Segno 258

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 00 in libreria ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910

E 5.

Anno XLI - GIU/LUG 2016

HANS OP DE BEECK

MIMMO PALADINO

WILLIAM KENTRIDGE

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea



segnogiugno/luglio 2016 Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

WILLIAM KENTRIDGE

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

RE DALL’OPERA

settembre 2018

0

Anno XLI - GIU/LUG 2016

Artisti in copertina

MIMMO PALADINO

William Kentridge

A project fo Rome, 1550 meters long frieze on the Tiber walls, Roma (particolare)

courtesy Lia Rumma, Milano - Napoli

Mimmo Paladino

courtesy Galleria Christian Stein, Milano e Pero “...L’arte dipinge la vita…” Destina il tuo 5 per mille alla Fondazione Morra. La Fondazione Morra è tra le realtà culturali a cui ogni anno è possibile destinare una quota, il 5 per mille, delle imposte sul proprio reddito. Il nostro numero di codice fiscale è: 94202830637

Hans Op De Beeck

Carsten Höller [28]

HANS OP DE BEECK

ore 10.00 alle ore 19.00 14.00 - Domenica chiuso

courtesy Galleria Continua, San Gimignano

4/21 News gallerie e istituzioni Anticipazioni in breve dall’ Italia ed estero a cura di Lisa D’Emidio, M.Letizia Paiato, Paolo Spadano

Arena opere dall’opera [54]

15a Biennale Architettura (Venezia pag.22-27 Francesco Moschini - Andrea Mammarella) Carsten Höller (Pirelli Hangar Bicocca Milano pag.28 Simona Olivieri) Studio Azzurro (Palazzo Reale Milano pag.29 Pietro Marino) Dall’oggi al domani (MACRO Roma pag.30 Ilaria Piccioni) Braco Dimitrijevic (GAM Torino pag.30 Gabriele Perretta) Carambolages (Gran Palais Parigi pag. 31 Antonella Marino) William Kentridge (MACRO/Tevereterno Roma, Lia Rumma Milano pag.32-35 M.L. Paiato) Mimmo Paladino (Galleria Christian Stein Milano e Pero pag.36-37 Simona Olivieri) Nicola Carrino (CAMUSAC Cassino pag.38 Jasmine Pignatelli) Christo & Jeanne-Claude (Museo Santa Giulia Brescia e Lago d’Iseo pag.39 Pietro Marino) Creative Eye (Galleria Granelli Livorno pag.40-41 Paolo Aita) Rigorosamente libri (Banca Del Monte Foggia pag.42-43 Maria Vinella) Friedman/Decavèle (Fondazione Aria Pescara, Zerinthia Roma pag.44-47 Paolo Aita) Giuseppe Uncini (Galleria Poleschi Lucca pag.48 Paolo Balmas) Arte e Natura (PAV Torino pag.49 Mattia Solari) H.De Beek, J. e E. Kabakov, C.Garaicova (Galleria Continua pag.50-52 Rita Olivieri) Loris Cecchini e Giovanni Ozzola (Toscana Contemporanea pag.53 Rita Olivieri) Arena opere dall’opera (Museo Nitsch Napoli pag. 54-57 Rino Terracciano) Intervista a Peppe Morra (pag 58-59 cura di Raffaella Barbato) Carlo Alfano (Studio Trisorio Napoli, pag,60 Stefano Taccone) Giorgio Cattani (Galleria Fabula Art pag 61 M.L. Paiato) Gianni Dessì (Galleria Pedana Caserta Pag 62-63 Stefano Taccone) Walter Fusi (Galleria Open Art Prato pag 64-65 Paolo Balmas) Passo dopo passo (Fondazione Sandretto pag 66 Gabriele Perretta) Hilario Isola (Guido Costa Project Torino pa.67 Gabriele Perretta) Francesco Jodice (Camera Totino pag 67 C.S.) Vito Bucciarelli (Laboratorio Città S.Angelo – Accademia di Urbino pag 68-69 M.L. Paiato) Ale Guzzetti (Valmore Studio Vicenza pag 70-71 Monica Bonollo) Rosario Genovese (Centro Arte Montenegro pag-72-73 a cura di Lucia Spadano) Giorgio Lupattelli, Veronica Montanino (Museo Marca Catanzaro pag.74 Simona Caramia) Rosy Rox (Tenuta dello Scompiglio Lucca pag 74 Antonello Tolve) Ugo La Pietra (Gallarate, Malpensa Milano pag. 75 M.L. Paiato) Michel Verjux (Arte Invernizzi, Milano Simona Olivieri) Sandro de Alexandris (Studio G7 Bologna pag.76 Francesca Cammarata) Paolo Lunanova (Galleria Itinerari Bari pag.76 Antonella Marino) Giuseppe Caccavale (Istituto Italiano di Cultura Parigi pag.76 Antonella Marino) Lina Fucà (Galleria Persano Torino pag.77 M.L. Paiato) Colletiva Quai (Galleria Bonelli Milano pag.78 M.L. Paiato) Fernando de Filippi (Fondazione Noesi Martina Franca pag78 C.S.) Francesco Simeti (Galleria Minini Milano pag.79 C.S. Nicola Ricciardi) Collettiva Il Cielo e le Terre (Foggia e Provincia pag.79 C.S.) Collettiva Il Paradiso inclinato (Ex Dogana Roma pag.80 Ilaria Piccioni)

Gianni Dessì [62]

www.rivistasegno.eu

Christo & Jeanne-Claude [39]

e 26/85 Attività espositive/ Recensioni anticipazioni

news e calendario eventi su

80/85 Documentazione

Altre mostre e collettive varie in Italia, (pag.80-81) Nuova galleria italiana. Intervista ad Adalberto Catanzaro (pag.80-81 M.L.Paiato) Fiere d’arte. Da Miart a Bruxelles (pag.83-85 a cura di Lucia Spadano e Emanuele Magri)

Vito Bucciarelli [68]

apoli 641494

sommario Biennale Architettura Ve [22]

E 5.

# 258 - Giugno/Luglio 2016

ph: Amedeo BenestAnte

progetto grafico: RAffAele PedAtA

#258

Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

86/98 Osservatorio critico/Letteratura d’arte

EUR Sconosciuto (Accademia San Luca Roma pag.86-89 Rossella Martino) Paolo Scirpa, Ludoscopio (pag.90) La Casa per tutti. Franco Marescotti (Accademia San Luca pag.92-95 Rossella Martino) Libri, premi e cataloghi, iniziative per l’arte (pag.96-98 a cura della redazione e collaboratori)

segno periodico internazionale di arte contemporanea

Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara Telefono 085/61712

redazione@rivistasegno.eu www.rivistasegno.eu

Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA Redazione WEB, Roberto Sala, M.Letizia Paiato

ABBONAMENTI ORDINARI E 25 (Italia) E 50 (in Europa CEE) E 90 (USA & Others)

Collaboratori e Corrispondenti dell’associazione culturale Segno: Paolo Aita, Raffaella Barbato, Giuliana Benassi, Francesca Cammarata, Simona Caramia, Viana Conti, Gianmarco Corradi, Marilena Di Tursi, Antonella Marino, Rita Olivieri, Simona Olivieri, Maria Letizia Paiato, Ilaria Piccioni, Gabriele Perretta, Carla Rossetti, Gabriella Serusi, Stefano Taccone, Maria Vinella, Micaela Zucconi.

ABBONAMENTO SPECIALE PER SOSTENITORI E SOCI da E 300 a E 500 L’importo può essere versato sul c/c postale n. 1021793144 Rivista Segno - Pescara

Distribuzione e diffusione Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Pescara - ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 Edito dalla Associazione Culturale Segno e da Sala editori s.a.s. associati per gli esecutivi e layout di stampa Registrazione Tribunale di Pescara nº 5 Registro Stampa 1977-1996. Traduzioni Lisa D’Emidio e Paolo Spadano. Art director Roberto Sala - Tel. 085.61438 - grafica@rivistasegno.eu. Redazione web Maria Letizia Paiato - news@rivistasegno.eu Impianti grafici e legatura: Publish e Nuova Legatoria (Cepagatti - Pe). Ai sensi della legge N.675 del 31/12/1996 informiamo che i dati del nostro indirizzario vengono utilizzati per l’invio del periodico come iniziativa culturale di promozione no profit.


>anteprima< PRATO

FONDAZIONE FERRAGAMO

TRAromosso ARTE E MODA e organizzato da Fondazione Ferragamo Museo

P

Salvatore Ferragamo, in collaborazione con la Biblioteca Nazionale Centrale Firenze Gallerie degli Uffizi, Galleria d’arte moderna e Galleria del Costume di Palazzo Pitti Firenze, Museo del Tessuto Prato, Museo Marino Marini Firenze e con il supporto del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e altri enti, su un’idea di Stefania Ricci nasce Tra Arte e Moda, esposizione curata da Maria Luisa Frisa, Enrica Morini, Stefania Ricci e Alberto Salvadori. La moda è arte? Andy Warhol ci ha insegnato che l’unicità dell’opera d’arte non collima più con la produzione artistica, da qui il presupposto per parlare della dicotomia tra arte e moda che questo inedito progetto analizza sviscerando contaminazioni, sovrapposizioni e collaborazioni. In mostra si passano in rassegna esperienze dei Preraffaelliti, del Futurismo, del Surrealismo, fino al Radical Fashion, inglobando anche il lavoro di Salvatore Ferragamo, affascinato e ispirato dalle avanguardie artistiche del Novecento. Il percorso espositivo si snoda, nella sezione al Museo Salvatore Ferragamo in: 1. Il caso Ferragamo, 2. La moda s’ispira all’arte, 3. Forme e superfici, 4. Andy Warhol strategie di comunicazione, 5. Germana Marucelli. Interprete rara di poesia, 6. Dall’atelier al mood board, 7. Yinka Shonibare, 8. Giochi di ruolo. Negli altri musei. Alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze c’è Periodici italiani nel Novecento, un’esposizione che collega arte e moda nella stampa, partendo dagli inizi del Novecento, con un particolare focus sull’Italia. Alla Galleria degli Uffizi e alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti c’è Ottocento alla moda che guarda al XIX secolo come quello dell’avvento della borghesia e della produzione industriale che vede la moda smettere di essere appannaggio delle sole classi regnanti e dell’aristocrazia, facendo diventare questo scambio più intenso. Al Museo del Tessuto di Prato c’è Nostalgia del futuro nei tessuti d’artista del Dopoguerra che inquadra arte, moda e design tessile come terreni condivisi a partire dal Novecento, e nella strutturazione delle Biennali di Monza (1923-1930) e poi delle Triennali di Milano (dal 1933), dove la presenza di artisti e architetti hanno contribuito a portare attenzione sulla necessità di assegnare un ruolo funzionale alle arti decorative. Al Museo Marino Marini c’è Collaborazioni che guarda al momento in cui i confini tra arte e moda iniziano a diventare meno netti negli anni ottanta, quando crescono a livello internazionale le forme di relazione tra i due mondi. Connesso alla mostra Tra Arte e Moda è anche il progetto artistico che vede coinvolte le vetrine del flagship store di Salvatore Ferragamo a Firenze, uno specifico evento che vede coinvolto l’italiano Riccardo Benassi, artista, scrittore, performer, musicista e designer.

TORINO

PALAZZO MADAMA

LA DONNA OLTRE IL MITO Palazzo Madama, Torino, dal 1 giugno al 19 settembre,

A

Marilyn Monroe – La donna oltre il Mito, mostra dedicata a Marilyn Monroe, senza dubbio una delle icone di Hollywood più note ed amate. Sebbene sia morta 50 anni fa, Marilyn Monroe, La donna oltre il Mito, 2016

4 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

Chiostro Museo Nazionale Scienza e Tecnologia, Milano

MILANO

MILANO CONGRESSI

CONFERENZA CONSIGLIO INTERNAZIONALE DEI MUSEI al 9 al 24 luglio al MiCo si discute di musei e paesaggi

D

culturali con 4000 delegati di 130 paesi, rappresentanti del Consiglio Internazionale dei Musei. Tema centrale del dibattito è: quali istituzioni museali per il Terzo Millennio? Possono contribuire alla promozione del patrimonio interno, ma anche alla conoscenza dell’ambiente che è al di fuori delle loro mura? L’idea è di sondare l’ipotesi che possano diventare presidi di tutela attiva nei confronti del territorio di cui sono parte, nella prospettiva del cosiddetto ‘museo diffuso’. Presupposti che acquisiscono maggiore rilevanza in un paese come l’Italia, dove sono presenti 3847 musei, 240 aree e parchi archeologici, 501 monumenti e complessi monumentali, tutti inseriti in paesaggi culturali che dialogano inevitabilmente con essi. Ciò significa che un museo responsabile del paesaggio che lo circonda, assume un ruolo importante per il territorio d’appartenenza, depositario dei suoi valori storici, ma anche protagonista di una pianificazione urbanistica e paesaggistica sostenibile. HansMartin Hinz, Presidente ICOM, a sottolinea il ruolo di Milano come fondamentale nel dialogo con partecipanti provenienti da diversi orizzonti culturali e linguistici. Fra gli ospiti anche l’artista Christo, lo scrittore Orhan Pamuk, l’architetto Michele De Lucchi, il Ministro per le parità di genere in Zambia Nkandu Luo e l’economista David Throsby.

Tra Arte e Moda, Across Art and Fashion, Museo Salvatore Ferragamo

è ancora famosissima in tutto il mondo. Il suo volto è diventato icona in uno dei più famosi ritratti di Andy Warhol; la fotografia che la ritrae con il famoso abito bianco a pieghe sulla grata della metropolitana di New York è una delle immagini più famose del Ventesimo secolo. Questo, tuttavia, restituisce solo un aspetto di Marilyn; un aspetto da lei certamente usato per ottenere il successo che l’ha resa immortale, ma che ha oscurato aspetti molto differenti e altrettanto importanti della sua vita e del suo carattere. La mostra racconta di una donna che ha fondato la propria compagnia di produzione cinematografica, lottando per affermare la sua femminilità non solo come apparenza, ma come essenza: il modo di vestirsi, di prendersi cura di sé attraverso lo sport e in particolar modo la cosmesi. Strenua sostenitrice della cantante Ella Fitzgerald, si è schierata a favore dell’abolizione della segregazione razziale. Tutto questo è raccontato nella mostra Marilyn: l’icona, l’attrice, la donna, la figura che ha ispirato tante donne – e uomini – nella ricerca del “diritto a brillare” . Abiti, fotografie, documenti d’epoca, ma anche oggetti di cosmesi appartenuti a Marilyn sono presentati in mostra con un taglio del tutto innovativo, che mira a mostrare, in assoluta anteprima per l’Italia, la donna forte, sicura della propria femminilità, impegnata nelle battaglie per la parità di genere; al contempo lucida – e moderna - donna in carriera, Marilyn ha fatto dello stereotipo della “bombshell” la bandiera del suo diritto alla femminilità: “I’m very definititely a woman, and I enjoy it”.


>news istituzioni e gallerie< ROMA MACRO

SIENA

SEDI VARIE

PROGRAMMAZIONE CHE IL VERO POSSA rotagonisti al MACRO della rassegna Appunti Di Una GeCONFUTARE IL FALSO nerazione #3 curata da Costantino D’Orazio, che indaga urata da Luigi Fassi e Alberto Salvadori la mostra Che il la ricerca degli artisti italiani emersi negli anni ’90, sono

P

Matteo Basilé e Gioacchino Pontrelli. Il primo presenta la nuova serie dal titolo Pietra Santa, lavoro svolto tra le cave di Carrara che, come di consueto per l’artista, contamina la fotografia con suggestioni della tradizione artistica italiana. Il secondo presenta, invece, grandi tele dove nella sua pittura sembrano trovare un dialogo la presenza di linguaggi differenti, fra astratto, figurativo, collage e fotografia, nell’idea di nuova sintesi che definisce ogni sua composizione. Il terzo appuntamento di Opere della collezione MACRO, dal titolo Segni, Alfabeti, Scritture, è una mostra curata da Antonia Arconti che indaga il rapporto tra arti visive e scrittura, un legame che ha attraversato la storia dell’arte dell’ultimo secolo, a partire dalle avanguardie storiche, con i collages dei cubisti, le “parole in libertà” dei futuristi, le opere dadaiste, la pop art, la poesia visiva degli anni Settanta, fino all’arte concettuale del secondo Novecento. Esposte in mostra opere di: Gastone Novelli, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Bice Lazzari, Carla Accardi, Pietro Consagra, Gianfranco Baruchello, Nicola De Maria, Domenico Bianchi, Vasco Bendini, Naoya Takahara, Maurizio Arcangeli, Claudio Adami, Luca Maria Patella, H. H. Lim, Claire Fontaine, cui si aggiungono quelle concesse in comodato da Unicredit di Mocellin/Pellegrini, di Jean Marc Bustamante e di Maurizio Arcangeli, oltre ai prestiti esterni delle opere di Alighiero Boetti ed Emilio Isgrò. La mostra è in collaborazione con Zètema. Curata da Marco Fabiano, la mostra Videocracy #1 rappresenta la prima tappa di un viaggio all’interno della Collezione dei video del MACRO, dalla quale sono stati estrapolati e messi a confronto tre video dei due dei più grandi e importanti video-artisti del Novecento: Bruce Nauman, di cui è mostrato Walking in an Exaggerated Manner Around the Perimater of a Square del 1967-68, e Cheryl Donegan con Head del 1993 e Sets del 1997. Il confronto/raffronto fra generazioni, generi, tipologie mediali e metodologie filmiche del “fare” video nel XX secolo offrono la possibilità di rileggere in maniera minimale la concettualità di un periodo. Le mostre sono in collaborazione con Zètema. Matteo Basilé, Pietra Santa, 2016, courtesy l’artista

C

vero possa confutare il falso è allestita, dal 25 giugno, a Siena, a Santa Maria della Scala, Palazzo Pubblico e Accademia dei Fisiocritici. Si tratta di una mostra sulla collezione di opere d’arte contemporanea di AGIVERONA - Collection di Giorgio e Anna Fasol, nata negli anni Sessanta, che ha concentrato, fino agli anni Ottanta, il suo interesse sui grandi maestri contemporanei, spostando, in seguito la sua attenzione sull’Arte contemporanea con l’intento di promuovere progetti e sostenere l’attività di giovani artisti contemporanei, finanziando lo spazio di fruizione e formazione culturale. La collezione si compone di diverse opere le cui date di creazione coincidono per lo più con la loro data di acquisizione, per ricordarne alcune: negli anni Ottanta l’acquisizione di Arienti, nel 1991 di Cattelan, nel 1999 di Jim Lambie, nel 2000 di Adel Abdessamed, di Chen Zhen e del primo video di Anri Sala, nel 2001 di Subodh Gupta e nel 2003 di Tino Sehgal (per entrambi gli artisti fu la prima acquisizione da parte di una collezione straniera) ed ancora nel 2004 Simon Starling, nel 2008 Susan Phillips e più recentemente, nel 2012, la giovane Vanessa Safavi e il giovane artista Ibrahim Mahama esposto con un’installazione site-specific alla 56° Biennale di Venezia. Progetti per l’Arte di AGIVERONA Collection è una piattaforma di crowdfunding che mira al finanziamento di progetti artistici. È stata sviluppata con l’obiettivo di indagare le nuove dinamiche del mecenatismo diffuso legate al sostegno di giovani artisti. Questo nell’ottica di aprire il mondo del collezionismo d’arte e della produzione artistica alle nuove logiche del mercato partecipativo tipiche della sharing economy. Diversamente dal solito, invece di premiare i donatori in base al contributo personale del singolo, la piattaforma premia chi si attiva maggiormente per il successo del progetto coinvolgendo altre persone nella raccolta. “Ignoranza, Consapevolezza, Ricerca sono le tre fasi che caratterizzano il mio percorso e la mia crescita da collezionista” afferma Giorgio Fasol e prosegue “Passione e conoscenza sono alla base di tutto. Mi piace rischiare, scommettere sui giovani artisti, lasciarmi coinvolgere dal colpo di fulmine oltre ogni ragionevole dubbio… Il più delle volte la fortuna mi assiste, gli artisti su cui punto spesso raggiungono successi importanti anche a livello internazionale… Viaggio molto, i chilometri percorsi sono oramai incalcolabili, ma l’adrenalina mi permette di non essere mai stanco, di restare attento, vigile e curioso, sempre.”.

ANCONA MUSEO TATTILE

VISIONI ANIMALI urata da Antonello Rubini, la mostra Visioni Animali.

C

Sculture d’Arte Contemporanea al Museo Tattile Statale Omero alla Mole Vanvitelliana, mette a disposizione del pubblico circa 70 opere che trattano la raffigurazione animale nella scultura contemporanea, affrontata da artisti significativi che coprono quasi ottant’anni di produzione italiana (l’opera più “antica” è l’Aquila di Martini, del 1938). Gli artisti presenti sono i seguenti: Floriano Bodini, Federico Bonaldi, Giuseppe Capitano, Nino Caruso, Pietro Cascella, Alik Cavaliere, Bruno Ceccobelli, Enzo Cucchi, Giorgio de Chirico, Agenore Fabbri, Pericle Fazzini, Novello Finotti, Giosetta Fioroni, Piero Gilardi, Giuliano Giuliani, Paolo Grassino, Luigi Mainolfi, Marino Marini, Gino Marotta, Arturo Martini, Alberto Mingotti, Luciano Minguzzi, Nero/Alessandro Neretti, Beatrice Pasquali, Augusto Perez, Francesco Petrone, Luigi Puxeddu, Sergio Ragalzi, Giorgio Russi, Francesco Somaini, Tito, Valeriano Trubbiani, Nanni Valentini, Cordelia von den Steinen. Un’esposizione, questa, sugli animali, di sculture in cui essi sono soggetti assoluti o contestualizzati, comunque protagonisti, pure in quei casi di più lontana o parziale evocazione, offrendone visioni, utilizzi e concretizzazioni materiali diversificatissimi, fondata sull’idea di mettere insieme lavori in cui risulta uno spiccato senso di personale interpretazione.

Ivano Moudov, Performing Time, 2012, video, 24h courtesy AGIVERONA Collection, Prometeo Gallery, Milano Marino Marini, Cavallo, 1952, courtesy Museo Tattile Statale Omero, Ancona

GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 5


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>news istituzioni e gallerie< BASILEA

Art Basel

L’appuntamento europeo di Art Basel 2016 riunisce attorno al Messe Basel l’intero mondo dell’arte compendiato in 286 gallerie internazionali e opere di oltre 4000 artisti. Le sezioni in cui la fiera si articola, partono da quella principale, Galleries, che vede protagonisti i maggiori galleristi mondiali. Per l’Italia troviamo Alfonso Artiaco (Napoli), Galleria Continua (San Gimignano / Pechino / Les Moulins / L’Avana), Massimo De Carlo (Milano / Londra / Hong kong), A arte invernizzi, kaufmann repetto, Gió Marconi, Galleria Tega, ZERO… (Milano), Magazzino (Roma), Galleria Massimo Minini (Brescia), Galleria Franco Noero (Torino), Galleria dello Scudo (Verona). In Feature alcuni galleristi propongono progetti (personali, accostamenti o eventi dal taglio tematico) di artisti storici, a rappresentare la più ampia varietà di culture, generazioni e approcci. Statements presenta progetti espositivi personali di giovani artisti che concorrono all’assegnazione del Baloise Art Prize. Edition è dedicata a editori di stampe e multipli, risultato di collaborazioni con importanti artisti. Il settore Parcours posiziona sculture, interventi site-specific e performance nell’ambito cittadino. 19 gli interventi, a opera di Trisha Baga, Daniel Gustav Cramer, Andrew Dadson, Michael Dean, Jim Dine, Sam Durant, Alberto Garutti, Alfredo Jaar, Hans Josephsohn, Ilya and Emilia Kabakov, Eva Koťátková, Allan McCollum, Iván Navarro, Virginia Overton, Tabor Robak, Tracey Rose, Bernar Venet, Michael Wang e Lawrence Weiner. Film è un programma di proiezioni di (o su) artisti a cura di Maxa Zoller, filmaker nota per una lunga serie di filmati sperimentali. Chiude il cerchio Magazines, che riunisce pubblicazioni d’arte di tutto il mondo e naturalmente la nostra Rivista Segno.

Unlimited

Punto nodale dell’offerta espositiva di Art Basel, Unlimited presenta 88 progetti di gallerie partecipanti alla Fiera, massima adesione raggiunta dalla creazione della piattaforma nel 2000. Curata per il quinto anno da Gianni Jetzer, curatore dell’Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington, vede protagonisti nomi come AA Bronson, Ai Weiwei, Pierre Alechinsky, El Anatsui, Kader Attia, Gretchen Bender, Pablo Bronstein, Pedro Cabrita Reis, Elmgreen & Dragset, Tracey Emin, Isa Genzken, Dan Graham, Anish Kapoor, Mike Kelley, William Kentridge, Jannis Kounellis, Louise Lawler, Sol LeWitt, Laura Lima, Paul McCarthy, Julie Mehretu, Hans Op de Beeck, Pamela Rosenkranz, James Rosenquist, Martha Rosler, Dieter Roth, Chiharu Shiota, Antoni Tàpies, James Turrell e Gilberto Zorio. Unlimited ha assunto un ruolo chiave nel riproporre significativi lavori storici, come quest’anno avviene con Damascus Gate, Stretch Variation I (1970), lavoro seminale di Frank Stella; Untitled (yellow) (1966) di Robert Grosvenor; Titled (Art as Idea as Idea) (1968), prima installazione di ciò che poi diventò la serie di maggior peso per Joseph Kosuth; Make a Salad (1962) di Alison Knowles o il fotomontaggio di protesta contro la guerra in Vietnam di Martha Rosler House Beautiful: Bringing The War Home (1967-1972).

Liste

La 21ma edizione di Liste seleziona le più interessanti realtà espositive emergenti. 79 le gallerie in rappresentanza di 140 artisti, scelti come i migliori giovani da tenere d’occhio. Tra le occasioni, il debutto della Gallery Bernhard (Zurigo) che presenta Tobias Spichtig; la galleria Jan Kaps (Colonia) Jean-Marie Appriou; la Gypsum Gallery (Il Cairo) gli artisti Doa Aly e Mahmoud Khaled; la Sunday Painter (Londra) Alex Rathbone; Aoyama/Meguro (Tokyo) Satoshi Hashimoto; Dawid Radziszewski (Varsavia) la fotografa Joanna Piotrowska; Monitor (Roma) propone Tomaso De Luca; la galleria Laveronica (Modica) presenta opere di Jonas Staal e Adelita Husni Bey in una collettiva incentrata su tematiche a cavallo tra arte e politica.

Volta12

Emilio Vedova, Rosso ’83 II, 1983, pittura su tela cm.265x200, courtesy Galleria dello Scudo, Verona

Per la XII edizione, Volta torna al Markthalle, posizione centrale e adatta a un’esperienza che, nata come collaborazione tra dealer e amici, ha raggiunto la piena maturità concedendo la giusta platea alle gallerie “outsider”, che si situano tra i pesi massimi di Art Basel e le giovani esperienze di Liste. Circa settanta gli espositori selezionati.

Jonas Staal, Propagande, 2016, dettaglio courtesy Galleria Laveronica, Modica (rg)

The Solo Project

Ultima nata a Basilea, The Solo Project giunge alla nona edizione e si sposta nella nuova location della Dreispitzhalle. Espongono in fiera le gallerie Miquel Alzueta, A.Antonopoulou.Art, Art Station Isabella Lanz, Bien Gallery, Galerie Béatrice Brunner, Antonella Cattani, Coates & Scarry, Coll Blanc, Galleria Renata Fabbri, Galerie Bob Gysin, Galerie Anja Knoess, Kusseneers Gallery, M77 Gallery, Galeria pazYcomedias, Priveekollektie, Pulpo Galerie, Sam Scherrer Contemporary, SET espai d’art, Studio GR, Studio 73, The Chemistry Gallery, Galleri Thomassen, Luca Tommasi, Galerie Wilmsen, 418 Contemporary e 55 Bellechasse. Vera novità è la sezione tematica Power! solo positions curata da Christophe Ménager e dedicata alle gallerie che dimostrano di supportare fortemente l’arte emergente.

Calder & Fischli/Weiss

La Fondation Beyeler dedica una ricca ricognizione alla fragilità degli equilibri nell’arte, proponendo i lavori cui Alexander Calder e Fischli/Weiss hanno dato vita rispettivamente all’inizio e al termine del XX secolo. L’esposizione trasforma la relazione tra leggerezza e gravità in qualcosa che lo spettatore può esperire da una nuova prospettiva, a cavallo tra humour e poesia, tracciando una traiettoria inconsueta rispetto alla nostra realtà esistenziale. Fino al 4 settembre.

Sinistra: Alexander Calder, Devil Fish, 1937 courtesy Calder Foundation, New York Destra: Peter Fischli, David Weiss A new day begins, 1984, dalla serie Equilibres (A quiet afternoon), courtesy gli artisti Jonathan Monk, Objets Trouvés, 2015 marmo di Carrara bianco, particolare dell’allestimento a Les Tuileries, Parigi, 2015 courtesy l’artista e Until Then, Saint Ouen

Gilberto Zorio, Microfoni, 1968, microfoni, mixer, amplificatore, effetto eco, altoparlanti, cemento su basi di cuscinetti a sfera, fili. Courtesy l’artista e Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli, foto Mark Ritchie.

Löhr / Monk / van der Ploeg

Alla Kunsthaus Baselland protagonisti fino al 17 luglio Christiane Löhr, Jonathan Monk, Jan van der Ploeg. Löhr crea complesse ma leggere sculture tra architettonico e naturalistico; Monk si confronta con lo statuto stesso dell’esposizione d’arte; van der Ploeg, infine, propone due nuovi cicli di opere murali in dialogo dinamico con spazi e opere preesistenti. GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 7


>news istituzioni e gallerie< BERLINO

FULDA - KASSEL

La nona edizione della Berlin Biennale si propone di materializzare i paradossi che plasmano il mondo in cui viviamo: la dicotomia tra reale e virtuale, tra cultura e capitale, l’idea di benessere come intervento politico, di nazione come marchio commerciale, di persone come dati da analizzare e sfruttare. Le location per ospitare tra il 22 giugno e l’11 luglio la kermesse partono dalla iconografica Pariser Platz e Akademie der Künste (che si affaccia sulla stessa piazza), alla ESMT European School of Management and Technology, alla Feuerle Collection (sul Landwehr Canal a Kreuzberg), al battello turistico di Reederei Riedel Blue-Star (sede per performance), fino a chiudere il cerchio al KW Institute for Contemporary Art, istituzione che organizza l’evento; importante è la piattaforma digitale Fear of Content, luogo virtuale d’incontro con interventi, tra gli altri, di Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist, Oleg Fonaryov e Hito Steyerl, Simon & Daniel Fujiwara, Puppies Puppies.

È l’Italia il tema del 2015 del Das Fürstliche Gartenfest alla Schloss Fasanerie di Fulda. Fra le opere più interessanti quella del campano Antonio Ambrosino: In that time, too many lions will have the heart of the donkey, spettacolare installazione realizzata con 59 penumatici con cerchioni, tubo in multistrato, resina e poliespanso, dalla curiosa forma di Vesica (originale simbolo di Cristo). Il progetto, nato dalla riflessione sull’identità di “italiano” dell’artista e da una indagine sulle relazioni con il cristianesimo, tradisce al contempo un legame con il territorio che l’accoglie: la fortemente cattolica (in area protestante) città di Fulda.

Berlin Biennale

BRUXELLES

Margherita Moscardini Futurefarmers

Come parte del progetto “a due”. Arte Contemporanea in Italia e Belgio. 1990-2015, curato da Laura Viale e Maria Elena Minuto, l’Istituto Italiano di Cultura propone l’esposizione di Margherita Moscardini e del collettivo belga Futurefarmers. I lavori selezionati (video, disegni e libri d’artista) evidenziano le contraddizioni dei processi di urbanizzazione attraverso due opere emblematiche: Istanbul City Hills - On the Natural History of Dispersion and States of Aggregation (Moscardini, 2013-14) ed Erratum: Brief Interruptions in the Waste Stream (Futurefarmers, 2010). Jean Tinguely, Frederuch Engels, 1988 courtesy Museum Tinguely, Basel donazione Niki de Saint Phalle

DÜSSELDORF

Jean Tinguely

A 25 anni dalla scomparsa, il Museum Kunstpalast dedica una ricchissima retrospettiva all’opera di Jean Tinguely. La mostra dal titolo Super Meta Maxi è curata da Beat Wismer e Barbara Til spazia dalle prime poetiche sculture in fil di ferro e rilievi cinetici, fino alle “painting machines” e alle grandi installazioni, rendendo merito a ogni sfaccettatura della produzione visionaria di uno dei cofondatori del Nouveau Realisme, non tralasciando il fondamentale capitolo delle feconde collaborazioni con colleghi come Daniel Spoerri, Eva Aeppli, Yves Klein, Bernhard Luginbühl e Niki de Saint Phalle, quest’ultima compagna di lunga data e infine moglie e coautrice di spettacolari progetti monumentali. Fino al 14 agosto. 8 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

Antonio Ambrosino

Antonio Ambrosino, In that time, too many lions will have the heart of the donkey, 2016, courtesy l’artista Margherita Moscardini, Istanbul City Hills On the Natural History of Dispersion and States of Aggregation, 2014, inchiostri blu su carta cm.21x43, collezione privata

LONDRA

Tate

La programmazione della Tate Britain si articola a partire da Conceptual Art in Britain 1964–1979, esplorazione del periodo cardine durante il quale gli artisti iniziano ad abbandonare gli approcci tradizionali per cercare vie del tutto nuove di espressione, fino a cambiare del tutto il modo in cui pensiamo l’arte a tutt’oggi. Fino al 29 agosto, esposte opere di artisti come Keith Arnatt, Art & Language, Conrad Atkinson, Victor Burgin, Michael Craig-Martin, Hamish Fulton, Margaret Harrison, Susan Hiller, John Hilliard, Mary Kelly, John Latham, Richard Long, Bruce McLean, David Tremlett e Stephen Willats. Annunciata anche la shortlist degli artisti candidati al Turner Prize: la mostra dei lavori di Michael Dean, Anthea Hamilton, Helen Marten e Josephine Pryde apre il 27 settembre e l’annuncio del vincitore giungerà nel mese di dicembre.

La Tate Modern propone una ricognizione esaustiva dei 35 anni di ricerca di Mona Hatoum. Dalle performance radicali e opere video degli inizi alle sculture e installazioni monumentali più recenti, la mostra evidenzia la visione del mondo dell’artista palestinese-libanese (in Gran Bretagna dal ’75) che mette in risalto contraddizioni e complessità attraverso l’affiancamento degli opposti, scatenando un continuo conflitto emotivo tra desiderio e repulsione, paura e fascinazione.

LONDRA

Pittura Analitica: ‘70

La galleria Mazzoleni ospita nella sua sede londinese Pittura Analitica: ‘70, prima mostra in Gran Bretagna dedicata a uno dei gruppi di artisti che ha maggiormente influenzato il dopoguerra italiano. L’evento, a cura di Alberto Fiz, presenta fino al 23 luglio una selezione di opere dei 14 artisti principali del movimento: Carlo Battaglia, Enzo Cacciola, Vincenzo Cecchini, Paolo Cotani, Marco Gastini, Giorgio Griffa, Riccardo Guarneri, Elio Marchegiani, Paolo Masi, Carmengloria Morales, Claudio Olivieri, Pino Pinelli, Claudio Verna e Gianfranco Zappettini.

LUGANO

Martin Disler

Lo spazio cittadino Buchmann Lugano presenta, fino al 3 luglio, il trittico intitolato Ohne Titel di Martin Disler. L’opera, esposta nel ventennale della scomparsa, esprime la forza e il dinamismo tipici dello stile pittorico di Disler, la cui produzione rifugge le categorizzazioni: i dipinti concretizzano nelle pennellate decise tutto l’impulso creativo che le ha generate; la ripetitività dei motivi è tentativo di imprimere sulla tela un tormento interiore, specchio della sua stessa vita. In Galleria, ad Agra/Lugano, sono in contemporanea esposti dipinti di Disler su carta, tela e per la prima volta due pitture su vetro, sculture in terracotta e gesso.

Martin Disler, veduta dell’allestimento da Buchmann Galerie, Agra/Lugano

Anthea Hamilton, Project for door (after Gaetano Pesce), 2015, dall’esposizione Anthea Hamilton: Lichen! Libido! Chastity!, Sculpture Center, New York, 2015, courtesy l’artista, foto Kyle Knodell


>news istituzioni e gallerie< PARIGI

Centre Pompidou

Aldo Fiozzi (1894–1941), Sua Eccellenza Passeggia c. 1920, courtesy MoMA, New York

NEW YORK

MoMA

Dadaglobe Reconstructed, in mostra dal 12 giugno al 18 settembre nelle Paul J. Sachs Prints and Illustrated Books Galleries (al secondo piano), è il frutto di un intenso lavoro di ricerca durato sei anni. Adrian Sudhalter è riuscito nell’impresa di riunire oltre 100 opere di 40 artisti che dovevano, nel progetto originale di Tristan Tzara andare a comporre Dadaglobe nel 1921. L’artista, insieme a Francis Picabia, invitò 50 artisti a contribuire a una grandiosa esposizione dada, molti aderirono mandandogli opere già create oppure creandone per l’occasione; il progetto non si realizzò mai per problemi finanziari e personali, ma la maggior parte delle opere rimasero a Tzara fino alla morte, nel 1963, per poi finire disperse in una moltitudine di collezioni pubbliche e private.

Ricca e variegata la proposta del Centre Pompidou, programma su cui spicca la mostra L’ironie à l’oeuvre, puntuale ricognizione del lavoro di Paul Klee a 47 anni dall’ultima retrospettiva francese a lui dedicata. Almeno 250 i lavori riuniti nella Galleria 2 per tracciare il percorso di uno dei grandi pionieri del Modernismo, figura tra le più influenti per l’arte novecentesca, attraverso ben sette sezioni tematiche A cura di Angela Lampe, fino al 1 agosto. La Galleria 3 ospita fino al 22 agosto a cura di Cloé Pitiot, l’opera del designer Pierre Paulin. Oltre 70 pezzi (tra elementi di mobilio e oggetti industriali) e 50 disegni originali ripercorrono quarant’anni di storia creativa di un vero “scultore dello spazio”. Al livello 4 del Museo troviamo, invece, fino al febbraio 2017, negli spazi rinnovati il nuovo allestimento della Collezione contemporanea. Cher(e)s Ami(e)s : Hommage aux donateurs des collections contemporaines rende onore ai donatori che, con generosità, passione e impegno contribuiscono al prestigio della collezione permanente. Negli stessi spazi, Melik Ohanian, vincitore del prix Marcel Duchamp 2015, presenta, col sostegno dell’Adiaf, l’esposizione Under Shadows, sorta di scenario cosmico che affianca scienza e poesia. Fino al 15 agosto. Con Un art pauvre, Galleria 4 al quinto livello, si esamina la pratica e le concezioni estetiche legate al concetto di “povertà” nella creazione artistica degli anni ’60. Nel campo delle arti visive ciò significa soprattutto analizzare il fenomeno dell’Arte Povera che tanto ha influenzato i campi della musica , design, architettura, teatro, performance e film sperimentale. Dall’8 giugno al 29 agosto, con la curatela di Frédérique Paul e Bernard Blistène, opere di Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Mario Ceroli, Luciano Fabro, Piero Gilardi, Jannis Kounellis, Mario Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio, più (in veste di ospiti speciali) lavori di grandi figure del dopoguerra come Alberto Burri, Lucio Fontana, Piero Manzoni e un’opera di Mario Merz del 1960.

di 13 colori diversi che, a seconda delle ore del giorno, del variare delle stagioni e delle condizioni di luce donano un impatto visivo sempre nuovo, mostrando a tutti l’edificio sotto una “nuova luce”.

Cyrille André

Piéce Unique propone, fino al 24 settembre, Hors-Sol di Cyrille André. La mostra si presenta con la scultura Témoin, in cui un giovane accovacciato in compagnia di un cagnolino accoglie lo spettatore con compassione e dolcezza. Per Pièce Unique Variations l’artista ha ideato personaggi intitolati Wall runner, congelati nei movimenti a contatto col muro a oltre un metro d’altezza, esenti dalla forza di gravità. La serie prende ispirazione dalla pratica che consiste nel prendere velocità correndo per poi proseguire la corsa arrampicandosi su una parete e saltando da un muro o da un tetto all’altro. Gli atteggiamenti e il vestiario di questi personaggi (felpe con il cappuccio, shorts, jeans e scarpe da ginnastica) fanno riferimento ai codici giovanili del mondo hip hop.

Cyrille André, progetto per Témoin, 2016 cane cm.110x118x53, personaggio cm.263x160x155 resina poliestere e alluminio, copyright Cyrille André courtesy Galerie Piece Unique, Parigi

Iris Van Dongen, Sea, 2016 gouache, pastello, carboncino, cm.117,1x106,4 courtesy Bugada & Cargnel, Parigi, foto M. Argyroglo

Daniel Buren

Piero Gilardi, Totem domestico, 1964 courtesy l’artista, foto François Fernandez

La Fondation Louis Vuitton presenta un grande intervento di Daniel Buren che, col titolo L’Observatoire de la lumière cambia il volto stesso della sede della Fondazione nel Bois de Boulogne entrando in strettissimo dialogo con l’audace architettura di Frank Gehry: le 12 vele di vetro che caratterizzano questo “bastimento” dell’arte sono ora punteggiate da tocchi

Daniel Buren, L’Observatoire de la lumière, 2016, courtesy Fondation Louis Vuitton, Parigi

Iris Van Dongen

Personale dal titolo The Hunter from Noland da Bugada & Cargnel per Iris Van Dongen. L’artista olandese da anni a Berlino, propone una serie di nuovi lavori a pastello, carboncino e gouache nei quali accosta elementi eterogenei, presi da stili e culture molto lontani, dall’Art Nouveau alla figurazione dell’estremo Oriente. Protagoniste giovani donne spettrali, rimando ai fantasmi della cultura asiatica (epurati della carica orrorifica), connotati da una melancolia che riflette sull’umana condizione. GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 9


ARTVERONA.IT

ART PROJECT FAIR

14/17 OTTOBRE 2016

ORGANIZED BY

12a EDIZIONE




>news istituzioni e gallerie< ARZIGNANO (VI)

MILANO

Da Atipografia la mostra Archè di Mirko Baricchi. In esposizione una decina di grandi opere a tecnica mista su carta, quasi tutte realizzate nel 2016, unitamente ad alcune tele del ciclo dedicato alla natura morta e al paesaggio, oltre al video De Rerum (2015). Fino al 17 luglio.

All’ACMA Centro Italiano di Architettura è di scena la mostra Sezioni Trasversali 4 x 2 + 1 - Archetipi visivi del paesaggio contemporaneo, progetto espositivo con protagonisti Domenico Carella, Federico Guerri, Barbara La Ragione e Luca Piovaccari, impegnati in un serrato dialogo con il tema architettonico, per ripensare la struttura attraverso sperimentazioni dei media pittorico, fotografico e scultoreo.

Mirko Baricchi

CARRARA/SINGAPORE

Excavata

Excavata è una ricerca artistica basata sulle proprietà delle pietre estratte dalla terra: il marmo in Italia e il granito a Singapore. I lavori in mostra sono conseguenza di uno scambio di residenze artistiche dell’italiano Gabriele Dini e della singaporiana Weixin Chong. Alla Fondazione Palazzo Binelli verranno presentate sculture e installazioni in materiali differenti (pietre, stampe, stoffa, gomma) che utilizzano, sovvertono e mutano le proprietà della roccia, interrogandosi sul tema del paesaggio e di materiali autoctoni, giocando con prospettive, dimensioni e multistratificazioni di significati. Gabriele Dini, The Elastic Forest, 2016 “lastra” di granito composta da chewing-gum e sale cm.30x40, courtesy l’artista

Sezioni trasversali

Giuliano Dal Molin courtesy Lia Rumma, Napoli/Milano

NAPOLI

Giuliano Dal Molin

Da Lia Rumma Giuliano Dal Molin, alla prima personale partenopea. L’artista, dalla grammatica compositiva di matrice astratta, conduce una ricerca meditativa, di un rigore che trova in materia, colore, forma e volume, gli elementi essenziali.

RIVOLI - TORINO

Giovanni Anselmo

Sezioni trasversali, 2016, courtesy ACMA A destra: Kenneth Noland, Blind Passage, 1977, acrilico su tela, cm.265x150, courtesy Galleria Fumagalli, Bergamo/Milano

Galleria Fumagalli

La storica galleria di Bergamo inaugura a Milano una nuova sede con una collettiva di maestri del XX secolo, A personal view of abstract painting and sculpture, a cura di Hayden Dunbar: Enrico Castellani, Robert Mangold, Robert Morris, Kenneth Nolan.

Al Castello di Rivoli Giovanni Anselmo con Mentre la mano indica, la luce focalizza, nella gravitazione universale si interferisce, la terra si orienta, le stelle si avvicinano di una spanna in più… Curata da Carolyn Christov – Bakargiev e Marcella Beccaria, la mostra è incentrata sulla radicale scelta di operare lasciando vasti spazi a prima vista vuoti, per sottolineare l’importanza dell’essenzialità, sia nell’arte sia nella vita. Mostra accompagnata dalla pubblicazione di un catalogo scientifico edito da Skira, nonché la riedizione del raro libro d’artista Leggere (1971-1972).

Franco Vimercati FERRARA

Fino al 9 settembre, alla Galleria Raffaella Cortese mostra dedicata a tre significativi momenti dell’opera del fotografo Franco Vimercati.

Alberto Di Fabio Reimondo Cosmic Gate, a cura di Veronica

Zanirato e promossa da Evart, è la mostra che Alberto Di Fabio mette in scena alla Porta degli Angeli. Wall painting e video installazioni sono collocate in vari luoghi storici della citta permettendo di accedere a portali Alberto Di spazio temporali in cui risuona Fabio una musica cosmica. Di Fabio Cosmic Gate inscrive nell’impianto urbanistico Ferrara, della città costellazioni viventi 2016 che evocano le segrete strutture courtesy l’artista dell’universo.

Alla Galleria Bianconi, dal 26 maggio al 15 luglio, Cromofonetica, una mostra della nuova ricerca fatta di segni-simboli e suoni di Reimondo.

Arcangelo

Alla Galleria Progettoarte elm mostra personale, curata da Ivan Quaroni, dedicata ad Arcangelo dal titolo A sud del mondo. Marotta & Russo Are You Human, 2011 courtesy Whitelight Art Gallery, Milano

Marotta & Russo

FIRENZE

Domenico D’Oora

Alla Galleria Santo Ficara esposte 15 opere di Domenico D’Oora del 2016, di cui alcune di grandi dimensioni, realizzate in resine acriliche su tela su telai sagomati, e su tavole multistrato con inserti in Plexiglass o Pvc.

Da Whitelight Art Gallery, Marotta & Russo lavorano su comunicazione e manipolazione dei segni che restituiscono secondo la loro privata visione. Un punto di vista che comprende testi e sottotesti della cultura digitale. A cura di Martina Cavallarin.

Odili Donald Odita Domenico D’Oora, 2016 courtesy Galleria Santo Ficara, Firenze

GENOVA

Principio d’indeterminazione

Da ABC-ARTE 6 artisti della generazione del Millennio, accomunati dalla ricerca sui codici della rappresentazione astratta. Con polisemia di segni e gesti, in bilico tra pittura espansa, scultura e installazione ambientale, Giulio Zanet, Isabella Nazzarri, Matteo Negri, Paolo Bini, Patrik Tabarelli e Viviana Valla, svolgono personali indagini ponendosi in discontinuità con questa tradizione artistica. Mostra curata da Ivan Quaroni.

Giovanni Anselmo, 2016, Castello di Rivoli, Torino Vasco Bendini, Disegno dalla serie Gioco come gioco, 1990, courtesy Archivio Bendini, Roma

La Galleria M77 presenta la personale del pittore nato a Enugo, in Nigeria, e operante tra Philadelphia e New York Odili Donald Odita.

REGGIO EMILIA

La scultura è una cosa seria

Alla Galleria Bonioni Arte, fino al 24 luglio, La scultura è una cosa seria, esposizione collettiva a cura di Niccolò Bonechi, ricognizione dalle opere dei maestri (Alik Cavaliere, Arnaldo Pomodoro, Daniel Spoerri) alle giovani generazioni (Luca Freschi, Andreas Senoner), con un occhio ai media particolari, come nastro adesivo (CCH), carta (Nicola Bolla, Amanda Chiarucci) e resine (Emanuele Giannelli, Renata e Cristina Cosi).

ROMA

Vasco Bendini

L’Accademia Nazionale di San Luca propone, a un anno dalla scomparsa, una mostra di Vasco Bendini. L’esposizione, in collaborazione con l’Archivio Bendini di Roma presenta i suoi lavori ultimi, circa 40 opere di grande dimensione, che testimoniano la fedeltà del maestro ai temi del segno e della luce, ma concentrandosi su una resa sempre più attimale, concitata, drammatica.

TRENTO

Arte Forte

La rassegna culturale estiva Sentinelle di pietra. Di forte in forte sul Sentiero della Pace, curata dal Circuito dei forti del Trentino sotto la direzione di Giuseppe Ferrandi, è arricchita quest’anno dall’arte contemporanea del progetto Arte Forte attraverso un percorso espositivo dislocato in 8 forti austroungarici del Trentino. Prendendo il via da un’idea di Giordano Raffaelli e dal coinvolgimento di ben 16 gallerie private di tutto il Triveneto, il progetto porta l’arte contemporanea all’interno dell’incomparabile patrimonio di costruzioni belliche di epoca austroungarica, conservate e restaurate sul territorio Trentino, e riunite nel Circuito dei Forti. GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 13


Rigorosamente

TRACARTE

Fondazione Banca del Monte di Foggia

Libri d’Artista Libri Oggetto e Libri d’Arte dall’Archivio Carlo Palli

dal 7 maggio all’11 giugno 2016

idea e progetto Vito Capone

testo critico Laura Monaldi

Fondazione Banca del Monte di Foggia Via Arpi, 152 - 71121 Foggia www.fondazionebdmfoggia.com - www.tracarte.it Orari di apertura: da lunedì a sabato ore 9.30-13,00 / 17-20, escluso i festivi


Nicola Carrino Progetto Camusac. Reconstructing City. Iron. Steinless steel. Costruttivi. Decostruttivi. Ricostruttivi. 1959. 2016 a cura di Bruno CorĂ

dal 14.05.2016 al 30.09.2016

CAMUSAC Museo d’Arte contemporanea di Cassino Via Casilina Nord, 1 - 03043 Cassino (FR) Tel. +39 366.59.04.400 - info@camusac.com - www.camusac.com


6a EDIZIONE EXPO D’ARTE CONTEMPORANEA SAN BENEDETTO DEL TRONTO Auditorium PalaRiviera 28 Maggio 2016 ore 17.00

IL TEMPO È BREVE Curatrice:

Valentina Falcioni Artisti:

Gennaro Branca Andrea Cerruto Fabrizio Cordara Valentina De Rosa Gian Luca Doretto Bert Feddema Luigi Grassi Pina Inferrera Angelo Maisto Max Mazzoli Giordano Rizzardi Silvia Sanna

IL TUTTO È PIÙ DELLA SOMMA DELLE SUE PARTI

2016 ODISSEA NELLA PITTURA meme o non meme

Curatrice:

Curatori:

Maria Letizia Paiato Artisti:

S

Matteo Basilé Sonia Bruni Roberto Cicchinè Mary Cinque Danilo De Mitri Rocco Dubbini Claudio Gaetani Giovanni Gaggia LIUBA Stefano W. Pasquini Roberto Sala Rita Vitali Rosati Corso di Terapeutica Artistica dell'Accademia di Brera di Milano

EVENTO SPECIALE Auditorium PalaRiviera 28 Maggio 2016 ore 17.30 presentazione del progetto lungometraggio

Josephine Sassu Giovanni Manunta Pastorello Artisti:

Adriano Annino Silvia Argiolas Irene Balia Dario Carratta Nicola Caredda Marco Carli Rossi Andrea Casciu Andrea D’Ascanio Roberto Fanari Silvia Mei Dario Molinaro Narcisa Monni Isabella Nazzarri Vincenzo Pattusi Paolo Pibi Giuliano Sale

SOME ARE BORN TO ENDLESS NIGHT nato dalla collaborazione tra lo scrittore Gianluca Di Dio e l’artista visiva Karin Andersen

MONSAMPOLO DEL TRONTO

CUPRA MARITTIMA

Chiostro di San Francesco 28 Maggio 2016 ore 16.00

Stazione FFSS 28 Maggio 2016 ore 17.00

MIMESI architetture in natura

VISIONI DI GAIA percezioni sensoriali e politiche della natura

PLAYFUL, BYZARRE, RITUAL AND PASSIONATE

Curatrice:

Curatrice:

Coordinamento organizzativo:

Artisti:

Lucia Zappacosta

Simona Caramia Tommaso Palaia Artisti:

Michele Guido Giuseppe Negro Luana Perilli Mariagrazia Pontorno Zeroottouno

Lia Cavo Laura Cionci Andrea Di Cesare Micaela Lattanzio Raffaella Romano Gloria Sulli Lidia Tropea

Curatrice:

Rebecca Delmenico Artisti:

Dorothy Bhawl Francesco De Molfetta Elena Monzo Giovanna Ricotta

EVENTI ESTERNI Ascoli Piceno

Cupra Marittima

Cupra Marittima

In|coscienza

L’essenziale è invisibile agli occhi

Vicinanze

a cura di:

a cura di:

a cura di:

personale di:

personale di:

personale di:

Chiesa di San Vincenzo e Anastasio 19 marzo > 16 aprile 2016

Valentina Falcioni

Galleria Marconi 30 aprile > 28 maggio 2016

Valentina Falcioni

Roberto Cicchinè

Giovanni Alfano

CON IL PATROCINIO Comune di San Benedetto del Tronto

Comune di Cupra Marittima

Comune di Monsampolo del Tronto

Provincia di Ascoli Piceno

Galleria Marconi 11 giugno > 2 luglio 2016

Valentina Falcioni Elena Giustozzi

info@marchecentrodarte.it www.marchecentrodarte.it



Michele Cossyro

Buco Nero "Palermo" - 2014 Courtesy Adalberto Catanzaro

Galleria Adalberto Catanzaro artecontemporanea Via Roccaforte, 38 - Bagheria (Pa), 90011 Sicilia galleriadalbertocatanzaro@gmail.com www.galleriadalbertocatanzaro.it

Galleria Contact artecontemporanea Via Urbana, 110 - Roma, 00118 Lazio contact@kappabit.it www.galleriacontact.it



GIORGIO CATTANI Di Là da Dove per Andar Dove

FabulaFineArt Gallery Via Del Podestà 11 • Ferrara 348 355 6821 • 347 692 9917 www.fabulafineart.com


Pittura R, 1998. Tecnica mista, disseminazione di 66 elementi. Courtesy Forum Kunst, Rottweil

P i n o P i n el l i

PALAZZO DELLA CULTURA CATANIA | dal 21 maggio al 26 giugno

P in o P i ne l l i | Ma u r o S ta cc i ol i

VILLA PISANI BONETTI BAGNOLO DI SOLIG0 (Vicenza) | dal 24 giugno al 6 novembre

P it t ur a Ana l i t i ca . 1 9 7 0 s

MAZZOLENI GALLERY LONDRA | dal 18 maggio al 23 giugno

Gl i a n n i d el l a P i t tu r a A n al i ti c a PALAZZO DELLA GRANGUARDIA VERONA | dal 28 maggio al 25 giugno

Via Adeodato Ressi 7/A | T. 02 9924.3272 | Orari: 10 -13.30 pomeriggio su appuntamento www.pinopinelli.it | info@pinopinelli.it


L’ingresso della mostra ai Giardini con le pareti rivestite dai detriti di cartongesso recuperato dalla Biennale Arte 2015

APPUNTI PER UN SAGGIO “A VENIRE” (Maurice Blanchot “Le livre à venir”) di Francesco Moschini - foto Roberto Sala

D

opo molte Biennali di Architettura, in cui era forte l’impronta autoriale, vale a dire di tutto lo star system degli architetti coinvolti, abbiamo una mostra affiidata ad un giovane come Alejandro Aravena, architetto cileno, che ha trasformato la dimensione autoriale in una dimensione curatoriale. Questo lo si capisce bene anche dal manifesto dove compare, in una foto storica di Bruce Chatwin, l’archeologa tedesca Maria Reiche che, in una sorta di condizione moderna, cerca di leggere i grandi disegni Nazca in Sudamerica, invece che con i droni o dall’alto, con una semplice scala che lei stessa portava in giro nel deserto. Questo la dice lunga su questo carattere non antimoderno, ma contro gli eccessi della modernità che vuole avere questa Biennale. Una Biennale che non si presenta quindi in una maniera lineare ma forse pulviscolare, una sorta di brulichio delle differenti posizioni e questo è importante perché viene fuori un altro elemento dello stesso Aravena: quello della predilezione della processualità del concepimento della mostra. Non a caso l’incipit, alle Corderie è una straordinaria rievocazione dell’oggetto d’uso consumato, vale a dire ottenuto dal riutilizzo dei detriti dell’allestimento della precedente Biennale d’Arte ricomposti in una sorta di sacello sacrale, facendo scendere dall’alto tutte le strutture metalliche contrapposte all’adagiamento degli elementi di cartongesso, ridotti in una sorta di mosaico parietale, dove

Aires Mateus, Fenda

22 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Onore perduto


attività espositive SPECIALE BIENNALE DI VENEZIA

Souto de Moura Arquitectos, Mercato municipale di Braga e la sua riconversione in scuola di musica e danza

compare però anche la dimensione tecnologica dei piccoli monitor posti sui ripiani sbalzanti. Questa processualità appare importantissima attraverso una serie di post-it mostrati con disinvoltura, come se fossero lavori in corso, lungo il percorso delle corderie stesse, evidenziata anche nel catalogo che restituisce la precarietà della scrittura immediata. E questo lo si deve al carattere, come ha voluto ricordare lo stesso Aravena, della sua formazione. Ricordiamoci che Aravena è un architetto molto impegnato nel campo sociale con i progetti del suo Studio che vanno dalle infrastrutture agli spazi pubblici alle case a basso costo. Il suo volume, Elemental, da appunto questa dimensione da “architetto condotto” e quindi questa idea forte dell’architettura come “bene pubblico e condiviso”. Mi piace ricordare, a questo punto, che posizioni come quella di Aravena erano già state perlustrate negli anni ’70, con sorprendente tempismo, da un raffinato intellettuale, nonché grande architetto, come Guido Canella, nella sua intensa attività editoriale, in particolare “Hinterland”, che proprio in Sudamerica aveva scoperto questa antesignana via della partecipazione e della condivisione. Peccato però, come capita spesso con i giovani autori, che c’è poca attenzione a quelli che sono i fondamenti, cioè a cercare di rintracciare quelle che sono le radici storiche. Non tanto come ci ha ricordato l’uso di quella dimensione necessaria già individuata da Tatlin, ma anche l’idea di sobrietà dello stesso Pagano, negli anni 30, ma soprattutto un architetto italiano straordinario come Francesco Marescotti (con il suo Manuale, che ha avuto poca fortuna, prima di quello di Ridolfi. Diotallevi e Marescotti) rappresentano la base, con la loro idea progettuale della Città orizzontale e poi della Città del sole, di questa dimensione etica dell’architettura come “bene pubblico” e di “architetto condotto”. Fino ad arrivare alla dimensione “partecipata” di Giancarlo De Carlo del Villaggio Matteotti, a Terni, degli anni ‘70. Peccato per queste dimenticanze, ma quello che viene fuori è molto chiaro: è la tripartizione delle risposte di tutti gli architetti, di tutto il mondo, alle pratiche, come l’emergenza del gruppo Mumbai, le più numerose, in paesi che vanno dal Bangladesh ai paesi del Sudamerica o dell’Africa. La seconda è l’attenzione al “procedimento corretto” degli architetti al modo “politicamente scorretto”, ma progettualmente corretto, di intervenire senza velleità formalistiche. Si pensi allo straordinario intervento sui serbatoi d’acqua della città di Medellin, dove più che l’architetto è il sindaco della città che mette gli operatori in

condizioni di restituire alla città, come luoghi di salute pubblica, questi luoghi solitamente segregati. Dall’esperienza di Renzo Piano, col Laboratorio aurorale di Otranto, fino alle più recenti elaborazioni progettuali con i giovani di Palazzo Giustiniani, a Roma, per ricucire le periferie. Senza trascurare le esperienze delle Scuole venete di Cappai e Segantini o le piccole grandi occasioni di Giuseppina Cannizzo in Sicilia o, a livello europeo, i puntiformi interventi di Barozzi-Vega. Il terzo momento è quello del riscatto degli architetti di grande fama come Chipperfield come Zumthor come Souto De Moura come le trasparenze di Kazui Sejima e Ryue Nishizawa e tanti altri che sono ricondotti ad una dimensione di estrema tensione, cioè a quella che è diventata una sorta di pratica antimurale alle distorsioni della modernità esasperata, come gli straordinari spazi di struggente spiritualità di Aires Mateus e le mitologie partecipative di Luigi Snozzi per Montecrasso. Penso allora a Souto De Moura che nel progetto di riconversione del vecchio (sempre suo) progetto del Mercato di Braga, realizzato negli anni ‘70, lo conduce ad una necessità più attuale della città, trasformandolo in una scuola di musica e danza per i giovani, ma dove c’è la memoria del suo progetto precedente e quindi anche una dimensione etica del fare. Così come Chipperfield col suo museo in Sudan o Zumthor, dove viene riscoperto il valore non della cifra dell’architetto ma del tempo di costruzione del progetto che lo rende sempre diversificato in tutte le condizioni in cui lui si trovi a lavorare. Ecco allora che il progetto pensato per Los Angeles è un progetto che lui elabora nel micro studio di questo paesino sperduto della Svizzera, ma che restituisce il senso della temporalità del progetto dello stesso Zumthor. Se c’è un rimprovero da fare è quello dell’eccesso di artigianalità reiterato in questa Biennale, vale a dire i mattoncini fatti con le mani artigianalmente. Penso alla sorprendente idea di Lord Norman Foster che pensa a dei “ricoveri per i droni” in un sistema capillare di distribuzione in Africa, dove la tensione strutturale è assorbita dai mattoni, un paradosso tra lo sfoggio muscolare dell’high-tech, a lui caro, e questa dimensione troppo pauperista e sotto le righe. n

David Chipperfield Architects, Naga site museum Elton Léniz, Andes’ Shadow

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L’allestimento della sala introduttiva all’arsenale realizzato con i detriti di cartongesso e montanti d’acciaio recuperati dalla Biennale Arte 2015

LA REGRESSIONE RAGIONEVOLE dell’architettura internazionale di Andrea Mammarella - foto Roberto Sala

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a XV Biennale di architettura è una mostra regressiva. O per meglio dire, l’architettura esposta quest’anno a Venezia appare come un’architettura di tipo regressivo. Pur attribuendo un significato neutro, non necessariamente negativo a questo aggettivo, il tema della regressione è quest’anno evidente e può essere rilevato in una duplice forma. La prima è di carattere disciplinare e coinvolge gli strumenti e le tecniche dell’architetto che, nella strategia dichiarata di mettere al centro dei propri interessi le parti più svantaggiate del mondo, tendono a recuperare saperi e consapevolezze antiche. Stare vicino agli ultimi e aiutarli ad aiutare noi stessi implica la necessità di tornare ad una architettura che rinuncia alla sua dimensione tecnologica e innovativa e che sposta l’orizzonte della propria ricerca in direzione del buono che c’era (forse) nel passato, piuttosto che di quello che ci sarà (forse) nel futuro. Le questioni ecologiche, così come le tematiche geo-politiche e sociali irrompono in maniera totalizzante nella scena dell’architettura mondiale, costringendola a farsi carico di risposte e proposte (dall’esito estremamente incerto, nonostante il generale ed euforico ottimismo dei progettisti), così come aveva iniziato a fare a cavallo tra l’ottocento e il novecento (con la rivoluzione industriale) o nel secondo dopoguerra (con i sommovimenti politici del sessantotto). Difficile dare torto o sottostimare l’appello di Alejandro Aravena, il suo richiamo alla ragionevolezza e al buon senso comune in un tempo in cui le tensioni collegate alle problematiche ambientali, sociali e politiche del pianeta investono quotidianamente tutti i territori (nessuno escluso). L’altra forma di regressione concerne poi la dimensione storica dell’architettura del ventunesimo secolo. L’idea – molto sudamericana – che la contemporaneità non esista e che ci si trovi sostanzialmente ancora immersi in una stagione modernista

è chiaramente dichiarata dal curatore nel suo Chi, Che, Perché di apertura. “Notizie dal Fronte” è infatti la descrizione di uno scenario in cui si contrappongono – giocoforza – obbiettivi ed energie antagoniste. Da una parte “l’avidità e la frenesia del capitale, o l’ottusità e il conservatorismo del sistema burocratico” e dall’altra – evidentemente – l’architetto demiurgo depositario di certezze e giustezza che – in verità – non si comprende dove originino (soprattutto pensando alla dimensione della formazione universitaria del nostro Paese). Fideisticamente, questa giustezza e appropriatezza degli architetti appare comunque garantita all’interno di alcuni paradigmi più o meno standardizzati: un certo rifiuto della tecnologia e dei materiali nuovi (come testimonia il premio al Gabinete de Arquitectura o come insegna la battaglia di Kengo Kuma), una generale fiducia nel prossimo (tanto più privo di mezzi, quanto più desideroso di un mondo migliore per tutti), la convinzione che la salvezza del pianeta possa essere concretamente affidata ai disegni e alle mani degli architetti. Sulla base di questi paradigmi, l’architettura esposta quest’anno in Biennale può permettersi di ignorare almeno tre questioni fondamentali: il tema della committenza che qui appare marginale e assorbito in una generica dimensione pubblica fatta di ONG, fondazioni, associazioni umanitarie, governi più o meno progressisti… Così come, altro tema disilluso è quello della eterogenesi dei fini, immaginando al contrario che ad ogni buona azione (architettonica) corrisponda – sempre – una stessa buona reazione (socio-antropologica). Infine, appare paradossale, eppure resta irrisolto il tema del pur avversato occidentalismo che nonostante tutto rimane saldamente alla base di una visione in cui non sembra esserci scostati poi tanto dall’idea del noble savage settecentesco che però – nel frattempo e al contrario – ha imparato a nutrirsi di telefonini e desideri consumistici (come i ragazzini mo-

Il vascello costruito nell’arsenale del porto di Istambul e ricostruito nel padiglione turco all’arsenale di Venezia.

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attività espositive SPECIALE BIENNALE DI VENEZIA

Le immagini delle opere incompiute esposte nel padiglione Spagna. L’installazione Unfinished è stata premiata con il Leone d’oro quale miglior partecipazione nazionale.

strati nella tenda nomade ricostruita dal Rural Urban Framework all’Arsenale – che pure: “puzza di capra, però…” cit.). Insomma, mattoni e polvere, existenzminimum e devolution. La regressione come cifra culturale e strategia programmatica. A questo rappel à l’ordre, non si sono sottratti i padiglioni nazionali che pressoché in blocco hanno fornito la propria versione del fronte di lotta araveniano, dimostrando così quanto il tema sia stato pure centrato e giunto al momento giusto. Intendiamoci infatti: la regressione dell’architettura della XV Biennale, più che una bizzarria antistorica del suo curatore, esprime in pieno (e con astuzia) le aspirazioni, le ansie e le paure del nostro tempo, pur con una certa migliore focalizzazione sulle ultime piuttosto che sulle prime. Così, dall’Olanda al Giappone, dall’Austria al Brasile, tutte le nazioni invitate hanno portato a Venezia il carico delle proprie difficoltà sociali, economiche e culturali. Con la sola paradossale eccezione della Russia che sembra essere uscita da un cine-giornale di oltre-cortina degli anni cinquanta (a proposito – e forse non a caso – di regressione..!). Ma procediamo con ordine. In linea di massima, possono essere rintracciati tre filoni narrativi utilizzati dai padiglioni nazionali per contribuire alla descrizione del tema proposto. Il primo, quello più utilizzato, pesca a piene mani nella retorica del recupero delle tradizioni e nella rivalutazione di una generale sostenibilità del passato. A partire da quella che potrebbe essere definita come una sorta di sindrome da Expo che ha colpito molte nazioni (Perù, Grecia, Argentina…) molti padiglioni hanno allestito a Venezia un diorama delle proprie origini pre-capitalistiche, pre-moderne e – proprio per questo – garanti di un equilibrio uomo-natura da recuperare quasi integralmente. In Giappone, così come negli Emirati Arabi Uniti e in Belgio, ma anche per certi aspetti, in Francia e in Portogallo, la descrizione dei territori del passato diviene occasione di recupero e rilancio di nuovi valori e sensibilità – quando non di semplici forme e manufatti. Perfino la Cina politically correct, in totale fase revisionista della propria architettura contemporanea, si proclama a favore del mantenimento delle sue strutture tradizionali: architettoniche e sociali, esaltando il valore dei villaggi da preservare rispetto all’improvvida urbanizzazione delle sue megalopoli (?!?). Una delle nuove aperture realizzate nel padiglione tedesco, The Open Pavillion

Corea, The FAR game

Stati Uniti, The Architectural Imagination

Giappone, EN: Art of Nexus

Svizzera, Incidental Space

La porta d’ingresso traslata del padiglione della Gran Bretagna Home Economics

Una delle immagini esposte nei pannelli rotanti del padiglione Francia New Riches

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Un’altra tecnica narrativa utilizzata da alcuni padiglioni nazionali è poi quella della concettualizzazione radicale. Il fronte su cui combattere la battaglia dell’architettura viene spostato in una dimensione teorica di grande coraggio e ambizione, ma – spesso e volentieri – dagli esiti incerti e troppo difficilmente traducibili in una qualche pratica disciplinare. È questo il caso del padiglione svizzero, di quello serbo, così come di quello dei Paesi Scandinavi e (con suggestioni narrative clamorosamente distanti) della Romania o anche di Israele da cui però, a differenza degli altri, occhieggia una forma di ottimismo tecnologico-progressista che potrebbe essere definito contro-tendenziale. Infine, è possibile rintracciare un terzo atteggiamento comune utilizzato nelle proposte di molti Paesi (quasi tutti europei, in verità) che hanno scelto di dare conto dei propri drammi nazionali, quasi sempre incarnati da problemi di immigrazione, integrazione, crisi economica recente. Su questo terreno sono state dispiegate le ricerche e le esperienze selezionate dai rispettivi curatori per dimostrare al mondo (e forse innanzitutto a sé stessi) la bontà e la necessità di politiche e strategie di costruzione e pianificazione della città in verità un po’ troppo semplicisticamente ottimiste e francamente in contrasto rispetto agli umori e alle paure che agitano il vecchio continente. Caso emblematico, quello della Germania che ha letteralmente sfondato le pareti del proprio padiglione per simboleggiare una apertura totale e quasi incondizionata della società tedesca rispetto ai flussi migratori e all’affollamento intorno al suo desco capitalista il cui fascino, con buona pace degli architetti più impegnati, non sembra subire flessioni. In materia di cuori gettati oltre gli ostacoli, gli architetti, comunque (e probabilmente giustamente), continuano ad essere in pima linea (sempre a proposito di fronte…). La crisi economica che ha investito gli Stati Uniti è alla base del programma di ripensamento della città di Detroit, drammatica-

L’opera di NLÉ (Kunlé Adeyemi) Leone d’argento per un promettente giovane partecipante alla 15. Mostra REPORTING FROM THE FRONT

TAKING CARE Il racconto del Bene Comune Intervista a Simone Sfriso (studio TAMassociati) a cura di Gloria Bazzoni e Matteo Mazzamurro

“L’architettura è la più politica delle arti.” Alejandro Aravena con questa affermazione intende aprire la 15a Biennale di Architettura a tematiche sociali, politiche, economiche ed ambientali evidenziando i molteplici fronti ai quali l’architettura stessa è chiamata a rispondere. Qual è il significato del fronte per il Padiglione Italia? Il fronte per il padiglione Italia è la periferia, interpretata non soltanto come luogo fisico lontano dal centro urbano e che ben conosciamo ma, come quei luoghi in cui esiste marginalità ed esclusione e nei quali ci si trova in situazioni di degrado. Queste sono per noi le periferie e il fronte sulla quale si focalizza la proposta dello studio TAMassociati per il padiglione Italia, proposta che nasce in biennale per poi realizzarsi al di fuori di essa. “L’architettura, quando si prende cura degli individui, dei luoghi e delle risorse, fa la differenza. È parte di un processo collettivo in cui occorre pensare alle necessità, incontrare le persone e agire negli spazi.” In che modo questa idea di architettura può essere messa in pratica? Siamo partiti dalla riflessione dei beni comuni, intesi non più come beni primari quali aria, acqua e terra. Il dibattito intorno a questa tematica si è ampliato e si è articolato molto negli ultimi anni, non limitandosi alla sua definizione giuridica ma, ampliandosi andando a comprendere che il tema dei beni comuni si riflette in maniera molto ampia sulle vite delle persone e delle comunità. È stato costituito un comitato di indirizzo formato da tredici persone provenienti da formazioni di ambiti di attività diverse ed abbiamo ragionato su cosa significa oggi parlare di beni comuni, individuando dieci possibili declinazioni di questo concetto. Il linguaggio ‘pop’ sembra essere lo strumento principe di comunicazione del Padiglione Italia; capace di trasmettere una particolare e potente empatia verso le storie raccontate. È proprio attraverso questo linguaggio che spicca frequentemente la figura di un anti-eroe silenzioso, sempre presente e protagonista delle graphic novel esposte in mostra. Di chi si tratta? Che ruolo ha all’interno del tema Taking Care e qual è la sua importanza? Tam, fin dalle sue origini, si muove tra architettura e comunicazione per il sociale dove il tentativo è quello di raccontare l’architettura con dei mezzi che siano comprensibili da un ampio spettro di persone; abbiamo cercato di rifuggire l’ambito strettamente disciplinare della comunicazione cercando di estendere il possibile pubblico a cui rivolgersi. Negli ultimi anni abbiamo sperimentato il tema della graphic novel applicata all’architet26 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

L’allestimento del padiglione Italia. Foto Gloria Bazzoni


attività espositive SPECIALE BIENNALE DI VENEZIA

Solano Benítez, Gloria Cabral, Solanito Benítez, (Gabinete de Arquitectura), Breaking the siege, premiato con il Leone d’oro per il miglior partecipante alla 15. Mostra REPORTING FROM THE FRONT

tura, modalità di comunicazione popolare che si può rivolgere sia agli addetti ai lavori sia ai non addetti. All’interno del padiglione raccontiamo le varie sezioni attraverso un soggetto che accompagna il visitatore; questo personaggio è un anti-eroe, una maschera muta nella quale si può riconoscere ognuno di noi, questo personaggio ‘pop’ accompagna le persone e rende il più possibile trasparenti e dirette le idee che abbiamo messo in atto nel padiglione. Nella sezione del Pensare emerge la stretta relazione che tiene unite le parole ‘bene comune’ e ‘spazio costruito’. Ne è la sua chiara manifestazione la sezione dell’Incontrare, all’interno della quale è possibile percorrere la narrazione di venti progetti di architettura. Vengono individuati dieci campi di azione, cos’è che le li tiene insieme? Quale il fil rouge che ha portato alla selezione di questi venti progetti? Abbiamo individuato due ‘buone pratiche’ per ogni campo di azione. Sono progetti realizzati da giovani studi italiani, alcuni realizzati all’estero, con committenze diverse, altri diventati luoghi d’interesse per la comunità tramite l’azione stessa dei progettisti. Tutti i progetti sono accomunati dal fatto che mirano ad incidere in maniera positiva sulle comunità a cui questi sono rivolti; ci sono molte esperienze di progettazione partecipata, di lavoro diretto sul territorio, cercando di mettere in rete le comunità, gli enti locali e pubblici e i progettisti in un processo articolato che ha prodotto architettura ed anche storie che per noi sono interessanti da raccontare. Padiglione Italia non solo come mostra e manifestazione artistica, ma anche e soprattutto come ‘azione’. La sezione Agire presenta cinque progetti inediti, realizzati per conto di cinque corrispettive associazioni impegnate nel sociale e nella lotta contro la marginalità all’interno del territorio Italiano. Una Biennale spesso definita come ‘fuori Biennale’, com’è nata questa idea? E in che modo diventerà possibile trasformare una mostra in vera e propria azione? Questa è la sfida della nostra proposta per il Padiglione Italia, far nascere delle idee all’interno di esso, trasformarle in progetti di piccole architetture mobili che andranno a collocarsi direttamente in quelle periferie su cui siamo stati chiamati a riflettere. Da qui nasce l’idea di mettere in rete il mondo dell’associazionismo con quello dell’architettura, progetto sviluppato attraverso molti incontri tra progettisti e associazioni con l’opportunità di lavorare a stretto contatto con le committenze individuate. I cinque progetti partono da un modulo comune, un container carrellato per poi assumere aspetti e funzioni molto diverse tra loro sulla base delle esigenze delle committenze. Per Libera, Antonio Scarponi ha progettato un presidio da collocare in un bene confiscato alla mafia; per conto di Emergency, Matilde Cassani un ambulatorio mobile; per Legambiente, Arcò ha ideato un’unità di monitoraggio ambientale; per UISP, Nowa, Marco Navarra ha progettato un dispositivo a supporto delle attività

mente abbandonata e dismessa dagli eventi degli ultimi lustri e destinataria dell’immarcescibile ottimismo pragmatista americano che prevede di realizzare lì, in un prossimo indefinito futuro, nuove costruzioni e nuove strategie di utilizzo/sfruttamento della risorsa urbana. Tutto sommato, uno dei pochi approcci positivi alla battaglia dell’architettura contro i problemi del mondo di cui si sono occupati gli atri padiglioni, anche se con la stessa quota di naïveté. Di garantito fascino il padiglione spagnolo che, a buona ragione, si è aggiudicato anche il premio quale migliore allestimento nazionale. L’inattesa necessità di gestire un amplissimo patrimonio immobiliare non finito, incompiuto, bankrupted nonostante la bontà delle architetture progettate, ha stimolato una azione di micro e media rivitalizzazione di spazi e manufatti, ben testimoniata dalla consueta abbondanza e qualità di progetti realizzati – pur se in una inedita condizione di incompiutezza, di polvere e cemento crepato al proprio intorno. Mettiamola così: aldilà delle velleità leviatane della disciplina pura e semplice, l’architettura della Biennale 2016 sembra dire al mondo che la dimensione globale della contemporaneità ha rivelato (anche ai modernisti sudamericani) che le difficoltà da affrontare in questo nuovo millennio sono tante e complesse, ben oltre le disilluse certezze dei razionalisti novecenteschi. Difficilmente risolvibili però con formule antagoniste ingenue e parimenti deterministe. Chissà, magari allora, regressione per regressione, potrebbe tornare utile il paradosso della città di Venezia: una risposta irragionevole e visionaria, data 1.600 anni fa in un contesto completamente ostile e inadatto per realizzare uno dei luoghi umani di maggiore qualità (e successo) del pianeta. Insomma, il problema appare chiaramente ed in tutta la sua drammaticità planetaria. Le risposte sistemiche, tutte ancora da immaginare. n sportive e introduzione allo sport nelle periferie ed infine per Aib, Alterstudio Partner ha progettato un Bibliobus attraverso cui l’associazione porterà corsi e momenti d’introduzione alla lettura negli ambiti più disagiati del nostro territorio. Un’idea che nasce in Biennale per poi uscire furi da essa e realizzarsi quotidianamente in un tempo lungo. Ci troviamo in un mondo di associazionismo, all’interno del quale le associazioni italiane svolgo un ruolo importante e diventano una risorsa di sviluppo e lotta contro la marginalità. Qual è il ruolo che queste associazioni hanno all’interno del processo di trasformazione della scena architettonica? È una domanda difficile, diciamo che le associazioni si muovono in quel territorio posto a metà tra il pubblico ed il privato e quindi indubbiamente rappresentano una grande risorsa sia per le comunità a cui si rapportano e indirizzano la propria azione, sia per progettisti e architetti che intendono prestare la propria opera in quegli ambiti. In Mostra abbiamo la possibilità di osservare un prototipo, il Modulo ZERO affidato alle cinque associazioni italiane e ai corrispettivi cinque progettisti; altrettanti gli artefatti pronti ad essere attivati sul territorio italiano attraverso una raccolta fondi. Quali sono le aspettative per questi dispositivi? Siamo molto curiosi anche noi di scoprire come e quando verranno utilizzati. Diciamo che l’aspirazione sarebbe di raccogliere nel 2018 tutte le esperienze e di organizzare un evento che racconti cosa hanno fatto in questi due anni questi dispositivi mobili, dove sono stati, quante persone hanno intercettato attraverso il loro lavoro e quindi, a quel punto, saremo anche noi spettatori curiosi. Qual è un messaggio che lo studio Tam vorrebbe trasmettere, attraverso i contenuti del Padiglione Italia, alle nuove generazioni di studenti e di giovani professionisti che si approcciano e affrontano le tematiche sociali? Questo incarico per il Padiglione Italia ci ha dato l’opportunità per i sei mesi in cui abbiamo lavorato al progetto, di smettere un po’ i panni degli architetti e indossare quelli dei curatori; in questo lavoro abbiamo trovato molti progetti, molti lavori di giovani architetti, giovani studi di architettura; alcuni li abbiamo riportati in mostra e riconosciuto in queste giovani generazioni la capacità di intercettare in maniera molto precisa le esigenze in mutamento della società, di reinventare il proprio ruolo all’interno della professione; una capacità di adattarsi ad una società in cambiamento, di inventare i propri lavori sfruttando occasioni piccole, attraverso progetti che si muovono tra la teoria, la pratica e l’autocostruzione. Tutto questo mi fa dire che pur in un momento di crisi e difficoltà proprio su queste basi si può fondare, grazie alle capacità creative di questi giovani architetti, un nuovo modo di intendere l’architettura. GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 27


Pirelli Hangar Bicocca, Milano

Carsten HÖLLER Doubt di Simona Olivieri

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hilippe Parreno e Carsten Höller si sono passati il testimone nei grandi spazi delle Navate dell’Hangar Bicocca. Hypothesis e Doubt. Ipotesi e dubbio. Punti di partenza di questo dialogo, di questa relazione tra le due mostre, che rimandano alle ricerche che entrambi gli artisti fin dagli anni Novanta hanno approfondito, sono la partecipazione del pubblico in modo attivo nella fruizione delle opere, l’autorialità delle opere in mostra oltre a quelli di percezione del tempo e dello spazio. Legame rafforzato anche dalla presenza, all’interno di Doubt, di un’opera di Philippe Parreno, Marquee (2015). Mostre che, pur nella loro diversità, sono state e sono capaci di mettere in discussione l’idea stessa di mostra e di spazio espositivo e che sono state capaci di trasformare radicalmente gli spazi dell’Hangar Bicocca e l’esperienza del pubblico che ne fruisce e ne ha fruito. Fedele alle sue pratiche e alle sue sperimentazioni, Carsten Höller, non si smentisce neanche in questa mostra. L’artista ri-immagina lo spazio e l’esperienza dell’arte che in esso si può fare e lo realizza rendendo l’Hangar un grande luna park, dove giostre girano a velocità ridotta. Dove le case degli orrori sono lunghi tunnel bui e le porte a specchi ti conducono in altre dimensioni, dove con un paio di occhiali ti fanno vedere il mondo a testa in giù. E dove non c’è una narrazione e, il dubbio, instillato sottilmente dall’artista, di essere diventati topi da laboratorio e che una telecamera stia riprendendo il tutto diventa un’ipotesi - quasi - reale. Nuovi modi di abitare lo spazio e di esperire la realtà e l’emotività. Doubt. Dubbio. Spaesamento. Incertezza. Provocazione. Sono questi gli elementi che costituiscono il filo rosso che accompagna tutta l’esposizione. Oltre venti opere scelte per l’Hangar Bicocca che ne rivoluzionano le coordinate spaziali e temporali tra visioni inattese, esperimenti ottici ed effetti speciali e che risultano essere la mostra antologica - curata da Vicente Todolì - più completa dell’artista realizzata in Italia. Un viaggio dunque tra simmetrie, duplicazioni e ribaltamenti. Per cominciare, l’ingresso della mostra è laterale rispetto al solito ma, è stata una specifica richiesta dell’artista che per Doubt ci fosse un ingresso indipendente. Varcando la soglia non si vede che un muro scuro blu/nero, una schermatura alla visione complessiva dello spazio che porta il visitatore ad avere, fin da subito, un momento di disorientamento. Oltrepassato il muro l’opera che introduce a tutto il percorso è l’installazione luminosa Y (2003), cerchi luminosi che si dividono in due possibili percorsi, ponendo l’accento e quindi il dubbio sulla direzione da scegliere e, dopo aver attraversato la parete di neon Division Walls (2016), si entra in uno dei due lunghi (apparentemente interminabili) corridoi speculari e bui, zigzaganti e scoscesi di Decision Corridors (2015), da percorrere lasciandosi guidare dalle voci che filtrano dall’esterno (oppure da oltrepassare tramite ingressi laterali). A questo punto il grande spazio dell’Hangar è diviso in due da un muro-opera, due percorsi speculari e paralleli di cui però non si ha mai una percezione e visione completa. Una parete colorata con disegni geometrici perfettamente paralleli, eppure all’apparenza curvi - Zöllner Stripes (2001 - in corso) - crea una texture che mira a confondere la percezione. Le opere sono collocate rispetto a quest’asse centrale che permette di vederle solo a metà. Il

visitatore dovrà così ricordarle fino al momento in cui incontrerà l’altra metà, percorrendo la mostra sul lato opposto. Il doppio, negato a prima vista dalla presenza del muro, serve a far riflettere e a disorientare il pubblico. I due percorsi, continuamente svelati e negati, si ricongiungono nella parte finale, nel grande cubo in penombra, dove due letti radiocomandati sono in un continuo e lento movimento. Il percorso è un continuo svelare, duplicare, negare e ribaltare ciò che c’è o si immagina ci sia, come le giostre del premio Enel Contemporanea Double Carousel (2011), una coppia di grandi giostre con seggiolini sospesi sui quali girare a lentezza esasperante con rotazioni inverse. I finti ascensori di Double Neon Elevator (2016), gabbie di neon trasalenti; le porte ruotanti a specchio di Revolving Doors (2004 - 2016); le due piccole teche di Mäuseplatz (Mice Square) (2010) con topini neri e bianchi, cavie di un parco giochi utopico; la doppia proiezione del film Fara Fara (2014), i concerti/gara tra due band rivali che si svolgono in Congo - supportate dai loro sostenitori negli stadi - suonano fino allo sfinimento. Le doppie installazioni dei video Twins (2005 - in corso), la ricerca continua di gemelli monozigoti in ogni parte del mondo, li propone allineati in video su opposti lati di un lungo corridoio, “Dico sempre quello che dici tu”, sostiene uno. E il gemello accanto ribatte: “Dico sempre l’opposto di quello che dici tu” ma non parlano fra loro, fissano il pubblico. Le pareti luminose Phil Wall II (2002) e le macchine volanti Two Flying Machines (2015), dove si può provare l’ebrezza del volo in tutta sicurezza. L’albero d’acciaio con braccia snodate come rami ai quali sono sospese forme giganti di funghi velenosi, amanita muscaria, quelle con cappuccio rosso a pois che inducono ad allucinazioni: facendoli ruotare creano sorprendenti combinazioni visive (Flying Mushrooms, 2015). Gli occhiali che restituiscono visioni parziali e capovolte di quel che accade attorno a noi (Upside-Down Glasses, 1994 - 2011). O i telefoni fissati su muri opposti, si è invitati ad usarli e, mentre uno da una parte si parla d’amore dall’altro capo possono arrivare risposte di guerra (What is Love, Art?, 1994 - 2015). Si potrebbe avere la sensazione di perdere qualcosa perché c’è sempre un’altra possibilità ma, attraversando un altro passaggio stavolta accecante per le luci a intermittenza bianche, si arriva allo spazio disadorno del Cubo e a questo punto si può percorrere la mostra sul lato opposto a quello dal quale siamo venuti e scoprire quello che prima era celato. Il richiamo al gioco come esperienza di liberazione dalle convenzioni e dalle costrizioni del sistema, sollecita la capacità di scegliere da parte di ogni individuo del pubblico, sottolinea Todolì. Alcuni critici statunitensi hanno parlato di “estetica interattiva” a proposito di una generazione che comprende autori come Parreno, Höller e Cattelan o come l’ha definito il critico francese Nicolas Bourriaud, arte relazionale, dove lo spettatore diventa interlocutore attivo di questa avventura permanente come specchio della vita. n

Carsten Höller, Doubt, vedute dell’installazione in Pirelli Hangar Bicocca, Milano. Courtesy dell’artista e Pirelli Hangar Bicocca, Milano. Foto: © Attilio Maranzano

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Studio Azzurro, Miracolo a Milano, 2016

Palazzo Reale, Milano

Studio Azzurro di Pietro Marino

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a volta ovale della grande sala delle Cariatidi a Palazzo Reale, si anima della meraviglia neobarocca di una folla di personaggi volanti con borse della spesa, zaini, cerchi. È l’ultima, inedita proiezione realizzata da Studio Azzurro, l’avanguardistico gruppo di videoarte interattiva, ed è la prima dopo l’improvvisa scomparsa nel 2013 del suo leader e teorico, Paolo Rosa. S’intitola Miracolo a Milano, esplicito omaggio al celebre film 1951 di De Sica - Zavattini, col volo di barboni che si staccavano dalle miserie del dopoguerra. Omaggio anche alla rinascenza della metropoli lombarda. E homeless, migranti, attori di una vita di espedienti appaiono da vetrine animate dal passaggio del pubblico nel salone e raccontano storie di speranzosa sopravvivenza. Questo “ambiente sensibile” conclude la “retroprospettiva” realizzata dai compagni di avventura di Paolo Rosa, Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi, Fabio Roversi. Vengono riproposte le opere principali e sono ricostruiti alcuni degli ambienti interattivi che hanno scandito il percorso del gruppo (costituito a Milano come studio di fotografia e cinema nel 1982) sin dalla prima storica esibizione del 1984 in Palazzo Fortuny a Venezia: la sequenza di schermi video nei quali un Nuotatore stendeva le bracciate trapassando da un monitor all’altro, quasi una sequenza animata di foto di Muybridge. Studio Azzurro s’impose così come uno dei pionieri della nascente tecnoarte elettronica internazionale, con apparizioni, sparizioni, moltiplicazioni di immagini e giochi di luce ad animare gli spazi. Nel 1987 partecipò a Documenta Kassel con una “Camera astratta”. Dal 1992 cominciano gli “ambienti sensibili” con ani-

mazioni interattive per terra, a parete, su tavoli: dormienti che si risvegliano allo scalpiccìo dei visitatori, tavole imbandite che si disfanno a batter di mani, sguazza menti in palude, battaglie della storia che si ridestano. Periodo di fervida attività internazionale, con installazioni anche permanenti (come il Giardino delle Anime ad Amsterdam dal 1997 al 2000, ed ora nella Hall of Science di New York) ed espansioni nella musica (i Tarocchi come omaggio a Fabrizio De André nel 2008). Nel 2005 fu attribuito al gruppo il Premio Pascali indetto dal Museo di Polignano a Mare. Per l’occasione fu proiettata una sintesi del complesso lavoro di ricerca compiuto su “paesaggi instabili” del Mediterraneo negli anni Duemila. Impresa in più tappe sino al 2014 a cui è dedicato ampio spazio nella mostra milanese. Segna una ulteriore svolta nella poetica di Studio Azzurro: non fa più premio la meraviglia quasi ludica dell’interattività espansa in spazi chiusi e teatrali, ma una sorta di meditazione naturalistica-realista su sensi all’aria aperta, odori, voci, vita di comunità come “portatori di storie”. Con tocchi fra il popolare e lo spirituale che sembravano anche voler prendere qualche distanza dalle evoluzioni del contemporaneo internazionale (come traspariva nel libro 2011 L’Arte fuori di sé). A questo clima appartengono i personaggi sul tema della Creazione nel primo padiglione del Vaticano alla Biennale di Venezia 20013. Era anche la prima volta che Studio Azzurro partecipava alla massima esposizione italiana – mi disse con una punta di amarezza Paolo Rosa, poco prima della vacanza estiva a Corfù dove trovò la morte. Il suo ricordo è aleggiato nella mostra di Milano. Che segna una volontà di ripresa del cammino interrotto, nel segno di “leggerezza di una visione”. Un “salto nel sogno del possibile” come dice il più anziano del gruppo, Fabio Cirifino, aperto alla “sorpresa dell’incontro con l’altro”. n GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 29


MACRO – Museo d’Arte Contemporanea, Roma

DALL’OGGI AL DOMANI 24 ore nell’arte contemporanea

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uando a parlare del Tempo, o meglio trattare la questione temporale, sono gli artisti attraverso i linguaggi delle arti visive - la speculazione si fa ampia e complessa, sostenuta negli anni da capacità indagatrici ed estetiche che creano relazioni e dialoghi, anche nelle differenze generazionali. Perché dalla notte dei tempi la condizione dell’individuo legato alla convenzione della misurazione del tempo e dei parametri Giulio Paolini, Belvedere, 2006 internazionali, fanno di questo tema uno dei soggetti maggiormente affrontati e analizzati nelle diverse forme espressive. Il memento mori è una speculazione sempre produttiva, nel linguaggio contemporaneo si è adattata alla percezione della fugacità e fattività di un’epoca iperattiva. L’universalità del tema mette tutti gli artisti sullo stesso piano, in quanto urgenza e attenzione, priorità di contenuto. Questo avviene e si riconosce nella mostra al Macro di Roma Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea, a cura di Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo, dove sono in dialogo lavori di grande rilevanza storica e attuale, di artisti di origine e periodi diversi. Oltre settanta opere che si distribuiscono negli spazi seguendo percorsi tematici: in Ritmi con Balla, Cambellotti, Ontani, Paolini, Camoni, Romualdi, Mayr, Patella; Oggi, Domani con Boetti, Ceroli, Mattiacci, Spinelli; Giornate di lavoro Opalka, Pietrella, Adami, Blank, Giovannoni; Date On Kawara, Vezzoli, Darboven, Comani; Date speciali De Dominicis, Closky, Albani, Sebregondi, Bertozzi&Casoni, Pignotti, Fois; Calendari Boetti, Novelli, Miccini, Ori, Ghirri, Abate, Mambor, Mari, Cattelan, Neuenschwander, Camoni; Diari Breakwell, Rubio, AOS; Passaggi Vaccari, Vautier, Baruchello, Benetta; 24 ore Almond, Shemilt & Partridge, Camporesi. Il fluido scorrere delle ore e dei giorni è dominio attivo delle opere: parole, immagini, suoni ed ambienti sospesi in dimensioni indefinite, rimandando all’emergenza di un sentire con cui l’arte può essere il mezzo di conoscenza o di trascendenza. Gli strumenti per misurare il tempo vengono riproposti in modalità creativa, strappati alla funzionalità originaria o presi in prestito per trasformare il discorso autoreferenziale in un dialogo aperto con il quotidiano soggetto. Se in una tela di Ben Vautier la frase Le temps n’a pas de centre sottolinea la battaglia quotidiana che è parte della vita dell’uomo, questa fa l’occhiolino all’icasticità di Oggi, Domani Giorno, Notte, di Mario Ceroli. Nello spazio chiuso di una stanza “sottovuoto” Manfredi Beninati sospende ogni cosa, si perde la forza di gravità e gli oggetti; gli arredi sembrano provenire da un altro decennio. Poi di forte impatto concettuale ed estetico è il lavoro di Alighiero Boetti, l’Orologio annuale che definisce ora e anno in una essenza soggettiva e indeterminata che ha l’accento di un tempo eterno. Dall’opera omonima Dall’oggi al domani di Boetti è tratto il titolo della mostra. Molti altri lavori stanno nel complesso espositivo con assoluta identità speculativa, solidificando le distinte ricerche con tagli quotidiani che, nel complesso, divengono vere azioni concettuali, nella ripresa del fattore Tempo. Fermarsi sulla dimensione del giorno, suddiviso in ore, quando si tiene a rimarcare il passaggio da un giorno a un altro imprimendo date su cartoline, come in I got up di On Kawara o bloccando definitivamente il giorno in Grammatica quotidiana di Cattelan, dove nel calendario il foglio indica la data oggi. Diarios de navigación di Pablo Rubio ha un rapporto anche fisico con il tempo, essendo questa un’opera che subisce l’azione di sfaldamento della materia di cui è composta: fogli di carta trattata con una sostanza che anticipa precocemente la 30 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

Allestimento mostra, foto di Marco Fabiano. In basso, Enzo Mari, Timor, 1967

decomposizione e lo sfaldamento, amplificando la dimensione effimera. Pagine di un quaderno scritte da una persona cara, che ha perso il rapporto con la temporalità e di cui rimangono le tracce di un racconto semplice e personale. Complessità di ricerche espresse in opere ricche di memorie, nella sospensione di immagini temporali, rimesse alla dimensione personale, oggettiva, dello scorrere delle ore o della solidificazione del giorno, dell’inganno della ciclicità del tempo. Ilaria Piccioni GAM, Torino

Braco DIMITRIJEVIC Organismi

I

l caso B. D. è esploso in Europa nell’ultimo decennio. Eppure all’artista di Sarajevo, umanista e autore concettuale, storiografo e archeologo paradossale, non erano mancati antologiche ed onori, fino alla sua consacrazione avvenuta nelle aste più prestigiose del mondo. A rinforzare l’attuale fervore dimitrijeviciano è l’ultima mostra curata da Eccher alla Gam. Come Bartleby, lo scrivano del famoso racconto di Melville, opponeva ad ogni invito il suo eterno “Preferirei di no”, così il personaggio figurato da B.D., di sé non dice altro che “Il Louvre, il Museo Ideale, l’archetipo del Museo”. Organismi, invece, è una mostra d’arte, architettura, design, fotografia e cibo (a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Virginia Bertone) che mette in relazione l’Art Nouveau con la contemporaneità. Organismi tenta di proporre una nuova visione delle relazioni tra le prospettive organicistiche del tardo Ottocento e degli inizi del Novecento e le visioni biocentriche di oggi; un argomento molto complesso che vorrebbe essere alternativo alle idee post-storiche di Dimitrijevic, ma che non fa altro che riproporne - sotto altra sintesi e finzione - una glossa a margine in chiave post-post-vegetale. Ma perché non è facile gustare la storia, candidamente nello spirito di B.D. e in quello di Organismi? La fervida religione di un’arte visiva nemica dei media, arte del gran rifiuto ed insieme arte attesa come l’esistenza organica del redentore, scivola a tratti nel sermone. Ma forse è qui l’appariscenza delle due proposte: nei loro slogan che grondano polvere, nella loro sostanza di “viventi sul baratro”, nella loro incongruità, nel loro affaticato politichese, che a tratti si fa salmodia, nella loro ansia di cambiare, non solo l’arte, ma con l’ausilio dell’arte la vita stessa, tutto rimane negli interstizi tra post- e neo. Dimitrijevic al grido di: “Il Louvre è il mio studio, la strada è il mio museo”, rispetto ad Organismi, affronta “le conseguenze sorte dopo il tempo del moderno e la fine della storia”. La personale che la GAM di Torino dedica al celebre iugoslavo, racconta questo ed altro, ripercorrendo le fasi principali della sua carriera, attraverso un’ottantina di opere: grandi installazioni, disegni, acquerelli e fotografie. L’artista bosniaco afferma: “Non ci sono errori nella storia. L’intera storia è un errore”. Cresciuto in una famiglia liberale, nella Jugoslavia postbellica, a soli 10 anni allestisce la sua prima mostra, presentando 40 oli su tela. Presto, avverte che la pittura non riesce ad esprimere a fondo la complessità del suo pensiero, così negli anni 60 inizia gli interventi nello spazio urbano. E’ l’arte fuori dal museo, che dagli anni ‘70 sviluppa Tryptychos Post Historicus: 500 installazioni nei vari musei del pianeta, che incorporano al loro interno altre opere avute in prestito dalle collezioni museali. Lui le racconta così «Sono dei trittici che rappresentano il Cosmo in piccolo e la diversa trinità dei valori coesistenti: la prima parte è rappresentata da un quadro storico, la seconda da un oggetto del quotidiano, la terza dalla frutta, che esiste senza convenzioni culturali perché appartiene alla natura indipendente dall’uomo». Emblematica la mostra allo zoo di Parigi, nel 1998, in cui montò opere d’arte nelle gabbie di leoni, coccodrilli, gorilla, pantere,ecc… per dimostrare la relazione cosmica tra l’essere vivente e l’arte. E D. ebbe a ricordare: «Dopotutto, se qualcuno guarda la terra dalla luna, non vi è alcuna distanza tra il Louvre e lo zoo». Alla GAM – tra le tante opere significative – si


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Braco Dimitrijevic, Heralds of Post History, 1999 Gam Torino photo Giuliana Laportella.

possono ammirare anche le installazioni Heralds of Post History, grandi fotografie in bianco e nero su mucchi di noci di cocco, da cui spuntano dei tromboni (1997); e le incredibili barche di legno piene zeppe di scarpe su cui troneggiano le gigantesche stampe bifronte di Veleggiando verso la post-storia (2009). Insomma, D., attraverso la serie di opere Casual Passer-by e il libro Tractatus Post Historicus, pubblicato nel 1976, pur perseguendo un cammino tardo-concettuale e in qualche modo vicino al post-modernismo lyotardiano, ha introdotto ed ha insististo sull’Estetica della Fine: “La Post Storia è il tempo della convivenza di valori e modelli diversi, il tempo dell’osservazione da molteplici punti di vista, uno spazio in cui non vi è una verità finale”. In tal senso, il progetto artistico di D. è un fuorviante contributo all’escatologia artistica dei tempi moderni, in relazione al suo principale motivo ispiratore: una sedicente “terza era” della creazione, interpretata in forme sempre più radicalmente immanentistiche. Che posto c’è, infatti, in una civiltà artistica che si autodescrive come interamente secolarizzata, per un portato culturale, come quello escatologico, che affonda le proprie radici nel culto, vale a dire, per buona parte dell’Illuminismo, nel campo dell’irrazionale? B. D. precisa subito, in effetti, che il processo della secolarizzazione e del disincanto connota certamente la modernità, ma non la definisce del tutto: “il processo moderno di ‘autoaffermazione’è un processo esso stesso ‘cultuale’, dominato da una tensione escatologica verso un tempo di compiuta realizzazione umana”. Questa tensione mira alla creazione di una nuova umanità o, meglio, di una meta/ umanità ed esige l’eliminazione dei caratteri storici del senso, che ostacolano un’autentica comprensione di quest’ultimo, in nome di una sempre più diffusa interiorizzazione del credo e di tutta la realtà. La “fine della storia” così tratteggiata presenta certamente notevoli influssi neo-liberistici, sia che si intenda il neo-liberismo come una possibilità perenne dell’animo umano, sia che lo si identifichi come una metamorfosi dell’arte, che si ripropone, nei secoli, al fondamento di numerose “ecologie del vivente”. Questo elemento, che D. mette in luce nelle sue installazioni, sembra contraddistinguere l’escatologia del pessimismo moderno e permette di coglierne l’originalità sia rispetto all’arte antica che rispetto alla manifestazione dell’arte post-. Se il crollo del Muro di Berlino del 1989 sembrava dar ragione alla teorizzazione, da parte di Fukuyama, di una “fine della storia” all’insegna del nuovo ordine democratico mondiale, i fatti dell’11 settembre 2001 paiono inclinare la cultura occidentale a diventare cosciente della propria decadenza (cioè della propria modernità come tempo di decadenza), nonché a rinnegare l’esistenza di una “forma”, di un “fine” dell’umanità, in nome di un relativismo delle civiltà. Se secondo D. l’uomo non è più nella storia e quindi continua a propendere per l’errore di Francis Fukuyama, forse noi, indipendentemente dalla trascuratezza post-storica, siamo in una storia più difficile da vivere e da raccontare, ma ancora una storia. L’uomo ha una possibilità di vivere al di là del nichilismo? Il ‘racconto’ del medialismo anti-organicista e anti-post-moderno, in questo suo ricercare il senso dell’uomo è affascinante. È un racconto perchè il mediale, nel suo agire comunicativo, riporta la storia della disfatta del senso, ma ad essa affianca la possibilità di una ulteriore versione dei fatti. Delicatamente e senza strappi indica in modo puntuale e preciso i luoghi teoretici in cui il senso ha perso vigore. Abbiamo detto che il fraintendimento della filosofia di D. è il punto da cui partire. Guardando le opere di B.D. potremmo concludere pensando a delle sottili esortazioni: stare vigili, ritrovare una «passione» del presente, avere la responsabilità di trovare nelle parole il senso della storia da raccontare. Una storia che non è finita ma che attende colui che la saprà raccontare.“Il cammino è lungo, ma, come ha detto Beckett, caro B. D. … e cari Neo-Organicisti, bisogna continuare, e io continuerò”. Gabriele Perretta

approccio atemporale e transtorico, che mescola e mette sullo stesso piano espositivo opere d’arte, ma anche reperti di cultura materiale, documenti, curiosità varie, di tutte le epoche e di tutto il globo. È una tendenza che ha origini lontane e che di recente si è tradotta in un denso dibattito sui criteri di ordinamento museale e in iniziative di grande impatto come le esposizioni di Palazzo Fortuny a Venezia (da Artempo o Proportio). Martin, forte della sua ibrida esperienza pregressa di curatore della Kunsthalle di Berna, del Centro Pompidou, del Musée national des arts di Afrique e de Oceanie, punta le sue carte e rilancia proprio sull’ intersecazione globale di culture, presentando 154 “opere”, tra manufatti artistici, reliquiari, ex voto, reperti archeologici, oggetti quotidiani, provenienti da ben 40 istituzioni. Il risultato, indiscutibilmente d’effetto, è quello di una enorme “wunderkammer” che sollecita la capacità di attivare associazioni sensoriali e mentali nel visitatore, in relazione alla propria sensibilità prima ancora che a formazione e conoscenze. “Ascoltare con gli occhi” è il monito sinestetico che Jean - Hubert Martin fa proprio, lasciarsi guidare dal fascino evocativo delle connessioni formali, con salti inediti, talvolta impensabili, spesso sorprendenti, sempre stimolanti. Il modello dichiarato di questa tessitura è l’atlante figurativo di Aby Warburg “Mnemosyne”, che fa da prologo alla visita nella prima sala al piano terra. Qui lo storico dell’arte tedesco fino alla sua morte nel ’29 aveva assemblato riproduzioni di opere rinascimentali, manoscritti, carte da gioco, elementi di archeologia greco-romana, frammenti iconici del 20° secolo, in base proprio alla vitalità espressiva delle immagini come testimonianza della persistenza delle forme attraverso i luoghi e i secoli. A rafforzare il concetto c’è, al centro della stessa stanza, un’altra “Mnemosyne”, l’omonima e gigantesca maquette di Anne e Patrick Poirier: ellittica sagoma di città-cervello che riassume le tracce sparse della loro ricerca. Con questa impostazione di collegamenti reticolari random l’allestimento si snoda in 25 sequenze, su imput iconografici a discrezione del curatore che spaziano tra umanità e natura, eros e corpo, religione e potere... Per non interferire con il ricco allestimento, le dida scorrono peraltro separate su innovativi mini schermi a digitali a parete. Attraverso ardite carambole e accostamenti a sorpresa, si passa così ad esempio dal catalogo fisiogniomico di teste del 600sco Charles Le Brun a statuette antropomorfe, al rituale “Cranio di Asmat”, o ad un idolo con grandi occhi. Oppure da un’antropologica maschera di cavallo, all’incisione con testa di cervo trafitto da una freccia di Durer; e da un altro cranio tribale all’ironico teschio di matite colorate di Annette Messanger. Un crocifisso ligneo medievale dialoga invece con altre croci e con la doppia corona di spine incrociata di Wim Delvoye. Delle coppe in ceramica con motivi astratti richiamano un “avanzo di pranzo” di Daniel Spoerri; dettagli anatomici di seni e falli si rincorrono in utensili vari. E ancora, introdotti da una ricapitolazione sul tema trasversale del nudo femminile proiettata su più schermi di Jean Jacques Lebel, al piano superiore un “taglio” di Fontana genera affinità con altri tipi di fessure. Mentre figure di santi sono in connessione con la inedita scultura di personaggi “buoni a cattivi”, tra cui Hitler, di Maurizio Cattelan o con la svastica fatta da gambe di gerarchi di Gloria Friedman. Su questa linea, si procede via via carambolando con molteplici frammenti (tra i contemporanei anche Wim Delvoye, Christian Boltansky, Braco Dimitrijevic, Bertand Lavier) che sfuggono a precise catalogazioni. E che sembrano essere un antidoto creativo e giocoso, per certi versi geniale sebbene fortemente discrezionale, di quel “mal d’archivio” già segnalato da Derrida. Della tendenza cioè a raccogliere, collezionare, conservare, che per quanto antica sembra una cifra distintiva della nostra epoca informatizzata: in cui l’eccesso di memoria comporta la paura di perderla e l’esigenza di inventare di una contro-memoria che saldi più strettamente, sia pur con taglio sincronico come in questo caso, i legami tra passato, presente e futuro… Antonella Marino Annette Messanger

Gran Palais, Parigi

CARAMBOLAGES

“L

isten to your eyes”. La scritta al neon di Maurizio Nannucci, all’inizio del percorso espositivo, sintetizza il senso complessissimo di Carambolages, la grande mostra curata da Jean - Hubert Martin al Gran Palais di Parigi. Una rassegna “enciclopedica” (come ultimamente si usa), con carambolici effetti a sorpresa, che affascina ma insieme introduce dubbi, fa riflettere. Molto discusso è infatti l’impianto teorico. Si basa sul netto rifiuto di qualsiasi forma di classificazione storica, di un criterio diacronico, linguistico o geografico, in funzione di un GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 31


Galleria Lia Rumma, Milano / Macro, Roma / Tevereterno, Roma

William KENTRIDGE Triumphs and Laments di Maria Letizia Paiato

D

ies Romana o Romaia è l’antica espressione che indica il Natale di Roma, la festività laica che celebra la data di fondazione della caput mundi, sancita con Romolo al 21 aprile del 753 a.C. secondo i calcoli e la leggenda narrata dall’erudito Marco Terenzio Varrone. Una data che, nel 2016, assume un valore pregno di significato, rivivendo il suo ricordo nell’eccezionale fregio, lungo 550 metri e alto 10, che William Kentridge ha realizzato sul lungotevere (da ponte Sisto a ponte Mazzini), raccontando, percorrendo e sviscerando, in oltre 80 figure “disegnate”, attraverso la pulizia selettiva della patina biologica dal travertino dei muraglioni, tutta la storia della città eterna fra “Trionfi e Lamenti”, vittorie e sconfitte dai tempi mitologici alla storia contemporanea. Una storia, tuttavia, che non si limita a narrare le vicende di un territorio o di un popolo, come in molti hanno scritto, riconoscendo bene in queste figure Remo ucciso per mano di suo fratello Romolo, la Lupa, Ercole che vince su Caco, la Vittoria alata integra e poi spezzata, l’effige di Garibaldi, Giordano Bruno, ma anche Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella Dolce Vita (che fanno il bagno in una vasca da appartamento e non nella Fontana di Trevi), l’Anna Magnani di “Roma città aperta”, i profili di luoghi simbolo come San Pietro vicino al Ghetto Ebraico, tappe tragiche degli assassinii di Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini, il primo raffigurato cadavere nella R4, il secondo dipinto e steso a terra dopo la sua uccisione, cui si affianca l’immagine di Mussolini a cavallo. Ma ancora: Giorgiana Masi (la studentessa uccisa nel 1977 durante una manifestazione pacifista del partito Radicale, alla quale si erano uniti membri dell’Autonomia Operaia, armati),

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copia dell’estasi di Santa Teresa d’Avila di Gianlorenzo Bernini, Michelangelo, Papa Clemente, citazioni da Mantegna alla Colonna Traiana, da Tiziano a Mirys, fino a scene di migranti e gli sbarchi a Lampedusa…c’è indubbiamente tutto questo ma concettualmente è molto, molto di più. In questa iconografia della storia romana, dall’antichità a oggi (come nell’intervento realizzato nel 2012 nella fermata Toledo della Metro di Napoli, dove una processione guidata da San Gennaro era ispirata alle vicende partenopee) Kentridge tratteggia il profilo della nostra cultura, scavando fino alle radici di eventi e fenomenologie che definiscono parole come “occidentale” e “mediterraneo”, ricollocando poi tali aggettivi nella stringa dell’attualità, di una società postmoderna o globalizzata. Il suo è un pensiero, svolto per immagini, potente, capace di scuotere tanto l’animo quanto l’intelletto, mostrando i tratti di complessità e mutevolezza delle forme, tali da scombinare il paradigma sociale che sembra aver raggiunto la nostra civiltà. Kentridge crea dubbi sui perché, originando una crepa sull’inossidabile presunto valore di verità che sostiene le nostre esistenze, spingendoci a un’osservazione del passato e del presente che valica i confini di qualsiasi inquadramento accademico, rivendicando in tal senso il diritto alla rimessa in discussione di fatti ed eventi peculiari alla storia dell’umanità stessa. 2769 anni Ab Urbe si sovrappongono l’un l’altro in un solo istante, e quelle diverse figure di diverse epoche, raffigurate come fossero una smisurata vanitas, sfilano lungo il sentiero della propria sorte, destinate a scomparire con lo svanire nel tempo dell’intervento stesso. Infatti, fra i 3 e 4 anni è il periodo stimato per la progressiva e naturale cancellazione dell’opera, durante il quale la patina biologica di limo e l’inquinamento torneranno a depositarsi sul travertino dei muraglioni, mostrando in questo processo anche lo stato di transitorietà insito e sotteso a Triumphs and Laments e alla natura stessa della tecnica impiegata. Il grande “murale” – che a sua volta riecheggia simbolicamente tanto nella tradizione della pittura murale anni ’30 del Novecento, quanto nell’opera dei più contemporanei street artisti presenti in città – mostra immagini ottenute


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

William Kentridge, Triumphs, Laments and other Processions Lia Rumma Gallery, Milano, 2016. Sopra, vista dell’installazione a piano terra: More Sweetly Play the Dance, 2015. Installazione con film in HD a otto canali con quattro megafoni, durata 15’. In basso, vista dell’installazione al primo piano. Photocredit: Roberto Marossi
 Courtesy Lia Rumma Gallery, Milano/Napoli

per sottrazione, utilizzando una serie di stencil realizzati dallo stesso Kentridge (peculiari nella sua ricerca soprattutto per i suoi disegni di animazione), dove i bianchi sono il risultato della pulitura delle superfici sporche attraverso energici getti d’acqua. Un procedimento che a sua volta mette in luce il problema del tempo, che interessa tanto la durata stessa dell’opera quanto quella che consuma la vita di ciascuno diacronicamente e sincronicamente. E in Triumphs and Laments la cronologia è volutamente sovvertita, tanto è vero che, nella mente di Kentridge, ciascun personaggio o luogo si ritrova affianco a un altro privo di una logica sequenziale, dove i rapporti di memoria sono astrattamente ristabiliti dall’artista nelle contraddizioni che si palesano in questi improbabili accostamenti. Un tempo,

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William Kentridge, Anna Magnani (da “Roma Citta Aperta”) I, 2015 Carbone e matita rossa su pagine di libro mastro trovati, 63x83x4 cm
 Photocredit: Thys Dullaart. Courtesy Lia Rumma Gallery, Milano/Napoli

William Kentridge, Execution of Partisans I, 2015
 Carbone e matita rossa su pagine di libro mastro trovati, 63x83x4 cm
 Photocredit: Thys Dullaart. Courtesy Lia Rumma Gallery, Milano/Napoli

dunque, che diventa suggestione evanescente nelle immagini e al contempo condicio sine qua non quando interviene la musica – arte nodale nella poetica dell’artista – sensibile nell’atto dell’esecuzione a concentrare fra un inizio e una fine lo scorrere, il vibrare e il muoversi di un suono, più suoni, di un complesso orchestrale, fino a mostrare la mancanza di elementi di fissità tali – nella durata – da annullare i singoli istanti, che – per dirla alla Bergson – si percepiscono in “un loro continuo fluire non scomponibile ma vivibili nella realtà della coscienza di ognuno, dove gli stati psichici non si succedono ma convivono”. E sulla scorta di questo teorema Kentridge costruisce una magia, animando quelle figure impresse e immobilizzate sul muro, attraverso una performance che ha visto il coinvolgimento di oltre 40 musicisti e vocalisti, fra le quali le soliste Lavinia Mancusi, Ann Masina, Joanna Dudley, Patrizia Rotonda e Bham Ntabeni. Due processioni – una come espressione dei trionfi, l’altra delle sconfitte –, hanno marciato dai due lati estremi del lungotevere, fra danze di ombre e musiche originali del compositore sud africano Philip Miller e Thuthuka Sibisi, ispirate a melodie liturgiche del compositore italiano tardo rinascimentale Salomone Rossi, a suoni tradizionali del Sud Italia, alla kora africana (una canzone Mandinka degli schiavi dall’Africa occidentale), cui si sono sovrapposte le parole del poeta Rainer Maria Rilke, recitate e cantate attraverso i versi: That is the longing: to dwell amidst the waves / and have no homeland in time (Questa è la nostalgia: vivere nella piena / e non avere patria dentro al tempo.), che condensano in una riga tutto il senso di questo spettacolare intervento. Una musica che prende attraverso le viscere, espressione di un esodo, di una tragedia e di una speranza. Una musica capace di dare voce e corpo al nostro essere presenti all’azione, sol-

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lecitando un ruolo attivo che, come nelle civiltà primitive – cui guarda Kentridge – non ha la sola funzione di ascolto, ma diventa partecipazione vera. Tutto allora va rivisto da un’altra ottica, permettendoci di penetrare il vero nodo affrontato dall’artista. Quelle immagini impresse sul muro (ma destinate a svanire), attraverso la loro animazione e la musica, rientrano nel fluire e nello scorrere di un’unità indistinta, quella della Storia, non intesa come successione di eventi interpretabili singolarmente, bensì – come già accennato – osservata nei suoi principi costitutivi e fondamentali al sistema. Non solo, bisogna anche sottolineare che, se da un lato il lungo fregio spazializza una visione del tempo come in una grande pellicola cinematografica, dall’altro sono le persone, attraverso l’atto performativo a creare il movimento di ciò che è fisso. Non c’è uno scorrimento a essere fermato, come nel cinema ad esempio, al contrario Kentridge procede all’inverso, scombinando, anche in questo, il comune senso del vedere. Un atto, quello del “vedere”, intorno al quale l’artista ha lavorato una vita intera, «per la produzione del significato: è qui – dichiara – che il pensiero lineare cede il passo a occhio, mano, carta e carboncino, a quei mezzi materiali che danno impulso vitale alla creatività. L’atto di disegnare, lo sporcarsi le mani, ci introduce – accompagnati da Kentridge stesso – ai temi più complessi del nostro tempo», quelli di cui abbiamo appena tentato di parlare, e che ci fanno attribuire struttura e senso alla fluidità dell’esperienza. Torna la parola fluidità, sottesa alla quale c’è l’idea che, tanto nella pratica del disegno, quanto nelle parole (nella grammatica) – considerate per convenzione discipline dalle quali «verrà distillata la verità (Kentridge in Sei lezioni di disegno, Johan & Levi Editore, 2016)» risieda il seme del dubbio stesso. Diciamo che, la forte esigenza di significato, che da sempre attanaglia l’umanità, supera l’obiettività di ciò che si sta realmente osservando, spingendoci a elaborare frammenti e tracce, in un’immagine attraverso cui comprendere il mondo che, tuttavia, non costituisce un errore o un’illusione ma una parte fondamentale del modo in cui recepiamo ciò che ci circonda. E allora, seguendo Kentridge in questi suoi ragionamenti, che spostano continuamente verità e falsità, possiamo comprendere il senso che egli assegna al concetto di “frammento”: una traccia, un segno, una sorta di indizio che il passato lascia intravedere, affinché noi possiamo stimolarci a riconsiderare il presente. Egli stesso dichiara in merito a Triumphs and Laments: «Cercando il senso della storia a partire dai suoi frammenti, troviamo un trionfo in una sconfitta e una sconfitta in un trionfo. La mia speranza è che, mentre le persone si troveranno a camminare lungo questi 500 metri, possano riconoscere immagini di una storia sia familiare ma anche reinterpretata. E questo rifletterà la maniera complessa nella quale la città si rappresenta. Cercando il senso della storia». In questo suo ampio pensiero generale, vanno collocati anche gli altri due interventi in corso a Roma, quello al MAXXI che ospita il focus About William Kentridge e quello al MACRO di via Nizza con la mostra Triumphs and Laments: a project for Rome curata da Federica Pirani e Claudio Crescentini. Un’esposizione, quest’ultima, che conta un’ottantina circa di lavori, William Kentridge, Refugees I, 2015 Carbone e matita rossa su pagine di libro mastro trovati, 63x83x4 cm Photocredit: Thys Dullaart.
Courtesy Lia Rumma Gallery, Milano/Napoli


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

William Kentridge, Triumphs, Laments and other Processions, 2016. Installazione sul lungotevere “Piazza Tevere” a Roma. Courtesy Tevereterno, Roma. In basso, a destra, due dettagli delle installazioni sulle pareti del Lungotevere. In basso, alcuni momenti della processione andata in scena il 21 aprile. Foto Roberto Sala

dove sono esposti i bozzetti preparatori al ciclo “fluviale” promosso dall’associazione Tevereterno e realizzato dalla Sovrintendenza capitolina, che mostrano il lavoro che sta alle spalle dell’artista di Johannesburg, il cui segno è paragonato dai curatori a quello di Mario Sironi, firmatario nel 1933 del noto manifesto della Pittura Murale, dove sancisce che: «La pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull’immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori». Un riferimento che nulla a che fare con la politica, ma che al contrario, anzi, sdogana finalmente il pensiero del pittore italiano ricollocando la sua opera nel corretto flusso della storia dell’arte, cui anche Kentridge guarda senza alcun pregiudizio ideologico. Dell’intervento sul lungotevere, destinato a svanire, resteranno dunque questi disegni a carboncino, china, hennè e tempera, fra i quali spicca il bozzetto del corpo di Pasolini all’Idroscalo realizzato su pagine di ottocenteschi libri manoscritti di conti. Un’opera che si fa simbolo dell’intera mostra, promossa da Roma Capitale Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con la Galleria Lia Rumma cui, valore si fa ancora più pregnante nella vicinanza al disegno che ritrae Remo, primo martire della storia di Roma, a sua volta specchio e metafora “delle origini” e di una spiritualità dominatrice, laddove Romolo, espressione del principio olimpico, diventa garante nell’omicidio del rispetto dell’ordine. E allora viene da chiedersi: a quale ordine bisogna riferirsi? O adeguarsi? Cosa significa oggi? La risposta è aperta, e Kentridge con grande semplicità la pone su quel muro del lungotevere, in frammenti che scoperchiano vicendevoli Triumphs and Laments. Ma l’operazione dell’artista sudafricano non si esaurisce nella città eterna, il cui intervento monumentale è stato anticipato dalla personale Triumphs, Laments and other Processions, inaugurata lo scorso 9 aprile negli spazi della Galleria Lia Rumma di Milano. In quel luogo è collocata la video installazione More Sweetly Play the Dance, presentata in anteprima nel 2015 all’Eye Film Institute di Amsterdam, che si snoda come una fisarmonica su otto grandi schermi. Una danza che, fra ritmi tribali e suoni più moderni, è consapevole della morte. Una danza macabra che, fra corpi vivi e scheletri, si svolge nell’inconsapevolezza che il fine di tutto porta chiunque nello stesso luogo, lasciando scoperta l’idea che il cessare del ballo stesso corrisponda all’epilogo della vita. Non smettere di ballare, dunque, per sopravvivere. Un ballo che riesce a coinvolgere, avvolgendo gli spettatori in galleria chiamati empaticamente a unirsi alla processione, qui più intima, più confidenziale e al contempo evocatrice d’immagini che narrano delle vittime di ebola, della peste nera, e di altre situazioni di conflitto – inimmaginabili – che accadono ai confini delle nostre terre. E in mostra non mancano i disegni a carboncino su fogli di vecchi registri contabili, gli inchiostri preparatori, le sculture, gli arazzi e i cut-out creati

per l’evento romano, ancora una volta a tracciare un percorso ideale fatto di frammenti che porta l’arte di Kentridge a essere osservata nella sua totalità come una sorta di grande dizionario dipinto su carta. Occhio, mano, carta e carboncino sono, dunque, gli strumenti di una modalità di espansione dell’arte, che rintraccia nella pratica e nella ripresa del disegno, compreso quello per proiezione e in contrapposizione alle innovazioni offerte dalla tecnologia, la via per non ridurre progressivamente la vivacità intellettiva dell’uomo. Il disegno, fatto di segni e cancellature – simbolicamente interpretati come Triumphs and Laments, è per Kentridge lo specchio di una memoria storica, fatta di amnesie, ingiustizie ma anche vittorie sociali, sempre e comunque da considerare mai definitive e assolute. n

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Galleria Christian Stein, Milano

Mimmo PALADINO la sensazione e la pittura

A

mpia retrospettiva di Mimmo Paladino negli spazi della Galleria Stein a Milano e Pero, curata da Eduardo Cicelyn. Un racconto che, partendo dal principio della sua carriera, ripercorre i passaggi più significativi in 7 sezioni tematiche e in 7 ambienti nei quali si dipana il filo di questa antologica. Con più di venti opere tra dipinti, sculture e installazioni. Paladino è tra i maggiori esponenti del movimento della Transavanguardia, formulato da Achille Bonito Oliva nel 1980 che individua un necessario ritorno alla pittura, dopo le varie correnti concettuali sviluppatesi negli anni Settanta. Quello di Paladino è un lavoro di ricerca nato dalla sua formazione concettuale che tocca sia le esperienze delle avanguardie storiche, sia quelle della tradizione che quelle delle culture arcaiche extraeuropee. Il percorso comincia nella sala della sede milanese, con lavori di inizio carriera di Paladino, realizzati negli anni Settanta quando si dedicava alla pittura per definire la propria identità, per rappresentare il proprio mondo interiore, primordiale e magico. Entrando nello spazio lo sguardo è subito catturato da lavori successivi, come dal grande cavallo di legno dipinto sdraiato sul pavimento (1991). Il silenzio che ci accoglie, amplifica e mette l’accento sulla drammaticità della scena. Sette quadri di grandi dimensioni occupano interamente le pareti, Corale (1992). Sfondo bianco e dettagli / frammenti di corpi che emergono da esso e che sembrano rappresentare quello stesso campo di battaglia sul quale si può immaginare sia caduto il cavallo. La mostra prosegue poi nelle sale di Pero dove l’istallazione presentata per la prima e unica volta alla Biennale di Venezia nel 1988 fa da fulcro a tutto il percorso. Nelle sale successive, accanto alla pittura, trova posto anche la scultura che è parte fondamentale del lavoro di Paladino. Qui grandi sculture archetipe - come i

Testimoni (2009), o le grandi fusioni in alluminio (2009), uomini o frammenti di uomini che sembrano entrare / uscire dalla parete o ancora il bronzo policromo (1993), un uomo sdraiato che sostiene il peso del suo corpo con un braccio - dialogano, senza mai rendere esplicita la narrazione, con quadri di grandi dimensioni dai colori primari, gialli, rossi alternati e abbinati ai bianchi e ai neri. Segni, geografie, silenzi. È difficile o forse impossibile, interpretare queste opere, Paladino stesso ha detto che i segni e i simboli che realizza nei suoi quadri rappresentano solo se stessi e sono privi di significati simbolici e narrativi. Ha più volte dichiarato la sua volontà di una assenza narrativa all’interno delle sue opere e delle sue istallazioni, dicendo che in esse c’è tensione proprio perché ci si aspetta continuamente qualcosa che tarda a manifestarsi. Il tempo non scorre, gli oggetti e i personaggi non sono i protagonisti di una storia, e non potrebbe essere altrimenti considerando che manca la storia stessa. E allora pur nella loro apparente fissità e staticità queste opere conservano sempre una ambiguità densa di allusioni. Le maschere sono senza sguardo, i profili delle teste sono antropomorfe e sfuggono ad ogni interpretazione, anzi sembrano mantenere in sé enigmi, misteri insondabili e segreti. Paladino conosce il Passato e ne utilizza immagini, iconografie e soggetti ma con un vocabolario contemporaneo, guarda alle sue (alle nostre) radici culturali leggendole con gli occhi dell’oggi. La sua opera, caratterizzata da una grande vivacità nell’uso dei colori, nella pittura, e da misteriose figure totemiche nella scultura, rimanda ad una atmosfera onirica dove si ritrovano elementi dell’arte antica (egizia, etrusca e paleocristiana) ma anche influenze dell’arte primitiva e tribale. La sala dell’oro, uno degli elementi fondanti del linguaggio di Paladino rappresenta in tutta la sua forza poetica le sperimentazioni e le espressioni dell’artista, contrappunto luminoso, per la grande opera drammatica delle figure di legno bruciato, arti spezzati e figure nere consumate dal fuoco. “Da una sala all’altra, da un inizio all’altro, attraverso numerosi passaggi e ritorni, l’opera di Paladino si manifesta qui a Milano in tutta la sua complessità”. Simona Olivieri

Mimmo Paladino, Apocalisse ventosa, 2005, acrilico su tela, 300x900; Senza titolo, 1993, bronzo policromo, 120x290x140; Film 1953, 1985, tecnica mista su legno, 135x220x40 Courtesy Artista e Galleria Christian Stein, Milano Foto Agostino Osio Mimmo Paladino, Testimoni, 2009. Pietra di tufo, 200x65x75. Courtesy Artista e Galleria Christian Stein, Milano Foto Agostino Osio

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attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Mimmo Paladino, installazione Biennale di Venezia (Dettaglio), 1988. Rame, bronzo. Dimensioni ambientali. Courtesy Artista e Galleria Christian Stein, Milano. Foto Agostino Osio

Mimmo Paladino, Senza titolo, 1991. Legno dipinto 70 x 400 x 400. Courtesy Artista e Galleria Christian Stein, Milano. Foto Agostino Osio

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CAMUSAC, Cassino

Nicola CARRINO

I

l Progetto è tutto per Nicola Carrino. Progetto che insieme al Processo è da intendersi un atto fondante di un procedimento artistico di trasformazione. Nella grande mostra nei suggestivi spazi del Camusac di Cassino “Reconstructing City. Progetto Camusac 2016. Costruttivi. Decostruttivi. Ricostruttivi. 1959. 2016”, l’artista rilegge e analizza un luogo ad alto tasso di disponibilità, e crea cinque nuclei plastici posti “in azione” attraverso blocchi distribuiti per altezza, larghezza, lunghezza, allineati, al muro, a terra, di piatto e in volume. Bruno Corà lo presenta affermando che la sua opera non è scindibile dall’ambiente e dallo spazio e ritrae una esigenza di ordine alla ricerca di una complessità ulteriore. Il Camusac in occasione di questa grande mostra antologica con opere a partire dal 1959, ma che di fatto presenta nuove azioni e interventi, è più vivo che mai e offre a Carrino diverse possibilità di relazione profonda con lo spazio. Reconstructing City, il progetto messo a punto per il Camusac, sostanzialmente è un’idea. È l’idea che tiene insieme il luogo ospitante, la sua forma, la sua abitabilità e collettività con la costruzione, con la ricostruzione, con l’ordinare, con la trasformazione e con la responsabilità politica del fare. La scultura è per l’artista pensiero materializzato, interviene nel reale e lo modifica. L’oggetto è trasformabile, trasformativo e trasformatore e lo stesso Carrino riafferma durante la presentazione della mostra: “il mio lavoro non è da guardare per quello che è, ma per quello che intende… Sono come molecole di organismi umani che continuano a trasformarsi nel tempo e nello spazio”. I Costruttivi prima, i Decostruttivi a seguire e i Ricostruttivi della più recente ricerca, si definiscono come sculture di intervento spaziale complesso, in rapporto dialettico con i luoghi e il vissuto della città e del paesaggio consentendo di comprenderne il progetto, i processi formativi e le relazioni ambientali. Elementi modulari, trasfor-

mabili e componibili, in forme chiuse o aperte, in ferro verniciato, ferro lamiera, acciaio corten, acciaio inox, superfici molate che riflettono, assorbono e amplificano il processo trasformativo, occupano lo spazio creando strutture autonome. Ci si interroga sullo Spazio in questa mostra e si assiste alla creazione di un nuovo Ordine Architettonico. Una sapiente gestione di Forma (come modulo strutturante) e Struttura (come organismo anche complesso) ridisegna la natura del luogo attivando una nuova dialettica della percezione dell’ambiente e della sua qualificazione anche civile. Nicola Carrino, nato a Taranto nel 1932, con un esordio dal realismo all’informale espone dal 1952. La sua prima mostra personale è datata 1958. Dal 1962 al 1967 fa parte del Gruppo 1 di Roma. Da lì, un’unica azione, un’unica opera, un unico pensiero che dura da circa 60 anni e che è raccontato per intero al Cassino Museo d’Arte Contemporanea (CAMUSAC). Fino al 30 settembre 2016, a cura di Bruno Corà. Jasmine Pignatelli

Nelle immagini di questa pagina: Nicola Carrino, Progetto Camusac Reconstructing City, Costruttivi Decostruttivi Ricostruttivi, 1959-2016 (ph.N.Carrino)

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Christo, Wrapped Coast, Australia, 1968-69

Museo di Santa Giulia, Brescia

Christo and Jeanne-Claude Water Projects

T

he Floating Piers, l’installazione che Christo ha disteso sulle acque del lago d’Iseo fra giugno e luglio del 2016, non è la più grande e la più costosa fra le molteplici imprese di presa di possesso provvisorio e di spettacolare trasformazione estetica del paesaggio urbano e naturale realizzate dall’artista franco-bulgaro. Eppure segna una svolta per più versi significativa in mezzo secolo di originale presenza sulla scena internazionale, con incisiva parte in Italia. Per la prima volta si tratta di una operazione compiutamente performativa e transattiva: il pubblico è invitato a percorrere i tre chilometri di passerelle che congiungono la sponda di Sulzano all’isola nel centro del lago e la circondano interamente, a contatto con l’acqua flottante lungo i bordi dei 200.000 cubi in polietilene che compongono la struttura. La sensazione meravigliante e periclitante del “camminare sull’acqua” quasi a rivivere il miracolo evangelico è probabilmente la chiave scatenante di un richiamo mediatico trasformato in evento di massa. Avviene così l’esaltazione di un rapporto sinestesico, più che tattile, che l’artista ha sempre ritenuto fondamentale, aldilà degli effetti ottici/cromatici (i tracciati astrattivi fra il giallo-oro cangiante in rosso delle passerelle con gli azzurri di acqua e cielo e i verdi di terra). Specie per i “progetti d’acqua” la cui storia è ripercorsa nella grande mostra a cura di Germano Celant aperta da aprile a Brescia negli spazi del Museo di Santa Giulia, e nell’importante catalogo edito da Silvana. Tentativi non realizzati di floating piers sono documentati nel 1970 a Rio de la Plata e nel 1996 per la baia di Tokio. Ma sono ben sette i Water Projects attuati da Christo con la moglie Jean-Claude (scomparsa nel 2012, il suo nome resta associato anche in quest’ultima impresa). Cominciarono con l’impacchettamento di un tratto di costa rocciosa della Little Bay di Sidney (Wrapped Coast. One Million Square Feet, 1969): prima estensione su paesaggio marino degli “impacchettamenti” surreali e spettrali con teloni di plastica, di edifici, monumenti urbani e ponti che segnarono la clamorosa irruzione della coppia sulla scena europea. Sino al tentativo di impacchettare addirittura le acque di Newport (Ocean Front, 1974). Peraltro la mostra di Brescia va ben oltre i Water Projects, proChristo, The Floating Piers, Lago d’Iseo, 2016

ponendosi come la più ampia e completa, forse, antologia di Christo-Jeanne Claude dal 1961 ad oggi. Dispiega collages, disegni, fotografie, modelli come opere autonome che precedono e illuminano le operazioni fisiche, con sensi storicamente alternativi alla Land Art americana. Certo, una lettura complessiva deve includere l’aspetto significante di progettualità da impresa privata autosufficiente, in grado di mobilitare un complesso apparato di competenze, dal management all’ingegneria. Ma questa “arte totale” resta fondata sui principi della leggerezza e della transizione temporale (le installazioni sono tutte removibili e a termine). È mossa dal primato concettuale dell’Idea (il progetto) rispetto alla tecnicalità del prodotto terminale. Sfocia in una sorta di sublimazione di Pittura concreta che ha per tavolozza l’ambiente naturale. Per dire: nel 1983 i due circondarono di tessuto rosa galleggiante, con effetto ninfee, alcuni isolotti della Biscaine Bay a Miami, disegno replicato sul lago d’Iseo con le passerelle attorno a Montisola. Dal 1993 è ancora in progress la copertura con tendoni di tessuto del fiume Arkansas che scorre in un canyon fra le Montagne Rocciose del Colorado, quindi con vista anche da sotto, navigando in barca. Come nei vari grandiosi percorsi a tendoni (dalla rossa Valley Courtain in Colorado 1972 agli “ombrelloni” viola 1984 -91 in Giappone e California ai Gates, le porte con tende gialle in Central Park 2005). Appare così evidente il passaggio dagli austeri Sessanta -Settanta ancora iscritti nella tradizione lunga del Surrealismo da Lautreamont a Duchamp, alla espansione spaziale che sollecita il coinvolgimento della gente, il toccare, il camminare. A 80 anni, sul lago d’Iseo Christo si rimette in gioco, fra terra acqua e cielo. Pietro Marino

Christo, Christo & Jeanne-Claude, Pont Neuf Wrapped, Surrounded Islands, 1980-83 Parigi 1975-1985. ph & (c) Wolfgang Woltz 1985

Christo, Running Fence, 1972-76

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Alberto Biasi, Scudo di Achille, anni ‘70, Dadamaino, Cromorilievo inclinazione 10 gradi, 1975. A centro pagina: Alberto Biasi, Dinamica, 1968.

Galleria Granelli, Castiglioncello (LI)

CREATIVE EYE

S

empre piacevoli le mostre di riflessione antologica su un movimento artistico. Lo sguardo a posteriori sulle opere determina nuovi pensieri, giudizi, ri-definizioni, che al momento della presentazione non si è avuta la possibilità di fare, sia per la famigerata miopia che riguarda gli eventi troppo vicini, sia per una possibile mancanza di strumenti interpretativi che poi il tempo ha fornito. Così con vero piacere ho passato in rassegna le opere di questa esposizione (Bruno Munari, Gianni Colombo, Grazia Varisco, Davide Boriani, Marina Apollonio, Alberto Biasi, Manfredo Massironi, Franco Costalogna, Edoardo Landl, Julio Le Parc, Horacio Garcia Rossi, Hugo De Marco, Dadamaino, Hartmut Bphm, Ludwig Wilding, Mario Ballocco, Franco Grignani, Jor-

In alto da sin.: H. Garcia Rossi, P017, 1975, Senza titolo, 1978 e Couleurlumière, 1984; a destra in primo piano: J. Le Parc, Modulation 857, 1986.

rit Tornquist, Marcello Morandini, Marcello De Angelis) ritrovando tante proposte culturali che adesso sembrano superate, ma che, al contrario, sono alla base dell’espressività visiva dei nostri giorni. Prendendo in considerazione la “linea analitica” dell’arte degli anni ’60 (l’espressione è volutamente dedotta dal titolo del testo di Filiberto Menna, ancora oggi fondamentale), si può dire che due sono gli atteggiamenti salienti: da una parte c’è il Minimalismo, che insisteva soprattutto nel versante della scultura, proponendo oggetti che non fossero metaforici, ovvero rifiutando la figura e l’aneddotica ad essa connessa, soprattutto approfondendo la dimensione filosofica dell’operare artistico. Dall’altra parte l’Arte Cinetica e Optical aveva una dimensione di apertura all’eventuale, di richiesta della partecipazione attiva dello spettatore, che è stata molto più facilmente metabolizzata. L’estetica del pulsante, che si può toccare o che cattura il nostro sguardo con la sua emissione, la mutabilità luminosa o cromatica, il concetto di “ambiente visivo”, la necessità stessa di organizzare la retorica di qualsiasi messaggio visivo, sono esigenze evidenti per noi, figli di internet, ma che negli anni ’60 erano pura utopia, poiché gli unici spunti di piacere visivo erano relegati alla pubblicità e alla sua gradevolezza. Nell’Arte Cinetica e Optical c’era un edonismo facile da accogliere, ma non semplice da comprendere fino in fondo. Queste opere senz’altro facevano appello ai sensi e alla dimensione ludica che giace in noi per essere accolte, altrettanto, bisogna ammettere, non concedevano nulla al piacere del possesso dell’opera unica ed esclusiva essendo realizzata manualmente, che, viceversa, combattevano fieramente. C’era quindi un seducente mix tra la tecnica aggiornata alle ultime, raffinatissime scoperte della fisica, della Gestalt e della linguistica, dall’altra c’era una voglia di gioco e di rinnovamento che non conosciamo più dagli anni ’60. Questa esposizione fa scaturire riflessioni universali, sia per chi quegli anni li ha vissuti in diretta, sia per chi li conoscerà attraverso questa ampia scelta di opere, che va dall’intransigente Tornquist, al ben più vario e gaio LeParc. Decisamente un’esposizione da visitare, per le riflessioni nostalgiche o i bilanci arguti che genera in ogni visitatore. Paolo Aita

In alto da sin.: M. De Angelis, Simulacro 6, 2015; F. Grignani, 173, 1968; M. Morandini, Progetto 478 A, 2005; a destra: B. Munari, Negativo Positivo, 1995, H. Garcia Rossi, Couleur-lumière, 1989; J. Le Parc, Modulation 857, 1986

In basso da sin: D. Boriani, Superficie Magnetica Modulare 2, 1959/60, H. Garcia Rossi, Cinetique,1959-60/2001 e Couleur-lumière, 1989, J. Le Parc, Modulation 857, 1986

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

L. Wilding STI 60/2, 1976, H. Demarco, Couleur, 1989, F. Costalogna, Lente Nera, anni ‘70, A. Biasi, Apri e chiudi, 1970/80, M. Massironi, Assemblaggio con rondelle,1961 Pubblicata Bulino 2007; A. Biasi, Scudo di Achille, anni ‘70, Dadamaino, Cromorilievo inclinazione 10 gradi, 1975; A. Biasi, Dinamica, 1968

B. Munari, Negativo Positivo, 1995

H. Garcia Rossi, Senza titolo, 1978

D. Boriani, Superficie Magnetica Modulare 2, alluminio annodizzato, magneti permanenti, motore, cm 90x90x18 anno 1959/60

J. Le Parc, Modulation 857, 1986

M. Apollonio, Gradazione Verde+Blu, 1966

F. Costalogna, Lente Nera, anni ‘70, A. Biasi, Apri e chiudi, 1970/80, M. Massironi, Assemblaggio con rondelle,1961 Pubblicata Bulino 2007; A. Biasi, Scudo di Achille, anni ‘70, Dadamaino, Cromorilievo inclinazione 10 gradi, 1975; A. Biasi, Dinamica, 1968

Da sin: M. Apollonio, Gradazione Verde+Blu, 1966; D. Boriani, Superficie Magnetica Modulare 2, 1959/60; H. Garcia Rossi, Cinetique,1959-60/2001; sullo sfondo G. Colombo, Spazio elastico, 1974

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Fondazione Banca del Monte, Foggia

Rigorosamente Libri Libri d’arte dell’archivio Carlo Palli

L

a mostra, a cura di Laura Monaldi, ospita una selezione delle opere conservate presso l’importante archivio toscano di Carlo Palli a Prato, la cui vasta e raffinata raccolta nasce nella seconda metà degli anni Sessanta. Le centinaia di opere documentate – opere spesso in giro per il mondo, visti i prestiti che l’Archivio fa per diffondere la cultura del libro d’artista nel mondo (non ultima la bellissima L’Inarchiviabile/The Unarchivable, a cura di Marco Scotini, ospitata in questi giorni a Milano presso FM Centro per l’Arte Contemporanea) – sono in questa iniziativa rappresentative di tutti i periodi storici accolti dall’Archivio Carlo Palli. I libri d’artista costituiscono un complesso oggetto di studio, vista la duplice natura di essere al tempo stesso prodotto artistico e culturale nonché frutto dell’impulso creativo e oggetto di speculazione estetica. Nato nel segno della rivoluzione culturale che nel Secolo Breve ha messo in luce l’esistenza di un nuovo rapporto fra l’artista, il pubblico e l’artefatto editoriale, il libro d’arte si propone inizialmente come intreccio di illustrazione e narrazione, ma progressivamente la fisicità dell’opera lascia spazio alla progettualità artistica e l’editoria si lega indissolubilmente al mondo dell’Arte, attraverso un dialogo che rinnova il tradizionale modo di concepire il libro, donando dignità alla grafica d’arte e stimolando l’affermazione di un moderno genere artistico-letterario. Come ben segnala la curatrice nel testo in catalogo, nel Novecento l’estetica definisce un rapporto di complicità con la letteratura, le arti figurative e quelle musicali, trovandosi coinvolta non solo nel vasto orizzonte delle discipline esistenti, ma anche nella gestione e nell’organizzazione degli eventi e dei prodotti

In alto, sopra il titolo, John Baldessari. Qui sopra, Young Mac Low. In basso, Mirella Bentivoglio.

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In questa colonna, dall’alto verso il basso, le opere di Enrico Baj, Corneille, Isidore Isou, Villa, Joseph Beuys


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

In questa colonna, dall’alto verso il basso, le opere di Miccini, Castellani e Boetti

In questa colonna, dall’alto verso il basso, le opere di Bussotti (a sinistra) e ManRay, Cesar, e Duchamp

culturali, facendo del piacere estetico un piacere ermeneutico; in tal contesto il libro d’artista: “si è configurato come un genere ibrido nel quale si convogliano più esperienze, riflessioni e sollecitazioni, nel quale si confrontano linguaggi ben distinti, ma accomunati dalla grande importanza che la composizione editoriale richiede sia per fini comunicativi, sia per la resa dell’espressione pura. L’artista di conseguenza partecipa attivamente alla realizzazione del prodotto, che diviene un regesto di progettualità attenta e sperimentale: la carta, il formato, il lettering, la legatura, i risguardi e tutto ciò che concerne la lavorazione editoriale sono il risultato del sodalizio di due o più mondi, la cui sintesi è in grado di avvalorare significativamente il segno verbale e la struttura visiva.” In questo modo, l’oggetto-libro diventa una occasione di sperimentazione espressiva, una invenzione artistica colma di connotazioni semantiche analizzabili sia in senso estetico che concettuale, una dimensione (tutta mentale) di leggere pagina per pagina l’opera d’arte, un connubio intelligente di forme e linee, di colori e materia, che insieme scrivono messaggi a volte oscuri e tormentati e a volte leggeri e ludici. Nella mostra presso la Fondazione Banca del Monte ritroviamo esemplari paradigmatici dei movimenti artistici degli anni Sessanta e Settanta, da Fluxus alla Poesia Visiva, alle declinazioni della sperimentazione verbo-visuale e del Gruppo ’70, sino a libri realizzati da artisti appartenenti al Nouveau Rèalisme, all’Architettura Radicale, all’Arte Povera, alle Poetiche dell’Oggetto, alla Transavanguardia, all’Azionismo Viennese, al Graffitismo. E, ancora, ai musicisti d’avanguardia, ai fotografi contemporanei ecc. Tra le testimonianze più interessanti: i libri di Isidore Isou, Allan Kaprow, Man Ray, Sol Lewitt, Ben Vautier, Yoko Ono, Kounellis, Oldenburg, Duchamp. Tra i libri d’arte più concettuali, quelli di

Alighiero Boetti, Mario Merz, Ketty La Rocca, Enrico Castellani, Giuseppe Chiari, Gianfranco Baruchello, Lucia Marcucci, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, John Baldessari, Robert Barry, Emilio Isgrò. Emozionanti e liriche le proposte di Massimo Barzagli, Fernanda Fedi, Giusi Coppini, Paolo Della Bella ecc. Sagace il libro metallico con le lattine compresse di Mirella Bentivoglio; ironici i lavori di Luigi Ontani, César, Luigi Mainolfi, Francesco Clemente; sempre rappresentativi di questo particolare genere espressivo i libri di Gino Gini e Arrigo Lora-Totino. Mentre, appaiono deliziosi i libri di Luca Alinari, di Gianni Bertini, di Umberto Buscioni, di Elio Marghegiani. Assai divertente il libro di Enrico Baj del ’69 con papillon di carta e cravatta in plastica. Tra le molteplici proposte possibili, ogni artista ha fatto del libro il luogo originale della propria teorizzazione e lo spazio privilegiato della personale ricerca, con lo scopo di promuovere il senso di un fare artistico più vicino all’osservatore e più intellegibile da parte di un lettore meno attento alle vicissitudini estetiche della contemporaneità. In tal senso, la raccolta di libri custodita nell’Archivio Palli chiede un’attenzione particolare in virtù del suo valore storico e storiografico. Di fatto, accanto alle edizioni in tiratura limitata, ai multipli o ai pezzi unici, nella collezione si trovano volumi che hanno fatto la storia dell’Arte contemporanea, la cui importanza è impossibile tralasciare nella messa in rilievo di pratiche e riflessioni. È necessario ricordare, infine, che molti libri d’arte si qualificano come documentazione di progetti, di happening, di perfomance e di eventi effimeri ma di alto slancio culturale generati dalla contaminazione di più generi linguistici e di più codici espressivi, nonché dall’esigenza di portare l’arte verso un più vasto pubblico. Maria Vinella GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 43


Fondazione Aria+Zerinthia, Contrada Rotacesta, Loreto Aprutino

Yona FRIEDMAN Jean-Baptiste DECAVÈLE No Man’s Land di Paolo Aita

S

enz’altro Sulmona. Ma anche Loreto Aprutino, Civitaquana, luoghi di un’Italia probabilmente minore, ma, più certamente, assidua, franca, concreta. Sono i luoghi di un Abruzzo felix con le sue valli che risuonano di un’armonia naturale, dove l’attività umana è in felice accordo con la disposizione locale. Qui i campanili, come indici alzati, sono testimoni di una creatività senza barriere, e sormontano colline che a loro volta dialogano con montagne lontanamente sovrastanti. Qui si avverte dappertutto che l’accoglienza è un utile ricambio degli usi locali con le esperienze dell’ospite, e c’è un’attitudine secolare

44 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Yona Friedman e Jean-Baptiste Decavèle, No Man’s Land, 2016. Courtesy Fondazione Aria. Foto Roberto Sala

all’ascolto, all’abbraccio con l’altro, che viene comunque accolto, sebbene di lui non si conosca niente. Credo che l’installazione di Friedman e Decavèle non poteva essere collocata in luogo migliore. Qui il piano e lo scosceso sono uniti con una prossimità davvero piacevole. Uno slargo naturale, un luminoso pianoro, fa accedere a una minuscola insenatura riposta, con un contrasto perfettamente armonioso. La stessa natura del luogo, dunque, sembra aver generato le istallazioni di Friedman e Decavèle, dove la parte superiore richiama l’aperto, il segno che auspica una lettura dall’altro, e rilascia i suoi arabeschi a uno sguardo superiore, mentre l’opera a valle, decisamente più segreta, vorrebbe essere casa, luogo in cui ci si sente protetti, luogo in cui l’ingegno dispone gli strumenti per la comodità del vivere. Qui l’equilibrio tra figura e astrazione, tipico dell’ideogramma, è perfetto, infatti si ricrea la ben frequentata fascinazione arcana e originaria degli alfabeti, per la massima suggestione. Le istallazioni hanno modi differenti, ma ugualmente diventano luoghi archetipici, dove il segno trova nuova giovinezza e attualità, riprendendo stilemi noti da sempre all’arte contemporanea.

Yona Friedman e Jean-Baptiste Decavèle, No Man’s Land, 2016. Courtesy Fondazione Aria. Foto Gino Di Paolo

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Yona Friedman e Jean-Baptiste Decavèle, No Man’s Land, 2016. Le incisioni del dizionario immaginario sugli alberi di noce. Courtesy Fondazione Aria. Foto Roberto Sala

Sembra che la natura stessa qui si sia soffermata a scrivere, e abbia deciso di confessarsi, di raccontare qualcosa di sé, e lo abbia fatto con il linguaggio di questi segni, infatti l’opera di Friedman e Decavèle sembra giacere qui da sempre. Procediamo, andiamo oltre, ma è come se ci insinuassimo ancor più dentro noi stessi. Paradossalmente, più avanziamo e conosciamo l’aperto, più ci addentriamo dentro il nostro proprium, e concepiamo strumenti per meglio dialogare con il nostro luogo più riposto e segreto. Evidentemente molte sono le teorie che supportano questa opera. Per Yona Friedman si parla di eco-architettura, di dialogo paritario tra immagine e realizzazione, dunque di etero-linguaggi, dell’accoglienza del differente, del radicalmente altro, con le espressioni di Foucault e Guattari, citati nelle relazioni di presentazione. Ma abbiamo anche ascoltato le teorie sull’inversione centro/periferia, sul vivere poeticamente, con un refrain di ciò che maggiormente circola nella filosofia contemporanea a partire da Heidegger, che andava necessariamente ricordato assieme al “pensiero debole”, uno dei frutti più cospicui della ricerca italiana. Tutto ciò è stato ben ribadito nell’incontro posto a chiusura della giornata, dove queste idee sono state esposte negli interventi di Pascal Beausse, Lorenzo Benedetti, Norberth Palz e delle stesso Jean

Baptiste Decavèle, mentre Domenico D’Orsogna ha puntualizzato sulla necessità ormai improcrastinabile di un passaggio da un’economia di tipo privatistico a una di tipo pubblico. Occorre anche citare la Fondazione Aria, promotrice, che ben ci lascia attendere mediante la presidenza concessa all’efficienza di Cecilia Casorati. A mio avviso, però, il clou di questa presentazione risiede nel nuovo rapporto instaurato con i luoghi mediante il camminare nell’arte. Lasciatemi dire che procedere a piedi ascoltando i versi dei poeti che qui sono nati (Anna Cascella, Daniele Pieroni, Marco Tornar), dalla declamazione di Mimosa Campironi, è stato uno dei rari momenti in cui non ho vissuto la cultura contemporanea come una trincea. Ho potuto godere, con un grande senso di pacificazione, la coesistenza (e, oserei dire, l’uguaglianza) tra la parte superiore dell’opera, creata con pietre locali, e quella inferiore, realizzata con esotici bamboo, del tutto estranei a queste zone. Locale e globale, esotico e tipico qui stanno convivendo, e hanno mostrato come ogni sistema economico-produttivo debba essere ecologicamente orientato. L’apertura, l’accoglienza sono gli unici modelli possibili affinché questo mondo non deflagri. È bello constatare che ormai tali indicazioni provengano sempre più frequentemente dal mondo dell’arte. n

Yona Friedman e Jean-Baptiste Decavèle, No Man’s Land, 2016. Courtesy Fondazione Aria. Foto Gino Di Paolo

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Yona Friedman e Jean-Baptiste Decavèle, No Man’s Land, 2016. Lo spazio senza pareti in bambù del Vietnam. Courtesy Fondazione Aria. Foto Roberto Sala

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Giuseppe Uncini, Dimore n.13, 1982. Cemento su laminato legno, cm 231x161x8.
Collezione eredi dell’artista

Galleria Poleschi, Lucca

Giuseppe UNCINI

C

on la retrospettiva “Dimore” i responsabili della Galleria Claudio Poleschi di Lucca non hanno voluto soltanto riproporre all’attenzione del pubblico uno dei cicli più prestigiosi del percorso artistico di Giuseppe Uncini ma anche creare un’occasione ottimale per tornare a riflettere su una questione non certo facile da dirimere: quella delle coordinate entro le quali inscrivere il rapporto che lo scultore marchigiano riuscì ad istituire tra una sicura vocazione al rigore metodico di matrice riduzionistico-costruttiva e la costante funzione regolativa, da lui stesso attribuita ad una tensione poetica pacata ma profonda, nella quale come minimo possiamo riconoscere il motore immobile di un controllo formale che non ha mai conosciuto cadute o deflessioni. Un’occasione ottimale in quanto il tema stesso di queste grandi ma ineccepibili composizioni, realizzate per la maggior parte tra il 1980 e il 1987, quello dell’abitare, ci appare subito percepito dall’autore stesso come un punto di arrivo rispetto al quale egli si sente autorizzato ad aspettarsi una condivisione di valori con il suo pubblico in grado di aspirare all’universalità senza per questo essere astratta, ovvero una condivisione fondata su un insieme elementare di esperienze e disposizioni d’animo che chiunque potrà sperimentare in una dimensione di immediata concretezza. Un’aspettativa, questa, che non avrebbe avuto la sua ragion d’essere se lo stesso artista non avesse sentito l’insieme di opere in questione ad un tempo come una sorta di complesso rimontaggio di tutti i suoi precedenti cicli di opere, (dalle Terre, ai Cementi, alle Strutture-Spazio, ai Mattoni, alle Ombre) ed una summa antropologica che ruota attorno ad uno o più principi fondativi posti alla base sia della sua vocazione artistica che della coesione culturale della comunità da cui essa emerge e a cui essa si rivolge. Quale sia il nodo capace di dare unità alle aspettative in questione ce lo spiega con ragionevole e ragionata chiarezza il curatore della mostra Bruno Corà, laddove nel suo puntuale saggio contenuto nel ricchissimo catalogo, anch’esso a sua cura, introduce la distinzione tra “dimora” e semplice “alloggio”; nell’alloggio la pratica dell’abitare è ridotta a mera funzionalità (ripararsi, rifugiarsi, difendersi dagli agenti atmosferici ecc.) nella dimora l’abitare è un “colere” cioè un insieme di comportamenti che ribadiscono e rinsaldano ciò in cui una comunità crede su di un piano sia etico che religioso. L’inevitabile passo successivo ovvero la citazione di Hölderlin a sua volta citato da Heidegger, un passo che Corà compie con tutte le dovute cautele, ci porta ancor più nel mezzo della questione che stiamo cercando di risolvere: l’abitare cui pensa Uncini proponendoci l’esperienza delle sue “Dimore” è un abitare poetico, quell’ “abitare poeticamente” che ci rende uomini e che ha reso uomini gli appartenenti ad un infinito succedersi di civiltà storiche, ciascuna riconsiderata secondo un proprio paradigma i cui limiti sono i limiti stessi della particolare forma di “non nascondimento” dell’essere, che essa ha potuto percepire. Senza fare di Uncini un heideggeriano, Giuseppe Uncini, Chiesa San Matteo Veduta della mostra

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Giuseppe Uncini, Dimore n. 40, 1984.
Cemento, ferro e pigmenti su laminato legno,
cm 320 x 450.
Collezione eredi dell’artista (Esposizione: XLI Biennale Internazionale d’Arte Venezia)

cosa abbastanza improbabile stando alle sue schiette convinzioni sia politiche che culturali, non ci si può comunque esimere dal notare tutta un’altra serie di coincidenze tra la sua idea di una poesia che ha a che vedere con l’atto del misurare e quanto scrive il filosofo tedesco nel suo saggio sull’abitare poetico e in altri scritti. Noi ci limitiamo qui ad osservare, per concludere, che il tipo di poesia cui Uncini pensa, e a cui allude anche in diverse interviste, è comunque una poesia legata al sociale, una poesia per tutti e di tutti, stando alla quale l’artista, che, scartando certe misure, certe forme e soprattutto ogni proliferazione inessenziale di segni, si contrappone all’artista-vate che illumina la strada agli altri da una postazione privilegiata di cui egli stesso sa, in fin dei conti, ben poco. Il che è come dire che il poeta-artista costruttore di “Dimore” è un poeta che ritrova in anticipo, in tutti i luoghi e in tutti prodotti non alterati della civiltà in cui si riconosce, ciò che già appartiene come concreta possibilità realizzativa ai suoi componenti, e che pertanto a tutti dona di nuovo ciò che già era loro sia per tradizione storica che per capacità specifica di immaginare il futuro. Paolo Balmas


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

PAV, Torino

ecologEAST Arte e natura al di là del muro

C

on “ecologEAST, arte e natura al di là del muro”, terzo capitolo di indagini sull’arte e l’ecologia dopo “Earthrise” e “Grow It Yourself”, il curatore Marco Scotini presenta una ricognizione densa e articolata di artisti provenienti dall’ex blocco sovietico, che, a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, hanno indagato i rapporti tra il fare arte e la natura. Fino al 26 giugno, presso il PAV di Torino, è possibile scoprire come in alcuni paesi dell’Europa centrale svariati artisti si siano occupati di indagare, in termini pre-ecologici, la consapevolezza e la coscienza dell’impatto ambientale e paesaggistico che le attività umane causano. La natura è stata usata non solo come materia e fonte d’ispirazione per le loro opere, ma anche come metafora dell’oppressione politica, prima che economica, e come mezzo di riscatto e di volontà d’indipendenza da un modello

Veduta della mostra

Imre Bukta, Courtesy dell’artista e Galleria Godot, Budapest A sinistra: OHO Group, OHO Group/CTC (Comunità Temporanea di Costruzione), Fieno, Granturco, Mattoni, 1969. Ricostuzione dell’installazione, 2016. Fieno, granoturco, mattoni, dimensioni variabili. Realizzazione: Collettivo CTC/Andrea Alauria, Mohsen Baghernejad, Valentina Bassetti, Valeria Dardano, Andrea Famà, Gabriele Nicola, Leardo Sciacoviello. Courtesy Marinko Sudac Collection, Zagabria. Fotografie di Bojan Brecelj. A destra: Jirí Valoch, Cautela! Albero!, 1971. Fotografia in bianco e nero , 18 x 13,2 cm. Courtesy Marinko Sudac Collection, Zagabria

Ana Lupas, Installazione Umida, 1970. Fotografie stampate su carta, testo originale dell’artista, rotolo di tessuto originale, 70 x 100 cm ciascuna, 50 x 12. Courtesy dell’artista e p420, Bologna

Veduta della mostra

oppressivo e brutale, tanto verso gli uomini quanto verso l’ambiente. Nei modi operandi degli artisti viene sovvertita, quando non annullata, quella gerarchia fra uomo e natura; esprimendo un’insofferenza sia verso un’ideologia soverchiante sia verso un comportamento inadeguato e sregolato verso l’ambiente. Negli stessi anni, solo per fare un esempio, inizia il prosciugamento del Mare d’Aral che a oggi risulta ridotto del 90%. In questi interventi molecolari, come li definisce il curatore, scopriamo le voci del dissenso che a crisi sociali e politiche rivendicano un’azione precisa, poetica e critica come nelle opere di Imre Bukta (Ungheria, 1952) che aprono la mostra con una serie di fotografie, dove l’artista trasforma gli strumenti di lavoro agricolo in oggetti con cui esprime il suo disagio verso le politiche agricole prevaricatrici del governo. Quando invece l’artista si trova in un contesto urbano si immagina vie d’uscita, come fa Rudolf Sikora (Cecoslovacchia, 1946), che elabora modalità di fuoriuscita dalla città, e indica vie di fuga tracciando fisicamente enormi frecce disegnate sulla neve oppure metaforicamente attraverso l’uso di altre discipline come l’astronomia e l’esoterismo, intessendo un dialogo fra uomo, ambiente, dimensione spaziali e temporali inestricabilmente connesse con le vicende umane quotidiane. A ribadire l’unione fra uomo e natura troviamo le opere di Petr Stembera (Cecoslovacchia, 1945) dove attraverso delle pratiche molto affini alla body art dell’azionismo viennese, sottopone il suo corpo a una rigida serie di norme come dormire sugli alberi o a digiuni prolungati, in modo da liberarsi attraverso una disciplina ancora più rigida di quella del regime in cui viveva. C’è anche chi recupera la natura come ambientazione per riti e storie come Zorka Saglova (Cecoslovacchia, 1942-2003), che crea degli happening poetici ed evocativi in cui mescola storia locale e vicende personali. C’è chi invece si mostra più realista del re e adotta gli apparati di propaganda di regime ma li rende talmente retorici da farli apparire fittizi, come fa Stano Filko (Cecoslovacchia, 1937-2015) che con un mimetismo ironico evidenzia l’abisso esistente tra la visione del regime e la realtà vissuta. Queste opere aprono alla riflessone comparata, se dall’altra parte della cortina si stava sviluppando un aspetto enfatico e magniloquente della natura, come in molti lavori della Land art, questi artisti, nonostante l’isolamento in cui alcuni di loro vissero, scelsero soluzioni formali aggiornate coi tempi tanto da darci un panorama in cui sono presenti tutte le innovazioni formali che caratterizzano l’arte occidentale di quel tempo, e sviluppano tematiche che solo decenni dopo sarebbero entrate nella consuetudine di molte persone, mostrando una consapevolezza della fragilità della natura e una risoluzione all’azione non comune. Mattia Solari GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 49


Galleria Continua, San Gimignano

Hans Op DE BEECK Ilya & Emilia KABAKOV Carlos GARAICOA

di Rita Olivieri

S

ono tre le personali di protagonisti della scena artistica internazionale che Galleria Continua di San Gimignano ospita nella mostra recentemente inaugurata, quella di Hans Op de Beeck, di Ilya & Emilia Kabakov, entrambe negli spazi dell’ex cinema e di Carlos Garaicoa all’Arco dei Becci. Il primo impatto è con Hans Op de Beck, la cui ricerca comprende più discipline, dalle arti visive, alla musica e al teatro. Belga, sconvolto dai recenti attentati terroristici a Bruxelles, la sua città, ha maturato la convinzione che l’arte possa arrecare una sorta di “conforto” agli orrori del mondo, rendendo significativi momenti di vita: “Il piccolo gesto, il momento di silenzio e il pensiero rassicurante sono specialmente adesso, di estrema importanza”, afferma l’artista, “per compensare abomini eticamente incomprensibili”. La mostra intitolata Small Things and Soothing Thoughts crea un percorso di assoluta meditazione e di silenzio. Le installazioni esposte sono costituite da piani, tavoli e mensole, con nature morte formate da oggetti del quotidiano e d’affezione, con sculture di figure umane a grandezza naturale, in piedi o distese, in contesti ordinari, in atteggiamenti semplici e ad occhi chiusi. L’artista ha sentito l’esigenza di confrontarsi con la scultura realista, con i temi classici e di ripensarla nella sfida di trovare per essa un linguaggio contemporaneo. Nello stesso tempo egli ha voluto fermare frammenti d’esistenza, sottrarli al fluire del tempo, nell’onnipresente colore grigio che ricopre ogni forma, quasi un velo sui piccoli ninnoli, sulle cose dei suoi paesaggi domestici, in un’archeologia di memorie, di reperti, di ricordi e figure, immersi in un’atmosfera distesa, insieme intima e soffusa. Ilya Kabakov, la cui opera è compiuta a quattro mani con la moglie Emilia, con la quale dalla fine degli anni Ottanta realizza tutti i suoi lavori, presenta opere storiche ed altre più recenti. Considerato il padre del concettualismo russo, è conosciuto per le sue “installazioni totali”, caratterizzate da una forte propensione narrativa, con elementi che vanno dall’architettura, al cinema, alla pittura, con i quali trasforma spazialmente il luogo dell’opera d’arte in ambiente scenografico e esistenziale. Il lavoro di Ilya & Emilia Kabakov si presta a vari livelli di lettura, da una parte collegato al contesto d’origine dei due artisti, dall’altra rispondente ad una prospettiva globale, ispirato al ricordo, al sogno e all’immaginario che crea utopie, nella consapevolezza che tutti questi aspetti possano contribuire al miglioramento della vita degli esseri umani. I Want To Go Back! (Reverse) del 1998 emerge con tutta la sua forza scenica nel palco dell’ex cinema della Galleria Continua: è una maestosa figura femminile, il cui ampio abito funge da sipario e permette l’accesso al suo interno, in una stanza di piccole meraviglie dove fermarsi e riflettere. I Will Return on 12

Hans Op de Beeck, Veduta della mostra. Galleria Continua, San Gimignano, Maggio 2016 Hans Op de Beeck, Pond (Circular), 2013. MDF, colla, intonaco sintetico, poliestere, 200 x 200 cm

Hans Op de Beeck, Veduta della mostra, Galleria Continua, San Gimignano, Maggio 2016

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Carlos Garaicoa, The Roots of the World, 2016. Installazione. Tavolo in legno, acciaio tagliato al laser, maniglie in acciaio e coltelli (tavolo: 90 x 50 x 160 cm) Tutte le immagini: Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Foto: Ela Bialkowska

Carlos Garaicoa, Testigos: A Solid Wall / Witnesses: A Solid Wall, 2015. Frottage e grafite su carta. Bioprima Book 100 gr. Modello di legno su balsa, 60 x 80 cm

April … del 1990 è un’opera dalla forte valenza espressiva, un olio su tela collocato al centro della platea, con il cielo ritratto tra le nuvole, o forse il mare, ed una sedia posta ad uno dei lati dove qualcuno ha abbandonato indumenti e scarpe: sinonimo di pienezza lascia intuire un mondo infantile fatto di fantasia, di sogni e voglia di libertà. In altre opere esposte, come ad esempio in The Children’s Corner del 1988 o in How Can One Change Oneself del 2010, sono ricreati degli ambienti domestici, spazi di intimità e di ricordo, in cui l’essenzialità, talora severa, degli oggetti e degli elementi inseriti, parla di altri tempi e luoghi. Nella seconda installazione la memoria si coniuga alle ali bianche di un angelo, a voler ritrovare simbolicamente la via della saggezza: “ ali che bisogna indossare - a detta dei Kabakov - ogni giorno, per un po’ di tempo, per essere migliori”. L’artista cubano Carlos Garaicoa con la personale Testigos/Las raíces del mundo espone lavori inediti, ideati appositamente per l’occasione, che mettono in luce l’interesse che l’architettura riveste nella sua ricerca, da lui ritenuta responsabile delle profonde trasformazioni e delle dinamiche socio-politiche in atto nel suo paese e più in genere nel mondo. La grande installazione presenta una serie di disegni, ognuno di questi corredato da una minuscola maquette realizzata a cesel-

Carlos Garaicoa, veduta della mostra. Galleria Continua, San Gimignano, Maggio 2016

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Ilya & Emilia Kabakov, I Want To Go Back! (Reverse), 1998. Compensato, copricapo, lampada, libro, figura in ceramica, sgabello, tavolo. Installazione, dimensioni variabili

Ilya & Emilia Kabakov, The Tribune, 2011. Materiali vari, installazione, dimensioni variabili

lo e riprodotta su carta mediante la tecnica del frottage, mentre al suolo campeggiano in una visione orizzontale ingenti travi consunte dal tempo e divorate da altrettanti minuscoli insetti che emergono qua e là nelle loro superfici. Viene a crearsi un contrasto evidente fra la massa scultorea a terra in evidente stato di declino e le opere a parete, dove il frottage è integrato con il disegno e la parola, in un astratto grafismo e in una pura liricità. Distruzione e costruzione sono gli aspetti dicotomici fondanti quest’opera che ricorrono spesso nella poetica dell’artista. Ad essi corrisponde anche l’installazione The Roots of the World del 2016, una doppia visione realizzata al di sopra e al di sotto di un tavolo, in cui quasi specularmente i grattacieli di alcune metropoli posti in basso rimandano a una fila di coltelli di varia misura collocati in alto, a esemplificare un mondo di “contenuta violenza”, secondo le parole di Garaicoa stesso e l’insita dialettica presente nella storia. n

Ilya & Emilia Kabakov, Veduta della mostra, Galleria Continua, San Gimignano, Maggio 2016

Ilya & Emilia Kabakov, Veduta della mostra, Galleria Continua, San Gimignano, Maggio 2016. Tutte le immagini: Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Foto: Ela Bialkowska Ilya & Emilia Kabakov, The Arch of Life, 2015. 5 sculture in vetroresina. Installazione, dimensioni variabil

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Cantiere Toscana Contemporanea

Loris CECCHINI Giovanni OZZOLA Sistemi di visione Sistemi di realtà di Rita Olivieri

O

riginale esposizione articolata nelle due personali di Loris Cecchini e Giovanni Ozzola, l’uno al Centro Espositivo di Villa Pacchiani a Santa Croce sull’Arno, l’altro a quello di San Michele degli Scalzi a Pisa: una mostra scaturita da un’ unica proposta incentrata sulla contemporaneità e sviluppatasi con il confronto e la collaborazione con due eccellenti realtà produttive del territorio pisano. Il progetto promosso dai Comuni di Pisa e di Santa Croce sull’Arno, in collaborazione con Il Centro per l’Arte Contemporanea “Luigi Pecci” nell’ambito del progetto regionale “Cantiere Toscana Contemporanea” e con Galleria Continua di San Gimignano, per la curatela di Ilaria Mariotti, ha avuto come scopo quello di una crescita culturale nel ripensare l’identità dei luoghi di appartenenza di due aziende che, conosciute a livello mondiale, operano l’una nel campo della lavorazione conciaria e dei pellami, la Superior S.p.A. di Santa Croce sull’Arno, l’altra nel settore delle tecnologie legate all’ingegneria elettronica, la Ids Ingegneria dei Sistemi di Pisa. L’operazione significativa a più livelli, in un percorso durato oltre un anno, ha messo in relazione un eccezionale patrimonio di saperi, quello dell’arte conciaria e delle più sofisticate tecnologie con la ricerca artistica, in un’osmosi di progettualità e di esperienze creative. Loris Cecchini da sempre dialoga con i materiali, naturali e artificiali, ne indaga le caratteristiche fisiche e i comportamenti, li scompone in nuove forme modulari attraverso giochi ottici, evidenziando nella sua opera uno stretto rapporto fra arte e scienza. La pelle particolarmente, l’ultimo dei materiali trattati dall’artista e appositamente per questo progetto, è stata utilizzata come rivestimento del tavolo esposto, opera nata dalla collaborazione con la Superior S.p.A.: un oggetto del quotidiano e contemporaneamente “d’affezione - secondo quanto afferma l’artista - scaturito dal ricordo dei vecchi scrittoi in pelle”. Tavolo parallelo alla terra, terra parallela al tavolo del 2016 è centrale nel percorso espositivo ed è costituito da un ampio piano sagomato su otto elementi, con la superficie in rilievo, evocante il paesaggio delle colline e dei paesi attraversati dal fiume della Valle dell’Arno, in un’atopica geografia dei luoghi: un tavolo come spazio di memoria, espressione di saperi filtrati dalla ricerca e dal linguaggio artistici, con un effetto voluto di “sospensione poetica”, citando le stesse parole di Cecchini, dimensione peraltro onnipresente e riconoscibile in tutto il suo lavoro. Emblematica in tal senso è l’installazione

Waterbones (shamble humble diagram) con innumerevoli moduli in acciaio che attraversano liricamente lo spazio, quasi come un’esplosione ordinata di atomi ed emanano una vibrazione lirica che fa pensare al proliferare della materia e all’emissione di vibrazioni sonore. In Wallwave vibration (anatomy of a diagram) del 2012, invece, la parete è scandita dal ritmo di forme circolari che vivono in simbiosi con essa, nell’ interazione di bianco su bianco, in un’indefinibile gioco di spazi, progettati architettonicamente. Con Peeling paints (Purple I and II) sempre del 2016, l’artista ha sentito il bisogno di tornare alla pittura: ha lavorato su un frammento d’intonaco diventato sostanza pittorica, creandovi tagli e crepature che fendono lo spazio, in rapporto con la parete che funge da supporto e in un richiamo ideale alla grande pittura, quella di Lucio Fontana e di Alberto Burri e alla loro sintesi di materia, colore, spazio. Come essenziale e nitida a livello iconico è la personale di Loris Cecchini, analogamente è quella di Giovanni Ozzola, seppure con presupposti e sinergie differenti. L’artista nella sua ispirazione è attratto dall’ignoto, dalla scoperta di un mondo spesso inconoscibile a livello intellettivo o puramente sensoriale, un mondo affascinante e denso di sorprese, da scoprire nei suoi attributi, da comprendere nelle sue caratteristiche più recondite: preziosa in tal senso è stata la collaborazione con ISD Ingegneria dei Sistemi per alcune delle opere esposte a San Michele degli Scalzi. Ozzola ha lavorato con una complessa progettazione artistica sui temi dell’invisibilità e della visibilità, con l’utilizzo delle tecnologie di rilevamento di cui l’azienda pisana è leader. Stealth–History –Pathos, I, II, III, IV è una installazione che svela l’invisibile, lo rende percepibile allo spettatore mediante forme in ferro di una apparente semplicità, frammenti di aerei stealth e di navi, forme solide e dialoganti per la forza del loro peso scultoreo con lo spazio, rendendo concreta l’originaria condizione di immaterialità che sta alla base della loro creazione. Trittico 10:35/12:05, realizzato anch’esso con la collaborazione con ISD Ingegneria dei Sistemi presenta sulla sua superficie le tracce di rotte particolari, scelte fra tutte quelle monitorate dal radar in una porzione di spazio circoscritta ed in un tempo definito: sono percorsi graffiati sull’alluminio e assimilati al fondo, grazie ad un sofisticato procedimento esecutivo, tracciati appena percettibili di movimenti nei cieli. Routes Ibn Battuta del 2013, anch’essa in mostra, è un dittico in tavole di ardesia, sulla cui base sono incisi suggestivi mappali, forse immaginari, forse effettivamente riconducibili a itinerari geografici di ricognizione e scoperta. L’idea del viaggio, non solo come destinazione finale, ma come occasione di esperienza lungo tutto il percorso è fondamentale nell’ispirazione di Ozzola. Stupore e sorpresa lo accompagnano, ampliamento dei confini della conoscenza e allargamento della percezione di ciò che ci circonda, in risposta anche a domande esistenziali relative al cammino dell’uomo e al suo posto nel mondo. n Giovanni Ozzola Stealth– History – Pathos, I, II, III, IV, 2016 Ferro cm 90 x 90 x 93,5; cm 91 x 104 x 90; cm 167 x 89 x 69; cm 90 x 90 x 91 L’opera è il risultato della relazione tra Giovanni Ozzola e IDS Ingegneria dei Sistemi. Centro Espositivo per le Arti Contemporanee SMS San Michele degli Scalzi, Pisa, 2016. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio

Loris Cecchini Tavolo parallelo alla terra, terra parallela al tavolo, 2016 MDF fresato rivestito in pelle, strutture di alluminio rivestite in pelle ciascun tavolo cm 75x100x 7 max L’opera è il risultato della relazione tra Loris Cecchini e Superior S.p.A. ed è stata realizzata grazie al contributo di Renato Corti S.p.A. Villa Pacchiani Centro Espositivo, Santa Croce sull’Arno, 2016. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio

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Museo Laboratorio Nitsch, Napoli

ARENA Opere dall’opera di Rino Terracciano

I

l Museo Archivio Laboratorio per le Arti Contemporanee Hermann Nitsch celebra con la mostra Arena. Opere dall’opera, i sette anni di attività e i settant’anni di Peppe Morra, testimoniando la lunga amicizia tra il mecenate napoletano e l’artista austriaco. L’esposizione ridefinisce ancora una volta l’architettura interna al museo attraversando gli ambienti di quella che lo stesso artista considera la sua casa. I relitti ritornano alla collezione originaria dopo aver occupato le sale del Museo austriaco di Mistelbach. Un’operazione che si confà perfettamente con gli obiettivi della fondazione che si propone di riscrivere l’assetto espositivo della struttura ogni due anni. La Fondazione partenopea ha contributo all’estensione di un’arte totale e alla diffusione di linguaggi performativi avvicendando negli anni artisti come Gina Pane, Günter Brus, Allan Kaprow e il gruppo Fluxus. Una città nella città, felicemente adagiata su un pendio del quartiere Avvocata, prestata alla pianificazione di progetti ambiziosi, non ultimo la disposizione di parte della collezione nella residenza in salita San Raffaele e la realizzazione del nuovo giardino di Hermann Nitsch. L’opera di Nitsch è un’osmosi incessante tra lo sconfinamento cromatico oltre lo spazio pittorico e la mollezza della carne che lascia le sue tracce sui bianchi supporti, un realismo in cui la lucentezza dei corpi e il rossore dell’incarnato hanno la stessa identica vivezza dei fiori e dei colori della sua tavolozza. Sin dal principio, la sua pratica è stata complemento costante della realtà, un respiro che ha manifestato la transitorietà dell’esistenza, che ha subìto cambiamenti e frenate improvvise, come nel caso dell’arresto dopo la 45. Aktion, performance avvenuta nel 1974 a Napoli nello Studio Morra, ma che forse, grazie a questi episodi, si è preservata in una bolla nostalgica, rimanendo autentica, perseverando nella ricerca della verità in tutte le sue forme. Nel 1957 il principale esponente dell’azionismo viennese dà origine al Teatro delle Orge e dei Misteri, la sua creatura più complessa, un’opera sinestetica di tre giorni e tre notti, in cui combaciano liturgie cristiane e pagane, teatralità e organicità. Elabora quel realismo che Bacon trasfigurava tramite crocifissioni e dilaniazioni della carne; insegue la ricerca della verità fin dove la luce bagna gli interstizi della materia, sino all’interiorità dei corpi, sino all’oscurità. L’addizione della componente corale e l’adesione massima del fruitore, introducono l’angoscia dell’uomo in una dimensione

Hermann Nitsch, Opere dall’Opera. Tutte le foto: Courtesy Fondazione Morra, Napoli.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Hermann Nitsch, Opere dall’Opera. Tutte le foto: Courtesy Fondazione Morra, Napoli.

cosmica, lo costringono a muoversi al di fuori del perimetro della solitudine. Il realismo della carne di Nitsch diventa l’anello di congiunzione tra i realismi degli anni cinquanta, il teatro di Artaud e la proliferazione delle pratiche della body art. La ricerca del reale di Nitsch diventa spasmodica. Nella sua Teoria dei colori dichiara che: “il colore è una forza che va ben al di là di quanto l’occhio riesca

a vedere […], colori che sono altrimenti invisibili, diffondono la loro forza attiva negli eventi viventi del nostro corpo”. In questo modo l’artista diventa esecutore sacrale di riti che trovano il suo fondamento nella sublimazione dei sensi, intercettando quei fenomeni sia negativi che positivi frutto di un’azione corale. Ogni gesto, ogni elemento, concorre alla realizzazione dell’opera; che sia cosparso col sangue, cera d’api o paraffina,

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Hermann Nitsch, Opere dall’Opera. Tutte le foto: Courtesy Fondazione Morra, Napoli.

sono solo tracce, nient’altro che testimonianze dell’origine e della metamorfosi della materia. Il percorso attraverso i relitti traccia quella provvisorietà tipica del suo lavoro, eterogenea e pullulante. La 54. Malaktion è la genesi nascosta di questa scrittura espositiva. Il punto di partenza, che, come una notte, conserva al suo interno l’embrione della luce per risalire a galla attraverso aperture e ferite. Suggestivo e al contempo alienante, il tunnel sotterraneo si presenta come una lunga prospettiva in cui si alternano decine di tele composte dal camice del pittore, su cui letteralmente crolla il colore “Schütterbilder”: un binario anestetizzante percorso dalla nerezza delle colature e il bianco della juta. Di notevole fattura L’ultima cena, un’illustrazione anatomica che evoca le radici della cristianità; e ancora, Il viaggio al piano interrato continua incontrando il colore del sangue, il pigmento insito nei corpi: decide di ampolle e becher ordinate per forme e volumi, alcune riempite di vino o altri liquidi, tre video, e le scale cromatiche, forse tra le più belle, un itinerario intestino nella natura umana e nell’epifania delle cose. Al piano superiore i nove pannelli raffiguranti la Gerusalemme Liberata, opera risalente al 1971, sono ancorati al soffitto che divide la prima sala dalla capriata; rifiniti dall’artista nei giorni precedenti l’inaugurazione, ricostruiscono un cielo ideale ammirabile dalla passerella collocata sulla pedana del salone centrale che compone l’installazione della 130. Aktion, circoscritta tra le pareti mobili su cui poggiano i relitti della performance di Cuba. Nella sala delle colonne e in capriata l’introspezione e la 56 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

tensione della carne provoca inaspettati risvolti formali: composizioni granulose, solchi e crateri che si sono coagulati nel tempo, alvei di fiumi sanguinolenti, vi è una conflagrazione della rappresentazione che invade i relitti sui tavoli con organicità, cultura cristiana e pagana, strumenti chirurgici: rilucenti, incolonnati sui tavoli, sono indice di un’operazione già effettuata o che deve ancora concludersi, finanche la riproduzione di un ordine naturale delle cose. Nitsch è un uomo fedele alle sue idee e che osteggia quel muro che si è venuto a creare tra un’arte elitaria e il suo pubblico. Diventa fautore di una cosmogonia luminosa che contiene al suo interno la vita e la morte, e dove tutto passa attraverso “il trauma della nascita”, e quindi della creazione. L’omaggio a Burri è l’emblema di questa trasformazione materica, di un continuo divenire tra principio e finitezza. Essere Hermann Nitsch significa avvalersi di meccanismi gestuali per articolare nello spazio il proprio pensiero, enfatizzare sensi poco adoperati; lasciare che l’azione arrivi ad una progressione importante, protraendosi oltre il gesto, oltre la visibilità del relitto, rimanendo impressa nel nostro subconscio anche a distanza di mesi. Tutta l’esperienza Nitschiana sta nella profondità del ricordo che porta alla mente odori pregnanti, sapori e sensazioni tattili più intense e vibranti del relitto stesso. È lì che la sua arte, reduce da un lungo processo transitorio, arriva alla metabolizzazione e al suo parziale compimento. n Hermann Nitsch improvvisa al pianoforte alcuni brani celebri in omaggio ai 70 anni di Peppe Morra

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Hermann Nitsch, Opere dall’Opera. Tutte le foto: Courtesy Fondazione Morra, Napoli.

Tre domande per Peppe Morra a cura di Raffaella Barbato

“Fin dalla fine degli anni Sessanta, ho profuso le mie energie per contribuire al cambiamento culturale della mia città, l’arte per me non è mai stata relegata ad una mera dimensione estetico-visiva, ma è coincisa con la vita; ed è stata per me ragione di vita” (Peppe Morra). - Definire Peppe Morra, agli albori dei suoi settanta anni, solo come uno degli storici galleristi di Napoli è riduttivo per un anarchico idealista - come ami definirti -, che ha sempre subito e assorbito la fascinazione per l’arte, vissuta come unico strumento di libertà. Una scelta consapevole, quella di operare all’insegna della ricerca culturale, svolta da Peppe Morra con determinazione e convinzione, che si delinea con maggior incidenza negli anni novanta, con il passaggio da via Calabritto, cioè dalla Galleria Studio Morra al Rione Sanità, con la costituzione della Fondazione Morra e nei successivi progetti. Passaggio, sinonimo non solo di un cambiamento istituzionale, ma di una specifica concezione di estetica per l’esistenza, che trova acume nel rapporto di profonda stima ed amore che ti unisce ad Hermann Nitsch. Peppe, parlaci della tua concezione di questo legame tra estetica e vita, e della centralità della dimensione collettiva nella ricerca artistica, oggi! - Custodisco in me la fiammella della curiositas, che forse, di tutte le componenti dell’ispirazione, è la più vigorosa e insieme la più preziosa. Mi piace rimettere tutto in gioco, affrontando le nuove idee e rivisitando quelle già perseguite, accrescendole di significati altri, con la trepidazione dell’esordiente. Questo accade quando si vive la propria vita come un percorso iniziatico. Come un viatico estetico formativo, secondo un itinerario non rettilineo, ma a spirale, dove le illuminazioni improvvise e i sussulti del cuore contano più di ogni continuità, evadendo dal recinto dell’apparenza quotidiana. La dimensione collettiva nella ricerca artistica è per me imprescindibile, simile ad un’operazione magica ancora più che un processo artistico. E tutte le operazioni magiche contengono in sé una buona dose di imponderabile, una serie di effetti capaci di stravolgere tutte le cause evidenti. Un compito questo, fondato sulla consapevolezza che una programmazione strutturata e condivisa, può produrre beneficio e salvaguardia dei territori, determinando positive ricadute oltre che culturali, anche sociali. Un motivo, che mi ha spinto a scegliere sempre, come sedi del mio lavoro, palazzi di pregio storico, ma ubicati in zone deprivate da cui partire per 58 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

mettere in moto una pianificazione atta a riempire i vuoti determinati dall’ incuria e la disattenzione. Dopo lo Studio Morra di via Calabritto, ho preferito stabilirmi infatti in zone del centro storico di Napoli socialmente problematiche e avvilite dal degrado. Dapprima al Rione Sanità, nell’affascinante Palazzo dello Spagnuolo, progettato del Sanfelice, prima sede della Fondazione Morra, poi ai bordi del rione San Lorenzo, al Palazzo Bagnara, raro e severo esempio di architettura classico-barocca: in filigrana è la mia concezione di un’azione formativa dell’arte e del bello che deve riverberarsi sui luoghi. Così è avvenuto anche per la sede del Museo Hermann Nitsch, nel complesso quartiere Avvocata. In linea con questa tendenza etica, lo spazio nasce su un’interessante fabbrica tardo ottocentesca dismessa, ubicata a monte di Piazza Dante, in un contesto sociale dimenticato, ma rilevante e ricco di storia. - Il 23 aprile scorso è stata inaugurata Arena. Opera dall’Opera, un’ampia raccolta di relitti provenienti dalle azioni teatrali di Hermann Nitsch dagli anni sessanta ad oggi; uno nuovo allestimento delle opere dell’artista viennese che rimarranno in permanenza al Museo fino a settembre 2018. Dal 2008 ad oggi, in questi otto anni, che evoluzione ha conosciuto Il Museo Archivio/Laboratorio di Hermann Nitsch e quali cambiamenti sono previsti per il futuro? Come progetto di “rigenerazione urbana” ha soddisfatto in parte le tue aspettative? - Arena. Opera dall’Opera segue con coerenza la vocazione del Museo come luogo per le idee, per lo studio, la riflessione e l’aggiornamento della poetica di Hermann Nitsch. Il Museo infatti avverte la necessità di trasformarsi, periodicamente, con eventi dedicati al maestro viennese legati dal filo rosso di una ricomposizione logica e emotiva. Lo scambio di opere del Maestro con il Museo omonimo di Mistelbach, l’alternanza e la presentazione delle inedite opere svolte nel tempo a livello internazionale da Nitsch, sostiene ricomposizioni logiche ed emotive di grande impatto e fa’ dello spazio uno straordinario luogo in divenire. Concepisco il Museo Nitsch come un centro pulsante per comunicare cultura; dove, seguendo una linea progettuale precisa, non si custodisce l’arte ma piuttosto la si corrisponder nel sociale, nelle energie di coloro che vogliono attingervi per ricreare quel grande circuito conoscitivo anche attraverso la connessione di reti di collaborazione nazionali ed internazionali, con forme innovative di diffusione delle arti e della cultura estetica. Anche gli ambienti della Biblioteca, un prestigioso ambiente ritagliato da un corpo di fabbrica confinante al Museo Hermann Nitsch, è parte integrante di questo tessuto d’idee. Articolato in più sale contigue, è caratterizzato dalla presenza di un vasto ordine di volumi, libri, cataloghi, riviste, monografie, la cui area di pertinenza va dal futurismo al dadaismo, dall’happening a fluxus, dalla poesia visiva all’azionismo viennese, fino alle ultime tendenze neoavanguardistiche. Oltre a essere centro


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Hermann Nitsch, Opere dall’Opera. Tutte le foto: Courtesy Fondazione Morra, Napoli.

di formazione, e sede del dipartimento per azioni rivolte alla didattica, è soprattutto un’area per eventi plurimi, fra cui l’itinerario in progress Mostre d’Archivio, inaugurato da Luca Maria Patella, e spazio ideale per situazioni artistiche diverse: video, fotografia, musica sperimentale, installazioni in cui il fruitore può diventare protagonista e parte attiva. Il complesso del Museo Nitsch ci ha regalato momenti di grande soddisfazione realizzando le nostre aspettative previste a breve e lungo termine, su cui lavoriamo instancabilmente senza soste. - “Creare ed amare. La bellezza è essenziale all’esperienza di felicità”. Alla luce di questa affermazione che ritrovo nell’abstract informativo sui piani futuri, ti chiedo di parlarmi del progetto il Quartiere dell’Arte; un’idea progettuale nata da una sinergia con Franco Coppola, Roberto Paci Dalò e Nicoletta Ricciarelli nel 2004 e corredata da un “manifesto” a firma di Pasquale Persico - economista -. Un viaggio visionario, ma concreto, che parte dal recupero di un’area suggestiva del Quartiere Avvocata, come l’ex convento delle Cappuccinelle; ora Casa Morra, collezione d’arte contemporanea-il gioco dell’oca 100 anni di mostre. - Il Quartiere Avvocata / Quartiere dell’Arte, è un progettoprocesso finalizzato alla costituzione di una rete per connettere tra loro i diversi soggetti operanti in questo quartiere e che si costruisce nel fare sui temi della cultura e dell’arte all’interno di occasioni e di spazi di incontro, confronto, studio ed approfondimento. Una visio- Hermann Nitsch e Peppe Morra ne che sta conurbandosi con altre iniziative ai fini di contribuire l’elevazione culturale del territorio, mediante interventi tesi alla valorizzazione di beni d’interesse storico, archeologico, della natura e dell’ambiente, delle tradizioni locali e del turismo, attraversando più forme d’ arte, e contestualizzandole allo scenario storico culturale esistente. Il programma 100 anni di mostre “Il gioco dell’oca” è nato con l›intento di creare opportunità di sviluppo diversificate. La positiva ricaduta sul territorio è sostenuta attraverso una pianificazione a più livelli di strutturazione. A tal proposito è in corso la realizzazione

di uno spazio espositivo per la mia collezione privata d’arte contemporanea, di laboratori espressivi, destinati alla formazione e allo sviluppo delle capacità creative tramite l’avvicinamento delle giovani generazioni alla pratica artistica, di residenze d’artista, finalizzate allo sviluppo e al consolidamento dell’eccellenza creativa, tramite il sostegno agli artisti (o a gruppi di artisti, anche se non formalmente costituiti), il cui nucleo sarà nella struttura di Casa Morra, il Seicentesco Palazzo appartenuto alla nobile famiglia Ayerbo D’Aragona Cassano, 4.000 mq con una scala di straordinaria bellezza anch’essa realizzata su disegni del Sanfelice, nel quartiere Mater Dei. Qui è prevista anche la creazione di uno spazio adibito ad archivio e laboratorio. Infatti, alcune opere di artisti invitati, previo accordo con la direzione artistica, resteranno patrimonio del territorio ospitante, così da costruire un museo-memoria in progress, centro artistico di documentazione nella nostra città. Attraverso il confronto con la mutevole trasformazione dei linguaggi, con la stimolante problematicità dell’indagine, con l’entusiasmo che ci sostengono, Fondazione Morra/ Museo Hermann Nitsch/Casa Morra, mantengono, in tal modo, vivo e proficuo il dialogo culturale, puntando particolarmente anche sui più giovani, non solo artisti, ma anche studenti, stagisti, studiosi, ricercatori, creativi. Sulla loro capacità di stupirsi ed emozionarsi di fronte all’apparizione del “meraviglioso contemporaneo” prodotto dal dialogo tra differenti strumenti. n

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Studio Trisorio, Napoli

Carlo ALFANO

«C

omunque, per me si tratta di non smettere di interrogare quella rete di rapporti che designa la rappresentazione per dimostrare, in fine, come sia impossibile. Il mio lavoro tende, appunto, a riflettere su questa impossibilità». Questa dichiarazione, formulata da Carlo Alfano (Napoli, 1932-1990) nel 1985 in dialogo col critico Angelo Trimarco – tra i maggiori compagni di strada ed esegeti dell’artista napoletano -, sembra fornirci una straordinaria chiave di lettura per comprendere il suo periodo maturo, il cui inizio, una volta lasciata alle spalle la fase dell’arte programmata e cinetica – ma il rigore e la sobrietà tipici di tali tendenze saranno sempre un tratto distintivo del suo linguaggio – può collocarsi alla fine degli anni sessanta, più o meno in coincidenza con il celebre Archivio delle nominazioni (1969), e prosegue per poco più di vent’anni, stroncato solo dalla morte prematura. La mostra in esame, esponendo esclusivamente opere datate nell’arco del decennio ottanta, vuole essere un focus sulla seconda parte di tale periodo. Personalità di indubbia, spiccata, originalità nel contesto della Napoli del secondo Novecento – ove le esperienze più interessanti degli anni cinquanta-sessanta-settanta passano per il concretismo, per l’oggetto o per l’ azione, ma raramente innanzi tutto per la riflessione intorno agli strumenti dell’arte e, più specificamente, al problema della rappresentazione, mentre in età postmoderna la città diviene il centro italiano forse più emblematico della Transavanguardia con il suo ipercitazionismo, che non va appunto confuso con il dialogo intessuto da Alfano con l’opera del Caravaggio – mai nume, neanche inconsapevole, di una schiera di continuatori-epigoni sul territorio, malgrado la forza della sua proposta – gli artisti campani di generazione più giovane nei cui modi si possa riscontrare un’autentica relazione

con il linguaggio di Alfano si contano sulle dita di una mano -, Alfano connota dunque il suo percorso come una continua interrogazione su quello che è uno dei nodi cruciali per l’arte del Novecento e per il pensiero novecentesco in generale. Se le avanguardie storiche, fino all’Internazionale Situazionista, lavorano per un superamento della rappresentazione, cercando una prassi senza più separazioni – e a qualcosa del genere negli anni sessanta-settanta pensano anche alcuni gruppi campani – ma sperimentano costantemente i limiti di tale tensione, Alfano – in un processo che, in parte, permette di raffrontarlo, tra l’altro, con le esperienze dell’arte concettuale statunitense – scopre, all’inverso, lo scacco del rappresentare. Michel Foucault – riconosciuto dallo stesso Alfano come una figura cardine per se stesso e per tutta la sua generazione – non solo affronta, attraverso gli attrezzi della filosofia, la medesima questione in ambito artistico – si pensi, per limitarci ad un unico esempio, alla sua densa riflessione su Magritte – ma la estende in una critica generale della somiglianza, dell’identità e del soggetto, riconducendo tali nozioni a tecniche di potere – una valenza che del resto, implicitamente, potrebbe lecitamente riconoscersi anche nel discorso dell’artista napoletano. Le opere in mostra, con la loro severità cromatica – prevalenza schiacciante di nero e bianco, mai alcun colore caldo – onde ridurre al minimo le distrazioni incidentali per il riguardante e concentrarlo sul cuore della questione – costituiscono così una sorta di campionario degli inciampi della rappresentazione: strisce nette che fratturano il campo pittorico; figure che si sdoppiano nell’impossibilità di ricongiungersi, o forse non sono mai state un solo corpo; aree di colore, forme anatomiche, moti che inevitabilmente divergono, benché si sfiorino o si scontrino. Ogni motivo aneddotico – si veda il mito di Eco e Narciso – non vale se non come trascendimento in una situazione plasticoconcettuale. D’altra parte proprio negli spunti storico-mitici e nel correlato riferimento ad una secolare tradizione pittorica è possibile riconoscere quello che è forse il maggior elemento di divergenza rispetto ai modi dell’autoriflessione anglosassone, tipici ad esempio di un Joseph Kosuth. Se quest’ultimo avanza infatti notoriamente una distinzione tra analisi specifica su di un singolo medium – come appunto la pittura - ed analisi generale sul concetto stesso di arte, ritenendo che solo la seconda opzione sia quella da seguire, Alfano – e qui si potrebbe facilmente scorgere una traccia della matrice squisitamente europea, mediterranea, della sua ricerca – ricadrebbe piuttosto nella prima, circostanza che però non sembra precludergli l’articolazione di un discorso che va oltre il mero medium pittorico. Stefano Taccone Carlo Alfano, Figura n.9, 1984. Filo, acrilico e grafite su tela, cm 223x173 ca

Carlo Alfano, Senza titolo (figura blu), 1985 Acrilico e grafite su tela, cm 210x160,5 Carlo Alfano, Eco-Discesa n.2, 1981-1982 Grafite, acrilico e filo su tela, cm 203x253

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria FabulaFineArt, Ferrara

Giorgio CATTANI

G. Cattani, Passaporto culturale, 2016

D

i Là da Dove per Andare Dove è la mostra con cui Giorgio Cattani, nell’inedito ruolo di gallerista, ha aperto le porte di FabulaFineArt, una realtà diventata concreta, grazie anche al credere disincantato di Romano Pazzi, imprenditore che ha messo a disposizione i propri locali, ex sede della storica azienda familiare di onoranze funebri, rinnovandoli completamente, non solo nella forma ma anche nello spirito. È una mostra, questa di Cattani che pungola il senso del tempo e della Storia, generando al contempo un dialogo fra generazioni: le invita, le accoglie, le scuote, le incita a una reazione, ma soprattutto a riappropriarsi del proprio spazio culturale. Ecco che l’istallazione Di là Da Dove diventa emblematica, al pensiero che muove gli intenti stessi di Fabula, nel ritratto della Contessa Braghini Rossetti, nobildonna ferrarese, volto e simbolo di una borghesia illuminata di primo‘900; quella stessa classe, emancipatasi nell’arco di un secolo, su cui grava oggi tutta la responsabilità di un crollo: sociale, politico, economico e morale. Un crollo che opprime le nuove generazioni, simbolicamente rappresentate da un feto posto a terra, pietrificato, rotto e scheggiato, sul quale premono pesanti barre di ferro che lasciando presagire uno stato di stallo culturale nel quale tutti siamo oggi imbrigliati. Nella stessa stanza c’è anche l’opera Mare Nostrum. Cattani se ne fotte di Damien Hirst. Un titolo forte e dissacratorio che ribalta concettualmente il pensiero sotteso a L’Impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo di Hirst, recuperando quel dato poetico dimenticato e cancellato da una concezione speculativa del mercato dell’arte, riportando l’osservatore a interrogarsi, sì sul senso dell’esistenza, ma soprattutto sul come abitare questa esistenza. Ma l’opera parla anche dell’ambiente. La terra (l’unica che abbiamo) con le sue acque contaminate da una morte indotta dall’uomo, si materializza qui nel tonno, non più lì per ricordarci il senso della nostra morte, ma a rivendicare con grido silente la sua ingiusta prigionia. Una prigionia, tuttavia, che può ribaltarsi in libertà, laddove il sogno e la speranza rinvigorisce in forza vitale, in una luce, in una perla blu, quel punto che Cattani inserisce nella serie di disegni C’è sempre un blu nell’oscuro mare. Ma Mare Nostrum richiama anche, nell’espressione romana, il senso della Storia, creando al contempo un ponte con l’attualità. La terminologia, infatti, si riferisce anche alle vaste missioni di salvataggio in mare di migranti avvenute fra il 2013 e il 2014 nel Canale di Sicilia, in seguito sostituita dall’Euopea “Triton” e altri nomi che non cambiano la sostanza delle cose. Le persone muoiono, accadono cose inimmaginabili ai confini delle nostre terre e noi dimentichiamo anche i confini più prossimi del nostro vicino. Non avete più la musica nel cuore è quindi l’installazione che riporta alla memoria tale oblio, andando dritta al cuore di un sentimento consumato dall’apparenza. Non ci sono più eleganti poltrone di velluto ma vecchie sedie arrugginite, sul leggio non c’è più uno spartito ma un libro che, simbolo di un codice culturale universale, è privato di un direttore capace di farne sentire il suono, e c’è una passerella, vecchia, instabile e pericolante

G. Cattani, W Lenin, W Stalin, W Mao Tse-tung. Materiali vari, cm 150x150, 2016. Photo credit Matteo Cattabriga

che fa il verso agli innumerevoli red carpet sui quali oggi sfila chiunque in qualsiasi manifestazione. “Troppo Rumore”!!!…e siamo tutti dei “profughi culturali”. Su questa consapevolezza, Cattani chiude l’apertura porte di FabulaFineArt con un gesto fortissimo: l’inedita performance intitolata Restar fermi per andare dove. Un intervento che per la sua dinamica ha presupposto corpi andanti senza alcuna indicazione – spiega l’artista – dove studenti del Liceo Artistico Dosso Dossi e figuranti del Teatro Off di Ferrara hanno sostato – in stato di attesa – nella prima sala della galleria, stipandola con la propria presenza e impedendone l’accesso ai visitatori. Una performance che ha sovrapposto visivamente lo stato di quelle masse di persone pigiate l’una sull’altra, in fuga dalle guerre, in fila per ricevere cibo e schiacciati alle frontiere, a quella dei giovani bloccati nella condizione di “Profughi Culturali”. Una condizione dalla quale liberarsi con forza per pretendere di essere protagonisti della cultura: inventandola, sovvertendo i canoni, il sistema che vuole le nuove generazioni prive di pensiero e senza voce. E allora Cattani, prima di lasciare andare via tutti, consegna il “Passaporto Culturale”, vidimandolo con tanto di timbro, marchio Fabula e propria firma. Un passaporto che è un lasciapassare per il futuro ma anche la chiave per diventare protagonisti del presente: per non restare più in attesa, per sentirsi cittadini della cultura. Ma Cattani ha la capacità di stupire continuamente. A mostra in corso entra in galleria una nuova opera: W Lenin, W Stalin, W Mao Tse-tung, che guarda a slogan e ideologie con la consapevolezza di un’idea di giustizia sociale fallita. Nella provocazione c’è l’incitamento a una ripartenza. Dichiara Cattani: “La Rivoluzione oggi è ripristinare i valori di base: la famiglia, la scuola premiale, un lavoro meritocratico. [...] Gli slogan del passato restano un antico reperto da rimandare al mittente”. Maria Letizia Paiato

G. Cattani, Di là Da Dove, 2016. Install. spazio cm 200x300x400, materiali vari. Photo credit Matteo Cattabriga G. Cattani, Mare Nostrum, Cattani se ne fotte di Damien Hirst, 2016. Install. spazio cm190x80x175, materiali vari. Photo credit Matteo Cattabriga

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Galleria Nicola Pedana, Caserta

Gianni DESSÌ

M

algrado il suo importante curriculum, il suo assurgere ad artista internazionale – che espone su entrambe le sponde dell’oceano – abbastanza precocemente, Gianni Dessì (Roma, 1955) – storico esponente di quel gruppo che nei primi anni Ottanta venne identificato col nome del quartiere di Roma in cui era sito il loro atelier, San Lorenzo, o con la precedente funzione di quell’atelier stesso, il Pastificio Cerere – tiene solo ora con la mostra In chiaro, a cura di Ivan QuaroGianni Dessì, In Fede, 2016. ni, la sua prima personale in Acrilico su calco in gesso, 40x40 cm Campania. Il titolo deriva da una delle opere in mostra, una lastra in vetroresina alta quasi tre metri, larga più di due e sviluppata anche in profondità, in virtù di forme quadrangolari asimmetricamente aggettanti, che si fa supporto di un’ampia striscia di tempera blu, fendente obliquamente il campo, nella quale si iscrive una linea che traccia la parvenza di un paio di mani brandenti un disco bianco, come lunare. In chiaro rimanda però parimenti, nota il curatore, al «bisogno dell’artista di essere esplicito», ad una pittura, stando alle parole dello stesso Dessì, «che cerca la sua evidenza, il suo fare ampio e figurato e che dispiegandosi incontra l’immagine,

Gianni Dessì, Primo, 2016 Olio su tela 50x40 cm

vocazione, tra luci e ombre, alla vita e all’arte». Egli sembra dunque avanzare il netto rifiuto di una cripticità di linguaggio, di un intervallo marcato tra essenza ed espressione, presumendo una sorta di non troppo mediata transitività tra dentro e fuori «Colui che parla chiaro ha chiaro l’animo suo», recita la frase di San Bernardino da Siena posta in epigrafe al testo di Quaroni. Traccia di tale attitudine potrebbe rinvenirsi nella tendenza che quest’ultimo individua in Dessì «a mostrare la pittura nella sua evidenza talvolta scabra e imperfetta, con il preciso intento di innescare quei processi di vibrazione sensoriale e di mobilità di significati che gli sono propri», trasformando così la pratica pittorica stessa in «un teatro di accadimenti, di eventi che la ragione e il sentimento traducono in racconto». Drammatico racconto di una continua, imprevedibile, accanita tenzone tra due antitetici non colori, il bianco e il nero – ma anche il giorno e la notte, la conoscenza e l’ignoranza, il bene ed il male… – senza che mai si verifichi un minimo accenno di sintesi – grigiastra – tra i due, è, ad esempio, una serie di quadretti in mostra, per i quali si potrebbe riconoscere una sorta di progenitore nella pittura d’azione statunitense di Franz Kline, dal quale però li distacca nettamente la vocazione, più o meno esplicita, a volgersi in figura. Il medesimo tragitto dal non oggettivo all’impronta figurale presiede alla serie China Suite – Sculture d’acqua, ove la monocromia dell’azzurro, oltre alle innumerevoli

Gianni Dessì, Terra mia, 2016 Olio su tela 50x40 cm

Gianni Dessì, Historia, 2016. Olio su tela 60x45 cm Gianni Dessì, In un fiato, 2016. Olio su tela 60x45 cm

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Gianni Dessì, Insieme, 2016. Olio su tela 60x45 cm


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Gianni Dessì, Nero, 2016. Olio su tela, 50x40 cm

Gianni Dessì, Solitario, 2016. Olio su tela, 50x40 cm

variazioni e sfumature tonali che l’acquerello è in grado di produrre sulle carte cinesi, genera masse vagamente antropomorfe di una consistenza enigmatica, forse prossime al liquido, ma forse, meglio ancora, gassose. Di quelle facilmente capaci di decomporsi sotto i nostri occhi, magari per andarsi a produrre in nuove, inimmaginabili riconfigurazioni. Queste due serie, alternate ai quadretti che variano sul simbolo dell’infinito, alla perfetta bicromia del busto In Fede, che, giocando evidentemente attraverso il titolo col nome della persona

ritratta – lo scrittore e curatore Federico de Melis – è parte di un ciclo che l’artista dedica a tutte le persone che hanno avuto un ruolo nella sua formazione, e naturalmente alla grade lastra In chiaro, danno così luogo ad un percorso che cerca un costante equilibrio tra identità e variazione. Le singole opere che compongono l’esposizione si configurano pertanto come altrettanti momenti di sviluppo divergente di un itinerario che conserva tuttavia sempre una matrice costante. Stefano Taccone

Gianni Dessì, Scultura d’acqua C (china suite), 2016 Acquerello su carta cinese, 138x68 cm

Gianni Dessì, Scultura d’acqua N (china suite), 2016 Acquerello su carta cinese, 138x68 cm

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Walter Fusi, Senza Titolo 1981. Tecnica mista su carta fabriano, cm 150 x 382. Courtesy Galleria Open Art, Prato

Galleria Open Art, Prato

a Galleria Open Art di Prato dedica ad uno degli artisti che ha seguito nel tempo con maggiore interesse, quel Walter Fusi che in tutta l’area culturale fiorentina si è guadagnato, a partire dagli anni difficili del secondo dopoguerra una sicura fama di difensore della libertà individuale dell’artista disposto per la sua causa anche a bruschi cambiamenti e prolungati silenzi. Mutamenti e rielaborazioni del vissuto che nel suo caso

hanno dato frutti straordinariamente rigogliosi nel senso di una inesausta e luminosa produttività che ha saputo incantare ed entusiasmare un pubblico sempre più vasto e proiettato verso il superamento di ogni ritardo provincialistico, sia pure giustificato da una nobile ed avvolgente tradizione locale. Il ciclo produttivo dei cosiddetti “Carmina Burana”, cui Fusi, venuto a mancare nel 2013 all’età di 89 anni, dedicò gli ultimi quindici anni della sua lunga carriera, è forse in quest’ottica il suo più dirompente raggiungimento, in quanto capace anche di superare quello precedente delle cosiddette “Penetrazioni” che aveva suscitato una viva attenzione della critica più avanzata ed orientata al sociale negli anni che vanno dal 1966 alle soglie degli ’80. Di superarlo in quanto paradossalmente capace di sacrificare al culto della libertà anche la nozione stessa di ciclo artistico

Walter Fusi, Carmina Burana n. 58, 2002. Tecnica mista su tela, 240 x 240 cm (64 tele 30 x 30 cm).

Walter Fusi, Carmina Burana 320, 2011. Tecnica mista su carta (216 cartoncini applicati su tavola) cm 180 x 180

Walter FUSI Bagliori pagani

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Walter Fusi - Carmina Burana n. 199 2007 - tecnica mista su tela - 90 x 210 cm (21 tele 30 x 30 cm.).

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

intesa come momento di uno sviluppo esperienziale proiettato verso altri futuri raggiungimenti, ideologicamente sempre più stringenti in vista di un raggiungimento definitivo che – si sa bene - non arriverà mai e che, comunque, quandomai giungesse veramente, proprio in quanto appagamento ideologico definitivo, ucciderebbe in un sol colpo la libertà stessa dell’artista deprivato della sua libido per mancanza di ostacoli da superare e nuovi territori da esplorare. Del resto è il nome stesso prescelto per questo “ciclo non ciclo”, cui è dedicata la mostra, a parlarci di una intenzionalità in qualche modo estrema nella sua voluta paradossalità. I Carmina Burana, come è noto, sono infatti una raccolta alto medievale di brevi componimenti poetici dovuti ai cosiddetti “clerici vagantes” , studenti universitari di varia provenienza e cultura, in cui si alternano argomenti morali, religiosi, erotici e persino licenziosi, legati da un medesimo atteggiamento critico nei confronti della corruzione e dell’avidità di potere della Curia Romana. In altre parole il meglio che la tradizione medievale ci ha lasciato quanto a compresenza di opere diverse che lungi dall’annullarsi e dal contraddirsi si rafforzano e si rilanciano proprio in virtù della loro natura di frammenti in qualche modo in sè completi, ciascuno pensato in funzione di una gioiosa e conviviale esecuzione canora. Tralasciando qui il problema della riduzione ad una medesima “cantata scenica”

con una autonoma riscrittura musicale messa insieme nel 1937 dal compositore tedesco Carl Orff che ci porterebbe troppo lontano per via della sua marcata inattualità, risulta evidente invece come la vitalità degli antichi frammenti posti a convivere in un medesimo “codex” che si guarda bene dal volerli ridurre ad unità e semmai ne esalta la disponibilità a contribuire, ciascuno a suo modo, a configurare un internazionalismo culturale ancora in nuce ma già vivacissimo, ha potuto far da modello alla decisione antiideologica di Fusi il quale da un certo momento in poi ha voluto sdoganare tutti i migliori risultati delle proprie esperienze del passato trovando sempre nuovi modi di farli convivere su di una medesima superficie pittorica memore senz’altro del credo concretista presto affermatosi dopo gli anni dell’astrattismo eroico di un Kandinskij, di un Malevič e di un Mondrian, ma anche già animata da una curiosità di stampo mass-mediale per la presentificazione delle culture e la infinita riproducibilità delle icone meglio capaci di trasmettere la carica enegetica da cui sono scaturite e di cui si sono caricate nell’atto e nell’attimo stesso del loro libero concepimento. La mostra, aperta fino al 24 settembre, è corredata di una pregevole monografia edita da Carlo Cambi, a cura di Mauro Stefanini e testi critici di Beatrice Buscaroli. Paolo Balmas Walter Fusi, Radioso, 1992. Tecnica mista su tela cm 160 x 180. Courtesy Galleria Open Art, Prato

Walter Fusi, Carmina Burana n. 212, 2008. Tecnica mista su tela, 120 x 150 cm (20 tele 30 x 30 cm). Courtesy Galleria Open Art, Prato

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Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino

PASSO DOPO PASSO I SEE A DARKNESS: RASSEGNA VIDEO MAGALI REUS

“P

asso dopo Passo”, mostra che conclude la 10a ed. della Residenza per Giovani Curatori Stranieri, prende in esame opere d’arte di epoche diverse, insieme a pratiche artistiche che riflettono sulle condizioni sociali degli esodi. La mostra è legata al paesaggio politico italiano: quello di un paese che con le questioni migratorie ha un rapporto tipico. La penisola mediterranea è stata disegnata e ridisegnata da penetrazioni, seguite da ondate di espatrio e insediamento che hanno dato luogo a una dinamica complessa e eterogenea. Centotrentasettemila tra rifugiati e migranti hanno attraversato il Mediterraneo, dirigendosi verso l’Europa, nei primi sei mesi del 2015. Secondo l’Unchr, l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono l’83% in più rispetto al 2014. Un’emergenza che viene considerata dall’Onu “di proporzioni storiche”. Ma l’Europa e l’Italia sono in grado di far fronte a questo spostamento di popoli, per la maggior parte in fuga da guerre e alla ricerca di condizioni economiche migliori in cui vivere? Attingendo a precedenti storici, la mostra presenta diversi libri di Depero. Idealistiche e a tratti ingenue, le nobili visioni di Depero si scontrano con una realtà che fa riflettere, e che riporta le aspirazioni dell’individuo, e la sua successiva disillusione, al crollo del sistema e ai rivolgimenti sociopolitici degli anni Trenta e Quaranta. Facendo un salto in avanti, le opere di Carla Accardi, Luigi Ontani e Salvo sono indicative di una genesi più giovane. Ad esempio, la collezione dei disegni di Salvo, realizzati sulla carta da lettere di diversi hotel, rivela il suo percorso di ricerca sul paesaggio mediterraneo come luogo di ideale rifugio, oltre a registrare, allo stesso tempo, gli spostamenti dell’artista. Infine, le opere di Vanessa Alessi, Elisa Caldana, Collettivo Fernweh, Nicolò Degiorgis e Turi Rapisarda dimostrano una proseguimento degli stessi temi. Altre opere, come Corral Gates di Cady Noland (1989), o W-HOLE (2014–in corso) di Vanessa Alessi, evidenziano i limiti e i confini costruiti dallo spazio come simbolo geo-politico: il luogo della mostra è delimitato da una bandiera trasparente, fissata in cima al tetto della sede della Fondazione. W-HOLE (2014–in corso) ci propone un tentativo di delineare lo spazio evocando, allo stesso tempo, identità personali e geografiche. Appartenente alla collezione torinese, la installazione di Cady Noland si concentra sul ruolo di mediazione architettonica dello spazio e del corpo. richiamando Depero e il suo fiducioso viaggio a New York, documentato dai frammenti testuali e dai disegni (che formano una sorta di poesia concreta), contenuti nel suo manoscritto del 1931: New York Film Vissuto: Primo Libro Sonoro. Benchè vago e incompiuto, l’obiettivo di chi procede Passo dopo Passo è sindacale: riportare il dibattito dell’arte sociale nell’ambito disciplinare, spogliandolo della megalomania demiurgica, dalle ambizioni sbagliate, dalla retorica interdisciplinare. Nella fondazione piemontese è poi esposta, I See a Darkness, una mostra collettiva che raccoglie sette video. Il titolo è preso a prestito dall’opera di Joao Onofre, che mette in scena la performance musicale di due bambini, chiamati a interpretare l’omonima canzone di Will Oldham, una ballata su una insoddisfazione. L’ambivalenza diviene testuale nel video, di Onofre, in cui le immagini passano da un buio assoluto a un progressivo chiarore, fino ad arrivare a un bianco pieno, abbagliante. Musica e melanconia sono una figura di spicco anche nella video-installazione di Ragnar Kjartansson, The End, opera composta da 5 proiezioni che immergono il visitatore nel panorama delle Rocky Mountains canadesi. Qui l’artista mette in scena un esecuzione musicale country, tenendo insieme i registri del romantico e dell’ironico. Un altro paesaggio montano è al centro del lavoro di Marine Hugonnier, The Last Tour, un viaggio in mongolfiera tra le vette del Matterhorn; ambientato in un futuro che renderà inaccessibili i siti turistici. Divinatorio e elegiaco, il video erige un’adulterata analisi dello schermo come ready-made. Provocante e fantastico, Deer di Victor Alimpiev, mette in scena una sequela erotica, quella di una coppia divisa che si riverbera in un rimpianto doloroso. L’artista russo dà forma tangibile alla materia sentimentale, orchestrando l’immagine attraverso il suo registro teatrale. La malinconia nell’opera di Cerith Wyn Evans parte da una storia reale, il violento omicidio di Pasolini sulla spiaggia di Ostia; il ricordo doloroso si stempera nella luce ambigua del crepuscolo marino, e si riaccende nelle parole di Pasolini, dando vita a uno show precario, che illumina lo spazio della memoria. Realtà e finzione si mescolano nel lavoro di Laure Prouvost,che nel video Wantee evoca la figura di Kurt Schwitters, associata a quella immaginaria del nonno, artista concettuale la cui last work fu la creazione di un tunnel che unisse il suo salotto all’Africa. Intorno alla presunta scomparsa del nonno nei meandri oscuri del tunnel si intesse

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una narrazione sentimentale che ripercorre storie e vissuti. Un progetto speciale è quello di Meris Angioletti, che presenta l’installazione Stanzas, prodotta dalla Sandretto per la Biennale di Venezia del 2011. Angioletti ricorda un altro personaggio mitico della storia dell’arte, Aby Warburg, cui dedica un’opera che scompone l’immagine filmica nei suoi elementi basilari, luci e suoni, nella tradizione dell’experimental film, creando un parallelo tra lo spazio del set cinematografico e quello psichico, tra la proiezione filmica e le dinamiche mentoniere. Immagine e video hanno una comune radice, quella del vedere, del rendere chiaro l’oscuro, del portare alla coscienza ciò che non lo è e naturalmente dell’unire il gesto, l’azione, alla parola. Nella collettiva, la discussione sulle costellazioni di significati, arriva dopo un cammino non lineare, non dimostrativo, ma costruito a strati attraverso un continuo gioco di rimandi; non un semplice testo di critica, ma a sua volta una minaccia di oscurità (che rende esplicita l’origine e l’utilizzo della stessa oscurità). Infine, per la parte monografica la visione si concentra su QUARTERS: la prima personale in Italia di Magali Reus (n. 1981 all’Aia; vive a Londra). Nelle sue opere, la Reus elabora e integra tutta una gamma di influenze formali e riferimenti storico-artistici, dimostrando che la memoria moderna è assoluto strumento di citazione: allude alla sfera domestica ma anche a quella industriale, all’aspetto funzionale e a quello decorativo. Come punto di partenza formale utilizza tipologie di oggetti di uso quotidiano, ma che a malapena notiamo. Tutti gli oggetti che gravitano nella nostra orbita quotidiana o svolgono una funzione specifica, a cui è orientato il design dell’oggetto stesso, o in alternativa hanno uno scopo estetico. I segni di Reus riescono a equilibrare la palese complessità dei suoi argomenti, ricchi di rimandi a molteplici architetti contemporanei e non, con un numero considerevole di esempi, i quali permettono al lettore non avvezzo alla terminologia prettamente neo-plastica di comprendere le tesi di fondo e di cogliere il filo conduttore di empatie plastiche. Ovviamente, nella loro – consapevole e necessaria – vaghezza. Gabriele Perretta

Magali Reus, QUARTERS

Nicolò Degiorgis, PEAK, 2015 Vanessa Alessi, W-HOLE, (2014–in corso)


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Hilario Isola, L’Aruspice

Guido Costa Projects, Torino

Hilario ISOLA

N

ella presentazione alla mostra I Chiodi, l’Ombra e l’Aruspice, si legge nel c.s. che la “Galleria ha il piacere di ospitare la prima personale di Isola. In mostra tre nuove opere, ciascuna elemento di cicli più articolati,dedicati al rapporto tra espressione e soggetto, tra persona e maschera, di volta in volta analizzato secondo prospettive concettualmente diverse”. In queste parole è effettivamente sintetizzato il caso Isola. Caso per l’immediatezza e la facilità con la quale l’artista riesce a corrispondere con un pubblico ambivalente, per l’abbondanza delle suggestioni, per la continuità e l’unità della sua produzione scultorea e soprattutto installativa. Produzione che puntualmente la curatorialità accoglie, valuta e introduce nell’ambito assai popolato dell’artisticità italiana più significativa dei nostri anni. Più significativa, in quanto testimonianza dell’antimoda. Hilario Isola si è inserito d’autorità nel panorama della nuova installazione fin dal 2000, allorchè le installazioni al MAXXI e al Macro di Roma, destarono un interesse largo e concorde.Il segreto del buono risultato di questa mostra, è quello di Innovare la tradizione senza infrangerla, ma facendo leva su di essa per quel tanto di costante e di atemporale che posseggono le visualità umane; inventare con mente genuina senza sfarfalleggiare sulla realtà o intorno alla realtà, ma restando entro di essa per scoprire tutto ciò che ancora non è in luce: per illuminarlo artisticamente; cambiare e depositare senza essere né tradizionalisti né vaneggiatori: queste le doti dell’installatore ecclettico. Doti che nessuno più oserebbe negare a Hilario Isola. Doti che I Chiodi, l’ombra e L’Aruspice ripresenta in una dimensione di impianto sempre solido: eppure palpitante, molto incorporea, emozionata. Capitolo I è una raccolta di ritratti, in qualche modo individuali e universali, di uomini e donne celebri della storia della filosofia, trasformati in archetipi eterei, o densi di materia, nati secondo l’idea di esibizione, perché il simbolo ritrattistico, anche là dove è nascosto dalla microessenza, sembra a Isola installatore fran-

co di dazio critico e perciò felicemente libero, affidato all’estro antropologico e allo spiazzamento. La serie di micro-sculture in forma di chiodi, dedicati ai volti dei Filosofi, ci introduce al pensiero e alla riflessione sul concetto stesso di soggetto. Socrate, Nietzsche, Giordano Bruno, sono identità poderose nella storia dell’umanità, ma l’artista li rimpicciolisce ai limiti della percezione visiva, come granelli indistinti nella perenne risacca del pensiero. Accanto alle miniature, l’artista propone una gigantesca maschera (proveniente dalla serie degli Aruspici), in cui l’astrazione del volto si rapprende in una sorta di materia primordiale, vivente e proliferante, qual è la pianta della vite ed i suoi resti. Da materiali elementari e componenti naturali, Isola riporta “volti noti alla memoria collettiva”. L’ombra che dal raspo d’uva in bronzo dà vita alle sagome sul muro, materializza i lineamenti rispetto alle miniature dei volti scolpiti nelle leghe metalliche. Il contatto del visitatore con il bronzo, il suo ruolo nella vita dei profili, trasferisce il significato della scultura al momento del passaggio dalle facoltà tattili alla percezione. L’esperienza corporea diventa complice dell’impressione dell’immagine nella memoria di ciascuno, e la rende durevole quasi quanto la materia solida con cui è realizzato il grappolo d’uva, dispositivo per «scolpire» l’ombra sulla parete nella combinazione del suo movimento con la luce che lo illumina. A quali condizioni siamo disposti a parlare di soggetto? In che modo un mondo artistico si può manifestare al soggetto e, manifestandosi può produrlo e generarlo in quanto soggetto incarnato, aperto al possibile, al mondo e agli altri?. L’arte è costitutivamente esposta all’azione del tempo perché non è mai identica, ma sempre soggetta al mutamento, non solo fisico, ma anche, e soprattutto, mutamento che Ella stessa determina attraverso le proprie scelte e azioni. Divenendo fattuali attraverso la motivazione, le azioni si declinano come possibilità di esistenza perché agendo determinano chi sono, mentre la motivazione trova il proprio fulcro nella temporalità. La possibilità dell’azione e quindi della libertà viene così ricondotta all’apertura al tempo, alla totalità e, in primo luogo, a una nozione di mondo come totalità delle nostre possibilità d’azione. L’esperienza dell’altro, per poter essere realmente tale e davvero formativa, deve essere in grado di presentificarmi un soggetto autenticamente dotato di una originaria alterità. In conclusione l’ultima opera di Isola è da segnalare non solo per l’ampia padronanza visiva, ma anche per la chiarezza ed efficacia con cui sono esposte le problematiche affrontate, in un continuo rinvio, valido strumento di comprensione anche nei casi di maggior difficoltà. Su queste basi il soggetto si disvela come un essere caratterizzato anche nel senso della passività, attraverso il quale il segno del soggetto recepisce il mondo, ne viene affetto, prima di metterlo in forma attraverso i propri atti. Un opera da osservare e da leggere più volte, per riscoprire tutta la vitalità e l’attualità dell’installazione: il corpo vivo, l’istinto, le pulsioni, le emozioni, il rapporto con l’altro sono infatti tutte declinazioni del sentimento, del fatto che l’ombra e la maschera ci propongono di “passare dal pensare al sentire”, per scoprire che l’indubitabilità dell’arte risiede proprio in questo sentire. Gabriele Perretta Camera - Centro Italiano per la fotografia, Torino

Francesco JODICE

F

rancesco Jodice presenta Panorama, la prima ricognizione sulla sua carriera. La mostra, a cura di Francesco Zanot, presenta l’investigazione di Jodice dello scenario geopolitico contemporaneo e delle sue trasformazioni sociali e urbanistiche, nell’utilizzo di tutti i linguaggi della contemporaneità, alternando fotografia, video e installazioni.

Francesco Jodice, What We Want, Tulum Pueblo, M05 A-B (dittico), 2006, courtesy l’artista

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Museolaboratorio Ex Manifattura Tabacchi Città S.Angelo (Pe) Sotterranei dell’Accademia di Belle Arti di Urbino

Vito BUCCIARELLI Siamo tutti impermanenti

C

on una carriera alle spalle lunga quasi mezzo secolo e considerato dalla critica fra i maestri della nuova scultura, Vito Bucciarelli nelle sue ultime esperienze espositive, rispettivamente all’Ex Manifattura Tabacchi di Città Sant’Angelo e all’Accademia di Belle Arti di Urbino, mette in scena un percorso lineare, anche se non prettamente cronologico, di opere fra le più espressive del proprio percorso artistico. Da un lato, queste lasciano affiorare quell’idea d’impermanenza, da sempre sottesa al suo lavoro ma qui manifestatamente più palese, dall’altro muovono riflessioni che si agganciano, evolvendone il significato, al movimento agravitazionale, che dalla fine degli anni ’80 in avanti è diventato cifra distintiva del suo lavoro. Di questa esperienza, nata all’Aquila e con riscontri in tutta Europa, il cui tratto peculiare è rappresentato da una pittura di matrice luminescente, dove il visibile è tale anche laddove campeggia il buio, persiste soprattutto la ferma volontà di mettere in discussione le

Senza titolo, 2015. Installazione mis. var. Ferro zincato, acqua con blu metilene, sfera al terzo fuoco diam. cm 10, carta pesta

Senza titolo, 2010. Ceramica misure variabili e motorino elettrico

logiche che legano il riconoscimento della forma al suo contenuto espressivo, ricodificandole in un spazio che valica i confini del suo supporto, fino ad interagire con l’ambiente stesso in cui sono collocate. In tal senso, possiamo affermare che, l’intero corpus di opere di Bucciarelli si espande in interventi ambientali, dove il luogo che le ospita determina il creare di un senso di empatia con chi si pone in dialogo con esse. Il senso di appartenenza a un “luogo”, ma anche la sua negazione, e il suo attraversamento, diventano sintomatici all’esperienza stessa del vivere, dove il sociale si sovrappone all’individuale, e il singolare si fa metafora di un messaggio universale e viceversa. Ecco dunque, che l’immagine stessa di Bucciarelli (spesso una statuetta seduta con le mani sulle ginocchia), il suo autoritratto: vero e proprio genere che affonda le sue radici nel passato, è documento e testimonianza della sua presenza, di una vita che si fa icona del flusso stesso dell’esistenza, rapportata all’universo che ci circonda e ci sovrasta ma anche al più terreno sostare nella realtà della quotidianità. Una vita che, come ogni esistenza, secondo Calvino rappresenta: «un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». Una riflessione che spinge l’artista a considerare e riconsiderare sempre nuovi e variabili i punti di vista, assumendo il ruolo di narratore e descrittore di quegli stati alterati della coscienza, in cui l’uomo spesso e volutamente s’immerge, per esplorare i confini più remoti dell’animo, quella parte non decodificabile dalla scienza, priva di controllo e che apre spaccati nebbiosi e confusi sulla nostra stessa natura. Bucciarelli è uno “psiconauta”, un nomade, un viandante sospeso in posizione agravitazionale, diventando egli stesso perno oscillante dei paradossi che quotidianamente viviamo. Un paradosso che si palesa nello stato d’impermanenSenza titolo, 1976, 2015. Tela dipinta cm 150x210. Acciaio, tela stampata calamita. In primo piano: Senza titolo. Sfera in terracotta, diam. cm 60, rame, acqua con blu sfera terzo fuoco diam. cm 8

Senza titolo, 1976. Ceramica terzo fuoco, cm 45x16x19, sfera al terzo fuoco diam. cm 8 Senza titolo, 1976. Ceramica terzo fuoco, cm 45x16x19

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Senza titolo, 2016. Ceramica terzo fuoco, cm 40. Rame, acqua, con blu metilene, sfera al terzo fuoco diam. cm 10

Senza titolo, 2010. Ottagono, legno di faggio cm 100x19. Terracotta, ceramica e acqua, sfera al terzo fuoco diam. cm 5.

za che volente o nolente interessa tutti, e che la nostra epoca ostinatamente rifiuta di accettare, cercando di prolungare il più possibile la vita terrena. Quella di Vito Bucciarelli è una dichiarata introspezione nella quale la valenza emotiva assume un peso proprio nel contraltare dell’evanescenza, una poetica sostenuta anche nella sperimentazione di tecniche che lo agevolano a mantenere un distacco da tutto ciò che è “sensibilmente dato”, come la fotografia, necessaria e indispensabile all’indagine sulla materia «intesa nel suo intangibile sostrato immaginale». Bucciarelli, che si misuri con la scultura, con la modellazione plastica in terracotta e ceramica, con l’installazione o con il disegno, prosegue imper-

turbabile nell’esercizio del togliere peso agli oggetti, percorrendo in questo la via tracciata, ancora una volta da Calvino, nella sua ossessiva e continua sottrazione di peso: ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; fino a togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio per cercare quella “leggerezza” che tuttavia, non si dissolve come sogni nella vaghezza e nel caso. Come per Calvino, per Bucciarelli è importante la precisione e la determinazione, che corrisponde al rigore e all’esercizio, esemplare nella sequenza di opere, fra storicizzate e inedite, che raccontano la sua lunga ricerca artistica. Maria Letizia Paiato

Senza titolo, 2001. Tela dipinta con led, struttura in ferro cm 50x120, ceramica Senza titolo, 1976, 2015. Tela cm 160x260. Telaio ferro zincato, cm 270x180x19. Acciaio e tela stampata, calamita. In primo piano: Senza titolo, 2010, legno dipinto diam. 100 x19 e ceramica cm 64

Senza titolo, 1976, 2015. Tela cm 150x200. Telaio ferro zincato, acciaio e tela stampata, calamita. In primo piano: Senza titolo, rame, acqua con blu metilene, sfera al terzo fuoco diam. 10 e ferro zincato. Sagome in legno dipinto cm 130x110

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Ale Guzzetti, Affective robots - NAUKIDES DISCOBOLUS, 2014 - Robotic circuits Sensor Plaster Plastic- 27x20x42 ognuno

Valmore studio d’arte – Vicenza

Ale GUZZETTI Sculture che osservano

C

on il sottotitolo arte interattiva: dall’elettronica alla robotica Valmore studio d’arte ripropone il lavoro di Ale Guzzetti con opere che rappresentano il suo trentennale percorso sulla convivenza tra Arte e Scienza dando vita ad un agglomerato di stili e materiali del tutto inusuale. È così che le sue sculture, dotate di circuiti elettronici, diventano interattive producendo immagini, luci, suoni e voci interagendo con lo spettatore e ciò che le circonda. Tra i primi artisti italiani dediti all’arte tecnologica e interattiva, all’inizio degli anni ’80 dà il via ad una proficua ricerca sui rapporti fra arte e tecnologia. Lavora alle Sculture sonore: agglomerati di oggetti in plastica di uso comune (bottiglie, boe, tubi, …) che alloggiano circuiti elettronici o dispositivi luminosi in grado di emettere suoni, rumori, voci e luci, in risposta alle sollecitazioni esterne. Attorno agli anni ‘90 allarga la ricerca artistica e alle sue creazioni aggiunge gli Acquerelli Elettronici e i Vetri Parlanti. I

Ale Guzzetti, Ten robot portraits DANTE WITCH CYRANO PINOCCHIO, 2014-2015 - Resin Robotic circuit Sensor - h50 ognuno

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

primi, con l’aiuto di un elaboratore, processano motivi musicali creando immagini sintetiche; i Vetri Parlanti invece sono sculture di vetro soffiato in grado di elaborare e reagire a stimoli sonori o di movimento provenienti dall’ambiente circostante. Entrando nel nuovo millennio aumenta la sinergia tra ambiente circostante e opera d’arte. Inizia così, in contrapposizione all’idea di scultura monumentale localizzata in un luogo, il progetto Techno Gardens installazioni di micro-sculture robotiche alimentate a pannelli solari, diffuse sul pianeta in luoghi naturali

e giardini di particolare pregio e capaci di rapportarsi simbioticamente con il territorio. Accentua in anni recenti il rapporto con la robotica: particolarmente significativi i suoi Affective Robots busti scultorei in alluminio, plastica e circuiti elettronici, dotati di grandi occhi tecnologici che permettono alle opere di scrutare l’ambiente e lo spettatore , ribaltando il ruolo dell’osservatore, che diviene l’oggetto osservato. Monica Bonollo Ale Guzzetti, in alto a sinistra: Sound sculpture MAJORINO POETRY, 1988 plastic+ electronic circuits, cm 80x30x44; al centro: Talking Glasses - TIME MACHINE n.2, 2002 blown glass electronic circuit light, cm 40x42x28; A lato: Sensitive Picture - LOOK AT ME, 2012 resin robotic circuit sensors, cm 64x67x16; in alto, a destra: Immaginary playmate, 1989 plastic electronic circuit sounds, cm 50x40x165 Nella pagina a fianco, al centro: Ale Guzzetti, Techno Garden Project- EXPLORER MINIROBOT Mount Koya Shukubo Temple Japan microrobot Solar cell, cm 10x5x3

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Dvorak Petrovica - Centro per l’Arte Contemporanea del Montenegro, Podgorica

Rosario GENOVESE Poetico Universo Opere dal 1987 al 2016

L’

imponente mostra dell’artista siciliano Rosario Genovese, allestita (dal 2 giugno al 3 luglio 2016) negli spazi del Centro d’Arte Contemporanea del Montenegro, è un excursus di 30 anni, dal 1987 ad oggi, che attraversa la sua produzione artistica, in cui gli spettatori vengono guidati e coadiuvati da pannelli esplicativi che precedono le varie sezioni della rassegna. Il lavoro dell’artista catanese è partito, dalla metà degli anni Settanta da un realismo fotografico ed ha poi proseguito la sua ricerca lavorando sulla base della tessitura cromatica, approdando a temi e posizioni ideologiche assolutamente nuove. Dal 1984 infatti ha cominciato ad interessarsi al macrocosmo che ci circonda, ai pianeti, al sistema solare, alla nostra e ad altre galassie che ha preso in prestito come modelli oggettuali e stimolo “visivo” ed “emotivo” per giungere ad una sua concezione di forma, colore e materia, indagando sulla struttura primaria di tali modelli e filtrando il tutto attraverso la propria personalità per approdare ad una visione nuova del concetto primario di “spazio cosmico”. Tantissimi sono i materiali espressivi che il nostro artista ha usato e, a tal proposito, in un testo degli anni Novanta Enrico Crispolti parla di “un simbolismo cosmico e tellurico attraverso la maggiore immediatezza fisica colore-materia e di materie quotidiane come strofinacci o corda di cocco. Traguardando dunque una credibilità tangibile dei segni d’un richiamo cosmico e tellurico, ora non più illustrato ma come interiorizzato in archetipi, secondo una remota familiarità da ancestrale, antropologica a mitica.” Dal 2010 il disegno e la pittura dominano le tele e i supporti lignei, con scenari fantastici che rappresenta prima in ogni singola stella e dopo nelle costellazioni, sotto forma di installazioni, in un viaggio tra immagini surreali, misure, proporzioni, spazio, materia, colori, mito e fantasia. I suoi ultimi lavori, presenti in mostra, sono il frutto di una ricerca sulle stelle binarie a contatto che porta l’artista a realizzare delle opere doppie che imitano e ripercorrono la nascita e lo sviluppo condiviso dei due astri gemelli attraverso la sua espressione artistica. Ed è proprio questa realtà ultraterrena ad incuriosire l’artista e a condurlo ad uno studio approfondito della relazione tra uomo e cosmo. Sedotto dalla grandezza e dalla maestosità dell’universo ne ricerca regole, equilibri e composizione per offrire al fruitore una visione privilegiata dello stesso, rappresentata con precisione matematica, arricchita e pervasa dal suo estro creativo. Non si può che rimanere affascinati da questa arte che emoziona l’artista così come colui che la osserva. La mostra, organizzata dall’Ambasciata italiana in Montenegro e patrocinata dal Ministro della Cultura Pavle Goranovic è a cura di Ermenegildo Frioni ed è corredata da un catalogo in cui sono presenti una testimonianza di Marcello Palminteri ed un importante testo (di cui riportiamo un passo) di Francesco Gallo Mazzeo. “L’inevitabile effetto del sublime si coglie nel panottico
di tutta

Rosario Genovese, Installazione simulata Albireo

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Studio per “La mia galassia 2”, 1988 Pastello ad olio su carta, cm 100 x 130

l’opera, nel suo sviluppo reale, formale e concettuale, che porta nel tempo, gli scatti, gli scarti,
tutte quelle cose che colpiscono nel segno di una
dilatata coscienza che non si ferma, non si può
fermare, perché ha “scelto” questa professione di fede, che non si fa svalutare da ogni mancata apparizione,
ma che ostenta sicurezze, la cui consistenza mentale
non è misurabile con i metri normali, ma urgono altre realizzazioni, successive, perché è come un film, una immagine che segna l’altra, la imprime e la significa, senza di cui non c’è pace culturale, nel processo di nascita di una poetica, di un’estetica, d’una critica, di una fisica. Una bella varietà, di un artista che s’è creato una cultura, una sapienza profetica, che va oltre il conosciuto. E crea nuove confidenze con una potenza che è


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Algol – Beta Persei A + B, 2015 Tecnica A - Acrilico e matita su tela; B - Acrilico e matita su stampa diretta inkjet UV su tela, cm 320 x 160

Perseo e Andromeda, 2004. Alluminio anodizzato, acciaio inox, acrilico su juta, cm 340 x 128 x 57. Installazione con dimensioni variabili Trottola pazza, 1990. Tecnica: Legno, corda, olio e sabbia lavica, cm 90 x 60 x 60

“silenziosa”, fertile e ci assicura che non c’è il vuoto tutto intorno a noi, ma una infinita moltitudine segnica, che nel passato
ci ha fatto da luce alchemica durante la notte, assicurando che durante il buio gli occhi possono vedere oltre, altro
e i sogni possono sognare. Perché a questo servono i percorsi della fantasia ispirata, quando non restano fantasmi della mente e si concretizzano come oggetti della concretezza, come talismani creativi, che rassicurano di non perdersi quando vengono meno le mille certezze ordinarie e non resta che fare a quelle straordinarie ardimentose, anche lontane, pindariche, a cui solo gli occhi possono, per primi accedere, essendo più forti dell’udito, del tatto, nell’olfatto che hanno bisogno della vicinanza e del valore tattile,
mentre la vista può arrivare lontano, lontano, dove mai
piede potrà poggiare o voce potrà chiamare, in spazio infinito.” (dal testo “Cosmologie Immaginarie” di Francesco Gallo Mazzeo). (A cura di Lucia Spadano) Acquario A + B, 2015. Tecnica: A - Supporto ligneo, acrilico e matita su tela; B - Supporto ligneo, acrilico e matita su stampa diretta inkjet UV su tela, cm 120 x 6

Capella, 2015. Supporto ligneo, acrilico e matite su tela, Ø cm 85

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Museo MARCA, Catanzaro

Giorgio LUPATTELLI Veronica MONTANINO

L

e ultime due mostre ospitate dal Museo delle Arti di Catanzaro, sono state volte a scardinare la staticità dell’istituzione museale, sdoganandolo dall’onere della “sola” funzione di storicizzazione. Con due personali, sono state aperte nuove prospettive interpretative sul ruolo ed il valore del museo contemporaneo, non solo teoriche, ma soprattutto pratiche; prospettive che determinano anche “ricadute” preponderanti nella fruizione dello spazio e nella percezione della mostra da parte del pubblico. E difatti è di grande impatto mediatico la ricerca “pop” di Giorgio Lupattelli (The Dark side of the Moon), in cui è evidente un’analisi della società di massa, che vive di eccessi ed estremismi per sfuggire al senso di vuoto, alle incertezze esistenziali. A cura di Gianluca Marziani, la mostra pone accento sull’imperfezione umana, sulle fragilità quotidiane nelle quali si annidano le controversie e le contraddizioni, di cui siamo fautori e al contempo vittime. Sculture ed installazioni raccontano le patologie, l’abuso di farmaci, la trasformazione e l’abrutimento - non-umano dell’uomo, pitture e wall drawing ritraggono personaggi comuni, che hanno “trasformato le proprie imperfezioni in una vincente energia creativa”. Lontani dall’anonimo Leopold Bloom di James Joyce, l’eroe di Lupattelli è imbevuto dei modelli socio-culturali contemporanei, quelli divulgati e diffusi dai media, nuove finestre sul mondo dell’homo consumens. Al di là di valori o meriti, di ogni ragionevole distinzione di ambiti, che siano uomini reali o frutto dell’immaginazione, tali eroi si impongono attraverso il sistema Tenuta dello Scompiglio, Lucca

Rosy ROX Vuoti d’ombra

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oras non numero nisi serenas (Le ore non conto che non siano serene) è il gioco di parole – la locuzione latina – che accompagna molte meridiane per indicare, grazie all’ambiguità semantica dell’aggettivo serenus, non solo la tranquillità atmosferica, ma anche quella umana dettata dal moto costante del tempo. A questo discorso e a una riflessione più ampia dedicata all’ombra che dice (grazie allo gnomone dell’orologio solare) dove sta la luce, Rosy Rox dedica oggi un nuovo progetto che è analisi

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di comunicazione di massa. Così Rita Levi Montalcini può essere “accostata” a Eminem o a Spiderman. E tuttavia le incursioni pop dell’artista celano riflessioni complesse sull’esistenza e sulle ambiguità del presente, che derivano da esperienze dirette - come la malattia ed il dolore - e che si fondono nel sistema narrativo del suo fare arte. Dolore e malattia lasciano il posto a comprensione delle differenze, mentre la vena pop cede il passo al colore trasgressivo e materico di Veronica Montanino (It’s a wonderful world), in una poetica che si muove sul filo teso della superficie - o della tensione superficiale - tra profondità e semplicità. La mostra è un trionfo di oggetti, cromie accese e vegetazione rigogliosa; un’eterogeneità che sviluppa e cresce autonomamente, precipitosamente, veementemente, sulle superfici circostanti. È il prato rigoglioso di Parterre, opera-giardino site-specific, rappresentazione evocativa di un mondo in cui convivono, stratificati su molteplici livelli, elementi differenti organici ed inorganici. Ma anche le molteplici articolazioni di Self Portrait, opera composita e complessa che accoglie il fruitore all’ingresso dello spazio museale, la cui forma sinuosa - seppur nella sua non unità data dall’assemblaggio di molteplici oggetti - abbraccia ogni cosa, trasportando il fruitore fin da pincipio in a wonderful world. Altra opera cardine dell’esposizione è Pangea, lavoro che amplifica il campo visivo, inglobando in sé tutto l’esistente. E tuttavia, ogni intervento di Montanino si allontana dalla mera utopia: il mondo fantastico riservato al fruitore cela in sé infinite possibilità, tutte insite nel reale, volte all’azione, ad un fare tangibile, sebbene sia sempre necessario sognare la realtà, per trasformare le brutture quotidiane. Quelle affrontate sono tutte tematiche e problematiche legate alla società contemporanea, raccontate per “immagini” contemporanee più immediate, su cui il MARCA rifonda la propria mission e dimostra una nuova linea di ricerca, strutturata sulle poetiche di artisti meed-carrer sulle cui qualità poter scommettere. Simona Caramia Veronica Montanio, Parterre. In alto a sinistra, Giorgio Lupattelli, The Dark side of the Moon

delle apparenze sensibili e d’una penumbra che es lenta y no duele (Borges). Premessa anteriore ad ogni esistenza, anticipazione del buio o, come suggerisce Athanasius Kircher nell’Ars Magna Lucis et Umbrae (Roma, 1646), «compagna perpetua e indivisibile della luce», l’ombra diventa per Rosy Rox un ambiente fotosofico attraverso il quale riflettere sulle forme e i materiali, catturare il buio e stringerlo in un itinerario estetico che oscilla tra nobiltà del tempo e libertà dello spazio, potenza del desiderio e rivelazione del corpo. Come un sogno ad occhi aperti – i sogni sono le infinite ombre del vero (Pascoli) – che disegna fughe, sembianze o apparenze paradossalmente tangibili e godibili, il nuovo progetto di Rosy Rox dedicato ai vuoti d’ombra (e non ha forse sempre lavorato con l’ombra l’artista per costruire performance disarmanti, per estendere il suo corpo nello spazio, per lasciar apparire i brani duri del reale?) è elegante indagine sulle metamorfosi delle cose, sui simboli e sulle metafore che costellano il quotidiano, sui frammenti di una spietata topia che si fa discorso amoroso, leggerezza, lievità, libertà. Soffio vitale (2016), Credo (2013), alcune foto della performance Frammento archetipo (prodotta dall’Associazione Culturale dello Scompiglio 2016), Corpo d’Ombra (2016), alcuni disegni dalla serie Ombre di memoria (2015-2016) e l’installazione Vuoti d’ombra (2016) invitano lo spettatore a percorrere un nuovo viaggio tra ombre variabili e metalliche – come non ricordare quella capricciosa che sfugge a Peter Pan, il personaggio creato dalla penna di James Matthew Barrie nel 1902, quella duchampiana che è parte integrante del ready-made o quella dei lamierini a luce mobile pensata da Sante Monachesi – che, se da una parte mostra l’evoluzione d’un’espressione aperta alla babelicità linguistica e il rigore di un pensiero che combacia con uno stile agile e raffinato, dall’altra ridisegna la realtà per offrire una prospettiva che si perde nella maturità del giorno, nel sommesso ronzio dei sogni, nella scioltezza dell’aria, quella poetica della sera. Antonello Tolve


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Gallarate / Malpensa / Milano

Ugo LA PIETRA

A

l MAGA di Gallarate - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea ‘Silvio Zanella’, Ugo La Pietra propone (fino al 18 settembre) Abitare è essere ovunque a casa propria, una mostra in realtà che non si esaurisce negli spazi della fondazione, ma allarga il suo raggio fino all’Aeroporto di Milano Malpensa, dove sono collocate una selezione di opere e ricerche, sempre dedicate al tema dello spazio urbano, e realizzate fra il 1962 e il 2016. Curata da Marco Meneguzzo, l’esposizione ripercorre a tappe i nuclei fondanti la sua ricerca, dalla teoria espressa nel 1967 e intitolata Sistema disequilibrante, un’analisi dei segni e delle strutture che accompagnano la contemporaneità, fino all’abbracciare diversi medium espressivi, dal cinema, alla pittura, alla scultura, al design, alla fotografia, alla performance, alla musica. L’esposizione, tuttavia, valica ulteriormente i propri confini: la città stessa di Gallarate ospita l’installazione Soggiorno urbano, mentre a Malpensa, nell’area adiacente la Porta di Milano, è collocata l’opera Interno/Esterno. Interno/Esterno che riproduce un ambiente apparentemente domestico: la stanza di una casa, salvo poi far accedere lo spettatore direttamente in un orizzonte prospettico di una via di Milano, al centro del quale si collocano i binari dello storico tram. Un ambiente così studiato e voluto da La Pietra al fine di renderlo condivisibile, anche attraverso la tecnologia, offrendo l’opportunità di scattare foto, selfie, di farlo entrare anche nello spazio della rete. Proprio l’utilizzo dello spazio da parte del pubblico come luogo di esperienza e set fotografico attiva un sistema di comunicazione dell’opera all’esterno, rendendo visibile “fuori” ciò che accade all’interno. Infine, nelle Sale Vip del Terminal 1, sono collocate 20 opere pittoriche dell’artista tutte attraversate da un elevato indice di “randomità”, componente caratterizzante di tutta la creatività di La Pietra. Un concetto, quello della “randomità”, espresso nel suo ultimo volume recentemente presentato al MAGA: Il segno Randomico. Opere e ricerche 1958/2016 (Silvana editoriale). Cinque verdi urbani, a cura di Alberto Zanchetta è stata invece la mostra che Ugo La Pietra ha proposto alla Galleria Bianconi di Milano con un ricco repertorio di dipinti, disegni, fotomontaggi e sculture in ceramica, rappresentativi della complessiva ricerca sul tema del verde urbano, domestico ed extraurbano, realizzati dall’artista dal 1980 ad oggi. Concettualità e spettacolarità sono le parole che più contraddistinguono il suo intero percorso creativo, parole dialoganti e non in contrasto che, con un approccio definibile tecno-poetico, guardano da oltre un trentennio al modello del giardino settecentesco come riferimento ideale: «luogo per una piacevole sosta (spettacolarità) e per la contemplazione (concettualità)». In tale ottica i Cinque verdi urbani corrispondono a serie diverse: Colti dal mio giardino, Erbario: libri aperti, Orti urbani / bosco in città, Il giardino delle delizie, Transgenici, connesse ad altrettante esplorazioni/riflessioni sul verde, attraverso le quali Ugo La Pietra traccia una sorta di nuova geografia dei luoghi, secondo il suo caratteristico piglio ironico ma al contempo pungente. Qui, dunque, Il giardino delle delizie, il Bosco in città, infine gli Orti urbani, vanno visti come sollecitazioni al recupero di spazi disponibili da coltivare in città, e come incoraggiamento a un rinnovo della socialità. Infine, gli Erbari e Transgenici diventano il volano di una progettualità “altra” del paesaggio urbano, che al contempo denuncia una società che dovrebbe imparare ad abitare con il verde. (Maria Letizia Paiato)

UgoLaPietra, VerdeNumeroDue, Libro aperto, 2014 Courtesyl’ArtistaEGalleriaBianconi. UgoLaPietra, VerdeNumeroTre, OrtiUrbani, Particolare Courtesy l’ArtistaEGalleriaBianconi.

A arte Invernizzi, Milano

Michel VERJUX Staccato stabile

L

a luce è il suo segno, la sua materia d’intervento, la sua poetica. Luce che è forma e sostanza delle cose. Michel Verjux (alla galleria A arte Invernizzi) non illumina - con i suoi proiettori - ma riscrive e ridisegna lo spazio. Lascia emergere quello che prima non c’era o semplicemente non era visibile. Porta alla luce, svela. “Queste illuminazioni, proiezioni di luce, orientate, incorniciate e messe a fuoco, svelano chiaramente ciò che abbiamo davanti ai nostri occhi” scrive l’artista sul catalogo della mostra. Verjux parte sempre dal luogo reale, dalla geometria degli spazi, da ciò che c’è e che - una volta illuminato - si trasforma. La luce, il suo segno che circonda e mette in evidenza viene diretto nei luoghi, sugli spazi, tra gli angoli,… a seconda delle situazioni incontrate. Luce che si sovrappone all’architettura del posto, che si somma alle altre luci, a quella artificiale della galleria e quella naturale che entra dalle finestre, mettendole in evidenza, mostrando ciò che sembra essere in attesa di essere illuminato. Dialoga con i luoghi e con ciò che in questi luoghi abita. Ridisegnando lo spazio. Un dialogo continuo tra luce, forme e ombre. Come scrive sempre l’artista: “a seconda di come sono orientate, inquadrate e focalizzate, queste proiezioni di luce creano, a contatto con lo spazio e i suoi elementi costitutivi (piani, volumi, etc.) delle rotture di continuità, dei frammenti, dei tocchi e delle forme libere le une in rapporto alle altre…”. Non abbellisce il luogo, ma lo libera. Questo suo modo di pensare e concepire l’arte - da oltre trent’anni - mette in continua relazione la luce (segno e materia delle sue opere), lo spazio nel quale interviene e il tempo che è quello che trascorre tra il giorno e la notte e che disegna situazioni sempre differenti sulle pareti e il tempo dello sguardo - del guardare e del cercare - dello spettatore. Gli elementi architettonici della galleria (la scale, il balcone che si affaccia sull’ingresso,…) attraversano questi cerchi di luce, li sezionano, li modificano e allo stesso tempo ne vengono modificati. Lo stato di quiete di questo luogo è rotto. Si crea movimento dove prima c’era stasi, fluttuazione / increspamento dove prima c’era silenzio, cambiamento dove prima c’era calma. La luce si impossessa dello spazio determinando nuove possibilità spaziali ed emotive. Come si diceva, altri eventi - oltre agli elementi strutturali del luogo - entrano in gioco determinando e rideterminando di volta in volta nuove esperienze dentro l’opera che è attraversabile, percorribile ed esperibile. Il passaggio di persone, lo stazionare davanti ai proiettori che sono sempre a vista perché, come dice Verjux, fanno anch’essi parte degli elementi che compongono l’opera nasconderli sarebbe un po’ come vedere un violinista che suona senza avere tra le mani il violino. Le ombre che si creano e si proiettano con il trascorrere delle ore, un braccio allungato per vedere riprodotta propria sagoma. L’opera - sull’ingresso della galleria - di Niele Toroni che proietta la sua ombra sul muro,… tutto può e contribuisce ad aprire nuove relazioni spaziali e narrative. Simona Olivieri GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 75


Studio G7 Bologna

Sandro DE ALEXANDRIS

È

un meditare intorno alla pittura e ai suoi metodi il filo che collega l’intera produzione del torinese Sandro De Alexandris, in mostra alla galleria Studio G7. La personale, accompagnata da un testo critico di Francesco Tedeschi, si sofferma su tre cicli consecutivi della produzione di questo artista raffinato, non associato a uno specifico movimento ma sensibile a comprendere in pittura l’esigenza di partire da zero per ridefinire il significato di forma e spazio, oltre che il rapporto tra osservatore e opera. Debitore verso Lucio Fontana, gli esordi di De Alexandris avvengono in una Torino degli anni ‘60 culturalmente vivace, avvertendo una vocazione pittorica che sviluppa, con una indagine di impronta analitica, in una “interrogazione continua” del mezzo espressivo tentando di definirne lo statuto attraverso lo studio delle prassi e dei suoi elementi base: spazio, colore, superficie. Il rigore dell’artista piemontese nei primi decenni d’attività non può non far pensare alle tendenze contemporanee che portavano alla progressiva smaterializzazione della superficie pittorica fino al suo grado zero. Per De Alexandris quelli erano infatti gli anni delle carte bianche, delle goffrature e delle pieghe a cui seguono le lamine ripiegate in plastica o ferro verniciato di bianco: riguardo a queste opere l’artista sottolinea senza esitare l’intento pittorico. Il percorso di De Alexandris prosegue e si evolve nel decennio successivo, nonostante più voci del dibattito di allora avessero decretato la morte della pittura. Le superfici “asettiche” acquistano via via tratti poetici, come nel caso dei “cartoni graffiati” prodotti tra il 1974 e il 1978, realizzati incidendo supporti di grande o media dimensione con il bisturi. In questa fase come nel ciclo precedente è la luce a disegnare le linee, gli spazi tra esse, a definire l’assetto compositivo che in misura sempre maggiore interessa il centro della superficie: tendenza che appare di nuovo e si rafforza nella produzione più recente dell’artista torinese. La pittura viene sempre “messa in scena” ma con modalità diverse in un’altro ciclo di opere presentato in mostra: quello delle “sovrapposizioni” (1983 - 1991). Lontano da qualsiasi intento di appropriazione o sottrazione al mondo reale, De Alexandris utilizza in questi anni stralci e ritagli di materiale pittorico eseguito in momenti precedenti della sua attività. Si tratta di elementi che l’artista ha prodotto da sé, già legati alla pratica pittorica. Strisce dipinte e ampie porzioni di tela ritagliata diventano nuovi segni, nuove aree di pittura. Momenti diversi suo lavoro entrano in relazione tra loro dando luogo a nuove e più attuali soluzioni compositive. I lavori dell’ultima serie sono caratterizzati dall’operare diretto sulla tela e cominciano con l’esaurirsi del materiale di riutilizzo protagonista del ciclo precedente. Qui l’indagine dell’artista torinese evidenzia in modo più esplicito la pazienza di un cammino lento, indagatore rispetto alle infinite modalità di stendere il colore sulla superficie. Colore spesso ripetuto nelle molteplici gradazioni di un unico tono, come ad esempio il ceruleo, per dare luogo a una cromia vibrante, indefinita, associata al concetto di lontananza e a ciò che è inafferrabile. Inafferrabile come in fondo, nella visione di De Alexandris, appare la pittura con le sue soluzioni e i suoi fondamenti, percepita fatalmente distante malgrado il continuo muoversi dell’artista nella sua direzione al tentativo di raggiungerla. Francesca Cammarata

Sandro De Alexandris, Sovrapposizioni. courtesy Studio G7 Bologna

Galleria Itinerari, Bari

Paolo LUNANOVA

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er la sua nuova personale alla galleria Itinerari di Bari, Paolo Lunanova ci presenta un “Diario cromatico” che è il punto di approdo di un percorso creativo ormai quarantennale. Tre maschere sotto teca in terracotta bianca si offrono qui come scanzonati alter ego, sfaccettati autoritratti che concettualmente registrano lo scorrere del tempo, scandito in tre decadi a partire dalla sua nascita. Alle pareti l’artista molfettese - per anni supportato dalla galleria di Marilena Bonomo, con partecipazione a importanti mostre internazionali - presenta invece un colorato e articolato campionario di figure geometriche, dove inserti di pennellate libere creano un contrasto con una tecnica pittorica volutamente impersonale, che simula abilmente il rigore asettico delle stampe a macchina. Sono incastri volumetrici, che esibiscono in modo volutamente autoreferenziale il metodo progettuale di lavoro, sottolineando ad esempio i contorni del rilievo a scotch o inserendo riquadri di campionatura cromatica. Coerente esito di uno scandaglio analitico sulla pittura come “cosa mentale”, impegnato nello sforzo non percepibile di eliminare ogni scoria emotiva o soggettiva attraverso una progressiva semplificazione delle forme d’impianto minimal e l’uso di colori piatti presi direttamente dal pantone. Ma dove il rigore estetico in salsa ludica finisce per assumere un’astanza quasi metafisica, una pur fredda dimensione visionaria. Antonella Marino Istituto Italiano di Cultura, Parigi

Giuseppe CACCAVALE

Paolo Lunanova, Diario cromatico

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U

na dimensione pensosa, raffinata e multimediale caratterizza il “Viale dei Canti”, l’ultima impegnativa impresa di Giuseppe Caccavale all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi. È un lungo muro di 50 metri che occupa una delle facciate della strada privata dell’Hotel de Gallifet. Un graffito su caldo fondo monocromo color nocciola, che genera nuove ed inedite intersezioni tra immagine e parola, tema tanto caro all’artista campano. Ci sono voluti mesi per realizzarlo, con l’aiuto di due studenti dell’Ecole nationale Supèrieure des Arts Dècoratifs de Paris dove Caccavale insegna. Mettendo in campo un lavoro paziente di incisione e applicazione dell’antica tecnica murale a spolvero, che utilizza i caratteri tipografici originali incisi a mano messi eccezionalmente a disposizione dallo storico editore Enrico Tallone. Introdotti da enormi capolettera, in successione lineare si stagliano i versi di quattro poeti italiani. Il primo, notissimo, è Giacomo Leopardi col “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Seguono poi prelievi di Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Lorenzo Calogero e il poco conosciuto Bartolo Cattafi, tutti, forse non a caso, meridionali.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Il rigore formale amplifica paradossalmente qui la densità evocativa delle parole, mentre il recupero di metodi tradizionali si arricchisce dell’apporto tecnologico e sinestetico di suoni che fuoriescono dal muro, in variazioni sempre differenti. Coerente con l’esigenza di mettere in connessione le diverse arti, Caccavale si è avvalso infatti della collaborazione di un accreditato compositore italiano, Stefano Gervasoni, già avvezzo a mettere in musica componimenti lirici. In questo caso l’operazione utilizza un logaritmo che elabora i suoni producendo infinite combinazioni elettroacustiche, mediante dispositivi invisibili perché incassati nella parete. In un contesto che già di per sé induce alla riflessione - lo splendido edificio settecentesco, già dimora del padre di Eugene Delacroix, collocato all’interno dell’ambasciata italiana a St Germain - il visitatore viene così catturato in una dimensione raccolta e concentrata, che sollecita sguardo e udito e sollecita continui rimandi. È il particolarissimo modo con cui Caccavale da anni si impegna a “reinventare il medium”. Attualizzando tecniche antichissime per ricaricare il linguaggio di senso e significati, sul filo costante di un dialogo ininterrotto col passato, tra memoria e storia. Antonella Marino

Giuseppe Caccavale, Viale dei Canti, 2016

Galleria Giorgio Persano - Torino

Lina FUCÀ

S

offermarsi a guardare, volgere lo sguardo su qualcosa o su qualcuno, guardare gli altri, lasciarsi guardare, guardarsi, osservare: che cosa? Sono questi gli interrogativi sottesi all’opera della torinese Lina Fucà, conosciuta per la sua attività performativa del dipingere live, e per la sua personale ricerca finalizzata al dialogo fra differenti medium espressivi: teatro, musica, video, ma anche scenografia e cinematografica indipendente. Una pratica che la immerge in una continua riflessione sulla percezione di sé in rapporto a quella degli altri, sviluppata in particolare attraverso il mezzo video, di cui è testimonianza l’opera Vedo nel velo non vedo, presentata alla Fondazione Merz nel luglio 2013. In mostra, si osservano alcune opere video, e non solo. Ancora un po’ è un’opera dove l’artista mette in primo piano se stessa raccontando il gesto materno di un abbraccio con i suoi figli, che esprime al contempo un senso di fissità e transitorietà, celato nella consapevolezza che l’intensità di quel momento non è eterna in virtù dello scorrere del tempo che modifica, non solo i luoghi, ma anche la fisicità delle persone. Luoghi, tuttavia, irriconoscibili e volutamente dalle atmosfere rarefatte a intensificare la melliflua drammaticità che avvolge le esistenze. Luoghi, invece, che connotano l’identità come in Unopertreugualesette, dove la Fucà è accolta da un›altra donna nella propria casa per una vestizione, metafora di ricerca e riconoscibilità della propria personalità. Un filmato in 3 riprese che mette a nudo l’idea del guardarsi, ripresa anche in Core: 10 scatole luminose dove una sovrapposizione di una foto e di un autoritratto dell’artista convive con un ulteriore ritratto compiuto da persone ad essa legate. Infine, Senza lasciare tracce, che si compone di 10 fogli bianchi a grandezza naturale, con impressi la sembianza di una figura femminile colta in differenti istanti, tratta il tema della memoria, dal cui buio queste figure/ ombre riemergono per reclamare un’identità o svanire del tutto. Un’opera che spinge l’osservatore a prendere consapevolezza del continuo oscillare della psiche fra l’ossessione del ricordo e il desiderio di oblio.

Lina Fucà,
Unopertreugualesette (Sandra - Simona - Hend), 2015. Video digitale,
19’38’’ Lina Fucà,
Vedonelvelononvedo, 2013. Video digitale,
18’
ed. 5

GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 77


Galleria Bonelli, Milano

QUAI

E

RRATA. Non sai mai dove sei. CORRIGE. Non sei mai dove sai. Con questa frase, una sorta di dedica, di Giorgio Caproni, poeta e critico letterario del ‘900, tratta da Il franco cacciatore, del 1973, la Galleria di Giovanni Bonelli dà l’incipit a Quai, lungofiume in francese, ma anche argine, banchina, riva. Quai, curata da Federico Mazzonelli, è geograficamente e, in questo contesto, concettualmente un luogo di separazione, di confine, un territorio dove può materializzarsi uno stato di frontiera, una zona neutra e sospesa che, quando accostata al mondo dell’arte, mette in evidenza quelle aree di crisi che sono appunto i confini. Non sai mai dove sei - Non sei mai dove sai diventa allora una frase emblematica che contestualizza l’intera operazione artistica, volano di un pensiero che materializza una condizione liminare, un processo di sconfinamento e di sovrapposizione tra diversi elementi. In tal senso, l’arte sfuma nell’idea di frontiera nel momento in cui, quando la distanza dalla quale l’artista definisce la sua lettura del reale, prende forma, sostanza e dimensione. Quai è allora il termine che definisce il visualizzare lo spazio dell’opera come luogo essenzialmente poetico, dove s’intrecciano e comunicano indagini sul corpo e sull’identità di Urs Luthi, forme di archeologica memoria di Giuseppe Gallo, delicate epifanie delle opere di Eva Marisaldi, imprevedibilità e ricchezza espressiva di quelle di Alessandro Piangiamore e di Pier Paolo Calzolari, fino agli orizzonti astratti di Jaroslaw Flicinski e di David Simpson. Forme, materie, oggetti e colori finiscono dunque col riempire e modellare questa porzione di spazio che incontra il nostro campo visivo, sollecitando impressioni ed emozioni sempre diverse.

Fernando De Filippi, Art is Ideology, 2014. Fotocolore cm. 110x180

Fondazione Noesi, Martina Franca

Fernando DE FILIPPI

N

Pierpaolo Calzolari, Senza titolo, 1988. Piombo,cera d’api, struttura ghiacciante-motore frigorifero.

Giuseppe Gallo, L’oro dei re, 2012-2013. Bronzo, 12 elementi, h 98cm circa-dimensioni variabili. Alessandro Piangiamore, La XXVI cera di Roma, paraffina e cera d’api, cm 203x113x4. Eva Marisaldi, video-2007-3’12’’

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elle sale di Palazzo Barnaba a Martina Franca (Ta), la Fondazione Noesi propone la mostra di Fernando De Filippi con Le Geometrie del Fuoco, a cura di Marina Pizzarelli. L’artista torna a Martina Franca dopo le personali del 1980 e 1983, e per questa nuova personale ha realizzato Arte e Ideologia un lavoro site specific. Le parole “Arte” e “Ideologia” bruciano sulla terra e su una lastra di ferro lasciando solo tracce che alludono alla trasformazione e al cambiamento di stato, non solo dal punto di vista di fenomeni fisici e fisiologici ma anche dal punto di vista emotivo ed esistenziale. Il rapporto tra mittente e ricevente si riduce alla stessa persona o al gruppo che vive l’azione, che funziona nello stesso tempo da autore e spettatore unico dell’azione, determinando così un alternarsi e un confondersi dei ruoli. La negazione del segno/parola destina il messaggio e le sue potenziali possibilità linguistiche, alla clandestinità, negandosi come destinazione consueta e attivando nel contempo nuove possibilità di comunicazione. Il Fuoco è l’elemento che, mediante la sua energie, il suo perenne movimento, rende possibile ogni trasformazione, ogni cambiamento di stato e di forma tramutando il ponderabile in imponderabile, il materiale in immateriale. “Arte e Ideologia” costituiscono probabilmente l’essenza della totalità del lavoro di De Filippi e Ars is Ideology è anche il titolo del lavoro pubblicato il 22 marzo 2015 sulla copertina de “La Lettura” il supplemento del “Corriere della Sera”. In quell’occasione l’artista ha realizzato una grande affissione sulla statua di Napoleone di Antonio Canova nel cortile dell’Accademia di BelleArti di Brera (di cui De Filippi è stato direttore dal 1991 al 2009) « che è soprattutto un monito : guardare criticamente il sistema dell’arte ma, al tempo delle crisi delle ideologie, fare attenzione a non diventare tutti dei fragili naufraghi» (Gianluigi Colin). In mostra anche una selezione dei suoi lavori storici, dalle Trascrizioni e gli Slogan degli anni Settanta ai Miraggi degli anni Ottanta. Le opere sono realizzate con diversi linguaggi – pittura, fotografia, film, manifesti, striscioni pubblicitari – provengono da cicli diversi, strettamente connessi tra loro e alle fasi storiche in cui sono state realizzate. Nelle Trascrizioni dopo un lungo periodo di studio ed esercizio, De Filippi ha trascritto per due anni consecutivi (1975-1976) i testi di Lenin in cirillico, imitando la grafia del leader sovietico. Qui il gesto ha un valore concettuale e mette insieme i significati impliciti delle parole di Lenin la scrittura e la grafia, che finisce per acquisire un valore formale e astratto. Il meccanismo della parola e della sua cancellazione affiora anche nella documentazione fotografica originale del lavoro Tra esibizione e occultamento (1976) realizzato sulle spiagge della Sardegna e della Francia. De Filippi scriveva sulla sabbia i testi sull’arte di Carlo Marx, utilizzando delle formine, ma immediatamente dopo le parole erano cancellate dalle onde del mare. Tutto finiva nel nulla, segno che la grande illusione politica e collettiva degli anni Sessanta e Settanta stava scomparendo. Anche la serie degli Slogan presenta frasi estrapolate dagli scritti sull’arte di Marx e di Engels. Sono grandi manifesti che De Filippi affiggeva nelle metropolitane e nelle piazze, in Italia, a New York, Lisbona, Parigi utilizzando i canali riservati alla comunicazione pubblicitaria. L’affissione subiva un processo di cancellazione determinato dal succedersi di altri manifesti, dal-


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

cambiamenti determinati dalle sue stesse azioni è invece ancora tutto da dimostrare. E dunque, chi è più fragile e chi è più disarmato— sembra chiederci Simeti—chi ha più bisogno di essere difeso: noi o loro?” Sedi varie, Daunia

IL CIELO E LE TERRE

N Fernando De Filippi, A di Arte, 2015. Foto colore cm.30x45 Fernando De Filippi, E di Arte, 2015. Foto colore cm.30x45

la gestione delle immagini che nascono, si sovrappongono e si cancellano e come quelle del mare e del fuoco, sfuggendo ad ogni controllo. La parola affiora anche nella serie dei Miraggi, con due grandi lavori acquerellati La Ziqqurat (1981) e Il Tempio (1983) con cui De Filippi ritorna alla pittura. È una privatizzazione del gesto con la carta e la tela al posto della sabbia. L’idea si riconnette al lavoro dell’autore prolungando la fase operativa e riscoprendo un rapporto autobiografico tra il mittente del messaggio e gli strumenti della pittura. La mostra è accompagnata da un catalogo con un testo critico di Marina Pizzarelli e un’intervista di Marinilde Giannandrea. (dal c.s.)

ata con l’ambizioso obiettivo di stimolare una riflessione sui paesaggi urbani e rurali di questa parte del meridione, la terza edizione de “Il cielo e le terre” quest’anno propone come tema “L’abitare i luoghi e le forme. Arte contemporanea e fotografia”. «“Il cielo e le terre” racconta l’arte contemporanea attraverso l’opera degli artisti -ha scritto il curatore Guido Pensato- e lo fa accanto alla storia, alle storie, alla natura e all’arte dei Monti della Daunia: un pezzo appartato di quell’Appennino italiano, che a lungo non si è raccontato. Ma raccontare aiuta ad essere ad esistere a resistere. La storia di questi luoghi, la creatività che li segnala ancora oggi, che era un tempo patrimonio di pochi, può oggi incontrare una creatività che è potenzialmente nella disponibilità di tutti: ma non tutti hanno la possibilità di l’opportunità di incontrarla, di farne pratica. “Il cielo e le terre” questo propone: agli artisti, ai fotografi e al pubblico: perché la creatività non è solo una dote, una risorsa privatissima, un mistero inattingibile. La creatività, l’arte sono l’arte dell’incontro: di persone e di storie: l’arte di immaginare, raccontare e ascoltare, vedere storie: vere e immaginarie. Per imparare a vivere, a vivere meglio. Ad occhi aperti. Conoscendo e costruendo vita e sogni». Gli artisti e i fotografi che partecipano alla terza edizione: Felice Alberico, Mimmo Attademo, Katia Berlantini, Piero Cammuso, Domenico Carella, Michele Carmellino, Roberto Carreca, Rosalba Casmiro, Potito Casparrini, Franco Cautillo, Daniela Clemente, Teo De Palma, Antonio Di Carlo, Edmondo Di Loreto, Antonio Di Michele, Daniele Ficarelli, Graziella Fraschini , Aldo Grittani, Livio Iacovelli, Alfredo Ingino, Mosè La Cava, Michele Lella, Nicola Liberatore, Paolo Lops, Salvatore Lovagli, Nicola Loviento, Francesco Lucera, Fernando Lucianetti, Nelli Maffia, Pino Marchesino, Filippo Mucciarone, Michele Nardella, Guido Pensato, Gianmaria Pironti, Lucia Prioletti, Giuseppe Pozzuto, Nicola Ritrovato, Paola Ricucci, Pietro Ricucci, Enzo Ruggiero, Concetta Russo, Francesco Sannicandroe Raffaele Statella.

Galleria Francesca Minini, Milano

Francesco SIMETI

“N

el giardino disegnato da Francesco Simeti non c’è posto per le rose: su questo campo di battaglia vincono piuttosto l’amaranto e l’ortica, la bardana e la morella. Lontana è la vagheggiata utopia Occidentale di spazi verdi ammansiti e sempre in fiore, dove gli insetti non mordono e le foglie non pungono. Il paesaggio immaginato da Simeti non segue la rassicurante ripetitività delle aiuole, l’ordine gerarchico degli orti botanici, il rigore geometrico dei campi arati: l’ispirazione non viene dagli idilli floreali di Monet ma piuttosto dalle terre paludose, dai prati incolti e dai terreni trascurati dall’uomo dipinti da Charles Burchfield. Le piante di Simeti crescono sui plinti, sbucano come lame dal cemento, si arrampicano sui muri fino a ricoprire pareti intere. La loro vitalità, irruenza e autonomia è celebrata; eppure allo stesso tempo appare negata: la materia di cui sono fatte è inorganica, la loro forma scolpita da quelle stesse mani che sono solite temere, quelle degli uomini. In questa palude-giardino, dove anche la bruma è un manufatto umano, la fotosintesi ha lasciato il posto alla fusione a cera persa, alla cottura ceramica. Il confine tra natura e cultura evapora come nebbia, tutto è selvatico e tutto è artigianale. Ecco allora la prima intuizione: questi fiori di bronzo, queste foglie di argilla, questi arbusti di tela materializzano l’impossibilità di immaginare la natura selvaggia al netto della natura umana: dalla riduzione della biodiversità al mutamento del clima, l’ecosistema è già di per sè un prodotto antropico. Una forma di giardinaggio è ormai ritenuta inevitabile anche nelle oasi e nelle riserve, in quei luoghi che vorremmo preservare a monumenti della nostra assenza. Simeti tuttavia non si limita a indicarci questo paradosso ma, scolpendo le sue erbacce come alabarde, elmi, scudi, ci pone davanti a una seconda verità: per quanto siamo convinti che la sopravvivenza della natura dipenda esclusivamente da noi, la natura ha dimostrato di essere in grado di difendersi bene anche da sola. Per ogni strattone che l’uomo ha dato alla biosfera, le piante hanno sempre risposto affilando le armi, facendosi più agili e versatili, attrezzandosi per meglio resistere al nostro impatto. Cosa sono le infestanti se non la dimostrazione empirica della capacità degli organismi vegetali di sopravviverci? Che l’uomo possa adattarsi ai

Francesco Simeti Armed, Barbed and Halberd-Shaped, 2016 Curated by Nicola Ricciardi Exhibition view at Francesca Minini, Milan

GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 79


Ex Dogana, Roma

IL PARADISO INCLINATO

L

a mostra raccoglie nel suo complesso architettonico ambiguo e in mutazione, opere di artisti contemporanei di differenti generazioni. Il Paradiso inclinato, a cura di Luca Tomìo, vede, in dialogo con la struttura affascinante e dalla storia complessa risalente al 1925, i lavori di Jannis Kounellis, Tano Festa, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Pier Paolo Calzolari, Mario Schifano, Luigi Ontani, Giulio Paolini, Gino De Dominicis, Alberto Di Fabio, Andreco, Borondo, Sbagliato, Edoardo Tresoldi, Cesare Tacchi, Eracle Dartizio, Emilio Prini. Nel contesto del progetto “Roma Arte Aperta”, la struttura abitualmente utilizzata per concerti, dj set ed altri eventi - resa nota ad oggi come spazio urbano attivo -, diviene luogo espositivo. Gli ambienti scabri ed eclatanti fungono da contenito-

Achille Bonito Oliva e Luca Tomìo davanti all’opera di Edoardo Tresoldi Pietro Ruffo, Revolution Globe III, 2013 foto Giorgio Benni; courtesy Galleria Lorcan O’Neill, Roma

Luigi Puxeddu, Terror Bird, 2015 (courtesy Galleria L’Attico, Roma).

Alberto di Fabio e William Kentridge

Borondo, Ubiquitas.

Nuove Gallerie italiane

ADALBERTO CATANZARO

I

l siciliano Adalberto Catanzaro, 23 anni, è il più giovane gallerista italiano, con uno spazio che porta il suo nome e una rosa di artisti affermati al suo fianco. Studi classici, collaborazioni con diverse associazioni culturali, fino a quando non ne fonda una propria: “Quelli di Pittalà”. Un gruppo con il quale s’impegna ad animare culturalmente la sua città: Bagheria, distante pochi chilometri da Palermo e nota anche come la Città delle Ville, fintanto che nel 2014 capisce che da una passione può nascere qualcosa di più, originarsi una seria professione. Incontriamo Catanzaro nel cuore del suo ambiente di lavoro: è sorridente, è allegro ed emana un’energia spiazzante, quando incomincia a raccontare, con disinvolta e consapevole incoscienza, la sua avventura nell’arte. - Gli chiedo quando e come è nato il progetto della Galleria. Quando hai pensato che la tua professione sarebbe diventata quella del gallerista? - Prima di far nascere la galleria, ho realizzato diversi progetti di arte contemporanea, che mi hanno trascinato appena diciannovenne in questo mondo. Poi, nel 2014 ho aperto la mia galleria sollecitato dal sostegno di Ezio Pagano. Sinceramente, ancora oggi mi sembra tutto non reale quello che sto vivendo, perché sto affrontando magnifiche esperienze, ma tutto cercando di rimanere con i piedi per terra. Sono molto giovane mi dicono, e io penso di avere ancora tanto tempo per crescere e fare progetti sempre più importanti. 80 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

Adalberto Catanzaro. Foto di Annalisa Ardizzone. Sullo sfondo l’opera di Ignazio Moncada, Musica, 1982


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

ri aperti, che creano un forte contrasto e realizzano una dimensione di opposizione fra pareti scabre e opere di origini molto diverse fra loro. A volte questo contrasto risulta stridente e disorientante, mancando forse una immediata attribuzione delle opere, ma come scrive Achille Bonito Oliva nel catalogo “La collocazione della mostra in uno spazio di archeologia industriale in cui convergono linguaggi multipli è una celebrazione del meticciato: meticciato artistico, sconfinamento dei linguaggi, scontri, confronti che recuperano, se si può dire, un’atmosfera, una temperatura della cultura, dell’arte romana, che ha avuto il suo momento di esaltazione intorno agli anni ‘60 e ‘70.” La commistione di intenti estetici, nelle espressioni artistiche, si dispone in un luogo caratterizzato da una dimensione temporale sospesa. La sospensione avviene anche attraverso la funzione di luogo come elemento di transizione, dal forte ruolo di accoglienza. È proprio nell’origine stessa dell’ex dogana a trovare la sua prima natura accogliente di limite da cui iniziare l’attraversamento, dall’iniziale smistamento delle merci, qui, oggi si “smista” la disposizione culturale alle arti. E dell’arte si attuano dialoghi e variazioni. Ilaria Piccioni

Con il titolo il Paradiso inclinato varie generazioni di artisti si incontrano sulla linea di confine dell’Ex-Dogana di Roma per progettare insieme il futuro: dalle opere dei grandi maestri come Franco Angeli, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Mario Ceroli, Gino De Dominicis, Nicola De Maria, Tano Festa, Jannis Kounellis, Sol LeWitt, Luigi Ontani, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Mario Schifano, Cesare Tacchi e Marco Tirelli, alle opere e agli interventi site specific degli artisti più affermati delle nuove generazioni, da Alberto Di Fabio a Pietro Ruffo ad Arcangelo Sassolino, da Gea Casolaro a Luana Perilli, fino ai più giovani ed emergenti tra cui Alberonero, Andreco, Gonzalo Borondo, Eracle Dartizio, Daniele “Deca” De Carolis, Mariana Ferratto, Alessandro Giannì, Matteo Nasini, Leonardo Petrucci, Luigi Puxeddu, Sbagliato, Karine Sutyagina, Edoardo Tresoldi, Verónica Vázquez.

ADRIA

CATANIA

Il MAAD – Museo d’Arte di Adria e del Delta del Po, di nuova istituzione, mette a confronto artisti italiani e internazionali di diverse generazioni, come Beuys, Cagol, De Dominicis, Gilbert and George, LeWitt, Mundula, Nitsch, Ono, Ontani, Pisani, Plessi, Vanello, accomunati dalla tensione a guardare oltre la superficie delle cose.

Curata da Alessandra Pinelli al Palazzo della Cultura, la mostra riporta il maestro Pino Pinelli nella sua città natale. Attraverso le opere più significative realizzate negli anni Settanta, Ottanta, Novanta e in epoche più recenti, l’itinerario espositivo ripercorre le tappe fondamentali di un percorso artistico originale e rigoroso, difficilmente riconducibile a ben definite categorie, ma capace di raccogliere in sé le più varie suggestioni.

Da Beuys a Cagol

ASTI

Chiara Dynys

Da Eidos Immagini contemporanee, Baroque, personale di Chiara Dynys a cura di Raffaella A. Caruso. In mostra i celebri Poisoned Flowers declinati dall’artista in 3 versioni, messe per la prima volta a confronto. I “monocromi” dove l’immagine appare e scompare seguendo il movimento dello spettatore, i “pittorici” dove l’immagine fotografica ritorna alla pittura, e i “barocchi” dove la Dynys ottiene con sofisticati passaggi un’immagine che prima di annullarsi nel monocromo conquista la terza dimensione.

Chiara Dynys, Baroque Poisoned Flowers plexiglass e stampa 3d lenticolare courtesy Eidos, Asti

BOLZANO

Pino Pinelli

CITTÀ DI CASTELLO

Roberto Micheli

Tossiko2016, presso Palazzo Bufalini, è una mostra con cui Roberto Micheli rende omaggio ai 7 colori “tossici” per eccellenza, il blu del lapislazzuli, il cadmio, il cinabro, la biacca (bianco di piombo), il risigallo, l’aurum e il minio.

FIRENZE

Cantieri in movimento

Frittelli Arte Contemporanea insieme a Accademia di Belle Arti di Firenze e Centro studi politici e sociali Archivio il sessantotto, presenta la mostra Cantieri in movimento, Immagini della protesta nel ‘68 e oggi, a cura di Adriana Dadà e Tommaso Tozzi. Sintetica documentazione fra manifesti e altri materiali della protesta, significativi della stagione dei movimenti del ‘68. Nataly Maier, Tonalità elettive, 2016 courtesy Antonella Cattani contemporary art

Nataly Maier

Da Antonella Cattani contemporary art Nataly Maier, artista nota per l’uso del colore denso e profondo, si rifà a una dichiarazione di Robert Ryman: “there is never a question of what to paint, but only how to paint” - Il problema non è mai cosa si dipinge, ma solamente come si dipinge - un assunto che la colloca lungo un processo di smontaggio e ricostruzione di sensazioni ed esperienze che fanno corrispondere le opere alla concezione di dittico.

- Chi sono gli artisti con i quali lavori? E come li hai scelti? O ti hanno scelto loro? - Ho iniziato la mia avventura con un artista siciliano, molto conosciuto per le sue città urbane, Croce Taravella, poi ho subito intravisto quale sarebbe stata la mia strada artistica, puntando l’attenzione sia sull’impiego del materiale sia sulla storia. Le mostre fin ora realizzate hanno rispettato questi criteri. Il mio percorso continua seguendo artisti come: Michele Cossyro, Filippo Panseca e Giovanni Leto, che hanno in loro lo spirito dell’innovazione di alcuni materiali senza mai trascurare la propria poetica, l’identità che li contraddistingue: “LA RICONOSCIBILITA’”, fattore per me importantissimo. - Cosa vuol dire fare il gallerista in Italia e soprattutto in Sicilia? Che rapporto hai con il territorio? - Inizio a risponderti prima con la mia Sicilia, terra tra le più belle e affascinanti, che colpisce qualsiasi artista che invito. La Sicilia ha molte possibilità di crescere con l’arte e, secondo una mia statistica, abbiamo potenzialmente molti collezionisti che però comprano altrove. Sarebbe opportuno iniziare a fare mostre di livello sempre più alto per poter dare la possibilità di vedere artisti affermati qui e non facendoli spostare fuori. Fare il gallerista in Sicilia non è difficile perché siamo un’isola, ma è difficile se non riusciamo ad alzare la qualità della produzione di mostre sia in spazi pubblici sia privati. C’è molta attenzione per ora su la mia terra. Riguardo alla generalizzazione del gallerista in Italia, penso che oggi sia difficile vendere arte in tutto il mondo. L’Italia ha tante possibilità: lavorando bene e dando il meglio, in pochi anni possiamo fare la differenza, favorendo gli artisti italiani all’estero possiamo diventare una grande potenza nell’arte contemporanea. Abbiamo gli occhi puntati su di noi.

- Stai aprendo un nuovo spazio, come sarà? Quali sono i tuoi futuri progetti artistici? - Dopo quasi 3 anni in una meravigliosa location, quale è una villa del settecento, avevo bisogno di un spazio diverso, più grande e con più sale dedicate ai collezionisti. Infatti, nella nuova galleria, in un appartamento nel cuore del centro storico di Bagheria, ho trovato il giusto luogo per far sentire a casa le persone che mi seguono. Riguardo ai progetti futuri, sicuramente sarà un bell’inizio la retrospettiva di Luca Maria Patella , artista di cui sono innamorato, trovandolo attualissimo e innovativo al massimo. Inoltre, continuerò con il mio mettermi alla prova con progetti al di fuori di Bagheria, misurandomi, ad esempio, con la città di Palermo. Già con la mostra di Domenico Bianchi dello scorso dicembre nasce la collaborazione con il Museo Riso, che ospiterà a metà giugno la personale di Nunzio, curata da Bruno Corà. - Che ne pensi delle Fiere in Italia e all’estero? - La domanda sulle fiere mi piace molto perché ancora a oggi non ho fatto nessuna fiera d’arte. Vorrei iniziare questo percorso presentandomi bene e riservando anche qualche sorpresa. Io penso che le fiere siano un’ottima occasione per quelli come me che necessitano di contatti con altri galleristi e collezionisti del nord. Anche se ti svelo che il mio obiettivo non è quello di accedere alle fiere mercato italiane, ma già contraddistinguermi all’estero. Oggi con la globalizzazioni e la tecnologia possiamo interagire tramite il computer in pochi secondi con tutti, possiamo spedire un quadro in poche ore, possiamo accontentare i desideri di tutti con pochi click. Vorrei utilizzare la mia giovane età e ben applicarmi alle tecnologie con un vantaggio sugli altri. (a cura di Maria Letizia Paiato) GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 81


ROMA

SEREGNO (MB)

La Galleria Valentina Bonomo propone la mostra Light Music di Brian Eno. Musicista polistrumentista, compositore e produttore discografico britannico, Eno sperimenta le diverse forme espressive come scultore, pittore e video artista. In questo progetto, realizzato per la prima volta in una galleria privata a Roma, Eno mette in relazione due nuove tipologie di lavori light boxes e speaker flowers che esplorano i temi che da sempre ispirano la ricerca artistica dell’artista riguardanti la visione e la manipolazione del tempo, luce e suono.

MixTape è la mostra personale di Laurina Paperina a cura di Rossella Farinotti da Martina’s Gallery. In mostra lavori che spaziano dai disegni su carta, cartone e legni a tele pop, video, fumetti, fotografie, opere che sono state capillarmente studiate, “sezionate” e selezionate da quel macro mondo composto da piccoli personaggi, colte trasposizioni e fantasiose visioni, racchiuso nello Zio Pork Studio.

Brian Eno

Io So, progetto, 2016

MATELICA (MC)

Io So

Io So, in viaggio per Pasolini è la prima tappa del progetto ideato da Giovanni Gaggia e Rocco Dubbini. Presso gli spazi di Palazzo degli Ottoni Gianni Dessì, Davide Dormino, Rocco Dubbini, Alessandro Fonte, Giovanni Gaggia, Gonzalo Orquìn, Roberto Paci Dalò, Dino Pedriali, Giacomo Rizzo, Mario Dondero, Pietro Ruffo riflettono sulla profondità del pensiero di Pasolini con opere che testimoniano l’assoluta attualità delle sue idee.

MILANO

Liu Ding

Personale dell’artista cinese Liu Ding, alla galleria Primo Marella. Con opere di recente esecuzione che riflettono sugli influssi che l’iconografia e la cultura visiva del Realismo Socialista esercitano ancora sulla vita contemporanea globalizzata.

Laurina Paperina

Wang Du

Zoo Zone Art Forum prosegue la sua attività con la mostra intitolata Someday dell’artista Wang Du, il quale ha realizzato un’azione nella sala dello spazio espositivo ispirata da una personale riflessione riguardo la quotidianità dell’esistenza. Azioni semplici e comuni interpretate dall’artista che beve caffè, legge il giornale e suona l’erhu, uno strumento musicale cinese munito di due corde al quale Du è particolarmente affezionato. Liu Ding, Twilights, 2016, tecnica mista, courtesy Primo Marella, Milano

Laurina Paperina, MixTape, 2016, courtesy Martina’s Gallery, Seregno (mb) Wang Du, Someday, 2016, dettaglio dell’allestimento, courtesy Zoo Zone Art Forum, Roma

POLIGNANO A MARE (BA)

Tutorials

Continua alla Fondazione Pino Pascali il percorso all’insegna dell’intercultura con Tutorials, Immagini in movimento e istruzioni per l’uso dalla Cina, un progetto sulla video arte cinese, a cura di Mariagrazia Costantino che coinvolge tredici artisti e altrettanti modi di inquadrare il quotidiano: Guan Xiao, Fang Lu, Li Ming, Li Ran, Lin Ke, Liu Chuang, Liu Shiyuan, Lu Yang, Ma Qiusha, Tao Hui, Ye Linghan, Yu Honglei e Xu Zhen (MadeIn Company).

Yu Honglei, The Farm, 2013, video, 8’50”, courtesy Antenna Space, Shanghai Amici miei, 2016, Atelier Blu, Polignano a Mare (ba)

Amici miei

Allo Studio d’arte Atelier Blu, una mostra di 9 storici amici della galleria, affermati artisti pugliesi: Daniela Corbascio, Claudio Cusatelli, Michele Giangrande, Claudia Giannuli, Iginio Iurilli, Gianni Leone, Massimo Ruiu, Jolanda Spagno, Giuseppe Teofilo e Miki Carone. Il titolo, che richiama il mitico film di Mario Monicelli, Amici miei (1975), vuole suggerire una idea di percorso comune: come i protagonisti della pellicola, anche gli artisti devono esserlo per lavorare e far sentire la propria voce, ma anche per condividere insieme momenti di divertimento.

RENDE (CS)

Vertigoarte IL DISCO

A trenta artisti invitati, è stato dato un format tondo di legno tornito, un disco di 38 cm di diametro entro il quale esprimere la propria ricerca, liberi nella tecnica e nell’uso dei materiali. Una forma storica quella del disco, ispiratrice e ricca di implicazioni simboliche che ne diventano la traccia tematica, ma anche il legame alla nostra tradizione magnogreca, in conformità a una premessa del curatore Ghislain Mayuad. I trenta artisti in mostra hanno avuto modo di confrontare, con differenti linguaggi, un tema unitario intorno all’impenetrabile e vincolante cerchio di legno: Salvatore Anelli, Caterina Arcuri, Salvatore Astore, Bizhan Bassiri, Renata 82 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

Boero, Lucilla Catania, Bruno Ceccobelli, Michele Cossyro, Teo De Palma, Giulio De Mitri, Chiara Dynys, Franco Flaccavento, Andrea Fogli, Andrea Gallo, Ernesto Jannini, Giovanni Leto, Ruggero Maggi, Albano Morandi, Antonio Noia, Luca Maria Patella, Tarcisio Pingitore, Carlo Rea, Ascanio Renda, Cloti Ricciardi, Alfredo Romano, Fiorella Rizzo, Giuseppe Salvatori, Saverio Todaro, Reyna Velázquez, Fiorenzo Zaffina. La mostra è documentata da un catalogo pubblicato da Rubbettino editore, per la collana Arte contemporanea, diretta da Giorgio Bonomi, con testi di Roberto Bilotti, Paolo Aita, Gianluca Covelli, Ghislain Mayaud. I dischi degli artisti, esposti in varie sedi istituzionali saranno definitivamente musealizzati nel castello di Rende.

Giovanni Leto, Disco cromatico e polimaterico, 2016.

Francesco Zaffina, Galassia 2, 2016.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE FIERE D’ARTE

Fiere d’arte

MIART 2016

L’ Fabio Viale, Il Vostro sarà il nostro, 2016. Galleria Poggiali e Forconi, Firenze

edizione del 2016 di MIART, la fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea di Milano si è confermata per l’alta qualità delle gallerie partecipanti e delle proposte di altissimo livello. Lode al direttore Vincenzo de Bellis che ha tenuto il timone per quattro anni consecutivi guidando un team straordinario. Dalla prossima edizione la guida passa ad Alessandro Rabottini, che, come afferma Corrado Pierabon (Amministratore delegato di Fiera Milano) “saprà dare nuova linfa alla rassegna e nuove idee per evolverla sempre di più con l’obiettivo di confermare la leadership di MIART come punto di riferimento nazionale ed internazionale per la cultura”. Da parte sua il neoeletto dichiara – tra l’altro – “Attraverso il progetto di miart 2017 desidero continuare a sviluppare il contesto con cui la fiera ormai si identifica: un luogo di qualità e di scoperta, un crocevia di dialoghi tra storia e tradizione, sperimentazione e innovazione, tra arte visiva e design. Un luogo internazionale, ma frutto di un lavoro e di un’identità italiani.“ Ecco i Premi assegnati quest’anno: per la sezione Emergent, curata da Nikola Dietrich, il riconoscimento è andato alla García Galería di Madrid, ritenuta la più meritevole per l’attività rivolta alla promo-

Donald Judd, Untitled, 1989. Cardi Gallery. London-Milano

Steve Turner Gallery, Los Angeles Markus Lüpertz, Die Toilette (Märkisch), 2014

Loredana Longo, Victory #3, Hiroshima Monument, 2016. Francesco Pantaleone Arte Contemporanea, Palermo Daniele Puppi, Naked, 2014. Magazzino Arte Moderna, Roma

313 Art Project, Seoul

Graham Wilson. Brand New Gallery, Milano Gilberto Zorio, Pelli con resistenza, 1968. Lia Rumma, Milano -Napoli

GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 83


zione di giovani artisti (il danese Rasmus Nilausen e lo spagnolo Karlos Gil). Il Premio HERNO, destinato allo stand con il miglior progetto espositivo alla Galleria Wilkinson per la chiarezza e il rigore dell’allestimento dello stand che esponeva una selezione di opere rarissime di Dara Birnbaum, Jimmy Desana, Derek Jarman, Joan Jonas e Laurie Simmons Una menzione d’onore è stata data alla Galleria Greene Naftali di New York, presente con la mostra personale di Gedi Siboni, alla Galleria Zero di Milano, per la coraggiosa personale di Pietro Roccasalva, e infine alla Galleria Richard Saltoun di Londra per l’approfondita e raffinata ricerca sulle artiste femministe degli anni Settanta. Sette artisti sono stati selezionati per il Premio Rotary Club Milano Brera per l’Arte Contemporanea e i Giovani Artisti: Barbara Bloom (Galleria Raffaella Cortese, Milano), Damir Očko (Galleria Tiziana Di Caro, Napoli), Alicja Kwade (König Galerie, Berlino), Francesco Jodice (Galleria Michela Rizzo, Venezia), Regina Josè Galindo (Prometeo Gallery, Milano/Lucca), Eugenio Miccini (Frittelli Arte Contemporanea, Firenze), Lawrence Abu Hamdan (Laveronica Arte Contemporanea, Modica). (a cura di Lucia Spadano, foto Roberto Sala) Sadie Coles, HQ Gallery, London

Pino Pinelli. Galleria Poleschi, Lucca

Fiere d’arte

ART BRUSSELS 2016

L

a grande novità di quest’anno è stata il trasferimento della Fiera a Tour & Taxis, una nuova location raggiungibile con una breve camminata dal centro. Le gallerie partecipanti sono state 141 con una scelta in favore della qualità invece che della quantità, ma anche per i ridotti spazi a disposizione. Il nuovo spazio fieristico si è avvalso pertanto di tre precise sezioni: quella di Discovery per artisti giovani, emergenti e meno conosciuti: la sezione Prime per artisti di fama consolidata; la nuova sezione Rediscovery dedicata a opere prodotte dal 1917 al 1987 da artisti viventi o scomparsi, poco conosciuti, sottostimati o dimenticati. In tale ambito c’e stata la possibilità di estendere lo stand ad un solo artista proposto dal gallerista. Le suggestioni sono state naturalmente molte per un pubblico di oltre 25.000 visitatori e per una fiera che ha certamente consolidato un suo importante ruolo di proporre artisti emergenti accanto a quelli di fama internazionale. Nella sezione Discovery incontriamo la galleria italiana La Veronica di Modica che porta avanti qui e in galleria il lavoro visionario di Jonas Staal con New World Summit - Rojava. Tra le altre gallerie italiane, nella sezione Prime, Enrico Astuni propone Who is my audience sulla presenza della parola arte in relazione alla grande influenza e gli input del linguaggio scritto nella vita quotidiana contemporanea, attraverso le chat, gli sms e i social networks. Quattro gli artisti proposti: Christian Jankowski, Suzanne Lacy, Maurizio Mochetti, Maurizio Nannucci. Da Thomas Brambilla spiccano Ron Gorchov e Anatoly Osmolovsky, mentre alla Galleria Continua troviamo molte proposte suggestive, tra cui Pascale Marthine Tayou e Hans Op de Beeck. Bella la performance con lettura delle carte alla galleria Marie-Laure Fleisch da

84 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

Salvo, L’uomo che spacca la statua del Dio, 1972 William Kentridge, Silhouette 12, 2016. Lia Rumma, Milano -Napoli

Roma, che nel frattempo ha aperto uno spazio espositivo proprio a Bruxelles. Massimo Minini ha un importante lavoro di Anish Kapoor e quelli di Flavio Favelli ed Ettore Spalletti. Tucci Russo, tra i più storici partecipanti di questa Fiera propone diverse generazioni di artisti giovani e affermati, da Caravaggio, Airò a Tony Cragg, mentre la Brand New Gallery espone il bel Film Stills from ‘Salted Drops’ di Ori Gersht. Douglas Henderson

Laveronica, Jonas Staal. Galleria Continua, Pascale Marthine Tayou.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE FIERE D’ARTE

della Galleria Mazzoli di Berlino con Summer of love scultura in movimento fa da contraltare alla Struttura rotante di Pier Paolo Calzolari con motore, bastone e piatto in legno, bicchiere e calla artificiale. Da sottolineare le specificità di molte gallerie internazionali come la Galleria Alma, Transit di Mechelen, Mehdi-Georges Lahlou, Zidoun Bossuyt Gallery. Interessantissimo il Cabinet d’Amis: The Accidental Collection of Jan Hoet, una collezione fatta da questo curatore non guardando al possibile guadagno ma basata sull’amicizia con gli artisti, per altro i più grandi. Arrivano segnalazioni che si sia venduto benissmo sia a grandi che a piccole cifre!. Fra le gallerie della sezione Prime, la Galerie Lelong di Parigi e New York ha venduto un grande bronzo di Jaume Plensa per 340mila euro, mentre la Galerie Greta Meert di Bruxelles ha ceduto due dipinti di Koen van den Broek per 50mila euro ciascuno. Tra le nuove entry, la galleria Lyles & King di New York, fondata meno di un anno fa, ha venduto nove dipinti di Chris Hood con prezzi da 6mila e 16mila euro e due sculture di Philip Birch, tra cui una scultura video del 2016, Interventionist Agen #2 (Constantine), per 8.500 euro. La galleria Xavier Hufkens di Bruxelles ha ceduto a un collezionista europeo un’opera di Alice Neel del 1965, per 550mila dollari nelle prime due ore della fiera! La stessa galleria ha venduto una maschera di Thomas Houseago per 160mila dollari, una scultura di Antony Gormley per 175mila sterline. Nella sezione Rediscovery, Timothy Taylor di Londra ha venduto due opere di Eduardo Terrazas per 36mila euro ciascuna. La Galerie Daniel Templon di Parigi e Bruxelles ha venduto un’opera del giapponese Chiharu Shiota (quotazioni da 10 a 50 mila euro) che nel 2015 è stato esposto alla Biennale di Venezia. Anche la celebre galleria di Alex Vervoordt di Anversa che ha presentato l’artista giapponese settantenne Yuko Nasaka (una delle pochissime di sesso femminile appartenenti al movimento Gutai) ha venduto una sua opera del 1963 in ceramica e vernice d’auto ad un prezzo tra 150mila e 200mila euro. Le opere degli artisti più giovani hanno goduto un grande successo di vendita. Numerosi curatori e direttori di musei hanno commentato di aver scoperto molti artisti per la prima volta alla fiera. Da segnalare tra i numerosi importanti collezionisti, Michael & Susan Hort dagli USA, Jules & Barbara Farber e Josée & Marc Gensollen dalla Francia, Kamiar Maleki dall’Inghilterra, Shohidul Choudhury dagli Emirati Arabi. Tra i personaggi più attenti al variegato mondo dell’arte, Konrad Bitterli del Kunstmuseum St. Gallen, Iwona Blazwick della Whitechapel Art Gallery, Marina Dacci della Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Numerose anche le presenze di curatori di musei e istituti internazionali, tra cui del Palais de Tokyo e del Centre Pompidou di Parigi, dello Stedelijk Museum e della Tate Modern di Londra. (a cura di Emanuele Magri e Lucia Spadano)

Tomakazu Matsuyama, Warm Water. Ron Gorchov, Thomas Brambilla.

Anton Cotteleer, Kusseneers Gallery.

My Light is Your Life II di Kristof Kintera.

Brand New Gallery Letha Wilson.

Lo stand di Astuni.

Mulier Mulier Gallery, Richard Long, Kosuth.

Tucci Russo, opere di Caravaggio, Airò, Cragg. Almine Recht Gallery – John Creten.

GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 85


Roma, Accademia Nazionale di San Luca

EUR SCONOSCIUTA Il “piccolo codice” di Giuseppe Pagano per la città corporativa e altre visioni urbane di Rossella Martino

L’

Accademia Nazionale di San Luca ha presentato e inaugurato la mostra dal titolo “EUR SCONOSCIUTA. Il “piccolo codice” di Giuseppe Pagano per la città corporativa e altre visioni urbane”, curata da Marco Mulazzani con la collaborazione di Paolo Zermani, autore del progetto di allestimento, Riccardo Butini, Gabriele Bartocci, Lisa Carotti, Chiara De Felice, Francesca Mugnai, Salvatore Zocco e i disegni, le fotografie e altri documenti messi gentilmente a disposizione dalla rivista “Casabella”, Massimo e Sonia Cirulli di Archive, New York ed Eur S.p.A. di Roma; l’occasione è andata a coincidere con la pubblicazione di un fascicolo manoscritto a firma di Giuseppe Pagano, fino ad allora inedito e sconosciuto, rinvenuto fortuitamente da Federico Bucci e Silvia Sala all’interno della biblioteca della rivista “Casabella”, per la quale stavano effettuando una generica attività di riordino e movimentazione del patrimonio librario su indicazione del Direttore Francesco Dal Co, ulteriore e nuova pagina di storia dell’architettura. Il fascicolo manoscritto, nelle dimensioni 280 x 310 mm del tutto identiche a quelle odierne della rivista, rimaste, peraltro, immutate dal 1928, anno della fondazione della stessa, si è rivelato sin da subito oggetto prezioso di estremo interesse, che si è poi pubblicato integralmente in copia anastatica sul numero 842 dell’ottobre 2014, completo di copertina, unite sei planimetrie e sei tavole colorate allegate. Non sorprende che un simile rinvenimento sia avvenuto proprio nella piccola biblioteca della rivista “Casabella”, giacchè l’architetto Giuseppe Pagano ne fu il direttore dal 1935 al 1942, per lasciare l’incarico drammaticamente nel 1945, anno della sua esecuzione nel campo di concentramento di Mauthausen, dove era stato deportato dal 1943. Giuseppe Pagano è indubbiamente uno dei personaggi più interessanti della nostra storia recente, figura complessa, studiato ma non compreso a fondo e che rientra a pieno titolo in quella complessiva riscrittura della storia dell’architettura moderna italiana che le giovani generazioni saranno chiamate a compiere, seguendo l’appello più volte lanciato da Franco Purini a Palazzo Carpegna, a partire, nel caso specifico, da Carlo Melograni fino agli autori degli anni più recenti, tenendo bene a mente che di alcuni inediti a firma di Giuseppe Pagano già ne parlava Gianni Mezzanotte nel 1978, nello stesso anno in cui la rivista “Abitare. Vivere nella casa, nella città, nel territorio” pubblicava il fino ad allora inedito sistema di prefabbricazione “Ferrero” pensato per la costruzione di tipologie edilizie nei nuovi paesi dell’Italia Imperiale. Il “piccolo codice” di Giuseppe Pagano va pertanto ad inserirsi in questa ricca stagione dai confini incerti e tutt’altro che conclusa, perché caratterizzata da quella che Francesco Moschini definisce “dispersione dei materiali d’archivio” riferendosi all’opera dell’architetto pugliese Petrucci (cfr. Arturo Cucciolla, Vecchie città, città nuove. Concezio Petrucci 1926-1946, Dedalo 2006) e che, però e purtroppo, si deve estendere a numerose altre figure, in misure e modalità sempre differenti, legate troppo spesso

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a complesse vicende familiari e/o lavorative. Il colossale cantiere del trentaduesimo quartiere per Roma denominato EUR ha inizio nel 1936, con la costituzione dell’Ente Autonomo Esposizione Universale e Internazionale di Roma, affidato per lo studio del piano regolatore a un “gruppo dei più giovani e intelligenti architetti d’Italia” – sono i milanesi, Banfi, Belgiojoso, Peresutti e Rogers che, in realtà, avevano autonomamente elaborato una “prima forma plastica dell’idea” di espansione della capitale verso il mare, scrive il ministro Bottai, testimone diretto del progetto, avendovi egli stesso partecipato insieme a Bompiani prima ancora che la proposta di candidatura di Roma a sede dell’Esposizione Universale per l’anno 1942 fosse inoltrata al Bureau International des Expositions, e che non saranno coinvolti nella redazione del Piano Regolatore Generale per l’E42: dalla prima alla ventiduesima variante, questi recherà, di fatti, le firme dei soli progettisti Pagano, Piacentini, Piccinato, Rossi e Vietti, mentre i milanesi Banfi, Belgiojoso, Peresutti e Rogers parteciperanno, accanto a un cospicuo numero di progettisti, con le loro proposte, alla definizione dei molteplici padiglioni espositivi che avrebbero scandito il nuovo costruito; tra questi, anche il summenzionato Petrucci, attivo a Roma

Sopra: Esposizione Universale di Roma 1942 Giuseppe Pagano, Piano regolatore della città italiana dell’economia corporativa, 1939 Copertina della relazione. Archivio “Casabella”, Milano. A destra: Esposizione Universale di Roma 1942 Giuseppe Pagano, Piano regolatore della città italiana dell’economia corporativa, 1939 Planimetria con l’indicazione dei singoli padiglioni e delle mostre Archivio “Casabella”, Milano Nella pagina a fianco, in alto: Carlés Buigas, Variorama Magico Studio di un viale d’acqua e luce, 1939. Tecnica mista su cartone, 42 x 71 cm Massimo and Sonia Cirulli Archive, New York; Nelle due immagini in basso: Esposizione Universale di Roma 1942 Giuseppe Pagano, Piano regolatore della città italiana dell’economia corporativa, 1939. La piazza delle grandi industrie col padiglione della meccanica Acquerello autografo. Archivio “Casabella”, Milano. In basso, a sinistra: Immagini relative alla presentazione della mostra “EUR SCONOSCIUTA. Il “piccolo codice” di Giuseppe Pagano per la città corporativa e altre visioni urbane” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, mercoledì 29 ottobre 2014. Fotografie di Giampiero Bucci. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca; In basso a destra: Copertina della rivista “Casabella” 842, ottobre 2014, dove è possibile leggere – e scaricare in omaggio online – l’inedito di Giuseppe Pagano: Piano regolatore della città italiana dell’economia corporativa all’Esposizione universale di Roma 1942. Courtesy: Casabella

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Esposizione Universale di Roma 1942. Studio per illuminazione, 1939. Pastelli su cartoncino nero, 42,8 x 17 cm. Massimo and Sonia Cirulli Archive, New York

come il suo conterraneo Saverio Dioguardi (cfr. Francesco Moschini, Vincenzo D’Alba, Francesco Maggiore (a cura di), Saverio Dioguardi. Architetture disegnate, Adda Editore 2011), entrambi alla ricerca di occasioni concorsuali prestigiose offerte allora dal Regime Fascista, non sempre dall’esito sperato, come nel caso del Padiglione della Sanità e della Razza di Petrucci, scartato dalla Commissione Giudicatrice. Il “piccolo codice” è datato 22 marzo 1939 ed è, pertanto, successivo, sia all’8 aprile 1937, giorno della approvazione del primo piano regolatore dell’E42, approvato nelle linee generali dal Duce con “vivo compiacimento” e sia al 31 marzo 1938, anno della approvazione definitiva con le varianti al piano regolatore precedente e allo scioglimento del gruppo di lavoro iniziale; ed è proprio mentre Giuseppe Pagano veniva estromesso che eseguirà su incarico di Cipriano Efisio Oppo la “consulenza e organizzazione artistica” della allora, temporanea, “Mostra delle forze armate” da realizzarsi nella città dell’Economia Corporativa. Ancora sei mesi e sarebbe scoppiato il secondo conflitto mondiale, mentre il Manifesto della razza era già stato pubblicato nel luglio 1938 e stava generando terribili conseguenze in tutta Europa e su Giuseppe Pogatschnig Pagano stesso, istriano, che verrà pesantemente investito, da questo momento in Immagine relativa alla presentazione della mostra “EUR SCONOSCIUTA. Il “piccolo codice” di Giuseppe Pagano per la città corporativa e altre visioni urbane” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, mercoledì 29 ottobre 2014. Si riconoscono Francesco Moschini e le copie di Casabella 842 disposte sul banchetto. Fotografia di Giampiero Bucci. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca

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poi, da duri attacchi alla sua architettura ed alla sua persona, e che videro, tra gli altri accusatori, gli architetti Terragni, pure invitato dallo stesso architetto a progettare la sua città dell’Economia Corporativa, Sartoris e altri. La città dell’Economia Corporativa, città tra le città che andavano a scompartire il costruendo quartiere EUR insieme alla Città italiana, elemento cardine dell’intera composizione; la Città delle Nazioni; la Città dell’Arte; la Città della Scienza; la Città dell’Africa italiana e la Città degli Svaghi fa proprio il concetto di “città corporativa” che si faceva strada in quegli anni, quando alla ruralità si accompagnava la mediterraneità, al progressismo il passatismo, al nazionalismo l’internazionalismo, al razionalismo il monumentalismo – ricorda lo studioso Carlo Cresti – a partire dalle teorizzazioni di Aleati, Banfi, Belgiojoso, Ciocca, Mazzocchi, Peresutti, Rogers del 1934, secondo cui un piano regolatore per una qualsiasi città italiana, soltanto se emanazione di un piano regolatore dell’intera nazione Italia, poteva risultare improntato all’ordine, alla disciplina, alla comunione degli sforzi e degli scopi. Trasferite al “piccolo codice”, le teorizzazioni prendono vita nel principio dell’unità, declinato come “unità artistica” e “unità di comando”, ma anche “unità di indirizzo”, nel principio della “coerenza tecnica, didattica e psicologica” e nel principio della “chiarezza” che guida una “presentazione ordinata e ben suddivisa, organica distribuzione della materia e un senso estetico unitario e dominante”. La mostra di Palazzo Carpegna ha dunque inizio con la grande Assonometria generale del piano urbanistico dell’E42 datata 1940, tempera su compensato, poi esposta anche alla mostra del 2015 dell’Ara Pacis, “Esposizione Universale Roma. Una città nuova dal fascismo agli anni ’60”, per gentile concessione di EUR S.p.A.: veduta d’insieme del quartiere dove è possibile riconoscere come il progetto della “Città dell’Economia Corporativa” di Giuseppe Pagano cede il posto, nel quadrante nord-ovest, ad un’altra sistemazione. La mostra prosegue presentando il “piccolo codice” nella sua intera consistenza, per gentile concessione della rivista “Casabella”: è la città alternativa all’E42 in costruzione, – scrive Paolo Nicoloso nel suo saggio “La città moderna di Pagano tra gli archi e le colonne di Piacentini” – antitetica, volutamente, alla visione di Marcello Piacentini, di cui è attenuata la rigida simmetria d’impianto e azzerati alcuni capisaldi, tra tutti, l’edificio della Mostra della Romanità, indicato, peraltro, tra i “punti fissi della composizione urbanistica” e “perno urbanistico della zona”, ma anche “estraneo” al raggruppamento dei padiglioni, “la cui presenza in mezzo alle industrie dovrà essere opportunamente giustificata”, si legge nella relazione tecnica di Giuseppe Pagano, insieme al Palazzo dei Congressi e dei Ricevimenti, allora già in costruzione. Enfatizzate, invece, le opere permanenti della Mostra delle Forze Armate – poi delle Telecomunicazioni e Trasporti, quindi del Corporativismo e dell’Autarchia e della Previdenza e Assicurazioni – che si sviluppano in tre palazzi collocati nella Zona 8 dell’Autarchia e del Corporativismo, spettante allo stesso Giuseppe Pagano, “mente unica direttiva che conosce e controlla gli sviluppi del


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piano regolatore della città italiana dell’economia”, secondo la sua stessa definizione, coadiuvato dagli architetti e allestitori Banfi, Belgiojoso, Boggieri, Buffoni, Carboni, De Renzi, Figini, Mondaini, Nizzoli, Peresutti, Pollini. Secondo una disposizione a ferro di cavallo aperto su una corte centrale, saranno progettati due edifici dalla forma stretta e lunga, gemelli, disposti l’uno di fronte all’altro, a firma di De Renzi, Figini e Pollini e un edificio quadrangolare incastrato tra i due, anche noto come la Mostra del Corporativismo, a firma di Guerrini, La Padula e Romano, oggi, tutti e tre sede dell’Archivio Centrale di Stato di Roma. Altre quattro zone – rispettivamente, la Zona del viale delle Industrie, la Zona della Chimica e della Carta, la Zona del Vetro e della Ceramica, e la Zona delle Industrie Agricole – avrebbero visto il diretto controllo di Giuseppe Pagano, mentre le restanti tre sarebbero state divise tra Vietti e Rossi, per un totale di otto zone o quartieri. Tra i novantasei architetti proposti come possibili collaboratori, accanto ad alcuni illustri bocciati ai concorsi dell’EUR, quali Ridolfi, ancora lontano dalla definizione della sua personale “Poetica del dettaglio” riassunta nel volume omonimo a cura di Francesco Moschini e Luciana Rattazzi con Fabrizio Da Col e Giovanni Gardenghi (Edizioni Kappa, 1997), reduce dalla vittoria del concorso per l’Ufficio Postale Nomentano a Piazza Bologna in Roma e ancora aperto alla poetica del Movimento Moderno, Franco Marescotti, stretto collaboratore di Giuseppe Pagano, e che la Accademia Nazionale di San Luca festeggia in questi giorni per la acquisizione completa del suo fondo archivistico, oggetto di approfondimento dell’articolo successivo. Leggendo ancora la relazione tecnica di Giuseppe Pagano, accanto al ripetersi costante della parola “unità”, nel quale può leggersi una polemica mal celata verso la compromessa unità del programma in atto di Marcello Piacentini, si coglie, all’interno dell’articolato programma, una particolare attenzione rivolta alle più diverse espressioni della modernità quali: l’utilizzo di

Copertina del volume: Mario Ridolfi. La poetica del dettaglio. Courtesy: A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

grandi superfici vetrate che permettano anche ai visitatori più distratti e frettolosi di “vedere per sommi capi i diversi contenuti interni delle mostre senza essere forzati a entrare”; l’impiego diffuso di “strade e scale mobili” ma anche di “fontane luminose a ritmo alternato, imitando i soffioni o i geyser”, “insegne”, “addobbi particolari” e “spettacoli di luce con comandi a tastiera” e “accessori esterni”; la cura per la sistemazione generale a verde, secondo un “accordo”, ancora una volta, “unico” nel significato di “unitario”, ma anche, “paesaggistico” con i diversi raggruppamenti di masse architettoniche. Il tutto, a configurare una “grande città vivente e operante in un quadro perfettamente moderno” attiva sotto il profilo economico e industriale, quest’ultimo, rappresentato dai settori alimentare, agricolo, cerealicolo, oleario, estrattivo e minerario, siderurgico e metallurgico, meccanico, chimico, grafico, tessile, dell’abbigliamento e della moda, dell’arredamento e del mobile, della stampa, della pubblicità e del giornale, ecc., in perfetta coerenza con il fine didattico ultimo, cioè quello di suscitare e risvegliare “lo stato di orgoglio per il mondo industriale (italiano) di oggi e un desiderio di conoscenza e competenza”. Intanto Vittorio Cini, Commissario Generale dell’E42, boccia il “piccolo codice” di Giuseppe Pagano, che invita a “rivedere nella disposizione delle mostre”; inutili saranno le successive proposte, studi, relazioni e piante di piani regolatori che saranno “ingoiate dall’operoso silenzio” degli uffici del Regime, scriverà Giuseppe Pagano a Efisio Oppo nel giugno 1940, non poco deluso e deciso a lasciare l’incarico di consulente artistico per la Città dell’Economia Corporativa, frattanto che, sulla rivista “Casabella”, comincerà a pubblicare aspri editoriali: è sul numero 157 che Giuseppe Pagano si scaglierà contro l’ossessione monumentale e le false tradizioni inscenate da Marcello Piacentini al quartiere EUR, lo stesso Giuseppe Pagano che nel giugno 1937 profondeva convinti elogi entusiastici per il nuovo quartiere di Roma. n

Copertina del volume: Vecchie città, città nuove. Concezio Petrucci 1926-1946. Courtesy: A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

Copertina del volume: Saverio Dioguardi. Architetture disegnate. Courtesy: A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

Esposizione Universale di Roma 1942 Luigi Moretti, Teatro Imperiale. Studio per progetto di illuminazione, 1939. Matita e pastelli su cartoncino nero, 38,5 x 73 cm Massimo and Sonia Cirulli Archive, New York

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A C CAC A CDAEDM I AI ANNA A ZZIIO N ALL N CLAU C A EM O NA E ED D I SI ASNALU

vasco

bendini Opere 2000-2013 mostra a cura di

Fabrizio D’Amico comitato scientifico

Marcella Bendini, Fabrizio D’Amico, Carlo Lorenzetti Francesco Moschini, Rosalba Zuccaro

30 maggio 2016 - 1 ottobre 2016 dal lunedì al sabato . dalle 10 alle 19

AccAdemiA NAzioNAle di SAN lucA

piazza dell’Accademia di San Luca 77, Roma | www.accademiasanluca.eu


paolo scirpa

Paolo Scirpa, Percorsi comunicanti, 1989-1999. Particolare. Museum Ritter, Waldenbuch, 2011

[…] Dagli ambienti fosforescenti di Lucio Fontana a quelli a firma del Gruppo T, come la stanza di specchi a luce strobo, o la stanza per la stimolazione percettiva, fino agli spazi elastici di Gianni Colombo, il cui nero di fondo complice della luce di wood impedisce completamente al visitatore di intuire quelli che sono i confini dello spazio attraversato da linee in movimento, è il disorientamento alla base sia del cambio di ruolo, sia del cambio delle prerogative dello spettatore. Negli ambienti si determina appunto un effetto di espansione e dilatazione senza limiti apparenti, e questo disorientamento rispetto all’opera, conduce lo spettatore a porsi degli interrogativi atti a capire in primo luogo lo spazio in cui si trova. Su questa falsariga potrei camminare su un gigantesco vetro a dimensione ambiente posto a pavimento, sotto al quale un enorme ludoscopio con tubi al neon di Paolo Scirpa suscita un “brivido da vertigine”, mediante la sua storica e geniale idea dei primi anni ’70, di creare con specchi e forme circolari o quadrate di tubi al neon, posti in rapida successione, incredibili profondità illusorie intorno o sotto di noi. Idea questa, che recentemente abbiamo visto essere non tanto scippata, in quanto nessuno può toglierla a lui, ma abilmente copiata di sana pianta direi, da qualche avventuriero dell’arte […] Da Artapartofculture, La mostra che non ho visto #39. Carlo Bernardini, di Ganni Piacentini - 3 ottobre 2013

www.paoloscirpa.it


Roma, Accademia Nazionale di San Luca

Franco MARESCOTTI La casa per tutti/Housign for everyone di Rossella Martino

L’

Accademia Nazionale di San Luca ha partecipato alla VI Giornata Nazionale degli Archivi di Architettura Contemporanea, che per l’anno 2016 ha assunto il sottotitolo “La città dell’uomo”, collocandosi nei giorni compresi tra il 15 e il 25 maggio, fissato il 19 maggio come giornata ufficiale di riflessione; città dell’uomo è locuzione coniata in origine dall’industriale Adriano Olivetti che così intitola il suo terzo libro, pubblicato nel 1959 pochi mesi prima che morisse e da tanti considerato il suo testamento spirituale, così attuale da essere stato preso in prestito, recentemente, anche dalla rivista di architettura “Domus” come motto ed esortazione ad una rinnovata stagione di progresso e di civiltà che ai clienti sostituisca di nuovo i cittadini e gli uomini, dal momento che lo scopo primario dell’architettura, ha scritto Nicola Di Battista, dovrebbe essere quello di “realizzare i luoghi dove l’uomo abita, dove l’uomo lavora, dove l’uomo si diverte, cioè a dire dove l’uomo possa pienamente e liberamente e poeticamente abitare”, e quello di esercitare quella “responsabilità sociale” che gli è connaturata. In questa temperie culturale contemporanea e all’interno del ricco programma di eventi diffusi su tutto il territorio nazionale, si è andata a collocare anche la presentazione al pubblico, per un solo giorno, fissato per lunedì 23 maggio 2016, di una campionatura di materiali eterogenei del Fondo Marescotti di recentissima acquisizione, raccolti entro una one-day exhibition intitolata “La casa per tutti. Franco Marescotti (1908-1991)” introdotta da una conferenza di Maristella Casciato dal titolo “Vivere l’Architettura”. La mostra “La casa per tutti. Franco Marescotti (1908-1991)”, a cura di Francesco Moschini e Laura Bertolaccini, in collaborazione con Fabrizio Carinci e Alessio Miccinilli, si è configurata secondo un principio che nei contesti curatoriali museali internazionali è noto con il termine di “out of the box”, ovverosia, esposizione di materiali che davvero, allo stato attuale, sono parzialmente conservati all’interno di scatole di cartone, arrivate nel gennaio 2016 dalla città di Catania, ultima sede universitaria di Franco Marescotti, in donazione presso gli spazi della Accademia Nazionale di San Luca, già avviati a catalogazione; per un solo giorno è stato possibile ammirare la parziale entità del nuovo Fondo, consistente in oltre millecinquecento disegni, qui campionati in alcuni esempi sul tema della casa – in mostra, studio di case per operai, studi per abitazioni in altezza a piani alternati, studi per tipi edilizi, Studio di un quartiere per la “Città del Sole”, ma anche opere costruite quali i Quartieri di Milano Varesina, Baravalle, Mangiagalli e Baggio I, il Centro Cooperativo di Milano “Grandi & Bertacchi”, per citarne alcuni

–, realizzati con l’ausilio di diverse tecniche di rappresentazione, dalla matita, alla china in forma di schizzi d’insieme e di particolare e dettagli tecnici e planimetrie urbane, alcuni di questi realizzati con la tecnica del collage di parti applicate come sono, automobili, alberi, lucidi, tempere colorate, fotografie, relazioni tecniche: sono gli strumenti operativi dell’architetto del Novecento, padroneggiati con abile maestria da Franco Marescotti che dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento si appassionerà anche alla realizzazione di plastici polimaterici (cartoncino, compensato, plexiglas, ecc.) un centinaio conservato presso il nuovo Fondo. Il tutto è stato reso possibile grazie alla entusiasta e instancabile attività di tre giovani catanesi, Sabrina Zappalà, Roberto de Benedictis, Enzo Fazzino a cui lo stesso Franco Marescotti aveva consegnato l’archivio in eredità, difeso e vegliato, insieme alla docente catanese di urbanistica, Piera Busacca, fintanto che conquistasse una sede definitiva e confortevole. La mostra “La casa per tutti. Franco Marescotti (1908-1991)” si inserisce, inoltre, in una serie di occasioni espositive itineranti, che si sono già avute sul lavoro dell’architetto quando ancora egli era in vita, fatte coincidere con successive date significative che qui vale la pena, pur sinteticamente, ripercorrere: la prima si è tenuta all’indomani della pubblicazione di quella che ancora oggi costituisce l’unica monografia sull’opera di Franco Marescotti, realizzata da Maristella Casciato e Giorgio Ciucci, intitolata “Franco Marescotti e la casa civile. 1934-1956” (Officina Edizioni, 1980), tra maggio e luglio 1980 nella città di Pesaro, insieme a Manfredo Tafuri, per poi spostarsi in diverse sedi universitarie di architettura italiana, mentre, nel frattempo, l’archivio veniva spostato dalla casa sulle pendici dell’Etna, immersa nel profumo di zagare nell’edificio della Casa della Città, Villa Zingali Tetto di Catania; la seconda si è tenuta nel 2008, in occasione del centenario della nascita e conferimento di una Menzione d’onore alla Memoria, in forma di convegno che problematizzava il social housing e il caso del Librino, quartiere satellite a sud-ovest di Catania, progettato nella metà degli anni Sessanta dall’architetto giapponese Kenzo Tange come autonomo, e che aveva interessato Franco Marescotti negli anni della sua vita siciliana. Con l’improvvisa chiusura della Casa della città dell’Università di Catania e l’indisponibilità della Facoltà di Ingegneria ad accogliere una eredità così vasta, comincia ad attivarsi un interesse ed una sensibilità che porteranno alla donazione del fondo alla Accademia Nazionale di San Luca. Il 23 febbraio 2016 la Soprintendenza archivistica del Lazio dichiarava il Fondo Franco Marescotti della Accademia Nazionale di San

Immagine relativa alla presentazione della mostra “La casa per tutti. Franco Marescotti (1908-1991)” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, lunedì 23 maggio 2016. Si riconoscono, Laura Bertolaccini, Maristella Casciato e Francesco Moschini. Fotografia di Giampiero Bucci Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca

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Luca di pubblico interesse storico-artistico. La riflessione sull’abitare negli anni della ricostruzione italiana nel Secondo Dopoguerra certamente costituì uno degli interessi principali di Franco Marescotti che riuscì a coniugare una esigenza avvertita allora come urgente, cioè quella di garantire, appunto, “una casa per tutti” con la maturazione di una personale gamma di soluzioni, insieme, tecniche, costruttive ed architettoniche fatte scaturire da quella domanda abitativa diversamente interpretata, in quegli stessi anni, in Francia da LC; e, a ben vedere, la ricerca di soluzioni provenienti dal mondo della “prefabbricazione” e dell’industria e lo sguardo rivolto alla “standardizzazione” – tematiche approfondite sulla rivista Segno 257 sul tema “Standard Montaggio Organizzazione

Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago” – rappresenta un punto di tangenza tra i due architetti, ricordando come Marescotti facesse però derivare l’interesse per il componente edilizio dai suoi studi ingegneristici, laddove la soluzione costruttiva e la analisi e sperimentazione dei materiali per la costruzione erano maturate, di volta in volta, sul campo, mentre la composizione architettonica era inizialmente ispirata alle realizzazioni osservate nell’ambito dell’existenzminimum tedesco degli anni Venti del Novecento. E se, ancora, l’approdo sembra essere, in entrambi gli architetti, ad una razionalità distributiva, emanazione di un attento disegno della cellula abitativa tipo, controllata nelle dimensioni secondo primi studi di ergonomia che avrebbero portato LC alla

Copertina del volume: Giuseppe Vaccaro. La casa di serie. Appunti sull’abitazione 1940/1942. Courtesy: A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

“La casa per tutti. Franco Marescotti (1908-1991)” Roma, Palazzo Carpegna. Fotografia di Giampiero Bucci Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca

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In queste pagine alcune immagini relative alla mostra “La casa per tutti. Franco Marescotti (1908-1991)” Roma, Palazzo Carpegna. Fotografia di Giampiero Bucci Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca

definizione del suo modulor e Marescotti, insieme a Diotallevi, al recupero del canone umano di Lisippo e di Leonardo Da Vinci e del normolineo italiano del Viola come guida per la risoluzione del Problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione, di nuovo le strade che sembravano convergenti, divergono, laddove LC finirà col predicare un housing sociale a sviluppo verticale su pilotis contro il consumo di suolo indiscriminato, esemplificato nella tipologia della Unité d’habitation, – la prima realizzata a Marsiglia nel 1946 –, mentre Marescotti insieme a Pagano e Diotallevi teorizzeranno la Città Orizzontale già nel 1940. Ulteriore momento di convergenza tra i due architetti si avrà quando Marescotti insieme a Diotallevi commenteranno sul numero 147 della rivista “Domus”, nel 1944, La maison des hommes di LC, scritto del 1942, tradotto in italiano soltanto nel 1975 a cura di Giuliano Gresleri: la casa degli uomini, di cui già si occupava Marescotti con Pagano e Persico, poi declinata nella Casa per Uno e Infiniti Uomini. Sono questi anni decisivi per l’Italia, che vedono l’attivarsi di un vivace e fertile dibattito culturale su tematiche civili e sociali, intrecciate alle vicende architettoniche e tecniche in genere sulle riviste di architettura. Alle spalle, la stagione consumata alla “Casabella-costruzioni” / “Costruzioni-Casabella” in cui Edoardo Persico e Giuseppe Pagano, ma soprattutto quest’ultimo, accanto alla denuncia di una maggioranza italiana antimoderna che operava all’ombra del monumentalismo architettonico e celebrativo del regime fascista (si veda l’articolo precedente su Giuseppe Pagano e l’EUR sconosciuta, n.d.r.) ed alla affermazione di un bisogno di modernità, portava alla attenzione la “casa dell’uomo” ed ad un esame approfondito delle componenti sociali e politiche della casa per i ceti meno abbienti e per le realizzazioni esemplari, che troveranno spazio poi sui numeri 161-162 e 163 della detta rivista. I tre numeri furono poi rilegati e raccolti dall’Editoriale Domus in un volume, “Ordine e destino della casa popolare” (1941) con una introduzione di Giuseppe Pagano sui temi della casa dell’uomo e della casa per tutti, il quale appone in epigrafe al suo scritto le parole di Leon Battista Alberti: Le fabbriche dei poveri siano per loro facultà a quelle dei ricchi simili. Il dibattito sulla casa proseguì con programmi e proposte profondamente diverse tra loro: è degli anni Quaranta il programma di studio di Giuseppe Vaccaro contenuto ne “La casa di serie. Appunti sull’abitazione”, piccolo libro pubblicato per la collana diretta da Francesco Moschini “Esercizi, Testi & Immagini” (Kappa edizioni, 1982), laddove l’incipit recita: “l’industrializzazione è l’unica via di salvezza. Si tratta di una necessità di un vasto contributo alla diffusione nelle masse dei benefici della giustizia sociale”, pertanto, in perfetto accordo con le teorizzazioni e il credo di Franco Marescotti, quando si stagliava all’orizzonte Mario Ridolfi, la cui pratica artigianale dell’architettura finirà con l’oscurare quasi del tutto lo slancio propositivo alternativo legato all’industrializzazione e al concet94 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

to di “componente edilizio”, definitivamente con la pubblicazione del Manuale dell’architetto nel 1945 che, di fatto, diffonderà una prassi operativa ancora legate alla regola d’arte delle maestranze locali. Ma ciò non impedì a Franco Marescotti, pur dalla sua posizione laterale, di proseguire e affinare la sua ricerca e lo farà realizzando le tavole staccabili dei Particolari Costruttivi di Architettura, apparse nel bienno 1942-1943 sulla rivista “Costruzioni-Casabella”, primo autentico manuale tecnico per la ricostruzione, che anticipava il noto Manuale dell’Architetto di Mario Ridolfi. La casa dell’uomo – e non, per l’uomo – finirà così col coincidere con la casa popolare, non definita da uno stile popolare, come scrive Giuseppe Pagano, ma concentrata sul problema sociale, come fu affrontato da Franco Marescotti nel citato Problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione, apparso in tavole sciolte acquistabili in edicola, secondo un atteggiamento da enciclopedia positivista, dove si legge, tra le altre riflessioni: “la casa commisurata alle esigenze umane, organizzata nei suoi rapporti, costruita industrialmente, è un prodotto sociale […]la casa senza aria e sole, senza servizi igienici, vecchia e sovraffollata è una malattia sociale […] le vecchie case, le vecchie città, non devono essere ricostruite, ma costruite secondo nuovi principi[…] la distribuzione delle abitazioni costituisce un unico fatto economico inscindibile da quello del lavoro per tutti” (si affaccia, per la prima volta così chiaramente in Franco Marescotti, la tematica della lotta alla disoccupazione, che avrà modo di approfondire nella militanza all’interno della CGIL); sarà declinata in casa-unità nel progetto della Città Orizzontale pubblicato sul numero 148 di “Costruzioni-Casabella”, a un solo


osservatorio critico ATTIVITÀ DIDATTICHE

piano aggregabile a schiera e connessa ai servizi di quartiere ed alle attrezzature urbane, a un anno dalla proposta della “Milano verde” di Pagano, Gardella e Minoletti, e che ispirerà la unità d’abitazione orizzontale al quartiere Tuscolano di Roma del 1950 di Adalberto Libera; confluirà nei centri sociali cooperativi come modelli alternativi a quelli proposti dall’ente INA casa, soluzioni alla definizione delle periferie urbane, costruiti da Franco Marescotti tra il 1948 e il 1955. La serata a Palazzo Carpegna si è conclusa con il ricordo di Sabrina Zappalà e Piera Busacca e la finale riflessione di Maristella Casciato, secondo cui la definizione di “eredità intellettuale” associata all’Archivio di Franco Marescotti non sarebbe piaciuta all’architetto stesso: Franco Marescotti si è collocato, volutamente, al margine del dibattito, pur avendo anticipato molte tematiche e sviluppi successivi con sorprendente acume; conservava tracce di sé, forse, immaginava che, un giorno, la sua

attività potesse essere raccolta all’interno di uno spazio strutturato che provvedesse ad una catalogazione e inventariazione sistematica che lui, in vita, non aveva avuto modo di realizzare, ma pensava al suo lascito sempre in un’ottica viva e operante, che fosse al servizio della pratica lavorativa dell’architetto. Ed è proprio alla luce di questo “modesto” obiettivo che acquista un particolare significato l’aver fatto arrivare la sua lezione all’interno di una istituzione così prestigiosa come è l’Accademia Nazionale di San Luca, che invita studiosi e ricercatori, dottorandi e architetti a ristudiare Franco Marescotti, anche alla luce dei preziosi input disseminati da Maristella Casciato nella sua conferenza, e come sembra suggerire la copertina del nuovissimo “Modernism and Landscape Architecture, 1890-1940” (Yale University Press, 2015), raffigurante la tempera di Franco Marescotti per lo Studio di case per operai dell’agosto 1935, visibile in mostra. n

GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 95


Sarenco Caravanserraglio lla Fondazione 107 di Torino, antologica dell’artista che ha fatto della A parola la sua arma, la sua amata: Sarenco

profeta del linguaggio si presenta con la mostra: “Caravanserraglio”; una massa di opere che si fermano nello spazio proprio come le carovane che sostavano per ritornare ad essere viandanti nel deserto. Per Sarenco la “sosta” dei suoi lavori rappresenta una pausa attiva, riflettendo sul topos caro ad Ulisse: il Viaggio. Nella Galleria espositiva ci sono 200 collage realizzati nel 2015-16, che vogliono essere una rielaborazione delle sue opere più significative dal ’63 ad oggi, un corpus dal nome le Carte di Salò; al centro della sala s’impongono sculture oltre 4 metri bianche laccate, sono i “Giganti della cultura”, Marinetti, Apollinaire, Tzara, e Breton. Non mancano pitture, installazioni di tecniche miste che gridano parole visive, il suono della parola è nella mente e nell’azione che fa la storia. Le opere di un poeta visivo come Sarenco rinascono tutte le volte che un fruitore portatore di coscienza vede e sorride con lo stesso sarcasmo intelligente di ciò che ha visto. In una grande mostra non poteva mancare un omaggio al centenario movimento Dada, in una sala a parte 42 opere ed una scultura raffigurante il dittatore Amin Dada; l’installazione prende il nome di African Dada per dimostrare che questo grande movimento artistico proviene da radici oltre quell’Occidente che ha messo a tacere chi ha amato ed indagato la terra, la materia, l’io e l’altro. Dall’Africa al Dada, la scoperta è nel viaggio e la mostra in corso se ne fa portavoce. L’esposizione è accompagnata da un catalogo bilingue italiano-inglese con testi di Achille Bonito Oliva, Enrico Mascelloni e dello stesso Sarenco.

Diego Marcon

vince la prima edizione del

Club GAMeC Prize

iego Marcon è il vincitore della prima edizione del Club GAMeC Prize, D riconoscimento ideato da Club GAMeC per premiare il lavoro di un giovane artista che entra così a far parte delle collezioni della GAMeC. L’annuncio in occasione di The Blank Art Date, presso la Residenza Casarotto di Albegno, sede di (NOT) SO CLOSE, mostra degli artisti invitati a partecipare al premio dal curatore Davide Giannella: Alessandro Agudio (1982), Riccardo Benassi (1982), Alessandro Di Pietro (1987), Diego Marcon (1985). Il Club GAMec Prize ha coinvolto quattro artisti nati negli anni ’80 che indagano in maniera differente alcuni paradossi dell’epoca digitale: l’il96 - segno 258 | GIUGNO/LUGLIO 2016

Keywords Decalogo per una formazione all’arte contemporanea di Antonella Marino e Maria Vinella Franco Angeli, Milano 2016,pp.187, euro 23,50

un libro destinato ad un target eterogeneo. Se quindi non lo si inquadra È come uno strumento didattico per addetti

ai lavori, mondo accademico, studiosi, docenti, studenti universitari, il testo può considerarsi un utile viatico per quanti si approcciano ad una materia di per sé duttile e stratificata. Che l’arte contemporanea sia un universo complesso, del resto, non è una novità, quello che, invece, risulta più difficile è tastarne il polso in tempo reale. Il volume a riguardo si avvantaggia di una metodologia che, entra direttamente nel cuore del sistema, mettendo insieme i contribuiti di artisti e studiosi di respiro internazionale, confluiti nel progetto didattico/ laboratoriale ‘Educational Management per l’arte contemporanea, promosso dall’Accademia di Belle Arti di Bari, dal 2013 al 2015. Su tali riflessioni, che partono da una presa diretta delle questioni oggi cogenti, il libro si interroga intorno alle strategie di apprendimento più adatte per gestire l’approccio al contemporaneo tra memoria e innovazione. L’agile format, dieci keywords, intrecciate solidamente ai temi fondanti del dibattito artistico contemporaneo, aiuta a governare con chiarezza gli argomenti trattati. Si parte con la puntualizzazione del paradigma, ossia ragionando intorno all’idea stessa di Contemporaneità, non una fatua tautologia, ma la dimostrazione teorica di quanto l’arte contemporanea sia contemporanea a se stessa, ossia si occupi dei grani temi che impegnano il nostro presente, anche quando risulti difficile da interpretare e soprattutto da decodificare in merito alle modalità con cui si esprime. New media, multiculturalismo e migrazioni, globalizzazione, tecnologie, ecosostenibilità e emergenza ambientale, questioni identitarie, didattica museale, neofemminismo, virtuale e reale, sono i molteplici attraversamenti tematici che la pubblicazione si concede e che affida alle parole-chiave: Biodinamiche, Docufiction, Mediazioni, Oltre-Media, Transiti, Città, Femminismi, Educational, Musei . Del resto, la prospettiva multidisciplinare appare ancor piú ineludibile in questa fase complessa in cui l’arte richiede una pluralità crescente di modalità creative, produttive e di scambi tra paradigmi dominanti e sottoculture. Su ciascuno dei dieci assi teorici individuati, il volume tenta una sistematica puntualizzazione nell’esperienza concreta di quegli artisti nei quali tali scenari diventano sintassi creative, elaborazioni visionarie con cui l’arte dà forma al presente. Le conversazioni d’artista con Fabrizio Bellomo, Riccardo Benassi, Emilio Fantin, Chiara Fumai, Angela Marzullo, Adrian Paci, Marinella Senatore, Gian Maria Tosatti, sono il punto d’arrivo di workshop tenuti in Accademia e costruiti dialetticamente con gli studenti e con le istituzioni e le gallerie locali. Esperienze da un passato recentissimo, documentazioni d’artista, focus sulle sperimentazioni visive più vivaci della scena nazionale e straniera degli ultimi anni, azioni sul campo, costituiscono i tasselli di un volume che collauda l’ebbrezza dell’apertura, dell’accoglienza, dell’ibridazione dei linguaggi, della stimolazione critica con l’obiettivo di formare maieuticamente, attraverso l’arte, una coscienza collettiva, funzionalmente attrezzata alla comprensione di una contemporaneità a tutto tondo. Ai contributi critici delle curatrici, Antonella Marino e Maria Vinella, docenti presso il Dipartimento di Arti Visive dell’Accademia di Belle Arti di Bari, si affiancano quelli di Christian Caliandro, Cristiana Perrella, Francesca R. Recchia Luciani, Marco Senaldi, Maria Rosa Sossai e Andrea Viliani. Marilena Di Tursi

lusione di esser costantemente connessi ad avvenimenti e persone su scala globale prodotta dalle tecnologie e la conseguente e, forse, consapevole distanza che si è venuta a creare tra gli individui sul piano del reale. Il riconoscimento a Diego Marcon è stato assegnato dalla giuria presieduta dal Direttore GAMeC Giacinto di Pietrantonio e composta da Stefano Raimondi (The Blank), Giuseppe Casarotto (Presidente Club GAMeC), Diego Bergamaschi (Vice Presidente Club GAMeC) e Antonio Grulli, critico d’arte. L’opera dell’artista vincitore Untitled (Head falling 01, 02, 03, 04, 05) è una serie di brevi animazioni pensate come loop continui, in cui il primo frame coincide con l’ultimo, generando un movimento perpetuo e logorante: si tratta del cedimento di teste ritratte nel momento in cui cascano dal sonno e ritornano sveglie. I film sono realizzati dipingendo direttamente con inchiostro e incisione su pellicola 16mm.

Paolo Scheggi Catalogo Ragionato Skira editore

aolo Scheggi (Settignano, Firenze 1940 – Roma 1971) a Milano dal 1961, P dapprima attento alle istanze dell’Informa-

le, poi vicino all’ambiente artistico lombardo, collabora con Germana Marucelli, suscita l’attenzione di Lucio Fontana ed è seguito dalla critica più influente dell’epoca: Argan, Bucarello, Belloli, Celent, Dorfles, Kultermann si occupano di lui riconoscendolo tra i maggiori esponenti della Pittuta Oggetto. Skira editore propone un Catalogo Ragionato, curato da Luca Massimo Barbero, che ripercorre le tappe della carriera di Scheggi, una pubblicazione completa che approfondisce la sua intera esperienza artistica, comprendendo vari scritti di quel periodo e anche alcuni inediti. Il volume mostra la sua vivace e incessante ricerca interdisciplinare attraverso 650 opere comprendenti progetti ambientali, maquette e performance, assemblaggi, fino alle ricerche di integrazione plastica all’architettura, a quelle di poesia visuale, concettuale e azioni urbane e teatrali.


osservatorio critico LIBRI E CATALOGHI

Pietro Marino

L’angelica farfalla di Giulio De Mitri, er la collana L’arte e la storia, diretta da Silvano Trevisani (Casa Editrice & P Libraria Edit@). a proposito del lavoro di

Giulio De Mitri, Pietro Marino definisce l’artista pugliese “pioniere di tecniche e pratiche di luce artificiale ai fini espressivi sempre più sofisticate e di “una ricerca ostinata di bellezza“. Il saggio di Pietro Marino – scrive Trevisani – sintetizza ed essenzializza la recente ricerca di Giulio De Mitri protagonista italiano della Light Art.

zione, innovazione e sviluppo sostenibile, si è interrogato sulla Conservazione del design, disciplina recente nata a seguito di problematiche riscontrate nelle nascenti collezioni museali di design in Europa e in Italia. Conservare il design significa conservare oggetti-simbolo e oggetti-testimoni della cultura materiale ed estetico-artistica attuale. È dunque impegno di estremo rilievo, reso tuttavia complesso dalle insite caratteristiche di variabilità, deteriorabilità e instabilità dei materiali contemporanei, a cominciare dalla plastica, e che richiede la definizione e lo sviluppo di un’identità specifica per il restauro del design, differente rispetto a quella da tempo strutturata del restauro d’arte. Il libro d’artista e la collezione

in ricordo di Giorgio Maffei

el Terzo appuntamento del ciclo di eventi legati alla mostra L’InarchiN viabile/The Unarchivable. Italia anni 70, a cura di Marco Scotini, dopo la presentazione del libro di Tommaso Trini, Mezzo secolo di arte intera. Scritti 1964-2014, FM Centro per l’Arte Contemporanea di

Milano ha dedicato una serata alla memoria di Giorgio Maffei, grande collezionista ed esperto di libri d’artista, recentemente scomparso e prestatore di opere dalla sua collezione per la mostra in corso. La ricognizione de L’Inarchiviabile sulla scena artistica degli anni ‘70, un’epoca in cui anche Germano Celant parla di arte offmedia, è occasione per tornare a riflettere sul libro come forma d’arte. Durante l’incontro si è trattato del ruolo del libro d’artista nella storia dell’arte del ‘900 e della sua presenza in importanti collezioni italiane, delle sue forme e della sua conservazione. Giorgio Maffei (Torino, 1948-2016) si è occupato del rapporto tra arte figurativa ed editoria dalle avanguardie storiche del Novecento alla contemporaneità. Ha dedicato in particolare le sue ricerche a quel tipo di forma d’arte che, pur nella provvisorietà e imprecisione del termine, si definisce come “libro d’artista”. Oltre a curare mostre in musei europei, americani e giapponesi ha formato una collezione di circa 3000 libri italiani e stranieri che costituiscono un panorama esaustivo della produzione del ‘900, con particolare attenzione alle opere delle avanguardie artistiche degli anni Sessanta e Settanta.

Valentina Neri Le donne di Balthus

concludere la grande mostra monografica che ha esaltato il nome A di Balthus, è arrivata a Roma una delle

Simona Weller Marinetti amore mio Marlin Editore 2016

a storia di un incontro fatale e dell’amore che unì per la vita l’inventore del L Futurismo e la pittrice Benedetta Cappa. “Nei primi anni Settanta del Novecento, feci una ricerca sulle artiste protagoniste di questo scorcio di secolo. – afferma l’autrice Simona Weller – Riuscii a conoscere la Raphael, la Broglio, la Lazzari, Barbara. Stavo per incontrare Benedetta Cappa quando mi dissero che ero ricoverata a Venezia in una clinica, dove poi nel 1977 è morta. Così mi è rimasto il rimpianto di non averla conosciuta di persona. Mentre scrivevo di artiste e approfondivo il loro mondo, divenni amica delle sorelle Levi Montalcini, due autentiche amazzoni. Ricordo che mi telefonavano per sapere se fossi “sola” e stessi lavorando e, alla risposta positiva, commentavano: “Brava, brava…”. Ho sempre pensato che anche Benedetta, cresciuta in un mondo di uomini (unica femmina di cinque figli), avesse una sua virilità segreta. Nell’incontro con Marinetti, oltre la passione, secondo me c’erano molte altre cose: agonismo e antagonismo, sfida e orgoglio, fierezza della propria identità di genere. Benedetta voleva dimostrare che anche una donna può… E mi sembra ci sia riuscita egregiamente”.

Il Futuro del contemporaneo lla Fondazione Plart di Napoli, presentati gli atti del convegno “Il FuA turo del Contemporaneo. Conservazione e

Restauro del Design” (Gangemi Editore), a cura di Giovanna Cassese. Alla presentazione interventi di Rossella Paliotto, Marina Santucci, Cherubino Gambardella, Stefano de Stefano. Il convegno, tenutosi a maggio 2015 nell’ambito del Festival internazionale del design - Tradi-

scrittrici contemporanee che già in tempi non sospetti tentava di restituirgli il giusto spessore simbolico. Valentina Neri ha pubblicato Le donne di Balthus (Arkadia editore) per ciò che le hanno trasmesso le opere del maestro Balthasar Klossowski de Rola (1908-2001) e, a quindici anni dalla sua scomparsa, è stato ristampato in suo tributo. Il libro, che per ricchezza stilistica supera i confini del genere giallo, s’incastona su una delle opere manifesto dell’esposizione alle Scuderie del Quirinale, sulla potenza espressiva de La Chambre (1952-54, olio su tela), che illumina il mistero sul quale si fonda la trama. Un’oscurità necessaria per ritrovare la luce, non a caso com’è per le donne dipinte da Balthus, per la tensione dei loro sguardi proiettati oltre l’incertezza di una finestra chiusa. Ne La Chambre si evince la natura enigmatica e contraddittoria dell’artista, avvezzo ai vetri opachi: non si comprende a pieno se la figura femminile si sia abbandonata sulla poltrona a seguito di un’estasi o di un dolore atroce. Se respiri ancora o se sia morta. Il cuore dell’indagine di Selene, l’ammaliante protagonista, e dell’amica Ludovica pulsa grazie a un segreto. Invece la “nana” che tira la tenda, com’è stata definita dalla critica, sembra far luce sull’accaduto e quindi sulla caduta umana. La sensazione di angoscia che percepisce il fruitore aumenta, ma Balthus non giudica; anzi, si raffigura all’interno dell’opera, nei panni di un gatto, di un felino voyeur. “L’intreccio è di una sapienza rara: scorre fluido pur trattando di fatti tremendi – ha argomentato Silvio Raffo – La Neri intesse un mosaico sugli equivoci dovuti a rovinose passioni, in grado di commuovere con eleganza, senza un grammo di volgarità”. Il tessuto del racconto acquista rapidamente slancio, quasi si trattasse di una serie di pennellate sulla tela. Le domande a cui è condotto il lettore affiorano rapidamente, grazie a una narrazione buia e contorta, ma solo in apparenza. Proseguendo lo stile della Neri si dimostra scorrevole e incalzante, i colpi di scena inaspettati e i nodi vengono all’improvviso al pettine dei lunghi capelli di Selene, che finiranno per sbrigliarsi con naturalezza. È intensa la passione dell’autrice per la storia dell’arte, spaziando «dalla Metafisica di De Chirico ai volumi cezanniani, dai toni chiari eppure tanto inaspettatamente cupi», all’entroterra naif dell’isola a cui ella stessa è radicata; infatti nel frangente in cui Selene si trova di fronte a un dipinto, tutto intorno a lei si placa. Valentina Neri esce dal corso del tempo a suo piacimento e, attraverso vivide descrizioni, trasporta chi legge nel suo immaginario emotivo. D’altronde, è Balthus tra le righe a citare l’amico Duchamp: «Un quadro che non sciocca, non vale la pena». La sua poetica emerge tra la produzione e la vita privata in maniera puntuale, dentro le lettere del fratello Pierre, uno dei suoi critici più acuti. Avere tra le mani Le donne di Balthus prima di entrare in mostra consentiva di calarsi profondamente nel linguaggio dell’artista. E quasi a prevederlo fu Maria Luisa Spaziani, che volle presentare il libro per prima nella Capitale, a una delle sue ultime apparizioni pubbliche. La poetessa romana d’adozione conobbe di persona il maestro parigino mentre frequentava l’Accademia di Villa Medici: “Queste pagine mi riappacificano con la narrativa – ha affermato la Spaziani – Un romanzo notevole per la sua memoria, che non ebbe la fama meritata”. Matteo Bianchi GIUGNO/LUGLIO 2016 | 258 segno - 97


N

“Metti l’Arte in Banca”

ella Piazza più rappresentativa della città di Napoli culla di storia e tradizione, in un edificio del fine 700 che prese il nome di Palazzo Partanna, nel 2014 inaugura la sede di Banca Fideuram, una nuova opportunità per il rilancio economico della città Partenopea, impegnandosi ad informare e formare i clienti attraverso un rapporto di fiducia e con l’intento di far riemergere la città con nuove idee. Napoli rappresenta un patrimonio culturale e l’istituto bancario vuole creare uno scambio tra arte e imprenditoria, attraverso trasmissioni di sapere e competenze; nasce una nuova identità di Banca privata, vestendo i propri spazi d’arte contemporanea. L’ istituto si fa promotore di cultura in collaborazione con Franco Riccardo che sarà il mediatore e responsabile dell’operazione artistica, coordinatore di un ciclo di mostre d’arte contemporanea che rappresenteranno un esempio di apertura tra finanza e arte. Oscar Cardarelli il responsabile promotori finanziari della sede della Fideuram afferma: “Non esiste una differenza tra capitale finanziario e quello culturale, le diverse risorse sono combinate e devono dialogare in sinergia. La cultura è pensiero attivo e sarebbe un errore distinguerla dal concetto di realtà. È vero che siamo in un occidente globalizzato e tutto si fonda sul mercato e sulla materia, ma bisogna trovare un giusto equilibrio tra educazione, conoscenza e consumo per scrivere la nostra storia”. Il capitalismo ha messo sempre l’accento esclusivamente sulla dimensione economica, oggi pur restando una questione centrale ci si concentra sulla domanda di quale sia la natura del capitale, che non ha a che fare semplicemente con il denaro, con la proprietà o con la ricchezza, ma è la cultura connessa al sistema politico ed al mondo sensibile, al sentire delle persone e alla costituzione di identità sociale. La cultura deve essere considerata come l’insieme dei tratti distintivi materiali e spirituali e l’arte visiva rappresenta la possibilità di far dialogare due sfere ritenute da sempre contrastanti, la private banking Fideuram si mette in gioco offrendo ai sui clienti di alta borghesia ed al pubblico la possibilità di confrontarsi e dialogare con le opere di artisti emergenti e storici, uno spazio che va oltre la galleria e rende possibile uno scambio cognitivo ottenendo una fruizione eterogenea. Franco Riccardo, gallerista ed editore d’arte contemporanea ha accettato con grande entusiasmo la proposta di programmatore e curatore di mostre nei prestigiosi locali della sede bancaria volendo sottolineare l’opportunità che si dà alla città di Napoli, patrimonio di ricchezza e bellezza storico-artistica, da tempo sfigurata dalla crisi, dalla difficile gestione o forse dalla cattiva informazione che i media trasmettono. Nelle Lettere a un giovane poeta di Rilke si legge: “in un pensiero creativo vivono mille notti d’amore dimenticate…” L’artista ha bisogno di aver visto molto, deve ricordare l’abbondanza del mondo per creare e ri-creare. L’arte visiva si è sempre impegnata ad umanizzare una società troppo impegnata a contare e meno ad immaginare… gli artisti che incontreremo alle mostre dell’istituto bancario ci fanno riconoscere la vita, la storia, il mondo di appartenenza e l’esempio ci è dato dalla prossima collettiva di arte africana contemporanea per omaggiare la madre della nostra cultura, le radici della nostra esistenza: l’Africa. Da Emilio Notte, Davide Stasino, Gerardo Di Fiore, arte africana, Sarenco e Lucia Gangheri. È una poetica della visione, l’unica capace di far dialogare uno spazio privato quale la banca e la sensibilità resa pubblica dagli artisti, il mercato freddo e la forza della creazione che è evento sociale ed individuale. Un buon cittadino è colui che conosce il mondo per conoscere se stesso. L’arte visiva si “pone” per essere vista e lo fa anche a Napoli alla Fideuram.


Il Grand Tour

a cura di Roberto Cremascoli e Francesco Moschini

a ccademia n azionale dal 26 ottobre 2016

di

S an l uca

mostre e conferenze

Álvaro Siza la

in italia 1976 - 2016

miSura dell’occidente Álvaro Siza | Giovanni Chiaramonte

AccAdemiA NAzioNAle di SAN lucA piazza dell’Accademia di San Luca 77 Roma www.accademiasanluca.eu


progetto grafico: RAffAele PedAtA ph: Amedeo BenestAnte

ARENA OPERE DALL’OPERA HERMANN NITSCH

Dal 23 aprile 2016 al 13 settembre 2018 opening

23 aprile 2016 ore 18.00 MUSEO NITSCH a cura di Giuseppe testi di Lorenzo

Morra ManGo

dal Lunedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 19.00 Sabato dalle ore 10.00 alle 14.00 - Domenica chiuso

MUSEO NITSCH Vico lungo Pontecorvo 29/d 80135 Napoli Tel. +39 081 5641655 Fax +39 081 5641494 www.museonitsch.org info@museonitsch.org

“...L’arte dipinge la vita…” Destina il tuo 5 per mille alla Fondazione Morra. La Fondazione Morra è tra le realtà culturali a cui ogni anno è possibile destinare una quota, il 5 per mille, delle imposte sul proprio reddito. Il nostro numero di codice fiscale è: 94202830637


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