Segno 259

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 00 in libreria ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910

E 5.

Anno XLI - SET/NOV 2016

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

TINO STEFANONI

All’interno ANTEPRIMA/NEWS - LE MOSTRE NEI MUSEI, NELLE ISTITUZIONI SPAZI ALTERNATIVI, GALLERIE PRIVATE – SPECIALE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – CRONACHE, RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI



segnosettembre/novembre 2016 E 5.

Anno XLI - SET/NOV 2016

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

# 258 - Settembre/Novembre 2016

sommario

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

Artisti in copertina

Tino Stefanoni

TINO STEFANONI

All’interno ANTEPRIMA/NEWS - LE MOSTRE NEI MUSEI, NELLE ISTITUZIONI SPAZI ALTERNATIVI, GALLERIE PRIVATE – SPECIALE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – CRONACHE, RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI

Aldo Mondino [36]

#259

Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

Sopra: Sinopia Z472A, 2015 Sotto: Senza titolo Z427, 2015 courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea

4/33 News gallerie e istituzioni Aurelio Amendola [42]

Anticipazioni in breve dall’Italia ed estero Anteprima Artverona (Intervista ad Andrea Bruciati) Anteprima Artissima Torino. FM Centro Arte Contemporanea Milano (Intervista a Marco Scotini) Anteprima 16a Quadriennale d’Arte Roma a cura di M.Letizia Paiato, Lucia Spadano, Paolo Spadano e collaboratori

Conrad Marca-Relli [68]

Tra passato prossimo e futuro al MAXXI Roma Pop City 60/67 al MACRO, (Ilaria Piccioni 34-35) Aldo Mondino, Antologica a Villa Croce (Viana Conti 36-37) Agiverona Collection, Siena (Rita Olivieri 38-39) Sandro Chia al CIAC di Foligno (a cura di Lucia Spadano 38-39) PerKirkeby (40) Manifesta 11, Zurigo (Antonella Marino 40) Wild Enerigies al PAV (a cura di Marco Scotini 41) Aurelio Amendola Fotografo Galleria Ficara, Firenze (a cura di L. Spadano 42-43) Nanda Vigo Arena studio, Verona (a cura di L. Spadano 44-45) Jeff Erold Christian Stein, Milano (G. Perretta 46) Abstract Painting Fumagalli, Milano (G. Perretta 46) Vera Lutter Artiaco, Napoli (Stefano Taccone 47) Rotella/Franceschini Vistamare, Pescara (M.L. Paiato 48) Bertozzi & Casoni Verolino, Modena (M.L. Paiato 49) Dialogo sulla Performance (G.Gaggia 50) Arte Forte nel Trentino (Camilla Nacci 51) L’Astrazione dopo l’Astrazione ABC arte, Genova (M.L. Paiato 52) Dorothea Lange Studio Trisorio, Napoli (Carla Rossetti 53) Fuori Uso a Pescara (Ivan D’Alberto 54) Premio Michetti / Franco Summa (Sibilla Panerai 55) Tino Stefanoni artista in copertina (Luca Tomio 56-61) Cossio/Pulini Bonioni Arte, Reggio Emilia (M.L. Paiato 62-63) Premio Campigna a Giulio De Mitri (Lucia Spadano 64-67) Conrad Marca Relli Open-Art, Prato (Paolo Balmas 68-71) Nicola Carrino A Arte Invernizzi (a cura di Lucia Spadano72) Vasco Bendini Acc. San Luca, Roma (Viola Fazzi 73) Mario Surbone Stelline, Milano (Paolo Balmas pag. 76-77) Manuela Bedeschi Art Open Space, Lazise (a cura di L. Spadano 78) Nunzio Palazzo Riso, Palermo (di Valentino Catricalà 79) Felice Levini Auditorium, Roma (di Paolo Balmas 79) Arte in Centro / Mete Contemporanee (M.Letizia Paiato 80-81) EXPO Marche 2016 (Dario Ciferri 82-83)

Vasco Bendini [73]

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news e calendario eventi su

e 34/78 Attività espositive/ Recensioni anticipazioni

85/89 Documentazione

Pinelli/Staccioli - Vittorio Corsini - Matteo Fraterno (85) Premio Vasto (86) La Materia della Presenza (86) Antonio Paradiso (Antonella Marino 87) Emanuela Fiorelli/ Pop Art italiana (87) (a cura della redazione e collaboratori) Mario Surbone [76]

Performance 90/98 Osservatorio critico/Azioni, e Installazioni

Hamish Fulton (Viana Conti 90) Emilio Isgrò (Gabriele Perretta 90) Antonella De Nisco (91) Arte Marche Oltre (Valentina Tebala 91) AIR Arte in Riserva (M.Letizia Paiato 92) Festival Ragusa (92) Mito e colori all’Isola Comacina (93) Antico e Nuovo / Restauri (Rossella Martino 94-97) Il Teatro sepolto ad Agrigento (Dario Orphée La Mendola 98) Libri e Cataloghi (98)

segno periodico internazionale di arte contemporanea

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>anteprima< confonde i confini tra arte e vita, tra piano fisico e metafisico. Il carattere spirituale della sua produzione non risiede solo nelle opere in cui trova espressione diretta il suo interesse per una pluralità di tradizioni culturali. Risiede soprattutto nell’operazione artistica che trasforma materiali comuni in nuove iconografie evocative, in suggestive narrazioni del reale capaci di coinvolgere intimamente l’osservatore”. In tutta la sua carriera Saar ha portato avanti una posizione artistica che, oltre a opporsi al pensiero maschilista ed eurocentrico, sostiene una prospettiva umanistica che riconsidera le nozioni di individuo, famiglia, comunità e società.

BOLOGNA Betye Saar, Uneasy Dancer. Fondazione Prada, Milano

MILANO

FONDAZIONE PRADA

Betye Saar Prima antologica italiana dedicata all’artista americana e intitola-

ta Uneasy Dancer, sotto la curatela di Elvira Dyangani Ose. Oltre 80 opere tra installazioni, assemblage, collage e lavori scultorei creati tra il 1966 e il 2016 costituiscono il nucleo centrale dell’esposizione, incentrata sull’idea della danzatrice incerta, espressione con cui Betye Saar definisce se stessa e il proprio lavoro e che “segue il movimento di una spirale creativa ricorrendo ai concetti di passaggio, intersezione, morte e rinascita, nonché agli elementi sottostanti di razza e genere”. Con queste parole Saar definisce il suo stesso lavoro, il suo processo artistico che implica “un flusso di coscienza” atto a penetrare il misticismo rituale presente nel recupero di storie personali e di iconografie da oggetti e immagini quotidiani. Materiali di recupero, memorabilia personali e immagini dispregiative che richiamano storie negate o deformate, sono parte fondamentale del lavoro di Saar, sviluppando una potente critica sociale che sfida gli stereotipi razziali e sessisti radicati nella cultura americana. Come osserva la curatrice: “Saar

FONDAZIONE MAST

DAYANITA SINGH Di scena la personale dell’indiana Dayanita Singh, una delle figu-

re di primo piano della fotografia contemporanea, da anni impegnata in un lavoro che, sebbene incentrato sulla storia del proprio paese, supera qualsiasi confine geografico. Con una formazione nel fotogiornalismo, e numerosi reportage sull’India realizzati negli anni novanta per importanti testate internazionali, Singh si distingue sin dagli esordi per la capacità di penetrare la realtà con l’obiettivo. Successivamente prende le distanze dal puro linguaggio del giornalismo e dalla prospettiva tipicamente coloniale in cui il suo paese è spesso stato ritratto, sviluppando una ricerca fotografica documentaristica e poetica insieme, attraverso progetti e pubblicazioni dove le immagini si susseguono secondo criteri e ritmi narrativi inediti. Tipicamente sua è la serie di arredi Dayanita Singh, Blue Book 18, 2008

Betye Saar, Last Dance, 1976. Assemblage di oggetti e materiali vari. The Eileen Harris Norton Collection, Santa Monica. Courtesy Fondazione Prada, Milano

PRATO

RIAPRE IL CENTRO PER L’ARTE CONTEMPORANEA LUIGI PECCI E SI COMINCIA DA

La fine del Mondo

«

[…] ciò che abbiamo conosciuto finora è obsoleto – La fine del Mondo – non vuol essere la rappresentazione di un futuro catastrofico imminente, ma insieme presa di coscienza della condizione di incertezza in cui versa il nostro mondo e riflessione sugli scenari che ci circondano. I mezzi, anche concettuali, d’interpretazione della realtà che noi abbiamo conosciuto non sono più in grado di comprendere il tempo presente. Di qui, da questo cambiamento strutturale, nasce un senso diffuso di fine[…]». Con queste parole Fabio Cavallucci, neo direttore del Pecci di Prato, argomenta il concept della mostra inaugurale per la riapertura del Museo toscano che, chiuso nel 2013 per lavori di ristrutturazione e completamento dell’ampliamento architettonico, punta dritta al cuore di quelle diffuse sensazioni d’impotenza e sfiducia nell’avvenire, penetrate subdolamente in ogni singolo aspetto della nostra società e del nostro vivere quotidiano. Fabio Cavallucci, coadiuvato oltre che dal team interno, da un pool di advisor internazionali composto da: Elena Agudio, Antonia Alampi, Luca Barni, Myriam Ben Salah, Marco Brizzi, Lorenzo Bruni, Jota Castro, Wlodek Goldkorn, Katia Krupennikova, Morad Montazami, Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, Giulia Poli, Luisa Santacesaria, Monika Szewczyk e Pier Luigi Tazzi, simultaneamente stimola e pungola ciascuno di noi, a riflettere sul tempo presente con uno sguardo ampio e allargato, capace di abbracciare i diversi temi della cronaca, oltre il singolo problema, causa o incognita che ci riguarda. A questa necessità di visione globale, paradossalmente mancante mentre viviamo la “globalizzazione”,

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“Sensing the wav es”, Nuova ala progettata da Maurice Nio. Foto: Lineashow


>news istituzioni e gallerie< in legno composta da paraventi, carrelli, tavoli dal gusto modernista, e che lei stessa definisce “musei”. Si tratta di strutture mobili, portatili, modulabili, che conferiscono al suo lavoro un significato sempre nuovo in virtù della loro trasformazione. In questi lavori la storia personale dell’artista e quella collettiva del suo paese, si sovrappongono confondendo continuamente vita privata e pubblica, presenza e assenza, realtà e sogno, trasformandoli in un insieme frammentario ma pervaso da un profondo sentimento di umanità, dall’interesse e dal rispetto profondo per tutto ciò che la circonda: persone, ambienti sociali, oggetti, archivi, macchine. La mostra (aperta fino all’8 gennaio 2017) è curata da Urs Stahel e propone circa 300 fotografie e alcune altre opere che raccontano il lavoro e la produzione, la vita, la sua gestione quotidiana e la sua archiviazione. Negli ultimi cinque anni il lavoro di Dayanita Singh è stato esposto in due edizioni consecutive della Biennale di Venezia 2011 e 2013, e diversi Musei Internazionali.

percorre gli ultimi cento anni della storia dell’arte, attraverso le opere su carta e fotografie di un centinaio di artisti protagonisti del Novecento, e punto di riferimento per le generazioni emergenti. I lavori, provenienti dalle raccolte della Galleria civica e da importanti collezioni pubbliche e private, mostrano la creatività di giovani artisti nati fra 1979 e il 1990, realizzati espressamente per l’occasione e che entreranno a far parte della collezione del museo. Il concept della mostra propone una declinazione del tema “agonismo” come analisi dei processi evolutivi dell’opera d’arte nel corso dei decenni. Fino all’8 gennaio 2017

La Tenda Verde

(DAS GRÜNES ZELT) JOSEPH BEUYS E IL CONCETTO AMPLIATO DI ECOLOGIA

opo Earthrise. Visioni pre-ecologiche nell’arte italiana (2015) ed EcologEast. Arte e natura al di à del Muro (2016), La TenD da Verde conclude il ciclo di mostre con cui il PAV si è proposto

di ricostruire una possibile genealogia del rapporto tra pratiche artistiche e coscienza ecologica negli anni ’70 in Europa. Questa nuova mostra, curata da Marco Scotini, intende focalizzare la propria attenzione sull’attività di uno dei più noti artisti della seconda metà del secolo scorso come Joseph Beuys, privilegiando il suo rapporto con le istituzioni politiche e la minaccia della crisi ambientale. “Ovunque in futuro si dovranno innalzare tende verdi su tutto il pianeta! Dovranno essere le incubatrici di una nuova società” – è il noto appello di Beuys che, nel 1980, accompagna la nascita del partito. Proprio un grande tendone di colore verde compare il 28 Settembre 1980 nella Gustaf-Gründgens-Platz di Düsseldorf: questa tenda, allestita da Beuys con i suoi collaboratori, serve come reale e ideale punto di riferimento - di raccolta e di organizzazione - della prima campagna elettorale dei Verdi. Nella mostra, oltre questo capitolo, saranno presentate tutte quelle operazioni artistiche che, a partire dall’inizio degli anni ’70, hanno visto il progressivo consolidamento della consapevolezza ecologica di Beuys, indissociabile da una concezione della rigenerazione ambientale in senso allargato.

MODENA

GALLERIA CIVICA

VERSUS Con la curatela di Andrea Bruciati, Daniele De Luigi, Serena Gol-

doni, va di scena Versus - La sfida dell’artista al suo modello in un secolo di fotografia e disegno. Si tratta di una mostra che risi lega il vero nodo di questa mostra, ossia l’incapacità odierna di codificare e interpretare la realtà dell’oggi, di creare correlazioni di causa ed effetto tra la parte e il tutto, dettata dall’inadeguatezza e dal superamento degli strumenti linguistici che finora hanno regolato relazioni sociali, politica ed economia. Con La fine del mondo, pertanto, si ricomincia dal presente. Bisogna allora iniziare a capire cosa sia questo presente, e per farlo Cavallucci parte con il prendere le distanze da esso, stimolando la collettività, attraverso le opere di oltre 50 artiste e artisti internazionali, a vederlo da lontano. Tuttavia, la sola osservazione non basta. E l’arte contemporanea, in questo caso, non è solamente il volano per comprendere aspetti celati dell’attualità, ma anche il viatico per vivere un’esperienza, dove le opere, in quest’occasione, diventano a loro volta materia per esperirla in modo diretto e non compendiario. Dunque, il pubblico è invitato a entrare nella nuova ala del Pecci progettata dall’architetto Maurice Nio, e immaginata come una «sorta di navicella spaziale atterrata da chissà quale pianeta e pronta con la sua antenna a emettere onde o a ricevere messaggi “cosmici” – trovandosi poi –di fronte all’installazione dell’artista svizzero Thomas Hirschhorn, noto a livello internazionale per le sue scenografiche installazioni site-specific. L’intento del progetto curatoriale verte, dunque, intorno all’idea, spiega Cavallucci: di «sperimentare la sensazione di vedersi proiettati a qualche migliaio di anni luce di distanza per rivedere il mondo di oggi come se fosse un reperto fossile, lontano ere geologiche dal tempo presente, – vivendo – la sensazione di essere sospesi in un limbo tra un passato ormai lontanissimo e un futuro ancora distante». Così distante, che le nostre vite paragonate alle «incommensurabili distanze cosmiche e ai lunghissimi tempi della storia della Terra e dell’Universo» appaiono come piccoli «frammenti inconsistenti». Sarà in questa distanza, quella di un tempo che la nostra psiche non riesce neppure a concepire, che il mondo ci apparirà, probabilmente, come realmente finito. A ritmare questo inedito percorso ci sono le opere di molti artisti, il cui talento

Giorgio Colombo, Il mangiafuoco, installazione di Pier Paolo Calzolari, 1986 gelatina bromuro d’argento, 29,7 x 39,6 cm. Galleria civica di Modena

PALAZZO FAVA

Bologna dopo Morandi 1945-2015 rganizzata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bolo-

O

gna e Genus Bononiae, la mostra Bologna dopo Morandi 1945- 2015 con la curatela di Renato Barilli, presenta 150 opere di circa settanta artisti, tutti nati o attivi a Bologna e dintorni, che hanno influenzato con la loro personalità e il proprio stile la storia dell’arte bolognese dal secondo dopoguerra ad oggi. Il suggestivo percorso espositivo è articolato in 12 “stazioni”, partendo dall’immediato dopoguerra del post-cubismo di Romiti, per passare dall’Ultimo Naturalismo di, tra gli altri, Bendini, Moreni e Mandelli, fino all’informale (Cuniberti, Sartelli, Nanni) e alla pop art di Pozzati e Manai, con una sezione dedicata alla fotografie di Migliori. Non mancano nemmeno Pazienza, Brolli e Carpinteri, ovvero le migliori matite del genere del fumetto e neanche i nuovi protagonisti delle ‘Nuova Officina’ e della video-arte.

è in campo internazionale ampiamente riconosciuto: Jimmie Durham, Carlos Garaicoa, Qiu Zhijie, Cai Guo-Qiang, cui si affiancano i più giovani Henrique Oliveira e Julian Charrière con un lavoro realizzato a quattro mani insieme al tedesco Julius Von Bismarck. Ma c’è anche la storia dell’arte del Novecento, quella con la A maiuscola e rappresentata dalle opere di maestri che hanno modificato sensibilmente il modo di concepire il “fare” arte, come Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Umberto Boccioni e molti altri. Un mix di artisti, mischiati nel tempo, nella geografia, nell’eterogeneità delle ricerche, ma tutti specchi possibili entro cui si riflette il presente, si guarda al futuro, anche se sbiadito. Nella più felice tradizione del Pecci: «lungo il percorso espositivo tutte le espressioni e i linguaggi artistici saranno interconnessi: la musica, il teatro, il cinema, l’architettura e la danza non rappresenteranno solo eventi collaterali, ma si snoderanno come momenti integranti della mostra, contribuendo a costruire una narrazione immersiva e coinvolgente». Questa nuova riapertura del Pecci, pertanto, con la direzione di Fabio Cavallucci, che raccoglie tutte le eredità dei suoi predecessori: Marco Bazzini, Stefano Pezzato, Daniel Soutif, Bruno Corà, Antonella Soldaini, Ida Panicelli, sembra idealmente ripercorrere soprattutto le tappe che portarono Enrico Pecci (purtroppo scomparso a gennaio dell’88, poco prima di poter vedere concretizzato il suo sogno) a concepire il progetto di un Museo ex-novo di Arte Contemporanea in Italia, in ricordo del figlio Luigi, e poi quello di Italo Gamberini, per quel che concerne l’intervento architettonico, infine quello di Amnon Barzel negli intenti programmatici. Inaugurato nel 1988, la dichiarazione d’apertura recitava: “esclusivamente dedicato alle esperienze artistiche dei nostri giorni”. Un evento all’epoca che finalmente affrancava anche il Bel Paese alle coeve esperienze internazionali in materia di contemporaneo e al contempo sdoganava la tradizionale concezione del museo SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 5


>anteprima<

Ed Atkins

recente dell’artista, Safe Conduct, con un’installazione video a tre canali, le cui immagini riprendono i filmati degli aeroporti che illustrano ai viaggiatori le procedure da seguire per passare i controlli di sicurezza (fino al 29 gennaio 2017 ) Sempre a Rivoli, (dal 2 novembre al 5 febbraio 2017) personale di Wael Shawky, prima retrospettiva italiana dedicata all’artista egiziano. La mostra (a cura di Marcella Beccaria e C.Christov Bakargiev) include le principali opere dell’artista, tra cui la trilogia completa di Cabaret Crusades (2010-2015), una serie di film che – ispirati dalle opere dello scrittore Amin Maalouf – raccontano la storia delle crociate dal punto di vista arabo, attingendo anche a fonti primarie della storiografia araba. Rifiutando la comune idea di ere storiche, queste opere scavalcano le più tradizionali nozioni relative allo scontro di civiltà tra mondo occidentale e culture islamiche.

TORINO

MUSEO RIVOLI E FONDAZIONE SANDRETTO

Ed Atkins e Wael Shawky cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecel-

A

lio, viene proposta la personale dell’artista inglese Ed Atkins (1982). A Rivoli, con lavori recenti, fra sculture a parete, video, testi, disegni, mettendo in scena le modalità con cui i linguaggi contemporanei cercano di convogliare e restituire esperienze sensoriali di forte potenza emotiva. Scettico verso la tecnologia, l’artista suggerisce la possibilità di recuperare la soggettività dell’individuo attraverso una beffa genuina dell’odio e dell’amore, proponendo una insolita, quanto originale diagnosi inquietante di un presente sempre più mediato dal digitale. L’allestimento presenta inedite soluzioni ambientali, dove l’edificio è immaginato da Atkins come un corpo: l’ultimo piano è il cervello mentre il sottotetto è il centro neurologico del pensiero e degli affetti. L’architettura contemporanea della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino, ospita invece l’opera più Wael Shawky, Cabaret Crusades Beirut, 2015

Thomas Hirschhorn, Break-through (one), 2013 Polistirene bianco, nastro, cartoncino, legno e pittura, dimensioni variabili photo: Luciano Romano, courtesy of Galleria Alfonso Artiaco

6 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Eugenio Tibaldi, Seconda chance, bozzetto dell’installazione, disegno su carta, 2016

MEF - MUSEO ETTORE FICO

Scatti d’autore Sono 3 le mostre dedicate alla fotografia d’autore. La prima e più im-

portante, Realismo, neorealismo e realtà. Italia 1932-1968, presenta scatti provenienti dalla Collezione Guido Bertero. In mostra opere di: Berengo Gardin, Giacomelli, Migliori, Patellani, Ghirri, Fontana, e molti altri ma anche della stagione dei “paparazzi” alla Secchiaroli, che raccontano la storia del costume e della società d’Italia. La prima tappa di questo focus riguarda la fotografia italiana del secondo dopoguerra, ossia quella Neorealista, fra trasmigrazioni dalla realtà rurale alla nuova prospettiva metropolitana (1945-1968). Un documento visivo, costituito da oltre un centinaio di scatti che narrano un’Italia in continuo cambiamento, fra ricostruzione e boom economico, un immaginario cui s’ispirano anche registi come Rossellini, De Sica, Visconti, Germi, Castellani, Lattuada. Segue la personale di Eugenio Tibaldi intitolata Seconda chance, e curata da Andrea Busto. La mostra è il frutto della permanenza dell’artista nel quartiere di Barriera di Milano a Torino, esplorato nei suoi aspetti più eterogenei: dalla storia alla società come luogo dedito alla sola raccolta e conservazione delle opere d’arte del passato. Dunque, il Pecci avviava la sua attività affermando l’importanza del “presente”, così oggi nel 2016 si riparte da una rinnovata ipotesi di comprensione dell’attualità. All’epoca, inoltre, va sottolineato che, il progetto di Italo Gamberini era un’assoluta avanguardia in campo architettonico, concepito, e per la prima volta in Italia, come luogo atto ad accogliere oltre al museo un Centro per l’informazione e la documentazione delle arti visive. In un’intervista a cura di Silvia Del Buono sulle pagine di “Segno” in uno speciale dedicato al Pecci, è lo stesso Gamberini a chiarire le ragioni del suo progetto. Nel descrivere il vuoto architettonico – tutto italiano – di edifici dedicati al contemporaneo, l’architetto sollecita il lettore sull’inesistenza di «musei “attivi”, dinamici, in grado di accogliere ed esporre le opere d’arte contemporanee, divenendo allo stesso tempo, luoghi d’incontri, sperimentazione, ricerca». Affermando parallelamente la necessità di riportare attenzione «agli interscambi fra arti visive e altri fenomeni culturali», Gamberini traccia gli intenti innovativi sottesi alla politica del Pecci che, nel «godimento abituale del visitatore», modella uno spazio vivo e pulsante, «in grado di rispondere adeguatamente all’evolversi dinamico delle arti nel tessuto sociale». E sull’idea del generare un luogo corroborato da energie vibranti, il Pecci prende forma tanto concettualmente quanto strutturalmente, prevedendo la possibilità simultanea di esposizioni di pittura e scultura, progetti installativi, rappresentazioni teatrali, musicali, performative, in sostanza qualsiasi «manifestazione espressiva che – avesse – a che vedere con ciò che, comunemente – all’epoca era – designato come arte». All’alba degli anni ’90 per la Museologia, il Pecci rappresenta in Italia la rivoluzione. Ultima affermazione di Gamberini, e forse la più pregnante è quando dichiara: «il museo deve organizzarsi secondo una visione spaziale dinamica, interna ed esterna, suscitatrice anch’essa di immagini». Proprio questa frase mi pare sia la chiave di lettura più inte-


>news istituzioni e gallerie< FIRENZE

Ai Weiwei Palazzo Strozzi ospita la prima grande mostra italiana interamen-

Osvaldo Civirani, Fernandel in una scena del film il ritorno di Camillo (1953), fotografia 20,6x29,2 cm.

e nelle architetture delle vecchie fabbriche. Un lavoro che nasce dal contatto con gli abitanti, intesi come “ossatura” del quartiere stesso e attivatori diretti della trasformazione sociale- economica ed estetica che vi è stata e che è in atto in questi anni. Il percorso espositivo racconta attraverso oggetti, storie e persone un cambiamento che, “reca le tracce di tutti i passati e di tutte le culture”. Chiude questo percorso la mostra Fotografie, Polaroid e dipinti, uno spaccato ricco e inedito costituito da un centinaio di fotografie e polaroid realizzate da Ettore Fico, a partire dai primi anni Settanta, e che viene esposto per la prima volta. Sono i temi del paesaggio e del giardino, tanto cari all’artista, ad essere qui trattati grazie al nuovo mezzo fotografico, ovvero l’istantanea Polaroid con pellicole auto-sviluppanti.

te dedicata all’artista e attivista cinese Ai Weiwei e intitolata Libero. Si tratta di un’operazione che vede eccezionalmente coinvolti tutti gli spazi della rinascimentale architettura e l’intera città di Firenze: dalla facciata, al cortile, al Piano Nobile, alla Strozzina, fra opere storiche e produzioni inedite. L’idea è quella d’immaginare e poter vivere Palazzo Strozzi in modo totalizzante, per penetrare l’arte antica e la tradizione attraverso l’esperienza del contemporaneo, una peculiarità propria della ricerca di Ai Weiwei. Fra le opere esposte, pezzi che vanno dal periodo newyorkese, anni ottanta e novanta, dove si legge chiaramente l’influenza di Andy Warhol, e più indietro ancora di Marcel Duchamp, fino alle grandi opere iconiche degli anni duemila fatte di assemblaggi di materiali e oggetti come biciclette e sgabelli. Naturalmente le opere politiche e controverse che hanno segnato gli ultimi tempi della sua produzione artistica, come i ritratti di dissidenti politici in LEGO o i recenti progetti sulle migrazioni nel Mediterraneo, rappresentano il fulcro di Libero. (fino al 22 gennaio 2017) Ai Weiwei davanti al suo “serpentone” composto da oltre 300 zaini per studenti.

Ettore Fico, Fotografie, Polaroid e dipinti, Museo Ettore Fico

VENEZIA

Yona Friedman con Jean-Baptiste Decavèle Sulla Laguna di Venezia prende corpo La Montagne De Venise, un progetto promosso e coordinato dall’Associazione Zerynthia in collaborazione con la Fondazione Querini Stampalia, l’Università IUAV e l’Accademia di Belle Arti di Venezia, e curato da Chiara Bertola e Giuliano Sergio. Il grande architetto Yona Friedman ha progettato una vera e propria montagna per Venezia, ovvero un’architettura effimera e trasparente, fatta di cerchi di botte in legno di castagno, realizzata da quaranta studenti all’Arsenale. Che cosa è la Montagne? .... un museo, una nave, un auditorium, un teatro, uno strumento per guardare la città... è di chi la costruisce e di chi la anima. La Montagne de Venise è un’occasione di incontro. ressante per interpretare la storia di questo museo, avvicendatasi dalla sua nascita a oggi, intorno alla volontà di creare, attraverso le arti (che per definizione ha come oggetto di studio e del proprio fare le immagini) nuove immagini rispondenti al presente. Oggi, il progetto architettonico della nuova ala progettata da Mauricie Nio, si colloca concettualmente in continuazione con quello originario di Gamberini, tuttavia ideato, non solo per accogliere differenziate esperienze artistiche, ma potenzialmente per farle vivere, non solo convivere assieme. Prova ne è data dall’inedita concezione strutturale della mostra, dove musica, teatro, cinema, architettura e danza (con inediti interventi della cantante Bjork, dell’architetto Didier Fiuza Faustino, del drammaturgo e attore Pippo Delbono, del musicista elettronico Joakim), sono concepiti, come detto poco sopra, non come eventi collaterali, ma come momenti costitutivi della stessa. C’è inoltre, un’affezione al “vedere” che lega l’esperienza del 1988 a quella del 2016. Una propensione sostenuta sin dagli esordi, oltre che da Gamberini, da Amnon Barzel, primo direttore artistico del Pecci, che Cavallucci recupera idealmente come motore principale atto a far muovere il pensiero contemporaneo. La fine del Mondo è ovviamente un’intelligente provocazione, che tocca la collettività tutta, e naturalmente anche l’universo dell’arte. In una società dove lo scandalo non attecchisce più, men che meno quello artistico, dove tutto appare profondamente appiattito, e seppellite tutte le possibili ideologie, riuscire a leggere il futuro sembra un miraggio. Partendo da questa consapevolezza, che al contempo nobilita ancora di più le originarie intenzioni che mossero l’apertura del museo nell’88, il Pecci riapre le porte, fondamentalmente avendo a coscienza che un modello (istituzionale, politico, economico) si è esaurito, ma che uno nuovo può e deve essere originato, e che ciò può avvenire prendendo le giuste distanze da quello che oggi appare come “il nulla dopo la fine”. E da un museo, che sin dalla sua mission iniziale si prefiggeva l’apertura al circostante e a tutte le forme espressive d’arte, era logico

aspettarsi anche un’apertura diversa sia alla rete e al suo modo d’intenderla, sia alla comunità, non solo quella esclusivamente accademica. Ricordiamo, infatti, che, questa riapertura è preceduta dal “Forum dell’arte contemporanea italiana” svoltosi a settembre 2015, un’iniziativa nata nella rete e che ha richiamato poi nel concreto a Prato, artisti, critici, curatori, galleristi, operatori museali di enti pubblici e privati, ma anche letterati, economisti o altre figure professionali che in un qualche modo hanno contribuito al dibattito sul futuro delle istituzioni museali italiani e sulla loro economia. Lo stesso web, è stato completamente rinnovato, diventando una piattaforma virtuale di costruzione stessa della mostra inaugurale. In particolare è nel “Journal” del Pecci che trovano spazio le voci, non solo degli umanisti, ma anche quelle provenienti dal mondo scientifico, cui si sommano tutte quelle di coloro che avranno voglia e desiderio di costruire il futuro dell’arte, e non solo, dopo La fine del mondo. Maria Letizia Paiato Interno della nuova ala progettata da Maurice Nio, piano terra. Foto: Lineashow

SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 7


>news istituzioni e gallerie< ÀMSTERDAM

GRAZ

Lo Stedelijk Museum inaugura l’avvio della stagione espositiva con un progetto su vasta scala dal titolo Dream out Loud. 26 i partecipanti, tutti attivi nel campo del “social design” invitati dal curatore Lennart Booij a sognare ad alta voce un mondo migliore da quello che conosciamo. I partecipanti: Agatha Haines, Bart Hess, Benedikt Fischer, Boyan Slat, Claire Verkoyen, Dirk van der Kooij, Elisa van Joolen, Fairphone (Bas van Abel), Floor Nijdeken, Formafantasma (Andrea Trimarchi e Simone Farresin), Helmut Smits, Hella Jongerius / KLM, Jesse Howard, Marjan van Aubel, Marleen Kaptein / Nlr / Label/Breed, Metahaven (Vinca Kruk e Daniel van der Velden), Next Nature Network (Koert van Mensvoort ed Hendrik-Jan Grievink), Olivier van Herpt, Patrick Kruithof, Pavèl van Houten, Pieke Bergmans, Pieter Stoutjesdijk, Studio Drift (Lonneke Gordijn e Ralph Nauta), Studio Roosegaarde (Daan Roosegaarde), Studio Stallinga (Henk Stallinga), We Make Carpets (Marcia Nolte, Stijn van der Vleuten e Bob Waardenburg). Fino al 1 gennaio 2017.

Alla Künstlerhaus, Halle für Kunst & Medien collettiva dal titolo Yes, but is it Performable? Investigating the Performative Paradox. Oggetto esplicito della ricerca gli spazi e i limiti della performance, partendo da una ricca documentazione storica su Stuart Brisley, Katalin Ladik, Alex Mlynárcik, Regina José Galindo, Gina Pane, Valie Export e passando per numerosi esempi contemporanei: Sarah Mendelsohn, Fred Schmidt-Arenales, Karl Karner, Linda Samaraweerová, Nezaket Ekici e Marie Karlberg.

Dream Out Loud

BASILEA

Roni Horn

Alla Fondation Beyeler, la newyorkese Roni Horn presenta The Selected Gifts, 1974-2015, esposizione di una nuova serie di 67 scatti fotografici che rappresentano oggetti a grandezza naturale. Al corpus principale della mostra si affiancano opere storiche pittoriche e scultoree. A cura di Theodora Vischer in stretta collaborazione con l’artista. Fino al 1 gennaio 2017.

Roni Horn, The Selected Gifts, 1974–2015, dettaglio, 2015/’16, courtesy l’artista e Hauser & Wirth, Zurigo, Londra, New York Jackson Pollock, Stenographic Figure, 1942 courtesy MoMA, New York foto Digital Image MoMA, New York, Scala, Firenze

Is it performable? Ulli Weiss, Bühnenprobe zu Nelken, Pina Bausch al Palais des Papes, Avignone, 1983, courtesy l’artista

BONN

Der Rhein/Pina Bausch

La Bundeskunsthalle propone una doppia esposizione: la mostra Der Rhein, Eine Europäische Flussbiografie rende omaggio a quelo che è definito come “il fiume più occupato del mondo”, il Reno. Via di comunicazione in servizio da millenni, che lungo il suo corso ha unito (trasporti, commerci) e diviso (linea di confine, fortificazione) Svizzera, Liechtenstein, Germania, Francia e Paesi Bassi, mescolando così la cultura materiale alla fioritura di storie, miti e leggende. Fino al 22 gennaio. La danzatrice e coreografa Pina Bausch (1940–2009), pioniere del teatro-danza contemporaneo è la protagonista di Pina Bausch Und Das Tanztheater. In esposizione, per meglio far conoscere al grande pubblico la sua figura, oggetti, installazioni, fotografie e video dei Pina Bausch Archives. Cuore dell’esposizione la ricostruzione del Lichtburg, leggendaria sala prove ricavata in un vecchio cinema di Wuppertal, dove la magia di Pina Bausch ha preso forma.

L’esposizione Der figurative Pollock, al Kunstmuseum Basel fino al 22 gennaio, traccia l’evoluzione creativa e compositiva che Jackson Pollock ha vissuto a partire dalla metà degli anni ’30. L’esposizione, a cura di Nina Zimmer, fa volutamente appena accenno alle maestose opere del dripping (1947-1950), ma soltanto per evidenziare il contrasto e concentrare l’attenzione sulla continuità tra la figurazione negli anni ’40 e la persistenza di certi temi e interrogativi nei black paintings degli anni ’50. 8 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Andreas Angelidakis, DEMOS, 2016 dimensioni variabili, foto Stathis Mamalakis

BRUXELLES

Accessible Art Fair

Ha compiuto dieci anni l’Accessible Art Fair, piattaforma per artisti e designer vogliosi di rendere il loro lavoro accessibile a un pubblico sveglio ed esigente. La location è quella storica del Musee Juif de Belgique (balzato tristemente agli onori della cronaca nel 2014, per un attacco terroristico in cui morirono 4 persone), scelta che è un chiaro messaggio in un periodo tanto difficile per la sicurezza in Belgio. Tra i circa 70 artisti protagonisti gli italiani Gianni Chiacchio, pittore e scenografo; Paolo Bovino, pittore e filmaker; la pittrice Daniela Vezzoler. Tra le presenze internazionali lo svizzero-egiziano Philip Shalam, il russo Alexandr Grigorev, l’israeliano Yoram Chisin, il giapponese Yusuke Sugiyama, il brasiliano Luis Christello e, ovviamente, una nutrita presenza belga, tra cui Alberto Saleh, Bruno D’Alimonte, Catherine Vermaut, Christian Donck, Flo Collard, Jacques Meunier, Kim De Molenaer, Marco Schmidt, Pedro Correa, Thierry Lancelot. Philip Shalam, courtesy Espace 32, Bruxelles

Jackson Pollock

Regina José Galindo, Tierra, 2013 courtesy l’artista

ATENE/KASSEL

Documenta 14

C’è sempre un prima volta, nel caso di Documenta accade che dopo sessant’anni l’edizione numero 14 è la prima a svolgersi (in parte) fuori da Kassel. È Atene la città prescelta per condividere questo onore, tra l’8 aprile e il 16 luglio 2017, con Kassel che subentra tra il 10 giugno e il 17 settembre. Nel chiedere ai visitatori di intraprendere un simile percorso, Annette Kulenkampff, CEO di Documenta e del Museum Fridericianum, annuncia la partnership di Aegean Airlines e lancia il programma di avvicinamento all’evento dal titolo Parliament of Bodies, che parte dall’Athens Municipality Arts Center al Parko Eleftherias, nelle architetture di Andreas Angelidakis, con The 34 Exercises of Freedom. evento che mira a riscrivere una sinfonia anticoloniale e queer dell’Europa dell’ultimo cinquantennio dando visibilità a narrative dissidenti ed eterogenee. Atto di partenza, per rendere l’idea, la voce di Toni Negri (il fondatore di Potere Operaio) che incontra quella di Niillas Somby, attivista politico impegnato nella lotta per l’indipendenza dei Sámi nel Nord della Norvegia.


>news istituzioni e gallerie< LONDRA

Tate Modern

Nell’ambito della programmazione autunnale, molto attesa la grande retrospettiva dedicata a Robert Rauschenberg, la prima a lui dedicata dalla scomparsa avvenuta nel 2008. La mostra, organizzata dalla Tate Modern in collaborazione con il MoMA di New York, è ospitata nelle Eyal Ofer Galleries e rappresenta la ricognizione più completa mai offerta su una carriera impreziosita dal Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1963, primo artista statunitense a essere insignito di tale onore. Il percorso espositivo si apre con gli esperimenti giovanili al Black Mountain College, sul finire degli anni ’40, dove collabora con amici come John Cage, Merce Cunningham, Jasper Johns, David Tudor, Cy Twombly e Susan Weil. Pagando negli anni seguenti tributo all’espressionismo astratto, Rauschenberg inizia a indagare, nei ’60, i limiti delle arti visive, performative e il rapporto con la scienza aderendo all’organizzazione Experiments in Art and Technology (E.A.T). Negli anni ’70, l’artista sposta il suo studio in Florida e inizia a viaggiare tra America, Europa e Asia portando avanti nei decenni successivi progetti come le Cardboards o il Rauschenberg Overseas Culture Interchange (ROCI). La mostra, curata da Achim Borchardt-Hume, Leah Dickerman, Catherine Wood, Fiontán Moran e Juliette Rizzi, rende merito all’enorme portata e varietà dei suoi interessi spaziando da dipinti, sculture, stampe, fotografie, design e tecnologia fino a uno stand centrale dedicato a danza e performance. Dal 1 dicembre al 2 aprile 2017. Due interessanti esposizioni sono dedicate ad artisti che hanno lasciato un segno profondo nel più recente passato. You Can’t Please All è la prima retrospettiva internazionale dedicata all’opera di Bhupen Khakhar. Celebre per la sua tavolozza vibrante, l’artista indiano scomparso nel 2003 sviluppò uno stile figurativo estremamente personale, discostandosi negli anni dai canoni modernisti in voga a Bombay e Nuova Delhi. A cura di Chris Dercon, fino al 6 novembre. A Georgia O’Keeffe (1887-1986), figura fondante del Modernismo Americano e pioniera dell’arte femminista, è dedicata la più grande retrospettiva di ogni tempo al di fuori degli States. Non essendo presenti sue opere in collezioni pubbliche britanniche, la mostra viene ad assumere i contorni di una opportunità imperdibile per il pubblico europeo. Oltre 100 i lavori esposti, a tracciare un percorso che dai primi esperimenti astratti degli anni ‘10 si evolve costantemente fino agli anni ’80. A cura di Tanya Barson, fino al 30 ottobre. Georgia O’Keeffe, Jimson Weed/White Flower No.1, 1932, olio su tela, cm.122x101, courtesy Crystal Bridges Museum of American Art, USA, Georgia O’Keeffe Museum/DACS, Londra, foto Edward C. Robison III

Robert Rauschenberg, Retroactive II, 1963 olio, inchiostro e serigrafia su tela, cm.203x152 Collection Museum of Contemporary Art, Chicago foto Nathan Keay Bhupen Khakhar, You Can’t Please All, 1981, courtesy Tate, Londra, Estate of Bhupen Khakhar, Nuova Delhi

Kentridge; T293 (Roma) con Claire Fontaine, Louis Cane e Patrizio Di Massimo; Federico Vavassori (Milano). Il programma di Talks, curato da Christy Lange e Gregor Muir, include incontri e dibattiti con vari artisti, critici e giornalisti. Lo speciale Frieze Sculpture Park (che resterà visitabile fino all’8 gennaio) racchiude lavori di artisti tra cui Jean Dubuffet, Renato Nicolodi, Eduardo Paolozzi, Conrad Shawcross, Claus Oldenburg, Nairy Baghramian, Ed Herring, Goshka Macuga e Lynn Chadwick. Nell’ambito di Frieze Masters, A arte Invernizzi (Milano) presenta la mostra Dadamaino e Mario Nigro. Spazi attivi, tra mente e materia, dialogo tra le opere degli anni ’50 e ’60 di Mario Nigro, appartenenti al ciclo Spazio totale, e i Volumi (1958) e Volumi a moduli sfasati (1960) di Dadamaino, sublimazione della fisicità dinamica dello spazio, nella sua identità moltiplicata e frammentata. Partecipano a Masters Antichità Bacarelli (Firenze); Botticelli Antichità (Firenze); Cardi (Milano, Londra) con Boetti, Castellani, Penone, Uecker, Fontana, Kounellis, Calzolari e Pistoletto; Massimo De Carlo (Milano, Londra, Hong Kong) con Gastone Novelli; Continua (San Gimignano, Pechino, L’Avana, Boissy-leChâtel) con Buren e Pistoletto; Moretti Fine Art (Firenze, Londra); P420 (Bologna) con Ana Lupas e Franco Vaccari; Tega (Milano) con Warhol, Picasso, Mirò e Kandinskij; Tornabuoni Art (Firenze, Milano, Londra, Parigi, Crans Montana) con Boetti, Ceroli, Mario Merz, Calzolari, Pistoletto.

Frieze

Oltre 160 gallerie da tutto il mondo partecipano nella capitale britannica a Frieze London, evento che costituisce una delle vetrine più importanti per l’arte contemporanea in Europa, più le 130 per la concomitante Frieze Masters, fiera dedicata all’arte più “classica”. Circa 1000 gli artisti esposti tra il settore principale e i programmi di Frieze Projects e Talks. La partecipazione italiana è assicurata dalle gallerie Fonti (Napoli) con Marieta Chirulescu, Michel Auder e Renato Leotta; Frutta (Roma) con Stefano Calligaro, Gabriele De Santis, Ditte Gantriis, Jacopo Miliani, Alek O. e Santo Tolone; Lorcan O’Neill (Roma); Raucci/Santamaria (Napoli) con Danilo Correale, David Robbins, Hany Armanious, Merlin James, Josh Tonsfeldt, Padraig Timoney, Tim Rollins and K.O.S.; Lia Rumma (Napoli, Milano) con Ettore Spalletti, Joseph Kosuth, Ugo Mulas, Vanessa Beecroft e William Vanessa Beecroft, Bronze Head (Gold), 2014 bronzo, cemento, cm.30,5x25,5x188 courtesy Lia Rumma, Napoli/Milano

Nan Goldin, Trixie on the Cot, New York City. 1979 2008, Cibachrome, cm.39,4x58,7 courtesy l’artista e MoMA, New York

NEW YORK

MoMA

Novità interessanti al MoMA, a partire dal riallestimento delle gallerie del secondo piano, nel cui contesto si segnala tre importanti installazioni di singoli artisti: Nan Goldin presenta The Ballad of Sexual Dependency, narrazione molto personale di esperienze maturate tra Boston, New York, Berlino e altrove tra gli anni ’70 e ’80, in 700 ritratti istantanei (fino al 12 febbraio); Imponderable di Tony Oursler offre una intersezione alternativa tra progresso tecnologico e fenomeni occulti, utilizzando un ambiente cinematico 5-D, creato rispolverando e rielaborando tecnologie del XIX secolo (fino all’8 gennaio); Teiji Furuhashi presenta invece Lovers, installazione multimediale immersiva, in cui una torre centrale di proiettori crea sui perimetri figure a mo’ di spettri che vanno a formare ciò che l’artista dichiara basarsi sul “tema dell’amore contemporaneo in maniera ultra-romantica” (fino al 12 febbraio). Al sesto piano Kai Althoff propone, fino al 22 gennaio, and then leave me to the common swifts, esposizione il cui allestimento è curato dallo stesso artista tedesco per presentare nella maniera che SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 9


>news istituzioni e gallerie< ritiene più opportuna il suo lavoro al pubblico statunitense. How Should We Live? Propositions for the Modern Interior è una collettiva allestita al terzo piano del Museo che esamina una vasta serie di ambienti (in particolare spazi domestici ed espositivi) esplorandone le dinamiche umane e materiali che ne hanno sviluppato l’attuale forma. In mostra lavori di Lilly Reich, Mies van der Rohe, Grete Lihotzky, Ernst May, Eileen Gray, Jean Badovici, Aino e Alvar Aalto, Charles e Ray Eames, Florence Knoll, Herbert Matter, Charlotte Perriand e Le Corbusier, con particolare focus sulle più recenti acquisizioni del Dipartimento di Architettura e Design. Fino al 23 aprile. Nelle The Paul J. Sachs Galleries, fino al 7 maggio, The Shape of Things: Photographs from Robert B. Menschel, estesa ricognizione sulla poliedrica collezione di fotografie del Museo. La mostra, che copre un arco temporale di oltre 150 anni, da una veduta di Parigi di William Henry Fox Talbot del 1843 ai panorami monumentali contemporanei di Andreas Gursky, sottolinea attraverso una uguale attenzione al passato e al presente, la forte convinzione che essi si completino a vicenda e che ogni generazione contribuisca a reinventare l’arte fotografica.

Carmen Herrera

Il Whitney Museum of American Art dedica a Carmen Herrera la prima esposizione museale negli ultimi due decenni. Lines of Sight raccoglie oltre 50 lavori astratti dell’artista di nascita cubana che, a 101 anni d’età continua quotidianamente il lavoro nel suo studio dicendo: “Credo che sarò sempre in soggezione di fronte alla linea, la sua bellezza è ciò che continua a farmi dipingere.”. Carmen Herrera, Green and Orange, 1958 acrilico su tela, cm.152,4×183, Collection of Paul and Trudy Cejas, courtesy l’artista, foto Chi Lam

Jean-Luc Moulène, Voyelles, 2015 courtesy l’artista e Thomas Dane Gallery, Londra foto Florian Kleinefenn

ciali, da parte di Krusciov, a chiunque non propugnasse il Realismo Sovietico, passando per i movimenti del Concettualismo Moscovita e della Sots Art degli anni ’70, fino alle evoluzioni posteriori alla Perestrojka. Tra i tanti artisti presenti: Francisco Infante, Vladimir Yakovlev, Yuri Zlotnikov, Ilya Kabakov, Viktor Pivovarov e Rimma, Valery Gerlovin, Dmitri Prigov, Yuri Albert, Mikhail Roshal, Viktor Skersis, Vadim Zakharov, Alexander Kosolapov, Boris Orlov, Leonid Sokov, Sergei Anufriev, Andreï Filippov, Yuri Leiderman, Pavel Pepperstein. Fino al 27 marzo. La galleria 2, al primo livello del Centro, ospita una monografica di Jean-Luc Moulène. L’artista, invitato a comporre una retrospettiva del suo lavoro, ha scelto di darle la forma di un “programma di produzione”, corredandola inoltre di trenta nuove opere in cui si allontana dalla fotografia (media per cui è principalmente noto) per concentrarsi sugli oggetti, in particolare quelli collegati ai processi di produzione industriale. Fino al 20 febbraio. L’edizione 2016 del Prix Marcel Duchamp vede per la prima volta una collettiva di presentazione dei lavori di tutti gli artisti in nomination. La galleria 4 del primo livello ospita, quindi, le opere di Kader Attia, Yto Barrada, Ulla von Brandenburg e Barthélémy Toguo. Vincitore annunciato il 18 ottobre, la mostra prosegue fino al 30 gennaio.

PARIGI

Centre Pompidou

Sempre ricco e articolato il programma culturale del Centre Pompidou. Al sesto piano, la mostra Magritte: La trahison des images offre un approccio del tutto nuovo al lavoro di René Magritte. I motivi caratterizzanti le opere del maestro belga (ombre, parole, fiamme, corpi in pezzi) vengono rimpiazzati dagli elementi narrativi alla base della loro creazione (le “parole”, ad esempio, con il racconto biblico dell’adorazione del Vitello d’Oro, parabola sulla contrapposizione della “parola/legge assoluta” all’”immagine/ paganesimo”) sfidando la rappresentazione visiva sul piano filosofico. Fino al 23 gennaio. La mostra KOLLEKTSIA ! Contemporary Art in the USSR and Russia 1950-2000 è frutto della straordinaria donazione di oltre 250 opere di arte sovietica e russa, grazie all’enorme sforzo della Vladimir Potanin Foundation. Si traccia la storia che va dalla scena artistica precedente alla chiusura degli spazi espositivi uffi10 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Nicola Lo Calzo, Ayiti Series, Céleur, Group Theodore, Taondreau, Carnival in Jacmel, 2013 stampa su carta baritata, cm.50x50 courtesy Dominique Fiat Vanessa Billy, Centuries, 2016 courtesy BolteLang, Zurigo, Limoncello, Londra foto Gunnar Meier

Fiac

Come ogni anno dal 1974, torna nella capitale transalpina la Fiac - Foire Internationale d’Art Contemporain. Il Comitato di Selezione, composto da Olivier Antoine, Gisela Capitain, Mark Dickenson, David Fleiss, Solène Guillier, Jan Mot, Emmanuel Perrotin e Christophe Van de Weghe, ha scelto 175 espositori da 26 paesi per animare, tra il 20 e il 23 ottobre, gli spazi del Grand Palais e del Petit Palais. Novità assoluta di questa 43° edizione è la nascita del settore On Site, curato da Christophe Leribault e Lorenzo Benedetti, ospitato al Petit Palais, in cui sono presentate sculture e installazioni di 35 artisti come Etel Adnan, Jimmie Durham, Jan Fabre, Damien Hirst, Jannis Kounellis, Ernesto Neto, Lee Ufan o Lawrence Weiner (quest’ultimo presentato da Alfonso Artiaco, Napoli, in collaborazione con Marian Goodman, Parigi/New York/Londra). Speciale nuovo impulso viene dato al settore Hors Les Murs che invade location come il Musée national Eugène-Delacroix, il Palais de la Découverte, il Jardin des Tuileries (dove troviamo installazioni di Berdaguer e Péjus, Joe Bradley, Alexander Calder, Mircea Cantor, Gloria Friedmann, Jacques Julien, Thomas Kilpper, Michael Sailstorfer) e da quest’anno si arricchisce del festival Parades for FIAC, dedicato alle pratiche performative e agli scambi tra discipline artistiche diverse.

AKAA – Also Known As Africa

Parigi tiene a battesimo una nuova esperienza fieristica internazionale, AKAA - Also Known As Africa, dedicata alla scena artistica africana. Le Carreau du Temple ospita una prima edizione il cui focus principale è sulla fotografia, con protagonisti gli scatti di Seydou Keïta (di recente esposto al Grand Palais), Zanele Muholi, Sarah Waiswa (insignita del Discovery Award), Malick Sidibé (vincitore del Leone d’Oro onorario alla Biennale di Venezia del 2007), Aïda Muluneh, Mario Macilau. Presenti anche fotografi internazionali che con l’africanità si sono confrontati nel corso della loro carriera come Gilles Caron, Nicola Lo Calzo con la sua serie Inside Niger o Nicola Brandt con i suoi scatti namibiani.

SAN GALLO

Vanessa Billy

La Kunst Halle Sankt Gallen presenta We Dissolve, personale di Vanessa Billy, svizzera di formazione artistica newyorkese, che indaga come i nessi causali e temporali influenzano il rapporto tra pensiero e azione. Nel perseguire questa ricerca nessun materiale risulta poco interessante per l’artista, si tratti di batterie, popcorn, acqua o bronzo, in un lessico dove scolpire è sinonimo di trasformare e riciclare.


>news istituzioni e gallerie< Fabrice Langlade

ATENE

Giles

La sede ateniese di Gagosian Gallery propone la collettiva Giles, ispirata dalla comic novel del 1966 di John Barth dal titolo Giles Goat-Boy. Opere di FLAME, Louise Bonnet, Maurizio Cattelan, Dan Finsel, Apostolos Georgiou, Matthew Hansel, Anna K.E., Sanya Kantarovsky, Josh Kline, Friedrich Kunath, Calvin Marcus, Frances Stark, Andra Ursuta, Jan Kiefer, Nicolas Grenier e Cindy Sherman.

Chiara Lecca, Fake Marbles, 2013/’15 courtesy Ghisla Art Collection, Locarno Fabienne Verdier, Triptyque rouge, 2016 acrilico e misto su tela, cm.183x407 courtesy Waddington Custot, Londra

BASILEA

Giovanni Manfredini

Alla Galerie Henze & Ketterer & Triebold Forse mai, o forse in paradiso – Wohl nicht hier, aber sicher im himmel, esposizione in cui l’arte Giovanni Manfredini dialoga, sul tema del rapporto tra rappresentazione e religione, con illustri predecessori quali: Eduard Bargheer, Georg Baselitz, Erich Heckel, Ernst Ludwig Kirchner, Robert Klümpen, Otto Mueller, Berthold Müller-Oerlinghausen, Emil Nolde, Hermann Max Pechstein, Karl SchmidtRottluff, Bernard Schultze. Giovanni Manfredini, Stabat Mater, 2014, d. cm.33 courtesy Henze&Ketterer&Triebold, Riehen/Basilea

BERLINO

Rae / Disler

La Buchmann Galerie presenta due personali: nello spazio principale i nuovi dipinti di grande formato di Fiona Rae, nello spazio Buchmann Box protagoniste le terrecotte di Martin Disler.

LOCARNO

Chiara Lecca

Alla Ghisla Art Collection, Chiara Lecca propone Lick. Le opere in mostra dimostrano come scarti di origine animale possano diventare elementi irriconoscibili e rassicuranti, scomparendo come animali per diventare tutt’altro.

LONDRA

Fabienne Verdier

Da Waddington Custot, Fabienne Verdier propone Rhythms and Reflections. In mostra dipinti astratti di grandi dimensioni delle serie Walking Paintings e Rhythms and Reflections.

MONACO DI BAVIERA

Natalia Załuska

Fiona Rae Figure 2e, 2016 courtesy Buchmann Galerie, Berlino

Ugo Rondinone

Da Esther Schipper, quinta collaborazione con Ugo Rondinone che presenta two men contemplating the moon 1830 (titolo preso da un’inconica tela di Friedrich), mostra che comprende la sua ultima serie di sculture Street Corners e il grande dipinto a olio erstermärzzweitausendundsechzehn. Ugo Rondinone, EAST 126 STREET + FIFTH AVENUE, 2016, cemento, cm.119,5x 44,5x40,5, courtesy Esther Schipper, Berlino

DÜSSELDORF

Harding Meyer

Alla Galerie Voss Harding Meyer protagonista di the others. I volti di Meyer evidenziano una tecnica unica, in cui i substrati del lavoro ancora in divenire vanno a far parte integrante della composizione finale (una sorta di svelamento di un “pentimento d’artista”). In alcune delle opere più recenti, addirittura, i volti appaiono quasi distorti svelando reminiscenze di Francis Bacon.

Nello spazio Galerie Klüser 2, l’artista polacca Natalia Załuska presenta, nella mostra Most relative times, una nuova serie di lavori di grandi dimensioni che si avvalgono di tecniche pittoriche eterogenee, dall’olio, allo spray, fino al collage. Natalia Załuska, Senza titolo, 2016 tecnica mista e collage su tela, cm. 220x190 courtesy Galerie Klüser, Monaco di Baviera Adrien Missika, Demain Amélioration, veduta dell’allestimento, courtesy Bugada & Cargnel, Parigi

PARIGI

Adrien Missika

Bugada & Cargnel propone la seconda personale in galleria di Adrien Missika. In Demain Amélioration, l’artista che vive e lavora a Berlino presenta una nuova serie di sculture che combinano elementi naturali e tecnologici, utilizzati per creare una personalissima cosmogonia. Il titolo è preso in prestito dal gergo meteorologico, a indicare una leggera combinazione di umorismo e semplicità che, poeticamente, ci restituisce l’incanto di fronte all’infinita scala dello spazio e del tempo.

La galleria Pièce Unique presenta una mostra di Fabrice Langlade dal titolo Dionysos, invito al sogno e all’interrogarsi su una mitologia Fabrice Langlade, Dionysos, 2013/’16, tanto cristallizzata epossidica, silicato quanto dinamica. resina d’alluminio, silica, lacca, Le sculture, di un cm.125x58x107, courtesy Pièce Unique, Parigi bianco intenso, esposte qui per la prima volta, sono paesaggi il cui valore è narrativo e strutturale e comprendono anche un’opera realizzata per l’occasione.

Trio

La Galerie Lelong presenta un Trio d’eccezione, composto da Jannis Kounellis, Arnulf Rainer e Antoni Tàpies, artisti che hanno messo la naturalezza del materiale e l’energia del gesto al centro della loro esperienza creativa.

Michelangelo Pistoletto

VNH Gallery, in collaborazione con la Galleria Continua, presenta RESPECT, esposizione in tre tempi di Michelangelo Pistoletto. Le linee guida della mostra sono legate ad arte, educazione e politica, con lo scopo di permettere ai visitatori di appropriarsi dei concetti che animano l’approccio dell’artista nella sua ricerca del Terzo Paradiso, le dicotomie naturaartificio, femminile-maschile, individuosocietà, razionalità-emozione, democraziatirannia. È prevista una performance in cui l’artista distrugge 23 specchi e fa apparire la parola RESPECT e le sue traduzioni nelle lingue più diffuse. Fino al 23 dicembre. Michelangelo Pistoletto courtesy Continua, San Gimigano

Giovanni Gastel

La Photo12 Galerie ospita la prima personale in Francia di Giovanni Gastel. La selezione di 30 opere copre un arco cronologico dalla metà degli anni ‘80 fino ai giorni nostri, viaggio articolato in un immaginario visivo dedicato al fascino femminile. Gastel, fedele alla stampa Polaroid di grande formato e al banco ottico 20x25, ha introdotto nella fotografia di moda contemporanea le tecniche “old mix” e “a incrocio”, rielaborazioni pittoriche e lo still life ironico, imprimendo un segno originale che lo pone come figura di assoluto riferimento. Giovanni Gastel, Donna, Milano (Claudia), 1990, Polaroid, cm.25x20, courtesy Photo12 Galerie, Parigi

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ARTVERONA.IT

12a EDIZIONE

ART PROJECT FAIR

14/17 OTTOBRE 2016

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>speciale fiere<

Roberto Pugliese, Quintetto, 2016 Courtesy Studio la Città Photo Michele Alberto Sereni

Pauline Boudry Renate Lorenz, Normal Work, 2007, Performer Werner Hirsch, courtesy the artists, Ellen de Brujine Projects and Marcelle Alix Gallery

ARTVERONA 2016 a dodicesima edizione di ArtVerona | Art Project Fair apre

L

Asdrubali da Santo Ficara

Paolo Bini, Eden, 2016

INTERVISTA AD

ANDREA BRUCIATI DIRETTORE ARTISTICO DI ARTVERONA

a cura di Lucia Spadano - La tua direzione artistica di ArtVerona ha avuto inizio nel 2014. Quali sono i cambiamenti più evidenti nel mondo dell’arte degli ultimi anni e come, di conseguenza, è cambiata ArtVerona? - Essendo cambiato l’assetto economico, oggi c’è molta più concentrazione su alcune realtà rispetto ad altre ritenute più marginali. ArtVerona ha scelto di investire nei confronti di aree ritenute non centrali, mantenendo viva l’attenzione nei confronti di gallerie consolidate del Moderno: questo ci ha permesso di operare in maniera più libera e di sviluppare progetti mirati che sapessero allo stesso

i battenti, dal 13 (per l’anteprima) al 17 ottobre. Sotto la direzione artistica di Andrea Bruciati e forte della partnership con ANGAMC - Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, la manifestazione, riconosciuta tra le realtà più vivaci e innovative del settore, concentra le sue azioni nell’attenzione e cura ai suoi principali interlocutori, espositori e collezionisti. Entra da quest’anno nello staff Antonio Grulli, critico d’arte a cui si affidano le relazioni con i collezionisti, avvicinando attraverso uno sguardo e una progettualità curatoriali gli amanti dell’arte, con un’apertura soprattutto alle nuove generazioni e alle realtà italiane. Anche il programma dei “talk,” curato da Adriana Polveroni, apre un focus su scenari, prospettive e passioni che stanno alla base della nascita di una collezione. Il connubio tra ragione e sentimento che muove il collezionista, è al centro del programma culturale in città, quest’anno ispirato a Wolfgang Nan Goldin, C In the Club, Bangkok, 1992 cibachrome, cm 76x101,6, esemplare 1125, courtesy C+N Canepaneri.

tempo dare visibilità a queste realtà e coglierne i fermenti creativi. Questa scelta, che ci ha consentito di profilare l’immagine di ArtVerona, è stata premiata culturalmente e ha avuto pareri molto positivi dal mercato e dai collezionisti che trovano nel taglio taylor made e nell’attenzione alla cura e alla qualità delle proposte una ottimale condizione per il business e un ambiente ideale dove generare e consolidare relazioni. - La direzione che hai impresso ad ArtVerona si è mossa fin da subito nell’ottica del talent scouting, con una spiccata vocazione alla ricerca e alla sperimentazione. Quali sono gli artisti e i curatori che sono stati supportati da ArtVerona, prima di fare il loro ingresso nei circuiti commerciali? - Il progetto pluriennale On Stage (2009 – 2012) mirava a far convergere l’intera filiera del sistema dell’arte (gallerie, artisti, collezionisti, curatori) all’interno di uno specifico focus: si trattava di una attenzione altrimenti inconsueta per la sua sistematicità con le “fiere competitors” e questo ci ha dato ragione nel medio termine. Ha infatti fatto emergere realtà periferiche e professionisti ora importanti da semplici giovani promesse e questo atto maieutico ci è oggi riconosciuto. Faccio due esempi concreti: Andrea Kvas, Tomaso De Luca e Nicola Martini sono alcuni degli artisti che sono stati sostenuti in questi anni da ArtVerona, prima che entrassero a far parte dei circuiti commerciali. Ora hanno tutti una galleria importante che li rappresenta. Ne’ I Benandanti del 2012, che ha visto protagonisti giovani curatori, hanno poi avuto un indiscutibile successo figure come Simone Frangi, oggi curatore di Viafarini a Milano, Alessandro Castiglioni, attuale curatore del MAGA di Gallarate e Antonio Grulli, critico d’arte, da quest’anno nello staff di ArtVerona, a cui sono state affidate SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 13


>speciale fiere< Amadeus Mozart, figura dal pensiero sempre attuale, fonte di ispirazione per gli artisti contemporanei. Tra le mura del Museo di Castelvecchio, attraverso “Il flauto magico. 16 collezionisti per un’istituzione,” mostra curata da Andrea Bruciati, vengono proposte 16 opere provenienti da altrettante Collezioni private italiane di rilievo, in dialogo con gli spazi e i percorsi espositivi riletti da Carlo Scarpa. Completano l’indagine Roberto Pugliese | La finta semplice al Museo degli AfFausto Melotti, Scacciapensieri, 1957, freschi, Hermann ceramica smaltata e filo di nylon, cm 60 x 10 x 4,5, Nitsch e il Teatro al opera unica, courtesy Dionisio Gavagnin e l’artista Museo AMO, Raffaella Formenti | Note in DO lenti in Piazza dei Signori, e la rassegna di videoarte “Così fan tutte, ovvero la scuola degli amanti,” a cura di Giulia Casalini, presso la Promoteca della Biblioteca Civica, ed una mostra/omaggio per il quarant’anni della rivista Segno, che racconta attraverso testimonianze scritte, foto d’epoca, ed alcuni dei tanti piccoli, preziosi lavori donati dagli artisti in “segno” di stima e di affetto., la sua avventura nel mondo dell’Arte Contemporanea. Un fiore all’occhiello di ArtVerona, giunto alla terza edizione, è “Artes”, un progetto sviluppato dal direttore artistico della Fiera Andrea Bruciati da un’idea di Lorenza Boisi che ha indagato, nelle ultime due edizioni, la pittura ed il disegno su carta. Si tratta di un focus sulla fotografia, in cui le opere di 12 Maestri quali Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vanessa Beecroft, Nan Goldin, Luigi Ghirri, Duane Michals, Davide Mosconi, Luigi Ontani, Adrian Paci, Wolfgang Tillmans, Massimo Vitali, Michele Zaza dialogano con quelle di 50 giovani artisti, che saranno al centro di una grande installazione corale, dal titolo Xmq of pit, ready for the mosh!, curata da Valentina Lacinio. Il titolo Xmq of pit, ready for the mosh! è metafora di una dichiarazione precisa: la necessità urgente di travalicare la pellicola le relazioni con i collezionisti. Questa è anche la dimostrazione di come le collaborazioni che attiviamo non siano estemporanee, bensì proseguano nel tempo e si rafforzino. - In fiera accanto alle gallerie ci sono gli spazi indipendenti, realtà impegnate in percorsi autonomi di ricerca e sperimentazione in ambito contemporaneo che vengono ospitate gratuitamente per offrire loro visibilità e studiarne le progettualità. Quali sono i fermenti di questi spazi no profit in Italia? - ArtVerona è stata pioniera rispetto a questo tipo di progettualità: molti altri enti hanno confermato, poi, quanto questo indirizzo possa essere foriero di prospettive. Il format i7, curato da Cristiano Seganfreddo, rappresenta uno spazio di pensiero congeniale e complementare all’attività della fiera: lo si potrebbe definire un “polmone” caratterizzato da una forte libertà espressiva. Quest’anno le realtà ospitate sono invitate ad interrogarsi sul tema della sharing economy/sharing art, in linea con la rivoluzione sociale ed economica degli ultimi anni che si muove sotto il segno della connessione comunicativa e della condivisione. - Accreditata tra le principali manifestazioni del settore, ArtVerona vede tra i suoi obiettivi soprattutto la promozione del sistema dell’arte e della cultura contemporanea. Una declinazione concreta di questa virtuosa polarità è rappresentata in primis dal Piano Acquisizioni che dallo scorso anno prevede, oltre al Fondo Acquisizioni Domus di 100.000 euro, un Fondo Acquisizioni Privato, scelta che vi rende unici su tutto il territorio nazionale. Com’è nato e cosa prevede? - Il Fondo Acquisizioni Privato nasce dalla collaborazione con un collezionista di Verona quale Giorgio Fasol, figura estrema14 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

fotografica nella sua forma tradizionale. La fotografia, così come le altre arti, si trova in una fase di continua ibridazione, e i suoi rappresentanti vengono qui invitati a incontrarsi e scontrarsi nella danza del “mosh”, fino a fondersi violentemente. In questo termine, mutuato dal linguaggio della scena hardcore, è riassunto ciò che avverrà in mostra. Anche il termine “pit” è desunto dal mondo della musica e sta ad indicare lo spazio rettangolare nel quale si “affossa” il pubblico davanti ai concerti, pronto a scatenarsi. Con questa edizione la fiera rafforza il dialogo tra moderno e contemporaneo intrapreso fin dal suo esordio. Sono 120 le gallerie che scelgono ArtVerona per consolidare e tessere nuove relazioni con collezionisti, critici, giornalisti, curatori e direttori di musei, questi ultimi protagonisti del fortunato format “Level 0.” Accanto alla “Sezione Moderna e Contemporanea” e alla “Raw Zone”, area che ospita 12 progetti monografici, nasce “Tangram,”, una sezione dalla natura dialettica che prevede un dialogo condiviso tra le realtà coinvolte, un’opportunità pensata per supportare la crescita delle giovani gallerie di ricerca, in cui la fiera si fa interlocutrice attiva. 16 sono gli spazi indipendenti, selezionati da Cristiano Seganfreddo e ospitati in fiera, che si interrogano sul tema della condivisione (sharing economy/sharing art) e 18 le riviste di settore che rappresentano il mondo dell’editoria specializzata, con un allestimento rinnovato a cura dell’azienda Moroso, da anni a fianco di ArtVerona. La partecipazione di Catterina Seia, (vicepresidente della Fondazione Fitzcarraldo,) e Mauro De Iorio, collezionista, (nel Comitato di Indirizzo di ArtVerona,) accanto alle presenze di Giorgio Fasol, Michele Furlanetto, Salvatore Mirabile, Patrizia Moroso e Cristiano Seganfreddo confermano il percorso di crescita della manifestazione che trova nel rapporto tra arte e impresa uno dei suoi tratti più specifici, con nuovi format quali Open Source e Alchimie Culturali. n Giacinto Cerone, Vendemmia, 1999, legno, cm 203,5x20x23, Courtesy Gasparelli Arte Contemporanea ImperfettoLAB, Fano Longiano. Rodolfo Aricò, Dissonanza 54A, 1973, acrilico su tela, cm 188 x 520 x 6, Courtesy Galleria Michela Cattai

Raffaella Formenti, Note in DO lenti, dimensione ambiente, materiali pubblicitari e da imballaggio.

mente importante e pioniere per il supporto verso i giovani, che vede nella manifestazione un volano per la sviluppo dell’arte contemporanea sul territorio. Il Fondo nasce grazie alla sua lungimiranza e alla collaborazione con altri colleghi e prevede l’acquisto di opere che vanno in comodato d’uso nei musei che già collaborano con ArtVerona attraverso format come Level 0. Le opere che sono state selezionate lo scorso anno andranno così in comodato d’uso al Museo Villa Croce di Genova, quelle che verranno scelte durante la prossima edizione 2016 andranno al MAGA di Gallarate. - I Collateral di ArtVerona sono inseriti all’interno di un’ampia cornice che crea una coerenza progettuale. Nel 2015 la figura di riferimento è stata quella di Emilio Salgari; quest’anno è Wolfgang Amadeus Mozart. Quali aspetti della poetica del genio del classicismo musicale ritrovano delle connessioni con i linguaggi dell’arte contemporanea? - Sentivo la sua sensibilità particolarmente vicina ad un’epoca di crisi come la nostra e inoltre Mozart ha avuto contatti continuativi e concreti dal punto di vista biografico con la città di Verona. La coincidenza è stata così un pretesto per osservare come l’immaginario mozartiano oggi sia estremamente attuale: nei Collateral si evidenzia come Mozart viva in una società dai profondi cambiamenti, in uno stato di messa in discussione, finanche tragico, come testimoniano le sue ultime opere. È proprio in questa dislocazione e sfasatura che abbiamo riscontrato dei legami cogenti con la cultura occidentale contemporanea: nel fallimento della raison voltairiana messa definitivamente in scacco dalle inquiete insoddisfazioni di Lessing e dello Sturm und Drang. n


>news istituzioni e gallerie<

Il Flauto Magico 16 COLLEZIONISTI PER UN’ISTITUZIONE

O

maggio di ArtVerona al Museo di Castelvecchio e alle sue preziose Collezioni da parte di 16 tra i più rappresentativi collezionisti italiani: Valentino Barbierato (Padova), Gianmarino Battistella (Monteforte D’Alpone, VR), Diego Bergamaschi (Bergamo), Giuseppe Casarotto (Bergamo), Antonio Coppola (Vicenza), Roberto Cortellazzo (Treviso), Giancarlo Danieli (Vicenza), Mauro De Iorio (Trento), Giorgio Fasol (Verona), Michele Furlanetto (Treviso), Dionisio Gavagnin (Roncade, TV), Marco Ghigi (Bologna), Stefano Isoli (Legnago, VR), Lorenzo Lomonaco (Verona), Giovanni Milesi (Bergamo), Vincenzo Penta (Milano). Guidati da Andrea Bruciati, in collaborazione con Ketty Bertolaso, Margherita Bolla, Alba Di Lieto, (dal 14 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017) entreranno con altrettante opere selezionate dalle loro Raccolte in rispettoso dialogo con gli spazi e i percorsi espositivi museali, i seguenti artisti: Gianni Caravaggio, Loris Cecchini, Tony Cragg, Nathalie Djurberg, Marlene Dumas, Jimmie Durham, Hans-Peter Feldmann, Giorgio Griffa, Hannah James, Oliver Laric, Elad Lassry, Fausto Melotti, Vik Muniz, Pietro Roccasalva, Arcangelo Sassolino, Xavier Veilhan. Con questa iniziativa, ArtVerona prosegue nella propria vocazione di luogo di accertamento e analisi dei fatti dell’arte. Il progetto espositivo pensato per il Museo di Castelvecchio pone Il flauto magico mozartiano come sorgente per una ricca storia di percezioni e vissuti, resi poi artisticamente concreti nei diversi media delle opere in mostra. “Attraverso le opere di 16 collezionisti – spiega Andrea Bruciati - si illustra la distopia culturale, la mutazione fluida della sensibilità, l’arguzia intellettuale, la messa in discussione di ciò che è consolidato, l’ironia, la dissoluzione dell’ideologia dell’arte e insieme il rigore, la serietà nel puro intrattenimento, nel migliore spirito del Maestro. Il flauto magico è uno sguardo sull’attualità internazionale, fino alle più recenti esperienze, mai intesa come celebrazione o entusiasmo acritico, ma dispiegamento dei modi in trasformazione della pratica artistica da ieri all’estrema attualità. Dunque, un progetto espositivo inteso come momento selettivo di riflessione complessa sui nuovi scenari visivi, in cui la contaminazione tra gusto mondano e tensione intellettuale è un dato cogente di elaborazione artistica e non una condizione consolidata”. GALLERIE PARTECIPANTI 10 A.M. Art, Milano | A01 Art Gallery, Napoli | Aarte29 Contemporary, CasertaMilano-Praga | Abc Arte, Genova | Add-Art Addiction Art, Spoleto | Aica-Andrea Ingenito Contemporary Art, Milano-Napoli | Antigallery, Mestre | Antonella Cattani Contemporary Art, Bolzano | Areab, Milano | Arena Studio D’arte, Verona | Artea Gallery, Milano | Artericambi, Verona | Artesanterasmo, Milano | Artesilva, Seregno | Galleria Enrico Astuni, Bologna | Galleria Alessandro Bagnai, Foiano Della Chiana | Galleria Bianconi, Milano | Galleria Blu, Milano | Boccanera, Trento | Galleria Giovanni Bonelli, Milano-Canneto Sull’oglio-Pietrasanta | Bonioni Arte, Reggio Emilia | Boxart Galleria D’arte, Verona | Ca’ Di Fra’ Archivio Associazione Milano, Milano | Maurizio Caldirola Arte Contemporanea, Monza | Camera 16 Contemporary Art, Milano | C+N Canepaneri, Genova-Milano | Cardelli E Fontana Arte Contemporanea, Sarzana | Galleria Michela Cattai, Milano | Galleria Centro Steccata, Parma | Galleria D’arte Conquantasei, Bologna | Claudio Poleschi Arte Contemporanea, San Marino | Galleria Clivio, Parma-Milano | Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano | Colophonarte, Belluno | Colossi Arte Contemporanea, Brescia | Conceptual Galleria D’arte, Bergamo | Lara & Rino Costa Arte Contemporanea, Valenza | Crag, Torino | Crearte Studio, Oderzo | De Primi Fine Art, Lugano | Paolo Maria Deanesi Gallery, Trento | Dellupi Arte, Milano | Dep Art Arte Moderna & Contemporanea, Milano | E3 Arte Contemporanea, Brescia | Ehs Gallery, Milano | Eidos Immagini Contemporanee, Asti | Galleria Ferrari, Treviglio | Ferrarin Arte, Legnago | Galleria Forni, Bologna | Frittelli Arte Contemporanea, Firenze | Gagliardi E Domke, Torino | Gasparelli Arte Contemporanea – Imperfettolab, FanoLongiano | Gallleriapiu’, Bologna | Giovanni Altamura Arte Moderna E Contemporanea, Roma | Galleria Giraldi, Livorno | Guidi&Schoen Arte Contemporanea, Genova | Galleria Il Ponte, Firenze | Isolo 17 Gallery, Verona | Kanalidarte, Brescia | Labs Gallery, Bologna | L’ariete Artecontemporanea, Bologna | Lattuada Studio, Milano | Galleria D’arte L’incontro, Chiari | Luca Tommasi, Milano | Maab Gallery. Michael Biasi, MilanoPadova | Galleria Malinpensa, Torino | Galleria Marcolini, Forlì | Marignana Arte, Venezia | Galleria Massimodeluca, Venezia | Mazzoleni Galleria D’arte, Torino-Londra | Melzi Fine Art, Milano | Menhir Arte Contemporanea, La Spezia-Milano | Metronom, Modena | Galleria Michela Rizzo, Venezia | Mlb Maria Livia Brunelli Gallery, Ferrara | Mlz Art Dep, Trieste | Morotti Arte Contemporanea, Daverio | Galleria D’arte Niccoli, Parma | Officine Dell’immagine, Milano | Officine Saffi, Milano | Galleria Open Art, Prato | Osart Gallery, Milano | Passaggi Arte Contemporanea, Pisa | Nicola Pedana Arte Contemporanea, Caserta | Alberto Peola Arte Contemporanea, Torino | Galleria Giuseppe Pero, Milano | Poggiali E Forconi, Firenze | Poleschi Arte, Lucca-Milano | Poliart Contemporary, Milano-Rovereto | Primo Marella Gallery, Milano | ProgettoarteElm, Milano | Prometeogallery By Ida Pisani, Milano | Proposte D’arte, Legnano | Punto Sull’arte, Varese | Studio D’arte Raffaelli, Trento | Rigo Gallery, Verona | Galleria Rossmut, Roma | Santo Ficara Arte Moderna E Contemporanea, Firenze | Galleria Spazia, Bologna | Spazio Nuovo, Roma | Spirale Milano – Polimnia, Milano-Forte Dei Marmi | Galleria Tonelli, Milano | Tornabuoni Arte, Firenze-Milano-Forte Dei Marmi-ParigiLondra-Crans Montana | Nicola Turco Arte Contemporanea, Parma | Valmore Studio D’arte, Vicenza | Vv8 Arte Contemporanea, Reggio Emilia | Jerome Zodo Gallery, MilanoLondra Sezione Raw Zone A+B Contemporary Art, Brescia | Amt Project, Bratislava–Milano | Analix Forever - Art Contemporain, Ginevra | Annarumma Gallery, Napoli | Arrivada, Milano | Artra Gallery, Milano Galleria Collicaligreggi, Catania | Furini Contemporary, Arezzo | Placentia Arte, Piacenza Traffic Gallery, Bergamo | Villa Contemporanea, Monza | Z2o Sara Zanin Gallery, Roma Sezione Tangram Galleria Collicaligreggi, Catania | Doppelgaenger, Bari | Galleria Fuoricampo, Siena Rizzutogallery, Palermo Spazi Indipendenti Aspra.Mente, Venezia | Atipografia, Arzignano | Atrii, Milano | Caffe’ Internazionale, Palermo Collezionebongianiartmuseum.It, Salerno | Fondazione Rivoli2, Milano | Kanichenhaus, Torino Localedue, Bologna | Micro Crédit Artistique, Moena | Museo D’inverno, Siena | Myhomegallery, Verona | Radio Papesse, Firenze | Sharing Hdemy, Roma | The Blank Contemporary Art, Bergamo Z.N.S. Project, Palagiano | Zoe Impresa Sociale, Lodi

BOLOGNA

Alfonso Frasnedi

Alla Galleria Spazia va di scena la mostra Top of the Pop, dove Frasnedi, ispirato dai temi della cultura di massa, del consumismo, dalla comunicazione, dalla pubblicità, mostra un gruppo consistente di lavori, selezionato e presentato per far conoscere un aspetto inedito della sua ricerca.

Alfonso Frasnedi, La Caduta, 1966, olio su tela, cm.130x180, courtesy Galleria Spazia, Bologna

FERRARA

Sacchetti / Zarattini

La GalleriaFabulaFineArt inaugura la sua prima stagione espositiva con la mostra Slalom: Luca Sacchetti – Luca Zarattini. Due artisti, due personalità a confronto e in dialogo. Uno Slalom fra pittura e scultura, fra tradizione e innovazione. Entrambi gli artisti propongono ricerche che non intendono la pittura e la scultura in modo esclusivo, ma al contrario tendono a mischiare le tecniche fra loro, spesso innestandole ad altre, muovendosi con disinvoltura fra originali installazioni e sconfinamenti nel design.

Luca Zarattini, Interno-7, 2015 tecnica mista su tavola, cm.186x280 courtesy GalleriaFabulaFineArt, Ferrara

LATINA

Antonio Cervasio

Al Roomberg Project Space il video Lavagna n.0. Poche linee a tracciare i contorni di un lampadario. Dall’immagine in movimento all’oggetto concreto e le 19 lavagne, 7 grandi e 12 piccole, di Antonio Cervasio in esposizione, diventano dei giochi di scrittura visiva, tratti essenziali vergati col gesso sulla superficie d’ardesia.

MILANO

Angelo Filomeno

La Galleria Giovanni Bonelli presenta le opere della più recente produzione di Angelo Filomeno. Lavori di grande formato che rimandano a soggetti allegorici e dai colori cangianti e iridescenti su seta. Il ricamo è il fil rouge sotteso alla sua poetica, i cui soggetti, comunemente percepiti come antiestetici, quali: teschi, scheletri, scarafaggi e insetti di vario genere, metafore di solitudini e superstizioni, diventano nelle sue mani simboli di una nuova bellezza. Angelo Filomeno, Amulet, Black and White, 2012, ricamo e cristalli su seta applicata su lino, dittico, cm.102,2x75,6, courtesy Galleria Bonelli, Milano

SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 15


viaCaravaggio125 GIARDINO D’ARTE CONTEMPORANEA 23 ottobre 2016  Pescara

Bluserena SpA - info@bluserena.it - bluserena.it


>news istituzioni e gallerie< MILANO

Turi Simeti

Dep Art inaugura la nuova sede con la mostra intitolata Opere Bianche di Turi Simeti. L’esposizione, curata da Federico Sardella, si configura come un omaggio ad uno degli artisti più rilevanti del panorama artistico non solo italiano, attivo da oltre 50 anni e contraddistintosi per la capacità di intraprendere una ricerca originale e coerente che vede la forma e l’equilibrio al centro della sua ricerca.

Alberto Di Fabio

Aura è il titolo della mostra a cura di Stefano Castelli che accompagna la personale di Di Fabio alla Galleria Luca Tommasi. Tipico del suo linguaggio è il dialogo serrato tra macro e microcosmi, dove la proliferazione di forme che caratterizzano le sue tele e che fa riferimento al mondo della fisica e dell’uomo, mette costantemente in relazione lo spazio cosmico a quello dello spirito.

Francesco De Prezzo

La Loom Gallery presenta Null Paintings, di Francesco De Prezzo. Nei suoi dipinti, oggetti semplici e colori neutri, l’artista tende a sottrarre la realtà, cercando al contempo equilibrio formale. Rinunciando al colore, sentito come elemento di disturbo, focalizza l’attenzione sulla forma, sulla sua struttura e la sua essenza, sulle relazioni tra elementi diversi.

Alex Katz

Alla Galleria Monica De Cardenas, con Small paintings and drawings, Alex Katz mostra piccoli dipinti, chiamati oil sketches o studi preparatori, e disegni. Diversamente dai quadri su tela, questi oli su tavola sono dipinti direttamente davanti alla modella o al paesaggio, spesso “en plein air”.

Jannis Kounellis e il teatro

Il video della performance teatrale, tenutasi il 28 dicembre 2015, al Piccolo Teatro d’Europa di Milano, Die Hamletmaschine by Heiner Müller, a cura di Annamaria Maggi e Alexandra Papadopulos, è presentato ora dalla Galleria Fumagalli accompagnato dalla riproposizione di parte dell’installazione ideata da Jannis Kounellis per quello spazio. Il progetto in questione realizzato da Kounellis e il regista Terzopoulos, si compone di una installazione (scena e platea) e di una performance tratta dal Die Hamletmaschine (La macchina di Amleto) scritto nel 1977 da Heiner Müller. Kounellis ha pensato a un Amleto “con la schiena rivolta verso le rovine dell’Europa” per una installazione allo stesso tempo personale e sociale, contro la corruzione e il potere. Per quest’inedita performance Terzopoulos ha scelto alcuni brani di Die Hamletmaschine che prendono forma attraverso la voce femminile dell’attrice Sofia Hill, la musica elettronica live di Panagiotis Velianitis e la voce maschile elaborata dal regista.

in veste di grafico e redattore. A seguire, la mostra di Giulio Turcato con due cicli di opere: i Tranquillanti, del 1961, e le Superfici lunari, realizzate nel 1964 e esposte due anni dopo alla Biennale di Venezia.

Matthias Bitzer

“Immacolata Cloud” è il titolo della personale di Matthias Bitzer da Francesca Minini. L’artista concepisce le proprie opere nello stesso modo in cui si costruisce il linguaggio: dipinti, disegni, collages e sculture parlano con la propria grammatica e il proprio lessico. La contemporanea presenza di elementi figurativi e composizioni geometriche astratte, forme assimilabili a passi di danza, linee dure e movimenti fluidi, producono un’atmosfera sensuale che porta a un ricco immaginario di ricordi e riferimenti al passato.

NAPOLI

Marisa Albanese

Allo Studio Trisorio Le storie del vento. Una mostra di Marisa Albanese composta da una installazione che nasce da una riflessione intima su un tema che da decenni occupa le nostre cronache, ossia la condizione dei migranti, considerati sempre stranieri, oltre un confine netto o talvolta invisibile.

Colori d’Africa

Gli uffici dei Private Banker della sede Fideuram ospitano una mostra, organizzata e curata da Franco Riccardo, con sei artisti di cinque paesi dell’Africa subsahariana, George Lilanga (Tanzania), Esther Mahlangu (Sudafrica), Efiambelo (Madacascar), Eloi Lokussou (Benin), Weya (Zimbabwe), Margaret Majo (Zimbabwe). “Il pensiero Africano – ha scritto, tra l’altro, nella presentazione, Simo na Zamparelli - non è mai stato egocentrico, si è sempre mosso dal senso dell’altro che sia natura, che sia un simile o uno straniero, un pensiero che non è riuscito ad Occidentalizzarsi del tutto.”.

Ester Mahlangu, 2001, acrilico su tela, cm.198X489, courtesy l’artista Andrea Barzini, Silvio Pasquarelli, Busto Fondazione Plart, 2016

Mussio / Turcato

La Galleria Milano propone l’opera di uno dei principali esponenti dell’arte verbovisuale. Oltre all’attività artistica, Magdalo Mussio ha operato anche nel campo del teatro, del cinema e in collaborazioni editoriali

PALIANO (FR)

INSIEME

A cura di Zerynthia e del Comune di Paliano, viene proposto dal 15 ottobre, un innovativo progetto di formazione, denominato INSIEME “Percorsi di ricerca tra arte e territorio”, che coinvolge le Accademie di Belle Arti de L’Aquila, Frosinone, Roma e Urbino per lo sviluppo di una iniziativa connessa con l’area urbana del Comune. I docenti delle Accademie hanno selezionato un gruppo di studenti, ospitati dal Comune di Paliano per una residenza di tre giorni, per materializzare i lavori site specific.. Con la presentazione del progetto INSIEME, avviene anche l’incontro DAC (Denominazione Artistica Condivisa) dal titolo: “L’arte contemporanea per la valorizzazione del territorio”, (che viene trasmesso su RAM LIVE). La manifestazione si avvale anche della esposizione delle opere realizzate e allestite in una mostra diffusa nel centro storico di Paliano, con la presentazione dell’opera sonora di Vettor Pisani (proveniente dall’Archivio di RAM radioartemobile) nei locali del Carcere di massima sicurezza.

REGGIO EMILIA

Geometria figurativa

La mostra, organizzata da Bob Nickas per la Collezione Maramotti, include le opere di 9 artisti (Sadie Benning, Alex Brown, Mamie Holst, Chip Hughes, Xylor Jane, Robert Janitz, Ulrike Müller, Nicolas Roggy, Richard Tinkler) rappresentativi dell’arte astratta o comunque dediti ad astrarre la rappresentazione. Con quest’ultima affermazione s’intende l’intrecciarsi di geometria e figurazione: le forme sfumano, la geometria si piega su se stessa, emergono pattern, mentre la figurazione fa riferimento a corpi nello spazio, corpi che si protendono per poi recedere, così come ai numeri e al loro registro temporale.

RIVARA (TO)

Equinozio d’Autunno

Il design dello stupore

Jannis Kounellis e il teatro, Die Hamletmaschine by Heiner Müller, 2015, courtesy Fumagalli, Milano

ai personaggi, è presente in mostra una santa, La Beata che allude all’Estasi della beata Ludovica Albertoni del Bernini, l’unico oggetto che non fa parte del ciclo di busti. Si tratta di una “Beata trasfigurata, nel coloratissimo mare di plastiche della nostra infanzia, priva di pregiudizi e beatamente ignara di ogni arcigna nozione ecologica: tra i regalini dei detersivi americani e degli ovetti piemontesi, gli omini, i guerrieri, i robot, le forchette, i brandelli dei palloncini, i tappi e i coperchi, i biberon i ciucci, un’ondata tsunamica e oramai introvabile di barocco neomoderno da consegnare anche questa a un passato dietro l’angolo”.

Alla Fondazione Plart, protagonisti della mostra sono le opere di Andrea Barzini e Silvio Pasquarelli, a cura di Cecilia Cecchini. In esposizione sei grandi busti posati, come le statue classiche marmoree, su bianchi piedistalli, raffiguranti enigmatici personaggi, realizzati assemblando piccoli oggetti di plastica appartenenti alla categoria dell’usa e getta. Barzini, regista, e Pasquarelli, architetto, grazie ad una ironica quanto rigorosa operazione a cavallo tra ready made e object trouvé usano flaconi, stoviglie, tappi, soldatini a formare queste originali sculture. Oltre alla componente ludica del ready made, i sei busti vogliono anche indurre ad una riflessione critica sulla società contemporanea e i suoi voraci consumi. Oltre

Il Castello di Rivara - Museo d’Arte Contemporanea, diretto da Franz Paludetto, propone una esposizione che è nel suo complesso un insieme di diverse collettive e personali. Fra queste, l’opera di Aron Demetz negli spazi delle Scuderie del castello, Sacha Turchi nelle sale della Villa Neobarocca, ma anche lavori di: Sveva Angeletti, Leonardo Aquilino, Aldo Spoldi, Ermelinda Caterina, Saverio Totaro, Guido Airoldi, Maurizio Taioli. Una cinquantina di pezzi, costituiscono, invece, la collettiva Asýndeton con lavori realizzati dagli artisti: Ak2deru, Alessio Ancillai, Paolo Assenza, Orazio Battaglia, Fabrizio Cicero e Luca Grechi. Ma non solo italiani ma anche stranieri, fra cui spiccano i nomi di: Elzevir, Ahmad Nejad. Aron Demezt, Equinozio d’Autunno 2016 Castello di Rivara - Museo d’Arte Contemporanea

SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 17



>news istituzioni e gallerie< ROMA

ca”, impulsiva, istantanea. In mostra una sorta di diario, dove ogni scatto intimo è condiviso pubblicamente su Instagram.

Antonio Aportone

Al Museo delle Mura, rassegna espositiva dedicata all’artista Antonio Aportone con opere che seguono un percorso di successivi richiami e rimandi, in sintonia con lo spazio monumentale ed espositivo. La tematica sottesa a tutte le opere è “l’estensione spaziale delle materie”, una ricerca legata a riflessioni afferenti alla Fisica teorica, alla riflessione sullo Statuto del fare artistico in relazione alle possibili visioni antropiche e ad un eventuale interpretazione cosmica. La mostra a cura di Paolo Balmas è aperta fino al 20 novembre.

Maya Zack

La galleria di Marie-Laure Fleisch presenta counterlight, solo-show di Maya Zack con il suo ultimo video che conclude la trilogia iniziata con Madre Economy (2007) e poi in Bianco e Nero Rule (2011), accompagnato da una serie di disegni e collage. Il video di Counterlight, che è anche il titolo della mostra, si concentra sulla figura del poeta Paul Celan, quale testimonianza unica della sofferenza e orrore che ha vissuto con l’olocausto.

Oliver Ressler

La Fondazione Pastificio Cerere e The Gallery Apart, con il supporto del Forum Austriaco di Cultura a Roma, presentano: Transnational Capitalism Examined, due personali dell’artista austriaco, a cura di Mike Watson. La prima sottotitolata Dancing on Systemically Important Graves, riunisce opere video degli ultimi 13 anni della produzione di Ressler, che dimostrano l’approccio artistico dell’autore al genere del documentario. La seconda, Border as Method analizza il volto visibile del capitalismo globale, rappresentato dalle rivolte sociali, dal collasso economico, dalle migrazioni non documentate e dall’ingresso in Europa di rifugiati provenienti da zone di guerra.

Arcangelo Sassolino

e oggetti frantumati, incerti e transitori, carichi di nostalgia, rimandano alla fragilità delle ideologie e della prosperità mondana. Segue la personale di José Antonio Suárez Londoño. Il progetto offre una visione antologica a tutto tondo del lavoro dell’artista colombiano composto da disegni, quaderni, incisioni. Arcangelo Sassolino, con Canto V, è protagonista della terza esposizione. Un artista da sempre interessato ai limiti della forma, della materia e del movimento e che per questa occasione torna ad esplorare, alcuni particolari materiali. Infine, Sislej Xhafa con Fireworks in my Closet, propone nuove opere pensate in relazione agli spazi del piano inferiore dell’ex cinema teatro: la platea, il palcoscenico, la balconata, il giardino. Opere molto diverse tra loro, che con ironia e leggerezza, affrontano i temi della migrazione, dell’identità, dell’emarginazione, della violenza nella politica e nella società mettendo in discussione la complessità, l’unità e la diversità della nostra società moderna. Tutte le mostre sono visitabili fino al 15 gennaio 2017.

La scuola di Piazza del Popolo

La Galleria In Arco rende omaggio a tre artisti protagonisti della Pop Art Italiana: Franco Angeli, Tano Festa e Mario Schifano. Curata da Graziano Menolascina, l’esposizione propone una selezione di opere rappresentative, quale espressione di un decennio storico per certi versi considerato oggi “mitico”, segnato dalla “dolce vita”, dal boom economico e da una teoria e una pratica destinate ad esercitare una duratura influenza sul presente dell’arte.

TORRE PELLICE (TO)

Robin Rhode

Da Tucci Russo, Studio di Arte Contemporanea viene proposta dal 9 ottobre una personale di Robin Rhode, aperta fino al 26 febbraio 2017.

TORINO

Filippo Di Sambuy

La Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle Arti, ospita AlleRetour, da Stupinigi alla Pinacoteca Albertina 2001/2016, personale di Filippo Di Sambuy a cura di Francesco Poli. “Andata e Ritorno” (AlleRetour) indica il cammino artistico di Filippo di Sambuy, dalla sua ultima personale Stupor Mundi - L’Origine a Palermo, svoltasi la scorsa estate, fino ad Annunzio, mostra del 2001 alla Palazzina di Caccia di Stupinigi. Quindici anni di progetti artistici, parte di un itinerario personale e autonomo.

Robin Rhode da Tucci Russo, Torre Pellice (Torino) Laurina Paperina, Doomsday, Studio d’Arte Raffaelli, 2016

Demetz/Grassino/Lucà

Mary Cinque, L’Illusione di Dedalo, 2016

Mary Cinque

L’Illusione di Dedalo è la personale di Mary Cinque, a cura di Massimo Bignardi, che espone al Centro Luigi Di Sarro. “Non si può - scriveva Merleau-Ponty - fare un inventario limitativo del visibile” ed è questo l’assunto che spinge la pittura, sia essa figurativa o astratta, a celebrare l’enigma della «visibilità». Per Mary Cinque, la pittura trova nella città un ideale complice al suo destino di celebrare l’enigma della visibilità.

SAN GIMIGNANO (SI)

Kadyrova / Suárez Londoño Sassolino / Xhafa

Galleria Continua propone 4 mostre. La prima, Mia casa, mia fortezza, tratta l’opera di Zhanna Kadyrova, un progetto composto di una serie di opere inedite e concepite per questa esposizione che ruotano intorno al tema dell’abitazione e il cui titolo è la traduzione letterale di un proverbio russo nel quale emerge il concetto di casa come luogo protetto e come proprietà. Sculture

Apre la nuova sede della galleria Davide Paludetto con una mostra che intreccia un dialogo generazionale sul tema della vita, con opere di Aron Demetz, Paolo Grassino e Nicus Lucà. È un raffinato quanto spietato esercizio di contemporaneità con esiti in asse perfetto tra tormento ed estasi, natura e artificio, precarietà e cocente immanenza. Nelle installazioni dei tre artisti, i processi fisici combustione, convulsione, accumulo, penetrazione - non sono segno di un gioco di stile sulla materia, ma rappresentano una scelta estetica, linguistica, simbolica e semantica quanto mai consapevole e profonda.

Simone Mussat Sartor

La galleria Alberto Peola presenta la personale di Simone Mussat Sartor intitolata Non ora, non qui. L’artista fotografa la bellezza, principalmente o esclusivamente femminile, scrivendo un’autobiografia per immagini realizzate secondo una pratica “automatiSimone Mussat Sartor, Gambe, 2011-2016, cm.25x25, fotografia

TRENTO

Laurina Paperina

Allo Studio d’Arte Raffaelli si rincorrono curiosi personaggi dei cartoon, del fumetto, dello starsystem del cinema e dell’arte, del videogioco e delle serie TV, tipi e soggetti dell’inconfondibile creatività di Laurina Paperina. Come sempre irriverente e con quella sua originale impronta, l’artista icona del PoPismo contemporaneo, dichiara essere giunto il giorno del Giudizio universale. Doomsday, titolo di questa sua nuova personale, sovverte tutte le “regole” dettate fino ad ora da lei stessa, ispirandosi alle opere di chi, prima di lei, si è cimentato nella rappresentazione del complesso sistema dell’Apocalisse.

BAGNOLO DI LONIGO (VI)

Carlo Ciussi

A Villa Pisani e a cura di Francesca Pola, è allestita la mostra di Carlo Ciussi con opere scelte per dialogare con questo capolavoro giovanile dell’architettura di Andrea Palladio. L’artista, considerato un poeta razionale e acuto delle emozioni, vengono proposte immagini d’intensa e vibrante essenzialità, che ci appaiono come espressioni di umanità “allo stato puro”. Alcune sue opere “abitano” per il tempo di questa mostra, e al contempo l’architettura palladiana in una sintonia che unisce precisione di definizione e profondità di emozione. SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 19


LUCA SACCHETTI LUCA ZARATTINI Slalom 30 settembre - 10 novembre 2016 FabulaFineArt Gallery • Via Del Podestà 11 • Ferrara 348 355 6821 • 347 692 9917 • www.fabulafineart.com


Manuela Bedeschi

CASALUCE

SETTEMBRE OTTOBRE 2016 Opening VenerdĂŹ 23 Settembre ore 18.30

Art Open Space

Galleria Lazisee Art Open Space Piazza Partenio 7 - 37017 Lazise (Verona) info@lazisee.com manuelabedeschi@alice.it


>news istituzioni e gallerie< FM Centro per l’Arte Contemporanea - 26 Ottobre – 23 Dicembre 2016

NON-ALIGNED MODERNITY Intervista al curatore Marco Scotini di Giulia Mengozzi

G. M.: Quello dell’Europa dell’Est è uno scenario che hai più volte indagato nel corso della tua attività di curatore. Penso in particolare alla recente mostra Il Piedistallo Vuoto (Museo Archeologico di Bologna, 2014) e alla recentissima ecologEAST (PAV Parco Arte Vivente, 2016). In che modo Non-Aligned Modernity si rapporta con queste due mostre? M.S.: Quello tra me e l’Est Europa è un rapporto a cui non potrei rinunciare. Lo definirei piuttosto un vincolo morale e sociale, una sorta di contrappunto necessario con cui da anni cerco di decostruire l’Occidente in cui sono cresciuto. Questo rapporto comincia nel 2001 con una mostra curata nella Repubblica Ceca per poi divenire una costante a cui non cesso di ritornare. Diciamo pure che in questa storia ci sono vari paragrafi, alcuni capitoli, tanti soggetti e molti segmenti diversi: teorici, vissuti, estetici, sociali. Da un’iniziale attenzione alla scena contemporanea questa relazione si è trasformata in una archeologia sempre più marcata nei confronti del passato, al tempo della Guerra Fredda. Ne sono emersi tanti esponenti di un’arte non-ufficiale e una molteplicità di storie che ci costringono ora a rileggere anche il nostro stesso passato. Una di queste storie è quella raccontata in Non-Aligned Modernity, in cui viene presentata in maniera ampia la scena artistica jugoslava a partire dalla rottura di Tito con l’Unione Sovietica e l’introduzione dell’astrazione, come una sorta di arte ufficiale che condurrà poi alla grande tendenza concettuale delle capitali Zagabria, Belgrado e Novi Sad degli anni ’70. Anche se la mostra, a conclusione del percorso, si aprirsi poi alle tendenze d’avanguardia dell’Europa Centrale, con realtà come quella Ungherese, quella Polacca e quella Cecoslovacca che, come sappiamo bene, sono state tutte recalcitranti nei confronti del dominio sovietico. Mi vengono in mente l’insurrezione ungherese del ’56, la Primavera di Praga e il Solidarność polacco. G.M.: C’è un passaggio, nel comunicato stampa, che trovo particolarmente significativo, ovvero quello in cui si dichiara di voler scalfire e decostruire “la canonizzazione storiografica proposta dalla modernità occidentale, nella sua pretesa di universalismo, neutralità e autonomia estetica.” La rilettura, il sovvertimento 22 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

OHO Group (Marko Poga Ynik), Rolling Stones Matchboxes, 1967 Marinko Sudac Collection Sándor Pinczehelyi, Sickle and Hammer, 1973 Silkscreen, paper, 863 x 611 mm, Marinko Sudac Collection


>news istituzioni e gallerie< delle codificazioni convenzionali della storia dell’arte, è un fil rouge di tante tue mostre. Mi piace pensare che si tratti di un gesto politico, è corretto? Operare delle modifiche, aprire nuove prospettive nel nostro modo di guardare al passato è uno strumento utile a decodificare l’attualità? M.S.: Non-Aligned Modernity è un capitolo importante nella riscoperta di una modernità locale. La Jugoslavia non era assimilabile integralmente né all’Est né all’Ovest e ha rappresentato il modello d’una avanguardia tanto socialista che artistica. Non si tratta dunque di leggere il fenomeno nei termini di una acquisizione delle tendenze artistiche dell’Ovest da parte dell’Est; ma di interrogarsi, se mai, su come il modernismo culturale abbia potuto denotare progetti politici opposti. Credo, come dici tu, che una costante delle mie mostre sia quella di riscrivere la storia dell’arte moderna a partire da una molteplicità geopolitica di storie eccentriche e complesse che non sono assimilabili al modello egemonico occidentale e neppure dipendenti da, o subordinate, a questo. Il compito principale delle nostre ricerche estetiche e sociali è allora quello di dare una storia ai senza-storie. Questa operazione, dall’indubbio carattere politico, non fa altro che rivelare la fragilità o la vulnerabilità del modello egemonico occidentale. Forse un giorno non sapremo neppure più esattamente cosa ha potuto essere questa scissione tra Est e Ovest. G.M.: La collezione di Marinko Sudac costituisce un patrimonio impressionante. Che differenza c’è tra la preparazione di una mostra come questa, realizzata fattualmente a partire da un’unica enorme raccolta ed una come L’Inarchiviabile, resa possibile invece grazie a più figure di questo tipo? In che modo lo stesso Sudac ha contribuito all’ideazione della mostra? M.S.: L’espressione “non-allineata” ci è sembrata calzante anche per indicare il tipo di collezione che presentiamo ad FM Centro per l’Arte Contemporanea in questa occasione. Di fatto l’enorme raccolta Marinko Sudac contiene al suo interno tanto opere d’arte che materiale archivistico, ed è una fonte indispensabile per poter

Gorgona Group, Gorgona is Looking at the Sky, 1961 Marinko Sudac Collection2 At the Moment Exhibition, Haustor, 1971 installation view with Giovanni Anselmo’s work, photo-documentation Marinko Sudac Collection

Sanja Ivekovic, Instructions, 1976, sound, bw film, 5 59 Marinko Sudac Collection

FM Centro per l’Arte Contemporanea. Milano

MODERNITÀ NON ALLINEATA Arte e Archivi dell’Est Europa dalla Collezione Marinko Sudac

A

pertura della stagione espositiva con tre nuove mostre e un ciclo di incontri rivolto ai collezionisti. A cura di Marco Scotini, in collaborazione con Andris Brinkmanis e Lorenzo Paini, la mostra “Modernità non allineata, prosegue l’indagine sulle molteplicità culturali della modernità, attraverso una rilevante collezione privata sull’arte dell’Europa centrale sotto il Socialismo. La collezione proposta è quella di Marinko Sudac, anomala e “non allineata” all’idea del collezionismo classico. Al suo interno questa collezione custodisce non solo opere d’arte, ma anche archivi e materiale documentale di straordinaria importanza storiografica. Una collezione che nel corso degli anni si è posta il compito di rintracciare tendenze artistiche radicali entro una coerente linea di avanguardia nelle aree dell’Europa Centrale-Est. Con l’intento di offrire un quadro abbastanza completo, la mostra presenta 100 artisti con oltre 400 opere attraverso una grande campionatura di materiali: opere pittoriche, scultoree, fotografie, vinili, film video, opere grafiche e artist’s books.

Gli artisti in mostra: Marina Abramovic, Milan Adamciak, Vojin Bakic, László Beke, Jerzy Beres, Slavko Bogdanovic, Bosch + Bosch Group, Eugen Brikcius, Boris Bucan, Dalibor Chatrny, Marijan Ciglic, Attila Csernik, Radomir Damnjanovic, Damnjan, Drago Dellabernardina, Boris Demur, Braco Dimitrijevic, Nusa and Sreco Dragan, Miklós Erdélyi, EXAT 51, Eugel Feller, Stano Filko, Attalai Gábor, Ivo Gattin, Tibor Gáyor, Iztok Geister, Tomislav Gotovac, Gorgona Group, Milan Grygar, Vladimir Gudac, Gulyas Gyula, Károly Halász, Matjaz Hanzek, Miljenko Horvat, Sanja Ivekovic, Zeljko Jerman, Marijan Jevsovar, László Kerekes, Miroslav Klivar, Julije Knifer, Milan Knízák, J.H. Kocman, Kod Group, Bela Kolárová, Július Koller, Vladimir Kopicl, Ivan Kozaric, Jarosław Kozowski, Nasko Kriznar, Andrzej Lachowicz, Katalin Ladik, László Lakner, Haris Laszlo, Natalia LL, Dimitrije Basicevic Mangelos, Vlado Martek, Slavko Matkovic, Dora Maurer, Karel Miler, Marijan Molnar, Antun Motika, Pécsi Muhely (Kismányoky Károly, Szijártó Kálmán), David Nez, Koloman

Novak, Ladislav Novák, OHO Group, Géza Perneczky, Vladimir Petek, Ivan Picelj, Sándor Pinczehelyi, Marko Pogacnik, Jan Pokorny, Bogdanka Poznanovic, Mirko Radojcic, Bozidar Rasica, Red Peristyle, Józef Robakowski, Euro Seder, Rudolf Sikora, Zdzisaw Sosnowski, Aleksandar Srnec, Tamás St.Auby, Jan Steklik, Petr Stembera, Mladen Stilinovic, Sven Stilinovic, László Szalma, Bálint Szombathy, Slobodan Tisma, Rasa Todosijevic, TOK Group, Endre Tót, Desider Tóth, Goran Trbuljak, Jirí Valoch, Josip Vanista, Verbumprogram, Peda Vranesevic, Zbigniew Warpechowski All’interno di FM Centro per l’Arte Contemporanea proposte altre due mostre: Laura Bulian Gallery presenta una personale di Ugo La Pietra con un focus sulle opere create dall’artista negli anni ’70, mentre la Galleria Giorgio Persano, invitata nel temporary space, presenta una importante mostra di Michele Zaza, a cura di Elena Re, con opere che partono dagli esordi negli anni ’70 fino a quelle più recenti ed attuali. n SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 23


>news istituzioni e gallerie< ricostruire tutti i passaggi e tutte le trame di una storia alternativa e altrettanto forte; rispetto a una storia dell’arte noi più familiare. Nel mettere in mostra la collezione abbiamo cercato di evidenziare tutta l’attenzione di Sudac verso aspetti ritenuti marginali o effimeri, e che solo ora possono trovare la loro consistenza e il loro giusto peso. Quando si giunge all’arte concettuale è davvero sorprendente il ritrovarsi di fronte una vera e propria impossibilità di discernere i documenti dai veri e propri lavori, e questo è un contributo che abbiamo accolto dallo stesso Sudac. Sono sicuro che la mostra sarà un’occasione unica per rivedere tanti lavori ritenuti effimeri, che sono stati invece accuratamente preservati e gelosamente conservati. G.M.: A dispetto dell’enorme numero di opere esposte, L’Inarchiviabile era una mostra dinamica, stimolante. Come ci si rapporta all’allestimento di una mostra come queste, che contano entrambe centinaia di pezzi, senza incappare nel rischio di livellare il percorso, museificarlo? M.S.: Il paragone con L’Inarchiviabile è calzante. Di fatto già in quella mostra si presentavano segmenti culturali differenti senza

Group of Six Authors, Exhibition-action on the Republic Square, Zagreb, 17-19. 7. 1978, 1978, bw photograph, 104 x 147 mm, Marinko Sudac Collection

Mladen Stilinovic (Group of Six Authors), Taken Out from the Crowd, 1976 bw photograph, pastel, paper, 486 x 350 mm, Marinko Sudac Collection

Stano Filko, Freedom, 1965 – 1968, paint, bw photograph, 129 x 180 mm Marinko Sudac Collection Gábor Attalai, Negative Star, 1970, bw photograph, 392 x 301 mm Marinko Sudac Collection

Michele ZAZA Opere/Works 1970–2016 a cura di Elena Re

Michele Zaza, Ritratto Magico, 2005. Courtesy Giorgio Persano, Torino

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M Centro per l’Arte Contemporanea ha invitato la Galleria Giorgio Persano, che presenta la mostra MICHELE ZAZA. Opere/Works 1970–2016 a cura di Elena Re. Questa importante esposizione attraversa i momenti salienti della ricerca espressiva di Zaza, a partire dagli esordi fino al più attuale contributo. L’idea curatoriale è quella di sottolineare la centralità dell’artista all’interno di un dibattito che si proietta nel tempo presente. La mostra si propone dunque come un viaggio nell’opera di Michele Zaza. A partire dai lavori fotografici storici, quelli degli anni ’70, dove la madre, il padre, il rapporto con la terra e con l’origine, il senso del tempo, sono al centro di un’introspezione vera, rivoluzionaria, come Mimesi (1975) o Neo terrestre (1979). Per proseguire con i lavori degli anni ’80, in cui la figura della moglie innesca una visione del femminile profondamente intensa sebbene eterea e sognante, come Cielo abitato (1985) – una sequenza fotografica ma anche un bellissimo video. Oppure i lavori degli anni ’90, come Forma sacra (1996) in cui il volto raggiunge l’astrazione. Per arrivare quindi agli anni 2000, alle opere più recenti, dove il rapporto con la figlia rilancia ed esalta la dimensione performativa e teatrale del lavoro di Zaza, come Ritratto magico (2005) o Paesaggio magico (2009). In queste opere spesso di grandi dimensioni la scena si anima di nuovi toni e nuove presenze, la composizione scandisce una lettura simbolica, i volti dipinti dichiarano il loro essere icone – figure che superano una precisa identità, per diventare espressione di un possibile universo. Come nel video Infinito segreto (2016), un lavoro che Zaza ha ultimato proprio per questa occasione e che completa il percorso della mostra. Come afferma la curatrice Elena Re: «Nel lavoro di Michele Zaza il corpo disegna oggi una nuova traiettoria e riscopre la possibilità delle sue infinite significazioni, elaborando un’idea di libertà nell’indissolubile legame tra arte e vita. Per questo i corpi e i volti si trasfigurano, diventano icone. Non più il padre, non più la famiglia, non più la pro-


>news istituzioni e gallerie< sovrapporre ad essi una vera e propria gerarchizzazione: documenti, opere d’arte, progetti espositivi, pubblicazioni, materiali con diverse destinazioni. Il fatto di lasciare aperto lo statuto delle cose esposte ne impedisce il livellamento e l’eventuale museificazione. Questi elementi eterogenei e sulfurei recalcitrano di fronte alle classificazioni ufficiali, alle catture dei saperi consolidati. G. M.: In ecologEAST si è visto come la questione ecologica, pur con decisive specificità nazionali, costituisse un trait d’union non solo tra diversi artisti est-europei, ma anche rispetto alle ricerche più acute rintracciabili nello scenario occidentale dello stesso periodo. Immagino che nell’enorme numero di opere in mostra in Non-Aligned Modernity si possano delineare alcuni filoni tematici: quali sono? Si possono in qualche modo relazionare con le ricerche coeve ricerche occidentali? M.S.: L’oggetto di ecologEast era quello di vedere la problematica ambientale e il consumo delle risorse naturali come un’anticipazione agli anni ’70 di alcune tematiche della globalizzazione contemporanea, e cioè vedere il problema ecologico nella sua capacità di superare i confini della Cortina di Ferro per estendersi a scala planetaria. In questo caso si ricorre all’Est per sbarazzarsi ancora una volta di quella classica dicotomia modernista; ma partendo da una differenza, da un caso culturale preciso, da una storia anomala e niente affatto marginale come quella Jugoslava. Una storia, cioè, non inquadrabile né nell’ideologia del Blocco Sovietico né in quella liberista delle democrazie occidentali. Per cui la mostra attuale cerca di tematizzare lo scontro tra arte e ideologia, tra modernismo e socialismo, ecc. Di fatto si tratta di riportare alla luce una realtà finora sommersa ma che si annuncia già come un contributo fondamentale alla storia artistica della seconda metà del Novecento. Ancora, di tutta questa storia il grande pubblico conosce poco più che Marina Abramovic. n Aleksandar Srnec, Cover Design for Svijet Fashion Magazine, No. 11, 1960 offset, paper, 340 x 240 mm, Marinko Sudac Collection Sven Stilinovic, Flag, 198485, mixed media, 350 x 470 mm Marinko Sudac Collection

Dimitrije Bašicevic Mangelos, Missing Genious m.8, 1971 – 1977 oil, plywood, 210 x 160 mm Marinko Sudac Collection

Michele Zaza, Mimesi, 1975. Courtesy Giorgio Persano, Torino

pria identità, ma un dialogo tra l’essere e il tempo, un’apertura percettiva verso un possibile universo. Nella visione cosmica di Michele Zaza c’è il paesaggio dell’uomo postmoderno, uno sguardo lirico e sospeso che non smette mai di interrogarsi». Oltre a un ampio numero di opere, la mostra propone anche

una ricca selezione di scritti, progetti e documenti provenienti dall’Archivio dell’artista. Tanto che questa personale di Michele Zaza è in sostanza un vero e proprio approfondimento – in linea con l’offerta culturale che la mostra L’Inarchiviabile/The Unarchivable ha messo in moto. n SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 25


>news istituzioni e gallerie<

La 21ª edizione del Festival Artecinema, a cura di Laura Trisorio, dal 5 al 9 ottobre 2016 al Teatro San Carlo di Napoli e al Teatro Augusteo, è stata ampliata per poter dare spazio a un maggior numero di film e approfondire nuovi temi suddivisi nelle sezioni Arte e Dintorni, Architettura, Fotografia. I filmati raccontano la storia degli artisti attraverso biografie, interviste, narrazioni montate con materiali d’archivio, permettendo agli spettatori di addentrarsi nel mondo dell’arte accompagnati direttamente dai protagonisti, di vedere gli artisti al lavoro nei propri atelier o dietro le quinte di importanti esposizioni internazionali. Il Festival Artecinema conferma anche quest’anno il suo impegno nel sociale organizzando proiezioni e incontri con i registi nelle scuole per studenti di tutte le fasce di età, per i detenuti nel carcere di Secondigliano e presso l’Istituto Penale minorile di Nisida, per l’Accademia di Belle Arti di Napoli, l’Istituto francese Grenoble e il Goethe Institut.

PROGRAMMA E SINOSSI DEI FILM AUDIOGHOST68

Giuseppe Lanno, Giancarlo Neri, Italia, 2015, 9’ Nel gennaio del 1968 Gibellina fu quasi completamente rasa al suolo da un violento terremoto. Alcuni anni dopo la città venne ricostruita a pochi chilometri di distanza e il sindaco, Ludovico Corrao, volle coinvolgere nella ricostruzione architetti, urbanisti e artisti di fama internazionale. Alberto Burri non volle intervenire nella “nuova” Gibellina ma propose una gigantesca opera che avrebbe completamente coperto le macerie: il Grande Cretto. L’opera fu realizzata tra il 1984 e il 1989 e ultimata nel 2015 in occasione del centenario della sua nascita. Audioghost68 è un evento per luci, suoni e mille attori, appositamente concepito per il Grande Cretto dal musicista Robert Del Naja e dall’artista Giancarlo Neri: mille lucciole bianche si muovono e danzano nella notte tra le “vene” del Cretto, mentre nell’aria si odono i suoni e le voci di quel 1968 che segnò la fine a Gibellina.

FRAME BY FRAME

Alexandria Bombach, Mo Scarpelli, Stati Uniti, 2015, 85’, inglese, afghano Durante il governo talebano scattare fotografie in Afghanistan era considerato un reato. Con la caduta del regime nel 2001, la stampa libera ha finalmente conquistato libertà d’espressione ed ha avuto inizio una vera e propria rivoluzione fotografica. Attraverso il cinema verità, interviste intime, immagini di tragico realismo e filmati d’archivio inediti scampati alla censura, il film segue quattro fotogiornalisti afghani mentre documentano la pericolosa realtà di questi territori dilaniati da anni di guerra: Najibullah Musafer, Wakil Kohsar, Farzana Wahidy e Massoud Hossaini, vincitore del Premio Pulitzer nel 2012.

GETTING FRANK GEHRY

Sally Aitken, Australia, 2015, 52’, inglese La nuova Università di Tecnologia di Sydney rappresenta l’ultimo audace e controverso progetto di Frank Gehry. Il film segue le vicende legate alla sua costruzione e ripercorre la carriera del famoso architetto lungo un periodo di quarant’anni. Quattro fasi fondamentali della sua creatività, quattro grandi progetti, la Gehry House, il Museo Vitra, il museo Guggenheim di Bilbao e il MIT Stata Center testimoniano l’evolversi delle sue idee nel corso di una vita. La maison Unal.

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Audioghost68, Photo Stefano Esposito.

CHAGALL PEINTRE DE LA MUSIQUE

Mathilde Deschamps Lotthé, Francia, 2015 , 52’, francese Le immagini più note del pittore russo Marc Chagall (18871985) sono le coppie di innammorati che volano, i mazzi di fiori variopinti, le rappresentazioni oniriche della realtà. Ciò che è meno conosciuto è lo stretto legame che Chagall aveva con la musica, una passione che risaliva alla sua infanzia cullata dalla musica klezmer e dai salmi liturgici. Il film racconta come l’artista abbia espresso questa sua passione anche nella pittura: dalle ricorrenti raffigurazioni di strumenti musicali agli interventi per il teatro: decori, quinte di scena, costumi per il balletto e l’opera. Chagall ha anche firmato le decorazioni di vari templi della musica come la cupola dell’Opéra di Parigi e le monumentali tele dell’Opera di New York al Lincoln Center.

LES GÉNIES DE LA GROTTE CHAUVET

Christian Tran, Francia, 2015, 52’, francese Scoperte nel 1994 in Francia, nell’Ardèche, le pitture della Grotta del Pont d’Arc, detta Grotta Chauvet, risalenti a 36.000 anni fa, rappresentano una delle più antiche testimonianze artistiche dell’umanità. Queste immagini rivelano un’abilità eccezionale e rivoluzionano ogni precedente idea di arte preistorica. Per preservare questo inestimabile patrimonio è stata realizzata una replica della grotta a grandezza naturale con la riproduzione fedele di tutte le opere. Un’équipe formata da esperti di preistoria, di scul-


>news istituzioni e gallerie<

Thinking of You.

tura e di pittura ha seguito i lavori, analizzato i materiali usati dagli uomini preistorici e indagato le loro tecniche e la loro abilità nello sfruttare ogni piega della roccia per dare vita alle immagini. Accompagnati dalle osservazioni dell’artista catalano Miquel Barceló seguiamo il procedere dei lavori.

migliaia di donne non era mai stata discussa in pubblico. Thinking of you documenta la mobilitazione dell’intero paese, dalla Presidente della Repubblica alle persone comuni, uomini e donne, per aprire una breccia nel tabù dello stupro di guerra, muovendo le coscienze con l’intima forza dell’arte.

LA MAISON UNAL

ALBERTO GIACOMETTI SCULPTEUR DU REGARD

Julien Donada, Francia, 2014, 26’, francese La Casa Unal, situata nel cuore di una foresta nel dipartimento dell’Ardèche in Francia, è stata progettata dall’architetto Claude Häusermann-Costy e costruita da Joël Unal dal 1972 al 2008. È un’abitazione unifamiliare, una casa composta da varie sfere o “bolle” intercomunicanti, senza nessun angolo retto, un perfetto esempio di architettura scultorea. Per tutti i volumi è stata usata un’unica tecnica di costruzione: calcestruzzo steso a mano in un’armatura metallica.

LA TERRA DI NESSUNO

Sergio Fermariello, Italia, 2016, 13’ In questo film, girato con un drone, vediamo le monumentali installazioni che l’artista Sergio Fermariello ha realizzato sulle spiagge di Castel Volturno, Ischitella e Cuma fra il 2014 e il 2015 con la collaborazione di otto ragazzi immigrati del Ghana e della Costa d’Avorio. Le grandi figure distese, composte di elementi modulari in ferro e teli di cotone, sono visibili per intero solo da una certa quota e rappresentano l’immagine di un mitico Antenato, padre di tutti i popoli nomadi.

THINKING OF YOU

#MendojPërTy#ThinkingOfYou by Alketa Xhafa Mripa (The Making of) Fitim Shala, Kosovo, 2015, 43’, albanese, serbo, inglese Il documentario racconta l’emozionante storia dell’installazione dell’artista Alketa Xhafa Mripa realizzata nel giugno del 2015 e dedicata alle donne vittime di violenza sessuale durante la guerra del 1998-99 in Kosovo. Insieme a un gruppo di attiviste che da anni si impegnano a sostegno delle sopravvissute, Alketa ha viaggiato attraverso il paese per raccogliere cinquemila vestiti che ha steso al vento nello stadio di calcio della capitale, Pristina. Prima di allora, diciassette anni dopo la guerra, la violenza sessuale su Alberto Giacometti, Sculpteur du regard.

Charles de Lartigue, Francia, 2016, 52’, francese Un viaggio nel mondo di Alberto Giacometti, l’artista che ha rivoluzionato la scultura del ventesimo secolo. Giacometti stesso ci racconta la sua vita e ci parla del suo lavoro e della sua ricerca, di come, indagando le varie correnti del suo tempo, dal cubismo all’arte africana, dall’astrattismo al surrealismo, cercasse una propria identità artistica. Questo film svela lo spirito avventuroso dello scultore contribuendo ad una maggiore comprensione del suo lavoro e della sua personalità.

VIVA DADA

Régine Abadia, Francia, 2015, 52’, francese Il movimento DADA nasce nel 1916 nel pieno della prima guerra mondiale come grido di rivolta contro una società autrice di abominevoli stragi, rivoluzionando l’arte del ventesimo secolo. Viva DADA vuole ricordare le dichiarazioni, le poesie e i manifesti di un gruppo di dadaisti, tra cui Tristan Tzara, Hugo Ball, Francis Picabia e Raoul Hausmann che a un secolo di distanza ancora risuonano incredibilmente sovversive. Attraverso un collage di documenti, arricchito da moderne tecniche di animazione, il film ci descrive lo spirito DADA, dalla nascita del movimento fino alla sua rinascita attraverso la recente ricostruzione del Dadaglobe, un’antologia concepita da Tristan Tzara ma mai realizzata.

MARKUS RAETZ

Iwan Schumacher, Svizzera, 2007, 75’, svizzero tedesco, tedesco Il tema principale del lavoro di Markus Raetz è la ricerca sulla percezione. Le sue opere stupiscono come i giochi di prestigio di un mago e rimettono in discussione le nostre abitudini visive mostrando le cose da un’angolazione completamente diversa. Gran parte di questi lavori sono legati al movimento: installazioni e sculture cambiano la loro apparenza se messe in moto o se osservate da un diverso punto di vista. Così, un uomo col cappello di Beuys si trasforma in una lepre, YES diventa NO. Scoprire la personale visione del mondo dell’artista ci aiuta a comprendere l’uomo che si nasconde dietro queste sorprendenti opere d’arte.

MONA HATOUM

Alyssa Verbizh, Francia, 2010, 26’, francese Mona Hatoum è nata a Beirut da una famiglia palestinese in esilio. Nel 1975, durante una breve visita a Londra, lo scoppio della guerra civile in Libano la costrinse a rimanere in Inghilterra. L’esperienza di questo doppio esilio, i problemi di genere, le attuali questioni politiche vengono espressi attraverso l’uso di vari mezzi come video, sculture o installazioni. Il suo lavoro esprime il disagio sociale che deriva dalla sofferenza dell’emarginazione o dall’oppressione politica. La regista Alyssa Verbizh ha seguito l’artista per alcuni mesi, dal suo studio a Berlino fino all’allestiSETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 27


>news istituzioni e gallerie< mento di una mostra a Parigi e durante una residenza presso il MAC VAL Museum dove Mona Hatoum stava lavorando a una nuova grande installazione.

WA SHAN LA MAISON D’HÔTES

Juliette Garcias, Francia, 2015, 26’, francese Ai piedi della Elephant Hill, nella provincia cinese di Zhejiang, si trova l’innovativa struttura chiamata Wa Shan, letteralmente “montagna di tegole”, una Guest House costruita tra il 2011 e il 2013 dall’architetto Wang Shu, vincitore del Pritzker Prize 2012, su commissione della China Academy of Art. Situato nel campus dell’Accademia e realizzato interamente con materiali riciclati e terra battuta, l’edificio rappresenta un esempio di architettura sostenibile e una provocazione in una nazione dominata dal cemento.

Wa Shan, La maison d’hôtes.

ANSELM KIEFER REMEMBERING THE FUTURE

Jack Cocker, Regno Unito, 2014, 64’, inglese Anselm Kiefer ha raggiunto fama internazionale negli anni Ottanta diventando uno degli artisti più noti del panorama artistico contemporaneo. Lavorando su temi quali la storia, la memoria e il mito, realizza opere monumentali spesso controverse. In questo film, della serie Imagine - BBC, Alan Yentob segue l’artista nei suoi studi in Francia e in Germania mentre prepara una retrospettiva per la Royal Academy. Kiefer ci parla della forza interiore che lo guida e ci spiega come oggi lavori ancora con lo stesso entusiasmo e le stesse motivazioni di quando era all’inizio della sua carriera.

Daniel Buren, L’Observatoire de la lumière, Fondation Louis Vuitton, © 2016 a.p.r.e.s production. Fondation Louis Vuitton.

PAOLO VENTURA VANISHING MAN

Erik van Empel, Paesi Bassi, 2015, 47’, inglese, italiano Il fotografo Paolo Ventura crea storie dando una nuova vita a semplici oggetti raccolti un po’ ovunque. Ha abbandonato una brillante carriera di fotografo di moda spinto dal desiderio di tradurre in immagini le avventure di guerra che la nonna gli raccontava da bambino. Nel suo studio, in un isolato fienile di montagna, ricrea un piccolo mondo nostalgico, fuori dal tempo, che ricorda la solitudine in cui è cresciuto. Ventura ha raggiunto fama internazionale con le fotografie della serie War Souvenir e Winter Stories. I suoi lavori sono entrati a far parte delle collezioni di vari musei in Italia, Francia e Stati Uniti.

TROUBLEMAKERS THE STORY OF LAND ART

James Crump, Stati Uniti, 2015, 72’, inglese Girato in uno spazio desertico e desolato del sud-est americano, questo documentario descrive la nascita della Land Art, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Il film racconta la storia di un gruppo di artisti visionari che hanno voluto mettere a rischio la propria carriera ponendo un netto segno di demarcazione e di distanza dal mondo iperspeculativo dell’arte. Materiale d’archivio inedito e rare interviste con i protagonisti della Land Art, tra cui Robert Smithson, Walter De Maria e Michael Heizer, svelano un aspetto poco conosciuto dell’arte contemporanea.

STEPHEN BALKENHOL

Kimsooja, To Breathe, Centre Pompidou-Metz © 2015 a.p.r.e.s production. Centre Pompidou-Metz.

dove anche risiede e lavora. In occasione di una vasta retrospettiva al Museo di Grenoble, il direttore Guy Tosatto, ci rivela il complesso rapporto dell’artista con l’arte figurativa e la storia tedesche.

LE VAISSEAU DE VERRE

Richard Copans, Francia, 2015, 26’, francese Nel 2006 Bernard Arnault incarica Frank Gehry di costruire la Fondazione Louis Vuitton, un centro dedicato all’arte moderna e contemporanea che rifletta la politica artistica e filantropica della Fondazione. A Parigi, ai margini del Bois de Boulogne, un enorme vascello con dodici vele di vetro gonfiate da un vento immaginario emerge sopra le cime degli alberi. Il nuovo museo è anche una passeggiata architettonica.

PICASSO, NAISSANCE DE L’ICÔNE

Alyssa Verbizh, Francia, 2011, 26’ Stephan Balkenhol è un artista tedesco di fama internazionale nato a Frizlar nel 1957. Nei primi anni Ottanta, in contrapposizione alle tendenze astrattiste, minimaliste e concettuali della scuola di Belle Arti di Amburgo dove ha studiato, inizia il suo percorso artistico dedicandosi alla scultura figurativa lignea. Il film ci conduce nel suo studio dove lo vediamo mentre, con martello e scalpello, crea le sue figure da un pezzo di legno, lasciandovi ben visibili le tracce degli utensili, i nodi, le crepe. Da Karlsruhe, dove è docente all’Accademia di Belle arti, lo seguiamo a Meisenthal, in Francia,

Hopi Lebel, Francia, 2015, 52’, francese Picasso rappresenta una figura iconica nel mondo dell’arte contemporanea non solo per la sua illimitata creatività, ma anche per il suo innato talento per la comunicazione. Sin dall’inizio della sua carriera era convinto dell’importanza di coltivare la propria immagine pubblica. Il film analizza questo fenomeno durante diversi momenti della sua vita, dal periodo bohèmien parigino, alla fase di divinizzazione vissuta con la sua ultima musa e compagna Jacqueline. Arricchito con materiale d’archivio inedito e interviste a specialisti e conoscenti, il film getta nuova luce sul modo in cui il pittore più famoso del mondo abbia saputo plasmare la propria leggenda e diventare l’incarnazione universale del genio creativo.

Picasso, naissance de l’icône, Photo Edward Quinn, © edwardquinn.com.

Jan Fabre, Spiritual Guards.

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>news istituzioni e gallerie< JAN FABRE: SPIRITUAL GUARDS

Lorenzo Scurati, 2016, 26’, italiano, inglese Jan Fabre - Spiritual Guards, la mostra evento del 2016 a Firenze è un’occasione irripetibile per conoscere da vicino l’opera dell’artista fiammingo. Il Forte di Belvedere, Palazzo Vecchio, Piazza della Signoria, fanno da nobile sfondo a un’esposizione totale che raccoglie opere realizzate da Fabre nel corso di tutta la sua carriera. In questo documentario, girato durante l’allestimento della mostra, Jan Fabre si racconta per la prima volta al pubblico italiano: la vita, le opere, la poetica di un grande artista del nostro tempo.

DAMIÁN ORTEGA - ART21

Deborah Dickson, Stati Uniti, Messico, 2016, 15’, inglese Damián Ortega è nato a Città del Messico nel 1967. Realizza opere spettacolari usando materiali e oggetti di uso quotidiano, scomponendoli e ricomponendoli in un nuovo ordine di significato. In questo documentario, mentre l’artista stesso ci racconta la sua storia, la sua amicizia con Gabriel Orozco e ci spiega i principi della sua poetica, vediamo alcune delle sue installazioni più note, come Il controllore dell’Universo in cui utensili diversi sono sospesi in aria e animati da un’energia centrifuga. Il titolo dell’opera, che allude all’uomo capace di controllare l’universo con gli strumenti del lavoro, è ironico perché per Ortega non c’è niente di più incontrollabile dell’universo: “l’ordine è noioso, il disordine è eccitante”.

JEFF WALL - ART21

Pamela Mason Wagner, Stati Uniti, Canada, 2016, 15’, inglese Jeff Wall è nato a Vancouver nel 1946. Fonte di ispirazione per le sue opere fotografiche possono essere semplici ricordi personali, sogni ad occhi aperti, un quadro, una fotografia. Con un’idea ben precisa in mente, Wall costruisce da zero una scena, aspettando anche per settimane la giusta posizione del sole, provando e riprovando le posizioni degli attori. I suoi lavori possono rappresentare sia immagini surreali, come picnic con i vampiri, truppe di morti che conversano, una tomba sommersa dal mare, che semplici scene di persone ai margini della società riprese nella loro quotidianità in momenti di relazione o di tranquilla contemplazione.

GARDEN IN THE SEA

Thomas Riedelsheimer, Messico, Germania, 2011, 68’, spagnolo, inglese Invitata a realizzare un’opera per l’isola di Espiritu Santo in Messico, la scultrice spagnola Cristina Iglesias ha creato un labirinto di stanze sommerse che, favorendo la vita marina, si erge a sigillo e monito per la protezione e valorizzazione dell’area dichiarata dal 2005 sito UNESCO. Realizzata con un particolare cemento a pH compatibile con l’acqua marina, l’opera si trova a 14 metri di profondità nella Bahìa de Candelero ed è composta da un insieme di 14 grate, alte 3 metri, che formano due insiemi di ambienti. Il film documenta la lunga gestazione dell’opera, durata quattro anni, celebrando l’unione tra arte, scienza e impegno civile in difesa dell’ambiente. Una suggestiva fotografia e le musiche di Stephan Micus e Hector Martell contribuiscono a restituire la bellezza e l’atmosfera dei luoghi.

HARALD SZEEMANN APPUNTI SULLA VITA DI UN SOGNATORE

Giorgio Marino, Italia, 2016, 61’, italiano Harald Szeemann è stato una delle personalità più influenti dell’arte contemporanea, l’uomo che ha rivoluzionato l’arte curatoriale, un visionario, un anarchico, un sognatore. Questo documentario ne traccia un ritratto intimo attraverso la raccolta di una serie di appunti che ripercorrono le tappe fondamentali della sua carriera professionale e della sua vita privata, raccogliendo i ricordi delle persone che meglio lo hanno conosciuto: la sua famiglia, i suoi amici, i suoi collaboratori più stretti. Una serie di materiali inediti - interviste, fotografie, video e la voce stessa di Harald Szeemann - ci accompagnano in un viaggio alla scoperta della genesi delle sue mostre più importanti, ormai diventate mitologiche, e delle motivazioni che lo hanno spinto a prendere le decisioni che hanno modificato il corso dell’arte contemporanea.

LA COLLECTION QUI N’EXISTAIT PAS

Joachim Olender, Belgio, 2014, 93’, francese Nel giugno 2011, Herman Daled ha venduto al Museum of Modern Art di New York la sua collezione di arte concettuale che comprendeva opere di Marcel Broodthaers, Daniel Buren, Niele Toroni, On Kawara, Dan Graham, Sol LeWitt e molti altri. Il film esplora lo spirito audace di questo collezionista e la filosofia che ha caratterizzato questo particolare movimento artistico nella seconda metà del ventesimo secolo.

DANIEL BUREN L’OBSERVATOIRE DE LA LUMIÈRE À LA FONDATION LOUIS VUITTON Gilles Coudert, Francia, 2016, 25’, francese In stretto dialogo con la costruzione di Frank Gehry, la Fondation Louis Vuitton di Parigi, l’opera di Daniel Buren L’observatoire de la lumière si sviluppa sull’intera superficie delle vetrate, caratterizzando l’elemento più emblematico dell’edificio. Il film segue tutta l’evoluzione dei lavori: dalla posa dei filtri colorati fino al giorno dell’inaugurazione. Daniel Buren ci parla di quest’opera e dei problemi che ha dovuto affrontare, affiancato dalla direttrice artistica Suzanne Pagé e dall’ingegnere Nicholas Paschal.

KIMSOOJA - TO BREATHE CENTRE POMPIDOU METZ

Gilles Coudert, Francia, 2015, 22’ francese, inglese L’artista coreana Kimsooja rivoluziona lo spazio del Centre Pompidou di Metz con l’installazione To Breathe. Le vetrate del Centro interamente rivestite di pellicola di diffrazione della luce e il pavimento trasformato in uno specchio senza fine alterano ogni percezione di orizzontalità e verticalità. La proiezione dello spettro dei colori accompagnata dal ritmo del respiro dell’artista trasformano lo spazio in un paesaggio sensuale e onirico che i visitatori possono attraversare. Il film segue il percorso dell’allestimento della mostra fino al giorno dell’inaugurazione ed è arricchito dai commenti dell’artista, della direttrice del Centre Pompidou-Metz, Emma Lavigne e dalle impressioni dei visitatori.

SHILPA GUPTA

Alyssa Verbizh, Francia, 2009, 26’, francese Nata nel 1976 a Bombay, Shilpa Gupta è considerata uno dei talenti più promettenti della scena artistica indiana. Attraverso video interattivi, siti web, installazioni, fotografie e performance sonda la società e i sistemi di potere nell’era della globalizzazione, ma anche il nostro immaginario e il nostro inconscio. Indaga i temi del terrorismo legato al razzismo, il fondamentalismo religioso, l’ossessione per la sicurezza, le frontiere alienanti o le zone di conflitto tra gli individui. Seguiamo l’artista nel labirinto di strade affollate e caotiche di Mumbai, il suo ambiente più intimo, fonte inesauribile di ispirazione e assistiamo alla realizzazione di diversi lavori esposti a Parigi e Lione.

Shilpa Gupta, Untitled, 2006 (Don’t See Don’t Hear Don’t Speak Series)

DISINCANTOICONICO

Maurizio Finotto, Italia, 2015, 10’ DisinCantoIconico è un film d’arte che dialoga con l’immaginario poetico di Luigi Ontani, elaborato con la tecnica dell’animazione in stop motion. L’artista, ha supervisionato il progetto prendendo parte attiva anche nella fase delle riprese: nella video-animazione gli oggetti ricorrenti della sua poetica, come i grilli e le maschere, prendono vita sul suo corpo creando nuovi tableaux vivants. Un viaggio visivo fatto di immagini e suoni che racconta il personale mito della creazione di un artista che ha incorporato nella sua opera influssi storici e mitologici, sia dell’Oriente che dell’Occidente.

SULL’ORLO DELLA GLORIA LA VITA E LE OPERE DI PINO PASCALI

Maurizio Sciarra, Italia, 2015, 64’, italiano Sull’orlo della gloria è un percorso alla scoperta delle cose e dei personaggi che hanno animato il mondo innovativo e geniale dell’artista Pino Pascali, un precursore spesso ingiustamente dimenticato. L’attrice Paola Pitagora ci conduce per mano nelle atmosfere pugliesi e poi romane degli anni ‘60, terreni di coltura per tanti giovani talenti. Un ritratto consapevole e sfaccettato dove l’arte povera e lo spettacolo commerciale si fondono e diventano l’uno complementare all’altro. SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 29



>speciale fiere< TORINO

ARTISSIMA 2016

C

on oltre 200 gallerie rappresentative di 35 paesi, Artissima si colloca nel panorama delle Fiere come punto di riferimento e motrice di esperienze innovative. Nonostante i suoi appena 23 anni di età, è fra le italiane la più apprezzata a livello internazionale, il cui format, consolidatosi sulle più innovative ricerche artistiche, è diventato nel corso del tempo un must da imitare. Al timone, per il quinto e ultimo anno, è ancora Sarah Cosulich che, tuttavia, passerà il testimone al futuro direttore incaricato, selezionato tramite bando di concorso emesso dalla Fondazione Torino Musei e annunciato durante Artissima. L’impronta della Cosulich, comunque, è sinonimo di garanzia di qualità ancora per questa edizione, dove l’Oval si connota quale luogo d’eccellenza, dove riflettere e indagare nuove risposte intorno alla creazione artistica e curatoriale contemporanea. E ogni anno l’offerta di Artissima si arricchisce di novità e originali spunti di riflessione. Le gallerie quest’anno sono divise in 7 sezioni, una in più rispetto all’edizione precedente, concepita per far dialogare ancora di più le opere dei vari stand. Tre di queste sono curate da un board di curatori e direttori internazionali con importanti novità per quel che concerne l’ambito performativo, mentre quattro sono selezionate dal comitato delle gallerie della fiera (inclusa la nuova sezione). Un nuovo focus, è dedicato alle gallerie emergenti e alle ricerche creative più coraggiose del panorama contemporaneo. Un fitto programma di approfondimenti culturali, una grande mostra dedicata al tema del corpo nell’arte e il curiosissimo progetto speciale organizzato all’Aeroporto di Torino, costituiscono l’offerta culturale specchio di una visione strategica finalizzata alla crescita continua della fiera. Main Section, New Entries, Dialogue e Art Editions sono le sezioni curate dal comitato di selezione delle gallerie della fiera, composto da: Isabella Bortolozzi, Paola Capata, Guido Costa, Martin McGeown, Pedro Mendes, Gregor Podnar e Jocelyn Wolff. La nuova sezione Dialogue, titolo tratto da un nuovo premio, dà rilevanza all’arte sperimentale ed emergente ed è dedicata a progetti specifici in cui le opere di uno, due o tre artisti sono messe in stretta relazione tra loro. 30 le gallerie (21 straniere). New Entries è la sezione riservata alle gallerie emergenti sulla scena internazionale, composta da 18 gallerie (13 straniere), per la prima volta è raggruppata in uno spazio compatto e indipendente all’ingresso della fiera a ribadire l’impegno di Artissima nei confronti delle giovani proposte. Present Future, Back to the Future, Per4m, sono le altre sezioni curate da board di curatori e direttori internazionali. Present Future è la sezione in cui protagonisti sono gli artisti emergenti, selezionati da un board di giovani curatori internazionali (Anne Faucheret, Hicham Khalidi, Sohrab Mohebbi, Wim Waelput) coordinati da Luigi Fassi. Gli artisti sono presentati dalle loro gallerie di riferimento attraverso un percorso espositivo appositamente studiato. Le opere degli artisti invitati includono proposte inedite realizzate ad hoc e progetti alla loro prima esposizione nel contesto europeo ed italiano. Sono 20 gli artisti presentati da 18 gallerie straniere e 4 italiane. A Present Future è collegato il Premio illy Present Future (Giuria: Carolyn ChristovBakargiev , Bart van der Heide, Christine Tohme e Ashkal Alwan, Nicoletta Fiorucci), che insieme al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, offre al vincitore l’eccezionale opportunità di realizzare una mostra negli spazi del Museo. Nel 2015 il premio è stato assegnato ad Alina Chaiderov, rappresentata dalla galleria Antoine Levi, Parigi, di cui è in corso ora la personale. Back to the Future (Ritornare al futuro), significa guardare il passato per immaginare l’avvenire. Ecco il senso di questa sezione, dedicata alla riscoperta di grandi maestri dell’arte contemporanea che, quest’anno, si concentra su opere prodotte nel periodo compreso tra il 1970 e il 1989. Sono 19 gli artisti, presentati da 19 gallerie (3 italiane, 16 straniere) selezionati dal Comitato composto da: Eva Fabbris (coordinatrice), curatrice indipendente, Milano; Gary Carrion-Murayari, Kraus Family, New Museum, New York | New Museum Triennial (2018); Krist Gruijthuijsen, KW Institute for Contemporary Art, Berlin; Cristiano Raimondi, Nouveau Musée

I PREMI ad ARTISSIMA

Oltre a quelli previsti per le sezioni, altri 4 premi sono previsti dal format di Artissima: Premio Owenscorp New Entries, Premio Reda, Premio Fondazione Ettore Fico, Mutina Project “This is not a Prize” Premio Owenscorp New Entries: Emma Lavigne, Centre Pompidou–Metz | Biennale di Lione (2017); José Roca, director, FLORA ars+natura, Bogotà; Kitty Scott, Art Gallery of Ontario, Toronto | Liverpool Biennial (2018) & Michele Lamy, sono chiamati ad assegnare il premio del valore di 5.000 € alla giovane galleria ritenuta più

Artissima, Th.Beyrle e Sarah Cosulich

National de Monaco. A Back to the Future è collegato il Premio Sardi del valore di 5.000 €, che assegna il premio alla galleria con il progetto più meritevole in termini di rilevanza storica e di presentazione dello stand. Fanno parte della giuria: Daniel Baumann, Kunsthalle Zurich; Christine Macel, Musée National d’Art Moderne – Centre Pompidou, Paris | Biennale di Venezia (2017); Joanna Mytkowska, Museum of Modern Art, Warsaw. Lanciata nel 2014 Per4m è la sezione dedicata esclusivamente alla performance e la prima rassegna di questo genere nel panorama fieristico mondiale. Alla sua terza edizione si evolve divenendo una vera e propria mostra di performance, curata per la prima volta da un collettivo artistico, l’olandese If I Can’t Dance I Don’t Want To Be Part Of Your Revolution - Frédérique Bergholtz e Susan Gibb, nato per esplorare la trasformazione della performance e le sue tipologie nell’ambito dell’arte contemporanea. A Per4m è collegato il Prix K-Way, del valore di 10.000 € (Giuria: Franz Bernardelli, curatore indipendente, Torino; Ruth Estévez, REDCAT, Los Angeles; Silvia Fanti, Xing, Bologna; Filipa Ramos, Art Agenda, London - partner K-Way), destinato al lavoro più significativo tra quelli presentati nella sezione. Sono tantissime le iniziative in fiera. Da “Ypsilon St’Art Percorsi in Fiera”, programma di percorsi guidati attraverso gli stand, a “Walkie Talkies by Lauretana”, conversazioni informali che attraversano liberamente gli spazi della fiera, fino a “What is Experimental”, novità dell’edizione 2016, un nuovo programma di talk a cura di Stefano Collicelli Cagol dedicato a una selezione di curatori di spazi no-profit e indipendenti. Al “Meeting Point by La Stampa”, invece, conversazioni e dibattiti promossi e curati da musei, istituzioni e realtà dell’arte, mentre “Zonarte” è l’area dedicata ai Dipartimenti Educazione del network Zonarte. Anche quest’anno, inoltre, “UniCredit Art Advisor” presenta una consulenza gratuita e indipendente, rivolta a chi già colleziona ma soprattutto a chi, affascinato dall’arte, non sempre si sa orientare in fiera, per poi rilassarsi a “Con/TEXT” spazio dedicato alla lettura e che ospita il Bookshop di Artissima by Librerie Corraini, e i più importanti magazine di settore e le Art Editions. Non mancano i progetti speciali. Il primo è “In Mostra – corpo.gesto.postura”, una esposizione che celebra le grandi collezioni di Torino e del suo territorio unendo, per la prima volta, con opere provenienti dai maggiori musei e fondazioni e da importanti lavori di provenienza privata. Curata da Simone Menegoi “corpo.gesto.postura”, indaga la figura umana ed esplora il corpo nell’arte. L’altro appuntamento è “Flying Home”, un progetto collaterale inedito tra la città di Torino, realizzato in collaborazione con l’Aeroporto e curato da Sarah Cosulich. Due soggetti della città apparentemente distanti per una iniziativa culturale sorprendente, dove protagonista è il grande artista tedesco Thomas Bayrle con un un’opera site-specific per lo scalo torinese. La Fiera, inoltre, mantiene il suo respiro internazionale anche nel coinvolgimento della città, nel filo diretto che la lega all’eccezionale rete di musei, fondazioni e gallerie private che caratterizzano Torino come la più Europea fra le city d’Italia, ospitando in città le grandi mostre personali dei notissimi Ai Wei Wei, Ed Atkins, Thomas Bayrle, Joseph Beuys, Josh Kline, Carol Rama, Wael Shawky, Rosemarie Trockel. Ampie naturalmente le altre iniziative espositive di artisti nelle gallerie private.

meritevole per il lavoro di ricerca. Premio Reda: Tobia Bezzola, Museum Folkwang, Essen; Reinhard Braun, Camera Austria, Graz; Francesco Zanot, Camera – Centro Italiano per la Fotografia, Torino Lorenza Bravetta, Camera – Centro Italiano per la Fotografia, Torino Giovanna Silva, Humboldt Books, Milano, sono chiamati a premiare gli artisti che espongono ad Artissima under 35 anni e dediti al linguaggio fotografico, offrendo loro l’opportunità di una pubblicazione monografica. Premio Fondazione Ettore Fico: Letizia Ragaglia, Museion, Bolzano; Andrea Vilia-

ni, MADRE, Napoli; Andrea Busto, MEF – Museo Ettore Fico, Torino Renato Alpegiani, collezionista, Torino, assegneranno 5.000 € ad un artista tra tutti quelli esposti ad Artissima in ogni sezione. Mutina Project “This is not a Prize” è un nuovo premio istituito con l’intento di andare oltre al puro rapporto tra premiato e premiante per creare una nuova relazione tra chi produce e chi sostiene l’arte. Il premio consiste nel supporto da parte di Mutina ad un progetto speciale di un talento presente in fiera ed è assegnato da un team di designer. SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 31


>news istituzioni e gallerie<

Marinella Senatore, The School of Narrative Dance Little Chaos #1, 2013

ROMA

QUADRIENNALE D’ARTE

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orna dopo otto anni la Quadriennale d’Arte al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 13 ottobre all’8 gennaio 2017. Con il titolo “Altri tempi, altri miti” la 16° Quadriennale viene focalizzata sulle arti visive in Italia post 2000 e sviluppata attraverso una progettazione affidata ad undici curatori per dieci sezioni espositive con 99 artisti invitati e 150 opere, di cui sessanta nuove, le altre quasi tutte realizzate negli ultimi due anni. Scelta decisionale è stata quella di affidare l’intera mostra a giovani curatori, selezionati da una apposita commissione tra 38 progetti proposti. Il titolo è ispirato alla raccolta “Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta” (1990) delloscrittore Pier Vittorio Tondelli (1955-1991) considerata un’opera cult, che offre una narrazione per frammenti dell’Italia attraverso una vertiginosa sarabanda di viaggi nella penisola. Analogamente, la 16a Quadriennale è concepita come una mappatura mutevole delle produzioni artistiche e culturali dell’Italia contemporanea ed è articolata in dieci sezioni espositive - affidata a un curatore (in un caso a due) - ognuna delle quali approfondisce un tema, un metodo, un’attitudine, una genealogia che connota i progetti artistici. Rinviando al prossimo numero tutte le considerazioni critiche, pubblichiamo nell’ordine i nomi dei curatori e degli artisti da loro proposti. Accanto ai più giovani, compaiono alcuni autori di generazioni antecedenti ma ritenuti germinativi di alcune delle ricerche espressive più interessanti oggi in atto. Simone Ciglia e Luigia Lonardelli in I would prefernot to/Preferirei di no presentano una selezione di autori esemplificativi di un’attitudine diffusa del fare arte oggi, riconducibile a un sottrarsi, a un resistere a codificazioni identitarie e hanno scelto: Mario Airò, Rosa Barba, Massimo Bartolini, Gianfranco Baruchello, Claire Fontaine, Matteo Fato, Anna Franceschini, Chiara Fumai, Invernomuto, Cesare Pietroiusti, Nicola Samorì, Luca Trevisani, Luca Vitone. Michele D’Aurizio con Ehi, voi! propone la ritrattistica come linguaggio tramite cui attraversare le vicende più recenti della nostra arte, per la sua capacità di esprimere una commistione tra sfera individuale e sfera sociale e ha invitato Alessandro Agudio, Francesco Cagnin, Costanza Candeloro, Sabina Grasso, Spazio progetto Gasconade, Alberto Garutti, Massimo Grimaldi, Dario Guccio, Corrado Levi, Marcello Maloberti, Michele Manfellotto, Beatrice Marchi, Diego Marcon, Gruppo Momentum, Francesco Nazardo, Giulia Piscitelli, Carol Rama, Andrea Romano, Davide Stucchi, Patrick Tuttofuoco, Francesco Vezzoli, Italo Zuffi. Luigi Fassi con La democrazia in America invita ad approfondire alcuni aspetti della storia dell’Italia contemporanea attraverso una rilettura del pensiero di Tocqueville con gli artisti: Alessandro Balteo-Yazbeck, Nicolò Degiorgis, Gianluca e Massimiliano De4 Serio, Adelita Husni-Bey, Renato Leotta. Simone Frangi in Orestiade italiana volge lo sguardo al contesto Michelangelo Consani, La rivoluzione del filo di paglia, scultura.

del nostro Paese nei suoi versanti culturale, politico, economico, con una riscrittura analogica e corale di alcuni nuclei di un lavoro filmico di Pasolini. Gli artisti: Riccardo Arena, Blauer Hase, Danilo Correale, Curandi-Katz on Masako Matsushita, Nicolò Degiorgis, Alessandra Ferrini, Francesco Fonassi, Invernomuto, Maria Iorio e Raphael Cuomo, Vincenzo Latronico e Armin Linke, Giovanni Morbin, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom, Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli, Diego Tonus. Luca Lo Pinto in A occhi chiusi, gli occhi sono straordinariamente aperti sonda i temi del tempo, dell’identità, della memoria, letti in continua metamorfosi all’interno della relazione tra il singolo e la collettività attraverso le opere di: Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi, Ra di Martino, Martino Gamper, Nicola Martini, Stargate (aka Lorenzo Senni), Emilio Villa. Matteo Lucchetti in De Rerum Rurale pone al centro dell’attenzione la ruralità come spazio reale e speculativo nel quale descrivere e re-immaginare il sistema di relazioni tra ambiente naturale e antropizzato, anche nella sua profondità storica. Lucchetti ha invitato Nico Angiuli, Rossella Biscotti, Beatrice Catanzaro, Leone Contini, Michelangelo Consani, Luigi Coppola, Danilo Correale, Riccardo Giacconi e Andrea Morbio, Adelita Husni-Bey, Marzia Migliora, Moira Ricci, Anna Scalfi Eghenter, Marinella Senatore, Valentina Vetturi.

Nico Angiuli, Tre Titoli un film corale sulla Chiara Fumai, Ritratto, 2016 Cerignola di ieri dentro quella di oggi, 2015, film

Marta Papini in Lo stato delle cose ha invitato Yuri Ancarani, Giorgia Andreotta Calò, Cristian Chironi, Adelita HusniBey, Elena Mazzi, Margherita Moscardini, Alberto Tadiello, e propone un impianto in progress nel quale la rotazione di artisti molto diversi instaura uno spazio dialettico tra le singole ricerche e tra queste e il pubblico. Cristiana Perrella in La seconda volta individua un nucleo di autori accomunati da un interesse per l’uso di materiali densi di storie già vissute che reinterpretano in insospettabili combinazioni, secondo una poetica della trasformazione. Gli artisti invitati: Lara Favaretto, Martino Gamper, Marcello Maloberti, Alek O, Francesco Vezzoli. Domenico Quaranta con Cyphoria analizza l’impatto dei media digitali su vari aspetti della vita, dell’esperienza, dell’immaginazione e del racconto con gli artisti: Collettivo Alterazioni Video, Enrico Boccioletti, Mara Oscar Cassiani, Paolo Cirio, Roberto Fassone, Giovanni Fredi, Elisa Giardina Papa, Kamilia Kard, Eva e Franco Mattes, Simone Monsi, Quayola, Federico Solmi, Marco Strappato, Natalia Trejbalova. Denis Viva in Periferiche individua nel policentrismo un’originale condizione strutturale del nostro territorio che permea anche la nostra cultura visiva. Emanuele Becheri, Paolo Gioli, Carlo Guaita, Paolo Icaro, Christiane Lohr, Maria Elisabetta Novello, Giulia Piscitelli, Michele Spanghero. La manifestazione si arricchisce quest’anno con il “Fuori Quadriennale”, un intenso calendario di eventi legati all’arte contemporanea italiana in programma con gallerie, musei e Fondazioni. Le immagini pubblicate sono quelle fornite dall’ufficio stampa della Quadriennale.

Marcello Maloberti, Himalaya, 2012 performance. Photo Ela Bialkowska

Beatrice Catanzaro, Bait Al Karama, 2016, installazione.

32 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Giovanni Fredi, Everyone has something to share series, 2015, lambda print, cm 100x133


La Tenda Verde (Das GrĂźnes Zelt) Joseph Beuys e il concetto ampliato di ecologia curata da Marco Scotini

5 novembre 2016 18 marzo 2017

con il sostegno di

www.parcoartevivente.it


Il MAXXI tra passato prossimo e futuro Con breve intervista a Giulia Ferracci di Ilaria Piccioni

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on l’avvio della stagione espositiva autunnale il MAXXI apre gli spazi della Sala Gian Ferrari per la prima mostra in Italia dell’artista egiziano Basim Magdy, vincitore del Premio Deutsche Bank’s “Artist of the Year” 2016. Si inaugura così una nuova iniziativa del museo, Expanding the Horizon, che prevede collaborazioni con musei ed istituti internazionali; per una ampliata visione di spazio pubblico. The Stars Were Aligned For A Century Of New Beginnings (Le stelle si sono allineate per un secolo di nuovi inizi) si inscrive negli intenti globali essendo stata prima a Berlino, alla Deutsche Bank Kunsthalle, ora a Roma e poi al Museo di Arte Contemporanea di Chicago. Tra reale e virtuale le opere di Basim Magdy hanno un senso nostalgico vissuto nei video e nelle diapositive, con luce e colori virati e avveniristici disegni e collage dalle tonalità accese, e dai soggetti rivolti a percezioni di dimensioni astrali o di una vita terrestre aberrata. Una narrazione dettata da frasi incisive e amare, su immagini animate da associazioni paradossali: la contingenza del reale è vissuta con passione ironica e amara. In linea con il Premio Deutsche Bank, con la volontà di sostenere le arti contemporanee, il MAXXI festeggia i 15 anni del Premio che ne porta il nome, che ha dato avvio alla collezione prima ancora di avere la sua complessa struttura ideata da Zaha Hadid. Una mostra che vede le opere finaliste dell’edizione 2016 di Riccardo Arena, Ludovica Carbotta, Adelita Husni-Bey, ZAPRUDER e un racconto del Premio MAXXI dal suo esordio nel 2001. Abbiamo chiesto alla curatrice del Premio, Giulia Ferracci, di fare il punto di questa storia. Ci può raccontare brevemente la mostra del Premio MAXXI 2016 e tirare le somme dei 15 anni del progetto, iniziato nel 2001 come Premio per la Giovane Arte? Contestualmente alle opere dei finalisti di quest’anno c’è una sezione della mostra che è dedicata alla presentazione delle sette edizioni precedenti, si tratta di una parte documentaria con nessuna velleità espositiva. All’interno di ogni nucleo documentario esistono delle unità linguistiche che abbiamo ricreato grazie al nostro fondo di ricerca del MAXXI Base, al materiale proveniente dal MiBACT e anche a Careof che ci ha fornito documentazione fotografica e video degli anni scorsi. Le diverse sezioni si compongono di una lettura a più livelli con una parte per il grande pubblico, immediatamente percepibile, che riguarda le foto, l’allestimento, testi e cataloghi introduttivi

Basim Magdy, The Bitterness of what could have happened, 2011

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alle mostre dell’epoca e poi, un secondo livello che è quello di studio all’interno del quale è possibile prelevare una cartellina dedicata a ciascun artista con descrizioni del progetto, note biografiche aggiornate alla data di presentazione del candidato al premio, mostre precedenti e fotografie di queste. Diciamo che è una mostra a cassetti, attraverso i quali è possibile vedere documentari e interviste fatte agli artisti. Ad esempio, del 2000 non abbiamo soltanto la presentazione dei 15 artisti, poi divenuti 14 perché Grazia Toderi si ritirò dalla candidatura, ma un approfondimento sulla grande conferenza realizzata da Cesare Pietroiusti Come spiegare a mia madre che quello che faccio serve a qualcosa, che include gran parte degli artisti che erano presenti quell’anno. È il tentativo di tracciare a grandi linee non la storia dell’arte italiana ma, una parte di questa. Sono piccoli appuntamenti, un modo per guardare attraverso gli occhi di questi artisti le loro opere e cosa accadeva. Molto interessante è notare come parte della generazione anni 90 abbia preferito prendere altre strade o comunque si sia distaccata dal contesto sistematico dell’arte, quindi abbiamo figure come Eva Marisaldi, Sara Rossi, Stefania Galegati che oggi ha cambiato in un certo modo la sua traiettoria aprendo il Caffè internazionale delle arti a Palermo, oppure Massimiliano Bartolini che nel frattempo è diventato un maestro dell’arte italiana. Quindi si rilevano velocità diverse con artisti che hanno attraversato come meteore il panorama dell’arte e altri invece, che ancora ne fanno parte in modo decisivo. È interessante vedere anche come nelle ultime edizioni


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

(a partire dal 2010) il rapporto con il MAXXI, come luogo, abbia in qualche modo condizionato la partecipazione degli artisti selezionati, considerando che il Premio ha avuto inizio quando l’opera di Zaha Hadid non era ancora stata realizzata. Il primo Premio è stato realizzato nel Centro per le Arti Contemporanee a cura di Paolo Colombo che comunque può essere considerato il padre del MAXXI, visto che dal 2000 al 2007/8 ha lavorato per questo luogo e si è posto di fronte a quello che fu il primo concorso in Italia per un architetto del calibro di Zaha Hadid. Ogni edizione a partire dall’origine, sebbene i progetti non fossero site specific, avevano però l’obiettivo di essere inseriti nella collezione del Museo e sicuramente il rapporto con lo spazio, il luogo del museo attuale, è una determinante a volte straordinaria a volte limitante. Il MAXXI ha una struttura complessa con la quale è difficile competere e l’unico modo per abitarla è farla diventare una pelle, e cercare di ignorarla per non andare a riprenderne le forze vettoriali. Infatti quest’anno gli artisti hanno lavorato sul site specific, ad esempio Ludovica Carpotta con un’idea che definisce fictional site specific, cioè connettere l’idea del luogo a uno spazio immaginario. Nel suo lavoro riprende quello che era allora la Caserma Montello, che si trovava proprio nello spazio che ora occupa la sua opera, sovrapponendo le piante e così in mostra si vedono i tetti della Caserma, che l’artista ha trasformato in un museo, dove una figura, un’attrice, ogni giorno trascina e cambia opere al suo interno. n MACRO - Museo d’Arte Contemporanea, Roma

Roma Pop City 60-67 MACRO Pelanda Short Theatre 11 KEEP THE VILLAGE ALIVE

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oma esalta Roma, al MACRO si parla del periodo che più ha affascinato le attenzioni nostrane ed estere in quanto a creatività. Con la mostra Roma Pop City 60-67, che ha impegnato un comitato scientifico di tutto rispetto come Nanni Balestrini, Achille Bonito Oliva, Maurizio Calvesi, Laura Cherubini, Andrea Cortellessa, Claudio Crescentini, Costantino D’Orazio, Raffaella Perna, Federica Pirani, Fabio Sargentini, Lorenza Trucchi, la città eterna è riproposta come il “luogo”, il centro di ricerca accentratore di energie, azioni e intenti. Gli anni fra il 1960 e il 1967 hanno dato i migliori frutti in ambito artistico, letterario e cinematografico e le opere in mostra ne convalidano la centralità. 100 opere di artisti che hanno creato una relazione con il territorio e il contesto, portando in evidenza temi fondanti di una ricerca che ha condizionato e continua a stimolare le menti delle nuove generazioni. Dal fascino per lo schermo, dove la televisione e il cinema, e con esso Cinecittà, sono elementi assoluti, la mitologia dell’antico e della storia dell’arte che prende piede nei quadri, disegni, sculture e video, divenendo totem significanti o semplici spunti oggettivi. Franco Angeli, Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello, Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Claudio Cintoli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Francesco Lo Savio, Renato Mambor, Gino Marotta, Titina Maselli, Fabio Mauri, Pino Pascali, Luca Maria Patella, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Cesare Tacchi, Giuseppe Uncini sono gli artisti che più hanno contribuito a incidere una storia dell’arte narrante e in dialogo

con mondanità e contesto sociale, portando in superficie nuovi miti. Personalità ognuna distintiva di capacità di comunicare il rapporto con la città e le sue espressioni, in grado di traghettare ricerche e lavori verso a una rappresentatività, sempre più riconosciuta come fonte per un’analisi che si caratterizza di accenti fortemente politici, ironici o poetici. I film d’artista e i documentari forniti dal Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale fluiscono in immagini che aprono a realtà di influenza pop e dall’approccio linguistico anticinematografico, per una trasmissione esclusivamente concettuale e visiva. Ognuno di questi lavori denota la tendenza oltre il quadro, la cornice che anche se a volte delimitata e presente diviene essenza e pretesto di astrazione. Ilaria Piccioni

Mario Schifano, Cielo stellato, 1967.

Franco Angeli, Frammento di paesaggio romano (NON Half dollar), metà anni 60.

Renato Mambor, Colosseo e farfalla, 1966, Smalto e acrilico su tela.

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Palazzo Ducale, Genova

Aldo MONDINO Colori e sapori cangianti di un Diamante Nero

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enova, la città della Storia in Piazza, portata nelle stanze superbe di Palazzo Ducale, si dischiude nelle sue strutture museali, nei suoi spazi sacri e profani, di massa e d’élite, per accogliere la disseminata retrospettiva delle opere di Aldo Mondino (Torino,1938 -Torino, 2005), a undici anni dalla scomparsa, artista connotato da un immaginario creativamente nomade, mentalmente aperto agli sconfinamenti di ordine linguistico, stilistico, percettivo, sensoriale, spaziotemporale. L’imponente, urbanisticamente articolata rassegna, è a cura di Ilaria Bonacossa, l’Archivio Aldo Mondino e il Palazzo della Meridiana. Innesca stimolanti interrogativi il fatto che sia proprio Genova a divenire terreno di apertura e affondo conoscitivo dell’opus quarantennale di una figura artistica forte di Torino, la città in cui, ieri, era Gianni Vattimo a teorizzare il Pensiero Debole e oggi è Maurizio Ferraris a ipotizzare il ritorno di un Pensiero Forte, in sintonia con un Alain Badiou che muove alla Ricerca del reale perduto. E qui diventa un quesito aperto anche la collocazione critica di Aldo Mondino in un terreno Postmoderno in cui i grandi metaracconti imboccherebbero una strada con divieto di accesso. Una riflessione, configurata a chiasmo, è quella per cui l’Arte Povera, ideata e teorizzata da Germano Celant a Genova, abbia trovato, fatalmente, proprio a Torino il suo terreno rizomaticamente più consono. Sfidando dall’Europa Andy Warhol, Aldo Mondino, artista, sembra rapportarsi direttamente a un’iconografia pop deprivata, però, tramite il suo caldo, soggettivo, intervento manuale, della serialità fredda e anonima dei mezzi di riproduzione di massa. Il suo humour, la sua temperie concettuale, familiarizza maggiormente con il New Dada di Jasper Johns e di Rauschenberg che con le appropriazioni selvagge del Trans e del Postmodern.Questa retrospettiva di Aldo Mondino non poteva trovare momento più congeniale dell’anno in cui l’Europa celebra il centenario dalla nascita, nel 1916 al Cabaret Voltaire di Zurigo, del movimento Dada. In uno straordinario testo per la XLV.Biennale di Venezia del 1993, firmata Achille Bonito Oliva, Duccio Trombadori parla , a proposito delle soluzioni escogitate da questo indubbio esponente di una Neo-avanguardia vissuta in leggerezza, di un Dadaismo ora euforico ora inquieto, di un ottimismo triste e di un pessimismo allegro. Sintomatiche sono anche amicizie come quella con Alighiero Boetti, torinese trapiantato a Roma, a cui

Aldo Mondino, Delicatessen

è dedicato il trittico in mostra Essaouira, del 1994, ma anche, a Genova, con Anna e Martino Oberto, che ne rilevano, a suo tempo, lo studio di via Giulia a Roma, in cui aveva composto i dodici King, suo inquietante alter ego di pittore ritratto iteratamente in un momento ideale della luce del giorno, opera immancabilmente presente a Villa Croce. Quando Aldo Mondino realizza le sue incursioni, dolci o ruvide, in opere del passato (Casorati, Delacroix, Fortuny, Matisse, Renoir, Degas, Picasso, Giacometti, Capogrossi), da un versante si misura con la loro dimensione mitica, senza intenzione dissa-

Aldo Mondino dipinge l’opera San Giorgio “Faust sur la ville” - Photocredit: Fabrizio Garghetti

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Aldo Mondino, mentre dipinge …

cratoria, su un altro versante le trascrive in segno (come faceva Jasper Johns con le sue bandiere americane), deprivandole di quell’aura che impedirebbe di immetterle, intenzionalmente questa volta, in un nuovo contesto, nel suo universo. Si ritrovano nelle opere anni Sessanta/Settanta, esposte al Museo di Villa Croce, dispositivi concettuali rinvianti alle macchine celibi duchampiane, sconfinamenti della pittura oltre il perimetro del quadro nei Senza Titolo dei palloncini colorati di lattice, inganni percettivi indotti dalla piscina di marshmallows, dai cioccolatini Peyrano su tavola di The Byzantine World, divenuti, con le loro carte colorate, applicazioni decorative di moschee o sinagoghe medio-orientali. Contrapposte a sculture in bronzo, vetro, ceramica e legno, opere di zucchero, tappeti di caffè, sculture di cioccolato, mosaici di dolciumi, lampadari di penne Bic, che, nel tempo, possono, anche squagliarsi o andare in degrado, sono una sfida alla perennità dell’opera. Non così lontano da un certo Nouveau Réalisme restaniano, Mondino prende le distanze dal tecnologismo, si lascia attrarre sensualmente dai segreti e dalle trappole della materia. Decisamente innovativo è il suo ricorso a materiali extra-artistici, industriali, come il linoleum Alhambra, l’eraclite, il plexiglass. A livello verbale, scritturale, associativo, visuale (ritratto/autoritratto Mon Dine), il suo gusto dell’esotismo si accompagna a quello dell’infantile, del ludico, del desiderio golosamente irrefrenabile. Dopo aver alimentato creativamente il suo ego in Occidente, comincia a sgretolarlo nelle sue divagazioni e meditazioni in Estremo Oriente. In Turchia, in Palestina, ricerca le tracce del nonno sefardita. Amante degli estremi come il rosso-sangue delle corride, la competizione del Palio di Siena, non esita ad entrare in un’aura mistico-sacrale quando dipinge le sue danze dervisce. La collezione di autografi, esposta a Villa Croce, in una stanza-tempietto tinteggiata di rosso, ricostruisce il tessuto connettivo dei suoi interessi, dei suoi miti, della sua ricerca di un segno che identifichi quel soggetto ineffabile, quell’ oggetto inafferrabile, circondato da mistero, fascino, desiderio, che non cessa di emozionarlo. Si possono ritrovare, in certi andamenti figurali e abbandoni erotici del suo disegno pittorico, del suo immaginario, ma anche nella sua ricercatezza nel vestire, nei suoi eccessi esistenziali e comportamentali, affioramenti e consonanze con figure come Georges Bataille e Pierre Klossowski, pensabilmente assimilate e condivise nei suoi anni parigini, come, a titolo di esempio, si percepisce nell’opera

di zuccheri e coloranti su carta velina intelata, significativamente denominata Delicatessen, del 1972, in cui verbalità, sensorialità ed eros giocano i loro inarrivabili effetti speciali. La sua opera è quel Diamante Nero (è così che Balthus definisce l’arte del fratello Pierre), dai riflessi cangianti, che non cessa di richiedere la complicità dell’osservatore, ma anche di condividerne senso e nonsenso, seduzione e provocazione. Ora mistico ora dissacrante, ora ludico ora irridente, Aldo Mondino resta una figura carismatica della storia dell’arte internazionale. Viana Conti

Aldo Mondino davanti all’opera Mon Dine Photocredit: Fabrizio Garghetti ©Archivio Aldo Mondino

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Nari Ward, Wishing Arena, 2013 cestini di plastica, legno, lumini, lattine, 462 x 344 x 158 cm Courtesy AGIVERONA Collection, GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Veduta Pellegrinaio, Santa Maria della Scala, Siena. PH. Michele Alberto Sereni

Luoghi storici, Siena

Adrian Paci, Home to go, 2012, polvere di marmo e resina, corda, tegole, legno, 165 x 90 x 120 cm. Veduta Pellegrinaio, Santa Maria della Scala, Siena Courtesy AGIVERONA Collection, Galleria Kaufmann Repetto, Milano PH. Michele Alberto Sereni

AGIVERONA COLLECTION

presidente di AGIVERONA Collection e figura tra le più preziose e significative nel panorama artistico di oggi. Dopo un’iniziale frequentazione di gallerie, dedicata alla conoscenza dei maestri contemporanei, tra cui Giuseppe Capogrossi e Lucio Fontana e con incontri illuminanti, Fasol dal 1980 acquisisce in gran parte opere nel periodo in cui sono realizzate, periodo che talora coincide con la fase aurorale degli artisti. Egli mostra passione e intelligenza, investendo in lavori che nel tempo evidenziano lungimiranza nelle scelte, capacità di riconoscimento del valore ed una prospettiva culturale che privilegia appunto il vero: per questo il dialogo con la storia senese, e con le sue memorie in senso lato, diventa quanto mai intenso ed eloquente. AGIVERONA Collection è una associazione nata negli anni Sessanta e come già detto, dagli Ottanta impegnata nella scoperta dell’opera di giovani artisti, selezionati nel contesto internazionale. La Collezione comprende un ingente numero di opere, che vanno dalla performance alla installazione anche sonora, dalla video arte fino al disegno, espressione dei vari linguaggi attuali. Ha inoltre come obiettivo la promozione e il sostegno a progetti di arte contemporanea, nonché l’intenzione di condividere cultura e immagini. Proprio quest’ultimo obiettivo è fondante gli intenti di AGIVERONA Collection, come asserisce Fasol stesso: “Ho una inesauribile sete di confrontarmi. Questa è l’ennesima sfida per me, così come lo è - per esempio - il momento dell’ac-

Sandro Chia, Paesaggio con figura femminile, olio su tela, 160x130cm 2013-2014

CIAC Foligno

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he il vero possa confutare il falso” è un verso del De rerum Natura di Lucrezio che titola la mostra dedicata a AGIVERONA Collection, a cura di Luigi Fassi e Alberto Salvadori, con un’ampia selezione di opere allestite in luoghi storici della città di Siena: il Palazzo Pubblico, l’ex ospedale di Santa Maria della Scala e l’Accademia dei Fisiocritici. L’idea di una ragione laica, fondamentale strumento di conoscenza del reale e della storia umana, è il leitmotiv che sottende tutto il percorso espositivo, nel quale l’arte contemporanea a suo modo è assimilata alle varie forme di indagine scientifica in quanto elemento fondamentale della produzione di cultura e di comprensione del mondo. Nello stesso tempo la mostra che coinvolge oltre quaranta artisti intesse un dialogo vivo con la storia senese e con le opere di maestri quali, fra gli altri, Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini; coniuga, inoltre,memoria e attualità, passione e conoscenza, come caratteristiche portanti di una cultura che si sviluppa nel confronto e in cui lo spettatore stesso è protagonista. “Ignoranza, Consapevolezza, Ricerca sono le tre fasi che caratterizzano il mio percorso e la mia crescita da collezionista”, afferma Giorgio Fasol,

Sandro CHIA

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on smette mai di affascinare l’opera di Sandro Chia, che in un complesso e articolato percorso di mostra organizzato al CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea, con oltre 50 opere, mette in scena la sua produzione, partendo da 11 grandi tele composte fra il 1998 e il 2003 (prestate dalla Galleria Mazzoli di Modena), seguite da un nucleo di 10 tele di recente realizzazione, cui si affiancano una ventina di opere su carta, originate dalla sua incredibile mano fra il 2012 e 2014. La proposta curatoriale di Italo Tomassoni, fa scivolare lo sguardo dalle grandi figure umane, tipicissime di Chia e del periodo a cavallo del nuovo Millennio, a quelle di uomini e donne, che appaiono gioiosamente espressive nelle tele più recenti. Un passaggio non solo formale ma anche cromatico. Si passa, infatti, dai colorati fondi di pattern geometrici e dall’inconfondibile pennellata corposa, a quelli dominati dagli azzurri, dai verdi e dai blu, e paesaggi delicati e poetici. Le carte, invece, rispetto alla pittura, mostrano un Sandro Chia più libero e disinvolto nell’utilizzo simultaneo di tecniche che mescola senza timore, giungendo in tal modo ai medesimi risultati espressivi. Un segno spesso ammorbidito dalla presenza d’inchiostri e acquerelli che tuttavia non stemperano la veemenza espressiva di tali fogli. In tutto questo, c’è la costante del tema del viandante. Afferma lo stesso Chia: «L’immagine di un viandante è il mio tema preferito, una figura che incede tra cielo e terra, contornato dal paesaggio, possibilmente accompagnato da animali domestici. Il viandante è per me il tema più fecondo, più ricco di conseguenze pittoriche ed ideali». E ancora: «In fondo dipingere

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Vedute della mostra, Santa Maria della Scala, Siena Courtesy AGIVERONA Collection. PH. Michele Alberto Sereni

Vanessa Safavi, Each Color is a Gift for You, 2012 Installazione con 17 uccelli in tassidermia, dimensioni variabili Veduta Accademia dei Fisiocritici, Siena Courtesy AGIVERONA, Galerie Chert, Berlin. PH. Michele Alberto Sereni

quisizione di un giovane artista”. In tal senso l’opera di Fasol è espressione di “mecenatismo diffuso”, centrata sulla promozione del lavoro dei giovani artisti e sulla produzione culturale. La mostra dunque, scaturita anche dal determinante progetto ITINERA, ideato dalle Associazioni FuoriCampo e Culturing, assieme ad altre qualificanti collaborazioni e sinergie, quali il Comune di Siena e l’Associazione Amplificatore Culturale, esplica nell’iter espositivo una prospettiva culturale raffinata, che si alimenta nello scambio e nel dialogo; nel contempo presenta opere significative, “narrazioni” private degli artisti che interagiscono con le “narrazioni” pubbliche delle sedi in cui le opere sono collocate. I lavori presentati suggeriscono una molteplicità di sensi, evocati dai linguaggi e dai contesti culturali di provenienza degli autori, in un viaggio affascinante all’interno di luoghi cittadini stupendi e in rapporto con questi. A Santa Maria della Scala, fra gli altri, Rodrigo Hernandez riporta alla cultura sudamericana ed alla relazione fra uomo e natura; Adrian Paci con le sue sculture riflette sulla condizione di sradicamento e di migrazione dai luoghi d’origine; Kader Attia ripropone con la sua video installazione momenti della storia algerina, suo paese; Berlinde De Bruyckere presenta una scultura dai caratteri particolari, in riferimento alla natura umana e animale; Eugenia Vanni espone un’opera che è insieme pittura, scultura e piedistallo e che riflette sul tempo. All’Accademia dei Fisiocritici, fra gli altri, Luca Trevisani, Christiane Löhr, Vanessa Safavi, in una perfetta osmosi con le varie sezioni ospitate di botanica, anatomia e zoologia, presentano i loro lavori. Infine al Museo Civico prima sede espositiva, l’installazione sonora di Susan Philipsz è fortemente evocativa, mentre nella Sala del Mappamondo i lavori di Mario Garcia Torres e di Christian Manuel Zanon entrano in rapporto con le opere dei maestri, in un filo invisibile di “continuità” dell’arte tutta, presente e passata. Rita Olivieri Berlinde De Bruyckere, Animal, 2003, coperte, lana, legno, 135 x 75 x 152 cm Courtesy AGIVERONA Collection, GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Veduta Sagrestia Vecchia, Santa Maria della Scala, Siena PH. Michele Alberto Sereni

significa questo, significa pedinare a distanza un soggetto, braccare un’immagine, seguirne le tracce, scoprire le tracce, cancellare le tracce. Significa dimenticare se stessi nel paesaggio del quadro appena abbozzato, diventare lo specchio dell’immagine e quasi per caso, inavvertitamente, entrare nel quadro. Pochi passi dentro il quadro e il quadro diventa il teatro dell’auto seduzione, pochi passi dentro il quadro e il quadro si trasforma in autoritratto. Ancora un passo o due e si esce dal quadro lasciandovi l’immagine, l’ombra, il corpo astrale». Un’idea, questa del viandante che poeticamente si lega a quella del pastore errante leopardiano, tanto da lasciar immaginare che, Chia come lui, nel suo attraversare l’arte sembra annotarla, così la vita, volgendo il proprio sguardo al mondo, sovrastato dalla misteriosa vastità di ciò che lo circonda. Un processo che, come spiega Tomassoni, concepisce la pittura contemporanea come l’occasione per un richiamo organico all’idea del rappresentare, pensiero che contraddice la frammentarietà e la schizofrenia sperimentale del post moderno, un organico riemerso già all’inizio degli anni’70, quando Chia percepì la necessità di ricollegare il proprio linguaggio figurativo alle fonti iconografiche di quel Novecento. «Sandro Chia opera su un ventaglio di stili, sempre sostenuto da una perizia tecnica e da un’idea dell’arte che cerca dentro di sé i motivi della propria esistenza – scrive Achille Bonito Oliva, profondo conoscitore dell’artista – tali motivi consistono nel piacere di una pittura finalmente sottratta alla tirannia della novità e anzi affidata alla capacità di utilizzare diverse “maniere” per arrivare alla immagine. I punti di riferimento sono innumerevoli, senza esclusione alcuna, da Chagall a Picasso, da Cèzanne a De Chirico, da Carrà futurista a Carrà metafisico e novecentista». (a cura di Maria Letizia Paiato)

Sandro Chia, Ritratto Enzo, 
olio su tela, 150 x 120 cm Courtesy Galleria Mazzoli, Modena, 2001

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Museo d’Arte Mendrisio

Per KIRKBEY

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agli anni Sessanta a oggi, Per Kirkeby si è imposto sulla scena internazionale come figura di riferimento della moderna arte scandinava e pietra angolare per molti giovani che hanno guardato e guardano alla sua opera come ispirazione alla propria. Originario di Copenaghen, classe 1938, Per Kirkeby si forma nell’ambito della geologia artica, affascinato dai luoghi dove cresce e dove il senso dell’infinito si perde a vista d’occhio. Studi che lo portano a impegnative spedizioni in Groenlandia, al Circolo polare artico e anche in America centrale e che contestualmente, fanno crescere in lui un senso di avventura traslato poi al piano dell’arte. Quello spazio illimitato che offre la natura, idealmente si trasferisce nel suo rapporto con l’ambiente architettonico del Geologisk Museum di Copenaghen, nella decorazione dell’atrio e dello scalone d’ingresso, nel cortile d’entrata, dove un frammento di meteorite, portato dalla Groenlandia al termine di una spedizione, costituisce il centro dell’opera. Dunque geologo ma anche poeta e letterato, dal 1962 in poi, si fa più chiaro il suo rapporto con l’arte, partecipando ad azioni performative e realizzando una serie di sculture, la cui ricerca culmina nel 19996 con la nota scultura, opera ambientale e architettonica in mattoncini rossi, posizionata davanti alla Deutsche Nationalbibliothek di Francoforte, connotante la ricerca dell’ultimo ventennio. Eclettico, trasversale e amante di differenti discipline, da regista di film, finanche a una collaborazione con Lars von Trier negli anni Novanta, alla partecipazione alla Biennale di Venezia nel ’76 e poi con una personale nel ’93, fino a quelle di Documenta e poi ancora, nei panni di costumista e scenografo per il New York City Ballet e Teatro Reale di Copenaghen, Per Kirkeby passa con disinvoltura da una disciplina all’altra, lasciando su ognuna di esse la propria particolare impronta poetica. Quella di Mendrisio è la prima importante retrospettiva della Svizzera italiana, un’esposizione che ripercorre l’affascinate carriera dell’artista, della favolosa città narrata da Andersen. È una mostra che va al cuore della sua produzione, attraverso un ricco nucleo di opere: 33 tele di grandi dimensioni, 30 lavori su carta, 6 sculture, di cui una di diZurigo

MANIFESTA 11

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he Lascaux Biennal was better”. La frase che si scambiano due cavernicoli durante un vernissage preistorico - in una delle grandi vignette bianco/ nero che Pablo Helguera ha disseminato alle pareti d’accesso dei tre piani del Lowenbraukunst di Zurigo – con la sua critica divertente sebbene poco graffiante al sistema dell’arte, assume un curioso valore di giudizio dell’intera Manifesta 2016. Era meglio la biennale di Lascaux. E, per quanto ingessata dall’ombra del regime, era meglio la scorsa edizione a San Pietroburgo di questa rassegna politically correct, ordinata, pulita e organizzata ma senza guizzi. Effetto forse di un involontario genius loci, riflesso incondizionato di una città ordinata, pulita e organizzata come la capitale finanziaria della svizzera. Bella e sostenibile, con i suoi parchi, il suo lago, e le sue montagne. Una città in cui sembra sia sempre domenica per la scarsità di traffico come conseguenza dell’efficienza dei trasporti. Dove il benessere diffuso è ben tangibile, la qualità di vita, stando agli indicatori, altissima. Eppure… Una certa sensazione di piattezza, di monotonia che soffoca l’imprevedibilità delle relazioni umane sotto la superficie dell’osservanza rigorosa delle regole, comunica qui la sensazione che, pur bellissima, Zurigo non sia poi un luogo troppo stimolante in cui vivere sempre. La 11° Manifesta sembra un po’ aver assorbito questi limiti. Sulla carta nulla da eccepire. La scelta del tema del lavoro proposta dal curatore, l’artista tedesco Christian Jankowski, sembra opportuna per una nazione che ha fatto del pacifico business il suo punto di forza. “What people do for money”, come recita il titolo, non apre però reali scenari di interazione. I trenta artisti invitati a creare una join venture con uno dei lavoratori scelti in una rosa di 1000 professionisti cittadini sembrerebbero aver svolto con coscienza il compitino, senza mettersi realmente in discussione. Né basta l’ennesima genialata del nostro Cattelan, che ha fatto camminare sulle acque in carrozzella l’atleta paraolimpica Edith Wolf-Hunkeler. Tanto meno colpisce, se non per l’inevitabile battage pubblicitario e per l’insopportabile tanfo che pervade la stanza, la minimale e monumentale installazione di merda compressa di Mike Bouchet, ottenuta come ormai fin troppo noto trattando 80.000 tonnellate di escrementi prodotti dai zurighesi in un sol giorno. Piuttosto tra li “New Works” dislocati nelle due principali sedi espositive del citato Lowenbraukunst e dell’ Helmhaus, emergono proposte divertenti come i congegni cinetici che utilizzano meccanismi di precisione di Jon Kessler, in collaborazione con l’orologiaio Adriano Toninelli; spettacolari come l’ “Eternal garden” ideato da Eugeny Antufiev con un pastore protestane; o di denuncia, come il video di Teresa Margolles sulle violenze contro alcune prostitute transessuali… Sacrificate da un allestimento piatto, sono invece in generale le opere di repertorio della sezione “The Historical exhibition: sites under 40 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Per Kirkeby, Senza titolo (Groenlandia), gouache su carta, 2011, 21 x 28 cm, Bo Bjerggaard Galerie, Copenaghen, 2011

mensioni monumentali, un iter espositivo capace di riassumere la sua ecletticità di artista e di uomo. Tuttavia, la scelta curatoriale privilegia i dipinti di grande formati a soggetto paesaggistico che, nella loro visionarietà, tradiscono l’esperienza creatasi durante i suoi incredibili viaggi. Una visionarietà che guarda ai grandi interpreti della pittura del passato, da Turner, a Friedrich, a Delacroix, a Cézanne, a Rodin, a Munch, a Schwitters, a Jorn, e dove l’idea del peregrinare alla ricerca del contatto con la natura, emerge con una forza senza pari. Sebbene, nell’attraversare l’arte minimalista, Fluxus, fino a toccare le corde della Pop Art, poi l’Informale e una conseguente tendenza nel suo fare pittorico alla “matericità”, il legame con la natura non è mai tradito, e sempre trasmettono quel senso di meraviglia e stupore diventato a fine Ottocento vero e proprio manifesto del Grand Tour. Da sempre scopritore di mete esotiche e difficili da raggiungere, così nel campo dell’arte, Per Kirkeby non si sottrae al richiamo della sperimentazione. Fino al 29 gennaio 2017. n construction” , co-curata con Francesca Gavin. Spesso pleonastica, nel suo programmato tour de force, risulta inoltre “la caccia al tesoro senza tesoro” (copyright Ludovico Pratesi su Exibart) nelle sedi “satelliti”, ossia le sedi dei partners quali negozi e ospedali, uffici e ristoranti…Molta fatica per vedere poco e a volte nulla. Meglio godersi un pò di relax nel Pavillion de Reflection costruito appositamente sul lago. In una sorta di mini teatro con schermo gigante è possibile guardare anche a tarda ora la serie di documentari con i trenta artisti in mostra che raccontano il processo di realizzazione dei loro progetti. A tratti noioso ma spesso illuminante, e in un caso particolarmente arguto: Georgia Sagri ha infatti rifiutato di recitare se stessa senza il riconoscimento anche economico del suo ruolo di attrice, e ha filmato tutte le difficili e talvolta surreali trattative con lo staff di Manifesta per negoziare un compromesso. Mettendo così in luce più di tutti gli altri le contraddizioni delle relazioni di potere non solo del mondo artistico ma anche, pienamente sul pezzo, nelle dinamiche professionali. Antonella Marino


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

PAV (Parco Arte Vivente), Torino

WILD ENERGIES Persone in movimento

a cura di Marco Scotini a cultura è la capacità di porsi domande fondamentali e l’arte è lo strumento per cambiare la cultura attraverso gli oggetti relazionali, si legge in una delle celebri Notes on Participatory Design di Marjetica Potrč. Le Notes sono disegni che riportano intuizioni, processi, relazioni su fogli di carta. Cercano di rispondere alla domanda generale sul senso delle pratiche partecipative improntate alle comunità. Dobbiamo immaginarle, infatti, come tracce di un processo di comprensione, inaugurato nel 2011 dall’artista con la sua classe di Design for the Living World dell’Accademia di Amburgo. Una classe in cui il pensare è una tecnica e una pratica collettiva che conferisce forma alle cose e per questo si articola in modo scritto, attraverso il disegno. Le riflessioni dell’artista slovena sul metodo di relazione con il mondo ci restituiscono una visione intrinsecamente in mutamento dei rapporti ecologici e politici, toccando tra i problemi più spinosi nell’analisi delle pratiche contemporanee. Proprio per questo, leggendo le note, viene spontaneo interrogarsi sugli impegni pratici e ontologici che Marjetica Potrč prende nei confronti di categorie come il design partecipativo, l’oggetto relazionale, le pratiche community based e l’architettura sociale. Che cosa sono questi oggetti relazionali che il design partecipativo dovrebbe produrre per generare il cambiamento dell’architettura sociale di una comunità? Se il design partecipativo è innanzitutto una pratica di progettazione e realizzazione del cambiamento di una comunità, bisogna che non ricada in una certa retorica autoreferenziale. Come scrive, Keti Chukhrov in On the False Democracy of Contemporary Art , mutuando il pensiero di Adorno e Burger, l’arte non può affermare il suo potenziale di agentività politica se non porta una radicale trasformazione; ma non si può neanche correre il rischio di leggere ingenuamente il cambiamento come evoluzione. Il design partecipativo deve così essere un processo dialettico di ri-semantizzazione dello spazio che comincia dallo spostare l’attenzione dal “noi” di partenza, costituito dall’artista e dalla sua classe, per concentrarsi sul “voi” della comunità, dissolvendo questa dicotomia in un “noi” temporaneo che diventa soggetto politico dell’esperienza di trasformazione. Gli oggetti relazionali sono strumenti di cambiamento del reale che possono essere prodotti solo da questo tipo peculiare di collettività in parte residente e in parte nomade. “Questo non è il nostro progetto, è il vostro progetto”, dicono gli studenti della classe di Design for the Living World appena cominciano a lavorare con una comunità. Il “voi” di partenza non è né il voi etnografico dell’antropologo, né quello speculativo del teorico, né quello sperimentale del sociologo, né quello dell’artista in cerca di ispirazione, né quello gestionale degli apparati governativi, ma è “il voi” dell’apprendista. In accordo con quello che i pionieri contemporanei dell’antropologia ci insegnano, solo l’apprendista può comprendere attraverso l’apprendimento di una pratica in che cosa sono incorporati i valori di una comunità. Solo producendo nuovi strumenti insieme si può cambiare l’ecologia politica delle cose, come emerge dalla Storia di Ubuntu Park, esposta al Pav (Parco Arte Vivente), dove attraverso una serie di disegni si ricostruisce l’esperienza di Soweto del 2014 a l’artista e la sua classe hanno lavorato per la trasformazione di uno spazio pubblico della città. Nel libro The Soweto Project vengono analizzati e documentati i tratti caratteristici della metodologia che è stata portata avanti in questo progetto. Aneddoti, pratiche e interpretazioni percorrono l’approccio di design partecipativo, all’oggetto relazionale, all’accordo, alla performatività, alla costruzione di una comunità resiliente e all’impostazione di un lavoro collettivo. Dopo tutti questi passaggi necessari, arriviamo finalmente al titolo della mostra: Wild Energies. Persone in movimento. In questa

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occasione, Marjetica Potrč collabora con Marguerite Kahrl. Non a caso il progetto nasce a partire da una delle precedenti mostre curate da Marco Scotini al PAV: Vegetation As Political Agent, nella quale Marjetica Potrč aveva presentato la pubblicazione di The Soweto Project. Se in quell’occasione si indagava il potenziale politico delle pratiche di resistenza connesse alla vegetazione, in Wild Energies realizziamo che le pratiche fondate sulle comunità funzioneranno solo se sapranno entrare in contatto con queste forze selvagge che contraddistinguono la natura umana e la sua relazione con l’ambiente. Il selvaggio in questione non è un mito delle origini, non è una visione estetizzata della natura, ma ciò a cui si può arrivare solo con un approccio dove l’estetico arriva a coincidere con il politico. E’ interessante notare come il wall painting all’ingresso del PAV, che rappresenta una donna di Soweto, metta in evidenza come ogni esperienza di lavoro con lo spazio pubblico debba cominciare con un trauma. Il trauma ci mette davanti a un’esperienza estetica in cui i nostri schemi concettuali e sensibili non sono più sufficienti ad affrontare il reale. È l’esperienza del sublime di cui parlava Kant all’interno della Critica del giudizio. Solo se l’arte saprà affrontare questa esperienza che le categorie dell’intelletto, i giudizi morali e i giudizi di gusto non riescono ad afferrare, allora potrà costruire un’esperienza in grado di trasformare la realtà in modo artisticamente rilevante e non riducibile ad altre forme di intervento. Il processo di cambiamento si inserisce all’interno di forme archetipiche che ridefiniscono la vita attraverso riti, assemblee, assegnando nuovi nomi alle cose. Marguerite Kahrl sceglie, infatti, di lavorare nell’ex villaggio olimpico vicino al PAV, una zona particolarmente significativa per Torino, ma soprattutto è una comunità di persone: Con MOI. Con MOI è un gruppo di circa 1100 migranti e non che vivono nel luogo da circa tre anni, sviluppando una piattaforma di food sharing e vari tipi di iniziative artistiche in cui disegni vengono scambiati con il materiale necessario. Sarda è uno dei rifugiati che vivono nel complesso e che ha ideato il logo della comunità. Disegna per fissare ricordi del Senegal e portare alla luce il desiderio di giustizia proprio come fa con la musica. Le sue opere vengono accolte nella mostra, proprio perché sono il più interessante specchio di uno spazio che dal trauma ha riassemblato il sociale in modo autonomo. Marguerite Kahrl ha lavorato con la comunità ad una timeline dell’ aggregazione dell’architettura sociale della comunità . Tuttavia, in The Malthusian Matter: the ecology of little invasions la serie di sculture in tessuto di canapa che ritraggono individui grotteschi che si ispirano ai Capricci di Goya, l’artista ci ricorda che la nostra relazione con l’altro vegetale, animale, umano che sia non è mai scevra da contraddizioni, paradossi e mostri. Il nostro volto è il primo spazio dove fronteggiare l’esperienza del trauma sociale, rompendo le dicotomie fittizie tra design personale e collettivo. Il primo luogo di participatory design è il nostro corpo inserito all’interno di un’ecologia politica delle cose ed è lì che vanno verificati i processi di trasformazione. n

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Galleria Santo Ficara, Firenze

Aurelio Amendola Dialoghi Silenziosi I ritratti di Aurelio, le scelte di Santo, le opere degli amici

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anto Ficara fa parte di quella generazione di galleristi, che, da circa quarant’anni ad oggi sceglie gli artisti non come produttori di guadagni stellari, ma come compagni di viaggio legati dallo stesso “sentire”, da quella scintilla che va oltre ogni convenzione. Ce lo dimostra ancora una volta con la rassegna (titolata “I ritratti di Aurelio, le scelte di Santo, le opere degli amici”) dedicata ai lavori fotografici di Aurelio Amendola, che, nel corso degli anni, ha avuto occasione di fare agli artisti che Santo ha amato e scelto come gallerista, mentre gli artisti stessi espongono, accanto al proprio ritratto, una loro opera, quasi a suggerire somiglianze rintracciabili. Si tratta di Carla Accardi, Roberto Barni, Enrico Castellani, Gianluigi Colin, Piero Dorazio, Marcello Jori, Luigi Mainolfi, Aldo Mondino, Luigi

Aurelio Amendola, Enrico Catellani, Velleno 1970.

Carla Accardi, Memoria Verdeblu, 2008. Vinilico su tela cm.60X80 Aurelio Amendola, Piero Dorazio,Todi 1980.

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Aurelio Amendola, Carla Accardi, Roma 1985. Piero Dorazio, Agonas II, 2001. Olio su tela cm.60X40


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Enrico Castellani, Superficie bianca, 2006. Tela estroflessa cm.80X80.

Ontani, Pino Pinelli, Roberto Pietrosanti, Antonella Zazzera. Un’operazione che non è né di nostalgia né di rimpianto, ma di orgoglio per qualcosa fatta con amore. Nel testo in catalogo così esordisce il curatore Marco Meneguzzo: “L’arte oggi è un business. Per questo rimpiangiamo quando non lo era. Intendiamoci: a tutti, - artisti, galleristi, collezionisti e critici – piace e piaceva il denaro guadagnato con l’arte, ma come strumento, non come fine. In questo senso, solo pochi decenni, pochi anni fa, il mondo dell’arte appariva diverso, e più gentile, più divertente, più solidale (!), più vero di oggi, per una sola condizione: si aveva la sensazione di essere tutti sulla stessa barca, neppure tanto grande e sempre in procinto di imbarcare acqua, per cui il salvataggio di uno coincideva di necessità col salva-

taggio di tutti. Si parlava, ci si incontrava, si mangiava – e soprattutto si beveva – insieme, se non altro perché di tempo libero ce n’era, anche per litigare. Paradossalmente, questa sorta di “flanerie” ha prodotto grandi pensieri, grandi utopie e grandissime opere, non essendo il sistema troppo legato a ferree leggi di domanda e di offerta. L’artista non era un semplice produttore di opere (ripagato oggi con qualche atteggiamento da star, e con molti soldi), il gallerista non era un impresario più o meno fortunato, il critico un abile imbonitore, e il collezionista un “utente finale”, in un certo senso obbligato a possedere certe opere e soprattutto certi nomi per non uscire dal “giretto giusto” internazionale…” (Dall’8 ottobre al 19 novembre 2016) L.S.

Aurelio Amendola è nato a Pistoia e fin dai suoi esordi ha avuto stretti rapporti con gli artisti suoi contemporanei, con lo scopo non solo di ritrarli, ma anche di interpretare il “frutto” dei loro lavori, unendo al valore testimoniale degli scatti, la proprietà individuale del linguaggio. Mitici e sorprendenti sono tra i numerosi ritratti quelli di Burri, Fontana, Emilio Vedova, Kounellis, Nitsch, Ceroli, fino ai più giovani Enzo Cucchi, Marcello Jori, e tantissimi altri In questa mostra proposta a Firenze dalla Galleria di Santo Ficara. Il suo spirito indagatore lo ha portato a raggiungere un traguardo insuperato e insuperabile con le fotografie della “Scultura del Rinascimento” e in particolare dell’opera di Michelangelo. Tutto il suo lavoro è l’attenzione di quanto sia ineludibile la relazione che lega l’arte alla fotografia.

Aurelio Amendola, Pino Pinelli, Milano 2016. Pino Pinelli

Aurelio Amendola, Aldo Mondino, Parigi 1972.

Aldo Mondino

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Arena studio d’arte, Verona

Nanda VIGO Nanda Vigo Light Project

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o Studio Arena di Verona ospita la mostra “Nanda Vigo Light Project”, a cura di Tommaso Trini con una selezione di opere storiche e recenti, che raccontano il lavoro dell’artista milanese dai primi anni Sessanta, quando avviò le proprie ricerche per la realizzazione dei “Cronotopi” relative alla sua ricerca sulla luce, che affrontano il rapporto spazio-tempo, luce-trasparenza. La mostra ripercorre la sua virtuosa parabola artistica attraverso i “Light Progression” (1993) che – come ha scritto in altra occasione Marco Meneguzzo - formalizzano una progressione della luce attraverso digradazioni di colore fino ai “Deep Space” degli anni 2000, che coniugano il cristallo e lo specchio che avvolge queste forme scultoree, creando l’arrangiamento sfumato che le circonda e generano un’impressione di immaterialità” Nel clima artistico milanese a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta c’è un fermento creativo alimentato da personalità complesse unite da un sentire rivolto al futuro. Tra queste spicca Nanda Vigo (1936), amica di Giò Ponti (col quale crea – tra il 1965 ed il 1968 “ la “casa sotto la foglia”), Ettore Sotsass, Lucio Fontana, Enrico Castellani e Piero Manzoni, che illuminavano la scena artistica del dopoguerra. In quel periodo tra i diversi viaggi per le mostre in tutta l’Europa, conosce gli artisti e i luoghi del movimento ZERO in Germania, Olanda e Francia. Nel Nanda Vigo, Lights Forever, exhibition view 2013

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1959 inizia la progettazione della ZERO House a Milano, terminata solo nel 1962. Nel 1965 cura la leggendaria mostra “ZERO avantgarde” nello studio di Lucio Fontana a Milano, con la partecipazione di ben 28 artisti. Nella sua complessa personalità di architetto, artista e designer si mescolano “tre anime” inscindibili, il cui fine è quello di “ottenere la distorsione percettiva dello spazio attraverso l’uso della luce”, protagonista della sua poetica, sostanza immateriale, che, nella percezione ottica dà forma agli ambienti e contribuisce ad aumentare la stimolazione concettuale. Questa linea di pensiero ha guidato tutta la sua ricerca artistica che è andata via via sviluppandosi su molteplici piani di indagine, che hanno coinvolto tanto ambienti interni quanto lo spazio pubblico che, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, è diventato luogo d’azione privilegiato, per la sua capacità di coinvolgere attivamente lo spettatore. Oggi, come in tutto l’arco della sua carriera, Nanda Vigo opera in un rapporto interdisciplinare tra arte, architettura, design e ambiente, ed è impegnata in molti progetti, in veste sia di architetto sia di designer e artista, in cui la sua ricerca incessante la spinge ad aprire nuove collaborazioni con personalità di rilievo del nostro tempo e portare avanti idee volte alla valorizzazione dell’arte, intesa nel suo senso più alto di coinvolgimento totale. Con una produzione artistica in continua evoluzione dagli anni Sessanta ad oggi, ha dato vita ad una molteplicità di opere, architetture, oggetti di design che hanno subìto una significativa “accelerazione” verso l’elaborazione di un rinnovato spirito critico che sembra essere giunto ad una sua piena maturazione, come se dagli esordi ad oggi si fosse chiuso il cerchio di un percorso di crescita personale. Ecco allora che, ab-


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nanda Vigo, Lights Forever, 2013. Alluminio, vetri stampati e neon blu

bandonati gli eccessi volutamente rimarcati in alcuni lavori tipici degli anni Ottanta, le sue opere recenti sembrano orientate verso una totale sintesi espressiva. Questa conquistata libertà viene trasferita nei suoi ultimi lavori dove la leggerezza e la disinvoltura si alternano alla più

rigorosa austerità, caratterizzata dall’impiego del cristallo nero con produzioni che si inscrivono in un’evoluzione della ricerca artistica che privilegia l’oggetto unico élitario, che suggerisce infiniti rimandi. n (a cura di L.S.)

Nanda Vigo, Body Part(0) – Diaframma, 1976-2013 Alluminio, vetri stampati e neon blu

Nanda Vigo, Diaframma, 1976- 2013 Alluminio, vetri stampati e neon blu, 42x42x20 cm.

Nanda Vigo, exhibition view, Arena studio d’arte, 2016

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Galleria Fumagalli Milano

Abstract painting and sculpture

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a Galleria Fumagalli di Bergamo, ha aperto a Milano con una mostra collettiva “A personal view of Abstract painting and sculpture” a cura di Hayden Dunbar. All’esposizione inaugurale dedicata a Enrico Castellani, Robert Mangold, Robert Morris e Kenneth Noland si associa l’attenzione per la linea analitica dell’arte moderna. Sebbene la loro ricerca presenti significative differenze, molti sono i punti di contatto nella poetica degli artisti di questa mostra, che ricorrono frequentemente a superfici monocrome e abbandonano i colori primari. Castellani predilige il bianco; Noland usa tutti i colori fuorché i primari; Mangold adotta i colori secondari e terziari, in tonalità pastello; Morris predilige

l’acciaio specchiante nelle sue sculture, il nero e il bianco e il grigio nei Feltri della prima produzione e in seguito i colori secondari. Sia in Castellani che in Mangold e Noland la pittura, detersa fino alle sue componenti strutturali, porta l’attenzione dello spettatore verso l’esterno, oltre i limiti della tela. Quattro stili unici per una rilettura di uno dei momenti più stimolanti della storia dell’arte del secondo dopoguerra. Lo spazio logico su cui si muove il fare moderno sulle strutture primarie è disegnato da due plasmi di riferimento concorrenti. Il primo, che risale al “modello del codice segno” e considera la comunicazione un processo di codifica e decodifica di informazioni di base. Essendo possibile stabilire una corrispondenza perfetta tra rappresentazioni interne (colori, geometrie mentali) e segnali esterni (colore, spazi enunciati), il codice può garantire l’identità tra le rappresentazioni interne di chi emette il messaggio e di chi lo riceve e comprende. È importante rilevare che la comprensione di uno spazio-messaggio è una reazione automatica al recepimento di un segnale, che non comporta il calcolo di processi inferenziali e non richiede nessuna realisticità. Per la forte influenza esercitata dalla tradizione formalista, il modello del codice ha rappresentato e rappresenta, la spiegazione standard in costruzione minimale. L’obiettivo critico del secondo modello, detto “modello inferenziale”, è rappresentato dalla tesi della corrispondenza perfetta tra segnale e rappresentazione. Come è facilmente sperimentabile nella comunicazione di tutti i giorni, non sempre è possibile riconoscere questa corrispondenza tra la codifica pittorica delle superfici ed il messaggio inteso dall’artefice: la comprensione richiede che il fruitore riconosca le intenzioni con cui l’artefice ha emesso il suo enunciato ed in funzione di ciò sia in grado di arricchire il messaggio linguisticamente codificato, giungendo ad una piena comprensione. Come accennato in apertura, l’ultima parte della “quadrilogia astratta” indaga le modalità in cui il dibattito appena presentato ha influenzato la visione del rapporto tra semantica e pragmatica della visualità e la concezione stessa dei quattro ambiti di ricerca. Gabriele Perretta

Jeff Elrod, Galleria Christian Stein 2016. Courtesy Artista e Galleria Christian Stein Milano. Foto Agostino Osio.

Galleria Christian Stein, Milano

Jeff ELROD

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a personale del texano Elrod presenta lavori di recente realizzazione che combinano analogico e digitale. Tele irreali di grandi dimensioni eseguite ad acrilico, pittura spray e stampa a getto d’inchiostro che trasportano disegni digitali in versione pittorica. Nel 1959 l’artista Brion Gysin e lo scienziato Ian Sommerville creano la dreamachine, una macchina splendente da contemplare a occhi chiusi che, sfruttando una determinata frequenza d’impulsi, crea l’illusione di percepire immagini nate, vissute e morte nel buio custodito dalla palpebra – un generatore di sogni. Jeff Elrod ne è molto colpito, alcune dalle sue digi-pitture nascono seguendo un principio simile a quello della dreamachine, un principio che potremmo chiamare “visione optometrica”. Sulle superfici compaiono sfocature digitali, imprecisioni virtuali, segmenti provenienti da chissà quale bitmap: non più il nostro mondo fantastico, ma quello del PC. Elrod dice di voler sondare la differenza tra l’immagine creata dal subconscio umano e quello della macchina, ma si potrebbe giungere a dire che Elrod sta già provando a mappare e rappresentare l’inconscio del computer. Alla base di tutto c’è quel che Elrod chiama “analog painting”, ovvero 46 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

una sfida su chi sia il più libero tra la mano, la mente, Illustrator e Photoshop. “Sono più libero, più sfrenato, meno interdetto e censurato, io uomo che disegno su un foglio di carta anelando di sfuggire ai miei pregiudizi e alle mie ossessioni? O è più libero lui, il computer, che ha sì leggi e limiti da rispettare, ma impersonali, meccanici, liberi dall’Io?” Elrod sceglie il subconscio del computer senza rinunciare al corpo materiale: prima disegna immagini su software, poi le disegna a mano o le stampa su tela. Non c’è dunque un atto di pensiero o una acquisizione della conoscenza alla “radice” dell’opera, quanto una forma concreta dell’esperienza, una pratica, un gesto, attraverso il quale proprio l’atto, quello della visione, assume una connotazione, una organizzazione interna che nessun’altra tecnologia del comunicare avrebbe consentito. Ecco, il PC del Novecento non è “apparso come un miracolo”, o “come Atena già armata dalla testa di Zeus”, come pure alcuni sembrerebbero disposti a credere: esso è sì una ’‘apparizione” improvvisa, ma è anche un “fiume carsico” le cui origini sono lontane e si ritrovano nella civiltà antica. Detto ancora in altri termini: avendo a disposizione un mondo esterno potenzialmente illimitato su cui “leggere/dipingere” segni e muoversi liberamente, la “mente” può strutturarsi come una macchina di Turing? Gabriele Perretta


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria Alfonso Artiaco, Napoli

Vera LUTTER

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cinque anni di distanza dal suo esordio napoletano (2011) Vera Lutter (Kaiserslautern, Germania, 1960, vive e lavora a New York) ritorna ad esporre presso Alfonso Artiaco, declinando questa volta più specificamente il suo lavoro in rapporto al territorio. Il medesimo metodo presiede, oggi come allora, alla realizzazione delle sue grandi foto - «Tutte le immagini», spiega l’artista stessa, «sono rese con la tecnica della camera oscura in cui una grande sala sostituisce la macchina fotografica. L’immagine è fatta direttamente su carta fotografica e conservata nella sua origine di negativo. Di conseguenza, ogni immagine è un pezzo unico che non può essere modificato o moltiplicato» -, così come il soggetto è sempre architettonico. Se però nel 2011 l’ambientazione è esclusivamente americana, in questa occasione alle foto delle meno recenti serie di New York e Venezia si vanno a sommare quelle dedicate ai templi di Atena e Nettuno che sorgono a Paestum, configurando l’autentica anima dell’intera esposizione. Antichissime rovine magnogreche appaiono pertanto interessate della medesima surreale trasfigurazione che la fotografa tedesca ha impartito a grattacieli o a grandi scritte luminose urbane così come a paesaggi alberati ed alle piramidi egizie. Sacro e profano, mito e realtà, idea e materia, illuminazione e tenebra, luogo e non luogo sembrano così attestarsi su di una sorta di impensata zona mediana, ove appunto nessuna delle due polarità appare in grado di prevalere, ma trovano una sorta di reciproco equilibrio. Da qui lo stesso spettatore parrebbe portato a procedere onde modulare la sua percezione conformemente alla polarità che i suoi desideri e le sue inclinazioni gli suggeriscono, inverando il celebre aforisma duchampiano secondo il quale «sono gli spettatori che fanno il quadro». Una lettura più precisa e pregnante risulterebbe tuttavia partendo dalle famose considerazioni benjaminiane sulla perdita dell’aura discendente dalla riproducibilità tecnica. Se infatti la fotografia è prodotto della scienza umana che riduce ad un unico principio il cielo e la terra – o almeno tale effetto suggerisce -, la Lutter opera un vero e proprio – letterale e metaforico – ribaltamento della logica scientifica, scegliendo di offrire il negativo laddove ci si attenderebbe il positivo. Quando i sistemi analogici erano ancora egemoni, spesso ai bambini non interessava osservare le fotografie sviluppate, perché le trovavano troppo simili a quanto possono sperimentare normalmente e dunque poco suscettibili di curiosità alcuna, mentre desideravano piuttosto vedere i negativi, perché evidentemente suggerivano loro dimensioni altre ed impensate, stimolavano maggiormente la loro fantasia, malgrado i genitori tendessero ad impedirglielo, coscienti che facilmente li avrebbero rovinati con i loro inquieti e disinibiti ditini. Allo stesso modo la fotografa tedesca scopre il valore di fuga dalla realtà immediata dell’inversione tra luce ed ombra e nel momento in cui pone sul-

lo stesso piano universi antitetici non li mette d’accordo se non adoperando quale minimo comune denominatore la controparte irrazionale della razionalità, quella parte che è il contrario di ciò che genera, eppure nessun generato sarebbe tale senza di essa, confermando il principio enunciato da Socrate nel platonico Fedone secondo il quale ogni principio è figlio del suo contrario. Questi gli ingredienti della sua compiuta, accorta mediazione. Stefano Taccone

Vera Lutter, exhibition view, 2016 courtesy Alfonso Artiaco Napoli. Foto: Luciano Romano

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Mimmo Rotella, installation view. Galleria Vistamare di Benedetta Spalletti. Photo Giorgio Benni. Courtesy ©Fondazione Mimmo Rotella

Galleria Vistamare, Pescara

Mimmo ROTELLA Anna FRANCESCHINI

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prassi consolidata di Vistamare, lo sviluppare progetti espositivi che mettano in dialogo l’opera di un maestro dell’arte del Novecento, o di un grande nome del panorama internazionale, con quella di un artista più giovane. Una consuetudine che premia il confronto fra ricerche diverse, che colma le distanze fra generazioni e accorcia quelle del tempo, mostrando, ogni volta, quell’invisibile linea che lega il passato al presente, spesso troncata dalle ‘necessarie’ categorizzazioni della storiografia. Tuttavia, in questa mostra, che vede accostati il lavoro di Mimmo Rotella e Anna Franceschini, diversamente dalle precedenti, il legame fra i due artisti non è propriamente testuale. Da un lato, abbiamo l’opera di Rotella, rappresentato con oltre 30 tele descrittive il suo percorso creativo, dai primi décollage fino a quelle più recenti, tutte visivamente impattanti e dal fascino immortale, dall’altro gli eterei ed impalpabili interventi di video-arte della Franceschini, tipicamente caratterizzati da atmosfere rarefatte ed enigmatiche. La suggestione che si crea, nel connubio fra ricerche e mezzi espressivi così diversi, e fra soggetti altrettanto differenti, se non addirittura contrastanti, è curiosamente persuasiva e probante. Di Mimmo Rotella, a catturare lo sguardo sono, in prima battuta, le magnetiche immagini delle dive del cinema anni ’50 e ’60, da Marylin Monroe a Sofia Loren, sensuali icone di un’epoca d’oro, per poi approdare a Elvis, il Re del Rock and Roll, e a tutto il mondo dello spettacolo impresso e pubblicizzato sui manifesti, a loro volta oggetti-icone della moderna comunicazione. Manifesti che strappa per ferire l’immagine, cui imprime tracce di anonime scritte, frasi simili a quelle che segnano i muri di molte metropoli, un agire, quello di Rotella, che crea la propria identità intorno al concetto di lacerazione della realtà urbana. Modus operandi e soggetto, pertanto, sono per Rotella un tutt’uno, nella misura in cui il gesto del sottrarre, del togliere, si sovrappone all’idea di appiattimento sotteso alla ripetizione mediale. Sono soprattutto questi i lavori che hanno reso Rotella noto in tutto il mondo, tuttavia a Vistamare ne sono presenti altri meno inflazionati dalla critica, realizzati sul finire degli anni Cinquanta e antecedenti i veri e propri “strappi”. Sono opere palesemente in debito con l’Informale materico, dove la pittura è protagonista, e sebbene particolarmente spessa e stratificata, essa è trattata ottenendo un incredibile e inatteso effetto di leggerezza. Sono pezzi più concettuali, di puro pensiero e meditazione sulla composizione e sugli strumenti del dipingere, arricchiti con innesti di carte e materiali estranei alla pittura, in sostanza quasi dei collage che mostrano un Rotella inedito e affatto scontato, ma soprattutto la fase di passaggio ai futuri décollage. Sono forse queste opere di Rotella, quelle che facilitano il dialogo con gli interventi video 48 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

di Anna Franceschini. Formatasi nell’ambito della produzione cinematografica ma nota per l’inusuale utilizzo che essa fa del mezzo video, Franceschini nei suoi lavori, tende costantemente a creare l’opportunità di osservare il mondo attraverso uno sguardo che non sia quello obbligato e prestabilito dei media. Libera da vincoli narrativi, l’artista punta tutto su effetti metaforici che catturano sia la psiche sia la sfera emotiva, muovendosi alternativamente fra soggetti figurativi o astratti. Nei lavori più astratti, c’è forse qualcosa che l’avvicina ai Rotella cui si accennava poco sopra, ovvero un gusto per il rarefatto e l’incorporeo, vero leitmotiv della sua ricerca. Nei suoi video, infatti, l’essere umano non è quasi mai presente, generando, tuttavia, il suo es-

Anna Franceschini, The Player May Not Change His Position, 2009 Video, Full HD, colour, sound, 17’. Photo Giorgio Benni. Anna Franceschini, Copacabana Palace, 2015 Video MiniDv HD, color - mute, 8’40’’. Photo Giorgio Benni.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Mimmo Rotella, Il bimbo, 1969. Décollage su tela, 100 x 140 cm. Photo Giorgio Benni. Courtesy ©Fondazione Mimmo Rotella

serci nell’assenza. Tende, inoltre, a isolare continuamente degli elementi, a posare lo sguardo su qualcosa d’inusuale, se non addirittura a fare riprese immedesimandosi nell’ipotetico punto di vista di oggetti, palazzi e/o luoghi, e per l’appunto, come già detto, proponendo a chi guarda improbabili visioni, giocate a loro volta su ripetitivi movimenti orizzontali e verticali. La sua scena non è mai fissa. La sua scena non è una scena ma uno spazio che l’artista esplora inseguendo le tracce dell’umanità. Nell’idea di segno, di frammento della realtà, in questo togliere continuo, i due artisti, così lontani e distanti nel tempo, così impossibili da immaginare insieme, appaiono forse più vicini. Maria Letizia Paiato Mimmo Rotella, Americano, 1967 tela emulsionata, 101 x 140 cm. Photo Giorgio Benni. Courtesy ©Fondazione Mimmo Rotella

Galleria Verolino, Modena

Bertozzi & Casoni

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ersonale di Bertozzi & Casoni “Il capitale umano. Tra consolazioni e desolazioni”. alla Galleria Antonio Verolino. La mostra, curata da Franco Bertoni, critico d’arte ed esperto di ceramica del Novecento, è stata inserita nell’ambito del programma del festivalfilosofia di Modena (16-18 settembre 2016). Partendo dal tema della manifestazione, l’agonismo, l’esposizione è stata sviluppata a partire da Polar Bear, una installazione raffigurante un gigantesco orso bianco che i maestri della ceramica Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni hanno immaginato ingabbiato, prigioniero e a rischio di estinzione a causa dei mutamenti determinati dalle attività umane. Attorno a questa figura emblematica della lotta evolutiva, altre opere ci indicano la dialettica di composizione e decomposizione, morte e rigenerazione che attraversano l’esistenza di individui e società, in un continuo pendolo tra consolazioni e desolazioni: sono i rifiuti che ciascuno lascia dietro di sé, piccole estinzioni locali che agitano il mondo delle cose anche nell’epoca dell’abbondanza. Particolarmente significativa per la mission e l’identità della galleria, l’opera tessile nata da un disegno di Giampaolo Bertozzi e realizzata manualmente dalle maestranze attivate da Antonio Verolino, il quale ha ereditato la passione per tappeti e arazzi preziosi dal padre Raffaele, l’antiquario che indiscutibilmente rappresenta in questo campo il punto di riferimento in Italia e non solo. La competenza acquisita negli anni, ha già portato Antonio Verolino a collaborare con artisti storicizzati del calibro di Enzo Cucchi, David Tremlett e Luigi Ontani, i quali hanno saputo sapientemente coniugare le proprie suggestioni visive con quest’antica arte decorativa dando origine a manufatti tessili che sono vere e proprie opere d’arte. La nuova

opera tessile di Bertozzi & Casoni, raffigurante un alveare che a sua volta disegna un teschio, è interamente annodata a mano in seta, materiale che le dona un particolare “movimento” grazie al cambiamento del colore in base alla luce. Completa l’opera una cornice in ceramica che riproduce anch’essa un alveare da cui nascono più di 1000 fiori in ceramica. (dal cs.)

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Tenuta dello Scompiglio, Capannori

Requiem Dialogo sulla performance tra Carlos Motta e Giovanni Gaggia

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rotagonista presso la Tenuta dello Scompiglio di Capannori (LU), nella rassegna di performance Sui Generis curata da Eugenio Viola e Angel Moya Garcia, con l’inedita azione Requiem basata su un’interpretazione della morte e resurrezione di Cristo, Carlos Motta (Bogotà, 1978), fra i più apprezzati ed eclettici artisti del momento, si muove fra politica e sessualità, utilizzando il proprio corpo alla stregua della tavolozza di un pittore. Il breve dialogo che segue fra i due artisti, mostra l’identità più nuda e vera di Motta, che riscopre nella performance il viatico al proprio pensiero, scavando al contempo nel profondo del senso dell’azione performativa oggi. Giovanni Gaggia: la cosa che m’incuriosisce di più, circa la tua performance, è sapere quando hai deciso di utilizzare il tuo corpo, c’è stato un momento preciso? Carlos Motta: L’anno scorso ho trovato degli scatti, mai mostrati al pubblico, incentrati sul mio corpo. Rivedendoli ho pensato fosse giunta l’ora di utilizzarlo nuovamente e con Requiem, che è una performance che parte, innanzi tutto, dal mio grande interesse per il bondage – che ho anche praticato – si è palesata l’occasione. GG: Anche per me c’è stato un passaggio fotografico prima di avere la consapevolezza che il corpo potesse essere utilizzato direttamente per l’arte. Nella mia prima performance dissotterravo un cuore e, nelle vesti di San Francesco, me ne prendevo cura pulendolo. L’ulivo, il corpo nudo, l’atto del curare un altro corpo e la ferita, erano una serie di rimandi legati all’iconografia cattolica. Per me è stato il punto di non ritorno. CM: Hai cominciato a fare solo performance? GG: No, non soltanto performance perché sono assolutamente eclettico. Da quel momento però la parte centrale del mio lavoro è sempre stato il mio corpo. Tornando a te: Cos’hai sentito o cosa hai provato per il progetto alla Tenuta dello Scompiglio? CM: Questo è un progetto forte, però non l’ho percepito come la scoperta di una nuova strada, ma come il varcare una soglia, tuttavia con questa esperienza non sento di essere diventato un performer artist. GG: Per me la parte più interessante della performance è il rapporto con il pubblico, che è immediato e che percepisci in modo forte. Tu percepivi la la nostra energia, nel tuo momento di dolore o di piacere?

Carlos Motta, Untitled Self-Portraits, 1998-2016 Archival inkjet prints, 30 x 35” Courtesy of PPOW Gallery, NY.

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CM: Ho sentito tantissimo l’energia del pubblico, ho avvertivo uno stato di perplessità nella gente per un’azione, forse, vissuta come scomoda, che corrisponde, come mi stai dicendo, forse soprattutto al momento in cui mi hanno posato a terra e il mio corpo non si fermava dal tremore. E’ stata una reazione corporale spontanea, come fosse la prima volta che praticavo bondage in vita mia, e nella mia vita performativa. GG: Alla performance si dà un grande valore aggiunto, perché se il tuo lavoro inizia con un’impronta teatrale le convulsioni del corpo offrono una verità estrema, donando all’opera qualcosa che non avrebbe avuto, senza quella parte scomoda. Cosa ti ha lasciato quest’azione? Inoltre per me il dibattito sulla performance è soprattutto sul live, in un istante ti giochi l’opera, l’azione diretta è l’unico momento in cui puoi cambiare veramente il pubblico, toccando le corde dell’altro. CM: So che questa azione è stata molto intensa, al momento ho solo domande. So che nella performance si può perdere il controllo della situazione, con il cinema non è possibile. Una delle reazioni più interessanti è stata quella del mio amico Matthias. Mi ha confidato che è dovuto uscire, perché sentiva che avrebbe vomitato. GG: Credo che un uomo che ha rischiato di morire quando vede una persona a lui vicina in pericolo di vita sia sopraffatto dalla paura, quella della morte. CM: Uno specchio. Questa è un’esperienza molto intensa fisicamente, e per me è connessa a quella di altri performer come Ron Athey e autori di endurance performance o di modificazione corporale. Ci sono voluti 6-7 mesi di preparazione per rimanere in quella posizione per un lungo tempo. Sai che una persona può resistere fino a 24 ore? Infatti, il filmato l’ho diretto in posizione capovolta. C’è anche un altro elemento essenziale, l’intervento sull’iconografia religiosa. Quello alla crocifissione penso sia ovvio, ma fare un’inversione semantica dell’uso della parola era ciò che mi interessava di più, così come ho invertito l’esperienza del corpo esiliato nella sua condizione sessuale o di genere. GG: Quello che per me ha rafforzato il tuo lavoro è proprio la parte iconografica legata alla religione, nel momento in cui mi sono reso conto dell’affresco sullo sfondo si è rivelato il senso. CM: Ho guardato tanto questa raffigurazione durante la preparazione, avevo paura di creare una risposta immediata. Ciò che mi ha colpito osservando le foto della documentazione è la relazione creatasi tra l’affresco e il mio corpo, la vergine guarda sempre i miei piedi, come fosse sempre attenta alla situazione. n Carlos Motta, Mondo invertito (2016) Con Stefano Laforgia, Carlos Motta, Andrea Ropes Video, Sound, color, 7/39 min Courtesy Mor Charpentier Galerie, Paris; PPOW Gallery, New York.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Fulvio Di Piazza, L’occhio del gasato, 2016 olio su tela, 77x53 cm, ph. Fotografi Associati. ARTEFORTE, Forte Belvedere, Studio d’Arte Raffaelli

Julia Bornefeld, Final play, 2013, videostill. ARTEFORTE, Forte Garda, Antonella Cattani Contemporary Art

Circuito dei forti del Trentino

Arte Forte La Babele di linguaggi e di simboli legati ai conflitti

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rendi quindici gallerie d’arte contemporanea, otto fortezze austroungariche e ventotto artisti. Proponi alla Fondazione Museo storico del Trentino e alla Provincia autonoma di Trento di inserire nella già collaudata rassegna di eventi “Sentinelle di pietra. Di Forte in Forte sul Sentiero della Pace” un progetto espositivo diffuso nelle sedi del Circuito dei forti del Trentino idonee a ospitare una mostra, coinvolgendo il Mart nella promozione dell’iniziativa. Grazie a un’idea di Giordano Raffaelli, titolare dell’omonimo Studio d’Arte di Trento nonché Delegato territoriale per il Triveneto di Angamc e vice-Presidente di Aspart, ha così preso il via “Arte Forte”, la cui tematica scelta per la prima edizione è La Babele di linguaggi e di simboli legati ai conflitti. Nei territori coinvolti, negli anni del Primo Conflitto Mondiale, è stata testimoniata la compresenza di ben dodici idiomi linguistici diversi, costretti a convivere nella situazione di rovesciamento del quotidiano rappresentata dal conflitto. A Babele e alla sua forza simbolica si sono ispirati l’artista Corrado Zeni (Buonanno Arte Contemporanea, Trento) a Forte Strino, che ha presentato una serie di omonime sculture di ferro, e l’artista Paolo Conti (PoliArt Contemporary, Rovereto), che ha realizzato a Forte Pozzacchio una vera e propria torre composita; l’idea di forte come contenitore simbolico ha mosso i progetti al Forte superiore di Nago di Linda Carrara, e di Walker Keith Jernigan (Boccanera Gallery, Trento), che nelle loro tele evidenziano la presenza di luoghi “altri”, la grande fotografia di Giovanni Castell, la città utopica delle “Pinocchie” di Sissa Micheli (Alessandro Casciaro Art Gallery, Bolzano), ma anche i progetti di Marco Cingolani (Boxart, Verona) nei forti Corno e Larino, dove installazioni di scatole e bauli dipinti richiamano la testimoniata usanza dei soldati di decorare le pareti dei forti per ritrovare l’impressione di un’atmosfera famigliare, di David Aaron Angeli (Studio d’Arte Raffaelli, Trento), a Forte Belvedere, che ha utilizzato la simbologia dell’uovo nero, foriero di un’attesa funesta, ma anche custode di speranza, e, al Forte Pozzacchio, di Ivano Fabbri, che ha realizzato un “altro forte” all’interno di una delle sale e di Matteo Attruia (PoliArt Contemporary, Rovereto), che, con l’uso del lighbox, ha ricreato un codice morse intermittente. Anche Vlad Nancă (Boccanera Gallery, Trento) ha scelto il lightbox, ma con un intento che sfiora ironicamente la denuncia sociale; direttamente di guerra si sono occupati Michele Parisi (Paolo Maria Deanesi Gallery, Trento) con le sue tele tratte da panoramiche di città distrutte a Forte Cadine, Gjon Jakaj (Giudecca 795 Art Gallery, Venezia) con fotografie di guerriglia urbana a Forte Garda, Luciano Civettini (Studio 53 Arte, Rovereto) con fotomontaggi di esplosioni a Forte Pozzacchio e Valentina Miorandi (Boccanera Gallery, Trento) con la ricostruzione performativa del perimetro di Auschwitz nella città di Trento. A Forte Belvedere gli scultori altoatesini Arnold Holzknecht e Walter Moroder (Galleria Doris Ghetta, Ortisei) hanno ragionato sull’incompiutezza della figura umana, mentre Antonio Ievolella (Studio la Città, Verona) si è concentrato sul simbolo archetipico dello scudo. A livello di commistione di linguaggi, è interessante notare come a media più tradizionali siano stati accostati nelle opere di alcuni artisti supporti audio poetici

e musicali: nel video di Julia Bornefeld (Antonella Cattani Contemporary Art, Bolzano) a Forte Garda un pianoforte brucia ma le sue note continuano a echeggiare nella grande sala centrale; nell’installazione multimediale di Silvio Cattani (Studio 53 Arte, Rovereto) a Forte Pozzacchio una voce narrante accompagnata dalle note di un compositore alterna brani legati alla guerra a preghiere; di fronte al grande lavoro site-specific “Il lungo assedio”, a Forte Corno, Medhat Shafik (MARCOROSSI artecontemporanea, Verona) ha collocato l’opera “Di che reggimento siete, Fratelli?” accompagnandola a una registrazione dell’omonima poesia recitata dalla voce di Ungaretti stesso. Al Forte superiore di Nago gli artisti Nebojša Despotović (Boccanera Gallery, Trento), Andrea Facco, Kinki Texas e Arnold Mario Dall’O (Alessandro Casciaro Art Gallery, Bolzano) hanno affrontato, declinando la tematica autonomamente, anche la morte, quale compagna di viaggio per tutti gli uomini in guerra. Uomini in conflitto con sé stessi prima che con gli altri: l’aspetto del confronto con la propria interiorità viene indagato da Vincenzo Marsiglia (Boesso Art Gallery, Bolzano) a Forte Strino con varianti, multimediali e non, dello specchio, e a Forte Belvedere da Italo Bressan (Casa d’Aste Von Morenberg, Trento) con un lirico autoritratto e da Fulvio Di Piazza (Studio d’Arte Raffaelli, Trento) che, partendo ugualmente dall’autoritratto, in chiave completamente diversa, ha realizzato un ciclo di lavori pittorici dove la dimensione della solitudine sovrasta tutto, come una gigantesca torre di Babele che, molto spesso inconsapevolmente, ci si costruisce da soli. Camilla Nacci Corrado Zeni, Babel, 2010, ferro, 120x100x100 cm. ARTEFORTE, Forte Strino Buonanno, Arte Contemporanea

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ABC-ARTE - Genova

Principio d’indeterminazione L’Astrazione dopo l’Astrazione

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na mostra che definisce in modo esemplare l’orientamento di alcuni giovani a recuperare la lezione dell’astrazione, una eredità tutta novecentesca, a tratti scomoda e ingombrante, cui non si sottraggono, con le rispettive elaborazioni creative, i 6 artisti selezionati a raccontare e rappresentare questa nuova tendenza. Sono Matteo Negri, Isabella Nazzarri, Patrick Tabarelli, Viviana Valla, Giulio Zanet e Paolo Bini, gli emergenti simbolo della generazione del nuovo Millennio che, attraverso una polisemia di segni e gesti, in bilico tra pittura espansa, scultura e installazione ambientale, hanno ripensato e ripensano di continuo i codici della rappresentazione astratta, di cui un assaggio corposo è dato in questa mostra a Genova. «Le opere di questi artisti non seguono necessariamente ciò che è stato fatto nella storia: la loro non è un’astrazione puramente geometrica, non è un’astrazione informale, e neanche analitica. E’ un’astrazione che si presenta con questa identità ma che può tornare da un momento all’altro ad adottare stilemi figurativi». Con queste parole Ivan Quaroni, curatore dell’esposizione, spiega la libertà culturale che attraversa le generazioni nate fra gli anni Settanta e gli anni Novanta, i quali sembrano proprio ribaltare un celebre assunto di Picasso, non a caso citato dallo stesso Quaroni nell’introduzione critica della mostra: «L’arte astratta non esiste. Devi sempre cominciare con qualcosa. Dopo puoi rimuovere tutte le tracce della realtà». Se l’affondare le proprie radici nella tradizione dell’astrattismo rappresenta comunque un punto fermo per questi artisti, la frase picassiana è una spia che ci allerta della distanza che intercorre fra la nascita del movimento e suo intendimento odierno che, in sostanza, si esprime in un diverso procedimento creativo. Spiega ancora una volta Quaroni: «Nella recente storia dell’arte, il processo astrattivo ha rappresentato spesso un punto d’arrivo, indicativo di un’evoluzione o di una maturazione del linguaggio pittorico. Molti pittori astratti italiani come Alberto Magnelli, Manlio Rho, Arturo Bonfanti e Osvaldo Licini, tanto per fare degli esempi, sono partiti da un approccio realistico per poi giungere a un sistema di segni e figure interiorizzate, più prossime al mondo immateriale delle idee. Tuttavia, il passaggio tra rappresentazione iconica e aniconica si è sempre svolto in quest’ordine e mai all’inverso». Ciò che per l’appunto, traspare nelle opere di questi artisti è il ribaltamento di questo procedimento artistico, che da un lato annulla definitivamente la storica divisione fra arte figurativa e astratta, dall’altro offre la possibilità di considerare l’astrazione un punto di partenza e non di arrivo. Giocando con le parole e i concetti, nulla vieta perciò di immaginare l’astrazione come una realtà più vera e concreata della realtà stessa. S’intende dire con ciò, che il superamento delle tradizionali categorie “critiche” per l’arte è già avvenuto, che il ripensamento delle vecchie denominazioni è già in corso, tanto è vero che, non sfugge al curatore che una definizione come Ambiguous Abstraction, riferita alle indagini di artisti astratti nei cui lavori sopravvivono tracce, seppur labili, di figurazione è già stata data in ambito accademico, così quella di Hybrid Picture perfettamente adattabili al discorso che Quaroni mette in chiaro accostando le opere di Negri, Nazzarri, Tabarelli, Valla, Zanet e Bini. L’astrazione, dunque, di questi artisti, non sono prove noPatrick Tabarelli, {F}, 35x35cm, acrylic on canvas, 2016

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Principio di Indeterminazione, ABC-ARTE, Viviana Valla, Paolo Bini, installation view, 2016

Giulio Zanet, Senza titolo, 120x200cm, mixed media on canvas, 2016

Isabella Nazzarri, Sistema Innaturale – Genesi, 70x50cm, acquarello su carta, 2016

Principio di Indeterminazione, ABC-ARTE, Matteo Negri installation view, 2016

stalgiche, tantomeno furbizie estetiche, ma serie indagini intorno alla costruzione moderna dell’immagine – che ovviamente tiene conto anche della tecnologia – e che guarda con intelligenza e originalità al futuro, senza rinnegare il passato. Questo gruppo di artisti potrebbe essere ragionevolmente definito come dei “Nuovi Astrattisti”. Maria Letizia Paiato Viviana Valla, Chromofobia, 80x180cm mixed media and collage on canvas, 2016


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Studio Trisorio, Napoli

e l’idea di documento fotografico – come strumento per il reperimento d’informazioni, testimonianze, prove, finanche – è antica quasi quanto la fotografia stessa, in nessun caso, prima degli anni ’30, viene declinata per definire un’estetica che “[…] tratta dell’esperienza reale […] e tratta tale esperienza in modo da cercare di renderla viva, umana e, nella maggioranza dei casi, straziante agli occhi del pubblico”. Pare, infatti, che il termine “documentario” cominci a diventare d’uso corrente solo dopo il 1926, contrapponendosi al più grigio e anonimo “documento”, per allontanare da sé il sospetto di operare una registrazione acritica e meccanica della realtà, sottolineando, invece, l’atto creativo che trascende il circostante e opera delle scelte. Poi, quando, nel 1932, il governo Roosevelt finanzia la vasta campagna di documentazione fotografica dell’America duramente colpita dalla crisi economica, i due termini smettono di escludersi, diventando, addirittura, reciprocamente destinati: l’esperienza della Farm Security Administration riscaldò la forma vuota e impersonale del dato, disperdendolo all’interno di

una narrazione: quella degli ultimi. Al cuore di questo ossimoro, tuttavia, la conciliazione dei contrasti sembra tutt’altro che risolta: lo scopo ultimo della fotografia documentaria è davvero quella di documentare? Con questo dubbio abbiamo varcato la soglia dello Studio Trisorio, e interrogato le fotografie di Dorothea Lange, documentarista della prima ora, in sosta ubiqua a Napoli e a Sellano, presso il Castello di Postignano, fino al prossimo gennaio. Lì, contro il bianco delle pareti e della carta non sensibilizzata, la storia scrive piano addosso ai poveri; come il rammendo in una calza (Mended Stockings, 1933) racconta ferite, con un incedere sempre ossequioso nei confronti di un popolo che conosce la nobile arte del ricucire i frammenti della propria esistenza. Altre volte, invece, accanto a piedi polverosi (People living in miserable poetry, 1936) o a quello che sfiora un chiodo ricurvo (Feet of Priest, 1958) camminano le tracce di una storia sacra, con soluzioni stilistiche che tradiscono la stessa attenzione al dettaglio riscontrabile in un dipinto cinquecentesco. La storia disegna le loro facce col profilo dei luoghi che abitano: smunte, come alberi scheletriti dal sole del deserto (Untitled, 1935 - 1942); livide, come i paesaggi cancellati da una tempesta di sabbia (Dust Storm, 1935). E ancora; il sole che pesa come un sacco sulla schiena (Migrant worker on California Highway, 1935), mentre agli occhi affiora la malinconia dello stomaco (Korean children, 1958). Una grande epopea degli umili, insomma, che anche quando forza porte e si offre con prepotenza, sempre accoglie dettagli senza identità e perciò di tutti. Lo mostra bene una foto come Daughter of Migrant Tennessee Coal Miner, del 1936: oltre la tenda che nasconde l’angusto riparo di fortuna, oltre la figura fiera e sconsolata della giovane donna ritratta, il taglio fotografico consente di registrare un ampio campionario di letti corrosi, essenzialità d’ambiente, materassi sgangherati. E come non citare la Migrant Mother (1936), Madre di tutte le madri, Pietà in salsa moderna che accoglie su di sé e in sé il segreto della maternità, dalla Venere di Willendorf in avanti. Nonostante la destinazione d’uso delle immagini – che l’utilizzo di titoli asciutti, quando non propriamente didascalici, corrobora – il riquadro non riesce a trattenere, ai margini dell’inquadratura, l’occhio della fotografa americana. Esemplare il particolare del cartellino identificativo che sempre ritorna, nei ritratti delle famiglie, delle donne, degli uomini nippo-americani internati, dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbour, perché possibili nemici. Il suo brillio contro il grigio argentico tutt’intorno, mentre documenta con estremo garbo e discrezione una pagina triste della politica americana, sembra denunciare la crudeltà di ogni paranoia del potere. Avviandosi alla porta d’uscita di questa grande avventura dello sguardo, forse non sapremo dare una risposta definitiva al quesito che ci aveva accompagnati ma sapremo sicuramente cosa Dorothea Lange ha fatto: riempire con contenuto umano un genere dal carattere semplice, franco e diretto, fino a permettere di abbandonare quell’idea di impersonalità, che a lungo è sembrata indissociabile dalla fotografia documentaria. Carla Rossetti

Dorothea Lange, Migrant Mother, Nipomo, San Luis Obispo County, California, 1936.

Dorothea Lange, Woman of the High Plains, Texas Panhandle, 1938.

Dorothea LANGE L’avventura dello sguardo

Dorothea Lange, Mexican Girl, Imperial Valley, California, 1935.

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Pescara, Ex Tribunale

Avviso di Garanzia La nuova edizione di “Fuori Uso” finisce in tribunale

I

l 2016 segna il ritorno a Pescara di “Fuori Uso”, storica rassegna dedicata alle arti visive, nata nel lontano 1991 grazie ad una intuizione del gallerista Cesare Manzo. Sono passati quattro anni dall’ultima edizione e la città sentiva quasi un’esigenza fisiologica nel tornare a confrontarsi con un appuntamento espositivo, che nel tempo ha saputo porsi come unica occasione per scoprire e conoscere quanto accadeva nel mondo dell’arte contemporanea. “Avviso di Garanzia”, concept di quest’anno, ammicca alla location in cui la mostra è stata allestita, il vecchio Tribunale di Pescara, e ribalta la sua accezione giudiziaria negativa per farsi attestazione di qualità; la garanzia, infatti, si riferisce ai docenti delle accademie di belle arti italiane che hanno segnalato gli studenti meritevoli di poter esporre insieme a loro in questa nuova edizione. La copertina del catalogo della mostra è sintomatica di quanto si percepisce nelle aule dell’ex Tribunale: sulla soglia di una porta si scorge, in controluce, la sagoma di un uomo di piccola statura che sembra salutare, andare via. L’uomo è Cesare Manzo che in questa edizione di Fuori Uso pare scomparire del tutto per diventare la sola memoria storica di un progetto culturale che ha segnato indelebilmente la storia dell’arte contemporanea abruzzese ed italiana. Un progetto che appartiene al passato e che non è più replicabile; può, infatti, solo evolversi in qualcos’altro, così come è accaduto per “Avviso di Garanzia”. L’edizione 2016, a cura di Giacinto Di Pietrantonio e Simone Ciglia, presenta un evidente cambio di rotta rispetto a quella linea curatoriale e progettuale che ha animato le storiche edizioni. Non siamo più di fronte ai Fuori Uso degli anni ’90, tant’è che la proposta espositiva sente più la necessità di riabilitare quanto accade negli ambienti accademici, intesi come luoghi deputati alla formazione di giovani artisti, che come momento di confronto con le sperimentazioni più avanguardistiche dell’arte contemporanea. A conferma di ciò le parole dello stesso Giacinto Di Pietrantonio pubblicate sul catalogo: «Al di la dei problemi della scuola italiana – l’Accademia – è ancora uno dei luoghi principali di formazione e mi pareva interessante cercare di restituire qualcosa di questo lavoro» attraverso un appuntamento espositivo come Fuori Uso (ndr). «Non dimentichiamo, infatti, che molti degli artisti italiani più interessanti hanno studiato nelle accademie e a volte vi tornano per insegnare». La mostra, partendo da queste dichiarazioni, si presenta come occasione di dialogo tra maestri e discenti; nel vecchio Tribunale sono evidenti le contaminazioni che gli studenti ricevono dal contatto con i propri docenti, così come sono evidenti le procedure di produzione artistica di alcune accademie rispetto ad altre. “Fuori Uso” si trasforma in un grande contenitore capace di raccontare la politica culturale dei singoli Istituti e il modus formativo di alcuni artisti-docenti. Lampante è il dialogo messo in atto tra il maestro Luigi Presicce (Atto unico sulla morte in cinque compianti, 2012) e l’allieva Mimì Enna (Pierre – dalla serie Delocazione, 2015) dove entrambi sentono la necessità di descrivere una scena silenziosa, religiosa. Sulla stessa linea il contatto estetico che lega Gabriele Di Matteo (China Made in Italy, 2009) ai

suoi studenti Gao Lan (Jump, 2015) e Wang Haotian (Senza titolo, 2015), dove la cultura occidentale si fonde a quella del Sol Levante. Affascinante anche il confronto tra Adrian Paci e Mati Jhurry e Isabella Benshimol, tra Pierluigi Calignano e Valeria Secchi e tra i docenti Mario Airò e vedovamazzei con gli studenti Emanuele Marullo, Gabriele Nicola e Vincenzo Napolitano. Lo scambio tra maestri e allievi conduce idealmente il fruitore della mostra nelle aule delle Accademie e per certi versi nelle botteghe rinascimentali, quando i grandi maestri chiamavano nei loro studi giovani aiutanti da avviare al mestiere d’artista. “Avviso di Garanzia” sembra una proposta di orientamento, una sorta di gigantesco open day; operazione promozionale che oggi anima tutte le scuole impegnate nel mostrare il meglio di cui si dispone. E’ innegabile che questo Fuori Uso è un’altra cosa rispetto alle edizioni del passato: è soprattutto un progetto espositivo che ribadisce il “ruolo/potere” delle Accademie di Belle Arti in Italia e sottolinea l’importanza delle relazioni che si costruiscono in questi luoghi formativi. Non a caso gli artisti-docenti segnalano gli artisti-studenti meritevoli di esporre a Fuori Uso perché sicuramente bravi, ma anche perché già attori di quel sistema di relazioni di cui si accennava sopra. Tornando alla copertina del catalogo della mostra è palese, quindi, il distacco tra questo progetto e quello di un’altro storico appuntamento realizzato a Pescara, nel 1980, nello Studio di Cesare Manzo. Ci si riferisce alla mostra Ora! a cura di Francesca Alinovi, appuntamento in cui già si annidavano i germi di quello che sarebbe stato da lì a dieci anni il progetto Fuori Uso. Sulla copertina del catalogo, una foto scattata da Barbara Fenati in cui tre figure maschili mimano un tableau vivant, una posa tratta da NightHawks di Edward Hopper. L’ambiente è scarno, quasi uno studio in cui si ricrea l’atmosfera urbana (come quello riproposto nella copertina di Avviso di Garanzia). Sullo specchio, nella foto, la scritta Ora!; un messaggio chiaro, inequivocabile. Francesca Alinovi e Cesare Manzo avevano pensato ad una mostra che doveva raccontare il loro presente, quello che stava accadendo in quel preciso momento, l’hic et nunc dell’arte contemporanea. Bene, Fuori Uso 2016 perde questa intenzione a si apre ad altre riflessioni (comunque interessanti), e riflettendo sulle copertine dei due cataloghi messi a confronto si evince come del padre fondatore di Fuori Uso rimane solo il ricordo, una sagoma di cui si riconosce il “contenitore”, ma dove il “contenuto” è diventato qualcos’altro. Ma forse è giusto così. Ivan D’Alberto

Marco Cingolani, Maracanà, 2016

Pierluigi Calignano, Il secondo cielo, 2013. Sullo sfondo, Vedovamazzei, Stella Scala/Simeone Crispino, 1991

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Mohsen Baghernejad Moghanjooghi, Nothing Was Risked, 2016


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Premio Michetti 2016, Francavilla al Mare

Oltre, nel cosmonell’incognito degli universi e dello spaziotempo della contemporaneità Urban Rainbow Omaggio a Franco SUMMA

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il premio di pittura più antico d’Italia, il Premio Nazionale di Pittura Francesco Paolo Michetti, dal 1947 dedicato al grande artista di Francavilla al Mare e che ha visto grandi nomi dell’arte e della critica passare nelle sue edizioni, fino all’ultima, inauguratasi il 23 luglio nel Museo di Palazzo San Domenico in Francavilla al mare. Altisonante il titolo Oltre, nel cosmo, nell’incognito degli universi e dello spaziotempo della contemporaneità della sessantasettesima edizione, a cura di Luciano Caramel, che si è ispirato alla fisica quantica e al rapporto con la scienza per selezionare, insieme a Kevin Mcmanus, Paolo Bolpagni, Elena Di Raddo, Emma Zanella e Anna D’Ambrosio, gli artisti partecipanti: Francesco Arecco, Aris, Renato Calaj, Domenico Carella, Enrico Cazzaniga, Sonya Clark, Francesco De Prezzo, Bruno Di Bello, Nicola Evangelisti, Raul Gabriel, Cesare Galluzzo, Albano Morandi, Marica Moro, Giancarlo Norese, Mattia Novello, Giovanni Padovese, Piero Paladini, Lorena Pedemonte Tarodo, Francesco Pedrini, Alice Pedroletti, Gian Paolo Roffi, Alessandro Rosa, Giovanni Sabatini, Valdi Spagnulo, Dora Tass e August Muth, Alessandro Traina, Davide Tranchina, Maria Wasilewska. A partire dalle opere di Fontana, proiettate sul soffitto, dai cui tagli e buchi si dischiude un oltre immaginario, come nei suoi Quanta. Ma l’ispirazione cosmica non è sufficiente a colmare il divario con le innovazioni dell’arte contemporanea, che nel XXI secolo si approccia con metodo “divergente” al linguaggio della pittura. Questa è la motivazione per cui, girando tra le sale, poche siano le opere in grado confrontarsi con quelle della collezione del patrimonio della Fondazione Premio Michetti. Alcune di esse, tra cui la Geografia ricamata di Maria Lai, sono visibili all’interno della mostra del restauro realizzato dall’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, sotto la guida della professoressa Grazia De Cesare. Proprio la collezione, invece di subire un lento e inesorabile abbandono, potrebbe costituire la struttura portante di un museo che fatica a trovare le energie per proseguire. Insieme a questo patrimonio è l’omaggio a Franco Summa nella mostra Urban Rainbow, con l’introduzione di Enrico Crispolti, a costituire la ragione fondamentale per visitare questa edizione del Premio. La sua presenza riallaccia così un rapporto tra la Fondazione ed il territorio, coinvolgendo il maggiore promotore dell’Arte Urbana, nelle cui opere, incentrate sul rapporto tra l’uomo e lo spazio che abita, la città e la casa, si fondono architettura e pittura, design e scultura, storia e performance. “Per questa mostra- racconta Franco Summa intervistato per l’occasione- ho pensato di costruire ambienti per luoghi aperti in grado di ricevere sensazioni, come in un percorso, una sorta di installazione, un ennesimo rapporto con lo spazio, quello della mia vita in questo caso”. L’allestimento è stato realizzato insieme all’artista ed architetto Mariano Moroni e a Walter Cilli, riformulando il museo in maniera fortemente scenografica. Summa crea così più di una suggestione spaziale, dal colonnato con le Fanciulle d’Abruzzo (20042015), appositamente dipinte una per una a mano, seguendo le suggestioni del momento, alla coppia di Re e Regina (1989-2016), “monumenti domestici con una netta funzione narrativa, ovvero in grado di qualificare lo spazio circostante. In questa occasione ho elaborato l’ambiente come un’opera, come un luogo esteti-

camente formulato, organizzandone i percorsi con l’obiettivo di attivare dimensioni di fruizione e relazione multiple, superandone l’aspetto strettamente funzionale. Mi piace utilizzare un criterio di scelta che denoti l’ambiente urbano secondo una questione culturale, in grado di comprendere anche la città e insieme tutte le arti”. Del resto Summa è l’ideatore del concetto di “ARTItettura”, l’arte di costruire la città, come attestano le installazioni realizzate a Penne (Parametri di incontri, 1971), Dubrovnik (Anamnesi, 1973), Pescara (Per incontrarsi, 1973; Railway Rainbow, 1987), Moscufo (Arco baleno, 1976), Castelvecchio Subequo (L’angelo della Rivelazione, 2014), Nereto (Color Mundi 2015), solo per citarne alcune. Summa si appropria dello spazio del Museo fin dalla colonna colorata posta all’ingresso dell’edificio, un “arcobaleno urbano” che rivisita l’architettura attraverso la sensibilità inedita dell’artista, modificando la percezione del territorio. In mostra sono visibili anche i mattoni dipinti dai frequentatori del parco e accumulati come montagna nella Pineta Dannunziana a Pescara nel 1981, la celebre maglia multicolore che rendeva le persone dei “pennelli urbani” nell’azione Sentirsi un arcobaleno addosso (1975-78), il manto policromo di Sui Domina (2006). Le sue opere più note, come la pittur-azione No (1974), realizzata in occasione del referendum per l’abrogazione del divorzio a Piazza della Rinascita a Pescara, Histoire d’O (Pescara, 1976), Un arcobaleno dipinto sul mare (Pescara, 1977), Un arcobaleno in fondo alla via (Città Sant’Angelo 1975), nascono dall’interesse particolare per le necessità abitative dell’uomo, secondo la volontà di qualificare, per mezzo della capacità trasformativa dell’arte, l’ambiente in cui vivere. “Anche i titoli delle opere sono parte costituiva dell’opera e la pittura, il colore sono sempre intesi come elementi plastici. Non faccio mostre in galleria ma costruisco ambienti per la vita seguendo l’armonia della composizione, perché l’ambiente deve rispondere a certi requisiti anche psicologici e sociali”. Sibilla Panerai Franco Summa, La Coppia, 2004, legno dipinto, h. cm. 250 foto Luciano Onza, courtesy l’artista

Franco Summa, Architettura, 1981, foto Luciano Onza, courtesy l’artista

Franco Summa, Le fanciulle d’Abruzzo, 2004-2015, visione della mostra Urban Rainbow, Museo Michetti 2016, foto Luciano Onza, courtesy l’artista

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Artisti in copertina

Tino STEFANONI Il senso delle cose di Luca Tomio

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er non divagare lo dico d’acchito: Tino Stefanoni è un artista d’alta quota. Sono troppo poco accondiscendente verso l’esercizio critico arzigogolato per non voler subito dichiarare che l’arte è tale solo quando non necessita di alcun sottotitolo e quando la critica funge da mero supporto alla lettura dell’opera, non alla sua spiegazione. C’è sempre troppo chiacchiericcio nei sottoscala dell’arte e anche a quei piani alti di chi crede d’essere al settimo cielo quando invece risiede all’attico del suo palazzo a contendersi il ruolo da ras del quartiere con quello che abita al piano di sotto. E non crediate che dica queste cose dall’alto dei miei studi privilegiati

Tino Stefanoni, Le tazze 1, 1970. cm. 80x100, tecnica mista su tela. Courtesy l’artista

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su Leonardo da Vinci o su Alighiero Boetti (che interrompo con piacere per scrivere su Tino Stefanoni), anzi, è proprio frequentando anche la suburra dell’arte, dove la sedicente arte al massimo assurge a fenomeno di quartiere, che si capisce quanto i veri artisti siano rari, rarissimi, anche nel modo che hanno di porsi e che in Tino Stefanoni assumono i modi gentili dell’elegantissima semplicità, come le sue opere. Diffidate di pseudoartisti spocchiosi e nevrotici in cui si risolve l’irrisolta vacuità del pensiero. Quando l’artista è risolto è semplice, come la sua opera. Se vi voltate un attimo indietro vedrete sconfinate velleità che sono diventate vento e solo pochi, pochissimi, baluardi


artisti in copertina

Tino Stefanoni, Senza titolo Z354, 2014. cm. 32x46, acrilici su tela. Courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca Tino Stefanoni, Senza titolo Z353, 2014. cm. 32x46, acrilici su tela. Courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca

Tino Stefanoni, Senza titolo Z428, 2015. cm. 32x46, acrilici su tela. Courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca

di senso, con un’unica spietata certezza: il tempo è galantuomo solo con i veri grandi artisti. E se il corollario è che nessun grande artista è rimasto mai misconosciuto, è altrettanto vero che tutti gli altri sono stati spazzati via, sopratutto quelli che in vita hanno cercato di contrastare questa ineluttabile legge del destino con le più ostinate strategie di posizionamento. Strategie effimere che Tino Stefanoni non hai mai messo in campo, convogliando ogni energia in quel suo studio circondato dalle montagne che lo ha condotto ad elaborare negli anni un percorso d’artista in cui la pittura è solo un mezzo, mai un fine. Il fine è più alto. Ecco perché Stefanoni è d’alta quota. E soprattutto perché ha saputo esercitare la pratica artistica quotidiana non come banco di prova dell’espressività personale. Non ha usato la tela come schermo su cui proiettare le ombre o le luci di se stesso, ma ha saputo fare arte nel modo più evoluto possibile, senza nichilismi, dando prova di saper scoprire e ricostruire il senso

Tino Stefanoni, Mostra antologica a Palazzo Forti con Lucio Fontana Verona 2002.

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Tino Stefanoni, Piastre guida per la ricerca delle cose, 1971 ferro mm 3 verniciato a forno - 7 soggetti ripetuti ognuno 10 volte come esercizio didattico - cm 40x60 circa.

Nella pagina a fianco, a centro: Tino Stefanoni, Sinopia Z473A, 2015 cm. 100x120, acrilici su tela Courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca

Tino Stefanoni, Segnali stradali regolamentari 90x90x90 - 1969-70 - ferro verniciato a forno.

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artisti in copertina

Tino Stefanoni, Senza titolo Z350, 2014. Cm.36x36, acrilici su tela. Courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca

Tino Stefanoni, Senza titolo Z425, 2015. Cm. 36x36, acrilici su tela. Courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca

delle cose del mondo secondo la sua personale angolatura. Una particolare declinazione metafisica che nella maturità dell’artista diventa cifra emblematica e che tuttavia fa capolino fin dalle prime prove: è infatti con i Riflessi del ‘65, anteriori alla mostra d’esordio alla Galleria Apollinaire di Milano, che compaiono quelle casette+albero che dal 1984 diventeranno emblematiche nei paesaggi in technicolor della serie Senza titolo. E sottolineo in technicolor perché nei due decenni precedenti l’artista si misura in bianco e nero con il suo daimon, quell’inquietante senso già noto agli antichi greci che si nasconde dietro le cose, o tra noi e loro, o tra loro e il mondo. Quel daimon che proprio il greco De Chirico risvegliò in Santa Croce a Firenze e per Stefanoni ne fu galeotto quel Beato Angelico a cui era intitolato il liceo frequentato a Milano, e fu davvero come un segno del destino. Quella germinale casetta+albero dei primi Riflessi rappresenta la sua idea di fondo dell’arte, come per Lucio Fontana era il buco:“un buco che per me è la base di tutta l’arte contemporanea, per chi la vuol capire, sennò continua a dire che l’è un büs, e ciao!”. La casetta+albero è alla stessa stregua un’idea profonda e semplice, così come quelle matite messe in fila, quei pennelli e quelle camicie elaborate dal ‘68 al ‘70 sulla tela grezza come moderne icone bizantine, come platonici esercizi di stile, non sono matite, pennelli o camicie. Non possono avere

Tino Stefanoni, Senza titolo Z429, 2015. Cm. 36x36, acrilici su tela. Courtesy Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca

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Tino Stefanoni, mostra antologica al Refettorio delle Stelline - Gruppo Credito Valtellinese, Milano 2013.

Tino Stefanoni, Biennale di Venezia 1970. Eseguiti 3 multipli con macchina sottovuoto all’interno della Biennale stessa - tiratura illimitata al periodo dell’esposizione veneziana.

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artisti in copertina

Tino Stefanoni, personale alla Gomo Gallery, Seoul (Korea), maggio giugno 2013.

definizione: sono senza titolo perché è sufficiente la loro evidenza di cose che diventano attributi emblematici di noi uomini post-moderni, come l’elmo, l’egida e la spada lo erano per gli eroi dell’antichità. Icone che diventano segnali non di pericolo ma di orientamento, indicazioni di senso, come appunto quei Segnali stradali che dal 1969 al ‘70 precorrono quella che diventerà una vera ossessione delle coeve ricerche Pop. Icone che più in là, nel ‘71, si configurano proprio tautologicamente come Piastre guida per la ricerca delle cose: una serie derivata da una sorta di esercizio zen in cui l’artista, alla stregua di un artigiano, abbandona i pennelli e si confronta direttamente con la materia, tranciando le lastre di ferro per dare forma concreta a quello che prima erano solo oggetti rappresentati. Ma quello che interessa a Stefanoni non è la forma, quanto la sua essenza che si fa pensiero essenziale e addirittura eco, duplicazione di un qualcosa che è già stato, ma non come rievocazione malinconica bensì come sintesi estrema. Nasce così la serie Memorie del ‘75 in cui l’artista duplica su tele di lino le sue opere precedenti tramite carta carbone e dove le cose diventano così essenziali da assurgere a segno tanto autosufficiente da farsi miniaturistica scrittura nella serie Elenco di cose che tra il ‘76 e l’83 sembrerebbe condurre l’artista su territori così rarefatti da sembrare asettici. Ma che al di là delle apparenze la natura della ricerca dell’artista fosse in effetti un febbrile lavorìo sottotraccia, controllato ma profondo, lo dimostrano le Apparizioni dell’83: tanto quanto l’Elenco delle cose erano come una sorta di raggelato diario inti-

Tino Stefanoni alla sua mostra all’Università Bocconi di Milano

mo, così le Apparizioni si fanno preludio lirico, quasi trasognato, ad un recupero pieno della composizione dell’opera, con tutti gli elementi costitutivi che le competono e con tutta la tecnica pittorica necessaria per elaborarli: forma, colore, volume, tonalità... Dopo due decenni di meticoloso smontaggio del linguaggio artistico alla ricerca della forma pura e dei costituenti primari, con i paesaggi e le nature morte Senza titolo inaugurati nell’84 è come se Tino Stefanoni avesse deciso di ricomporre il Tutto in una visione che è anche recupero e ricomposizione del senso del Tutto e qui la natura delle cose torna ad essere dipinta a tutti gli effetti ma si fa spiazzante e misteriosa, non più raggelata ma vibrante, come se fosse filtrata da quell’atmosfera rarefatta che si può esperire solo sulle montagne assolate in alta quota. E quando in alta quota scende la nebbia, o meglio, quando le nuvole si abbassano, un silenzio ottundente ti avvolge e ti immerge in un’aura ovattata in cui le cose perdono peso, perdono consistenza e i contorni si fanno mossi e brulicanti, come i tratti a carboncino sull’arriccio degli affreschi, come nelle opere appunto intitolate Sinopie a cui l’artista ha affidato le più recenti declinazioni della sua raffinata ed essenziale ricerca. Una ricerca che abbiamo dichiarato d’acchito essere d’alta quota e così ci piace continuare a pensarla, non certo avulsa dal contesto culturale che ha attraversato e che attraversa, ma più coerentemente perseguita, e qui risiede la sua grandezza, con il passo che ogni grande alpinista, come ogni grande artista, sa dover essere necessariamente e comunque solitario. n

Tino Stefanoni, nato a Lecco nel 1937, ha studiato al liceo artistico Beato Angelico e alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano. La sua vera e propria attività artistica inizia nel 1967 con il conseguimento del 1° premio S.Fedele di Milano, importante rassegna per giovani artisti presieduta all’epoca dal conte Panza di Biumo e da Palma Bucarelli. È del 1968 la prima personale nella storica galleria Apollinaire di Milano con un saggio di Pierre Restany. Dal 1967 ad oggi sono moltissime le esposizioni in Italia e all’estero e le acquisizioni di musei e istituzioni e collezioni private. SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 61


Giacomo Cossio, Eden, 2015, tecnica mista su tavola,cm. 150x200x30, Museo della città di Rimini, 2016, foto Dario Lasagni.

Galleria Bonioni Arte - Reggio-Emilia

Giacomo COSSIO Massimo PULINI Il destino dei fiori di Maria Letizia Paiato

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el variegato panorama dell’arte contemporanea, il tema dei “fiori” può apparire come obsoleto, superato, smaccatamente anacronistico. Tuttavia, il più classico fra i soggetti trattati in pittura, che dal Rinascimento in poi ha affascinato orde di artisti e mecenati, riesce, se nelle giuste mani, a conquistare lo sguardo di molti ancora oggi. Nel suggestivo titolo che accompagna la mostra: Il destino dei fiori, e che vede protagonisti gli artisti Giacomo Cossio e Massimo Pulini, risiede quell’idea fatale dell’accadere, quella predeterminazione che interessa

tanto la sorte di questo soggetto nel mondo dell’arte, quanto un pensiero poetico associabile alla relazione dell’uomo con la natura, ma anche al suo generale rapporto con la “bellezza”. Un rinnovato senso, dunque, delle cose naturali e delle “nature morte”, è il cuore di quest’esposizione organizzata dalla Galleria Bonioni Arte di Reggio Emilia, che nell’accostare le opere di Cossio e Pulini, artisti provenienti da formazioni diverse, ma entrambi interessati al soggetto dei fiori, riporta al presente ciò che pare superato e inadeguato ai tempi moderni. Ma i boccioli, le corolle e le piante, non sono il solo il tema principale che caratterizza questa doppia personale. È anche la tecnica di realizzazione a essere oggetto di studio e ricerca nelle intenzioni della Bonioni Arte e di Niccolò Bonechi, curatore della mostra. Infatti, osserviamo da un lato la pittura tout-court praticata da Massimo Pulini, il quale, tuttavia, lavora su supporti non tradizionali. Dall’altro, opere che mischiano pittura e scultura, fra accumulazioni e inclusioni di materiali eterogenei e sintetici, create da Giacomo Cossio.

Giacomo Cossio, Quasi un quadro, 2012, tecnica mista su tavola, cm. 104x300x20, foto Massimo Dall’Argine.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Massimo Pulini, Si piega il giorno dentro la scatola, 2011 smalto su tavola, cm. 75x65.

Massimo Pulini, La pioggia suona diversa d’estate, 2011 smalto su tavola, cm. 150x120.

Massimo Pulini, Un bianco sole e basse, basse nubi, 2011 smalto su tavola, cm. 60x50.

«Quale il destino dei fiori dunque? Quale l’attualità della sua rappresentazione?» sono le semplici domande che Bonechi pone in essere in questa mostra, per poi spiegare: «Massimo Pulini e Giacomo Cossio, pur essendo due autori che vivono la contemporaneità delle vicende sociali e artistiche, hanno deciso di confrontarsi con un soggetto antico, quasi dimenticato: Pulini annulla ogni possibilità di prospettiva, lavorando su supporti sintetici (bacheliti) anticonvenzionali del fare pittura, mirando ad innalzare il valore più intimo della composizione; diversamente in Cossio il tutto appare come il risultato di una esplosione che ha determinato la creazione di nuovi universi, ritornando di fatto all’uso alla tecnica avanguardistica del collage e dell’objet trouvé». Possiamo, inoltre, constatare che, il bisogno istintivo di rappresentare il mondo, che Giacomo Cossio trasmette nelle sue opere, graffia la realtà, senza eccessi di manierismo, snocciolando un linguaggio espressivo autentico che non ricorre ad inutili orpelli.

Dall’altra parte Massimo Pulini mostra una pittura consapevole, frutto anche della sua lunga e solida carriera, oltre che di artista di storico dell’arte. Un’esperienza da cui si evince l’attenta filologia praticata da Pulini intorno al tema “floreale”, che emerge dal suo essere ricercatore nel campo disciplinare dell’arte moderna, tanto che a lui si devono importanti scoperte e nuove attribuzioni che hanno arricchito il corpus delle opere di importanti artisti quali: Lorenzo Lotto, Annibale e Ludovico Carracci, Caravaggio, Guercino, Alessandro Turchi, Guido Reni, Simone Cantarini, Guido Cagnacci e numerosi altri. Una conoscenza del Rinascimentale che quando incontra il contemporaneo si traduce in una sapiente attitudine verso l’originale. In questo dialogo fra Cossio e Pulini, emerge con chiarezza quella linea, senza soluzione di continuità, che congiunge il passato al presente e che dimostra, al contempo, una possibile via alla rivisitazione continua della pittura. n SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 63


Parco Internazionale di Sculture all’aperto Galleria Civica di Arte Contemporanea “Vero Stoppioni” Santa Sofia (Forlì -Cesena)

Giulio De Mitri AttraversaMenti in luce Premio Campigna 2016 di Lucia Spadano

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n percorso rovesciato rispetto a quello mitico compiuto da Prometeo. Con questa immagine Renato Barilli, direttore scientifico della 57a edizione del prestigioso Premio Campigna, descrive la complessa e affascinante ricerca dell’artista innovativo e sperimentale Giulio De Mitri, Premio Campigna 2016, impegnato da anni tra identità, tecnologia e mistica liricità. Un percorso coerente e rigoroso, una ricerca poetica e filosofica al tempo stesso, fedele al proprio tempo e alla propria storia. L’edizione 2016 del premio consiste in tre speciali progetti che

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l’artista dovrà realizzare nella storica cittadina di Santa Sofia (Forlì-Cesena): opera pubblica site specific da installare permanentemente nel Parco Internazionale di Sculture all’aperto; mostra personale con opere recenti e dell’ultimo decennio negli spazi della Galleria Civica d’Arte Contemporanea “Vero Stoppioni” e direzione di una residenza dedicata alla giovane creatività. “Se l’eroe del mito - scrive Renato Barilli nelle presentazione al catalogo - aveva rubato una fiammella all’Olimpo degli dei, trascinandola sulla Terra, e dunque abbassandola, degradandola,


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Giulio De Mitri, AttraversaMenti in luce, opere 2006-2016 (particolari). Foto di G. Ciardo. Courtesy Galleria Civica di Arte Contemporanea “Vero Stoppioni”, Santa Sofia (FC)

De Mitri invece è partito dal profondo del mare, ma traendone ugualmente un guizzo, una carica di energia, che poi ha portato fuori, all’aria, all’aperto, avviandolo a un processo di consolidamento”. In questo senso, la ricerca dell’artista pugliese svela un meccanismo estetico, filosofico e sensoriale in grado di definire il percorso espositivo come una straordinaria esperienza immersiva

e totalizzante, un’opera-ambiente in cui spazio e tempo proiettano l’osservatore verso origini remote e immaginifiche. Giulio De Mitri è tra i maggiori protagonisti della Light Art, al centro di una ricerca svolta tra minimalismo mediterraneo e arte sociale, da tempo persegue una ricerca orientata ai temi dell’identità culturale, attraverso l’impiego di una tecnologia

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Giulio De Mitri, Il Giardino di Psyché, 2016 (particolari). Opera pubblica site specific. Foto di G. Ciardo. Courtesy Parco Internazionale di Sculture, Santa Sofia (FC)

sofisticata volta a suscitare silenziosa e mistica liricità, contemplazione, poesia. “Le opere di De Mitri - scrive nell’introduzione al catalogo Caterina Mambrini, direttrice della Galleria d’arte contemporanea “Vero Stoppioni” - sono fondate su una ricerca profonda nella storia, nella memoria collettiva, nel mito; dalla filosofia greca alla letteratura contemporanea, la ricerca dell’artista è costellata di riflessioni e citazioni. Il sapiente intreccio tra l’aspetto testuale e quello visivo dà vita a installazioni composite, che innescano una serie illimitata di rimandi”. Temi essenziali di un percorso che trova, in questa antologica di lavori dell’ultimo decennio, una configurazione dai forti paradigmi concettuali, tematizzati in sei sezioni: Energia, Il Grande Mare (Mediterraneo), Rigenerazione, Speranza, Volo e Spiritualità. Se da un lato l’artista svela la profonda esigenza di spiritualità del nostro tempo, dall’altro attiva riflessioni dalle acute implicazioni etiche e sociali. In maniera radicalmente distante rispetto a taluni

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approcci documentali e storicisti del linguaggio artistico relazionale e situazionale, De Mitri si addentra all’interno di posizioni critiche con decisione e sensibilità, riannodando la scrittura filosofica e letteraria alla visione dell’arte e alle sue implicazioni estetiche. Quella di Santa Sofia – sottolinea il critico Roberto Lacarbonara in catalogo – è indubbiamente “una delle più preziose e sensibili visualizzazioni plastiche di quelle acute istanze che, da Camus a Pasolini, passando per le lucide asserzioni del pensiero meridiano di Cassano, conducono ad una urgente rilettura degli accadimenti europei, mediterranei e globali. Ed è esattamente attorno al discorso ateniese di Camus [Il futuro della civiltà europea, 1955] che De Mitri costruisce un intero percorso in grado di configurare l’estetica dell’etica nell’occidente contemporaneo”. Va inoltre sottolineato quanto lo stesso Premio Campigna, tra i massimi riconoscimenti nazionali ed internazionali e tra i più longevi in Italia, sia programmaticamente rivolto a sostenere la produzione di artisti in grado di connettere innovazione di linguaggio,


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

rigore e continuità di ricerca ed una rinnovata esigenza spirituale. Con l’opera pubblica site specific “Il giardino di Psyché” installata nel “Parco Internazionale di Sculture all’aperto”, già sede di una importante collezione, ormai storica, di imponenti opere di maestri dell’arte contemporanea (da Staccioli a Carrino, da Nagasawa ai coniugi Poirier), De Mitri ha operato in complicità con la luce naturale, senza rinunciare all’alterazione di questa in una miriade di riflessi e improvvisi bagliori. La scultura composta da 65 elementi in acciaio inox specchiante, essenziali forme di farfalle colte in procinto di spiccare il volo sui numerosi massi (appositamente scelti dall’artista) di pietra calcarea del territorio emiliano. L’opera monumentale di De Mitri è dedicata al mito di Psyché, attraverso il ricorso alla fragilità e alla leggerezza della farfalla, da sempre allegoria e simbolo dell’anima e del suo soffio vitale. Un’opera, anche in questo caso, in grado di rendere visibile e immediato il precetto eracliteo: la totale connessione delle cose (si pensi anche alla teoria fisica del butterfly effect), la coniuga-

zione degli opposti (leggerezza e gravità, luce e buio, movimento e staticità) e la continua metamorfosi degli stati, dei pensieri, della materia, della Storia. Infine, a partire dal 19 settembre e per una settimana, l’artista ha diretto una residenza dedicata alla creatività giovanile. Un aspetto non secondario nell’ambito dell’intera operazione del Campigna che, in questo modo, rappresenta un modello di premialità e ricerca, con uno sguardo rivolto alla storia recente ed una sensibilità nei riguardi delle nuove generazioni poste a contatto e confronto con i massimi maestri che annualmente danno lustro alla cittadina romagnola di Santa Sofia e all’unione dei comuni di Galeata e Premilcuore. La mostra resterà aperta fino al 19 novembre 2016. Per l’occasione è stata realizzata una pubblicazione edita da Gangemi Editore (Roma), con testi critici di Renato Barilli, Luigi Paolo Finizio, Roberto Lacarbonara, Sara Liuzzi, Caterina Mambrini, Claudio Spadoni e Silvano Trevisani. n

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Conrad Marca-Relli, Untitled, 1969 collage and mixed media on canvas, 65 x 59 cm.

Galleria Open Art, Prato

Conrad MARCA-RELLI Tra Figura e Astrazione di Paolo Balmas

L’

Action Painting americana, in genere, è ricordata dai non specialisti come una sorta di esperienza sui generis, spavalda e bruciante sì, ma attraversata da una inquietante valenza tragica in qualche modo ad essa connaturata. L’immagine è quella di un manipolo di personalità d’eccezione cui dobbiamo la definitiva liberazione dell’arte statunitense da qualsiasi sudditanza nei confronti dell’Avanguardia europea. Un manipolo di personalità dalle quali, però, a conti fatti, non abbiamo ricevuto alcun lascito in senso strettamente costruttivo, nessuna innovazione linguistica spendibile nel quotidiano che non abbia le stimmate dell’epigonismo, di una minorità bloccata e, in qualche modo, inevitabile stante la portata irraggiungibile dei suoi mitici iniziatori. Le cose naturalmente non stanno così e l’effetto distorsivo è probabilmente dovuto alla concomitanza con tutta una serie di incertezze interpretative conseguenti all’evolversi stesso della storiografia del periodo, sia Europea che Americana, stretta fra gli opposti modelli della Museificazione a getto continuo del Contemporaneo e della Critica cosiddetta Militante, sospinte la prima dal vigoroso mecenatismo progressista del tempo e la seconda dal bisogno di dignificazione sociale di un’attività informativa sempre più svilita dal suo risvolto mondano e mercantile. L’Action Painting, o Espressionismo Astratto, ebbe infatti, un lungo periodo di maturazione e consolidamento che seppe esplorare, con coerenza ed intraprendenza, niente affatto ta68 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Conrad Marca-Relli, Seated Figure, 1955 collage and mixed media on canvas cm.89 x 81.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Conrad Marca-Relli, S R 58, 1958. collage and mmixed media on canvas - 57 x 70.5.

scurabili, tutte le aperture linguistiche e le invenzioni formali del suo periodo eroico fino a portarle ad un interessante incontro con le nuove necessità espressive di una società in rapido mutamento, incontro che non è mai stato studiato a fondo, o comunque sistematicamente, per diverse ragioni tra le quali sicuramente non ultima l’impenetrabile e devastante autoreferenzialismo delle successive correnti a valenza mass-mediale, ovviamente, con la Pop Art in testa. Per tutte queste ragioni non si può che plaudire all’ iniziativa della Galleria Open Art di Prato, di dedicare (dall’8 ottobre al 10 dicembre), una ampia retrospettiva all’opera Conrad Marca-Relli, uno dei più longevi tra i protagonisti dell’esperienza New Yor-

kese in questione. Un protagonista, appunto, instancabilmente dedito, fino al 2004, anno della sua scomparsa, ad indagare e sviluppare fattivamente, tutte le valenze ancora aperte di quelle invenzioni linguistiche che ne hanno fatto una sorta di controfaccia metodica e, a suo modo anche elegante, di quel Jackson Pollock, di cui fu intimo amico e compagno di strada e di cui il destino volle che fosse chiamato, nel 1956, a riconoscere il cadavere dopo l’incidente stradale in cui perse la vita. Intitolata “CONRAD MARCA-RELLI – Tra Figura e Astrazione” ed organizzata con la collaborazione della Galleria Niccoli di Parma e dell’Archivio dell’artista, la mostra, a cura di Mauro Stefanini, attraverso più di quaranta opere dagli anni ’40 agli

Marca-Relli Conrad, Untitled, 1950 oil on canvas, 98.5 x 140.5 cm.

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Conrad Marca-Relli, J-M-10, 1985 - collage and mixed media on canvas 94.5 x 127 cm.jpg

Conrad Marca-Relli, F-S-15-59, 1959 -collage and mixed media on canvas - 66.3 x 86.5 cm.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Conrad Marca-Relli, The Port, 1951 - oil on canvas - 108,5 x 124,5 cm.

Conrad Marca-Relli, L-9-74, 1974 - collage and mixed media on canvas - 152,4 x 182,9 cm.

’80 (del 900), cercherà di fare il punto sul percorso attraverso cui l’artista americano (nato a Boston da genitori italiani), è giunto alla originalissima forma di astrazione che ne caratterizza gli anni della maturità. Particolare rilievo ha il fatto che in mostra saranno presenti anche un buon numero di dipinti ancora figurativi degli esordi giovanili, in quanto proprio in questi è possibile rintracciare la progressiva messa a punto di quel particolarissimo tipo di resa dello spazio che intorno al 1953 consentirà al nostro artista di applicare in forma sempre più completa e suggestiva la tecnica del collage ai suoi dipinti fino a condurli verso esiti astrattoinformali sorprendentemente efficaci stante un periodo di sperimentazione, in fin dei conti, relativamente breve. Lo spazio cui Marca Relli approda, in consonanza con molte ricerche europee e anche italiane del tempo, è infatti uno spazio in cui i contorni di architetture e figure, così come quelli dell’ambiente retrostante, tendono a configurarsi come limiti omogenei di riquadri più o meno grandi e più o meno regolari, in grado di raggiungere, volendo, un loro leggero rilievo simile a quello di una placca o di un piano dotato di spessore quasi si trattasse di una tarsia che d’improvviso abbia maturato una sua aspirazione alla tridimensionalità donatrice di ulteriore significato. Una modalità di rappresentazione articolata questa che ben presto non gli sarà difficile virare verso la sovrapposizione di vere e

proprie superfici concretamente cartacee che egli finalmente si sentirà sempre più libero di colorare con una vivacità e un’intensità pronte a superare di gran lunga ogni obbligo di residuo mimetismo e di instaurare un gioco a rincorrersi tra spazio sottostante e piani sovrastanti di cui non si era mai avuto prima alcun esempio. Detto in altre parole, tanto il collage cubista che quello Dadaista sono superati d’un colpo a metà degli anni ‘50 non per via di evoluzione ma in quanto ne spariscono i codici di supporto, le premesse di metodo o di anti-metodo che consentivano al frammento di galleggiare su di un mare di senso e di vivificarlo sì ma solo parzialmente. Una scoperta quella del collage continuo e continuamente in antagonismo con il fondo che Marca Relli attraverso gli anni ha modulato e riconfigurato in tutte le direzioni suggeritegli dall’emozione, dall’intuizione e dal desiderio di avventura, fino a passare dalla riscrittura di grandi capolavori del passato come la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello alla esplorazione in fieri di enormi superfici in cui la continua attenzione al particolare passibile di essere riconfigurato praticamente all’infinito non gli impediscono di esprimere un viglore gestuale e plastico non inferiore a quello consentito a Pollock dal Dripping o a De Kooning dalle sue deformazioni e dai suoi schiacciamenti di volti e corpi verso i bordi della tela. Paolo Balmas SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 71


Nicola Carrino, (da sinistra a destra) Costruttivo R.5/90, 1990. Cerchio/ellissi, ferro, insieme 50x125 cm; Costruttivo R.6/90, 1990. Ellissi/ellissi, ferro, granito, 75x50x1 cm, 50x33x2 cm, ambientazione variabile; Ellissi 2/83, 1983. 3 ellissi, ferro, 140x70x2,2 cm, 122x61x1,6 cm, 105x52x1,1 cm, insieme 170x150x2,7cm Veduta parziale dell’esposizione, A arte Invernizzi, Milano. Courtesy A arte Invernizzi, Milano. Foto Bruno Bani, Milano

A arte Invernizzi, Milano

Nicola CARRINO

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rogetto specifico per la galleria nella mostra personale di Nicola Carrino a carattere antologico. Processo unitario determinato in due ambienti conseguenti in rapporto con lo spazio della galleria. Nel testo introduttivo alla mostra, lo stesso artista così dichiara: “Ricostruttività. Reconstructing City. Ricostruttivo 1/69 E.2016. Tutte le arti concorrono alla Città. Fa urbanistica lo scultore, fa urbanistica il pittore, fa urbanistica persino colui che compone una pagina tipografica. La scultura è la forma del luogo, anzi il luogo stesso. Sono i principi che unitariamente richiamano e governano la mia visione del fare, produrre, pensare, comunicare l’arte. La scultura non è produzione di oggetti, ma comunicazione di pensiero. In questo l’oggetto è indispensabile. Tra l’architettura e la scultura, lo scarto è solo nella dimensione oggettuale. Intorno all’oggetto realizzato si mostra e si realizza nel pensiero, l’idea, la virtualità e la realtà dell’essere. Dell’esistente. Del suo affermarsi e procedere. L’arte è processo dinamico evolutivo del reale. I ‘Costruttivi Trasformabili’ sono organismi plastici modulari che svolgono azione processuale nel tempo e nello spazio della realtà contingente. L’artista comunica negli spazi dell’estetico nella possibilità propria della ricerca, e quindi nel luogo pubblico dell’estensivo urbano comunicativo. Con la presenza e il pluriaccostarsi delle unità generanti modulari. Nei blocchi possibili aggregativi. Nella dispersione della virtualità propalatrice. Ridefinendosi di volta in volta Ricostruttivamente. Nel Costruirsi, Decostruirsi, Ricostruirsi urbano ed urbanistico. Quale contenitore aggregativo di forme e dell’esistente civile,

sociale e politico” In tal senso, il primo Ambiente al piano superiore della galleria ripercorre l’iter creativo dell’artista, partendo da Progetto Spazio aperto (Realtà n.2) del 1959 e dai primi “Costruttivi” del 1963, passando alle “Strutturazioni plastiche” e “Strutture modulari” del 1964 e 1965 e quindi all’insieme costruttivo “Trasformazione dello spazio/Ellissi”, “Ellissi”, “Costruttivi/ Ellissi”, con opere in parte già esposte nella sala personale alla Biennale di Venezia del 1986. Conseguentemente il secondo Ambiente al piano inferiore, determina lo spazio con 13 differenti “Situazioni Reconstructing City” dell’attuale Costruttivo 1.69 E. 2016, organismo plastico trasformabile, composto da 57 moduli scalari in acciaio inox, appositamente realizzato per la mostra. Le “Situazioni” aggregative sono denominate e distinte per lettere e seguente numero di variante in ragione del numero dei moduli componenti i singoli insiemi e dell’ordine numerico contrassegnante gli stessi.
I moduli in acciaio inox Aisi 304 con superficie molata a mano in grana 80, misurano 30x30x30 cm. ciascuno e sono contrassegnati a marcatura con la firma in sigla NC e la data di esecuzione 2016, in base ad una delle facce scalari, dal numero 1.57 al numero 57.57. Negli “Interventi” disposti, in sintonia con la visione urbana della Città, emerge il procedere del fare arte di Nicola Carrino come azione continua, trasformativa della realtà. Le “Situazioni” De/Ri/Costruite fondano modalità di relazione oltre lo spazio contingente, verso altre percorribili traiettorie. In occasione di questa mostra (visibile fino al 23 novembre) pubblicato un catalogo bilingue con la riproduzione delle ambientazioni in mostra, un saggio introduttivo di Paolo Bolpagni, un testo di Nicola Carrino, una poesia di Carlo Invernizzi e un aggiornato apparato bio-bibliografico. (a cura di LS)

Nicola Carrino, Ri/Costruttivo 1/69 E.2016, 1969.2016 57 moduli scalari, acciaio inox molato, 30x30x30 cm l’uno, 13 Situazioni aggregative. (A sinistra, in sequenza dal primo piano) Epsilon, 5 moduli scalari n. 21.57/25.57 Acciaio inox molato 30x60x90 cm; Beta Due, 2 moduli scalari n. 5.57/6.57 Acciaio inox molato 30x30x60 cm; Alfa Due, 1 modulo scalare n. 2.57 Acciaio inox molato 30x30x30 cm; Gamma Due, 3 moduli scalari n. 10.57/12.57 Acciaio inox molato 30x30x90 cm. (a destra, in sequenza dal primo piano), Alfa Uno, 1 modulo scalare n. 1.57 Acciaio inox molato 30x30x30 cm; Beta Uno, 2 moduli scalari n. 3.57/4.57 Acciaio inox molato 30x30x60 cm; Gamma Uno, 3 moduli scalari n. 7.57/9.57 Acciaio inox molato 30x30x90 cm; Delta Uno, 4 moduli scalari n. 13.57/16.57 acciaio inox molato 30x60x90 cm; Delta Due, 4 moduli scalari n. 17.57/20.57 acciaio inox molato, 30x60x90 cm. Veduta parziale dell’esposizione, A arte Invernizzi, Milano. Courtesy A arte Invernizzi, Milano. Foto Bruno Bani, Milano

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Accademia Nazionale di San Luca, Roma

Vasco BENDINI Gli ultimi anni in quaranta opere di grandi dimensioni di Viola Fazzi

Vasco Bendini, S’apre il domani, 2003. Tempera acrilica su tela, cm 200 x 180

L’

Accademia di San Luca a Roma dedica a Vasco Bendini (Bologna 1922 - Roma 2015), Accademico dal 2007, una mostra curata da Fabrizio d’Amico e realizzata in collaborazione con l’archivio Bendini di Roma. L’esposizione raccoglie trentasei opere dell’artista eseguite tra 2000 e 2013 in un insieme di straordinaria coerenza: si tratta di un periodo che qui viene esposto per la prima volta in maniera così organica e completa, permettendo un utile approfondimento, indispensabile perché la poetica di Bendini, nonostante i cospicui riconoscimenti sia recenti che di vecchia data, resta ancora sfuggente. Le ragioni sono molteplici: alcune dipendono dal carattere del maestro, che ha sempre rifiutato l’incasellamento e l’appartenenza a gruppi ben definiti, altre sono da ricercare nella difficoltà e nell’inafferrabilità delle sue opere, che deriva per forza di cose dalla complessità e dalla ricchezza dei temi trattati. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Lubrina Editore. Il catalogo si apre con un breve intervento del Presidente dell’Accademia, Carlo Lorenzetti, in cui si legge un ricordo vivo e penetrante del maestro, e con uno di Francesco Moschini, Segretario Generale, che rintraccia tra gli elementi più significativi della poetica di Bendini un “costante tentativo di forzare la tela” che, reso attraverso una pittura pulviscolare e impalpabile, lascia presagire “una perseguita ricerca, con spasmodica ostinazione,

dell’origine”: un percorso sempre coerente, in cui la continuità è un elemento fondamentale. La continuità, d’altra parte, passa anche per dati tecnici. Vasco Bendini ha fatto della pittura il suo medium espressivo privilegiato, e ancora oggi è rilevante parlare della sua formazione: allievo all’Accademia di Belle Arti di Bologna di Virgilio Guidi e Giorgio Morandi, assume sin dagli esordi, negli anni Cinquanta, un ruolo importante nel panorama artistico. Il suo valore viene riconosciuto, tra gli altri, da critici tra cui spiccano, fra i primi, Arcangeli (che già nel 1953 aveva scritto l’introduzione alla personale dell’artista alla Galleria La Torre, a Firenze) e Calvesi; e, a partire dagli anni Sessanta, Emiliani, Villa, Argan e Tassi. I due testi in catalogo del curatore Fabrizio d’Amico (Bendini ultimo) e di Rosalba Zuccaro (Vasco Bendini: sul fare e sull’immagine) spiegano in maniera esauriente gli elementi di continuità e rottura dei quadri degli ultimi anni rispetto alla produzione meno recente e più conosciuta, dando così pienamente ragione della scelta di non fare un’antologica del maestro ma di privilegiare un nucleo che dà la possibilità di arricchire il discorso critico su Bendini con elementi nuovi. Sin dalle prime opere di Bendini inizia ad affrontare alcune linee fondamentali che, diversamente approfondite e maturate nel corso degli anni, ritornano nei quadri esposti in mostra. Per SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 73


Vasco Bendini, Veduta della mostra all’Accademia di San Luca a Roma

Vasco Bendini, Veduta della mostra all’Accademia di San Luca a Roma

evidenziarne uno Fabrizio D’Amico ricorda il già citato testo di Francesco Arcangeli del 1953: oltre a coniare la celebre espressione della “candida, solitaria primogenitura” lo storico dell’arte individuava nelle opere di Bendini una “strana accentuazione dello spirituale”, che D’Amico chiama nel suo testo la “poggiatura ‘astratta’ del suo sentire”, pur ribadendo il paradosso di usare un concetto spinoso, quello dell’astrazione, verso cui Bendini era il primo a provare una certa diffidenza. Le parole di Arcangeli rimangono valide tutt’ora, e rimeditarle non stona affatto, percorrendo le sale della mostra, con l’impressione che lasciano le grandi tele: quella di rappresentare spazi, certo, fatti di aria luce e atmosfera, ma che restano pur sempre spazi interiori e potremmo dire quasi metafisici, se solo questo non fosse un altro termine troppo caricato di significati. Rosalba Zuccari ripercorre la carriera di Bendini soffermandosi sui momenti più rivelatori e evidenziando di volta in volta il rapporto con la produzione esposta in mostra, attraverso un confronto serrato con le opere e la pubblicazione di alcuni lettere fondamentali per capirne meglio il processo creativo. Col passare degli anni la ricerca di Bendini si muove quasi impercettibilmente da un’indagine sulla creazione artistica e sui processi che la regolano verso “l’immedesimazione totale con la realtà fenomenica, non più esterna ma interna al suo essere”: tra l’altro la sua pittura si carica in modo sempre più esplicito di significati sociali. Il grande formato è uno tra gli elementi di rottura più evidenti rispetto alle prime opere, e parte della loro suggestione: Bendini lo utilizza e inizia a prendervi dimestichezza soprattutto a partire dalle serie degli anni Ottanta. Serve, in queste come nelle ultime opere, a evidenziare ancora di più il carattere squisitamente pittorico e immateriale, che riprende le tendenze delle prime serie degli anni Cinquanta lasciando da parte le esperienze più direttamente materiche degli anni immediatamente precedenti. “Il maestro sembra così perseguire una vagheggiata sottrazione di materia, in una altalenante oscillazione che genera veri e propri collassi percettivi” scrive Francesco Moschini nel catalogo. Ma a distinguere ancor più decisamente questa produzione, come rileva in particolare Fabrizio D’Amico, è l’uso diverso della luce, vera protagonista delle opere ultime: una luce a volte accecante, piena, assoluta (come ad esempio in Per aprirsi al

giorno, 2003, o Angelo, 2012); altre volte in conflitto con squarci di tenebra, come nella serie dell’Immagine accolta (ad esempio da D4_17, 2004, che fa da copertina al catalogo); infine ne La luce di chi?, 2001 - uno dei numerosi titoli parlanti che fanno da contrappasso a quelli identificati da semplici date - è una presenza debole che si scorge appena spuntare fuori dalle compatte tenebre del resto del dipinto. Le tecniche sono tradizionali: ventidue pezzi in tempera acrilica su tela (eseguiti tutti prima del 2004), tredici oli su tela e una sola opera polimaterica, I sentieri della notte, del 2004. Negli oli le ampie velature lasciano intuire la profondità degli spazi, che nelle tempere è suggerita anche dalle raschiature che fanno intravedere gli altri strati di colore o la tela grezza. Le apparizioni luminose vengono rese con uguale eleganza attraverso sovrapposizioni di colore, monocromi, o contrasti drammatici di bianchi e neri il cui significato esistenziale è a volte sorprendentemente evidente. Come se ciò non bastasse una chiave di lettura per queste contrapposizioni viene da alcune parole dello stesso Bendini: “Questi i fatti. Impossibile non smarrirsi. In questi frangenti nascono i miei neri: canti della notte, matrice di speranza. E sorgono i miei bianchi, naturali immagini di attesa”, scrive l’artista in chiusura all’autobiografia pubblicata sulla sua pagina web (http://www.vascobendini.com/autobiography/): un testo in cui invece di trovare un elenco delle principali tappe della carriera artistica lo scorrere del tempo è segnato inesorabilmente dal propagarsi e ripetersi dei principali conflitti internazionali, dalla seconda guerra mondiale fino alla guerra in Iraq. Indispensabile per capire che le lacerazioni che si producono nei quadri di Bendini non sono solo interiori, ma quasi sempre ben radicate nella situazione attuale, derivanti in qualche modo dall’agire umano: esprimono insomma una sofferenza collettiva e non possono essere totalmente ricondotte ad una poetica intimista. E se le ultime opere non hanno, in gran parte, i titoli rivelatori di alcune degli anni Sessanta (Durante la strage di Kindu, 1961; Cuba, 1962) basta l’olio intitolato 11 settembre 2001, dello stesso anno, a lanciare un segnale sulla necessità di tenere conto del profondo legame di queste opere con una realtà più concreta e fattuale di quel che si potrebbe pensare leggendo titoli meno espliciti. E certo l’immagine di Bendini, se non è certamente concreta e figurativa, lascia intuire l’orrore della data con segni che indugiano più

Vasco Bendini, della serie L’immagine accolta, 2010. Olio su tela cm 110 x 90

Vasco Bendini, 29 aprile 2008, 2008. Olio su tela cm 110 x 90

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Vasco Bendini, Necessità di un respiro, 2002 tempera acrilica su tela, cm 200 x 180 Roma, Accademia Nazionale di San Luca

che in altri casi ad una rappresentazione dell’evento. Rispetto ai temi individuati la mostra all’Accademia di San Luca apre la possibilità di ulteriori terreni di indagine. Tra gli aspetti più interessanti vi è l’individuazione di un’eventuale evoluzione all’interno di quest’arco cronologico: la mostra documenta chiaramente come a partire dal 2004 l’autore approdi a nuove soluzioni almeno tecnicamente (l’uso assai più frequente dell’olio rispetto all’acrilico) se non proprio stilisticamente differenti da quelle degli anni passati. Infine, se grazie alla mostra questo nucleo di opere tarde è stato portato all’attenzione, almeno nelle sue linee generali, e attentamente messo in rapporto con la produzione precedente individuando tutte le piccole deviazioni e cambi di rotta che hanno portato alla realizzazione questo facilita uno studio ancor più approfondito e incentrato sulle singole opere, anche in rapporto al loro tempo. Una riflessione sull’ultimo Bendini si intreccia inevitabilmente con quella su un tema assai interessante e dibattuto, l’estrema maturità di un artista longevo, che abbia alle spalle una produzione ricca e importante. I quadri di Bendini esposti in mostra danno ancora la solida impressione di essere pieni di significato: perfettamente inseriti nella parabola dell’artista senza essere ripetitivi e intimamente connessi nel contenuto. n

Vasco Bendini, della serie L’immagine accolta, D4_17, 2004 tempera acrilica su tela cm 200 x 180

Vasco Bendini, Veduta della mostra all’Accademia di San Luca a Roma

Vasco Bendini, Veduta della mostra all’Accademia di San Luca a Roma

SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 75


Mario Surbone, Inciso orizzonte GR 19, 1974 Acrilico su cartone, cm 103x77

Mario Surbone, Inciso orizzonte GR 4, 1973 Acrilico su cartone, cm 103x77

Fondazione Stelline, Milano

Mario SURBONE Incisi 1968-1978

N

on tutti i pittori hanno la fortuna (e il merito) di annoverare tra periodi in cui è possibile suddividere la loro produzione un intero ciclo di lavori passibile di essere eletto a rappresentazione perfetta della propria personalità artistica, personalità non intesa come sunto nel quale tutto è possibile intravedere o come manifesto che tutto progetta e dichiara, ma come matrice interna, segreta e palese insieme, dei propri sogni più concreti, la “scheda madre” , si direbbe oggi, che presiede all’inseguimento, ma

forse anche alla generazione, di ciò che si è convenuto chiamare poesia, e che, anche se la parola è oramai divenuta difficile da maneggiare e quasi sconveniente, rimane il più bel dono che l’uomo possa fare a se stesso. Per Mario Surbone, nato nel 1932 nel piccolissimo borgo di Treville nel Moferrato è così e bene ha fatto la fondazione Stelline di Milano a profittarne dedicando una bella e ben calibrata retrospettiva ai suoi cosiddetti “Incisi” realizzati per un decennio, anch’esso calibratissimo e centrale: gli anni che vanno dal 1968 al 1978.

Gli “Incisi” altro non sono, all’apparenza, che riquadri quasi sempre di cartone campiti a tempera o ad acrilico e attraversati da tagli perfettamente rettilinei che producono su di essi segmenti d’ombra più netti di qualunque contorno ottenibile con pennelli od altri strumenti atti a “tracciare” non per delimitazione reale e geometricamente incontestabile, ma per sovrapposizione comunque approssimativa di pigmenti e cromie. La mostra è curata da Elena Pontiggia al cui limpido scritto in catalogo rimandiamo, insieme a quello

Mario Surbone, Inciso Az, 1973. Acrilico su cartone, cm 71x101

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Mario Surbone, Inciso B 135, 1975 Tempera su cartone, cm 72x72

di Lorella Giudici, per tutti i dovuti riferimenti ad altri artisti celebri per i loro tagli sulla superficie del quadro o per il loro uso dell’angolo retto quale limite riduttivista. A noi e a queste brevi note riserviamo invece qualche altra osservazione che proprio al “riduttivismo” e alla irruzione del “concetto” nel dominio dell’arte si rifà. Surbone, anche se buon conoscitore della storia delle avanguardie e di quella nuovissima e sostanziale avanguardia che fu lo Spazialismo, non ci sta parlando di questo, ma in qualche modo del contrario. Malevitch e Fontana furono grandi il primo per il suo desiderio di stanare la sensibilità pittorica pura con la più semplice delle trappole, il secondo per il suo geniale paradosso circa la possibilità di circoscrivere materialmente quel “concetto” che si era sempre detto fosse estraneo all’arte, Surbone vuol fare un discorso molto più modesto ma altrettanto esatto ed onesto. Come certi artigiani chiamati in causa dall’Encyclopedie di D’ Alembert e Diderot, egli semplicemente ci presenta i suoi strumenti del mestiere distillati in anni e anni di lavoro e di serena introspezione. Con questi sembra voler dire si può pensare pittoricamente senza infingimenti e spurgandosi l’anima da ogni compiacimento autorefernziale, ma,

Mario Surbone, Inciso B 38, 1971. Tempera su cartone, cm 140x100

vivaddio, rimanendo una persona, ovvero senza doversi nascondere nell’anonimato sentenzioso del “gruppo di lavoro”, e senza fingere di aver smesso di amare quella Natura che non potrà mai sfuggirci del tutto se avremo sempre il giusto coraggio e la

giusta determinazione per ciroscriverne e misurarne senza sosta le più belle e coinvolgenti manifestazioni, come, in fin dei conti su di un’altro piano ci insegna a fare la teoria dei frattali. Paolo Balmas

Mario Surbone, Dal Giallo, 1972 Smalto su metallo, cm 100x100

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Lazise Art Open Space, Lazise (VR)

Manuela BEDESCHI

L

a produzione artistica di Manuela Bedeschi si è sviluppata sia nel campo della pittura che della scultura, prediligendo sempre più, nel tempo, le installazioni e gli interventi ‘site specific’, sottolineando gli spazi con segni di luce. Casa e luce sono i due elementi chiave per una esatta lettura della creazione artistica di Manuela Bedeschi che per la prima volta allestisce una sua mostra sulle dorate rive del Garda, nell’ambìta perla di Lazise, nell’elegante Art Open Space, sorto di recente e deputato ad accogliere quanto di più significativo produce la contemporaneità. Il titolo della mostra “CASALUCE” – scrive Marica Rossi - è legato ad una precisa simbologia (vene e arterie, mentre la luce in sé è metafora del divino), fermo restando che i sapienti accorgimenti tecnici basilari, nulla tolgono alla emozionalità. CASA come parola e LUCE come mezzo, strumento di lavoro, attraverso l’uso del neon. Del resto in una intervista in occasione della sua personale alla galleria Pio Monti di Roma, l’artista dichiarava: “È principalmente il concetto della casa a ispirarmi. La casa come luogo dove nascono le emozioni. È quello che cerco di raffigurare. Illumino i perimetri, gli angoli. La casa come metafora del luogo in assoluto”. Mentre nelle città il neon è quasi scomparso per lasciare il posto alle insegne luminose a led, nell’arte contemporanea ha ancora un largo utilizzo. In ogni cultura della storia la luce è un simbolo positivo. È la luce che rivela e svela: ciò che non è illuminato, non ci è dato di conoscere. Il neon viene inizialmente utilizzato dall’artista per creare dei punti luce destinati ad alleggerire i suoi allestimenti, da metà degli anni ottanta diventa poi protagonista permettendo così alla luce di diventare opera stessa. Una traccia luminosa che fornisce una sorta di aura a forme, parole e spazio. Ed ecco allora un ‘segno di luce’ che descrive parole, forme dal richiamo domestico (seggiole e tavolini), disegna il perimetro di grandi pannelli ed infine definisce lo spazio. Allo spettatore – ribadiscono nei testi di presentazione Marika Santoni e Marica Rossi - non resta che arrendersi: il suo sguardo sarà così catturato da opere luminose e colorate, rimanendo completamente ipnotizzato dalla magia della luce, allegoria della nostra energia vitale e delle illuminazioni che albergano nelle nostre menti; la casa, simbolica protezione di fronte ad un mondo sempre più grigio e soffocante; la sedia emblema del nostro quotidiano confort.

Manuela Bedeschi, verticale, 50x16x300.

Tutti ingredienti di istallazioni che rinviano a concetti anche più impegnativi, come l’imperativo categorico promulgato da Papa Francesco col richiamo a comportamenti ecologicamente più responsabili e l’esortazione alla cura e al rispetto del creato: la casa comune. (dal cs.)

Manuela Bedeschi, Sedia tavolino. A sinistra: Più rosso più arancio.

Manuela Bedeschi, Lazisee.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Palazzo Riso, Palermo

Nunzio e le metamorfosi del possibile di Valentino Catricalà

“D

atemi un po’ di possibile sennò soffoco”. Così Gillez Deleuze affermava nel noto libro sull’immagine tempo. E forse proprio questa frase si addice alle opere di Nunzio. Esponente della Nuova Scuola Romana, insieme a nomi quali Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Piero Pizzi Cannella e Marco Tirelli, artista ormai più che noto a livello nazionale e internazionale, Nunzio vanta un curriculum che lo fa entrare nel regno dei grandi artisti italiani. Un percorso che dal premio Duemila per i giovani della Biennale di Venezia del 1987 alla Menzione d’onore della stessa Biennale del 1995 passando per importanti mostre quali le mostre all’Annina Nosei Gallery di New York nel 1985, al Festival dei due mondi di Spoleto nel 1993, e così via fino all’antologica al MACRO nel 2005 si approda alla recente personale di Palazzo Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, a Palermo; mostra a cura di Bruno Corà e organizzata in collaborazione con la Galleria Adalberto Catanzaro (Bagheria). Un approdo che, come si sa, è ancora un passaggio, un passaggio verso altre derive e approdi. E proprio questa mostra al Palazzo Riso ci sembra mettere in evidenza la natura stessa delle opere di Nunzio: quelle di farci presagire, di farci sentire, le innumerevoli possibilità formali della materia. Quella di metterci di fronte al preciso momento in cui la materia da elemento naturale e preumano inizia ad essere tecnica, elemento culturale e umano: un attimo nel quale i materiali utilizzati, legno, piombo, carta, ecc., si aprono alla possibilità di una forma. Le opere di Nunzio sono un bagliore di forma, il limite e, quindi, la linea di congiunzione fra natura e cultura. Da qui, pensiamo, venga la forza dei vuoti di Nunzio, messi spesso in primo piano dalla critica. Come afferma anche il curatore Bruno Corà: “Con uno specifico percorso reso sensibile sia con le opere, sia mediante i vuoti che le loro presenze suscitano, Nunzio sottolinea l’assenza, la mancanza, la pienezza e la presenza di una dialettica che è il primo aspetto dell’elaborazione dello spazio e delle forze poste in gioco in esso.” Un limite che noi percepiamo sia nelle sculture che non a caso si presentano in forme e modi differenti: da quelle poggiate a terra, a quelle “incorniciate” da mattoni, a quelle che si stagliano, in un contrasto armonioso, dal bianco della parete espositiva. Sia nei disegni e, forse, ancora di più nelle opere in piombo nelle quali intravediamo le forme geometriche primarie: forme che creano le condizioni di possibilità di qualsiasi figura. Tra opere recenti e “storiche”, il viaggio aperto dalla mostra al Palazzo Riso è stato un viaggio che ci avvolge e ci fa riflettere sulla natura stessa del nostro operare nel mondo, sempre a metà fra tecnica e natura, fra umano e animale. n

Nunzio, Senza titolo, pigmento e combustione su legno, cm 71x250x250, 2010 Nunzio, Senza titolo, 2003-2004, combustione su legno, misure ambientali. Photo Pellion

Nunzio, Selva, 1989-1990, piombo e combustione su legno, 245x220x10

Auditorium, Roma

Felice LEVINI Corpi Semplici di Paolo Balmas

D

ue enormi aloparlanti di foggia decisamente antiquata, montati su di un supporto più esile di quanto ci si aspetterebbe, in terra una strana scacchiera dove la metà delle caselle ospita delle fotografie e l’altra delle laconiche indicazioni scritte. Dapertutto i colori della nostra bandiera nazionale, in loop un susseguirsi di voci, musica, e suoni variamente disturbati o deformati. A guardar meglio le parole contenute nei riquadri colorati (14 rossi sul bordo e 18 verdi al centro) non sono altro che nomi di luoghi in cui si è combattuto, in varie parti del mondo, a partire dagli inizi secolo scorso, mentre le foto rappresentano mappature ed episodi salienti delle battaglie citate. Quanto ai suoni non ci vuole molto ad accorgersi che la situazione è più varia, ma non del tutto diversa, alcuni sono registrazioni di discorsi e proclami politici, altri hanno a che vedere con letture di brani poetici , declamazioni di manifesti ecc., altri infine sono canzoni che ognuno riconoscerà e troverà più o meno familiari a seconda della generazione cui appartiene. Cosa vuol dire di preciso? Vuol dire semplicemente che la domanda è mal posta. Nella Storia, nella rappresentazione di quei fatti che i trattati d’arte di un tempo definivano i più degni tra quelli con cui l’artista si potesse confrontare, non c’è più nulla che non possa recedere, svilirsi, appannarsi, ridursi a brusio oramai definitivamente scollegato dalle emozioni e dalle attese che a suo tempo suscitò: indignazione, paura, slanci patriottici e persino eroismo. La parola uccide, la notizia uccide, l’audience stesso uccide, non le persone soltanto ma i valori, qualsiasi valore, anche quelli di la da venire. A guardare ancora meglio, poi, forse la scacchiera è solo un tappeto e i due megafoni altro non sono che due signore bene, o due comari, fa lo stesso, sedute al bar o in salotto a parlare di nulla, come al solito, come sempre. Nella sala attigua la situazione è radicalmente diversa, il tempo annullato nell’installazione d’ingresso è visibilmente recuperato, ma non in relazione ad eventi o combattimenti o decisioni politiche oramai condannati a trasformarsi prima o poi in brusio, bensì sul piano del rituale, della mitopoiesi che da sempre è susseguita a certezze come l’alternarsi delle stagioni, dei giorni, delle ore, dei moti astrali e via dicendo. Ma non è più questa o quella religione ciò a cui cerchiamo di collegare simili certezze ricorsive e un po’ ipnotiche, è una qualche illuminazione sul significato del fare stesso. Del fare con le mani, con quelle mani protese a conca che l’installazione riproduce ventiquattro volte illuminate dall’alto. Immaginiamo facilmente che siano le mani stesse dell’artista, riprodotte in calco, ma siamo portati a supporre che non stiano pregando o chiedendo doni ad un’entità superiore. Credo stiano solo pregando l’arte stessa di tornare a far si che le cose che accadono sotto il sole, o comunque tra noi, possano ritrovare la strada della diversità, della riconoscibilità, della consequenzialità, forse animate e corroborate da corpi semplici e impossibili a corrompersi proprio perché tali. La mostra si intitola appunto “Corpi Semplici” e si è inaugurata il 13 luglio a Roma nei locali dell’Auditorium romano dedicati al progetto “One Space/ One Sound. L’autore è e non poteva che essere Felice Levini. SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 79


Castelbasso, Pescara, Ascoli,

Arte in Centro Mete contemporanee

L

a seconda edizione di Arte in Centro, il network che unisce Marche e Abruzzo attraverso l’arte ed esperienze culturali fra letteratura, musica e teatro, grazie all’impegno della Fondazione Aria di Pescara, dell’Associazione Arte Contemporanea Picena di Ascoli e della Fondazione Menegaz di Castelbasso (Te), si snoda intorno a una serie di eventi espositivi indirizzati alla conoscenza di maestri del Novecento e nuove frontiere creative dell’arte. Palazzo De Sanctis di Castelbasso è la prima tappa di questo percorso itinerante, con la mostra Giorgio Morandi-Vincenzo Agnetti. Differenza e Ripetizione, curata da Andrea Bruciati. In questo inedito incontro, fra figure attive in momenti diversi della storia dell’arte italiana, con formazioni difformi e una diversa concezione del fare artistico, Morandi, noto al grande pubblico per le sue nature morte di oggetti quotidiani, e Agnetti, antesignano della corrente concettuale italiana, dialogano attraverso le proprie opere portando all’attenzione dello spettatore un possibile e differente modo di interpretare gli sviluppi degli ultimi cinquant’anni d’arte del nostro paese. L’intuizione curatoriale, nata dalla suggestione del saggio del 1968 di Gilles Deleuze, da cui Bruciati prende in prestito il titolo per la mostra, più che mettere in evidenza le differenze fra i due maestri, ne mostra i punti di connessione “poetici”. Allo stato di sospensione e immutabilità, a un senso dello spazio metafisico trasmesso dalle nature morte di Morandi, corrisponde idealmente l’azione di azzeramento e di annullamento che Agnetti mette in campo quando inverte i codici della comunicazione, sostituendo alle lettere i numeri, mettendo in discussione, in ultima analisi la questione del tempo e il suo fluire. A Palazzo Clemente – sempre a Castelbasso - invece, a cura di Laura Cherubini è stata proposta l’esposizione “Storie e opere”, una selezione di lavori della collezione Menegaz che mostra al pubblico per la prima volta, il frutto della dedizione verso l’arte contemporanea del suo mecenate. Visibili le opere di grandi maestri dell’arte internazionale: Carla Accardi, Franco Angeli, Kengiro Azuma, Manfredi Beninati, Alberto Biasi, Luigi Boille, Piergiorgio Branzi, Tullio Catalano, Mario Ceroli, Claudio Cintoli, José D’Apice, Alberto Di Fabio, Stefano Di Stasio, Tano Festa, Marco Gastini, Guido Guidi, Renato Mambor, Francesco Paolo Michetti, Gian Marco Montesano, Nunzio, Mimmo Paladino, Mimmo Rotella, Ettore Spalletti, Giuseppe Spagnulo, Giuseppe Stampone, Joe Tilson, Marco Tirelli, Giulio Turcato, Vedovamazzei, Alberto Ziveri.

Le tappe nella città di Pescara e suoi borghi, di Penne e Città Sant’Angelo, hanno visto invece, attraverso il coinvolgimento diretto della Fondazione Aria, lo snodarsi di 4 diverse mostre, accompagnate dal suggestivo titolo “Why Patterns? Il suono come linguaggio visivo, curata da Simone Ciglia, Francesca Lilli, LUX (Carla Capodimonti, Marco Marzuoli), Barbara Nardacchione. Un progetto a più voci, dove è per l’appunto il suono e le sue implicazioni con il visivo a farla da padrone. Il percorso, che punta tutto sulla natura immateriale del medium, vede protagonista, presso Il Conservatorio “Luisa D’Annunzio” di Pescara, l’installazione Acustiche Derive Visionarie di Roberto Pugliese, giovane artista di origini napoletane la cui ricerca verte essenzialmente alla commistione del dato sonoro, in abbinamento all’immagine stessa creata nell’assemblaggio dei materiali/ oggetti che utilizza. Al Museo del Mare della stessa città dannunziana, è stato realizzato, invece, l’inedito intervento di uno dei maestri del “micro-sound”, ovvero Tracing 3 dell’americano Richard Chartier, e poi Last Blossom, trilogia video del collettivo Triac. Al Museolaboratorio Ex Manifattura Tabacchi di Città Sant’Angelo è stata messa in scena l’originale performance Listening Closely, originata dall’incontro e dalle “passeggiate sonore” con gli abitanti del luogo dell’architetto e musicista Nicola Di Croce. Presso il Museo Civico Luigi Chiavetta – Chiesa di San Salvatore, l’installazione sonora Canto Minore (Minor Strain), opera di Francesco Fonassi, mentre l’Antica Cisterna nell’inedito intervento a firma di Fabio Perletta dal titolo Genkai (11+10), è stata oggetto di rilettura in chiave contemporanea. Infine al Museo Archeologico Leopardi di Penne hanno trovato la giusta collocazione le due sculture Sparkling Matter; progetto di Matteo Nasini legato alla traduzione in suono e materia delle onde cerebrali emesse durante il sonno, mentre l’installazione audiovisiva Blueprints on a Winter Pond, nata dalla collaborazione internazionale tra il compositore americano William Basinski ed il video artista James Elaine, è stata allocata presso il Museo di Arte Moderna e Contemporanea del borgo. (a cura di M.Letizia Paiato)

Why Patterns. Installation view. Ph. P. Raimondo

Why patterns. Installation view. Ph. P. Raimondo

Castelbasso, Storia e Opere, a cura di Laura Cherubini. Exhibition view, Palazzo CLemente. Ph. Gino di Paolo

Vincenzo Agnetti, Assioma. Spazio Perduto – spazio costruito, 1972. Bachelite incisa. Museo del Novecento Milano – Donazione Bianca e Mario Bertolini Giorgio Morandi, Natura morta, 1943. Olio su tela. Courtesy Galleria d’Arte Maggiore G.A.M. Bologna. Giorgio Morandi Vincenzo Agnetti, Exhibition view, Palazzo De Sanctis, Castelbasso. Ph. Gino di Paolo

80 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Roberto Pugliese, Conservatorio Pescara. Why patterns. Ph. P. Raimondo


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Gibilisco, Francesco Impellizzeri, Minus.log, Marco Rapattoni, Alessandro Rosa, Massimo Ruiu, Guido Silveri, le cui opere hanno occupato gli spazi delle Scuderie Ducali di Palazzo Acquaviva. Dehors è una mostra che racconta la relazione fra spazio esterno e zone di difficile accesso, dove gli artisti – quasi degli eletti – possono portare porzioni di mondo laddove sembra impossibile. Quello spazio aperto, il Dehors diventa dunque la moneta di scambio con l’interno della cisterna, dove sono le opere degli artisti a portare la luce, attraverso i loro segni creativi, in luoghi astrusi, metaforicamente interpretabili come i luoghi più segreti dell’animo umano. Dietro il titolo Clartè si cela, invece, il senso della memoria sotteso alle ricerche visive degli artisti protagonisti della mostra. Un’arte che non è solo “spettacolo dell’imprevisto” - come spiega Zimarino nel comunicato stampa e nel testo critico, - ma anche strumento per leggere con occhi diversi il flusso in cui convoglia il pensiero contemporaneo, pericolosamente in bilico fra passività e superficialità. Allo stesso tempo sono i temi forti dell’attualità quelli più sentiti e affrontati dagli artisti. Emigrazione, frontiere, mari, problemi etnico-religiosi sono ponti che gli artisti attraversano nella piena coscienza e consapevolezza della loro esistenza e importanza. Maria Letizia Paiato Stills of Peace / Dehors, l’opera di Francesco Impellizzeri

Palazzo Ducale e Museo Capitolare, Atri (Te)

Stills of Peace Maratona del contemporaneo

V

entiquattro artisti, 2 collettive, 1 rassegna di cinema d’autore. Sono questi i numeri della terza edizione di Stills of Peace, quest’anno concepita come una vera e propria maratona dell’arte contemporanea che ha invaso la splendida città ducale di Atri. È la Francia il tema scelto leitmotiv dell’evento, anche in virtù degli accadimenti di cronaca che hanno profondamente segnato il mediterraneo nel corso del 2016. Ma.Co., dunque quale acronimo di Maratona del Contemporaneo, kermesse che per tre giorni, in simultanea e anche come anticipazione delle mostre, ha ospitato artisti, curatori, fotografi, galleristi, giornalisti e operatori della cultura, con un focus dedicato alla produzione artistica, hanno avviato un dibattito pubblico e con le istituzioni sul tema delle dinamiche interculturali attraverso i linguaggi artistici contemporanei. Sulle due mostre: la prima Stills of Peace / Dehors allestita presso il Museo Capitolare - Cisterna Romana della Cattedrale, a cura di Claudio Libero Pisano, ha visto protagonisti gli artisti Ziad Antar, Bertille Bak, Adelaide Cioni, Lionel Estève, Matteo Fato, Myriam Laplante, Lek&Sowat, Luana Perilli, Paride Petrei, Gioacchino Pontrelli, Enrico Tealdi, Raphael Thierry. La seconda invece, intitolata Stills of Peace / Clarté, curata da Antonio Zimarino e Mariano Cipollini ha visto protagonisti Linda Carrara, Sabrina D’Alessandro, Brunella Fratini, Miranda

Stills of Peace / Clarté, l’opera di Enrico Tealdi

Stills of Peace / Clarté, l’opera di Raphael Thierry

Stills of Peace / Dehors, l’opera di Massimo Ruiu

Stills of Peace / Dehors, l’opera di Miranda Gibilisco

SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 81


S

ei mesi all’insegna dell’arte hanno caratterizzato la primavera/estate del territorio piceno, la sesta edizione di Expo Marche Centro d’Arte (Expo MCdA) ha infatti presentato un programma espositivo ricco ed articolato nello spazio e nel tempo. Se l’edizione 2015 dell’Expo era stata pensata intorno a un progetto unitario costruito per celebrare i 20 anni di attività della Galleria Marconi di Cupra Marittima, per l’edizione 2016 il direttore artistico Franco Marconi ha proiettato l’Expo in sei direzioni diverse allo scopo di costruire dei percorsi che dessero una visione quanto più ampia possibile della situazione dell’arte contemporanea odierna. Uno sguardo che ha toccato tutto il territorio italiano, senza tralasciare anche artisti stranieri. Marche Centro d’Arte ha presentato attività lungo tutta la stagione 2015/2016, lavorando su tre piani in dialogo tra loro (scolastico, territoriale e artistico), con cui il Presidente Lino Rosetti ha preparato la strada che ha portato all’Expo. È una storia che si muove e cresce nel territorio, Expo MCdA è suddivisa in sei sezioni ospitate in tre città, Cupra Marittima, Monsampolo del Tronto e San Benedetto del Tronto, a queste si sono affiancati tre eventi esterni che ne hanno completato la struttura espositiva. Cupra Marittima, presso gli Ex spogliatoi della Stazione FFSS, ha ospitato PLAYFUL, BYZARRE, RITUAL AND PASSIONATE un progetto, curato da Rebecca Delmenico, che è articolato intorno al concetto di corpo con le opere di Dorothy Bhawl, Francesco De Molfetta, Elena Monzo, Giovanna Ricotta. Monsampolo del Tronto, invece, negli spazi del Chiostro di San Francesco ha ospitato MIMESI - Architetture in Natura a cura di Simona Caramia, con il Coordinamento organizzativo Tommaso Palaia, una riflessione sull’ambiente naturale considerato lo sfondo della vita umana, che ha

Fabrizio Cordara

Roberto Cicchinè

Cupra Marittima, Monsampolo del Tronto e San Benedetto del Tronto

Expo Marche Centro d’Arte 2016 VI edizione di Dario Ciferri

Dorothy Bhawl

Giovanni Alfano

Elena Giustozzi

Francesco De Molfetta

presentato le opere di Michele Guido, Giuseppe Negro, Luana Perilli, Mariagrazia Pontorno, Zeroottouno; e VISIONI DI GAIA - Percezioni sensoriali e politiche della natura a cura di Lucia Zappacosta, un progetto sulla percezione visiva della natura sulle scomposizioni e le approssimazioni della nostra mente, che

Max Mazzoli

Elena Monzo

Giovanna Ricotta

ha esposto le opere di Lia Cavo, Laura Cionci, Andrea Di Cesare, Micaela Lattanzio, Raffaella Romano, Gloria Sulli, Lidia Tropea. San Benedetto del Tronto, infine, presso il PalaRiviera ha ospitato Il tempo è breve a cura di Valentina Falcioni, la sezione ha presentato i lavori degli artisti scelti

Luigi Grassi Angelo Maisto

Adriano Annino

LIUBA

Matteo Basilé

Paolo Pibi

Bert Feddema

Andrea Casciu Giuliano Sale

Gennaro Branca

Danilo De Mitri

Gian Luca Doretto

Pina Inferrera

Mary Cinque

Andrea D’Ascanio

Claudio Gaetani

Roberto Sala

82 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Dario Carratta

Roberto Cicchinè

Valentina De Rosa


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Andrea Di Cesare

Giuseppe Negro

Gloria Sulli

Michele Guido

Laura Cionci

Lia Cavo

Lidia Tropea

Micaela Lattanzio

Raffaella Romano

Phanes

Mariagrazia Pontorno

Perilli

attraverso la Selezione MCdA: Gennaro Branca, Andrea Cerruto, Fabrizio Cordara, Valentina De Rosa, Gian Luca Doretto, Bert Feddema, Luigi Grassi, Pina Inferrera, Angelo Maisto, Max Mazzoli, Giordano Rizzardi, Silvia Sanna, Il tutto è più della somma delle sue parti a cura di Maria Letizia Paiato, che ha presentato una riflessione sul concetto di disabilità e di diverso che ha messo le basi per un approfondimento che sarà portato avanti durante la stagione espositiva della Galleria Marconi nel 2017; la sezione era allestita con i lavori di Matteo Basilé, Sonia Bruni, Roberto Cicchinè, Mary Cinque, Danilo De

Mitri, Rocco Dubbini. Claudio Gaetani, Giovanni Gaggia, LIUBA, Stefano W. Pasquini, Roberto Sala, Rita Vitali Rosati, Corso di Teoria e Pratica della Terapeutica Artistica dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, e 2016 ODISSEA NELLA PITTURA - Meme o non meme a cura di Giovanni Manunta Pastorello e Josephine Sassu, che ha offerto una retrospettiva sulla pittura, costruita attraverso lo sguardo di due artisti, ed è composta da Adriano Annino, Silvia Argiolas, Irene Balia, Dario Carratta, Nicola Caredda, Marco Carli Rossi, Andrea Casciu, Andrea D’Ascanio, Roberto Fanari, Silvia

Mei, Dario Molinaro, Narcisa Monni, Isabella Nazzarri, Vincenzo Pattusi, Paolo Pibi, Giuliano Sale. Il giorno dell’inaugurazione dell’Expo c’è stata poi la presentazione del progetto del lungometraggio Some are born to endless night nato dalla collaborazione dello scrittore Gianluca Di Dio con l’artista visiva Karin Andersen. A Expo MCdA si sono affiancati poi tre eventi esterni a cura di Valentina Falcioni: in|coscienza - Personale di Roberto Cicchinè ospitata presso la Chiesa di San Vincenzo e Anastasio di Ascoli Piceno; “L’essenziale è invisibile agli occhi” - Personale di Giovanni Alfano ospitata presso la Galleria Marconi di Cupra Marittima; Vicinanze - Personale di Elena Giustozzi ospitata dal 4 giugno al 2 luglio 2016 presso la Galleria Marconi di Cupra Marittima. Con questa sesta edizione Expo MCdA sembra essersi dato un fine sempre più ambizioso, consolidare la propria presenza nel territorio e mostrare tutte le potenzialità che può esprimere dando il massimo peso alle competenze e alle idee di curatori ed artisti. Intervenendo ed interpretando spazi molto vari e diversi tra loro cercando di far esprimere alle massime potenzialità lo spazio ospitante e le installazioni degli artisti. Ogni linguaggio artistico ha trovato piena espressività senza che nessun lavoro restasse in secondo piano rispetto agli altri. Marche Centro d’Arte è un progetto complesso che non sarebbe possibile senza una perfetta sinergia tra patrocinatori (Provincia di Ascoli Piceno, la Fondazione Carisap e i comuni di Cupra Marittima, Monsampolo del Tronto e San Benedetto del Tronto) enti, organizzatori, curatori, artisti e collaboratori vari, guardando il risultato finale e la ricchezza di idee offerta dall’Expo si direbbe che tale collaborazione è sicuramente riuscita e fa ben sperare per gli esiti futuri del progetto. n

Stefano W. Pasquini Rocco Dubbini Nicola Caredda

Giovanni Gaggia

Giordano Rizzardi

Marco Carli Rossi

Silvia Sanna

Silvia Argiolas

Irene Balia Isabella Nazzarri

Sonia Bruni

Terapeutica Artistica

Rita Vitali Rosati

Andrea Cerruto

Narcisa Monni

Silvia Mei

Verdi Colline d’Africa

Vincenzo Pattusi

Dario Molinaro

SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 83


accademia nazionale di san luca mostre in corso

roma parigi Accademie a confronto

L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi comitato scientifico-organizzativo

Carolina Brook, Elisa Camboni, Gian Paolo Consoli Francesco Moschini, Susanna Pasquali

13 ottobre 2016 - 13 gennaio 2017 ingresso libero . admission free

accademia nazionale di san luca piazza dell’Accademia di San Luca 77, 00187 Roma www.accademiasanluca.eu


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Pino Pinelli, Villa Pisani Bonetti 2016.

Bagnolo di Lonigo, Vicenza

PINELLI / STACCIOLI

ettima edizione di Arte Contemporanea a Villa Pisani, progetto che con S cadenza biennale invita artisti contemporanei a ideare e realizzare opere inedite per la Villa Pisani Bonetti. Quest’anno gli artisti chiamati a misurarsi con l’identità morfologica e significante di questo luogo sono stati Pino Pinelli e Mauro Staccioli. Le opere realizzate dai due artisti sono state pensate per dialogare con il luogo e gli spazi di una dimora abitata e vissuta, che non è soltanto uno spazio espositivo, ma diviene luogo di una memoria attiva e creativa, che con la sua identità storica apre al visitatore inedite coordinate di esperienza. La mostra concepita da Pino Pinelli è costituita da opere che abitano il

salone centrale dell’edificio in un percorso che interpreta la dialettica tra razionalità ed espressività caratteristica dell’architettura di Andrea Palladio. “Nelle opere per Villa Pisani – dichiara l’artista - in luogo dei miei più consueti colori fondamentali (il rosso, il blu, il giallo), ho scelto colori come il bianco, il grigio, il nero, perché vedo il mio intervento un po’ come arpeggiare con una piuma attraverso questi spazi. Sono grandi frammenti, masse di pittura, concepiti come grandi “artigliate” di colore, con gesti che si ripetono e si reiterano, anche a distanza di tempo tra loro: voglio che questi lavori si “spostino” idealmente nello spazio, proprio a disarticolare la regola palladiana.” Mauro Staccioli ha scelto di intervenire sul margine dello spazio attorno all’edificio di Palladio, mettendosi idealmente in relazione con l’angolo sinistro della facciata principale. “La mia sculturaintervento per Villa Pisani - dichiara StacGalleria Verrengia, Salerno

Matteo FRATERNO a Galleria Paola Verrengia a Salerno, presenta, il 3 ottobre 2016, in occaL sione della “dodicesima Giornata del

C&H gallery, Amsterdam

Vittorio CORSINI

lla C&H gallery Vittorio Corsini presenta House of Pinocchio. L’arA tista toscano espone la sua produzione

sculturea più recente, un nucleo di opere che riflettono sull’architettura come luogo in cui gli individui definiscono e realizzano sé stessi. L’enorme elemento in alluminio che pende dal soffitto fa da contraltare ai piccoli lavori in vetro e marmo che sono coprotagonisti della mostra, tutti però a condividere lo status di “case aperte”, i cui muri sono attraversabili dallo sguardo. A tale proposito, se l’uso del vetro è, per Corsini, particolarmente importante poiché nella sua trasparenza e fragilità si riflette la precarietà della condizione umana, la “casa” in alluminio, che levita quasi senza peso, ha bisogno di aperture, brecce, di essere addirittura del tutto smembrata per poter essere indagata nella sua illusoria distinzione tra interno ed esterno.

Contemporaneo, promossa dall’ AMACI“, una mostra-evento di Matteo Fraterno. L’artista ha ideato, per l’occasione, un percorso espositivo che consiste nella proiezione del video “In-differenziati”, girato ad Atene nel 212, ed una serie di piccole opere inedite (acquarello su legno) , che raccontano una Grecia in bilico tra modernità e ritorno al passato. Un periodo in cui i segni della crisi, che ha messo in ginocchio mezza Europa, si sentivano pesantemente. Ai poveri si aggiungono altri “più poveri”, le etnie si confondono ed agli europei si mischiano

cioli - è come il materializzarsi di un cono ottico allungato: lo spicchio di una grande sfera, che si colloca tra due alberi accanto alla facciata principale, quasi sospesa sul margine del declinare del prato. Misura e collocazione di questa forma rossa prendono corpo nel rapporto con l’edificio di Palladio, in un equilibrio sospeso che modifica la percezione del luogo e si muove tra natura e architettura, a seconda di un punto di vista che muta continuamente nel percorrere questo spazio. La scultura, idealmente, vola: e il suo volo scaturisce dall’angolo. Agli interventi di Pinelli e di Staccioli sono stati dedicati due cataloghi monografici bilingue, che contengono l’introduzione di Manuela Bedeschi e Carlo Bonetti, i testi critici di Luca Massimo Barbero e di Francesca Pola, apparati biobibliografici degli artisti e le immagini delle opere installate a Villa Pisani. Mauro Staccioli, Villa Pisani Bonetti 2016.

migliaia di emigranti, Cingalesi o Pakistani che da tempo girano per le strade della città rovistando tra i rifiuti, quel popolo che Matteo Fraterno definisce di “In-differenziati” come la spazzatura, da cui traggono l’unico sostentamento. Questo racconta il video, che in qualche modo chiede “pietà per l’umanità sofferente” e lo fa sostituendo alle parole la musica struggente della “Cavalleria Rusticana “e la voce della divina Maria Callas. “Matteo Fraterno – ha scritto di recente Achille Bonito Oliva (presente all’evento) recupera il senso primario dell’arte come nutrimento dello spirito, rinunciando ad una estetica soggettiva e andando incontro all’estetica di comunità rappresentata oggi da elementi di spiritualità e di aspettative. Le sue opere dense di significati antropologici ed esistenziali rappresentano la “resistenza morale dell’artista nei confronti di una realtà votata al disordine e all’entropia”.

Matteo Fraterno, frame dal video “INDIFFERENZIATI”, Atene 2012, DVD, min 6 sec.31

Vittorio Corsini, House of Pinocchio, dettagli dell’allestimento, courtesy C&H gallery, Amsterdam

SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 85


XLIX Premio d’arte, Vasto

Archeologie a venire rganizzata dal Comitato Premio Vasto per l’Arte Contemporanea - presieduO to da Roberto Bontempo sin dal 1959 anno di fondazione dello storico Premio, la Mostra del XLIX Premio è stata proposta ancora una volta nella magnifica cornice delle Scuderie di Palazzo Aragona. Metamorfosi dell’antico e del classico nell’arte contemporanea italiana, - titolo della mostra a cura di Silvia Pegoraro – ha inteso configurarsi come un viaggio nella complessa e articolata dimensione del “classicismo” e del dialogo con l’antico che si è andata sviluppando nell’opera di artisti italiani appartenenti a generazioni successive, tra il XX e il XXI secolo: da quelli operativi già nei primi decenni del Novecento, come De Chirico, Sironi, Campigli, Marino Marini, sino alle giovani generazioni affacciatesi sulla scena dell’arte in questo inizio di nuovo secolo, passando attraverso le generazioni “di mezzo”, dalle molteplici vocazioni creative e orientamenti interpretativi: dalla rilettura dei simboli della classicità, insieme ironica e malinconica, propria della cosiddetta “Pop Art” italiana (Angeli, Festa, Ceroli), ai plasticismi cromatici e alle mitologie rinnovate della Transavanguardia, ai postmoderni enigmi metafisici e alle colte riletture dell’Anacronismo, senza dimenticare straordinarie figure di artisti che la loro complessità culturale ed espressiva rende difficilmente classificabili, come Ugo Attardi, Fabrizio Clerici, Vettor Pisani, o il grande scultore pescarese Pietro Cascella.

Uno degli spunti da cui parte il progetto della mostra è costituito dal panorama storico e teorico delineato dal libro di Salvatore Settis, “Futuro del classico” (Einaudi, Torino, 2004) secondo il quale, i concetti di “classico” e di “classicismo”, nella cultura contemporanea, si profilano in due opposte tendenze : da una parte, il discorso sul “classico” appare sempre più superficiale, stereotipato e banale; dall’altra, sul piano della ricerca scientifico-storiografica, la fisionomia del “classico” va facendosi sempre più complessa, metamorfica, “contaminata”: sfuma l’idea di una “purezza” del “classico” nelle sue radici greche. Negli artisti visivi italiani presenti in questa mostra – scrive la curatrice - risulta particolarmente evidente proprio la tendenza a esprimere questa complessità, ambiguità e polimorfismo del “classico”. Tendenza che dunque distanzia e differenzia profondamente questi artisti dall’uso comune e stereotipato dell’idea di “classico” e di “antico”. Un’idea che implica la libertà di tràdere (tramandare) ma anche di tradire le forme, in un corto circuito continuo tra soggettività e percezione oggettiva del reale. Il rapporto tra antico e moderno - tra tradizione e innovazione - diventa così un valore eversivo, e il classico non è mai la forma immutabile, ma la forma che si presta a infinite interpretazioni, metamorfosi e contaminazioni. Oltre agli artisti già citati, in mostra opere di Tommaso Cascella, Massimo Catalani, Luigi Cecinelli, Sandro Chia, Stefano Di Stasio, Luca Farina, Flavia Franceschini, Cesare Giuliani, Gianfranco Goberti, Angela Maltoni, Giuseppe Modica, Simone Pellegrini, Stefano Piali, Eros Renzetti, Ruggero Savinio.(dal cs)

Thomas Bucciarelli Alessandro Jasci

Spazio Pater, San Vito Chietino (Ch)

La materia della presenza na pregevole collettiva su “La Materia della Presenza” è il titolo che U la curatrice Maria Mancini ha voluto

Luigi Cecinelli

Pietro Cascella, Fidanzata.

86 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Vettor Pisani, Mercurio Psicopompo, 2011

dare a questa mostra estiva, chiamando all’appello un gruppo di “artisti che – scrive in presentazione – sottopongono il corpo dell’opera d’arte ad un processo rigenerativo destinato a modificare il sistema linguistico in una nuova semantica dell’arte. La consapevolezza delle potenzialità espressive dei materiali nel corso degli ultimi decenni ha infatti cambiato radicalmente il rapporto preesistente con l’opera d’arte. Il linguaggio artistico contemporaneo, volto alla ricerca e alla sperimentazione, vede nella sfida con la materia il suo riferimento dominante, per cui non parliamo più di una rappresentazione statica, unica, completa, finita, irripetibile, ma al contrario di un qualcosa che può essere incompiuto, instabile, effimero, indefinito, manipolabile e partecipato. In tale prospettiva, non deve perciò stupire la varietà delle soluzioni stilistiche che riscontriamo in questa mostra, tutto ciò utilizzando i materiali più vari sia legno, terracotta, marmo, metallo, carta, già propri della tradizione, sia nuovi di origine industriale, ma anche luce, suono e materiali deperibili.” Gli artisti che hanno accettato la sfida: Raquel Aversano, Miguel Ausili, Enzo Bersezio, Thomas Bucciarelli, MarcelloCorrà, Pino Di Gennaro, Alberto Gianfreda, Alberto Ghinzani, Alessandro Jasci, Luciano Massari, Antonio Patrino, Maximo Pellegrinetti, Alessandra Porfidia, Roberto Rocchi, Enzo Tinarelli, Claudio Tomei, Alessandro Traina.


documentazione Matera

La Palomba razie alla determinazione caparbia di Antonio Paradiso, che gestisce lo G spazio con forze e mezzi propri, proseguo-

no i periodici appuntamenti espositivi nel suo grande Parco sculture “La Palomba” all’ingresso di Matera. Due ettari di terra nello spettacolare set di questa ex cava (da quest’anno attrezzata per singolari soste di turismo esperenziale in tre casotti ristrutturati), ospitano in permanenza opere dello scultore pugliese e altri importanti amici artisti, come Pietro Coletta, Luigi Mainolfi, Hidetoshi Nagasawa,

Luigi Spagnulo. Il gigantesco capannone ha accolto invece quest’estate due mostre in contemporanea. La prima presenta un inedito “Volo luminoso” dello stesso Paradiso: nuova versione tecnologica delle sue usuali sagome di uccelli, non ritagliate come al solito nella pietra o nel metallo, ma “disegnate” con profili al led su pannelli bianchi. Parrebbe una contraddizione per un artista che ha incentrato la sua quarantennale ricerca sulla dialettica tra paesaggio culturale e paesaggio naturale, con regressioni alle radici della civiltà, e il recupero di una cultura materiale connessa anche alla cultura agraria della Murgia pugliese. Se è probabile che si tratti solo

di una parentesi, conferma in ogni caso quella curiosità creativa e l’esigenza sperimentale che da sempre lo caratterizza. Dalla voglia di confrontarsi con le nuove generazioni e rinverdire un genere antico come il ritratto nasce anche l’idea di invitare ad esporre un giovane artista. Gianni Perillo, barese di stanza a Milano. I profili di 11 conoscenti e protagonisti del sistema dell’arte locale, d’impianto rinascimentale ma realizzati pazientemente a biro, sviluppano con diversa leggerezza i riferimenti alla tradizione. Ma al di là dei discutibili risultati formali, a contare qui è la regia del padrone di casa, che carica l’operazione di curiosi risvolti relazionali. (A.M.)

Roma

mostra, per raccontare il valore artistico di quell’epoca e il clima culturale che si viveva nella città di Roma: un salotto di incontri e confronti, in cui pensieri, plasticità, passioni, icone e forme sono diventate storia e tracce da seguire per gli artisti delle generazioni successive. In mostra insieme alle tele dei grandi maestri della Pop Art Italiana - Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Renato Mambor, Cesare Tacchi, Pino Pascali e Sergio Lombardo - anche documenti e immagini provenienti dall’Archivio di Stato di Latina.

Pop Art Italiana

l Museo Stadio Domiziano, è stata proposta la mostra SPIRITO DI A ROMA – La Pop Art Italiana nella Scuola

di Piazza del Popolo, per ripercorrere gli anni del movimento, i suoi protagonisti e il rapporto che questi hanno avuto con la città. Testimonianza vivente di quell’epoca è stato l’artista Sergio Lombardo, presente all’inaugurazione insieme a Francesco Gallo Mazzeo, curatore della

Cattani Arte Contemporanea, Bolzano

Emanuela Fiorelli

filo come segno tridimensionale è il con cui Emanuela Fiorelli esploIralmedium lo spazio costruendo architetture che

mutano allo sguardo ed indicano la flessibile dinamicità di una costruzione geometricamente definita. Le sue opere ed installazioni, in cui predominano evoluzioni di linee e volumi trasparenti, riaprono un dialogo con l’ambiente iniziato ancora da Tatlin e dai fratelli Pevsner proseguito poi, negli anni ‘50 e ‘60, con le personalità artistiche attorno ad “Azimuth” e agli Spazialisti a Milano o il gruppo “Zero” di Düsseldorf. Proprio di questi anni è ancora la proclamazione di un’arte allargata che richiede nuove modalità espressive in grado di proiettare le opere nello spazio, richiamando la partecipazione attiva e la curiosità dell’osservatore. Da queste istanze sembra prendere avvio lo studio dell’artista romana (1970) che, più volte, ha sottolineato l’affinità della sua ricerca con la poetica di Fontana, Bonalumi e Castellani in quanto tende a rendere visibili delle strutture nascoste del reale - di per sé caotico. “E- levarsi dal caos”, titolo di questa mostra alla galleria Cattani, è contemporaneamente una dichiarazione degli obiettivi dell’artista. Fiorelli ha lavorato a questo progetto di mostra sul “filo” di una sottile ambiguità tra simmetria e asimmetria. Per individuare l’ordine sotteso all’apparente disordine l’artista ha utilizzato il filo elastico o di cotone come se fosse un segno in 3 D. La concitata stesura grafica di ciascuna delle opere in esposizione è sospesa tra tensioni implosive ed esplosive che sembrano registrare un’ansia esistenziale che si allenta solo quando il segno si e-leva dal caos. (dal cs.)

Sergio Lombardo, Alcide De Gasperi, 1963 Smalto su carta intelata. In alto: Tano Festa, L’Eden, 1969. Smalto su tela.

Archivio di Stato di Latina

Archivio di Stato di Latina

SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 87


PAOLO SCIRPA The Moving Eye

Linguaggi dell’Arte Cinetica Italiana, Anni ‘50-‘70 a cura di Micol di Veroli

MUO di Zagabria Istituto Tomie Ohtake di San Paolo del Brasile Centro Culturale Oscar Neymeier di Brasilia Spazio Cruz Diez di Panama Mostra itinerante 14 gennaio – 10 dicembre 2016

www.paoloscirpa.it


Artisti in Soccorso

Bruno Ceccobelli “San Michele” 2014

Asta benefica per i comuni terremotati di Amatrice e Arquata del Tronto

1a sessione Domenica 23 Ottobre ore 17

Museo delle Genti d’Abruzzo - Sala “Giovanni Favetta” Via delle Caserme, 54, Pescara

In asta 35 opere donate dagli artisti: Tommaso Cascella, Bruno Ceccobelli, Marco Cingolani, Giuliano Della Casa, Fabio De Poli, Marcello Diotallevi, Giovanni Fontana, Mark Kostabi, Franco Mulas, Giulia Napoleone, Ugo Nespolo, Medhat Shafik, Oscar Piattella, Lamberto Pignotti, Antonio Possenti, William Xerra Tutte le opere sono in mostra nelle sale del Museo delle Genti d’Abruzzo, via delle Caserme, 24 - Pescara con orari da mercoledì a sabato: 9.30-13.30; da giovedi a sabato: 16.30-23.00; domenica: 16.30-21.00 opere visibili sul sito www.gentidabruzzo.it - info 085.4511562 - 347.6265113

2a sessione Domenica 4 Dicembre ore 17

Museo delle Genti d’Abruzzo - Sala “Giovanni Favetta” Via delle Caserme, 54, Pescara

In asta 25 opere donate dagli artisti: Giovanni Anselmo, Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello, Domenico Bianchi, Alberto Biasi, Gianni Dessì, Pablo Echaurren, Marilù Eustachio, Giosetta Fioroni, Marco Gastini, Piero Gilardi, Giorgio Griffa, Mimmo Jodice, Luigi Mainolfi, Eliseo Mattiacci, Hidetoshi Nagasawa, Nunzio, Giulio Paolini, Fabrizio Plessi, Piero Pizzi Cannella, Concetto Pozzati, Pietro Ruffo, Tino Stefanoni, Wainer Vaccari, Nanda Vigo È possibile la partecipazione telefonica. Modulo disponibile sul sito www.gentidabruzzo.it


Fondazione Musei Civici, Palazzo Ducale, Galleria Michela Rizzo, Venezia

Hamish FULTON Repetitive Walk

È

lo stesso artista inglese Hamish Fulton (1946, Londra) che si definisce Walking artist, che afferma “niente cammino, niente opera/no walk, no work”. Pur condividendo le premesse operative e concettuali del Land artist Richard Long, dell’Art for All delle sculture viventi Gilbert & George, dell’arte come Scrittura sociale di Joseph Beuys, tuttavia Hamish Fulton si riserva, nell’arte – è lui stesso a ribadirlo - uno spazio di intervento solitario: quello del cammino, in silenzio, tra le montagne innevate, gli indiani americani, gli aborigeni australiani, i vulcani dell’Honshu, gli indigeni dell’Hokkaido, i venti del deserto, i torrenti delle valli svizzere, del Sud Dakota, del Montana, e la denominazione precisa di “Walking Artist/Artista in Cammino”. Elegante figura di 69enne che pratica i grandi spazi della natura, dal viso dorato dalle lunghe esposizioni all’aria, benché disponibile e attento al suo interlocutore, è figura piuttosto riservata. Non ama raccontarsi, dilungarsi in dichiarazioni pubbliche di poetica, ma è subito pronto a valutare una proposta di cammino in qualsiasi remota regione del pianeta. Ma è stata Venezia, nel novembre scorso, nell’ultimo giorno della 56. Biennale di Okwui Enwezor, il campo semantico che si è ritagliato per il suo nuovo viaggio meditativo in una città dell’arte. Con un gruppo di adesioni alla open call della Galleria Michela Rizzo, in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e con la cura dell’evento di Elena Forin, Hamish Fulton ha iniziato la “Repetitive Walk”, dopo il terzo rintocco di campana dell’orologio, con un minuto di immobilità, in un dolente omaggio alla memoria della giovane ricercatrice veneziana Valeria Solesin, vittima di un attentato terroristico a Parigi, poi ognuno dei partecipanti ha seguito rigorosamente, il suo schema di percorso Si disegna così, sotto gli occhi degli astanti, uno scenario di soggetti mobili, colti, nei video e nelle fotografie consentiti, nel gesto alternato di sospensione e appoggio del piede sulla pavimentazione dell’ampio cortile di Palazzo Ducale. I visitatori che, ignari dell’evento, hanno attraversato il cortile, accennano, attoniti, un sorriso davanti alla formazione, preordinata da Fulton, che esegue il suo spartito di passi e dietrofront sulla linea

Rocco Dubbini

della traiettoria assegnata. Questa sorta di Mondrian mobile e colorato deve aver avuto anche una dimensione acustica, dal momento che mobilitava oltre duecento persone, eppure la concentrazione dei partecipanti, tra cui lo stesso artista, era tale da restituire l’effetto della sonata silente di 4’ 33” di John Cage, artista apprezzato e tenuto come referente - ha avuto occasione di dirmi Hamish Fulton - a metà anni Sessanta, durante la formazione alla Saint Martin’s School a Londra. Il volto di ognuno è disteso, rasserenato, fiero di essersi sottratto, per sessanta minuti, alle urgenze quotidiane esterne come pure alle ansie e tensioni interne. Hamish Fulton riesce a creare un’ora di ecologia della mente e del corpo, in un contesto architettonico sospeso in un’aura magica tra Oriente e Occidente, come quella del cortile del Palazzo Ducale veneziano. Quando gli ho chiesto se la Repetitive Walk realizzata, in questa città lagunare, assume una connotazione particolare, lui immediatamente mi ha risposto: “Venezia è assolutamente ed eccezionalmente a pedestrian town, una città pedestre, rispetto ad ogni altro insediamento urbano o metropoli, e pertanto un’area in cui lo spostamento della maggior parte della vita cittadina avviene a piedi, lungo la rete orizzontale dei canali e quella verticale dei ponti. Un’esperienza quella veneziana – continua Hamish Fulton – più che speciale, unica! In questo mio incessante, reiterato e programmato esercizio del corpo e della mente – aggiunge – entro nella dimensione del vuoto, quella della meditazione Zen”. Viana Conti

Hamish Fulton, Repetitive Walk, Venezia. Ph. di Francesco Allegretto. courtesy Galleria Michela Rizzo.

Kermesse itinerante nelle Marche

AMO Arte, Marche, Oltre

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a un’idea dell’associazione Sponge ArteContemporanea, fondata dall’artista e performer Giovanni Gaggia – “a,m,o – arte, Marche, oltre” è la kermesse itinerante che, in un susseguirsi di mostre, performance, conferenze e presentazioni di libri, ha raggiunto quest’estate vari centri delle Marche: Pergola, Fano, Cagli, Pesaro e Senigallia, accompagnando 9 giovani curatori (Roberta Aureli, Maila Buglioni, Valentina Carollo, Carlo Maria Lolli Ghetti, Dario Picariello, Cecilia Serbassi, Valentina Tebala, Saverio Verini e Stefano Volpato, più per alcune delle giornate Miriam Pascale e Daniele Gagliardi, studenti delle Accademia di Belle Arti di Urbino e di Bologna) e il pubblico verso quel mare ricco e misterioso dell’arte contemporanea. A prender parte alla speciale traversata, sono coloro che in queste acque ci navigano quotidianamente: quei “pesciolini d’oro dell’arte rivolti con la coda in mare e la testa verso la riva”, come li ha definiti l’artista Max Bottino, spiegando così il concept grafico da lui stesso creato per a,m,o, il cui acronimo, non a caso, ricorda anche l’amo da pesca. Fuor di metafora: artisti, curatori, critici, galleristi, giornalisti e operatori culturali, hanno seguito i 9 giorni della rassegna dove è emersa, innanzi tutto, la Palazzo Reale / Caveou Gallerie d’Italia Casa del Manzoni, Milano

Emilio ISGRÒ

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he i prodromi dell’arte mediale italiana godano di ottima salute e che tale vitalità sia in qualche modo legata alla sua ormai provata capacità di distinguersi dalla cosiddetta filosofia del post-moderno, è la prima delle considerazioni suscitate dalla lettura di questa attraentissima mostra di Emilio Isgrò. Una conferma del fatto che la critica (concettuale) della medialità sembra mostrare il suo lato più convincente e combattivo proprio grazie a quelli che, come Isgrò, ne sanno cogliere e sviluppare la sua natura di “filosofia non speciale”, mostrando felicemente la sua naturale inclinazione verso le questioni del senso e dell’esperienza, la sua vocazione a muoversi trasversalmente, e con profitto, tra problemi e temi poetico-visivi, semiotici e di teoria del significato. Certo l’arte e le sue azioni ico-

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osservatorio critico AZIONI, PERFORMANCE E INSTALLAZIONI

Arte ambientale, Piacenza

Antonella DE NISCO

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ntonella De Nisco propone a Piacenza un progetto d’arte ambientale teso a dare voce al paesaggio e segnare un percorso di riavvicinamento al Po. Progetto dell’artista emiliana vincitrice del bando “Giovani per il Territorio” per la rassegna “Il Po ricorda”, indetto dall’Istituto Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna (IBACN). Manifestazione alla quarta edizione, organizzata dall’Associazione Culturale Arti e Pensieri in collaborazione con il Comune di Piacenza. Il progetto di Antonella De Nisco si articola in quattro punti, accomunati dal tema dello sguardo, inteso come osservazione della realtà, ma anche come visione immaginifica e mentale, radicata nella memoria individuale e collettiva. Punto di partenza, la veduta di Piacenza dal Po che si trova

Antonella De Nisco, Spiatoio, fotografia con interventi, 2016.

nel dipinto raffigurante “La Beata Vergine e Cristo intercedenti” (1603) di Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, conservato presso la Pinacoteca dei Musei Civici di Palazzo Farnese. Secondo punto di interesse, il “Binocolo”, collocato nel cortile di Palazzo Farnese. Un’opera che invita a rivolgere lo sguardo verso le rive del fiume, che in linea d’aria distano poche centinaia di metri, ma che risultano di fatto lontane a causa delle barriere architettoniche, del traffico e, soprattutto, dell’abitudine a non considerare questo spazio naturale come una risorsa reale. Il terzo punto del percorso individuato da Antonella De Nisco è dislocato alla Porta del Soccorso, situata lungo il tracciato delle mura cinquecentesche e significativamente rivolta verso il Po. Anche in questo caso l’installazione, che si intitola “Periscopio”, rimanda al tema della visione, sottolineandone le valenze storiche, in quanto l’atto di guardare è soggetto ai condizionamenti culturali delle diverse epoche. La tappa finale del processo fisico

e ideale di riavvicinamento al fiume è costituita da un’ulteriore installazione collocata tra gli alberi sulla riva del fiume e intitolata “Spiatoio”. Ancora una volta, si tratta di un dispositivo pensato per creare un punto di vista privilegiato sulle acque del Grande Fiume. «Come artista – scrive Antonella De Nisco – non realizzo sculture dentro al paesaggio ma cerco tracce che trasformino lo spazio in scultura. La pratica manuale è il mezzo, l’intervento operativo attraverso il quale esprimere un pensiero sottile e, a volte, provocatorio. Mi piace lavorare sull’ambiente e con le persone, che diventano così parte integrante dell’opera che realizzo durante i laboratori. Il “fare” serve a capire, cambiare, trasformare lo spazio per arricchire, ritrovare, riconoscere il senso dell’artificiale e del naturale. Si tratta di interventi temporanei in quanto realizzare l’effimero, il transitorio, comporta quella leggerezza estetica che io vedo come una grande qualità». artiepensieri@virgilio.it, www.artiepensieri.com.

Antonella De Nisco, Binocolo (particolare), 2016 aste in bambù, midollino e cordame vegetale.

necessità di riportare la pratica artistica ad una dimensione più umana e partecipata, puntando allo sviluppo civico e culturale di un territorio tramite le occasioni di confronto, discussione e crescita, che l’arte stessa riesce a generare; sostenuta dal dialogo tra quei piccoli pesci e coloro che guardano dalla riva. Credere fermamente nel potere dell’arte e decidere di viverla e praticarla quotidianamente diventa spesso un sacrificio, a volte frustrante, cui si è indotti da un sentimento profondo che nulla ha a che vedere con fattori o ritorni economici. “Perché lo fai?” è la provocatoria domanda di Roberto Paci Dalò, ma la risposta non deve arrivare poiché rischierebbe di essere stupida. Forse “l’esercizio dell’arte è un esercizio in vista di qualcosa di peggio” come afferma Simone Pellegrini, protagonista di un altro incontro della kermesse. Allora questa necessità, questo amore genuino

per l’arte – io a,m,o – è divenuto uno degli argomenti trattati sin dalle prime discussioni con gli ospiti intervenuti; come d’altronde il suo rovescio della medaglia, più materialistico. Si è palesato il fatto che molti giovani – ma anche navigati – operatori dell’arte possiedono un secondo (primo?) lavoro; o di frequente si ritrovano a spiegare ai «non addetti» chi sia esattamente un curatore (specie di sciamano guaritore?). Così mi preme concludere sottolineando l’urgenza di rivalutare – anche economicamente – l’importanza delle professionalità culturali nella società odierna, provocando maggiori consapevolezza e coinvolgimento del pubblico che deve esser parte attiva di un sistema ancora molto chiuso ed elitario. Ben vengano le manifestazioni come a,m,o che reintroducono idee e criticità portando davvero l’arte nel territorio, e viceversa. Valentina Tebala

niche incombono; e anche in queste due mostre finiscono col tornare sulla scena. Ma è proprio in questi casi che il lettore ha la rara opportunità di capire perché questo accada e come possa nascere quello stretto rapporto, che comunque esiste, tra arte e critica mediale. La proposizione delle opere di Isgrò distribuita in ben tre luoghi distinti: Palazzo Reale, Gallerie d’Italia e Casa del Manzoni è l’esplicazione antologica di tutto ciò. La cancellatura è parte strutturale del suo DNA. Isgrò, leva, toglie, cancella. Non una operazione nullista, anzi! Le cancellature sono l’occasione di depennare parole e immagini per porre un dubbio critico sulle funzioni della medialità. In effetti, il metodo si concentra sulla parola scritta e cancellandola le dà valore. Segno nero che copre vocaboli e termini di ogni discorso per tenere vivi i passaggi non coperti, una processualità tecnica di linguistica con implicazioni musicali. A Palazzo Reale (con il corpus di opere storiche) è stata proposta l’installazione “partitura per quindici pianoforti Chopin” e le

“lettere estratte”, lettere o note musicali ricavate dal loro ambito. Nel caveau delle Gallerie d’Italia ecco “L’occhio di Alessandro Manzoni”, eccitante abolizione del famoso ritratto di Hayez per poi chiudere il percorso alla Casa del Manzoni, dove Isgrò rimette mano ai Promessi Sposi dopo 50 anni, cancellandone 25 volumi (+10). 35 volumi lungo le pareti dell’iconografia manzoniana per una rilettura delle parole indistruttibili del Manzoni. Una mostra insolita, tenendo a mente che come a Fontana appartenevano i tagli, così a Isgrò appartiene la cancellatura. Tuttavia, come abbiamo già osservato, secondo Isgrò il fatto che il discorso scritturale, costituisca da sé stesso la propria verità, non significa che esso sia autonomo. Isgrò configura infatti la scrittura come rito di inumazione o scongiuro, ovvero come tentativo di eliminare ciò che, presentandosi come limite rispetto a un dispositivo puramente teorico, meraviglia e sorprende, ma anche inquieta e allarma. Gabriele Perretta

DADA 1916

La nascita dell’antiarte Romolo Romani 1884-1916 Brescia 1916-2016: Cento Anni di Avanguardie, è il ciclo di mostre che i musei bresciani dedicano ai capolavori dell’Arte Moderna. Quella al Museo di Santa Giulia e dedicata al movimento DADA, che inaugura questo percorso, curata da Luigi Di Corato, Elena Di Raddo, Francesco Tedeschi e realizzata in collaborazione con l’Università Cattolica e l’Accademia di Santa Giulia, si propone di documentare, attraverso 270 opere e oggetti originali, la potenza creativa del movimento che ha sconvolto l’arte di tutto il mondo. In contemporanea viene anche presentata Romolo Romani 1884-1916 Sensazioni, figure, simboli, realizzata in occasione dei cento anni della scomparsa del grande artista milanese – ma bresciano d’adozione - che fu tra i firmatari del primo manifesto futurista.

Ritratto di Alessandro Manzoni, realizzato da Hayez, cancellato in bianco da Emilio Isgrò.

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Licia Galizia - Air Arte in Riserva 2016

Gino Sabatini Odoardi - Air Arte in Riserva 2016

Gole di San Venanzio, Raiano (AQ)

AIR – Arte in Riserva

N

el silenzio e nella pace che avvolgono le Gole di San Venanzio a Raiano, in provincia dell’Aquila, rito, storia e preghiera prendono materialmente forma nelle opere site-specific di Emanuela Ascari, Daniela Di Maro, Licia Galizia, Gino Sabatini Odoardi e Giacomo Zaganelli, chiamati a un muto dialogo fra arte-natura, finalizzato a risvegliare quel contatto fra l’uomo e il territorio, che spesso la modernità della vita contemporanea trascura. La seconda edizione di AiR, curata da Ivan D’Alberto, verte dunque al recupero di un comune senso di “azione rituale”, a cominciare dall’opera di Gino Sabatini Odoardi, una sorta di piccolo totem dove è contenuta una delle sue classiche termoforature in polistirene. Si tratta di un fazzoletto/tessuto piegato che idealmente ricorda le scanalature delle pietre di montagna, metafora di bellezza quasi eterea cui alla solidità della materia si contrappone una celata fragilità, proprio quella del luogo che l’accoglie. A condurre il visitatore lungo il percorso delle Gole è l’intervento di Emanuela Ascari, che nel realizzare dei semplici bastoni per camminare, inseparabili strumenti di chi vive la montagna, sollecita il viandante sul senso che, ancora oggi, lega religione, vita contadina e magia. A segnare il sentiero per non perdersi ci pensa Daniela Di Maro con 7 piccole bussole, che oltre a tracciare la via, segnalano una possibile direzione di vita da seguire, all’insegna del recupero della “poesia”, sentimento risvegliato nel contatto con la natura e segnalato dalla presenza di brevi frasi capaci di andare Emanula Ascari - Air Arte in Riserva 2016.

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Daniela Di Maro - Air Arte in Riserva 2016

dritte al cuore. Giacomo Zaganelli incide invece una scritta sulla pietra, lavoro in continuazione con la sua Mappa dell’Abbandono, un segno vitale della presenza dell’uomo lungo questo cammino silenzioso e solitario. Infine Licia Galizia, il cui intervento ricorda le sue tipiche “carte mobili”, vede adagiarsi sulle acque del fiume elementi di alluminio in grado di adattarsi naturalmente all’ambiente. Il progetto, promosso dall’Associazione “Terre Colte”, in collaborazione con il Comune di Raiano e l’Ente gestore della Riserva, in questa sua seconda edizione sembra essersi arricchito ulteriormente nella direzione della realizzazione di un vero e proprio Parco d’Arte Contemporanea all’interno della Riserva Regionale, che con il tempo aspira a diventare un richiamo concreto per un turismo sensibile alla bellezza, naturalistica e artistica. Maria Letizia Paiato

Street Art, Ragusa

FestiWall 2016

S

econda edizione del festival di arte pubblica più a sud d’Europa, annoverato tra i dieci eventi di street art più interessanti d’Italia. Ragusa si trasforma in un museo a cielo aperto, con cinque opere d’arte su altrettanti muri, che mappano una zona della città, e tracciano le fila della sua storia più recente. Come propongono gli ideatori e curatori del progetto Vincenzo Cascone e Antonio Sortino dell’Associazione Culturale Pandora, il FestiWall si presenta nella sua massima espressione, Per questa seconda edizione è confermata la formula che lega cinque artisti di provenienza, formazione e immaginari differenti, a cinque muri, disseminando gli interventi in una zona ben definita di Ragusa. «Abbiamo scelto – affermano i curatori - un quartiere che ha i connotati della periferia, ma che periferia non è più, essendo stato inglobato dal centro. Ed è lì che portiamo l’assoluta eccellenza della street art mondiale». Il primo muro realizzato è il lavoro di Agostino Iacurci, dal titolo Ogni bene è mobile, opera che è un ricordo e un monito nello stesso momento: ricordo del terremoto che nel 1693 distrusse la Val di Noto e causò un successivo e tragico maremoto, ma anche un riferimento ai più attuali fatti di Amatrice. Iacurci disegna una torre fatta di fragili vasi, in equilibrio precario, sulla cui cima sta un uovo, classico simbolo di fecondità. Il monito che l’artista rivolge a chi vive da sempre in una situazione di pericolo è di proteggere quello che abbiamo di più caro, un invito agli abitanti di Ragusa e di tutti i paesi d’Italia che da anni vivono nel timore dell’arrivo di un’ennesima scossa. Maggiori sono state


osservatorio critico AZIONI, PERFORMANCE E INSTALLAZIONI

Isola Comacina

I colori e il mito dell’Isola Comacina

P

artendo dalla particolare identità cromatica dell’Isola Comacina (come ambiente naturale e contesto lacustre, ma anche come luogo di un importante sito archeologico e delle Case per Arti progettate da Pietro Lingeri negli anni ’30) si è provato ad interpretare la storia e il contesto ambientale come una tavolozza che identifica il luogo consentendo di intuirne l’estetica attraverso interventi di vario tipo, destinati a restare esposti all’aperto sull’isola per alcuni mesi. Un progetto a cura dell’ Accademia di Belle Arti di Brera di Milano, Scuola di Decorazione Accademia di Belle Arti dell’Aquila, Scuola di Decorazione Uni-

versità degli Studi di Milano Bicocca, con l’obiettivo principale di rendere gli studenti sensibili al tema del colore come elemento costitutivo dell’identità del luogo, e di far conoscere l’Isola Comacina attraverso un percorso di analisi condivisa che, partendo dal dato sensoriale, si sviluppa liberamente come spunto di una ricerca individuale. Inoltre la proposta è anche quella di esercitare gli studenti nell’esperienza del rapporto diretto dell’opera con il luogo, inteso come ambiente e come contesto espositivo, con proprie caratteristiche peculiari, elaborando temi realizzati nel rapporto

Giada Ambiveri, Sfere. Gao Lan

Valeria Pozzi Martina Cioffi

le fatiche di Sat One che a Ragusa regala un dittico sulla facciata del Quartier Generale del festival. Un’opera astratta quella di Sat One, che immagina i muri come due entità in conflitto, ma il risultato di questa competizione costruttiva è un disegno che genera due dipinti ricchi di suggestioni e colori. Pronti anche i muri di Evoca1, dagli Stati Uniti per la prima volta in Italia, e Hyuro, di origini argentine, la cui opera, affacciata sul mercato della città, è dedicata a Maria Occhipinti, anarchica e scrittrice ragusana, nel ventennale della sua scomparsa. Il quinto artista, è l’australiano Fintan Magee. Il quartiere, denominato

comunemente “Selvaggio”, è un’area che ospita diverse strutture sportive della città ma dove ancora è forte la frattura generata dall’edilizia popolare. Il territorio è stato protagonista, negli anni ’80, di un’intensa attività di costruzione che ha disegnato un discutibile scenario urbano costellato da grandi edifici residenziali. La cosiddetta E. R. P. (Edilizia Residenziale Pubblica) è stata per anni sinonimo di “degrado urbano” ed esempio di periferia poco utilizzata negli eventi della città. L’iniziativa è comunque sostenuta dal Comune di Ragusa, che dalla prima edizione si dimostra sensibile al tema dell’arte urbana.

Evoca

Zhang Yin, 藍色桌面 Performance.

opera-spazio. Gli studenti partecipanti sono stati: Marco Fontana, Giulia Contardi, Carolina Corno, Ji Fang Zhao, Fatemeh Mousavand, Alessandro Vecchio, Gao Lan, Qu Yuanshu, Fatemeh Ahmadzadeh, Pasha Xhilda, Magda Chiarelli, Monica Rocca, Giada Ambiveri, Luca Paladino, Valentina Giardini, Silvia Gagliardini, Martina Cioffi, Wang Zhong Sheng, Valeria Pozzi, Leonardo Gambini, Elena Borsato, Zhang Yin, Alessia Cesana, Martina Rizzati, Valentina Pasta, Hicham Baiya. Il coordinamento e l’organizzazione a cura di Marco Pellizzola e Sergio Nannicola. I docenti coinvolti: Cristiana Fioretti, Barbara Giorgis, Alessandro Russo, Guido Pertusi, Carlo Tognolina, Maria Teresa Illuminato, Beppe Sabatino, Valeria Tassinari, Ida Terracciano, Franca Zuccoli, Marco Brandizzi, Franco Fiorillo, Felice Martinelli, Marco Pellizzola, Sergio Nannicola. Coinvolti nel progetto la Fondazione Isola Comacina e il Comune di Tremezzina.

Wang Zhong Sheng Zhang Yin, 藍色桌面 Performance.

Fintan-Magee

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A.A.M. Architettura Arte Moderna Extramoenia

Antico e nuovo: conservazione, interpretazione e completamento negli interventi di restauro

A Venezia la quarta tappa del ciclo di incontri “Costellazioni di Confronti sul Restauro” di Rossella Martino

“A

ntico e nuovo: conservazione, interpretazione e completamento negli interventi di restauro” è il titolo del terzo incontro che si è tenuto a Venezia presso la Scuola Grande della Misericordia, lo scorso 17 giugno 2016, nell’ambito del ciclo internazionale “Valore Restauro Sostenibile. Costellazioni di confronti sul restauro”, promosso e ideato da Italiana Costruzioni S.p.A., Fratelli Navarra Srl, Na. Gest. Global Service Srl, sotto la consulenza artistica di A.A.M. Architettura Arte Moderna e il coordinamento scientifico di Francesco Moschini e Francesco Maggiore, e la partecipazione dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Venezia. Il progetto “Valore Restauro Sostenibile. Costellazioni di confronti sul restauro”, già presentato a Roma lo scorso 8 luglio 2015 e descritto sul numero 254 della rivista Segno, prevede, nel biennio 2015-2017 il coinvolgimento di esponenti del mondo della cultura e della professione – storici dell’architettura, storici dell’arte, architetti, ingegneri, operatori del restauro –, delle istituzioni e dell’imprenditoria – sovrintendenti, associazioni, enti Veduta del salone al pianterreno

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pubblici, imprenditori – confrontarsi attorno a un tema, di volta in volta scelto tra il rapporto Antico e Nuovo, la sinergia tra storici dell’architettura e del restauro e restauratori, la formazione e la trasmissione disciplinare, la convergenza multidisciplinare nel restauro, la ricerca sperimentazione e innovazione nel Restauro (rispetto ai caratteri di valore di permanenza da tramandare), i nuovi modi di ricezione dei valori del Restauro, la complessità degli scenari storici, artistici e culturali (come memoria in filigrana dei Restauri) e la archeologia, stratigrafia, valorizzazione dei ritrovamenti e compatibilità con i nuovi interventi, avente come filo conduttore l’esperienza maturata nel campo del Restauro Sostenibile dal gruppo imprenditoriale dei Fratelli Navarra Srl. Ad oggi sono numerosi i protagonisti chiamati da Francesco Moschini e Francesco Maggiore a partecipare in qualità di relatori al ciclo di incontri, tra questi: Ilaria Borletti Buitoni, Gisella Capponi, Philippe Daverio, Klaus Davi, Attilio Maria Navarra, Marco Carminati, Gisella Capponi, Giorgio Croci, Nicola Di Battista, Marta Ragozzino, Raffaello de Ruggieri, Amerigo Restucci, Lorenzo Lamperti, Mario Bellini, Stefano Trucco, Caterina Bon di Valsassina, Giulio Giorello, Giovanni Carbonara, Nunzio di Stefano, Michele De Lucchi, Francesco Prosperetti, Renata Codello, Marco Piva, Claudio Strinati. “Antico e nuovo: conservazione, interpretazione e completamento negli interventi di restauro” segue a dodici anni di distanza il convegno Antico e nuovo. Architetture e architettura, allora organizzato da Alberto Ferlenga, Francesca Schellino e Eugenio Vassallo a quarant’anni di distanza dalla Carta Internazionale per la conservazione e il restauro dei monumenti e dei siti, maggiormente nota come “Carta di Venezia”, documento che accenna appena negli artt. 9 e 10 – ha osservato Maurizio De Vita – alla questione del rapporto antico-nuovo, a tal punto da sollecitare, appena un anno dopo, la apertura dei lavori del Congresso Nazionale Gli Architetti moderni e l’incontro tra antico e nuovo, a cura di Giuseppe Samonà e Egle Trincanato presso l’università IUAV di Venezia, al quale parteciparono numerose figure di spicco dell’epoca, tra architetti, restauratori e studiosi del calibro di Cesare Brandi, Antonio Cederna, Giancarlo De Carlo, Roberto Pane, Luigi Piccinato e Bruno Zevi, solo per citarne alcuni. Le giornate di lavoro finirono col delineare tre tendenze rispetto al problema, già riassunte da Renato De Fusco che nel 1967 distingueva tra chi riteneva dannoso ogni tipo di intervento nuovo in rapporto all’antico (Brandi, Cederna e Zevi); chi accettava l’inevitabilità dell’incontro fra antico e nuovo, invitando a un reciproco rispetto


osservatorio critico CONSERVAZIONE E RESTAURI

Veduta del salone al pianterreno

Veduta della sala capitolare, situata al primo piano dell’edificio

(Pane) e chi auspicava una politica “caso per caso” guidata da un calibrato ambientamento del nuovo in rapporto all’antico, nell’impossibilità di tracciare delle limitazioni valide ovunque (Rogers). Nel 1965 fu, inoltre, approvato un ordine del giorno che finì con lo sposare la posizione più conservatrice, condannando, al contempo, gli “interventi che consentono di manomettere il tessuto urbano antico con nuovi edifici formalisticamente ambientati, cioè, i falsi storici, e le sterili posizioni nostalgiche [...] volte a miticizzare il passato e a denigrare la città moderna, che è l’insostituibile contenitore della vita contemporanea”. A queste tre tendenze, Valore Restauro Sostenibile affianca nel 2016 i tre termini di con-

servazione, interpretazione e completamento, secondo una visione già espressa da Giovanni Carbonara, Ordinario di Restauro dei Monumenti presso l’Università La Sapienza di Roma, in un noto intervento del 2008 laddove specificava che il restauro risponde ad esigenze di conservazione nella misura in cui deve porsi come primo obiettivo la ‘trasmissione al futuro’ di un bene proveniente dal passato, ma deve altresì configurarsi come ‘edizione critica del testo’ e ‘facilitazione di lettura’ dello stesso che non potrà essere del tutto cieca alle istanze della contemporaneità. “Siamo convinti che l’accostamento e, in certi casi, la saldatura di antico e nuovo, – prosegue altrove Giovanni Carbonara, a proposito di

Veduta del piano terra

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Antico e nuovo a confronto – siano una realtà positiva da non negare né rifiutare a priori; che tale modernità debba essere attentamente motivata e vagliata nelle sue modalità espressive; che l’operatore architetto debba essere colto, paziente nell’ascoltare la preesistenza e sensibile, soprattutto consapevole d’intervenire su testimonianze materiali di civiltà preziose, per definizione uniche e irripetibili”. E, nel richiamare il concetto di ambientamento che poco seguito aveva avuto con Rogers perché confuso con il falso storico, all’impossibile replica del com’era dov’era, fra una modernità avanguardistica e rivoluzionaria, declinata in chiave high tech e globalizzante, atopica e astorica, e una postmodernità imitativa, regressiva, Giovanni Carbonara suggerisce il concetto di ‘attiva contestualizzazione’. Purtuttavia, a ben vedere, mancano a tutt’oggi, ancora, dei criteri generali che aiutino a ‘saldare’ il contemporaneo al preesistente, se si escludono alcune attenzioni progettuali ricorrenti, quali, ad esempio, il rispetto della continuità volumetrica esterna, accettata la diversità spaziale e strutturale del completamento e lo studio della giunzione antico/ nuovo, come semplice accostamento o esibita estrinsecazione della interferenza tra le due fabbriche. Così, la dialettica antico/nuovo, esplosa con violenza in Italia nel Secondo Dopoguerra, quando, nel rispondere alla domanda abitativa allora avvertita come urgente dalle famiglie che avevano perduto la loro casa a seguito dei bombardamenti, occorreva proporre tutta una serie di soluzioni, insieme, tecniche, costruttive ed architettoniche ragionate – come faranno, tra gli altri, Franco Marescotti, Giuseppe Vaccaro e LC, di cui si è raccontato sulla rivista Segno 258 – ha finito col diventare un problema particolar-

Retro (nord) e scala di sicurezza

Lato ovest dell’edificio: veduta della sala capitolare (immagine sopra) messa a confronto con la veduta del salone terreno (immagine sotto)

Veduta della scala che conduce alla sala capitolare

Lato est dell’edificio: veduta della sala capitolare (immagine sopra) messa a confronto con la veduta del salone terreno (immagine sotto) Lato ovest dell’edificio: interni

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Lato est dell’edificio: interni


osservatorio critico CONSERVAZIONE E RESTAURI

La scala di sicurezza (dettaglio)

Dettaglio della sala capitolare

mente sentito anche per la città di Venezia dagli Anni Sessanta in poi, quando Cesare Brandi pubblicava la prima edizione della sua Teoria del Restauro e l’amministrazione veneziana interpellava LC per redigere il progetto di un nuovo ospedale – che non si realizzerà – in zona S. Giobbe nel sestiere Cannaregio dove si trova anche la Scuola Grande della Misericordia di Venezia. L’azzardo di ritornare a discutere ancora sulla dialettica antico/nuovo, a soli dodici anni di distanza dall’imponente convegno Antico e nuovo. Architetture e architettura, scaturisce dalla consapevolezza che l’argomento richiede ancora una particolare attenzione, come sta dimostrando soltanto in questi giorni l’opinione pubblica che sta raccogliendo le prime linee guida per la ricostruzione di Amatrice, borgo più bello d’Italia, distrutto insieme ad altri da un violento terremoto, non diversamente da come il bombardamento bellico della Seconda Guerra Mondiale mutilò molte località italiane. La dialettica antico/nuovo si fa tanto più sentita quanto maggiormente è riscontrata dalle popolazioni una caratteristica tipicità storica di un luogo, e ciò vale, similmente, tanto per Amatrice quanto per Venezia, pure nella loro evidente diversità, per quella percepita ‘unità’ che sembra precludere ogni possibile intervento esterno. Riportata alla scala architettonica dell’artefatto, la ‘attiva contestualizzazione’ o ‘conservazione attiva’ può restituire convincenti risultati. È questo certamente il caso della Scuola Grande della Misericordia di Venezia, scelta come sede del terzo incontro del ciclo internazionale “Valore Restauro Sostenibile. Costellazioni di confronti sul restauro” per la forza ‘rivelativa’ che il suo recente restauro e risanamento suggeriscono, grazie alla illuminata attività dell’architetto Alberto Torsello, vincitore, insieme alla società S.M.V (Società del Gruppo Umana S.p.A.) costituita dall’allora presidente di Confindustria Luigi Brugnaro, del concorso bandito nel gennaio 2008. La concessione di costruzione e gestione è stata, dunque, affidata in regime di project financing, pratica di recente trasferita al settore dei beni culturali in via ufficiale dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, adottata da Italiana Costruzioni S.p.A. e Fratelli Navarra Srl che, in generale, promuovono il partenariato pubblico/privato. Nel bando di concorso si richiedevano lavori di demolizione di strutture interne in calcestruzzo armato e di pavimentazioni esistenti; consolidamenti strutturali delle murature; suddivisione del volume esistente in più livelli mediante realizzazione di strutture in elevazione e solai in acciaio; opere edili di completamento quali serramenti interni ed esterni, pavimenti, tinteggiature, ecc.; realizzazione di nuovi impianti elettrici e speciali di videosorveglianza, antintrusione,

diffusione sonora, ecc.; realizzazione di nuovi impianti meccanici di riscaldamento e condizionamento, impianti idrico-sanitari; intervento di restauro delle superfici decorate e dei manufatti e piano di manutenzione degli impianti per la durata di cinque anni, da raccogliere entro un progetto di cantierizzazione delle opere, facendo esplicito riferimento a tutti quegli strumenti e quelle pratiche da adottare per uniformarsi alla necessaria ‘mitigazione delle interferenze con gli edifici/viabilità circostante’ in quanto, per dirla alla LC, “Venezia è testimone del rigore imposto dal fenomeno urbano […] e un prodotto preciso delle vere dimensioni umane”, laddove ogni aggiunta richiede, ogni volta, una attenta e critica riflessione. Un report completo degli esiti raggiunti nel restauro e risanamento della Scuola Grande della Misericordia di Venezia è stato pubblicato sulla rivista Casabella numero 861/maggio 2016 a firma di Manuela Morresi e fotografie di Alessandra Chemollo. In questa sede vale la pena, riscontrare come il dato ‘rivelativo’ qui consiste nel connubio tra Tecnologia e Restauro. “Antico e nuovo: conservazione, interpretazione e completamento negli interventi di restauro”, aperta da Martina Semenzato della Scuola della Misericordia, già Rappresentate istituzionale del Comune di Venezia e rappresentate istituzionale della Regione Veneto e Attilio Maria Navarra, Presidente di Italiana Costruzioni S.p.A., si è strutturata in una tavola rotonda suddivisa in due sessioni consecutive, entrambe introdotte e coordinate da Francesco Moschini e che hanno visto l’alternarsi degli interventi di Francesco Prosperetti, Soprintendente speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’area archeologica di Roma; Renata Codello, Segretario regionale dei Beni culturali del Veneto; Marco Piva, Architetto, conclusa con un dibattito introdotto e coordinato da Francesco Moschini con Francesco Maggiore; Alberto Ferlenga, Rettore e Ordinario di progettazione architettonica presso lo IUAV di Venezia; Erilde Terenzoni, già Soprintendente Archivistico per il Veneto e il Trentino Alto Adige; Giovanni Salmistrari, Presidente ANCE Veneto; Anna Buzzacchi, Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Venezia; Filippo Perissinotto, Presidente Valorizzazioni Culturali; Enzo Muoio, Amministratore delegato Anci Sa e una lectio magistralis dello storico dell’arte Claudio Strinati. “Valore Restauro Sostenibile. Costellazioni di confronti sul restauro” è un ciclo di incontri internazionali pensato con cadenza quadrimestrale curato da Francesco Moschini e Francesco Maggiore; seguiranno all’incontro veneziano tre seminari distribuiti in due città italiane (L’Aquila e Monza) e una città estera, Istanbul. n SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016 | 259 segno - 97


Osservatorio critico / Beni culturali

Il Teatro sepolto ad Agrigento

grigento: siamo in bilico. Il 10 settembre potrebbe essere una data ricordaA ta come la più grande scoperta archeolo-

gica d’inizio Millennio, o il più drammatico “miraggio” del mondo. Capita. I prossimi mesi decideranno verso quale delle due parti l’ago della bilancia, adesso impazzito, si soffermerà. Ovviamente speriamo per la prima. Ripercorriamo il sentiero di questa notizia. Sabato 10 settembre 2016. È mattina. La stampa apre con uno scoop. Il succo: ritrovato l’antico teatro greco di Akràgas! Si tratta di un grande evento. Davvero grande, poiché di esso, in città e nell’ambiente accademico, si è in cerca da secoli. Ufficialmente o meno. Tommaso Fazello e Pirro Marconi sono soltanto due dei nomi legati alla “caccia”, i quali, oltre ad aver lasciato notevoli contributi, intuirono proprio nella zona oggi interessata, la presenza del teatro. Tra le tante teorie, però, mai nessuna certezza; non imputabile agli studiosi, i cui calcoli ebbero un lieve margine di errore, ma probabilmente causate dalla scarsità dei fondi a disposizione, non coerenti alla portata dell’attività archeologica. Insomma: dalle testimonianze letterarie agli scavi... Di concreto soltanto il desiderio ritrovarlo. Che è scemato nel corso del tempo. Le ipotesi storiche da bar, avanzate dai non addetti ai lavori, insomma coloro che non hanno voluto abbandonare l’idea di un esistente e sepolto teatro di Akràgas, sostenevano che esso avrebbe potuto trovarsi a ridosso dal colle in cui è stata arroccata la vecchia e berbera Girgenti: in una piazza, che è stata mercato ortofrutticolo, e oggi stazione di servizio e parcheggio, la cui morfologia ricorderebbe proprio la struttura teatrale: la platea a semicerchio che osserva la scena e poi il mare. Plausibile, e non folle, il fatto che il teatro potesse essere lì. Forse anche perché gli aspiranti archeologi furono suggeriti da un’usanza agrigentina molto strana, e cioè quello di distruggere il passato (ellenico, romano, chiaramontano, ecc.) costruendoci

sopra qualcosa, qualsiasi cosa: l’attuale estensione della città, difatti, poggia su vaste aree archeologiche, definitivamente perdute, affogate dal cemento. Malgrado ciò... Fino a poche ore fa l’unico teatro cittadino, esclusi quelli estivi movibili o permanenti privati, è stato il “Pirandello”, posto difronte l’omonima piazza, all’interno del palazzo comunale e sotto il civico consesso (sic!). Da ottobre, il mese in cui iniziano gli scavi, pare che la storia locale riesca a regalare un nuovo tesoro all’Italia che manda in decomposizione i suoi beni e al mondo che ne fruisce. Esprimendosi smorfiosamente agli agrigentini così: il teatro greco?, è sempre stato sotto il vostro naso (letteralmente), e in un’area fortunatamente rimasta quasi indenne dalla speculazione edilizia, a pochi passi dai resti del quartiere ellenisticoromano e l’area urbana contemporanea di qualche chilometro più a nord, che stava fagocitando le campagne verso il litorale, con una rassegna di “tolli” (i palazzoni), elementi architettonici tipici della zona. A “spolverare” il probabile gioiello ellenico dall’oblio è stato il Politecnico dell’Università di Bari, durante le ricerche aerofotogrammetriche concentrate a definire l’agorà. Ritrovata una cavea, il disegno che ricorda l’impostazione architettonica del teatro pare evidente. Lo speriamo. Andiamo alla cronaca. Si parla di teatro, e teatralmente il premier (la visita era programmata) si è recato ad Agrigento, di fronte il Tempio della Concordia, per firmare il “Patto per la Sicilia”. Il teatro non è mai fine a se stesso, ma si espande alla vita reale. Il “Patto” pone un’altro momento da ricordare: la pioggia di 6,6 milioni di euro su Agrigento, da spendere per vari investimenti, scavi compresi. Buone coincidenze... Non accadeva da quando la città si fece sfug-

gire dalle mani la possibilità di avere oggi un centro storico esteticamente presentabile. Intanto, lo scorso settembre il Parco Archeologico ha indetto una conferenza stampa per chiarimenti in merito alla scoperta. Ad Agrigento sono tutti eccitati (c’è da ammettere che ci si eccita anche per meno). Si parla di “rivoluzione economica” per la città ultima in classifica riguardo la qualità della vita. E magari! Negli ambienti “critici”, invece, si esulta in modo contenuto. Anzi, si è decisamente preoccupati. E a ragione. Anche se è troppo presto per rispondere alle seguenti domande. Primo. Se l’antico teatro venisse a galla, come sarà gestito in futuro il reperto? Risulterà utile a infarcire le casse comunali di una città non in grado di gestire se stessa, e da anni in caduta verso il dissesto? Perché di questo è necessario discutere, successivamente alla meraviglia archeologica, facendo breccia nella favola. Secondo. Il teatro greco, insieme alla sua “forza gravitazionale”, salverà la facoltà di archeologia di Agrigento, la cui inaugurazione accademica annuale coincide con la minaccia di chiusura, donando importanza a una disciplina tanto importante nel luogo in cui risiede? (Questo è o no un argomento da palcoscenico?). Terzo. Nonostante il teatro, il turismo agrigentino sarà sempre succube delle città che la tengono a bada, facendo dei Templi una “toccata e fuga” di poche ore, o forse, con l’occasione, si inizierà a ragionare di turismo scientifico, con offerte e servizi, e di rassegne di drammaturgia classica? (Sto esagerando). Concludendo, quarto: Agrigento - diciamo la Sicilia intera - è all’altezza di un bene culturale di simile importanza, visto che al suo interno le sono rimaste soltanto un paio di Strade Statali ancora in piedi? Sì, siamo in bilico. Dario Orphée La Mendola

Collana Arti Visive & Beni Culturali Visionari del tempo presente Saggio della storica e critica d’arte Sara Liuzzi per la casa editrice Open Space, nella collana Arti Visive & Beni Culturali, diretta da Luna Gubinelli. Un saggio che ci conduce nel fertile territorio artistico tarantino e che costituisce il trait-d’union di cinque affermati artisti con le loro origini: Giuseppe Spagnulo, Nicola Carrino, Antonio Michelangelo Faggiano, Giulio De Mitri e Sarah Ciracì. In ogni territorio – scrive Sara Liuzzi - si evince il genius loci, lo spirito del luogo, un concetto molto antico, che racchiude la complessità e l’importanza dell’identificazione del luogo stesso, la sua anima, l’essenza primordiale. Il saggio si completa con un prezioso colloquio con lo storico e critico d’arte Luigi Paolo Finizio, il quale ha ben sottolineato, nei diversi dialoghi, che “l’arte insieme ad ogni attività di cultura costituiscono motori di crescita e affinamenti nella vita sociale. Viviamo una sorta di situazionismo ubiquo e perenne in cui ogni realtà, ogni suo margine può essere rappresentato. Dentro l’arte ci siamo come dentro la vita e troppe volte si fa confusione”. In appendice apparato iconografico con alcune significative opere degli artisti.

Ed/Mn Edited By Maurizio Nannucci Editions and Multiples 1967/2016 Viaindustriae e Colli publishing platform presentano il volume, in lingua inglese, curato da Maurizio Nannucci, un catalogo ragionato di tutte le edizioni e multipli realizzate dal 1967 a oggi. Parte centrale del lavoro stesso di Nannucci, le edizioni e i multipli, sono qui catalogati nel contesto della sua ampia e prolifica produzione editoriale, che coinvolge le più importanti istituzioni museali, gli editori di ricerca e molti artisti internazionali. II catalogo ragionato, ordinato in sezioni: multiples, photographs/prints/posters, catalogues, editions, artist’s books, audiovisuals, ephemera, contributions, è accompagnato da un’antologia critica di testi di Carlo Belloli, Christophe Cherix, Stefano Chiodi, Anne Moeglin-Delcroix, Gabriele Detterer, Mario Diacono, Maurizio Nannucci, Hans Ulrich Obrist, Pier Luigi Tazzi, Tommaso Trini. Il “corpus” di oltre trecento edizioni tra libri d’artista, multipli, dischi, manifesti, stampe, foto, riviste, ephemera, audiovisivi, documenta le diverse tappe dell’opera di Nannucci, che s’identifica nel panorama internazionale per la sua interdisciplinarietà.

The Long Life of Design in Italy B&B Italia - 50 years and Beyond

98 - segno 259 | SETTEMBRE/NOVEMBRE 2016

Edito da Skira, sia in italiano sia in inglese, il volume è una testimonianza del clamoroso successo internazionale del design italiano, e il risultato del fortunato incontro con le visioni d’imprenditori come Piero Ambrogio Busnelli, fondatore di B&B Italia. Dalla sua creazione nel 1966, B&B Italia ha investito più di qualsiasi altra società di progettazione nel campo della ricerca e sperimentazione sulle nuove tecnologie, e questo libro racconta la storia dell’azienda attraverso i prodotti e i luoghi che hanno segnato il suo sviluppo. Curato da Stefano Casciani, The Long Life of Design in Italy vanta importanti contributi di Renzo Piano, Ferruccio De Bortoli, Deyan Sudjic e una ricchissima iconografia e repertori fotografici speciali si Iwan Baan e Francesca Ferrari.


accademia nazionale di san luca mostre in corso

Il Grand Tour

a cura di Roberto Cremascoli e Francesco Moschini

álvaro siza in italia 1976 - 2016

la misura dell’occidente Álvaro Siza_Giovanni Chiaramonte

26.10.16_27.02.17 ingresso libero . free admission

accademia nazionale di san luca piazza dell’Accademia di San Luca 77, 00187 Roma www.accademiasanluca.eu



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