SAWARI

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Sawari issue.00 maggio-giugno 2012

Foto di Steve A Johnson

Rivista on-line degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Verona


La rivista è visionabile e scaricabile dal sito dell'Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona http://www.accademiacignaroli.it/

sawari è la nozione utilizzata dai monaci zen per sintetizzare il loro ideale di bellezza acustica. Il termine significa “tocco” ma l’uso comune ne evidenzia spesso anche il significato di “ostacolo” e di “ciclo mestruale”, intendendo così come l’ostacolo sia anche sempre un’occasione potenzialmente creativa. In questi impedimenti alla tecnica esecutiva, un esperto zen ritrova un aspetto tipico della sua disciplina spirituale, che consiste nell’avvicinare il processo musicale al travaglio con cui la natura produce le sue creature imperfette. La naturale bellezza di un suono non è data dalla sua purezza (un’idealizzazione) ma dal suo esibire lo stesso equilibrio tra ordine e disordine ritenuto esistere nell’universo.


SAWARI Rivista on-line degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Verona Direttore Responsabile Massimiliano Valdinoci Coordinamento Francesco Ronzon Redazione Alessandra Trestini Alessia Dorigoni Silvia Sommadossi Hanno collaborato a questo numero Claudia Comunian Eddy Corvaglia Elisa Longo Elisa Trentin Filippo Ferrarini Francesco Avesani Giulia Cremoni Mattia Noal Mariachiara Casarotto Melissa Temporin Michele Maccioni Nicolò Tedeschi Valentina Campregher Grafica e impaginazione Silvia Sommadossi E-mail sawari@accademiacignaroli.it Accademia di Belle Arti di Verona Via Carlo Montanari, 5 - 37122 Verona Tel. 045 8000082 - Fax 045 8005425 http://www.accademiacignaroli.it/

© 2012 Sawari Magazine. Tutti i diritti sono riservati. Qualora troviate contenuti che infrangono la Legge n.633/22.3.1941 siete invitati a segnalarlo all’indirizzo sawari@accademiacignaroli.it


Sommario

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EDITORIALE In bloom

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ARTISTI Cecelia Webber

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PROSPETTIVE Steampunk Illusioni interattive Mani e idee

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IO LA PENSO COSĂŹ Triple Il design visto da fuori

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IN TRINCEA Body Panting Collettivo Soppalco Onirica Lab


Sawari issue.00 maggio-giugno 2012

JANUS intervista doppia: Scarpa / Mossenmark

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L’ANGOLO del DOCENTE E se fosse tutto un gioco?

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Voci dal Mondo Erasmus a Granada

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Recensioni David Sylvian - Died in the wool

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Banana Yoshimoto - Kitchen

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Il Corsaro - Balletto del Bolshoi

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Living with Complexity - Donald A. Norman

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GALLERIA Silvia Forese Pittura Massimo Reniero Scultura Marvin Mosca Scenografia Concorso Banco Popolare Design Cantoria della Chiesa di San Rocco · VE Restauro

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Editoriale · In bloom · di Francesco Ronzon

Editoriale In bloom di Francesco Ronzon

“Nature is a whore Bruises on the fruit Tender age in bloom.” Nirvana, In Bloom L’Italia è un paese di vecchi. L’età media delle persone che fa, parla o scrive di arte è alta. Se si accende la tv o si legge una rivista, i visi hanno le rughe, i capelli tendono al grigio, l’eloquio è professionale. Spesso ciò che queste persone offrono è colto, acuto e interessante. Ma si tratta pur sempre della punta di un iceberg. Ciò che manca all’appello sono le idee, le riflessioni e le esperienze dei più giovani. E chiunque abbia un’idea delle attuali scene artistiche e creative internazionali sa che si tratta al contrario di realtà largamente under 30. In Europa, sia nei nuovi centri artistici come Tallin (Estonia) sia nelle sedi culturali ormai classiche come quella di Berlin l’età media dei soggetti operanti nel settore oscilla tra i venti e i trent’anni. Se ci si reca a Williamsbourgh-Brooklyn (New

York), l’attuale epicentro creativo della Big Apple, si può addirittura restare sbalorditi: l’intero quartiere è popolato esclusivamente da artisti venticinquenni. Ma i problemi del fare arte in Italia non si esauriscono qui. Da vari anni, infatti, nel Bel Paese, a questo invecchiamento degli attori si associa anche un progressivo indebolimento e sparizione delle reti, dei luoghi e delle occasioni di incontro e scambio di opinioni artisticoculturali. Sempre più spesso i giovani artisti, designer e simili si trovano a operare dunque isolati e separati tra loro. E non è necessario essere un esperto di storia, sociologia o antropologia dell’arte per sapere che lo scambio e il confronto tra idee è da sempre uno dei motori base della creatività: a partire dalle botteghe rinascimentali, passando

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Editoriale · In bloom · di Francesco Ronzon

per i Salon ottocenteschi sino ad arrivare alla Factory di Andy Warhol. È all’interno di questo scenario triste e deprimente che la presente iniziativa editoriale vuole provare a creare una piccola onda in controtendenza. Sawari è infatti una rivista interamente curata, diretta e organizzata da studenti. Lo scambio Una piccola repubblica e il confronto indipendente di pensiero per non ha più di trent’anni. tra idee è da chi Ovviamente, data la varietà sempre uno di livelli di formazione in dei motori base gioco (matricole, triennio, le opere e le della creatività. biennio), riflessioni avanzate potranno a volte presentare anche degli aspetti ingenui e acerbi. Avere vent’anni non rimanda però solo ad un vuoto di esperienza ma anche al possesso di un’altra esperienza del presente. Le cose osservate con gli occhi di un ventenne e con quelli di un quarantenne non risultano avere lo stesso aspetto. Le si osserva da punti di vista collocati nel tempo storico in modo differente. E, come diceva Nietzsche, l’innovazione non nasce solo dallo studio e dal rispetto del passato ma anche dal suo oblio, dalla sua ignoranza, dalla sua dimenticanza. Una lavagna troppo piena di scritte non lascia spazio a nuove parole, ad errori fecondi, a sperimentazioni. A ben vedere si tratta dell’ennesimo segreto di Pulcinella. Non solo

la storia dell’arte è piena di episodi di ingenua trasgressione giovanile che alla fine vengono a produrre nuovi modi di vedere e fare arte. Ma la stessa storia della scienza annovera al suo interno un ampio repertorio di scoperte e innovazioni nate dalla incompleta conoscenza o accettazione degli status quo del periodo. In ragione di questi presupposti, Sawari rifugge dunque dallo sposare un unico credo artistico, dogma estetico o criterio di gusto. Il suo intento é al contrario quello di dar vita ad un luogo caldo, morbido e accogliente ove poter pensare, riflettere e scambiare opinioni artistiche in libertà, a mente aperta e senza ansie da prestazione. Una via di mezzo tra il bar spaziale del primo Star Wars e la sede della confraternita di John Belushi in Animal House: ingenuità e capolavori, risse e amabili dibattiti, canti da ubriachi e conversazioni filosofiche. In sintesi, ciò che troverete in questa rivista non sarà un’unica “linea di partito” estetica e nemmeno una levigata rassegna di opere “mature” (con tutte le note difficoltà a identificare un criterio di eccellenza artistica unanimemente condiviso). Sawari non è una via a senso unico ma una mappa, un portolano, una cartografia in fieri delle cose che esistono, fermentano e bollono in pentola tra gli studenti. Qualcosa di bello e disordinato.

Factory di Andy Warhol

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Artisti · Cecelia Webber · di Filippo Ferrarini e Alessandra Trestini

Artisti Cecelia Webber Quando la tecnologia si fa arte! introduzione di Alessantra Trestini intervista di Filippo Ferrarini

Lo scorso venerdì 16 marzo si è tenuta, presso il Museo Civico di Storia Naturale di Verona, una conferenza con Cecelia Webber, giovane artista americana che esponeva le sue opere all’interno della rassegna di arte e scienza “Infinitamente”, promossa dall’Università di Verona in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti e il Conservatorio. Tanto piccola quanto disponibile. Ecco come

descriverei Cecelia in 4 semplici e spontanee parole. Mi rendo conto però che devo essere più dettagliata. Cecelia Webber è una ventiseienne americana che non si definisce né dottoressa (sebbene stia compiendo studi universitari nel mondo delle neuroscienze) né artista (e questo forse lo riterrete scorretto voi stessi osservando le sue opere nelle pagine seguenti). Nata nelle colline del New Hempshire, trascorre l’infanzia nella tranquillità e nell’isolamento del suo giardino. Compie gli studi universitari presso l’università della South California,dove consegue la laurea in neuroscienze. Attualmente vive in Canada, dove porta avanti i suoi studi e alimenta la sua vena artistica. Voglio essere appositamente breve e concisa nel riportare le nozioni anagrafiche, facilmente reperibili nel web,

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Artisti · Cecelia Webber · di Filippo Ferrarini e Alessandra Trestini

link

www.ceceliawebber.com/

perchè preferisco piuttosto approfondire la conoscenza della sua personalità. Cecelia Webber esprime la sua arte non più attraverso i tradizionali pennelli e tavolozze, ma con fotocamera, PC, softwares vari ed eventuali. Cavalca l’onda di un'espressione artistica che sente l’esigenza di stare al passo con la nuova Era tecnologica, e che proviene dalle mani di giovani artisti che nella loro quotidianità non sanno più cos’è una penna. L’arte di Cecelia ha anch’essa la capacità di fondere due elementi all’apparenza agli antipodi: il mondo della tecnologia, appartenente a quello della scienza, e, per tanto, della razionalità, e il mondo dell’arte, per antonomasia sovrana della sfera della irrazionalità. Essa riesce nell’intento sfruttando l’uno per ottenere l’altro; la tecnologia partorisce un’opera d’arte. A mio avviso, tuttavia, riconosciamo nel suo operato un’altra qualità nascosta: essa può letteralmente far compiere un passo avanti al lettore. Già, perché per vedere la genialità artistica bisogna abbandonare la visione di insieme di quanto rappresentato, e avvicinarsi con lo sguardo, con gli occhi, per cogliere i particolari. L’indispensabile movimento del corpo per approssimarsi all’opera comporta anche un moto dell’animo, il quale ha la possibilità di sfiorare per un momento l’infinito artistico.

mi accorsi che la mia schiena assomiglia ad un petalo: questo mi ha dato l’idea!

In senso ampio, dunque la ricerca dell’artista statunitense si può collocare nell’ambito della cosidetta arte biotech. Il tema posto al centro degli interessi da quest’area di ricerca artistica sono le relazioni tra biologia, tecnologie e forme espressive. Ormai largamente presente sulla scena artistica internazionale, la nascita

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di questo filone tende ad essere individuato nella mostra – quasi una prima mondiale – curata da Jens Hauser nel 2003 a Nantes. Il suo quadro filosofico di riferimento include questioni come l’idea di natura, di evoluzione, la corporeità e il concetto di vita in senso organico. Per distinguere questa prospettiva da quella limitrofa dell’arte digitale, i ciritici hanno spesso usato la nozione di rimaterializzazione. Se le forme d’arte legate all’informatica e alle tecnologie digitali rappresentano i concetti della natura biologica mediante immagini, metafore e simulazioni al computer spesso immateriali, gli interventi sviluppati all’interno dell’arte biotech presentano questi concetti mediante la stessa materia che li costituisce: la materia del vivente. Anche se si tratta di un ambito artistico ramificato e in movimento, George Gessert individua in un comunicato su Yasmin, mailing list sulle relazioni tra arti, scienze e tecnologie sponsorizzata dal programma DigiArts dell’UNESCO, l’esistenza di tre linee di sviluppo artistico al suo interno: · la Bioarte (in senso stretto) è quell’arte che è viva o che è composta da elementi viventi. In quest’ottica sono incluse dunque nel filone anche alcune forme di Land Art e di arte ecologica. · l’Arte Biotecnologica tocca i temi delle manipolazioni (genetiche e non) di organismi, l’allevamento e la selezione di piante e animali, la manipolazione di cromosomi, la coltura dei tessuti. · l’Arte Genetica coinvolge il DNA nel più ampio significato del termine. Include opere che rappresentano tramite media diversi i processi genetici · l’Arte Transgenica si focalizza infine in modo dettagliato sull’ingegneria genetica


Artisti · Cecilia Webber · di Filippo Ferrarini e Alessandra Trestini

Quanto segue è una breve intervista rilasciataci dall’artista in occasione dell’esposizione veronese. Iniziamo con qualche domanda “di routine”: Filippo Ferrarini Lei ha avuto una formazione di tipo artistico? Cecelia Webber Beh, in verità no. Mi sono formata nel campo delle neuroscienze, ma ho lasciato quella strada per dedicarmi all’arte. Attualmente lavoro come assistente in un laboratorio neuro scientifico, ma la mia passione è l’arte. FF Questa passione per l’arte come è nata? Cecelia Webber C’è da dire anzitutto che tramite la mia famiglia sono sempre stata immersa nel mondo artistico. Ma penso che il passo decisivo sia avvenuto durante il periodo in cui mi stavo per laureare. Ero particolarmente stressata al tempo, così volli fare qualcosa di creativo, tanto per fare. Fotografai corpi umani e li posi su uno sfondo nero, in modo che dessero l’impressione di galleggiare nel vuoto; feci foto anche a me stessa. E lì mi accorsi che la mia schiena assomiglia ad un petalo: questo mi ha dato l’idea! FF E gli esordi? Com’è che è iniziato il suo successo? Cecelia Webber I primi tempi non sono

stati affatto esaltanti. Avevo partecipato ad un festival d’arte, all’università, ma dovetti prima faticare per trovare un professore che mi sostenesse. Poi ho cominciato a mettere alcune mie foto in internet, creando un blog. Alcuni utenti le hanno viste, e hanno cominciato a postarle qui e lì, su riviste o addirittura per fare video, così la voce si è sparsa: devo dire che il mio “successo” è stato del tutto inaspettato! FF Ha detto che carica le foto in internet: come si assicura di tutelare i suoi diritti d’autore? Cecelia Webber In effetti controllare tutto non è affatto facile, sto molto attenta al materiale che condivido (solo foto in bassissima risoluzione, così che non possano essere stampate). Ma è altresì vero che ho deciso di condividere la mie opere perché tutti potessero goderne: infatti, spesso e volentieri lascio che gli utenti le usino senza il bisogno di chiedermi un permesso diretto. FF Le sue opere sono facilmente stampabili. Quindi significa che non si tratta di pezzi unici: ciò non implica una svalutazione delle stesse? Cecelia Webber Anzitutto devo confessare che non so veramente dare un valore monetario alle opere: commercializzo in edizioni limitate da circa 300 pezzi. Poi,

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Artisti · Cecilia Webber · di Filippo Ferrarini e Alessandra Trestini

non sono interessata a vedere i miei lavori nelle mani di una casta elitaria composta da ricchi, bensì preferisco di gran lunga vederle nelle case di tutti coloro che le apprezzano per quel che sono. Di norma non espongo i miei lavori in musei, ma in gallerie private; al momento sono presente in 4 gallerie sparse per l’America: una in un ospedale per un progetto di arte terapia, una in una galleria a Los Angeles, una a New York ed una nel New Hampshire. FF Ha mai ricevuto critiche negative? Cecelia Webber Fortunatamente no, almeno non da critici d’arte. Le poche volte che mi è capitato è stato da parte di persone di una certa età che purtroppo non comprendono certe cose. FF La sua metodologia di lavoro? Che tipo di tecnica usa? Come inizia? Come procede? Cecelia Webber Prima scelgo foto in internet che posso rielaborare: prendo la sagoma dell’oggetto ed immagino come potrebbe essere riempito. Passo successivo è scattare centinaia di foto per trovare quella giusta. Non uso Photoshop finché non ho creato un book fotografico ricco di centinaia di foto del mio corpo. FF Adopera solo foto di corpi umani o, per esempio, di animali? Cecelia Webber È molto difficile utilizzare

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foto di animali, perché chiaramente non li si può mettere in posa. No, adopero foto di esseri umani così come li vedo e come li catturo in foto, provocatoriamente lasciati al naturale. FF Come vive il rapporto ambivalente tra natura e tecnologia che lei usa per le sue opere? Cecelia Webber Non c’è una stretta connessione, ma a mio avviso la tecnologia è comunque natura, una naturale evoluzione del sapere umano, che se ne faccia un utilizzo positivo o negativo; l’uomo deve rispettare l’ambiente anche attraverso la tecnologia. FF Siamo alle battute finali: la sua strada resterà l’arte o ha intenzione di cambiare? Cecelia Webber È una cosa che non posso prevedere, tanto meno pianificare. Ora ho successo con le mie foto, ma questo non vuole essere un paletto per il futuro; ho intenzione di sperimentare nuove tecniche e proporre nuove opere. Infatti, dipingo anche: per lo più paesaggi urbani su tela, anche se di tipo onirico. FF Ultima domanda: qualcuno potrebbe domandarsi, dov’è l’ arte nello scattare centinaia di foto apparentemente simili e rielaborarle con il pc? Cecelia Webber Semplice: l’arte sta in chi la vede!


Prospettive · Steampunk · di Vale Camp e Giulia Cremoni

Prospettive Steampunk

Il futuro di oggi nella storia di ieri di Vale Camp & Giulia Cremoni

Per parlare degli oggetti Steampunk, occorre prima chiarire a cosa ci riferiamo. Il termine “steampunk” è stato usato per la prima volta negli anni ‘80, dallo scrittore K.W. Jeter, che intendeva racchiudere sotto un’unica etichetta ambientazioni ed atmosfere letterarie ispirate al romanzo “La macchina del tempo” di H.G. Wells. Oggi lo Steampunk da semplice parola è diventato una vera e propria subcultura che influenza vari aspetti dell’arte e dell’estetica. Esso si rifà all’800 e adatta i tipici elementi dell’epoca vittoriana alla tecnologia moderna. Nel

mondo Steampunk si lascia volare l’immaginazione per fabbricare un numero infinito di artefatti e macchine, costruiti attraverso conoscenze non esistenti all’epoca, creando, per l’appunto, un accostamento anacronistico. Accanto ad oggetti più antiquati, funzionanti anche grazie al vapore, gli steampunkers modificano oggetti tecnologici come computer, iPod e chiavette usb, dandogli l’aspetto di pezzi antichi, ma mantenendo la funzionalità odierna, cercando di nascondere tutto ciò che può ricordare il design contemporaneo. I materiali che vengono impiegati

maggiormente per la modifica di artefatti sono legno, cuoio, ferro, ottone, rame e latta, perché erano quelli più utilizzati all’epoca. Navigando nel web ci si può imbattere in molti siti in cui gli stessi artisti danno istruzioni su come creare un prodotto steampunk, come nel blog di Richard Nagi. Nonostante la facilità con cui si possano trovare manufatti di questo tipo, ci siamo interessate in modo particolare a Wozniak’s Conundrum (nella foto), progetto di Steve La Riccia. Egli ha rimontato un Macintosh funzionante del 1991 secondo lo stile ottocentesco arricchendolo

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“Come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima?”

di particolari. Per ottenere questo effetto ha elaborato una macchina da scrivere Standard Model 7 di Remington, un telegrafo per costruire il mouse e un generatore in ottone. All’interno c’è anche un modem a 56k, un hard disk e un lettore di floppy disk. Lo steampunk non rivisita solo gli oggetti di oggi, ma abbraccia più aspetti della vita quotidiana come l’abbigliamento e i gioielli. Se si presta particolare attenzione ai monili si capisce che molto spesso sono frutto della rivitalizzazione di congegni rotti o inutilizzati come per esempio orologi. Infatti molto spesso gli elementi che si

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ritrovano sono ingranaggi e rotelle, impreziositi da perle, pietre e chiavi antiche. Questi utensili di metallo e vetro risultano molto decorati con incisioni, elaborati e dettagliati. Spesso ricorrono animali alati come farfalle, libellule e uccelli. Questo stile ha contaminato molte altre forme d’arte e di “svago”, come per esempio il cinema, la musica, fumetti, videogames e giochi di ruoli. Sebbene viviamo in una società dove sono le macchine a lavorare per noi, è importante scoprire il valore di far nostre le cose e immergersi in una bellezza dal sapore d’altri tempi.


Prospettive · Illusioni interattive · di Nicolò Tedeschi

Illusioni interattive Questo articolo è basato sulla presentazione del gioco “MirrorMoon” durante l’Experimental Gameplay Sessions (EGS) alla Game Developer Conference 2012 di San Francisco ( http://gdconf. com ). L’EGS raccoglie ogni anno prototipi di varia natura che indagano il mezzo dei videogiochi in modo nuovo, inconsueto, sperimentale. “MirrorMoon” è stato realizzato da Pietro Righi Riva, Nicolò Tedeschi e Paolo Tajé in occasione della Global Game Jam 2012 ( http:// globalgamejam.org/2012/mirror-moon ).

INTRODUZIONE Siamo nel campo della percezione del reale o dell’illusione virtuale quando si tratta di videogioco? Possiamo ancora parlare di legame con la realtà o la simulazione rifiuta la realtà? Nell’individuare questa possibile negazione, in filosofia si parla spesso di simulacri in relazione alle immagini prodotte dai nuovi media, e nello specifico ai “mondi virtuali”. Le immagini digitali di per loro non attivano un mero processo di mimesis, non sono semplicemente “immaginidi”, ma sono piuttosto “corposottile” (R. Diodato), entità ibride a metà tra oggetto nuovo, indipendente dalla realtà da cui derivano e tra immagini copia della realtà a cui si riferiscono. Difficilmente, però, le immagini digitali ricadono nel simulacro, come simulazione e negazione di

di Nicolò Tedeschi

un referente (J. Baudrillard). Il corpo virtuale interattivo mostra invece caratteristiche diverse, che portano appunto a parlare di simulacro, piuttosto che di rappresentazione. A questo proposito, nel Gennaio 2012 abbiamo lavorato a un gioco che sperimenta con la rappresentazione nel virtuale e con la relazione tra percezione nella realtà e percezione nella realtà simulata. MirrorMoon si basa su un paradosso spaziale, simile agli oggetti impossibili di Escher o Penrose: mentre la rappresentazione non sembra essere coerente se presa nel suo insieme, diventa plausibile se presa in considerazione una parte per volta. Ciò che abbiamo creato con MirrorMoon è una sovrapposizione parziale tra spazio 3D e mappe di riferimento, un trucco percettivo che funziona in quanto il contesto è plausibile, richiama immagini, astrazioni e concetti che sono stati interiorizzati prima della percezione attuale. MirrorMoon si basa, cioè, sull’ambigua relazione tra tre soggetti: percezione, rappresentazione e realtà. La rappresentazione è utilizzata

come strumento per comprendere e interagire con la realtà e ha specifiche caratteristiche che dipendono dal medium utilizzato per rappresentare. Un esempio sono le mappe bidimensionali, ottime per rappresentare la distanza relativa tra due o più oggetti, ma di difficile utilizzo quando si deve rappresentare l’altitudine, motivo per cui sono state introdotte le isoipse, che agiscono a livello simbolico invece che a livello iconico. In MirrorMoon abbiamo allargato questa ambiguità: siamo abituati a giochi che giustappongono diverse rappresentazioni dello stesso spazio, ad esempio i giochi di corse che sperimenta a vari livelli d’interazione: mette alla prova il giocatore attraverso la sovrapposizione, in tempo reale, di due sistemi di coordinate 3D che coesistono parzialmente nello stesso spazio di gioco, spinge a riconsiderare il concetto di “mira” nella categoria detta “giochi in prima persona” mettendo il giocatore in controllo dello spazio circostante rispetto a se stesso e non viceversa, e, infine, presenta uno mondo 3D esplorabile solo attraverso la trasformazione della sua rappresentazione ad opera del giocatore.

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prospettive Schermata del gioco Mirror Moon

Il concetto di illusione percettiva si complica enormemente nel regno dei corpi virtuali, dove realtà e finzione si confondono ed entrano in circuito (G. Deleuze, 2001). ILLUSIONE NEL MONDO VIRTUALE In “La Società dei Simulacri” Perniola scrive a proposito dei mondi virtuali: “Il concetto di simulacro implica tanto il rifiuto di un prototipo esterno quanto il rifiuto della tentazione di considerare l’immagine come un prototipo [...] Il concetto di simulacro, inteso come costruzione artificiosa priva di un originale e inatta a costruire, come l’opera d’arte, essa stessa un originale, trova le condizioni di piena realizzazione nei mass media contemporanei” (M. Perniola). Non è però questo il caso in cui la virtualità è tale da tagliare i ponti con la realtà e nemmeno un caso di seduzione baudrillardiana, dove “sedurre è morire come realtà e prodursi come gioco illusionistico” (J. Baudrillard). Potremmo piuttosto sostenere che: “la natura della pseudorealtà elettronica è quella di un esperienza reale, cioè di una realtà nuova che non si sovrappone o interpone tra il soggetto e una presunta ‘altra’ realtà, ma che piuttosto entra a far parte del vissuto del soggetto” (F. Colombo). MirrorMoon mantiene, come fanno in genere i videogiochi, un legame forte con la percezione del reale, e quindi con il processo di rappresentazione.

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Non che non vi siano intenzioni di simulare un esperienza o un ambiente particolare che si pone come diverso dal reale, ma il dialogo tra percezione e rappresentazione, memoria del reale e percezione della rappresentazione è alla base della grammatica del gioco stesso. MirrorMoon vive a cavallo tra realtà e rappresentazione, senza divenire negazione del reale, è così immagine di un modello, sperimentabile, e non una realtà sostanziale altra. Il medium del videogioco, come corpo virtuale, fa fare esperienza non della realtà ma del rapporto con la realtà; non comunica necessariamente messaggi ma percezioni del mondo (P. Vidali). MirrorMoon diventa allora uno spazio virtuale dove interagire con l’illusione, un modello che mette alla prova la percezione del giocatore simulando l’ambiguità del reale. Il termine ad oggi più adatto resta forse “rappresentazione procedurale”, una forma di espressione simbolica che fa uso dei processi piuttosto che del linguaggio. “La rappresentazione procedurale spiega i processi attraverso altri processi”, come nel caso degli scherzi della percezione, [...] (e)

deve essere iscritta in un medium che mette realmente in atto dei processi (computer) piuttosto che semplicemente solitudine e lo smarrimento. Il gioco si svolge su un pianeta disabitato in eclisse totale di sole; è possibile vedere tre indicatori sulla faccia della luna visibile al giocatore e uno di loro si noterà muoversi in sincrono con i movimenti del giocatore. Da questa prima osservazione dell’ambiente di gioco è possibile stabilire una relazione spaziale tra la superficie lunare e la superficie del pianeta su cui il giocatore si muove. Nel corso del gioco sarà gradualmente più evidente che la luna e il pianeta sono di fatto lo stesso corpo celeste, come se il pianeta fosse diventato la luna di se stesso per una strana distorsione spaziale. Il giocatore collezionerà, lungo l’esplorazione, tre diversi congegni: “Rotazione della luna” permette di ruotare la luna attorno al suo asse rendendola di fatto una mappa tridimensionale del pianeta. A seconda della presenza o meno dell’eclisse di sole, diversi oggetti saranno visibili sulla luna. La Rotazione è anche utilizzata per mirare alla superficie lunare prima di “Sparare un


Prospettive · Illusioni interattive · di Nicolò Tedeschi

Segnalatore Luminoso”. “Sparare un Segnalatore” permette di posizionare dei fari di segnalazione sulla superficie della luna: quando atterrano, questi raggi di luce appaiono su entrambi i pianeti alle stesse coordinate. Possono essere così usati per creare dei tracciati da seguire in un ambiente che non offre punti di riferimento visibili. La mira è automatica verso il centro della luna, purché la luna sia visibile; il giocatore può utilizzare la rotazione per variare la zona d’impatto dei segnalatori luminosi. “Muovere la luna” infine permette al giocatore di bloccare la luna all’interno del proprio campo visivo e spostarla con se attorno al pianeta al quale è legata. Questa azione rende possibile attivare o disattivare l’eclissi, oltre a mantenere la luna sempre visibile mentre si esplora il pianeta. RISULTATI Il progetto è stato inizialmente ispirato dal tema della Global Game Jam del 2012, l’Uroboro, antico simbolo di un serpente che si morde la coda. La prima suggestione è stata costruire

un mondo sferico tridimensionale che fosse apparentemente piatto: in questo modo il giocatore avrebbe avuto l’impressione di camminare in linea retta all’infinito, mentre in realtà avrebbe descritto delle circonferenze su una sfera (Ware). Da questa intuizione è nata l’idea di includere due diverse rappresentazioni con cui il giocatore potesse interagire, una sferica totale e una particolare in prima persona dove sarebbero avvenute le interazioni principali. L’idea di avere due rappresentazioni dello stesso oggetto sovrapposte (ad esempio la mappa nel gioco “Doom”) sì è evoluta nel farle coesistere nel mondo di gioco, per arrivare infine all’idea di un sistema solare con pianeti lune di sé stessi. La parte sperimentale di MirrorMoon consiste nel dare la possibilità al giocatore di manipolare le relazioni tra la luna e il pianeta nel mondo di gioco e non attraverso meta-dati come menù o icone. Abbiamo così definito le azioni possibili dalla prospettiva particolare in prima (e a giochi come “Echochrome”)

dove le singole parti sono coerenti ma sono incoerenti se prese nel loro insieme. Questo contribuisce efficacemente al senso di disorientamento e rende l’eclissi significativa, in quanto unica posizione in cui entrambi i pianeti sono illuminati coerentemente, fatta eccezione per l’ombra che uno proietta sull’altro. Abbiamo infine cercato di trasmettere il concetto di dualità che è alla base dell’interazione lavorando per contrasto (Pichlmair), la luce e il buio legati all’eclissi, il contrasto nella palette di colori tra celo e terra, le strutture spigolose e la sfericità dei pianeti: ogni piccolo elemento diventa un prezioso strumento che indirizza le azioni del giocatore senza fare ricorso a meta-informazioni. Il nucleo dell’esperienza di gioco è quindi l’ambiguità nella rappresentazione ed è interessante in quanto propone un approccio analitico nell’adattare il mondo di gioco alla percezione umana per creare un’esperienza significativa (Ramachandran & Hirstein).

link

www.santaragione.com/

MirrorMoon: l’ambigua relazione tra tre soggetti: PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE e REALTÀ. Schermata del gioco Mirror Moon

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Prospettive · Mani e idee · di Silvia Sommadossi

Mani e idee tra Artigianato e Design

di Silvia Sommadossi il novantaduenne Sam Maloof nel suo laboratorio di falegameria

[ar-ti-già-no] s. m. [f.-a] chi, in proprio, con l’aiuto di familiari o di pochi dipendenti, produce oggetti d’uso o di ornamento la cui realizzazione richieda una particolare capacità tecnica o un certo gusto artistico. Garzanti linguistica

A noi questa definizione non basta, oggi esiste un nuovo moderno artigiano! Ma chi é? Nel diciannovesimo secolo la figura dell’artigiano è stata sfidata e messa in discussione dalla comparsa della fabbrica. Prima dell’avvento della rivoluzione industriale, tutta la produzione era affidata agli artigiani. Il dibattito ideologico (riguardo al rapporto tra artigianato e meccanizzazione), in età Vittoriana si fa’ particolarmente intenso e, affianco ai più radicali storicisti, vi erano riformatori aperti alla collaborazione con gli sviluppi tecnologici del tempo, accolti tempestivamente come forza produttiva. Dal 1760, l’industria ha avuto modo e tempo di evolvere notevolmente, allo stesso tempo l’artigianato ha affrontato diverse fasi di messa in discussione, man mano che si susseguivano

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i processi di modernizzazione. La figura dell’artigiano non si è però estinta ed ha costantemente cercato e creato un proprio spazio in mezzo alle nuove forme produttive, sociali, economiche e politiche, mutando in nuove generazioni di artigiani, incapaci di accettare l’appiattimeto degli anonimi prodotti sfociati dalla recente produzione industriale. Oggi, come agli albori dell’industria, l’artigiano è consapevole del fatto che senza l’aiuto della ricerca scientifica e delle nuove tecnologie, è difficile affrontare la competitività del mercato. Le svariate attività artigianali hanno quindi seguito lo scorrere della storia vivendo innumerevoli alterazioni, adattamenti e modifiche. A caratterizzare il metodo progettuale e produttivo di chi svolge un’attività artigianale non sono solo le capacità tecniche

e il gusto artistico. Limitare le competenze dell’artigiano (moderno) a questi due aspetti è fastidiosamente riduttivo. È Richard Sennett, a offrirci la definizione di “artigiano moderno” attraverso il suo libro “l’uomo artigiano”, dove afferma che chiunque può diventare un abile artigiano. Sempre secondo Sennett, i presupposti per riuscirci si manifestano nello svolgere un lavoro di qualità, ispirato da passione, dedizione, estro e talvolta dalla “capacità di perdersi”. Parlando di abilità e sperimentazione lo scrittore statunitense ci fa’ capire quale sia la forza dell’attività artigianale nel rapportarsi al mondo del design. L’abilità è una condizione fondamentale. Ci sono abilità di base che devono essere apprese in via preliminare. Sviluppare un’abilità pratica richiede tempo, la ripetizione aiuta a perfezionare

prospettive


L’artigianato è una forma creativa e produttiva vincente ed intrinseca nell’uomo.

Woodware, progetto di Max Lamb (designer auto-produttore) presentato al recente design festival di Londra.

ogni genere di abilità, e attraverso questa impariamo come migliorare un determinato movimento. Ecco quindi il motivo per cui il ruolo della mano spicca nel lavoro artigianale, perché quest’ultima è espressione immediata e ha una memoria del gesto incredibilmente straordinaria. Tale memoria ci permette di progredire continuamente. La seconda condizione fondamentale è la sperimentazione, che si presenta facilmente quando nella persona si cela un’innato spirito curioso. Ci ricolleghiamo a quella bizzarra “capacità di perdersi” citata poco fa. Sperimentare significa tentare, sbagliare, improvvisare, inciampare, scoprire e creare. I tentativi contribuiscono a sviluppare le nostre conoscenze, osservare e rivalutare più volte un oggetto significa scoprire nuove possibilità, significa giungere a una conclusione totalmente differente da ciò che si sarebbe atteso. Ecco quindi che l’artigiano non si limita a risolvere dei problemi e a trovare delle soluzioni. Passione, sperimentazione, costanza e curiosità danno senso alla passione dell’artigiano. Analizzando questo contesto creativo/produttivo emerge quanto il tempo sia il vero lusso.

Tornando un istante al XIX secolo vediamo come il tempo viene magicamente ottimizzato, con l’avvento della macchina, che consente di aumentare vertiginosamente la produttività, anche a scapito della qualità. Così con l’avvento della produzione in serie il lavoro della persona nel processo produttivo viene fortemente svalutato, quest’ottica si instaura prontamente nell’immaginario collettivo, e l’individuo seppur rimanga fondamentale per la nascita di un prodotto finisce per passare in secondo piano. Questo fenomeno ha inevitabilmente minimizzato la figura dell’artigiano. Nel corso del tempo sono state molte le aziende che non hanno voluto sottovalutare l’importanza dell’uomo, vera intelligenza, superiore alla macchina, nel processo produttivo. Dall’origine del dibattito tra artigianato e meccanizzazione sino ad oggi, la consapevolezza che il lavoro artigianale sia portatore di valori qualitativi, non è mai stata messa in discussione. Certo è anche che al punto in cui siamo, in un “contesto di massa” tornare alla bottega artigiana è un inverosimile utopia, l’artigianato non può

evitare la modernità, e nemmeno dovrebbe aspirare a farlo. Tornando alla contemporaneità concludo quindi evidenziando quanto il modus operandi della lavorazione artigianale possa essere oggi impiegato come un ottimo strumento nella primissima fase progettuale nel campo del design. Ecco quindi che l’artigiano moderno, intento a collaborare con le forze dello sviluppo tecnologico è quel designer esuberante, carico di passione che si dedica allo sviluppo del proprio progetto, occupandosi di tutte le fasi, dall’idea fino alla commercializzazione. Processo e prodotto hanno origine in un unico creativo che convive con il ricercatore, con l’operaio, con il fotografo e con il comunicatore. Questa multi-disciplinarietà rafforza il rapporto tra il designer e il suo prodotto, tra produzione e consumo e infine tra etica ed estetica. Il lavoro artigianale porta con se una serie di vantaggi e aspetti positivi. Alla base di questo metodo produttivo vi è la condivisione di conoscenze e capacità, strumento vincente nel campo del design. La cultura

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Prospettive · Mani e idee · di Silvia Sommadossi

del “saper fare” è diventata un elemento sempre più essenziale nella nostra società. L’abilità artigiana è anche un ottimo strumento economico. Spicca in questo contesto il Manifesto del riparare, di 5 creativi olandesi “Platform21” il quale detta 11 punti accomunati dal leit-motiv: Stop Recycling. Start Reparing. La riparazione è qui vista come una sorta di artigianato sostenibile. Un’altra forma di artigianato capace di rivitalizzare l’economia, qusta volta locale, è l’artigianato urbano. Svariate aree sono riuscite a diventare punto di riferimento per determinate lavorazioni specialistiche. Un’altra diffusissima

link www.platform21.nl/ www.maxlamb.org/ www.sam-maloof.com/

Platform21, Stop recycling, start repairing! Sedia Thonet riparata da Harco Rutgers.

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forma di artigianato moderno è il DO-IT-YOURSELF, per nulla da sottovalutare, in quanto sono molte le persone che come Steve Jobs (per dirla grossa) ce l’hanno fatta ad uscire dal loro garage, e hanno ottenuto uno spazio più o meno ampio nella sconfinata rete commerciale. Si delinea infine la figura dell’artigianato sperimentale dei giovani designer auto-produttori, nuovi artigiani indipendenti privi di restrizioni, in cerca di uno stile personale. Affianco a queste svariate forme di artigianato moderno, sopravvive la lenta manualità dei piccoli laboratori, caratterizzante nell'artigianato

tradizionale. È evidente che l’artigianato oggi continua a sopravvivere gloriosamente, ed è in grado di difendere e mantenere il suo spazio nella grigia società industriale . Quest’ostinazione prova che l’artigianato è una forma creativa e produttiva vincete ed intrinseca nell’uomo, come un atleta continua la sua corsa coinvolgendo corpo e mente. Citando Davide Rampello: “l’addove il corpo partecipa all’intelligenza, non esiste differenza tra la mente e la mano, la mano stessa è intelligente”


Io la penso così · Triple · di Eddy Corvaglia

Io, la penso così! Triple di Eddy Corvaglia “il jazz ha sbarazzato il valzer, l’impressionismo ha mandato in pensione la luce da studio, scrivete <<telegrafico>> o non scriverete più niente!’’ (Celine, Guignol’s band) .

Cercai Vaché su Wikipedia. 1895-1956. Picasso nel 1912 compose la chitarra. Cartoncino, spago e filo metallico: la realtà nell’opera d’arte. Chissà se a Vaché è arrivato il suono di questo filo metallico, chissà se è riuscito a suonarlo. Di sicuro si legge che era un eccellente disegnatore. E’ domenica sera, vado avanti nella ricerca, e in un blog trovo che Vachè era anche un dottore.

Da un suo referto medico emerge che il vicino Picasso era andato a farsi curare il dito, che si era più volte ferito nell’assemblare i suoi lavori. Ritagliava a mo' di collage le garze e i cerotti,di varie forme e colori, scelti in base alla ferita dei suoi pazienti, e se si arrabbiava tagliuzzava o incideva con un bisturi strane stelle sui loro corpi come un artista body. Dalle pareti del suo studio si sentivano urla, schiamazzi e un dolce suono jazz. All’arrivo del crepuscolo e fino a sera impennava la sua chitarra per poi riporla appesa al muro di fianco alla giacchetta bianca da lavoro ormai sudicia.

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Io la penso così · Triple · di Eddy Corvaglia

Prima di prendere sonno era preda di crisi contro la musica e l’arte, stanco dei cantanti e di quei quattro critici, che secondo Vaché erano vecchi quanto la musica che facevano passare alla radio. A un tratto spalancava la bocca e la sua lingua era un binario di una frase che pareva senza fine: “spaccate i vostri strumenti ciechi sul palcoscenico!” ... Una sera si precipita di scatto verso il balcone e, girata la maniglia della finestra, si catapulta sul bordo della ringhiera. Di fronte a lui l‘eco delle sue grida era ancora forte, e alle sue spalle risuonava dal pavimento la musica di Ludovico Van. Le gambe del medico scrittore erano piegate come quelle di un tuffatore, pronto a lanciarsi. (In mente gli baluginava l’idea di atterrare sul marciapiede con in braccio la chitarra e che il famoso gallerista K, una volta vista la macchia più bella della storia dell’arte, ritagliasse la sua sagoma dal marciapiede e di corsa la portasse dal miglior corniciaio della città e la rivendesse a peso d oro.) Aprì le braccia, si diede la spinta e... Pluff... Crack. In una lettera lasciata sulla sua poltrona di casa lascia un piccolo saggio, breve e incompleto, con scritto che voleva andare oltre a Klein in “salto nel vuoto”: non gli interessava vendere, come l’artista vicino al Nouveau Realism in Francia, metri di quadri d’aria, né tanto meno pezzi di cielo, ma la fine dell’arte e dell’artista in blocchi di cemento. Pensava però che i resti della chitarra sparsi per la

Raoul Hausmann “Uomo muratore”

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strada come sassi potessero ancora suonare. Trascorsero alcune stagioni, si poteva percepire ancora un suono propagarsi tra le foglie fino sotto i tombini, ma nessun passante vi prestò molta attenzione. Chi preso dagli orari dell'ufficio, chi dallo shopping in qualche centro commerciale, e i giovani in discoteca dalle special guest della Tv. Pochi avevano il tempo o l’interesse, ormai dimenticato, come quello per la chitarra di Picasso. Nessuno si fermava ad ascoltare, forse qualche vecchio amico di Vaché, ma finivano per venire derisi dagli altri che si limitavano a schiacciare la radio in play e a scegliere il canale che preferivano. Un giovane musicista dal nome Jimi, affascinato da questo suono, ormai poco udibile, si ferma e raccoglie lungo i bordi della strada i pezzi del puzzle dello strumento che ripone dentro lo zaino. Incuriosito vuole risalire al proprietario e conoscere la storia di questa chitarra. Trova il libro di Vachè. Usa la chitarra in un modo veramente strano. La riempie di cemento e ai concerti la sbatte contro il piano, la lancia contro ciò che resta degli strumenti... i piatti della batteria volano come frisbie... “Ai musicisti non era rimasto che correre digrignando i denti e latrare nei backstage...” I suoi concerti sono un gran baccano e raccolgono un mucchio di persone, pronte a pogare e a spingersi lungo le transenne. (Nasce il punk).

“Pensava però che i resti della chitarra sparsi per la strada come sassi potessero ancora suonare.”


Io la penso così · Il design visto da fuori · di Alessandra Trestini

Il design visto da fuori di Alessandra Trestini

“Cioè capisci, a me non interessa progettare oggetti, piccole cose...” Ma chi l’ha detto? Quando, come e perchè gli “oggetti” di uso comune sono stati classificati come “piccole cose”? Le parole che vi riporto e che mi sono state comunicate durante una conversazione, ahimé, rappresentano quello che è il pensiero infondato della collettività sul design. Pensiero che trova origine e radici velenose nei pregiudizi e preconcetti di cui la società si nutre. Provatelo voi stessi se non vi fidate. Uscite per strada, chiedete ad un passante, ad un conoscente, ad un amico; ponetegli la fatidica domanda (di cui io temo la risposta): cos’è il design? Panico. Meraviglia. Dubbio. E’ incredibile come i lineamenti del nostro volto riescano ad esprimere così tanti stati d’animo in pochi secondi. Tuttavia il tempo che impiegano per rimediare alla figuraccia che hanno appena commesso è

altrettanto sorprendente. Ecco allora che si apriranno chissà quali cassetti della memoria che porteranno la persona interrogata a compiere un passaggio logico che di logico non ha nulla: “beh, design, termine inglese, vorrà dire disegno, quindi disegnare oggetti che siano belli”; come dire: due più due uguale cinque. Sono tante le questioni che mi lasciano perplessa: primo fra tutte la desiderabile conoscenza dell’inglese; unita alla ignoranza del mondo del design. Il design è solo bellezza? Solo estetica? Chiariamo una volta per tutte la distinzione fra estetica fine a se stessa (un bel quadro, realizzato solo perchè bello) e l’estetica che esprime invece in modo attraente la funzionalità dell’oggetto. Non so voi, ma lo sguardo che mi rivolge l’amico a cui riferisco che mi occupo di design è spesso e volentieri di superiorità e discriminatorio; come a dire “ah, io non ho tempo per queste cose, ho ben

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“Il banale 'oggetto' è in realtà tutto il mondo materiale di cui ci avvaliamo per svolgere qualsivoglia azione della giornata.”

altro a cui pensare che allo stile”. Quasi quasi riesce a farmi sentire in colpa perchè preferisco mangiare con forchette dalla linea sinuosa o perché apprezzo la sedia dal design raffinato su cui sto appoggiando il mio di dietro; come se lui/ lei non avesse usato per 5 anni delle superiori lo zaino dell’Eastpak o non indossasse un paio di scarpe converse o, ancora, non usasse anche più volte al giorno il water bianco in ceramica dalla forma organica che ha progettato un designer pensando ad una persona omologata. Sul serio vogliamo definire gli oggetti che ci circondano delle misere e banali “piccole cose”?! Questa poi!!! Sono state la parole più irritanti della conversazione.“Oggetto” è un termine così stupidamente generico che non rende la dovuta giustizia. Diamo noi allora una definizione esauriente del prodotto di design: opera d’arte. Ok, ora forse sto enfatizzando... ma volutamente.

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E’ arrivato finalmente il momento di rendere giustizia! E fidatevi, non sto esagerando. La fede nuziale che sancisce un vincolo di amore, non è forse un oggetto? Il cellulare che vi mette in contatto con il fidanzato/fidanzata che si trova dall’altra parte del paese non è anch’esso un oggetto? Il morbido letto su cui schiacciamo pisolini ristoratori non è forse stato progettato da un designer? Potrei continuare all’infinito. La questione quindi non si pone. Se ci devo convivere quotidianamente e usufruirne per migliorare la mia vita, perchè non rendere il banale “oggetto” anche esteticamente attraente? Ora voglio porre io una questione inquietante: vi siete mai chiesti come il designer riesca a progettare un prodotto che risponde quasi sempre alle nostre esigenze (anche le più nascoste) e convincerci che ci piaccia? Che ci spiino forse?

io, la penso così!


In trincea · Color Painting · di Alessia Dorigoni

Color Painting di Alessia Dorigoni

in

Trincea link

il colore è emozione, sentimento e proiezione del proprio modo di essere!

www.collective-intelligence.net

È venerdi 15 aprile 2011 e sono da poco passate le nove della sera quando, una modella tutta dipinta di bianco, fa la sua comparsa nello Spazio Tashi Delek di via Marco Polo a Milano. Comincia così la nuova Performance di Collective Intelligence.L’iniziativa, pensata da Massimo Caiazzo, Color Consultant e docente di Cromatologia presso l’Accademia di Belle Arti di Verona, si è articolata mobilitando e chiamando in causa l’intervento di vari studenti della medesima Accademia (con l’assistenza di Margherita Caron).Assunta la posizione Yoga del Fiore di Loto, la modella viene dipinta a turno, dagli studenti, ciascuno vestito del colore che ha scelto; tanti atti unici sincronizzati sulle ambientazioni sonore di ciascun colore. Il “dipinto umano” raggiunge

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In trincea · Color Painting · di Alessia Dorigoni

la sua completezza quando appaiono i sette colori Chakra sul dorso della modella, mentre sei “angeli bianchi”, del Silence Teatro, con il loro incedere armonioso e leggiadro, creano un’atmosfera soffice e delicata attorno ai presenti. L’intervento di Roberto Salardi dell’Istituto del Colore di Milano, apre il dibattito. Oltre all’ideatore del progetto vi prendono parte Lia Luzzato, scrittrice e giornalista della rivista Colore, e Mario di Chiara, regista, che alternandosi fanno il punto della situazione. Dal colloquio emerge una condivisa e unanime idea che il colore sia emozione, sentimento e proiezione del proprio modo di essere. La sua presenza permea tutte le discipline del sentire e del vedere. Il suo utilizzo può accentuare o armonizzare tanto nella pittura quanto nella musica e nel teatro. Infine, il colore può operare come un potente stimolo in grado di provocare sensazioni e sollecitare pensieri. L’evento si chiude con il concerto di Yalda, cantante proveniente dalla Persia, qui accompagnata dalla Gadulka (strumento a corda tradizionale, simile al bouzuki greco). Il progetto delle luci è affidato a Marco Rizzutto e prevede la proiezione di “ombre colorate“. Lavoro particolarmente pensato è anche quello del trucco sviluppato da Rita Fiorentino.L’intento del progetto nel suo insieme era quello di offrire un intervento comunicativo in cui il pubblico non fosse un semplice spettatore, ma parte attiva di una scenografia dinamica ove esprimere liberamente le proprie emozioni. Oltre alla vista, all’udito e al tatto, la suggestione sinestetica ha investito dunque anche il gusto e l’olfatto attraverso uno spazio di degustazione vini. Ed è sempre in nome di questa interazione che per concludere la serata si è potuto assistere ad una sessione musicale dove i convenuti sono stati invitati a partecipare con l’obiettivo che ha fatto da leitmotiv per tutta la performance: tendere relazioni tra persone e percezione artistica dando al pubblico un marcato valore “esperienziale” del colore. Una analoga performance, con variazioni di luci, colori e modelli è stata realizzata nel medesimo anno anche a Vicenza, il 26 maggio durante l’inaugurazione del movimento Fragilista; a Verona, il 3 giugno durante la manifestazione “Verona risuona” e il 12 dicembre a Milano allo Sciapò Cafè Nouveau.

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Foto di Margherita Caron


Foto di Silvia Sommadossi

Verona, 3 giugno, manifestazione “Verona risuona�

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In trincea · Collettivo Soppalco · di Elisa Longo

di Elisa Longo

Collettivo Soppalco

Collettivo Soppalco

La fanzine Soppalco è un progetto editoriale che promuove una crescita culturale libera, autonoma, qualificata, soggettiva e al tempo stesso collettiva su temi ogni volta diversi e attinenti alla realtà del nostro tempo. Pur essendo apolitica e laica, Soppalco prende posizione contro una politica che relega la cultura ad un ruolo marginale e sussidiario. Pur di recente formazione, il collettivo ha già la sua piccola storia, iniziata durante il corso

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di Linguaggi Multimediali, ma che ha presto travalicato il sistema accademico per diventare un’avventura che è entrata nella realtà del mondo dell’arte e ha risvegliato il desiderio di fare e di sperimentare. Gli studenti si sono costituiti in questo collettivo dopo avere presentato nell’ambito di FIRST STEP 2011 il numero 0 della fanzine F16 con il progetto The Family Film Festival. Questo Progetto prevedeva un

in trincea


In trincea · Collettivo Soppalco · di Elisa Longo

video e una fanzine, ispirati ad un lavoro mai realizzato di Pierre Huyghe, dal titolo The Family Film Series, pensato dall’artista francese in occasione dell’invito del museo di una piccola città francese, dove era stata chiusa l’ultima sala cinematografica. Il lavoro proposto da Huyghe prevedeva la raccolta di tutti i filmati amatoriali girati negli anni dagli abitanti e la loro successiva proiezione in loop nella sala cinematografica, in modo tale che gli abitanti potessero rivedere gli eventi privati che avevano caratterizzato la vita della comunità cittadina. Il video di The Family Film Festival raccoglieva una selezione di materiali provenienti da archivi familiari e girati su supporti diversi - super8, VHS, DVD - da conoscenti, parenti, amici, gli studenti del corso, immagini anonime scaricate da Internet. Il montaggio finale, della durata di 5 minuti circa, ha creato un’ipotetica e ideale storia privata e familiare ma al tempo stesso allargata ad altre persone che seguiva un percorso temporale all’indietro, dal 2010 agli anni ’70. Il progetto dal titolo “I film siamo noi” cita invece una frase dell’artista statunitense Mike Kelley, secondo il quale nell’era postcinematografica non siamo più dei semplici spettatori ma i protagonisti delle immagini in movimento che circolano nei diversi format

multimediali. I ragazzi hanno presentato il progetto presso la galleria FAMA che circa sei mesi dopo ha ospitato anche il progetto “Spazi abbandonati”. Un vasto repertorio di luoghi fisici dismessi, ma anche mentali, virtuali, letterari, esplorati attraverso foto, testi, disegni, citazioni, lettere e assemblati con la tecnica del collage. Una ricerca in cui il binomio giornalismo e arte si fonda per dar vita ad un reportage artistico. Gli spazi scelti mappano in modo sorprendente un territorio trasformato dalle sopraelevate, dalle rotatorie, dagli outlet, dai capannoni, dall’incuria o semplicemente dal passare del tempo. Spazi che fanno parte della memoria storica di una comunità, sale cinematografiche degli anni ottanta, fabbriche nate negli anni venti, case coloniche, fienili, edifici anonimi, ma anche gli spazi della pittura e quelli virtuali della rete, analizzati con la consapevolezza che il futuro non sarà altro che la continuazione del presente e di ciò che lo ha preceduto. Il collettivo continua a lavorare per l’uscita della fanzine numero 2, che cercherà di analizzare la tematica delle “Vibrazioni”. La rivista è reperibile presso la galleria Fama di Verona ad una cifra modica il cui ricavato sarà utilizzato per autofinanziare l’uscita del numero seguente.

link

f16-soppalco-fanzine.blogspot.it/

22 dicembre 2011 presso FaMa Gallery, presentazione del primo numero della fanzine F16 del gruppo Soppalco

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In trincea · Onirica Lab · di Michele Maccioni

Onirica Lab - tastefull workshop di Michele Maccioni

Il progetto Onirica nasce nel 2009, da un’idea dell’associazione Fuoriscala con l’intento di rivolgersi a tutti e “utilizzare la cultura contemporanea in tutte le sue molteplici espressioni in modo da conquistare l’interesse e stimolare le coscienze”. Fin dal principio l’associazione collabora con partner presenti sul territorio come Amia S.p.a. e Comune di Verona, grazie ai quali riesce ad ottenere importanti vetrine per le proprie manifestazioni. La prima edizione di Onirica ha luogo nel prestigioso Palazzo della Ragione con un festival caratterizzato da eventi, esposizioni, laboratori, mercatini di re-design, proiezioni e dibattiti che accolgono un pubblico di 14.000 partecipanti delle più svariate età. L’anno successivo, nel 2010, l’evento si sposta presso il centralissimo palazzo della Gran Guardia dove propone una decina di giorni di mostre e dibattiti sui

Andrea Trimarchi e Simone Farresini, di FormaFantasma

temi dell’ecosostenibilità. Il 2011 segna la nascita di OniricaLab, evoluzione del progetto precendete orientata alla progettazione e al laboratorio formativo. In questa cornice nascono una serie di workshop presso la sede e quartier generale dell’associazione culturale Interzona. La durata dell’officina creativa è di cinque giorni, alla fine dei quali si svolge un momento di festa aperto a tutti nel quale i presenti possono sperimentare e godere dei lavori dei vari partecipanti. Proprio nell’ambito di questi laboratori viene coinvolta l’Accademia di Belle Arti di Verona che partecipa ai vari Workshop con alcuni studenti. Elisa Trentin e Mariachiara Casarotto, entrambe iscritte alla scuola di Progettazione Artistica per l’Impresa, partecipano al primo incontro. Abbiamo chiesto alle due ragazze di raccontarci la loro esperienza.

www.oniricalab.com www.formafantasma.com

link

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in trincea


In trincea · Onirica Lab · Elisa Trentin racconta la sua esperienza

ELISA TRENTIN

Tra la nebbia e il freddo veronese, 15 partecipanti dai background e dalle provenienze più disparate (cuochi, designer, studenti di design, architetti), si ritrovano catapultati in un vero e proprio “viaggio pratico-concettuale”. E’ lo Studio FormaFantasma a guidarci all’interno di questo workshop in cui il cibo perde la sua tradizionale funzione, ovvero fonte di nutrimento, e si trasforma in materia, inchiostro, tintura, fonte di ispirazione formale ed estetica. Andrea Trimarchi e Simone Farresini, i due designer italiani che compongo lo studio, trovano la loro base di ricerca e sviluppo ad Eindhoven in Olanda. “La nostra collaborazione nasce durante gli studi di “design comunication” ed “illustrating books and magazine”. Solo dal giugno del 2009 la nostra attenzione si sposta verso il Design grazie alla tesi che abbiamo svolto sull’artigianato popolare siciliano. E’ da qui che la ricerca si basa sull’esplorazione del ruolo del design in modo artigianale-popolare, del rapporto che sussiste tra tradizione e cultura locale, un approccio critico alla sostenibilità e all’importanza degli oggetti come condotti culturali. I loro prodotti finali diventano la testimonianza di nuove sostenibili possibilità aprendo spiragli inaspettati su quelle che a volte ci sembrano delle logiche insuperabili. Così si può passare da vasi o lampade creati con farina e materia vegetale a tradizionali bottiglie del sud Italia utilizzate come supporto narrativo di storie di immigrazione.”

Sarà stato il profumo del cibo, in poche ore eravamo già una piccola “famiglia”.

Il cibo ha acquisito una posizione sempre più centrale nell’attenzione dei designer, i quali vi hanno cercato di attribuire valore estetico mediante il disegno di nuove pietanze o di nuovi metodi e strumenti di consumo degli alimenti. In questi ultimi anni in cui la sostenibilità non è solo esigenza ma anche ispirazione per l’ideazione di nuovi prodotti, il commestibile si sposta al centro dell’attenzione dei progettisti in relazione all’elaborazione di materiali bio degradabili. Gli alimenti sono quindi la componente essenziale per la produzione dei nuovi polimeri naturali: dall’amido di mais e di patate fino alle farine o alle piume del pollame destinato alla macellazione. Anche nella sfera estetica gli oggetti si arricchiscono di elementi organici o si ricoprono di laccature gelatinose che, come fossero glasse, attirano la “golosità” del consumatore. “Pensare, agire, fare, cucinare, costruire, sperimentare” sono le parole d’ordine per questi 5 giorni di intenso lavoro durante i quali il cibo ed il commestibile sono stati indagati attraverso 3 diverse interpretazioni dal punto di vista del design: Cibo come 1. fonte di colore 2. ispirazione per nuovi metodi produttivi 3. fonte di ispirazione formale ed estetica Devo ammettere che l’approccio iniziale non si è rivelato come uno dei più semplici. Non è stato semplice rapportarsi con persone diverse con esperienze e pensieri differenti, un nuovo modo di lavorare e poco tempo per abituarsi al cambiamento (anzi direi che il tempo a disposizione era quasi nullo!) ma una volta entrati nel meccanismo gli ingranaggi hanno iniziato a mettersi in moto.

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Ed è proprio in questo clima che, a parere mio, si creano quei rapporti di “amicizia” e collaborazione che ti aiutano a lavorare e a produrre elaborati a cui, magari, non avresti mai pensato. Sarà stato il profumo del cibo che giorno dopo giorno si diffondeva sempre più per il salone dell’ex magazzino, o la foga che ognuno aveva di realizzare il proprio progetto, o forse quella passione, arte, ingegno, estro artistico che ci accomunava, ma in poche ore eravamo già una piccola “famiglia” formata da giovani e maturi artisti, pronti alla collaborazione, a dare nuove idee e consigli; non vi era competizione, non era la “lotta contro il più forte” (a cui si è di solito abituati, perché ammettiamolo: è una delle caratteristiche principali del nostro “mondo artistico”); si era creato il clima giusto per poter andare avanti. Sentire i designer di Studio FormaFantasma parlare in quel modo affascinante del cibo mi ha da subito ispirata e mi ha aiutata a partire con l’elaborazione del mio progetto, conclusosi con la realizzazione di una collezione di gioielli: “ KJ, KiloJewel ” , dove il cibo diviene fonte di materiale per la composizione di gioielli effimeri dall’alto contenuto simbolico. Vedevo un legame tra il gioiello, oggetto che simboleggia per eccellenza ideale di bellezza estetica, e il rapporto complesso della nostra società con il consumo del cibo. Le pietre preziose di questi gioielli ironici sono verdure caramellate, pancetta fritta, datteri ed altri “decori” ad elevato contenuto calorico, al fine di creare gioielli commestibili, “gioielli grassi” che mettano in discussione il nostro rapporto con la magrezza e l’obesità, una critica allo stereotipo di bellezza che la società contemporanea cerca di imporci, stereotipo con il quale il mondo del gioiello, quindi quello

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del fashion design, si trova ad affrontare e rappresentare in ogni momento della propria esistenza. L’ironia viene maggiormente esaltata dai “metalli preziosi” utilizzati come finitura per le pietre ipercaloriche, ovvero viti, bulloni, serrature, ed altri oggetti da ferramenta. Posso ritenermi molto soddisfatta del risultato di questo “laboratorio creativo”, un’esperienza che consiglio a tutti i ragazzi-studenti che vogliono crescere in questo “brutale” mondo del design. Mettere in gioco se stessi e le proprie capacità per non perdere occasioni che potrebbero rivelarsi importanti, se non determinanti, per il proprio futuro.


In trincea · Onirica Lab · Mariachiara Casarotto racconta la sua esperienza

MARIACHIARA CASAROTTO

Aver partecipato al workshop “Tastefull”, organizzato da OniricaLab e condotto dallo studio Olandese FormaFantasma è stato indubbiamente un esperienza fantastica. A partire dal primo giorno si è potuto investigare l’utilizzo del cibo non solo come fonte di sostentamento, ma anche come elemento per la produzione di nuovi materiali biodegradabili, come fonte di colore o come fonte di ispirazione formale. Se sperimentare l’utilizzo del cibo come fonte di colore è stato per me incisivo per la realizzazione del progetto finale, altrettanto importane è stato confrontarmi con il resto dei

una esperienza fantastica, è stato importante confrontarmi con il resto dei partecipanti.

partecipanti. E’ in questo modo che ho iniziato la collaborazione con Teresa, un’altra ragazza iscritta al laboratorio, per una ricerca sui pigmenti naturali. Ottenendo una sorprendente pallette di colori questi vengono poi utilizzati per il design di un nuovo modo di intendere la tovaglia. Ricette tradizionali come “riso e bisi” o “risotto al radicchio di Treviso” vengono tradotte in percentuale di colore dove i simboli della località vengono indagati tramite la carica emotiva del colore. Oltre ad essere stata una bella esperienza a livello teorica, OnoricaLab mi ha aiutato anche a livello professionale. Oltre al supporto offerto dagli organizzatori nel far conoscere i risultati attraverso numerose riviste, infatti in futuro io e Teresa intendiamo continuare la nostra ricerca, arrivando a mappare attraverso ricette e pigmenti tutte le regioni italiane.

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Janus Intervista doppia: Tobia Scarpa &

di Alessia Dorigoni

Staffan Mossenmark

TOBIA SCARPA

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STAFFAN MOSSENMARK


Janus · Intervista doppia a Scarpa & Mossenmark · di Alessia Dorigoni

Biografia designer · architetto · artista

Tobia Scarpa nato a Venezia nel 1935. Architetto e designer italiano, figlio di Carlo Scarpa. Si è laureato presso la Facoltà di architettura di Venezia nel 1969. Lavora nel campo del design, dell’architettura e del restauro. Vincitore di molti premi tra cui il Compasso d’oro ADI nel 1970. Nel campo del design realizza progetti per numerose aziende molto famose. Con la progettazione della prima fabbrica, nel 1964 Tobia Scarpa e Afra Bianchin diventano i progettisti di tutta l’architettura industriale del gruppo Benetton. Tra i restauri troviamo anche le Gallerie dell’Accademia di Venezia e il Palazzo del Mercato Vecchio a Verona. L’Istituto Italiano di Cultura di Chicago ha organizzato una esposizione itinerante (Chicago, Los Angeles, Toronto, San Francisco) dedicata al suo lavoro.

compositore · performative sound artist · artista

Staffan Mossenmark nato nel 1961 in Svezia dove insegna Sound-art all’Accademia di Musica e Teatro presso l’università di Göteborg. Membro della Società Internazionale per la Musica Contemporanea (SIMC). Mossenmark è spesso richiesto come docente e leader di workshop nelle scuole d’arte, architettura e design sia in Svezia che a livello internazionale. Le sue performance e concerti sono state trasmesse in radio e in televisione, dall’Europa all’America, dal Canada al Giappone. Alcune delle sue performance sono: “Wroom!” con 100 Harley Davidson nella piazza di Copenhagen, “Ozone” concerto con 24 furgoncini del gelato e “Phony” concerto con numerosi suoni di cellulari. Direttore artistico di Verona Risuona.

NEL PROCESSO DI PROGETTAZIONE ENTRANO NUMEROSE VARIABILI ESTRANEE AL PURO PROCESSO CREATIVO, CHE NE DIVENTANO VINCOLI INELUDIBILI. COSA NE PENSA DEL RUOLO DEI VINCOLI COME RISORSA?

T.S. Sono imprescindibili, ci vogliono, sono la vita stessa della progettazione. Dire a priori “adesso utilizzo una barra d’acciaio”, e venire a sapere poi che non esiste una barra d’acciaio con determinate caratteristiche necessarie per il progetto, ti dà l’occasione di cercare un’alternativa. Puoi trovare così una soluzione che migliora tutto il sistema e quindi puoi anche modificare completamente il progetto, o quanto meno modificarlo non nelle sue intenzioni originali ma migliorandone gli aspetti funzionali e formali. Bisogna tener presente di un’ altro ingrediente fondamentale nella progettazione: il sentimento, ovvero il rapporto tra l’opera e l’intelligenza del progettista. I limiti a cui facciamo riferimento non sempre sono riconosciuti da quest’ultimo, e spesso e volentieri è proprio il sentimento che impedisce di riconoscere i limiti della propria opera.

S.M. Ritengo che sia importante essere aperti e cercare di evolvere e sviluppare le situazioni e i parametri che puoi usare. La ricerca artistica non deve essere vista come una scatola nera in cui non puoi cambiare nulla e tutto è già stato stabilito. Deve essere piuttosto un processo molto aperto, al fine di giungere ad una conclusione, alla realizzazione di un qualcosa. Questo è quello che secondo me dovrebbe accadere.

La cosa buona dell’arte è che puoi fare dei lavori solamente per te stesso e se riesci a farlo dovresti essere felice solo per esserci riuscito. 34


Janus · Intervista doppia a Scarpa & Mossenmark · di Alessia Dorigoni SPESSO SONO I PROGETTI EFFIMERI CHE DURANO NEL TEMPO. LE INTERESSA CHE LE SUE OPERE DURINO?

T.S. Già nel momento in cui crei un qualcosa è vecchio. E’ vivo solo mentre lo stai facendo. L’opera d’arte, poi, vive nel rapporto con gli altri. Tu non hai più nessuna connessione con l’opera. Solo il piacere per aver raggiunto quel livello. Come se io facessi una partita a calcio con la mia squadra e vinco contro una squadra molto forte. Il ricordo di aver vinto mi riempie di gioia tutte le volte che ci ripenso, ma solo in quel momento era la perfezione, mai più si ripeterà quella situazione.

Le parole sono dei labirinti che l’uomo usa per decifrare il mondo però non si accorge che utilizzando questi labirinti spesso si perde.

S.M. Ritengo che il mio lavoro possa essere suddiviso in due parti: la realizzazione della performance e la creazione del video corrispondente. La parte più importante è quando vivo la performance o il concerto, quando sta accadendo e la vivo in prima persona. Durante la performance c’è movimento, lo percepisco. Molte persone vengono coinvolte. Quando ho la documentazione video posso notare alcune parti che prima mi erano sfuggite. Qualche volta è addirittura meglio il video. È come vedere l’altra faccia della medaglia, la seconda parte dello stesso pezzo. Nella prima situazione, durante la performance, tu sei lì, è dal vivo, ci sei dentro. Dopo averla vissuta è impressionante come si possa fare un passo indietro guardando il video. Ritengo che questo sia un altro tipo di arte, in cui puoi cambiare come e in che direzione vedere il video. Puoi fare così due cose in una. Naturalmente io preferisco quando vivo la performance.

BISOGNA ESSERE CONSAPEVOLI CHE CIÒ CHE ANDREMO A PRODURRE POTREBBE RICEVERE MOLTI CONSENSI O POTREBBE ANCHE NON RICEVERNE NESSUNO?

T.S. Non ci deve interessare. E’ un servizio quello che si offre. Ad esempio, quando mio padre ha iniziato a lavorare è stato ritenuto bravissimo solo da pochi amici intenditori, però non riusciva a trovare lavoro. Cosa avrebbe dovuto pensare? Quando faceva le cose, le faceva con una tale intensità e ricchezza di elementi. Lui voleva esprimere al meglio le cose in cui credeva, aveva un disperato bisogno di rappresentarsi, farsi capire. E così facendo ci ha lasciato delle cose straordinarie. La migliore di tutte è il corpo dei disegni con i quali lui studiava gli oggetti che voleva realizzare. Ed è proprio lì che annota i pensieri. Non diviene quindi un semplice disegno finalizzato alla progettazione, non vi è la mera necessità di passaggi operativi, ma piuttosto la ricerca personale nella quale si può riscoprire la sua straordinaria verità. Ogni disegno ha una sua sfera di necessità. I migliori sono quelli dove lui lavora per sé.

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S.M. Alla maggior parte degli artisti naturalmente piace ricevere approvazioni, essere supportati nel proprio lavoro e sapere che alle persone piace quello che fai; ma ritengo che sia altrettanto importante analizzare quando, alle persone che guardano il tuo lavoro, non piace quello che stai facendo, o hanno una diversa opinione dalla tua oppure addirittura lo ritengono disgustoso. E’ ugualmente interessante perché queste sono due facce della stessa medaglia. La reazione delle persone, capire cosa stanno pensando, per me è davvero interessante. Rimane comunque il fatto che sia più positivo quando la gente è felice guardando il tuo lavoro, piuttosto che arrabbiata. E se nessuno dovesse considerare la mia performance, da una parte la cosa buona dell’arte è che puoi fare dei lavori solamente per te stesso e se riesci a farlo dovresti essere felice solo per il fatto di aver portato a compimento un’ opera per te stesso. Mi piace pensarla così.

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Angolo dei docenti · e se fosse tutto un gioco? · di Francesco Avesani

l’angolo del docente E se fosse tutto un gioco? Giorni fa conversando con alcuni amici mi sono imbattuto in un argomento molto curioso. Esso riguardava la creazione del curriculum di un artista che non esisteva se non nella fantasia di un altro artista: un eteronimo. Ci si chiedeva dove farlo nascere, crescere, dove fargli vivere un’adolescenza serena o terribile, onde causargli i classici traumi che poi talvolta in uno strano processo alchemico creano l’humus dove coltivare bizzarrie e schizofrenie tanto ricercate e amate da artisti o presunti tali . Si è dischiuso quindi intorno a noi un ventaglio di possibilità dove l’unico limite vero era la nostra fantasia. Ci rendemmo conto di quanto grande fosse il nostro pianeta quando per collocare il suo luogo di nascita avevamo di fronte il mondo intero.

di Francesco Avesani

Dove avrebbe poi studiato questo artista, ammesso che ne avesse avuto voglia, quali strane frequentazioni lo avrebbero contagiato sul modo di vedere il mondo, sul modo di percepire i colori, ma non i colori che tutti vedono bensì i colori che fuoriescono da tubetti brutalmente schiacciati e che usando scope bonsai vengono spalmati su tele con la pretesa di creare mondi paralleli pieni di mistero. D’un tratto riaffiorò nella mia mente il testo di un catalogo di una mia mostra tenuta in Spagna nel 1980. Un senso di panico mi colse d’improvviso quando pensai che forse anch’io altro non ero che un eteronimo, la creazione della fantasia di un altro artista. Forse non esistevo affatto. Forse non sono mai esistito. Il testo non era altro che un curriculum creato ad hoc per me da qualcuno

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Angolo dei docenti · e se fosse tutto un gioco? · di Francesco Avesani

...forse anch’io altro non ero che un eteronimo, la creazione della fantasia di un altro artista

che si firmava “Il Critico” e recitava così: “FRANCESCO AVESANI nasce a Verona nel 1753 all’incredibile età di nove anni. In uno dei primi giorni di vita, dopo la consueta abbondante colazione, esce di casa e preso da una forte agitazione vede apparire tra gli alberi dell’oscuro parco una madonna gialla con dei calzini a strisce rosse. Con l’ironico ciuffo di capelli penzolante sul naso resta sconvolto dall’apparizione, si siede su una panchina e sente una voce che risuona nell’aria; le parole, anche se poco chiare incentivavano alacremente il donzello a dedicarsi all’arte della pittura. Francesco, lo chiamavano allora, vincendo la paura e la noia dell’ozio, iniziò a dipingere alcuni orribili paesaggi tra l’elogio dei genitori, ma la sua

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natura di grande rivoluzionario lo indusse a disegnare sempre di più cose spoglie da ogni tipo di indumento, fino a raggiungere ciò che possiamo ammirare in questa esposizione. Sulla maturità interna ed esterna di Avesani qualcuno potrebbe avere qualcosa da ridire, ma io, scrivente per astratto, sfido questi incauti osservatori a cimentarsi nel trasportare sulla carta, con una semplice matita, immagini più precise e perfette sotto tutto l’arco del profilo estetico del grande Maestro, quale piace definirsi il nostro caro Avesani. Di scuole ne ha fatte lui alcune, ma come ben ricordo preferisce parlare di donne e automobili, e poi, preso da folle ispirazione le dipinge, purtroppo direbbe l’esistenzialista cronico, così bene da sembrare soprattutto vere.” Il Critico


Voci dal Mondo

Erasmus a Granada di Michele Maccioni e Claudia Comunian

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Voci dal mondo · Erasmus a Granada · di Michele Maccioni e Claudia Comunian

Giorgia e Sara sono due studentesse di Trento, iscritte al terzo anno della scuola di Progettazione Artistica per l’Impresa. Nell’anno passato, entrambe hanno partecipato al progetto Erasmus e hanno trascorso cinque mesi (da febbraio a luglio) nella città spagnola di Granada presso la “Facultad de Bellas Artes Alonso Cano”. Le abbiamo intervistate per cercare di capire come si è svolta la loro esperienza in un ambiente completamente nuovo e differente dal nostro. Michele A cosa è dovuta la scelta dell’Accademia Alfonso Cano di Granada? Sara & Giorgia La scelta è stata motivata principalmente dalla nostra curiosità di visitare la Spagna, obiettivo che ci eravamo prefissate da tempo; inoltre avevamo molto apprezzato la presentazione dei corsi effettuata dai docenti stessi dell’accademia. M. Ecco appunto, raccontateci qualcosa riguardo i corsi... S. & G. Vista l’assenza di una sezione dedicata al Design, potevamo scegliere tra corsi di pittura, scultura e decorazione. E’ stato interessante intraprendere discipline diverse rispetto a quelle che svolgevamo all’interno di Design. Siamo arrivate ad appassionarci alla pittura, alla fotografia e alla grafica. Le lezioni si tenevano in lingua Spagnola, proprio per questa ragione inizialmente ci trovavamo molto in difficoltà. Per fortuna i docenti dell’accademia erano

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molto disponibili e anche al di fuori dell’orario di lezione era possibile contattarli per ricevere eventuali chiarimenti. M. La sede dell’accademia era adeguata alle esigenze degli studenti? S. & G. La sede era veramente molto bella e interessante; curioso era il fatto che l’edificio che ospitava l’Accademia, prima di diventare un luogo dedicato alla formazione scolastica, fosse un ospedale psichiatrico. Lo spazio era sicuramente molto ben organizzato, tanto che ogni professore aveva a disposizione un’aula personale con il materiale tecnico più adatto alle esigenze del corso; nei limiti del proprio spazio il docente aveva la possibilità di ricevere personalmente ogni singolo studente. All’interno dell’università era anche presente un bar per gli studenti che, oltre a favorire la libera circolazione delle idee, diveniva anche un ottimo strumento per la nostra integrazione; abbiamo conosciuto un sacco di ragazzi e ragazze in questo modo. M. Raccontateci un po’ com’è stato il vostro arrivo e il rapporto con gli abitanti di Granada. S. & G. Intanto dobbiamo dire che ricordiamo con un po’di ansia i giorni precedenti al viaggio; abbiamo saputo della nostra partenza praticamente una settimana prima. Ci siamo ritrovate a dover organizzare la permanenza in Spagna in soli sette giorni. Molto frettolosamente quindi abbiamo preparato le


Voci dal mondo · Erasmus a Granada · di Michele Maccioni e Claudia Comunian

valigie, sistemato il discorso riguardante i corsi di studio e trovato una sistemazione per i primi giorni. Trascorse le prime notti, in cui abbiamo dormito in un grazioso ostello in centro a Granada, ci siamo messe alla ricerca di un appartamento. Peccato che molti fossero occupati dagli studenti Erasmus arrivati prima di noi. Dopo giorni e giorni di contatti telefonici e appuntamenti coi proprietari, abbiamo finalmente trovato un’abitazione che abbiamo condiviso con altre cinque ragazze, tutte di nazionalità diverse. Come già abbiamo anticipato in precedenza, le persone, a partire dai professori, erano stupende e cordiali. Ci ha colpito principalmente la loro disponibilità nell’aiutarci nelle più svariate situazioni, considerato che ci siamo trovate “catapultate” da un giorno all’altro in una realtà completamente

nuova. C’è da dire che Granada è una città che accoglie ogni anno migliaia di studenti Erasmus e proprio per questo gli abitanti erano abituati ad avere a che fare con ragazzi stranieri come noi. M. Al vostro ritorno ci avete descritto Granada come una città stupenda in cui andreste a vivere da un giorno all’altro… S. & G. Ci siamo veramente innamorate di Granada, a dire la verità un po’ di tutta la Spagna visto che tramite dei viaggi organizzati abbiamo avuto possibilità di vistare anche altre città tra cui: Valencia, Alicante, Siviglia. Inizialmente la città che ci ha ospitate ci sembrava enorme, poi con il tempo abbiamo imparato a scoprirla anche in tutte le sue “viuzze” e vicoli. Granada è sicuramente una città da scoprire a piedi, è pulita, tranquilla e

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Voci dal mondo · Erasmus a Granada · di Michele Maccioni e Claudia Comunian

possiamo dire che anche nelle ore più tarde della notte si può girare nelle strade senza alcun pericolo. La zona che ha colpito maggiormente la nostra attenzione è stata probabilmente quella araba; all’interno di quest’area vi erano un sacco di negozi tipici, era possibile sorseggiare particolari tè e infusi nei vari locali oltre al tipico narghilè. Ricordiamo inoltre la zona del “Poligono”: enorme mercato multietnico che si svolgeva principalmente la domenica e dove in un determinato periodo dell’anno si tenevano feste della durata di alcuni giorni. M. Che eventi e manifestazioni consigliereste a qualcuno che si deve recare a Granada? S. & G. Trattandosi di una città che ospita un gran numero di studenti Erasmus la vita notturna è molto movimentata. Si passa dai

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numerosi bar del centro con drink “low cost”, alle discoteche, che a dire la verità non abbiamo frequentato moltissimo. In un secondo momento, dopo aver conosciuto un buon numero di persone, le feste si sono spostate in casa di amici e compagni. Consigliamo a tutti il “Tiamaria”: un liquore al caffè veramente molto buono. Per quanto riguarda le manifestazioni organizzate dalla città bisogna considerare come Granada vanti una tradizione religiosa molto radicata e sentita profondamente da tutta la società; durante la nostra permanenza abbiamo assistito alla festa probabilmente più importante di tutto l’anno la “Semana Santa”. Questa si svolge nell’arco di una settimana nella quale hanno luogo sfilate in abiti tipici e si può assistere alla parata di carri, ma anche a performance folkloristiche.


ieri ho visto: David Sylvian Died in the wool (Manafon variations) 2011, CD ShamadiSound

di Mattia Noal Nel 2011 esce Died in the wool (Manafon variations), l’ultimo lavoro in studio del musicista inglese David Sylvian. Variazioni sui temi di Manafon, l’album del 2009 che rompe il relativo silenzio di sei anni trascorsi da quello splendido disco del 2003, Blemish; “relativo” se si considera l’album Snow born sorrow del 2005, frutto del lavoro dei Nine Horses, ensamble musicale a cui lo stesso Sylvian prende parte. Died in the wool rimodella quindi alcune delle nove canzoni che costituiscono il corpus di Manafon: i musicisti sono sostanzialmente gli stessi in entrambi i lavori, (il sassofonista Evan Parker, il pianista John Tilbury, il chitarrista Christian Fennesz, Keith Rowe e Otomo Yoshihide, tra gli altri), il minimo comun denominatore rimane invariato, una gamma sonora dal gusto avant-garde, experimental jazz, elettronico. Arrangiamenti rarefatti, dissonanze disorientanti che ampliano la portata emozionale della melodica, calda quanto pulita voce di David Sylvian. Manafon e Manafon variations sono due album preparati con gli stessi ingredienti, il risultato

è comunque quello di due opere seppur complementari, diverse. Nel 1936 Walter Benjamin pubblicava il noto saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, all’interno del quale sottolineava come «L’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità». Questa predisposizione, che nello specifico Benjamin rivolgeva al cinema, si adatta perfettamente anche alla musica; oggi più che mai, questa possibilità di riproduzione si è espansa data la capacità di un qualsivoglia brano musicale di assumere forme diversificate in base al medium veicolante. Indicativamente quel parametro virtuale di “misura maggiore” utilizzato da Benjamin – come potenziale costante di accrescimento – potrebbe essere posizionato ai giorni nostri, dove per l’appunto il carattere massivo della comunicazione è imperante. Evitando qualsiasi retorica, da parte mia trovo che l’operazione compiuta con Died in the wool, giochi in modo ambiguo ed intelligentemente riuscito con il concetto di riproduzione, non tanto come “riproduzione” dell’opera attraverso diversi canali (internet, apparecchi portatili, radio, tv) ma quanto “riproduzione”, barra, riformulazione del tessuto costitutivo degli elementi dello stesso oggetto artistico: se Manafon si presenta come la matrice ultima di un percorso ibrido tra diversi generi musicali – percorso rintracciabile in molti altri album dell’artista inglese (Plight and premonition del 1988 e Flux + Mutability del 1989, ad esempio) – Died in the wool cancella quella stessa matrice, nel momento in cui rielabora

i brani con essa condivisi, Small metal god, Random acts of senseless violence, The great living english man, Emily Dickinson, Manafon, Snow white in the Appalachia presentandosi/ li come un qualcosa altro. Spesso un remix di una famosa canzone ci rimanda alla forma iniziale, al brano originale; ora questo passaggio mnemonico mi sembra minimo, se non assente. Opere siamesi Manafon e Died in the wool, nate da una comune materia grigia, composte dagli stessi elementi/ingredienti, divisibili ed indipendenti. Tutto questo per sottolineare il carattere artistico del progetto musicale di David Sylvian; un’artisticità che si rivela altresì nelle stesse grafiche degli album, in Manafon, ad esempio, sono utilizzate alcune immagini dal ciclo Study in Green del 2003 dell’artista olandese Ruud Van Empel, disegni di Georg Bolster per l’ultimo album, D.i.t.w.

È possibile stabilire un parallelo con quanto accade nella creazione artistica, vuoi plastica, pittorica, videografica. Nel momento in cui si costituiscono dei cicli, gli elementi che definiscono il corpo dell’opera tendono a ripetersi, o meglio a ripresentarsi ogni volta come ricombinazione di una immaginaria griglia sintattica interna all’opera (alcuni esempi possono essere dati dal periodo blu – 1901, 1904 – o periodo rosa – 1905, 1906 – di Picasso, o in ambito letterario, si pensi all’opera del francese Raymond Queneau Esercizi di stile, libro pubblicato per la prima volta nel 1947). I risultati sono sempre e comunque diversi. Perché, vi chiederete, si è passati dalla

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David Sylvian Died in the wool · Banana Yoshimoto, Kitchen

Banana Yoshimoto Kitchen Feltrinelli 1991 musica all’arte (quella accademica s’intende)? Perché in fondo si vuol riflettere sulle interdipendenze che concorrono alla ideazione, esecuzione e creazione di un qualsivoglia discorso artistico. Interdipendenze disciplinari che si fanno sempre più marcate, proprio grazie alla facilità odierna di poter attingere a piene mani da un bagaglio globale, elementi di natura eterogenea; una mappatura di vasi comunicanti che ci offrono infinite possibilità di percorsi. Una chiara definizione in tal senso ci è fornita da Klaus Honnef: «Mai l’arte è stata più varia e multiforme. All’inizio del XXI secolo, essa appare come una sorta di caos primordiale in cui si fondono le più disparate correnti, le più varie forme espressive, gli stili di epoche diverse, i media più eterogenei, i più vari e contrapposti ideali estetici: come se un immane selvaggio tornado avesse risucchiato nel suo vortice tutte le opere d’arte di tutti i musei del mondo. Quadri, sculture, oggetti, disegni, fotografie, film e installazioni fanno a gara nell’attirare l’attenzione del pubblico, come merci esposte negli scaffali di un grande supermercato».

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di Alessandra Trestini “Non c’è altro posto al mondo che io ami più della cucina...” Così ha inizio il romanzo di Banana Yoshimoto “Kitchen”. È la storia di Mikage: giovanissima ragazza giapponese che perde la figura materna a cui aveva fatto riferimento per tutti gli anni della sua vita: la nonna. Dopo la terribile perdita della nonna quindi, trova ospitalità presso la dimora del fioraio di fiducia della famiglia, Yuichi. Quest’ultimo non abita da solo, ma con una madre affascinante e piena di vita, Eriko. Qui Mikage trascorrerà 6 mesi della sua vita, per decidersi in fine ad affittare un appartamento e proseguire in solitaria. Purtroppo però le disgrazie non sono finite per i due giovani speranzosi: un evento tragico si trasformerà in un’occasione di riavvicinamento. La solitudine, questo è il toccante tema affrontato

dall’autrice nelle pagine del breve ma intenso romanzo. Mikage perde i genitori in tenera età e per questo é affidata alla nonna, figura materna in cui ripone la sua più totale fiducia e affetto. Tuttavia, l’incondizionato affetto per la “mamma adottiva” ha un caro prezzo da pagare quando verrà a mancare; una tremenda solitudine rimpiazzerà l’amore di Mikage, una immensa voragine distruggerà l’intimo mondo che a fatica aveva costruito, un mondo a cui aveva lasciato spazio solo per lei e l’anziana nonna. Eccola allora a colmare il vuoto attraverso la morbosa passione per le stoviglie, i fornelli e il cibo. In una fase successiva, Mikage lascerà entrare lentamente Yuichi ed Eriko, per permettere anche a loro di partecipare alla sua vita emotiva. Insomma, l’autrice sembra volerci suggerire che non dobbiamo mai dimenticare la nostra natura mortale, causa di sofferenza e dolore. La nostra anima crea legami di amore e relazioni anche senza un’intenzione, manifesta la sua volontà con o senza il permesso della razionalità. Ma, quando il destinatario del nostro amore non ci può più dare risposta, soffriamo una terribile solitudine, che dobbiamo cercare in qualche modo di far tacere e tenere a bada; per questo esiste la sfera del materiale. Non per niente il libro si intitola “Kitchen”; Mikage trova consolazione negli utensili da cucina e nel buon cibo. Banana Yoshimoto, per cui, ci avverte: aggrappiamoci a punti fermi, materiali, che non posso sfuggirci o abbandonarci. Certo, il rischio è però un legame sottile, impersonale o quanto meno insipido. Il libro ha il grande pregio di essere ambientato in Giappone, un paese esotico e diametralmente opposto al nostro; per chi ne ha le capacità,


Il Corsaro - Balletto del Bolshoi

Il Corsaro Balletto del Bolshoi di Mosca può immergersi non solo nello stato d’animo di un personaggio che sta vivendo un momento della sua vita tendente all’apatia, ma ha anche la possibilità di abbeverarsi ad usi e costumi differenti. La passione di Mikage per la cucina e per tutto quello che ne sta intorno, fa si che le descrizioni degli utensili siano sufficientemente dettagliate per soddisfare la curiosità di un designer; così come le abitudini dei personaggi rispondono a pieno alle domande di un pubblico antropologicamente interessato. La cucina allora assume un ruolo ambivalente: da una parte rappresenta il dolore della protagonista per sentirsi abbandonata, dall’altra è uno spunto eccezionale per chi fiuta una cultura differente. Volendo rendere questa recensione più approfondita, mi impegno nell’analisi di uno dei personaggi che mi ha stimolata; non si tratta però della protagonista, sarebbe troppo facile e scontato per chiunque lettore. No, focalizzo piuttosto la mia attenzione su Eriko Tanabe, la madre di Yuichi, che durante la narrazione sarà coinvolta in un sconvolgente e incompreso colpo di scena. Con grande sorpresa di Mikage, Eriko rivelerà il suo passato di uomo, nonché padre di Yuichi. Quando era uomo, il suo nome era Yugy, ma in seguito alla malaugurata morte della moglie, decide di cambiare sesso avvalendosi dell’aiuto della chirurgia plastica. Con il passare degli anni Eriko dimentica progressivamente il suo lato maschile, lasciando che sia il suo lato femminile e materno ad emergere. Essa è una donna affascinante, sebbene qualche ruga inizi già a fare la sua comparsa sulla sua pelle così incredibilmente femminile dai capelli neri luminosi che

cadono dritti senza anima fino alle spalle. Di lei ci rivela che ama le piante, in particolar modo quelle di ananas, perchè le ricordano la madre di suo figlio, a cui ha sacrificato la vita da uomo. Già, perchè l’altro grande tema, oltre a quello della morte e il buco nero che lascia dietro di se, è anche quello del sacrificio della propria vita per amore di un proprio caro. Yugy muore due volte, la prima delle quali quando prende la decisione di assumere le vesti di donna e madre per il piccolo Yuichi. Non è certo una morte fisica, quanto piuttosto dell’anima. Il marito/ padre cessa di esistere per affetto e soprattutto come atto incondizionato, non richiesto dal figlio ma venuto in modo spontaneo. Lo stile con cui la Yoshimoto si esprime in queste pagine ha periodi brevi e scorrevoli, é inoltre ricco di dialoghi che rendono vivace la lettura. Il lessico è efficace e le descrizioni non infastidiscono il lettore con la loro presenza, per nulla complessa e prolissa. Ahimè, il finale lascia letteralmente a desiderare; esso non soddisfa i lettori più curiosi, anzi sembra quasi prenderli in giro interrompendo bruscamente il romanzo e lasciandoci con la perenne domanda: avrà vinto l’amore?

di Melissa Temporin Domenica 11 Marzo alle ore 16:00 presso il Teatro Ristori di Verona è andato in onda sul grande schermo il live del balletto in tre atti intitolato “Il Corsaro”. Come si può intuire, l’evento chiama in causa l’attuale e scottante questione artistica della virtualità, del tempo reale e della mediatizzazione. Lo spettacolo reale infatti non ha luogo sul posto ma viene messo in scena in Russia dal Corpo di Ballo del Teatro Bolshoi di Mosca che ha appena riaperto le porte agli spettatori dopo sette anni di restauro. Tale balletto, che fa parte del repertorio romantico, si basa su un popolare poema di Lord Byron (1788-1824) intitolato “The Corsair” pubblicato nel 1814. La storia narra di Conrad, capo dei pirati, che si innamora della giovane schiava Medora la quale viene però ceduta dal venditore Isaac Lanquedem al tiranno Seid Pascià. L’evento genera

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Living with Complexity di Donald A Norman

Living with Complexity, Donald A. Norman MIT Press, 2011, Cambridge Massachusetts una lunga serie di avventure e colpi di scena che si conclude con la fuga per nave dei due amanti che, nonostante l’arrivo di una tempesta ed il relativo naufragio, riescono a mettersi felicemente in salvo. Lo spettacolo si basa sulla straordinaria eleganza e tradizionale bravura dei ballerini del Bolshoi, la cui coreografia si articola su quella storica di Marius Petipa rivisitata dai coreografi Alexei Ratmansky e Yuri Burlaka su musiche di Adolphe Adam. In particolare, la scena del naufragio finale è di grande impatto visivo grazie alla presenza fisica della nave che si spezza sul palcoscenico e alle proiezioni realizzate sul tulle che rendono perfettamente l’idea della tempesta. Personalmente penso che il live in differita sia un’ottima strategia per esportare spettacoli di così grande portata che difficilmente si possono ammirare in piccoli teatri. Purtroppo però la virtualizzazione toglie gran parte della magia di una performance coreutica dal vivo. L’effetto cinematografico prodotto dalla proiezione fa venir meno la partecipazione dell’osservatore alla presenza dei danzatori e alla relativa profondità tri-dimensionale dell’evento.

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di Francesco Ronzon Le nuove tecnologie non si limitano a elaborare oggetti ma operano come veri e propri atti di design sociale che plasmano e ri-organizzano la vita quotidiana delle persone. Si pensi ad esempio all’attuale diffusione degli Smart-phone, alle proteste per i lavori della TAV in Piemonte o al recente Referendum sul nucleare. Il libro di Donald Norman si pone in modo netto sul lato “micro” dell’analisi di questo intreccio tra società, esseri umani e nuove tecnologie. Seguendo un felice approccio iniziato con The Design of Everyday Things - tradotto in italiano con l’orribile titolo di “La Caffettiera del Masochista” - l’autore dirige la sua attenzione ai modi con i quali gli interfaccia presenti sulle superfici delle nuove tecnologie incontrano le attività delle persone che li utilizzano. Il testo è scritto in modo

amabile come un esercizio di alta divulgazione. Ciò lo rende un’opera particolarmente fluida e piacevole da leggere ma anche leggermente erratica e digressiva nell’esposizione. Il cuore del lavoro è racchiuso da Norman nella lamentela: perché la nostra tecnologia è così spiazzante? Per rispondere alla domanda l’autore traduce l’interrogativo in una questione di ordine più generale: come gli individui vengono cognitivamente a capo del disordine del mondo? A questo scopo il libro introduce e ruota attorno ad una distinzione base tra complesso e complicato. Nel primo caso l’espressione rimanda ad uno stato del mondo, nel secondo caso ad uno stato mentale. Per usare un motto ironico citato nel testo: “complicato significa possedere una complessità spiazzante”. A partire da questa impostazione della questione, il libro pone in campo due ulteriori mosse teoriche. La prima sottolinea il ruolo svolto dalla struttura soggiacente (underlyng structure). Una volta che una struttura soggiacente è colta, infatti, la complessità scompare o si riduce enormemente. La seconda mossa teorica evidenzia invece il carattere progettuale: come i vari oggetti tecnologici rendono visibile in superficie la loro struttura soggiacente? Facendo riferimento ad un area di ricerche che include l’ecologia psicologica (James Gibson), la cognizione situata (Jean Lave), la cognizione distribuita (Edwin Hutchins), il libro si sviluppa


Living with Complexity - Donald A Norman

analizzando varie nozioni e casi di oggetti tecnologici presenti nella vita quotidiana. Il tema ricorrente è quello relativo al ruolo cognitivo svolto dai significanti sociali (social signifiers): i sottili indizi offerti dalle attività delle altre persone come guide per la propria azione. Secondo Norman, le azioni degli individui hanno, infatti, sempre degli effetti collaterali. Lasciano dietro di sé tracce nell’ambiente che permettono a chi viene dopo di risalire alle attività e ai percorsi compiuti. I biologi e i teorici dell’Artificial Life etichettano questo fenomeno come stigmergia (stigmergy): un tipo di coordinazione indiretta basato sulle tracce delle attività precedenti. L’esistenza di indizi delle attività svolte dirige e vincola le attività future producendo strutture complesse attraverso un processo auto-regolativo privo di direzione e pianificazione centrale. Questa digressione offre all’autore anche l’occasione per sottolineare la distinzione concettuale tra significante e affordance. Criticando l’uso della nozione di affordance fatto da numerosi designers, Norman precisa come questo concetto rimandi esclusivamente alla qualità praticooperativa che una data struttura materiale ha rispetto ad un certo utente. Per indicare l’aspetto percepibile (visivo, uditivo, tattile, ecc. ecc.) che rivela l’esistenza di questa affordance, Norman ritiene dunque vada utilizzato un’altra nozione. Nel caso specifico, l’autore suggerisce appunto quella di significante in quanto capace di dar conto anche del ruolo svolto dalle pratiche e dalle tradizioni culturali

locali nell’interpretazione degli indizi presenti nel paesaggio percettivo dell’utente. In misura maggiore che nelle opere precedenti, l’intento delle analisi e delle riflessioni contenute nel libro non è solo teorico, ma ha anche un esplicito fine pratico. Al di là delle sue ricerche socio-psicologiche, le parallele attività di consulenza progettuale di Norman si collocano infatti all’interno di un ambito di lavoro al confine tra le tecnologie user-friendly e l’approccio humancentred al design tecnologico. Affermare che la complessità è parte del mondo, sostiene Norman, non dovrebbe essere una scusa per progettare tecnologie spiazzanti. Se un buon design tecnologico non può tenere a bada la complessità producendo cose meno complesse – poiché per certe attività la complessità e necessaria – può però gestire nel modo più pratico possibile quest’ultima. A questo riguardo, secondo l’autore, la chiave per venire a patti con la complessità é da ricercare in due aspetti principali. Il primo verte sulla cosa in sé: ha l’oggetto una logica interna tale che una volta padroneggiata è possibile implementarne senza ambiguità il funzionamento? Quest’aspetto può rimandare a soluzioni come l’aggiunta di struttura (ad es. scomporre il compito in moduli semplici) o la ri-concettualizzazione (sostituire un compito con un altro richiedente una catena di operazioni più semplici o meglio dirette rispetto all’intento base). Il secondo punto rimanda invece alle abilità del fruitore: come l’esperienza dell’utente reale si “incastra” con la struttura dell’oggetto? Qui l’autore

articola la sua usuale critica di fondo all’approccio “ingegneristico” nella progettazione delle nuove tecnologie. Le ricerche presentate nel testo infatti evidenziano come le logiche progettuali dei designers d’interfaccia siano spesso cieche ed autistiche rispetto alle pratiche di vita delle persone reali. Secondo Norman, l’utente ideale razionale e omniscente - ipotizzato dall’ergonomia è un’astrazione che mal si confà alla razionalità limitata, al poco tempo a disposizione e alle routine culturali localmente variabili che caratterizzano gli utenti reali. Di qui la necessità di implementare interfaccia capaci di incorporare nella loro struttura di compiti i parametri socio-culturali delle pratiche d’uso e di interpretazione dell’utilizzatore storico concreto.

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“Gli artisti che cercano la perfezione in tutto sono quelli che non la raggiungono in nulla.” Eugène Delacroix


Galleria Silvia Forese Silvia inizia il suo percorso accademico nel 2005, per conseguire la Laurea di I livello in pittura nel 2010. Questi 5 anni di percorso formativo superiore sono costellati dalla partecipazione a varie mostre e concorsi, sempre incoraggiata e sostenuta dai professori accademici. Fra questi ricordiamo “Arte e territorio” presso Palau in Sardegna nel 2007; la mostra collettiva “Unica” dell'anno successivo, alla quale prende parte con l’opera “Stai distante”, molto criticata; la mostra “Arte Collettiva” in Novembre 2008, che prende il nome proprio dal dipinto da lei presentato alla stessa; la mostra collettiva “Still Life” del 2009. Dopo la laurea nel 2010, la sua attività è altrettanto impegnata e fervida, come testimonia la sua presenza alla Galleria Cardazzofactory di Milano (Settembre 2010); al Museo Magi900 di Bologna (Dicembre 2011); alla collettiva “Temporaneo” nella Galleria Cardazzocontemporanea di Milano (Aprile 2011), con la quale mantiene la collaborazione; alla collettiva “First Step” nella Galleria KN Studio di Verona (Febbraio 2011). La Forese vola anche oltre oceano grazie alla Società “Contaminate NYC” , la quale le organizza una personale presso la location “Salumè”.

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nelle pagine precedenti THE EQUILIBRIST, acrilico su tela, cm. 60 x 90, 2009 · INVADER IN VASE, acrilico su tela, cm. 110 x 90, 2011 · nella pagina accanto SELF-TIMER, installation, 2010 sotto INTERVIEW, installation, 2011

Poche righe ancora per descrivere a parole, se possibile,la sua creatività. Apparente semplicità ma profonda complessità e delicatezza descrivono i dipinti di Silvia, che mai si dimostrano banali o ridondanti. Le sue opere acquistano sapore filosofico e riflessivo se abbinate alla lettura del titolo, il quale assume il ruolo di vocabolario che permette di decodificare e decifrare il significato di cui si carica il dipinto o l’installazione creata. A mio avviso la Forese riesce nell’intento perseguito anche dal criticato ma geniale Picasso: dipingere come un bambino, disegnare con il cuore e non solo con la penna, senza alcun tipo di mandato sociale o regola insensata. Fa un sapiente e salutare uso dell’arte per ottenere ironia, per essere pungente ma mai arrogante o di cattivo gusto. Anzi, le sue opere suscitano malinconia per un mondo da noi abitato durante l’infanzia, un universo a cui adesso guardiamo con nostalgia e ironia, quasi a volerlo prendere in giro bonariamente, con il rammarico di non averlo saputo difendere e non averci creduto abbastanza.

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Max Massimo Reniero, attualmente studente al terzo anno del corso di scultura alla Cignaroli ha già alle spalle diversi anni di esperienza nel mondo artistico. La sua formazione è prevalentemente tecnica; ha svolto numerosi lavori, fra questi i più disparati nel campo edile ed ambientale. Svariati sono stati gli hobbies, tra cui il madonnaro. Attualmente è impegnato in alcuni progetti di volontariato in associazioni culturali. Per 8 anni ha portato avanti gli studi di flauto traverso, arrivando ad eliminare la tecnica per concentrarsi solo sul suono, perché “mi divertivo così, una unica nota e la sua ricerca ...” come egli stesso sostiene. Lo scorso anno, dopo aver esposto ai giardini Pradaval, è stato selezionato per first step 2, con una serie di suoi lavori di ricerca e sfogo, orientati tra fotografia, scultura, meccanica, riproduzione calcografica su strada, accomunati da un tema comune: l’entropia. In estate ha poi continuato a lavorare alle sue ricerche scultoree, per giungere a settembre, incoraggiato dal tag team dei professori di scultura e dal professore Meneghelli, a presentare le sue prime sculture luminose. Avesa è stata la sua prima palestra; per la prima volta ha esposto una delle prime sculture luminose, “rosa mistica”. A novembre, grazie alla galleria “kn studio” di verona (conosciuta attraverso first step), ha esposto presso “the others”, ovvero la versione di artissima per giovani promesse, mostrando solo una minima parte del suo lavoro con la luce. Attualmente la sua ricerca spazia tra materia ed energia, con l’ apporto di nuovi materiali. Ora, parte del suo tempo è occupato per organizzare un grande traguardo: la sua prima personale.

In cinese arcaico l’ideogramma bosco è rappresentato da tre alberi. L’albero è rappresentato da due conche di concavità opposta, unite da una linea verticale che unisce il cielo alla terra. Una serie di queste sculture deriva dallo studio di un libro sugli ideogrammi cinesi arcaici, trovato per caso, mentre facevo uno studio sui disegni rupestri per scolpirli con la luce.

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nella pagina affianco WOODS, scultura di luce, 2011 sotto RING, scultura di luce, 2011

L’opera consiste in una fotografia di un paesaggio collinare realmente esistente che l’autore utilizza come supporto per il suo happening. L’ambiente viene utilizzato come generatore di una scultura che vive nelle 4 dimensioni: le tre dimensioni spaziali più la dimensione temporale. La scultura luminosa dalla forma circolare è ottenuta infatti attraverso i fotoni di una luce al neon da lui stesso spostati e posizionati nello spazio tempo, e catturati dal sensore della macchina fotografica. Nel suo insieme l’intervento segue i principi della Land Art, l’arte di interagire con il paesaggio attraverso un’ intervento che non ha un fine ornamentale o edonistico, ma è una presa di coscienza dell’azione umana, su spazi che possiedono un certo ordine naturale e che da tale intervento sono modificati. Nonostante l’opera utilizzi un materiale più leggero, le linee geometriche dell’installazione, la volontà di immergerla in modo omogeneo nella natura che la circonda, ci riportano al lavoro dell’artista Richard Serra, il quale concretizzava la sua spinta artistica impiegando fogli di metallo. L’intervento può essere visto però anche come un’opera d’arte multipla. La prima opera, quella visibile a tutti a primo impatto, è la fascia luminosa dai colori molto caldi posta sullo sfondo. La seconda creazione è invece più profonda e impegnativa, in quanto richiede uno sforzo intellettivo e immaginifico per vederla:é la volontà di catturare il tempo. I fotoni della luce a neon della fascia circolare, che hanno una vita di poche frazioni di secondo (un battito di ciglia a confronto è eterno), sono impiegati come strumento, come mezzo per ottenere il fine: la concretizzazione del tempo. Una attività che ha del magico e misterioso, che mira a racchiudere in limiti cartacei l’infinito.

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Marvin Mosca Marvin Mosca: “sono nato a Verona il 30 Aprile 1986, ho sempre avuto la passione per il disegno e la scenografia cinematografica. Mi piacerebbe diventare un “Poduction Designer”, come Dante Ferretti grande scenografo, che vanta tre premi Oscar per film come “Aviator” e “Gangs of New York” e ultimo ma non ultimo “hugo” di Martin Scorsese, Ferretti è il modello a cui io aspiro. Ho frequentato l’Istituto d’arte Napoleone Nani con indirizzo “Disegnatore di Architettura”. Ora sto per l’aurearmi in scenpografia all’Accademia G.B. Cignaroli di Verona. Anche se le difficoltà sono molte, l’amore che io ho per la scenografia è piu forte.” Movieland studios conosciuto prima come Movie studios è la risposta italiana agli Unioversal studios, i parchi tematici americani, dedicati ai film. Situato a lazise vicino al lago di Garda, questo parco (ex Canevaworld) ha al suo interno moltissime attrazioni con effetti speciali, come l’attrazione “John Rambo stunt show” con vere scene d’azione ed esplosioni dal vivo.

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nella pagina affianco A NIGHTMARE ON ELM STREET, attrazione, 2011 · sotto a Nightmare on Elm Street SCHIZZI

Il progetto parte da un vecchio lavoro di rilievo scenografico effettuato per il corso di scenotecnica. Mi aveva ispirato un film molto noto del regista Wes Craven: “A Nightmare On elm street”, uscito in italia nel 1984 col titolo “Nightmare - dal profondo della notte” Questo film oltre ad essere importante per avere fatto nascere la New Line Cinema (nota casa di produzione, che ha prodotto anche il film il Signore degli anelli) ha avuto un notevole sucesso nonostante un budget molto basso. Mi ha colpito attraverso il film documentario “Never sleep again” che spiega tutta la fase di pre produzione e come siano stati abili i realizzatori nel partorire le varie scenografie con i pochi soldi a disposizione. Nonostante tutto il film ha una resa molto buona anche ai giorni nostri dopo 27 anni. Da qui ho preso spunto per creare un'attrazione che possa far interagire il pubblico e far provare le emozionanti paurose senzazioni provate dai protagonisti del film. Il percorso fa' rivive le morti dei vari protagonisti per mano del terribile maniaco sfigurato Freddy Krueger, e gli spettatori dovranno insieme a Nancy, la protagonista, riuscire a portare fuori la pellaccia.

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Concorso: interpretazione artistica Marchio del Banco Popolare Il concorso era rivolto all'Accademia di Torino, all'Accademia di Brera - Milano e all'Accademia G.B. Cignaroli di Verona per la realizzazione del marchio del Banco popolare. I tre lavori finalisti sono tutti degli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Verona.

Martina Vanini

PRIMO CLASSIFICATO - Banco Popolare dove si coltiva il futuro In

questa interpretazione il logo originale mantiene i contorni delle figure che lo compongono, ma sono riempite questa volta di semi: si vuole trasmettere l’idea di una banca in constante crescita, al passo con i tempi e aperta ai cambiamenti “stagionali”, che nella nostra quotidianità possono essere rappresentati dalle nuove tecnologie ma anche dalle nuove esigenze del cliente.

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Alex Galbero Maria Gomez

SECONDO CLASSIFICATO - Ci attende un

nuovo confronto, dobbiamo cominciare a rispettarci reciprocamente. Grazie alla nuova idea di rispetto che dobbiamo avere, grazie al contatto di tutti noi, nascerà nuova linfa che crescerà maestosa in un albero di volontà e solidarietà.

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TERZO CLASSIFICATO - Il punto

di contatto: clienti, assistenti, collaboratori... si ritrovano in un unico luogo generando nuovi punti d’incontro. É in continua crescita, si rigenera... questa grande famiglia, con a capo il “Banco Popolare”


Restauro Restauro della Cantoria della Chiesa della Scuola Grande di San Rocco di Venezia Il 14 ottobre 2011 si è concluso il restauro della Cantoria lignea della Chiesa della Scuola Grande di San Rocco di Venezia. La cantoria (nota nel mondo per la serie di teleri di Tintoretto) è un pezzo unico a livello europeo e il suo recupero è avvenuto dopo decenni di abbandono, nella chiesa veneziana della Misericordia, e nove anni di attese. La struttura fu realizzata a Venezia da Pier Angelo Aloisio Fossati e si ritiene che fosse stata già interamente costruita attorno al 1789. Era un’opera maestosa che dava solennità e prestigio alla chiesa e alla Scuola Grande di San Rocco. L’imponente struttura smontabile è alta infatti 11 metri, larga 15 e profonda 4, ed è in grado di ospitare fino a 35 cantori. Il suo ultimo utilizzo risale al 1927, per le celebrazioni del quinto centenario della morte del Santo. Il lavoro di restauro è durato otto mesi ed é stato eseguito da dodici studenti del terzo anno della Scuola di Restauro, coadiuvati dai prof.ri Massimiliano Valdinoci e Maurizio Tagliapietra nell’ambito del laboratorio di restauro del legno e sulla base di un progetto elaborato dall’architetto Mario Piana. In particolare, l’intervento ha riguardato gli apparati decorativi della Cantoria, consistenti in 5 angeli musicanti, 3 vasi con dorature e motivi decorativi (facenti parte del coronamento dell’apparato mobile) e 4 basamenti di sculture. La strategia di conservazione prescelta è stata quella del “minimo intervento”, un approccio che ha portato alla riduzione degli interventi curativi a favore della prevenzione, cura e manutenzione e che tratta l’opera insieme all’ambiente.

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Nel corso del lavoro, peraltro, la ricognizione di due degli angeli musicanti ha rivelato, in conseguenza della frammentazione del perizoma, la perfetta esecuzione dei genitali maschili e una dipintura in biacca bianca non alterata. Da ciò è emerso, dunque, che in origine gli angeli erano vestiti solamente di una sciarpetta e che il perizoma si configura come un intervento successivo di braghettamento (trattamento già toccato in sorte ad altre opere, la più celebre delle quali è forse il michelangiolesco Giudizio Universale della Cappella Sistina). Il lavoro si è svolto sotto la supervisione della Soprintendenza dei beni architettonici e paesaggistici di Venezia laguna e con il contributo dell’«Arcus» di Roma, società per lo sviluppo dell’arte, della cultura sorta nel 2004 e collegata al Ministero per i Beni e le Attività culturali, che ha finanziato l’operazione. L’intervento nel suo insieme si è invece collocato all’interno del progetto “Cantiere-Scuola”, nel quale l’Accademia è impegnata da alcuni anni in relazione all’accreditamento del corso di Restauro come ciclo unico di secondo livello.

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Sawari nel prossimo numero Milo Manara I.I.C.S. European Project Atelier Creativi per le Scuole Ingres Vs Delacroix Erasmus in Turchia Outsider Art Design e Spazi Urbani

... e altro ancora

SAWARI · Rivista on-line degli studenti dell’accademia di Belle Arti di Verona · http://www.accademiacignaroli.it/ · E-mail sawari@accademiacignaroli.it Accademia di Belle Arti di Verona · Via Carlo Montanari, 5 - 37122 Verona · Tel. 045 8000082 - Fax 045 8005425


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