono inoltre per il tratto più spesso delle decorazioni e per il colore 199


7a. Pannello dipinto del tiemo prima del restauro: si evidenziano le lacune poste in prossimità degli anelli di accrescimento 7b. Lo stesso pannello del tiemo in fluorescenza ultravioletta 7c. Particolare dei sollevamenti e delle lacune di doratura sul pannello analizzato con la tecnica RTI (Reflectance Transformation Imaging) Image Unsharp Masking

8. La volta del tiemo prima del restauro 9a-b. Confronto tra un pannello antico e uno sostituito degli scuri del tiemo

blu più freddo e più tendente al grigio; non presentano finiture con protettivi e sono costituiti da tre elementi lignei accostati verticalmente e incollati. Quelli più antichi sono invece costituiti solo da due assi con un’unica commettitura verticale al centro (figg. 9a-b). Infine si evidenziano ulteriori estese ridipinture nelle zone interne adiacenti al tiemo, in particolare nelle fiancate poste sopra alle panchette, anche 200

queste ultime riposizionate in una fase successiva rispetto alla collocazione originale (fig. 10). Per quanto riguarda gli elementi mobili, si rilevano anche in questo caso interventi di manutenzione e sostituzione, in particolare di alcune forcole che presentano difformità di intaglio e finitura superficiale; gli attuali remi sono sicuramente riconducibili a una realizzazione posteriore (fig. 11), come hanno confermato l’inventario ottocentesco, che li descrive “caloriti di rosso con ramaggi d’oro macinatto”, e il confronto tecnico con esperti di costruzioni navali veneziane durante il convegno tenutosi nel mese di marzo 2012 presso il Centro di restauro3. Le osservazioni e le analisi preliminari al-


10. Particolare della fiancata interna dello scafo durante l’intervento di rimozione della ridipintura presente 11. Uno dei remi con tassello di pulitura 12. Un particolare della scena raffigurata al centro della volta del tiemo a restauro ultimato. Si nota il pentimento localizzato in corrispondenza di un braccio di Amedeo VIII 13. Figura dipinta nel fregio del soffitto del tiemo intorno alla quale si vedono tracce del disegno preparatorio inciso sulla doratura non corrispondente alla doratura finale 14a-b-c. Un particolare decorativo del fregio prima, durante e dopo l’intervento di restauro

l’intervento hanno anche fatto emergere importanti dati sulla tecnica esecutiva, come la presenza di pentimenti nell’esecuzione delle figure (fig. 12) e il disegno preparatorio visibile sul fondo dorato del fregio del tiemo (fig. 13). Intervento di restauro Per quanto la struttura non presentasse particolari situazioni di degrado, sono stati tuttavia eseguiti interventi di risarcimento in presenza di perdita di materiale e in particolare sulle ante di accesso alla parte interna dello scafo e sul piano di calpestio. Si sono ripristinate le guide di scorrimento

degli scuri e delle ante vetrate. Nelle commettiture del fasciame sono state inserite filzette lignee, successivamente stuccate, con funzione di collegamento. I masselli sollevati dei gruppi scultorei 201


15. Una fase della pulitura laser effettuata sui gruppi scultorei di poppa

di poppa e prua sono stati riposizionati con successiva integrazione delle piccole lacune. Pur non rilevando aggressioni di insetti xilofagi in atto, si è effettuato un trattamento preventivo antitarlo sulle aree sprovviste di cromia e doratura con soluzione insetticida a base di permetrina. Gli interventi di pulitura e di rimozione degli strati sovrammessi, in particolare sulle parti intagliate e dorate, sono stati l’oggetto di un costante confronto con la direzione lavori e il comitato tecnico e hanno richiesto l’individuazione di una metodologia mirata che consentisse di diversificare le operazioni a seconda delle criticità emerse (fig. 14a-b-c). La rimozione delle stuccature non idonee si è rivelata particolarmente difficoltosa: lo spessore e la particolare resistenza ai metodi tradizionali di pulitura ha infatti indirizzato gli operatori verso l’utilizzo della strumentazione laser (figg. 15-16). Grazie a questa metodologia è stato possibile assottigliare notevolmente le stuccature che sono state successivamente rimosse meccanicamente con bisturi. L’impiego della strumentazione laser è stato limitato alle sole parti dorate, per non interferire con la presenza di pigmenti (come il cinabro) sensibili a questa modalità di pulitura, particolarmente efficace invece per l’intervento sullo strato di bronzina fortemente alterato applicato abbondantemente sulle dorature probabilmente in un intervento ottocentesco4. In particolare, sui fondi rossi la pulitura è stata effettuata cercando di preservare l’ultima ridipintura storica attraverso la rimozione dei depositi superficiali e dello strato protettivo finale alterato (colofonia), delle patine nere (a base di 202

16. Una delle statue allegoriche fluviali a metà pulitura

olii, cera e sporco coerente) e delle stuccature brune debordanti (a base di terre, ocre, calcite, biacca, gesso, olio, cera). Sull’opera viva dell’imbarcazione, che presenta la tipica calafatura a base di stoppa e pece, è stata effettuata solamente una pulitura superficiale per la rimozione dello sporco con azione meccanica. Le operazioni di pulitura all’interno del tiemo sono state finalizzate all’eliminazione del film protettivo ossidato e delle numerose ridipinture alterate in corrispondenza dei pannelli posti sopra le sedute e delle raffigurazioni pittoriche della volta (fig. 17a-b). Gli interventi di consolidamento delle porzioni di doratura e cromia sollevate si sono concentrati in modo particolare sui pannelli policromi all’interno del tiemo. Le mancanze di foglia metallica in corrispondenza delle stuccature rimosse sono state risarcite con colori ad acquerello e, quando necessario, sono stati eseguiti piccoli ritocchi con oro in conchiglia legato con vernice. Sulle figure dipinte del tiemo l’intervento di integrazione pittorica è stato eseguito con colori ad acquerello e perfezionato con colori a vernice. Nell’ambito del corso di laurea in Conservazione e Restauro dei Beni, attivato presso il Centro in convenzione con l’Università degli Studi di Torino, la Peota Reale è stata oggetto di studio e attività didattica per due tesi di laurea, attualmente in corso di redazione. Gli studenti impegnati sono Jacopo Amico e Federica Lo Sardo, i tutors della tesi sono Gianna Ferraris di Celle, Giuseppe Dardanello e Annamaria Giovagnoli.


17a-b. Parete interna e dettagli pittorici del tiemo durante il restauro

L’intervento del CCR, iniziato nel settembre 2011, è stato promosso e sostenuto dalla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, diretto da Clelia Arnaldi (Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica di Torino), Mario Epifani e Tiziana Sandri (Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte), Silvia Ghisotti e Elisabetta Ballaira (Consorzio di Valorizzazione Culturale “La Venaria Reale”), Angela Griseri e Mario Verdun di Cantogno (Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino). A supporto delle scelte tecniche si è istituito un comitato tecnico di specialisti composto da Pinin Brambilla Barcilon, Stefania De Blasi, Annamaria Giovagnoli, Paolo Buscaglia, Massimo Ravera, Barbara Rinetti e Annarosa Nicola. Il gruppo di lavoro interdisciplinare del Centro che si è occupato della Peota Reale è composto da:

ra (resp.), Gianna Ferraris di Celle (capo progetto), Marie Claire Canepa, Roberta Capezio, Michela Cardinali, Marco Demmelbauer, Alessandra Destefanis, Lorenzo Dutto, Alessandro Gatti, Paolo Luciani, Soledad Mamani, Stefania Negro, Davide Puglisi, Michela Spagnolo, Valentina Tasso, Bernadette Ventura, Sandra Vazquez Perez, Francesca Zappalà, Francesca Zenucchini. Laboratori scientifici Annamaria Giovagnoli (dir.), Marco Nervo (resp.), Tiziana Cavaleri, Paola Croveri, Anna Piccirillo e Tommaso Poli (Università di Torino). Centro di documentazione Stefania De Blasi (resp.), Sara Abram (comunicazione), Lorenza Ghionna, Marianna Ferrero.

Laboratori di restauro Pinin Brambilla Barcilon (dir.), Massimo Rave-

Laboratorio di imaging Elena Biondi, Alessandro Bovero, Daniele Demonte, Paolo Triolo.

Nel corso dell’intervento di restauro è stato organizzato un convegno internazionale di studi e confronti storici, scientifici e tecnici sulla Peota sabauda volto a far emergere tutti gli elementi a oggi noti, a tracciare nuovi spunti di approfondimento e a supportare il restauro. Il volume Il Bucintoro dei Savoia: contributi per la conoscenza e per il restauro, a cura di S. De Blasi, atti del convegno internazionale di studi (Venaria Reale, 22-23 marzo 2012), Editris, Torino 2012, è stato pubblicato grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo. Per la ricerca sui restauri storici si veda quindi S. De Blasi, La storia conservativa del “Bucintoro” sabaudo strumenti per il supporto e la documentazione di un restauro, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi

per la conoscenza e il restauro cit., pp. 175-179. AST, Sezioni Riunite, Casa di S.M., Regno di Carlo Alberto, Parcelle e conti, m. 3342. 3 Ivi, Casa di S.M., Inventari, Testimoniali di Stato, Regia Mandria di Chivasso e altre tenute, 1826-1857, Inventari, m. 13062, Descrizione del Bucintoro esistente al Valentino Reale, con notizie intorno al medesimo delli 10 gennajo 1848. Il documento è stato trascritto nell’appendice documentaria degli atti del convegno sopra citato. 4 Per la documentazione relativa all’utilizzo di bronzina si veda C. Arnaldi di Balme, Il “Bucintoro” nel Museo Civico di Torino, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e il restauro cit., pp. 109-121.

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La Scuderia Juvarriana Francesco Pernice

[…] La ridetta citroniera e aranciera, che veramente è magnifica anche ora che in cambio di agrumi contiene cavalli, la chiesa e le scuderie, sono all’incirca ciò che lo straniero può tuttora osservare nelle rovine di quella Villa Reale, già teatro di splendide feste. Ivi è presentemente la Regia Scuola d’equitazione, meritevole di lodi sincere. Venne essa fondata in sul principio del secolo decimottavo, e in quelle magnifiche scuderie si tenevano meglio trecento cavalli delle razze migliori. Era essa venuta in tal fama che da tutte le corti d’Europa vi si mandavano allievi per impararvi la vera arte dell’equitazione. Il re Carlo Felice la rifondò nel 1823. Essa è intesa a formare buoni institutori per la cavalleria […]. Descrizione di Torino, a cura di G. Pomba, Torino 1840

Nata come residenza di caccia, Venaria ha avuto sin dall’inizio un fortissimo legame con il cavallo, ricoverando e ospitando mandrie di migliaia di esemplari, protetti dal freddo e dalla fame, offrendo loro sicuro riparo e decoroso alloggio. Le grandi scuderie reali, le più grandi in Piemonte, confermano dunque non solo l’ambizione della committenza ma anche l’importanza di questo animale nella grande coreografia delle cacce reali. La loro costruzione fu affidata nel 1721 a Filippo Juvarra che progettò all’estremo sud-est del complesso della Reggia una serie di fabbricati organizzati su assi rigidamente orto-

gonali, quinta scenografica del gran parterre juvarriano. Le scuderie formano due lunghe gallerie: la Citroniera e la Scuderia vera e propria. La prima, un’enorme serra coperta da volte a botte e riscaldata dal sole di mezzogiorno attraverso ampie vetrate, era stata concepita e costruita per la coltivazione e il mantenimento delle piante “esotiche”, usata per riporre d’inverno le piante d’agrumi ornamentali. Il muro a nord, decorato a trompe-l’œil con la replica dei serramenti vetrati, separa la Citroniera dalla Scuderia grande, progettata per contenere 160 cavalli in box lignei – oggi scomparsi – di cui restano i precisi disegni realizzati dai mastri minusieri. Le due lunghe gallerie sono sormontate da un ulteriore piano che fu adibito ad appartamenti dei paggi da Benedetto Alfieri, formando un unico vastissimo corpo di fabbrica largo 34 m e coperto da un gran tetto di circa 6000 mq, alto 28 m al colmo, sorretto da coppie di incavallature lignee complesse. Gravemente danneggiate dal secolare decadimento e da centocinquant’anni di uso militare (1831-1983), vennero consegnate nel 1983 dalla I Direzione Genio all’allora Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, che provvide a sottoporle a vincolo ai sensi della L. 1089/1939 registrando tuttavia il grave stato di degrado delle immense navate. Al deperimento murario, allo sfascio delle incavallature e ai gravi dissesti strutturali si aggiungevano i danni causati alle ricchissime decorazioni dall’umidità e dai vapori prodotti dal fieno,

Reggia di Venaria, la Citroniera Juvarriana dopo i restauri, 2010. Archivio Consorzio La Venaria Reale (fotografia di C. Sergi)

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1. Reggia di Venaria, la Citroniera prima dei restauri, 1965. Archivio Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Torino, Asti, Cuneo, Biella e Vercelli

dalla paglia e dagli animali ma anche da successivi strati di tinta; inoltre le grandi vetrate della Citroniera erano state tamponate per trasformare le navate in stalle e magazzini militari. Nell’ambito del vasto progetto di recupero della Reggia, il restauro e la riqualificazione delle Scuderie Juvarriane riflette il valore paradigmatico di Venaria Reale, straordinario esempio dell’architettura di corte sabauda e palcoscenico privilegiato per le sperimentazioni formali e tecnologiche degli architetti ducali e regi, e rappresenta, non solo metaforicamente, un vero ritor206

no alla luce: gli imponenti e suggestivi spazi della Citroniera, dopo decenni di buio, sono infatti tornati ad accogliere i raggi del sole. L’attento recupero architettonico, oltre al consolidamento strutturale destinato a sanare le secolari fragilità dell’edificio e a un completo aggiornamento impiantistico finalizzato alla nuova destinazione d’uso, riprende e valorizza le straordinarie scenografie di questi ambienti, progettati come fondale dei giardini e caratterizzati da un grande e complesso apparato decorativo di pareti a marmorino ma anche nicchie, lesene,


2. Reggia di Venaria, la Scuderia prima dei restauri, 1965. Archivio Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Torino, Asti, Cuneo, Biella e Vercelli

cornici, volte e aperture, stucchi e trompe-l’œil. Dopo quattro intensi anni di lavori, promossi e coordinati dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici e dalla Regione Piemonte secondo le più avanzate tecniche e metodologie, le Scuderie Juvarriane sono visibili nella loro interezza e maestosità. Il cantiere ha richiesto innanzitutto un ampio processo analitico, avviato in via sperimentale fin dal 2000, impegnativi approfondimenti sia in campo storico-critico, con mirati saggi archivistici, sia in quello strutturale, con l’analisi in sito dei materiali, sostenuta da una campagna diagnostica di sondaggi, tasselli sugli apparati decorativi, analisi chimiche fino allo studio delle facciate e degli ambienti. La campagna diagnostica è poi proseguita in cantiere con ulteriori analisi strutturali mirate alla verifica dei problemi di ordine statico emersi in corso d’opera, a seguito di scavi archeologici e ritrovamenti di strutture murarie. Questo ampio insieme di elaborazioni prelimi-

nari ha confermato anche per questi spazi l’estrema complessità, caratteristica della Reggia: il grande sistema monumentale è infatti un palinsesto dell’architettura barocca di corte ma anche una preziosa testimonianza di gusto, di pratiche di cantiere, di tradizioni costruttive. I lavori, progettati dal professor Paolo Marconi in collaborazione con gli architetti Augusta Cyrillo Gomes e Giancarlo Battista, gli ingegneri Salvatore D’Agostino e Mario Rosario Migliore e con Itaca spa, sotto l’alta sorveglianza del sottoscritto, allora soprintendente, si fondano su meditate scelte di restauro e di ripensamento funzionale. L’organizzazione del cantiere è stata programmata nei minimi particolari per abbattere i costi di intervento e conciliare il rispetto delle architetture con le nuove esigenze funzionali, riproponendo tecniche e materiali antichi ma con metodologie di restauro tra le più moderne. Nella Citroniera è stato ricostituito il sistema di aperture settecentesche, accompagnato dalla posa di pavimentazione in pietra; nella Scuderia 207


3. Reggia di Venaria, la Citroniera dopo i restauri, 2010. Archivio Consorzio La Venaria Reale

i pavimenti in pietra e cotto riprendono le pendenze ritrovate attraverso lo scavo archeologico e destinate allo smaltimento dei liquidi occorrenti alla bagnatura delle piante o provenienti dall’uso della scuderia e per la pulizia dei cavalli. Le facciate sono state oggetto di un accurato intervento di recupero dei mattoni a vista, di cui si è voluta conservare l’originaria caratterizzazione; sono stati ricostruiti i serramenti, riproposti nei luminosi colori juvarriani e nei disegni settecenteschi emersi dalle indagini stratigrafiche. Gli oltre trecento prelievi della complessa campagna di analisi diagnostiche e di saggi stratigrafici finalizzati all’individuazione dei colori originali, delle composizioni materiche e delle antiche metodologie di applicazione, hanno garantito il restauro filologico di uno straordinario apparato decorativo portando alla sperimentazione e produzione di nuovi materiali e alla formazione di stuccatori, falegnami, marmisti, restauratori, pavimentisti in grado di applicare le antiche lavorazioni. 208

Così, secondo canoni già utilizzati alla Reggia, l’accurato lavoro di restauro artistico ha riproposto le delicate cromie settecentesche di stucchi e intonaci a marmorino, le superfici intonacate non affrescate sono state consolidate ove possibile; gli intonaci di nuova fattura, gli stucchi e le partiture architettoniche sono stati realizzati con materiali analoghi agli originali per composizione e finitura. Particolarmente rilevante è stato il restauro degli apparati decorativi della grande Citroniera con la progressiva messa in luce di estesissime porzioni di decorazioni settecentesche: i dipinti parietali a trompe-l’œil, fortemente degradati, hanno richiesto interventi eterogenei con l’uso di tecnica conservativa sui dipinti esistenti e ripropositiva, per integrare le lacune presenti nelle specchiature architettoniche. L’illuminazione, oltre a un impianto scenografico di neon nel secondo ordine di cornici, ha riproposto il disegno juvarriano: grandi lanterne


ubicate lateralmente alle pareti e centro volta. Nel coniugare restauro e nuove destinazioni d’uso, la Scuderia, la Citroniera e il cortile lato caserme sono stati scavati per realizzare grandi locali destinati agli impianti tecnologici, elettrici, di ricambio aria e raffreddamento, ai magazzini, ai servizi igienici, ai locali di supporto funzionali a un moderno museo. Anche i locali al primo piano, originariamente adibiti da Benedetto Alfieri ad appartamenti dei paggi, sono stati recuperati dal degrado realizzando uno spazio per caffetteria aperta al pubblico con una grande terrazza panoramica da cui ammirare la catena montuosa del Monviso, spazi per esposizioni temporanee, una sala convegni con uffici e locali di supporto. La monumentalità delle Scuderie Juvarriane, alte 15 mt, lunghe 140 mt per 34 mt di larghezza per un totale di 5000 mq, si riflette naturalmente anche nei numeri del restauro: oltre 362.000 ore di lavoro, 21.000 mc di materiali di scavo, quasi 5200 mq di coperture, 4500 mq di pavimentazioni in cotto e altrettanti di pietra, oltre 1800 mq di pavimentazioni in mattoni e pietra, 22.000 mq di intonaci, 176.000 mattoni per il restauro delle facciate, 20.000 mt di cavi per l’illuminazione e l’adeguamento alle norme di sicurezza. Per il restauro artistico, che ha riguardato 650 mq di trompe-l’œil, 23.000 mq di marmorino, 19.000 mq di velature e oltre 5500 mt di cornici a stucco sono state impiegate oltre 3000 giornate lavorative, altrettante mascherine e 6000 paia di guanti di lattice, 140 saggi stratigrafici e 50 analisi di laboratorio. L’apertura di questi grandiosi e scenografici spazi conferma dunque la Reggia come cantiere la-

4. Scuderia e Citroniera Juvarriane, prospetto esterno: lavori di restauro delle facciate e realizzazione delle centrali tecnologiche nel cortile, 2004. Fotografia Guerrini Costruzioni

boratorio, capace di coniugare recupero e nuove destinazioni d’uso, ricerca e contenimento dei costi, formazione e valorizzazione trasformando il complesso in un dinamico polo culturale e in una straordinaria risorsa per il territorio: la monumentalità e la notevole versatilità delle Scuderie Juvarriane ne fanno infatti una sede espositiva d’eccellenza e una suggestiva location per eventi, spettacoli e manifestazioni.

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La Peota alla Reggia di Venaria: conservare e custodire Silvia Ghisotti

La storia conservativa della Peota ordinata dal re di Savoia Vittorio Amedeo II ha inizio dal viaggio lungo il Po da Venezia a Torino durato trentadue giorni, dal 2 agosto al 4 settembre 1731. Le varie tappe e le modalità del trasporto sono state ricostruite da Luigi Griva attraverso i documenti rinvenuti nel 1995 presso l’Archivio di Stato di Torino: le parti mobili vennero imballate, le sculture e gli intagli protetti da tele cerate e il traino avvenne da terra con l’ausilio di cavalli1. A parte l’imprevisto di un acquazzone che comportò il rifissaggio delle protezioni, la barca arrivò sana e salva al Castello del Valentino e venne ricoverata in un baraccone a palafitta coperto, poi sostituito da un capanno più stabile e ampio. Le vicende del Bucintoro sabaudo durante la sua permanenza fino al 1869 nella rimessa del Valentino, il successivo allestimento presso il Museo Civico di Torino nell’apposito fabbricato in via Gaudenzio Ferrari, il trasferimento a Palazzo Madama e il trasporto nel 2000 al Laboratorio Nicola di Aramengo sono stati esaurientemente ricostruiti da Clelia Arnaldi2. Si deve senz’altro a questa musealizzazione della barca, con l’abbandono della rimessa fluviale per una sistemazione in ambienti più idonei dal punto di vista conservativo, se la Peota è giunta sino a noi in condizioni pressoché ottime. Con la sua nuova identità di splendida “scultura barocca” e non solo più di imbarcazione cerimoniale, il suo destino si è incrociato con quello della Reggia di Venaria, quando all’apertura nel 1998 dell’esemplare cantiere

di restauro risultò chiara fin da subito la necessità di allestire un percorso museale con opere messe a disposizione dagli altri musei e residenze sabaude che ne valorizzassero la straordinaria architettura3. Nell’elenco dei beni di proprietà del Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama concessi nel 2002 in comodato ventennale per il percorso di visita della Reggia di Venaria, inaugurata nel 2007 dopo il complessivo recupero, la Peota Reale spicca per l’importanza storico-artistica, l’unicità e anche le eccezionali dimensioni4. Non appena si ebbe la consapevolezza che Venaria Reale sarebbe diventata la sede deputata a ospitare il Bucintoro, divenne esigenza prioritaria individuare quale luogo della Reggia potesse offrire maggiori opportunità per un allestimento spettacolarizzato e insieme per la corretta conservazione del prezioso cimelio. La prima ipotesi di esposizione della Peota sabauda a Venaria del 1999 prevedeva la sua collocazione in uno specchio d’acqua in movimento nel suggestivo ambiente sottostante la Galleria Grande, ossia l’antica citroniera creata all’inizio del XVIII secolo da Michelangelo Garove5. Successivamente venne indicato come spazio utilizzabile proprio la Galleria, ma anche questa soluzione si rivelò inattuabile per vari motivi, innanzitutto la difficoltà di garantire l’adeguata salvaguardia della imbarcazione6. Altre due proposte non ebbero seguito: la prima suggeriva l’utilizzo del cortile tra i due fabbricati della caserma Gamerra, che si pensava di acquisire per ricavare spazi espositivi e

La Peota Reale nella Scuderia Juvarriana in allestimento, 2012

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1. Schizzo prospettico dell’allestimento della Peota sotto la Galleria Grande della Reggia di Venaria, 1999

di supporto alla Reggia, la seconda di rifare la fontana del parterre juvarriano e di coprirla con una cupola sotto la quale ricoverare la Peota7. Il progetto con studio di fattibilità elaborato nel 2006 dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, sotto la presidenza di Carlo Callieri, all’interno del I corso di “Formazione per Formatori”, prevedeva invece la realizzazione di un contenitore trasparente per effettuare le operazioni di restauro della barca e garantire nel contempo la fruibilità da parte dei visitatori, con l’esposizione finale nella Citroniera Juvarriana8. Fa riferimento a questo documento la relazione tecnica presentata in data 22 ottobre 2008 dai professori del Politecnico di Torino Marco Filippi e Marco Perino, dove si affrontava per la prima volta in maniera dettagliata il Problema della climatizzazione dell’ambiente di conservazione / esposizione della Peota Reale alla Reggia di Venaria, fornendo le linee guida per risolvere correttamente tutti gli aspetti legati alla salvaguardia. In seguito, accantonata anche l’ipotesi di allestire la Peota nella Citroniera, venne indetto un bando di gara europeo, pubblicato il 9 ottobre 2009, per la progettazione di un padiglione per inserire la barca, con adeguate soluzioni architettoniche, paesaggistiche e tecnologi212

che, nello specchio d’acqua della Peschiera Grande nel parco basso della Reggia 9. Viste le insormontabili difficoltà sia tecniche sia finanziarie, il Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale si vide però costretto alla revoca e alla non aggiudicazione della gara. Il progetto di allestimento della Peota negli spazi della Reggia di Venaria venne nuovamente ridiscusso nell’autunno 2010, quando, potendo contare sul finanziamento della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, si prese la decisione di dare finalmente avvio al restauro della barca presso il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, trasportandola dal laboratorio Nicola Restauri di Aramengo dove era rimasta in deposito dal 2000. Naturalmente la movimentazione di un’opera lignea così delicata e di grandi dimensioni è stata affrontata con tutte le accortezze necessarie, seguendo le prescrizioni fornite dalla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte congiuntamente all’autorizzazione al trasferimento, effettuato nel mese di settembre 201110. In particolare è stata indicata come condizione imprescindibile il mantenimento degli stessi valori microclimatici, nell’intorno dei 18°-21° di temperatu-


1. Schizzo prospettico dell’allestimento della Peota nella Galleria Grande della Reggia di Venaria, 2000

ra e del 45-60% di umidità relativa, registrati nell’ambiente di ricovero presso il Laboratorio Nicola durante tutto il periodo di permanenza, sia per i locali monitorati del Centro Restauro utilizzati per le operazioni di restauro, sia per gli spazi individuati per l’allestimento finale. Proprio per quanto concerne lo spazio della Reggia nel quale esporre in maniera definitiva la Peota, dopo aver valutato attentamente le varie proposte, il comitato scientifico presieduto dal direttore del Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale Alberto Vanelli ha scelto la Scuderia Juvarriana, che, nonostante l’ampia volumetria, gode, grazie all’esposizione a mezzanotte e alla presenza di aperture finestrate, di un microclima favorevole e di un naturale isolamento dalla luce solare. L’impianto di climatizzazione di riscalda-

mento-raffreddamento ivi installato è in grado di controllare in maniera eccellente i valori termoigrometrici nel tempo e nello spazio, nel rispetto assoluto dei parametri ambientali indicati come ottimali per la conservazione del grande manufatto ligneo. Grazie alla collaborazione tra la Reggia di Venaria Reale e il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale e nell’ambito della manutenzione programmata della residenza, il personale specializzato dei laboratori scientifici effettuerà il monitoraggio termoigrometrico continuo della Scuderia, mentre i restauratori competenti controlleranno periodicamente lo stato di conservazione della Peota, segnalando le anomalie e intervenendo prontamente in caso di riscontro di danni. La Reggia di Venaria ha infatti ricevuto il gran213


3. Schizzi prospettici dell’allestimento della Peota sotto la Galleria Grande della Reggia di Venaria, 1999

de onore di accogliere la “Barca sublime” e di poterla esporre nella splendida cornice della Scuderia realizzata da Juvarra, quasi sicuramente progettista anche dell’imbarcazione reale, ma nello stesso tempo ha il compito e il dovere di custodirla per le generazioni future. Il viatico per questa impresa ancora una volta viene da Andreina Griseri, che nel 2004 nelle lungimiranti pagine dedicate alla Peota dei Savoia come palcoscenico sul fiume indicava la rotta da seguire: “E dopo il restauro ora in cor-

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so, il Bucintoro, donato alla città di Torino da Vittorio Emanuele II, sarà presentato dalla Regione Piemonte nel nuovo progetto elaborato per la reggia di Venaria. L’idea del viaggio continua con altre rotte, si colora di altre prospettive, per altri itinerari, speriamo altrettanto curiosi e divertenti, oltre il clima creato a Venaria dall’occhio magico del Seicento e dalle aperture moderne di Juvarra e di Benedetto Alfieri. Il Bucintoro troverà qui un approdo illuminista”11.


L. Griva, La peota di Carlo Emanuele III di Savoia (1730). Nuovi documenti, in “Studi Piemontesi”, vol. XXIV, fasc. 2, novembre 1995, pp. 411-417; Idem, La costruzione e il viaggio del “Bucintoro”, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro, a cura di S. De Blasi, atti del convegno internazionale di studi (Venaria Reale, 22-23 marzo 2012), Editris, Torino 2012, pp. 61-69. 2 C. Arnaldi, Il “Bucintoro” nel Museo Civico di Torino, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro cit., pp. 109-121. Per le manutenzioni e i restauri storici si veda S. De Blasi, La storia conservativa del “Bucintoro”, ivi, pp. 175-179. 3 C.E. Spantigati, Il bucintoro dei Savoia e il progetto “La Venaria Reale”, in Archeologia Storia Etnologia navale, a cura di S. Medas, M. D’Agostino, G. Caniato, atti del I convegno nazionale (Cesenatico, Museo della Marineria, 4-5 aprile 2008), Edipuglia, Bari 2010, pp. 199-202; Eadem, Il “Bucintoro” nelle arti di corte, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro cit., pp. 99-107. 4 Per la scelta delle opere era stata costituita un’apposita commissione formata da Enrica Pagella, Direttore del Museo Civico, Carla Enrica Spantigati, Soprintendente per i Beni Storici, Artistici e Demoetnoantropologici del Piemonte, Francesco Pernice, Soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio, Alberto Vanelli, Direttore Regionale ai Beni Culturali, Andreina Griseri, Accademia dei Lincei, Michela di Macco, Università di Torino, Vera Comoli, Politecnico di Torino. Il comodato è stato ri1

formulato il 29 agosto 2011 tra la Fondazione Torino Musei e il Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale. 5 Il progetto era del raggruppamento composto da Fiat Engineering Spa, gli architetti Gae Aulenti e Cesare Volpiano e lo Studio Associato Libidarch. Cfr. Progetto di restauro e valorizzazione della Reggia di Venaria Reale e del Borgo Castello della Mandria, Torino s.d. (1999?), pp. 2123. 6 Regione Piemonte “Progetto La Venaria Reale”. La Galleria di Diana e la Peota reale. Ipotesi di inserimento ed impatto virtuale. Gennaio 2000. 7 Le proposte spettavano rispettivamente al soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio Francesco Pernice e a Mirella Macera, responsabile della conservazione dei giardini di Venaria Reale. 8 G. Ferraris di Celle, in Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro cit. 9 La commissione nominata per la verifica delle proposte progettuali era composta da Carla Enrica Spantigati, Luisa Papotti, Mirella Macera, Gianbeppe Colombano e Maurizio Reggi, con Francesco Pernice responsabile unico del procedimento. 10 Cfr. M. Epifani, La Peota Reale e la tutela, in questo stesso volume 11 A. Griseri, Torino 1731: il palcoscenico sul fiume e le sue quinte, in Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci, Dipartimento Arti Visive - Università di Bologna, Bologna 2004, pp. 269-275.

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Allestire la Peota dei Savoia alla Reggia di Venaria Elisabetta Ballaira con interventi di Davide Livermore

Dal documento programmatico del Consorzio di Venaria Reale, attività 2012-2015: La grande occasione di richiamo per l’autunno 2012 sarà, nella Scuderia Juvarriana, lo spettacolare allestimento costruito intorno alla Peota, commissionata nel 1729 da Vittorio Amedeo II e alla cui realizzazione partecipò lo stesso Filippo Juvarra. La messa in scena della Peota, all’indomani del recupero realizzato presso il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale con il fondamentale sostegno della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Culturali, sarà basata sulla sua spettacolarizzazione come imbarcazione da parata per le feste di corte barocche e unitamente a corredi iconografici, divulgativi ed esplicativi dovrebbe costituire un allestimento semipermanente della durata di due-tre anni. La sezione finale dello spazio dovrebbe invece ospitare piccole mostre periodiche dedicate a temi quali: gli stretti legami culturali tra Torino e Venezia […]. La Peota dei Savoia o Bucintoro Reale, come viene sempre denominata la barca nei documenti storici, è un oggetto complesso le cui caratteristiche vanno tutte comprese, nel momento dell’articolato lavoro del suo pubblico allestimento: è un’imbarcazione fluviale del Settecento con un importante committente e altrettanto importante connotazione tecnico-costruttiva, è un elemento di parata per la celebrazione del potere regale, è un manufatto artistico raro,

composto di sculture, pitture ed elementi decorativi fortunatamente ben conservati e oggi riportati all’antico splendore da puntuali interventi di restauro, è un oggetto ormai musealizzato da oltre un secolo e mezzo, per espressa volontà della stessa originaria committenza sabauda. Sancito fin dal 1998 il trasporto della grande barca settecentesca in Reggia, essa viene inserita nel Comodato d’uso tra Fondazione Torino Musei e Consorzio di Valorizzazione Culturale La Venaria Reale: da quel momento, il dibattito su quale spazio utilizzare all’interno del grande complesso sabaudo venariese e come affrontare il tema dell’allestimento si protrae nel tempo e di questo lungo iter dà conto l’articolo di Silvia Ghisotti in questo stesso volume. L’inserimento della barca nella residenza reale di Venaria, se da una parte appare congruo dal punto di vista storico artistico, dall’altra pone il problema del ricovero in un grande volume architettonico chiuso e climaticamente condizionato di un manufatto in qualche modo “estraneo”, nella sua realtà di mezzo natante. Importantissimi, nella fase di studio progettuale, sono stati i numerosi contributi storici, storico artistici, archivistici e tecnici messi generosamente a disposizione dal folto numero di specialisti nell’occasione del Convegno organizzato dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale (cfr. Il Bucintoro dei Savoia. Contributi per la conoscenza e per il restauro, Editris, Torino 2012) e in quella della redazione del presente catalogo dell’esposizione La Barca Sublime, su cui si sono ampiamente appoggiate tutte

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1. Davide Livermore, La Barca Sublime, visualizzazione tridimensionale dell’allestimento

le considerazioni e gli studi sull’allestimento. L’orientamento del lavoro si è consolidato, dopo attenta riflessione, sull’idea di una “messa in scena” teatrale, che potesse trasportare la Peota Reale in una dimensione narrativa e fantastica, ma che parallelamente potesse presentare un oggetto solidamente riconoscibile, con la propria storia integrata in quella della Reggia. Poiché non era ipotizzabile, per motivi di tutela e conservazione, avvicinare il Bucintoro dei Savoia al suo elemento più naturale, ovvero l’acqua, la contestualizzazione per l’esposizione semipermanente nella monumentale architettura della Scuderia Juvarriana, seguendo il tema portante del Teatro e della Festa Barocca, è risultata tra le più appropriate. Filippo Juvarra, infatti, alla fine degli anni venti del Settecento, fu regista e collaudatore della committenza della Peota agli squeri veneziani, ma fu anche architetto degli allestimenti delle feste della corte nelle residenze reali e così anche alla Reggia di Venaria – come documentato 218

da disegni, istruzioni e committenze artistiche – dove fu anche protagonista di una intensa stagione di riplasmazione del palazzo e progettista dei due monumentali spazi della Citroniera e della Scuderia, rifunzionalizzati oggi quali sedi per gli eventi espositivi di più vasto respiro. Assunte queste direttive di fondo e redatto un briefing di massima, il progetto artistico di allestimento della Peota nella Scuderia Juvarriana è stato poi affidato dal direttore della Reggia di Venaria Alberto Vanelli alla consulenza di Davide Livermore, regista teatrale con particolare predisposizione ed esperienza nel teatro musicale. L’idea portante del progetto da lui proposto è l’immersione del Bucintoro sabaudo nell’architettura monumentale della lunga manica della Scuderia Juvarriana e la creazione in quello spazio di un vero Teatro della Memoria di impronta barocca, spazio fisico ma anche luogo dei sogni, sul palcoscenico del quale mettere in scena il Bucintoro. Da Venezia a Torino, con una drammaturgia che si serve di rappresentazioni artisti-


che e di immagini suggestive, come la scia della barca in movimento sull’acqua, il visitatore è introdotto a un vero e proprio spettacolo. Arie musicali settecentesche di Antonio Vivaldi, coeve alla barca in esposizione, e immagini avvolgenti e oniriche, proiettate su volta e pareti della Scuderia, costituiscono un vero e proprio spettacolo, che ha come protagonista la Peota nella sua dimensione più spettacolare e vocativa. L’aspetto didattico che restituisce alla visione pubblica la storia e le conoscenze sul manufatto restaurato, passa in primo luogo lungo una passerella che permette l’osservazione a diversi livelli dell’imbarcazione la quale, nei momenti di pausa cadenzati rispetto allo spettacolo, è caratterizzata da un’illuminazione espositiva puntuale. La narrazione della storia, del viaggio e del recente restauro del Bucintoro è affidata, in uno spazio espositivo di apertura, a due diversi video commissionati al Dipartimento Imaging del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, mentre alcuni personaggi storici – Vittorio Amedeo II, Filippo Juvarra, il marangone veneziano, l’intagliatore – sono voci narranti e protagonisti dell’area del Teatro. L’ostensione della barca, così concepita, costitusce parte integrante della visita alla Reggia, e rappresenterà un ulteriore sviluppo narrativo del percorso nel palazzo, incentrato sul racconto della corte dei Savoia. Il concept dell’allestimento e dello spettacolo era chiaramente già espresso, anche se ancora in forma di bozza, negli appunti di lavoro stesi da Davide Livermore, nel corso dello sviluppo del progetto, luglio-settembre 2012: Il Teatro della memoria Lo scheletro del teatro settecentesco deve apparire scuro, la struttura in legno sarà trattata con vernici o mordenti che ne mantengano la texture lignea, a che scuriscano la materia. Anche il retro della struttura sarà da considerarsi con il medesimo trattamento. Non sarà eseguita nessuna ombreggiatura o lavorazione pittorica, fino all’ultima serie di palchi prima dell’arco scenico.

Progressivamente, infatti, affiorano dalla struttura lignea pezzi di dorature che cominciano a ricoprire il teatro, per completarsi integralmente sull’arco scenico, che riprodurrà, in scala, quello del Teatro Carignano di Torino. La particolarità sarà quella che al culmine della curvatura, l’arco si presenterà rotto, spezzato. Il trattamento di tale parte dev’essere più fedele possibile, tanto nelle dorature, stucchi e decorazioni, quanto nella rottura, che presenterà sbrecciature, spunzoni eccetera. Tutta la parte dell’arco scenico richiede una scenografatura fedele e materica, dove si predilige il semi-tridimensionale, fedele all’originale del Carignano e non alla pittura. La doratura, fedele al teatro torinese, avrà tinte scure, profonde. “La Peota, Barca dei Sogni”. Drammaturgia Prologo Nel 1731, dalla Laguna di Venezia dipinta da Antonio Canaletto tra il 1727 e il 1729, in una scena affollata di barche per l’arrivo del Bucintoro dogale, salpa il Bucintoro dei Savoia. Dopo una navigazione lungo il Po durata un mese, raggiunge Torino al Castello del Valentino sulle sponde del fiume, raffigurate dal pittore Bernardo Bellotto. I dipinti si animano. I visitatori entrano nel Teatro di Memoria seguendo la scia del Bucintoro sabaudo, accompagnati dall’Estro Armonico Rv 578 di Antonio Vivaldi. Il Teatro della Memoria Sette personaggi storici e di fantasia parlano della Peota arrivata a Torino. Sono Filippo Juvarra, architetto di Corte; Vittorio Amedeo II, re; Carlo Emanuele III, il figlio, re anch’esso; Spizzichino Elide, sarta romana dello Stato pontificio, in servizio a Torino; Matteo Calderoni, Mastro d’ascia veneziano; Marco Antonio da Burano, squerarol o costruttore navale; Narciso, figlio di Cefiso il dio del fiume. 219


2. La Barca Sublime, videoproiezione introduttiva (riferimento iconologico: Bernardo Bellotto, Veduta di Torino dal vecchio ponte sul Po, 1745, Torino, Galleria Sabauda)

La Barca Sublime Superato l’arco scenico del Teatro di Memoria, ecco sul palco la Peota, la barca protagonista. Vanno in scena Tre Atti teatrali per la meraviglia dello spettatore e tre Pause silenziose per osservare l’imbarcazione in tutta la sua bellezza. Gli Atti sono condotti dalle Arie vivaldiane con le quali la “maraviglia” barocca della musica e delle creazioni visive ricrea lo stupore del tempo del Bucintoro sabaudo, il XVIII secolo. Atto I. Il Viaggio. Vincerà la mia costanza, da L’Adelaide, Antonio Vivaldi Rv 695. Uno squarcio proiettato sulla volta della Scuderia: è una stella, un astro a noi vicinissimo che illumina la Peota. Al culmine della sua luminosità entra potente il suono dell’introduzione strumentale dell’Aria. Tutto scende verso il basso, la Peota precipita con lento e inevitabile moto verso il fondo della storia. 220

Siamo in un viaggio a ritroso nel tempo, lasciamo le stelle, gli astri per entrare nella nostra atmosfera, nubi e nembi, fino a immergerci nell’acqua con gran boato. Con la discesa verso gli abissi attraversiamo il nostro tempo, intorno a noi le architetture di oggi lasciano il posto a quelle più antiche, Palazzi, Regge, luoghi che hanno segnato epoche e poteri di Torino, fino a giungere al Settecento della Barca dei Sogni. Ecco il 1731, fluttuante e onirico. Appare il riflesso dorato di un giovane bellissimo: è Narciso che, con la fine dell’Aria volge a noi il suo sguardo, e si fissa per sempre sulla prua del Bucintoro. Atto II. Il Sogno. Dite Oimè, da La fida ninfa. Antonio Vivaldi Rv 714 Una donna bellissima in abito del Settecento ci sorride nuotando tra i flutti, si affaccia e scom-


3. La Barca Sublime - Aria d’amore, videoproiezione

pare per ritornare a guardarci e cantare tratti dell’aria. La sua figura sinuosa si muove morbidamente immersa nei flutti. La parete di fondo è diventata rudere sommerso. La donna risale verso l’alto per sorriderci ancora, apparire dall’alto e fluttuare fra le acque, fra i liquidi sensi amorosi della musica di Vivaldi. Immagini eleganti e glamour, gli affanni amorosi si esaltano nella musica. L’aria si spegne con il lento e progressivo svuotamento dell’acqua che lascia il posto a una linea d’orizzonte e a un cielo magico e stellato. Atto III. La Tempesta. Siam navi all’onde algenti, da L’Olimpiade, Antonio Vivaldi Rv 725 Un cavaliere in costume entra nell’architettura tra le pareti dell’arco di fondo. Dietro di lui un muro con un quadro appeso. L’uomo osserva con un sorriso malizioso il quadro alla parete che contiene la bella immagine dell’aria precedente: la donna immersa nell’acqua. All’improvviso, nel quadro, l’immagine svanisce; l’uomo si guarda intorno smarrito, poi si volge

verso il soffitto. Sulla volta si scorge la donna ripresa dal basso nella chiesa di sant’Uberto della Reggia di Venaria, che guarda verso il pubblico sorridendo. Esce dall’inquadratura, e anche l’uomo esce per cercare di raggiungerla. Un passaggio di nubi tempestose oscura la scena, mentre sulla parete di fondo un mapping architetturale inizia a muovere la parete scuotendola per il vento. Tra i due protagonisti inizia un inseguimento che a tratti è lotta, a tratti è gesto d’amore. La camera ruota su se stessa, mentre l’inquadratura evidenzia le colonne che scendono verso il pavimento e i due protagonisti che escono dai corridoi. Nubi tempestose nascondono di nuovo l’immagine sul soffitto, mentre l’architettura sul fondo aumenta di intensità. I due protagonisti riappaiono davanti alle porte chiuse della Galleria grande: lei ha in mano un coltello, e con il sorriso sulle labbra colpisce al cuore l’uomo che la guarda enigmatico e malinconico. Nel suo occhio vediamo scene rapidissime tratte da tutte le tre Arie vivaldiane, che si spengono. La parete di fondo crolla al suolo distrutta.

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