Appunti Matematici 03

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Patrizio Gravano

APPUNTI MATEMATICI

numero 3 - marzo 2015



INDICE

IN QUESTO NUMERO

RUBRICHE PILLOLE MATEMATICHE

Dal concetto di limite di una funzione di una variabile reale alla derivazione, passando per la continuità I GRANDI MATEMATICI DEL PASSATO

Carlo Federico Gauss

L’ANGOLO DEL FISICO UNA PRIMA INTRODUZIONE ALLE LEGGI DELLA MECCANICA CLASSICA

DIAMO I NUMERI DAI NATURALI, TRA “CREAZIONE DIVINA” E ASSIOMATIZZAZIONE, AI RAZIONALI


IN QUESTO NUMERO

Questo terzo numero si muove sulla traiettoria impressa dai numeri precedenti. Avendo chiarito cosa è funzione, e quali prime proprietà caratterizzano il concetto, è bene pervenire alla definizione “fondamentale” di limite di una funzione reale di una variabile reale. La moderna sistemazione del concetto di limite è dovuta al matematico tedesco Karl Weierstrass. Le dimostrazioni δ-ε sono ritenute inconfutabili. Tanto premesso, è quindi naturale che la terza pillola matematica abbia ad oggetto tale nozione cui farà seguito l’altrettanto importante nozione di continuità di una funzione f (in un punto e in un intervallo). Dopo di essa si perverrà ad una nozione fondamentale quale quella di derivata, nozione particolarmente utile sia dal punto di vista teorico che da quello pratico. Verranno considerate anche le regole di derivazione, più utili e pratiche della definizione formale. Nello sviluppo degli argomenti trattati verrà inserita anche una sobria elencazione di alcuni limiti notevoli, uno dei quali svelerà il mistero del numero e, base dei logaritmi di Nepero. Limiti e continuità costituiranno, quindi, gli oggetti della pillola di questo mese. Il “matematico del mese” è il grande Carlo Federico Gauss. Egli non arriva certo adesso perché al terzo posto di una fantomatica graduatoria. Non è così. La sua collocazione deriva dal fatto che desidero dare conto di due suoi importanti contributi: la distribuzione normale di probabilità – che mi fu insegnata dal Prof. De Antoni, a suo tempo, - e le congruenze lineari che ho imparato autonomamente. Lo studio della curva normale a questo punto dovrebbe essere agevole per ogni lettore, costituendo per me un branco di prova per ricordare i concetti del passato. Anche le congruenze lineari dovrebbero essere di agevole comprensione. “L’angolo del fisico” dovrebbe essere di agevolissima comprensione. Esso riguarda infatti le leggi della meccanica classica: i tre principi, inerzia, la relazione di proporzionalità diretta tra massa inerziale e accelerazione, quindi, il terzo principio, quello di azione e reazione. In esso verranno introdotte due nuove grandezze fisiche: l’accelerazione e la forza. Lo svilupparsi dei ragionamenti porterà alla definizione dell’impulso e della quantità di moto. Verranno anche definite le corrispondenti unità di misura di esse nel S.I.


Conclude il numero una rubrica dal titolo “Diamo i numeri”. In essa, in questa pubblicazione, introdurrò gli insiemi numerici a partire dai numeri naturali, passando agli interi assoluti, ai numeri interi relativi e infine ai razionali. Questa sarà inevitabilmente una rubrica “ad esaurimento”. Nelle successive dispense verranno trattati i numeri irrazionali, a partire da alcuni di essi molto noti, √2, π, e. Non mancheranno i necessari approfondimenti sui numeri complessi, in particolare le formule di De Moivre, sorpassandoli arrivando ai numeri Hamilton. Conto di introdurre – forse sarà l’ultima comparsa di “Diamo i numeri” - la distinzione, sulla quale ho cominciato ad interessarmi, tra numeri algebrici e numeri trascendenti.


PILLOLE MATEMATICHE

Dal concetto di limite di una funzione di una variabile reale alla derivazione, passando per la continuitĂ

0. Intervallo e intorno simmetrico di un punto đ?‘Ľ0 Ăˆ bene ricordare due concetti. Intervalli e intorni. Con la scrittura [a, b] si intende un segmento sull’asse (o delle x o delle y). Ovvero un sottoinsieme proprio di R. Nel caso piĂš generale a < b. I numeri a e b si dicono rispettivamente minimo e massimo (nel proseguo ci limitiamo a intervalli dell’asse x, ma riflessioni analoghe possono essere fatte in relazione all’asse delle ordinate). Infatti per ogni x distinto da essi, per esempio đ?‘Ľ0 , si ha a < đ?‘Ľ0 < b. La diversa scrittura (a, b) denota, se riferita a intervalli, che se è vero che a < đ?‘Ľ0 < b è anche vero che i numeri (o punti) a e b non appartengono all’intervallo di estremi a e b. In questi casi si parla di estremo inferiore e di estremo superiore quando ci si riferisce ai numeri a, e b, e si scrive a = inf (a, b) e b = sup (a,b). Esistono anche forme del tipo (a, b], ove a = inf (a, b] e b = max (a, b]. Oppure anche [đ?‘Ž, đ?‘?). Per intorno simmetrico di đ?‘Ľ0 si intende un intervallo del tipo (đ?‘Ľ0 – Îą , đ?‘Ľ0 + Îą). In genere si considerano intervalli infinitesimi del tipo (đ?‘Ľ0 – dx , đ?‘Ľ0 + dx).

1. Definizione di limite di una funzione in un punto x = đ?‘Ľ0 Sia data una funzione f per la quale f(x) è definita in un intorno (đ?‘Ľ0 – dx , đ?‘Ľ0 + dx). Ăˆ possibile che f(đ?‘Ľđ?‘œ ) sia definita, ovvero che f(đ?‘Ľ0 ) ∊ R, oppure che la f non sia definita in đ?‘Ľ0 . Ai fini della definizione di limite queste due condizioni (opposte) non rilevano. Ma è essenziale che essa sia definita in (đ?‘Ľ0 – dx , đ?‘Ľ0 + dx). Se essa è definita in đ?‘Ľ0 tanto di guadagnato. Per i limiti esiste un semplice formalismo. Esso è il seguente lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = u. Tale scrittura ha il seguente đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

significato: quanto piĂš x si avvicina (tende) a đ?‘Ľ0 tanto piĂš f(x) si avvicina al valore u. Il valore u si ha solo se la f è definita in đ?‘Ľ0 con una legge per la quale f(đ?‘Ľđ?‘œ ) = u. Se đ?‘Ľ0 ∉ dom f allora f(đ?‘Ľđ?‘œ ) non è definita, ma la scrittura | lim đ?‘“(đ?‘Ľ) | = u < ∞ conserva significato matematico. Ma đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

potrebbe capitare un distinto caso, quello per il quale lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = Âą ∞. In questo caso si è in đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

presenza di asintoti verticali.


In termini piĂš sostanziali la scrittura lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = u significa che ogniqualvolta si consideri un đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

numero positivo piccolo a piacere Îľ (in pratica un infinitesimo) è possibile trovare un numero đ?›ż = đ?›ż(đ?œ€) tale che per 0 < | x - đ?‘Ľ0 | < δ sia 0 < | f(x) – u | < Îľ.

2. UnicitĂ del limite Il calcolo dei limiti potrebbe farsi sulla base della definizione di limite. In pratica ciò non si fa perchĂŠ troppo laborioso, utilizzandosi, per contro, diversi teoremi sui limiti. Ăˆ immediato dimostrare che se lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = u allora u è unico. đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

3. Limite destro e limite sinistro Ăˆ ben evidente che su una retta ci si può avvicinare ad un punto dato, đ?‘Ľ0 , da sinistra, ovvero da valori minori, oppure da destra, quindi da valori maggiori, muovendosi da due distinte posizioni verso đ?‘Ľ0 . Vengono pertanto definiti due limiti distinti, il limite destro e il limite sinistro. Essi sono cosĂŹ formalizzati lim + đ?‘“(đ?‘Ľ) = đ?‘˘1 đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

lim �(�) = �2 . Per dare un senso alle

đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0 −

cose è bene che sia đ?‘˘1 = đ?‘˘2 . Ciò è ragionevole in quanto se đ?‘˘1 ≠đ?‘˘2 avvicinandosi da due direzioni distinte si tenderebbero a raggiungere due distinti punti dell’asse delle y. Sarebbe insensato parlare di un limite comune e quindi di un limite. Formalmente đ?‘˘1 = đ?‘˘2 ⇔∃! u. Il caso |đ?‘˘1 | ≠|đ?‘˘2 | <∞ conduce ad un caso di discontinuitĂ non eliminabile. Ăˆ bene sottolineare che è possibile trovarsi di fronte alla situazione = đ?‘˘1

lim đ?‘“(đ?‘Ľ)

đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0 +

lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = đ?‘˘2 con đ?‘˘1 = đ?‘˘2 risultando però f(đ?‘Ľ0 ) non definito. Ricorrendo questo caso,

đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0 −

come potremo ampiamente vedere, si ha una discontinuitĂ eliminabile, ponendo “arbitrariamenteâ€? (si fa per dire‌) f(đ?‘Ľ0 ) = đ?‘˘1 = đ?‘˘2 = u. In realtĂ poichĂŠ varia il dominio si ha una nuova funzione e si parla, al riguardo, di prolungamento analitico o prolungamento per continuitĂ .


4. Teoremi fondamentali sui limiti Come detto, per agevolare il calcolo dei limiti si usano particolari teoremi. Essi sono tutti facilmente dimostrabili e sostanzialmente sono i seguenti. Dall’ipotesi si abbiano due distinte funzioni f e g tali che | lim đ?‘“(đ?‘Ľ) | = u < ∞ e | lim đ?‘”(đ?‘Ľ) | = v < ∞ si ha che đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

lim (đ?‘“(đ?‘Ľ) Âą đ?‘”(đ?‘Ľ)) =

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

lim đ?‘“(đ?‘Ľ) Âą lim đ?‘”(đ?‘Ľ) = u Âą v

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

lim (đ?‘“(đ?‘Ľ) đ?‘”(đ?‘Ľ)) = (lim đ?‘“(đ?‘Ľ) ) ( lim đ?‘”(đ?‘Ľ)) = u * v

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

lim (�(�) / �(�)) = (lim �(�) ) / ( lim �(�)) = u / v, con v ≠0.

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

Molte volte questi teoremi sono sufficienti, altre volte no in quanto nelle operazioni algebriche può capitare di avere a che fare con forme di incertezza quali 0/0. Potrebbe ad esempio capitare che da lim (đ?‘“(đ?‘Ľ) / đ?‘”(đ?‘Ľ)) = (lim đ?‘“(đ?‘Ľ) ) / ( lim đ?‘”(đ?‘Ľ)) = u / v si ottenga che u/v = đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

0/0. In case come questi tali teoremi non possono essere utilizzati e si ricorre ad un teorema detto di De l’Hospital che verrà considerato successivamente.

5. Calcolo di limiti applicando la definizione Riporto un esempio tratto da Spiegel, Analisi Matematica, McGraw-Hill. Per f(x) = đ?‘Ľ 2 dimostrare che

lim

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0 =2

đ?‘“(đ?‘Ľ) = 4. Cito testualmente “Occorre mostrare che, assegnato un Îľ > 0

possiamo determinare un δ (‌) tale che 0 < | f(x) – 4 | < Îľ quando sia 0 < | x – 2 | < δ. Si scelga δ ≤ 1in modo che 0 < | x – 2 | < 1 ovvero 1 < x < 3, x ≠2. Allora | đ?‘Ľ 2 – 4 | = |x + 2 | | x – 2 | < δ |x + 2 | < 5δ. Si prenda δ eguale a 1 o Îľ/5 a seconda di chi sia piĂš piccolo. Quindi riesce 0 < | đ?‘Ľ 2 – 4 | < Îľ sempre che sia 0 < | x – 2 | < δ e il risultato richiesto è dimostrato.â€?

6. Calcolo di limiti utilizzando i teoremi sui limiti Anche in questo caso posso riportare in semplice esempio tratto dalla stessa fonte. Calcolo del seguente limite lim (đ?‘Ľ 2 − 6đ?‘Ľ + 4 ) = lim đ?‘Ľ 2 + lim (−6đ?‘Ľ ) + lim 4 = đ?‘Ľ â&#x;ś2

đ?‘Ľ â&#x;ś2

đ?‘Ľ â&#x;ś2

đ?‘Ľ â&#x;ś2


lim đ?‘Ľ 2 + lim (−6) lim đ?‘Ľ+ lim 4 = lim đ?‘Ľ 2 - 6 lim đ?‘Ľ + lim 4. Con la sostituzione x = 2 si

đ?‘Ľ â&#x;ś2

đ?‘Ľ â&#x;ś2

đ?‘Ľâ&#x;ś2

đ?‘Ľ â&#x;ś2

đ?‘Ľ â&#x;ś2

đ?‘Ľâ&#x;ś2

đ?‘Ľ â&#x;ś2

ottiene immediatamente il risultato. Ăˆ appena il caso di ricordare che si ha sempre lim đ?‘˜đ?‘“(đ?‘Ľ) = k lim đ?‘“(đ?‘Ľ) con k ≠0. đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

7. Limiti infiniti per x = đ?‘Ľ0 Molte volte una funzione f avvicinandoci al punto đ?‘Ľ0 (ove non è definita) assume valori via via crescenti (o decrescenti) senza mai raggiungere un massimo o un minimo. In casi del genere si dice che per x â&#x;ś đ?‘Ľ0 la funzione tende a Âąâˆž. Ho utilizzato, per comporre questo piccolo paragrafo, il testo di Analisi matematica di Spiegel. Ma vorrei andare un poco oltre. Il testo contiene due scritture importanti. Esse sono lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = +∞ e lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = - ∞. Ovviamente đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0

se è vera l’una non è vera l’altra. Esse sono immediatamente interpretabili in temrin idi limite destro e di limite sinistro. Considero il primo caso ma il secondo ha una trattazione analoga. Per esso si ha lim + đ?‘“(đ?‘Ľ) = + ∞ e lim − đ?‘“(đ?‘Ľ) = + ∞. đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

Anche queste scritture abbisognano di una interpretazione formale, che in prima battuta ometto, ma che è rinvenibile su qualunque testo istituzionale di Analisi. Vorrei andare un poco oltre i contenuti del paragrafo “Infinitoâ€? del Cap. 2 dell’opera citata, molto bella e sintetica, per ricordare che può esistere anche un caso ulteriore quello per il quale lim + đ?‘“(đ?‘Ľ) = + ∞ e lim − đ?‘“(đ?‘Ľ) = - ∞ e il simmetrico per il quale lim + đ?‘“(đ?‘Ľ) = - ∞ e đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = + ∞.

đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0 −

8. Limite di una f per x â&#x;ś Âąâˆž Molte volte si può essere interessati a conoscere il valore di una funzione per valori di x arbitrariamente grandi in valore assoluto, ovvero per x â&#x;ś Âąâˆž. Anche questa è una scrittura molto intuitiva. Se il limite esiste ed è |u| < ∞ la funzione ha un asintoto orizzontale. Vorrei osservare che può esistere un asintoto orizzontale per x â&#x;ś +∞ ma non per x â&#x;ś ∞ đ?‘œ đ?‘Łđ?‘–đ?‘?đ?‘’đ?‘Łđ?‘’đ?‘&#x;đ?‘ đ?‘Ž. Ăˆ poi possibile che esistano funzioni pari per le quali una medesima retta sia asintoto orizzontale nei casi x â&#x;ś Âąâˆž.


Il significato delle scritture lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = u oppure lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = đ?‘Ł è del tutto intuitivo. đ?‘Ľâ&#x;ś+∞

đ?‘Ľâ&#x;śâˆ’ ∞

9. Limiti notevoli Nella storia della matematica sono stati studiati diversi limiti importanti variamente chiamati notevoli, fondamentali o speciali. Li riporto senza appesantire con le relative dimostrazioni. lim sin(đ?‘Ľ) /đ?‘Ľ =1

đ?‘Ľ â&#x;ś0

lim (1 − cos(đ?‘Ľ)) /đ?‘Ľ =1

đ?‘Ľ â&#x;ś0

1 đ?‘Ľ

lim (1 + đ?‘Ľ) = đ?‘’

đ?‘Ľâ†’∞

lim (1 + đ?‘Ľ)1/đ?‘Ľ = e

đ?‘Ľ â&#x;ś0+

lim (đ?‘’ đ?‘Ľ - 1)/x = 1

đ?‘Ľ â&#x;ś0

lim (đ?‘Ľ − 1)/ ln đ?‘Ľ = 1

đ?‘Ľ â&#x;ś1

Il numero e è la base dei logaritmi naturali o di Napier. L’importanza, oltre quella intrinseca, di tali limiti risiede nel fatto che manipolando opportunamente funzioni si arriva a forme note, quindi giĂ calcolate.

10. ContinuitĂ di una f in un punto (đ?‘Ľ0 , f(đ?‘Ľ0 )) La prima definizione di continuitĂ , invero impostata e non completata nel precedente numero, può essere ora raffinata anche utilizzando la nozione di limite. Ai fini della nozione di limite non è necessario che la funzione sia definita in f(đ?‘Ľ0 ). Ai fini della continuitĂ ciò è essenziale. Ecco quindi che si può dire ora con un certo rigore quando una funzione è continua in un punto. AffinchĂŠ una funzione f sia continua in un punto deve essere đ?‘Ľ0 ∊ dom f |f(đ?‘Ľ0 ) |= u < ∞ lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = u.

đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0


Per una funzione continua per x = đ?‘Ľ0 la definizione di limite è riformulabile con la sostituzione u â&#x;ś f(đ?‘Ľ0 ).

11. ContinuitĂ destra e continuitĂ sinistra Per particolari funzioni viene definita una continuitĂ destra e una continuitĂ sinistra. Ad esempio esistono funzioni f definite per x ≼ đ?‘Ľ0 . Dall’uso di ≼ si evince che f(đ?‘Ľ0 ) esiste, indi la f è definita in corrispondenza del punto di ascissa đ?‘Ľ0 . La funzione in esame ha dom f = [đ?‘Ľ0 , +∞). La continuitĂ da destra viene formalizzata molto semplicemente come lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = f(đ?‘Ľ0 ). đ?‘Ľ â&#x;śđ?‘Ľ0

In modo del tutto analogo per particolari funzioni può essere definita la continuità sinistra.

12. ContinuitĂ in un intervallo Ăˆ bene riaffermare che il concetto di continuità è riferito al luogo e non al dominio di definizione del luogo. Ciò premesso si consideri una funzione definita per ogni x ∊ [a , b] se lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = f(đ?‘Ľ0 ) quando đ?‘Ľ â&#x;ś đ?‘Ľ0 risultando però đ?‘Ľ0 ∊ (a, b). La f è poi definita in a e in b

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ľ0

avendosi f(a) e f(b) reali. Si ammette che la funzione sia continua per a e b se lim+ đ?‘“(đ?‘Ľ) = f(a) đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ž

e se lim− đ?‘“(đ?‘Ľ) = f(b). đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘?

13. Teoremi sulla continuità ed esempi di funzioni continue in intervalli Se si hanno due o piÚ funzioni (nel caso della somma) continue per x = �0 si dimostra che sono continue per x = �0 anche la funzione somma, la funzione differenza (ovvero in questo caso f(x) – g(x)) il funzione prodotto e la funzione quoziente sono continue per x = �0 . Nel caso del quoziente deve essere f(�0 ) ≠0. Analoghi teoremi si hanno per la continuità su un intervallo. Esiste una nutrita serie di teoremi sulla continuità che per ragioni pratiche si omettono. Solo uno di essi sarà considerato successivamente: il teorema del valore medio. Quanto agli esempi di funzioni continue basti ricordare le funzioni polinomiali, le funzioni trigonometriche, la funzione esponenziale e la sua inversa, e molte altre ancora.


14. ContinuitĂ secondo Lipschitz e secondo Holder Una tipologia particolare di continuità è quella detta “di Lipschitzâ€? per la quale vale una condizione cosĂŹ formalizzata |f(đ?‘Ľ0 ) – f(đ?‘Ľ1 ) |≤ L|đ?‘Ľ0 - đ?‘Ľ1 |. Tale condizione vale per ogni đ?‘Ľ0 đ?‘Ľ1 appartenenti ad un dato intervallo. Ăˆ ben evidente che L > 0. PiĂš in generale viene definita la continuitĂ che esprime la condizione di Holder per la quale pero ogni coppia đ?‘Ľ0 đ?‘Ľ1 appartenenti ad un dato intervallo si ha |f(đ?‘Ľ0 ) – f(đ?‘Ľ1 ) |≤ L|đ?‘Ľ0 − đ?‘Ľ1 |đ?›ź , ove L e Îą sono costanti fissate. La condizione di Lipschitz è un caso particolare della condizione di Holder quando si ponga Îą= 1. Noto esempio di funzione continua per la quale vale la condizione di Holder è f(x) = √đ?‘Ľ . In generale le funzioni potenza f(x) = đ?‘Ľ đ?›ź con 0 < Îą ≤ 1, sono continue secondo Holder. Îą è detto esponente di Holder.

15. Teorema del valore medio Ăˆ assegnata una funzione f continua in [a ,b ] (ovvero continua in ogni punto x ∊[a , b]). Siano dati due punti đ?‘Ľ1 e đ?‘Ľ2 entrambi appartenenti all’intervallo [a ,b ]. Siano assegnati f(đ?‘Ľ1 ) e f(đ?‘Ľ2 ). Tali valori devono considerarsi ottenibili in quanto è nota la f: R â&#x;ś R. Ăˆ possibile sia f(đ?‘Ľ1 ) = f(đ?‘Ľ2 ). Ma in generale si considerino i casi per i quali f(đ?‘Ľ1 ) ≠f(đ?‘Ľ2 ). đ?‘†đ?‘– consideri un punto Ď„ > min (đ?‘“(đ?‘Ľ1 ) , đ?‘“(đ?‘Ľ2 ) ) e Ď„ < max (đ?‘“(đ?‘Ľ1 ) , đ?‘“(đ?‘Ľ2 ) ). La tesi è che esiste un β tale che đ?‘Ľ1 < β < đ?‘Ľ2 per il quale si ha f(β) = Ď„. Una esaustiva rappresentazione grafica di questo teorema e interessanti osservazioni sono contenute in Courant-John, Introduction to Calculus and Analysis I, pagg. 44 e 45. Tale teorema vale anche se f non è iniettiva in [a ,b ].

16. ContinuitĂ della funzione inversa La funzione inversa di una funzione continua è una funzione continua. Ma per ammettere l’inversa la funzione deve essere monotonicamente crescente o decrescente. Ăˆ bene ricordare che data una funzione f invertibile, ovvero iniettiva, ovvero una f per la quale, per đ?‘Ľ1 ≠đ?‘Ľ2 si ha f(đ?‘Ľ1 ) ≠f( đ?‘Ľ2 ). La funzione inversa đ?‘“ −1 di f è unica. Molto spesso le funzioni f e đ?‘“ −1 vengono


rappresentate nello stesso piano Oxy. In questo caso noto l’andamento della f l’andamento della đ?‘“ −1 sono simmetrici rispetto alla retta y = x (bisettrice del I e del III quadrante). Una figura (la 1.34) del testo citato è indicativa. In altri termini se si considera la funzione f in termini di coppie (x, f(x)) allora la funzione inversa đ?‘“ −1 individua un luogo definito dai punti (f(x), x).

17. Funzione continue a tratti Bisogna ora considerare le funzioni continue a tratti. In realtĂ le funzioni dette “continue a trattiâ€? sono funzioni discontinue in un numero finito di punti. In pratica vanno individuati i punti di discontinuitĂ . In uno di essi la funzione potrebbe essere definita. Ammettiamo che si abbia il caso di una funzione del tipo f: [ a , b ] ⋃ (b, c]. Ci si dovrebbe chiedere a quali condizioni la funzione f assegnata è continua a tratti, quando si sia giĂ ammesso che essa sia continua in [a, b] e in ( b, c]. La continuitĂ a tratti si ha in due distinti casi quello per il quale lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = f(b) oppure quando | lim+ đ?‘“(đ?‘Ľ) | = u ≠|f(b)| con u < ∞. Nel caso fosse | lim+ đ?‘“(đ?‘Ľ)

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘? +

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘?

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘?

| = ∞ non avendosi un limite finito non si potrebbe parlare di “continuitĂ a trattiâ€?.

18. ContinuitĂ uniforme Per definire la continuitĂ uniforme bisogna partire dalla condizione di continuitĂ , come introdotta. In buona sostanza una funzione continua in un intervallo può essere uniformemente continua in esso. Una funzione uniformante continua è anche continua. Non è necessariamente vero il contrario. Si dice che la f è uniformante continua in un intervallo se per due distinti đ?‘Ľ1 e đ?‘Ľ2 si ha che ∀ Îľ > 0 ∃! δ(Îľ) per il quale sia |f(đ?‘Ľ1 ) – f(đ?‘Ľ2 )| < Îľ quando |đ?‘Ľ1 - đ?‘Ľ2 | < δ. Va sottolineata l’unicitĂ di δ = δ(Îľ) per Îľ = đ?œ€0 . δ non dipende (quindi non varia) al variare di đ?‘Ľ1 e đ?‘Ľ2 . Può essere utile il teorema per il quale “se f(x) è continua in un intervallo chiuso essa è uniformemente continua in essoâ€?. Anche in questo caso bisogna però ricordare che una funzione può essere uniformante continua in un intervallo aperto.


19. Punti di discontinuitĂ Una funzione f è non continua in đ?‘Ľ0 quando non è ivi continua ovvero quando è ivi non definita. Esiste una precisa tassonomia dei punti di discontinuitĂ . La prima tipologia di discontinuità è costituita dalla discontinuitĂ di prima specie. Assegnata una f: (a, đ?‘Ľ0 ) ážžâˆŞ (đ?‘Ľ0 , b) â&#x;ś R si dice che đ?‘Ľ0 è un punto di discontinuitĂ di prima specie se i limiti sinistro e destro in đ?‘Ľ0 esistono finiti ma sono diversi tra loro. Leggo su un testo di Analisi (Soardi) che “non è richiesto che la funzione sia definita in đ?‘Ľ0 ". Vorrei osservare che è anche possibile affermare che una funzione non definita in đ?‘Ľ0 non è comunque continua per đ?‘Ľ0 . Ma ciò va rivisto in relazione al fatto che tale funzione non sia definita per đ?‘Ľ0 quando esiste il limite di f(x) per x â&#x;ś đ?‘Ľ0 (ma tale condizione è dissimile in quanto presuppone eguali i limiti destro e sinistro). Un esempio che riporto (Analisi, prof. Soardi) è il seguente. f(x) = arctg(1/x), x ≠0. Il punto 1

per x = 0 è di discontinuitĂ di prima specie. Infatti si ha lim− đ?‘Žđ?‘&#x;đ?‘?đ?‘Ąđ?‘”(đ?‘Ľ) = - Ď€/2 ma anche đ?‘Ľâ&#x;ś0

1

lim+ đ?‘Žđ?‘&#x;đ?‘?đ?‘Ąđ?‘”(đ?‘Ľ) = Ď€/2.

đ?‘Ľâ&#x;ś0

Viene definita salto la differenza lim+ đ?‘“(đ?‘Ľ) - lim− đ?‘“(đ?‘Ľ). đ?‘Ľâ&#x;ś0

đ?‘Ľâ&#x;ś0

Va ora considerato un secondo distinto tipo di discontinuitĂ detto di seconda specie. Quando è assegnata una f tale che dom f = (a, đ?‘Ľ0 ) âˆŞ (đ?‘Ľ0 , đ?‘?) e si considera il punto đ?‘Ľ0 ∉ dom f e si verifica che almeno uno dei limiti destro e sinistro non esiste o non è finito si dice che si è in presenza di una discontinuitĂ di seconda specie. L’esempio tipico di discontinuitĂ di seconda specie è dato da una funzione giĂ nota ovvero da f(x) = 1/x con x ≠0. Basta calcolare i limiti destro e sinistro e vedere che essi sono sono eguali a Âąâˆž. Ho poi recentemente rinvenuto una funzione che non conoscevo (Soardi, cit).. Essa è la seguente f(x) = x quando x = razionale, f(x) = - x quando x è irrazionale. Essa è continua per x = 0 e discontinua /di seconda specie) in ogni x ≠0. Vi è infine una terza tipologia di punti di discontinuitĂ , quello delle discontinuitĂ eliminabili. In realtĂ vengono definite due tipologie di discontinuitĂ eliminabili. In queste considerazioni mi limito al caso piĂš semplice quello per il quale f: (a, đ?‘Ľ0 ) âˆŞ (đ?‘Ľ0 , đ?‘?) â&#x;ś R definisce un punto di


discontinuitĂ (eliminabile) per đ?‘Ľ0 quando essendo la f non definita in detto punto si ha che è finto il limite di f per x â&#x;ś đ?‘Ľ0 (esistenza quindi di un limite destro e di uno sinistri eguali tra loro). Ăˆ il caso della funzione f(x) = sin(x) /x. Detta funzione non è definita per x = 0 (dividere per zero non è ammesso!) ma è anche noto che lim sin(đ?‘Ľ) /đ?‘Ľ =1 quindi si ammette di imporre đ?‘Ľ â&#x;ś0

che sia f(0) = 1 Quindi viene definita una nuova funzione cosĂŹ sintetizzabile formalmente f(x) = sin(x) /x x ≠0 f(0) = 0. La funzione è stata prolungata per continuitĂ . In realtà è stata definita una nuova funzione continua. In realtĂ esiste un secondo caso di discontinuitĂ eliminabile che può essere esaminata a partire da un caso concreto. In analisi esiste una funzione detta “mantissaâ€?. y = mant (x) ha il significato che la funzione manda il numero reale x nella sua parte decimale, nel senso che mant(x) = 0 se e solo se x = n, ovvero n è un intero relativo. Essa è diversa da zero quando x non è un intero relativo. No rinvenuto nel testo citato (Soardi) la funzione f(x) = mant ( 1 √đ?‘Ľ). L’Autore era piĂš interessato al tipo di discontinuitĂ ma credo valga la pena ricordare come la si studia e come la si rappresenta in đ?‘… 2 . In primis bisogna ricordare la condizione di realtĂ del radicale ed Egli ricorda che la funzione è definita per x ≼ 0. f(0)= 0 perchĂŠ f(0) = mant ( 1 - √0) = mant (1 – 0) = mant(1) = 0. L’Autore evidenzia che il lim (1 − √đ?‘Ľ ) = 0. Mi đ?‘Ľâ&#x;ś0

vorrei scostare dal formalismo per giungere al medesimo risultato, volendo, a titolo eserciziale, ovviamente, arrivare alla medesima conclusione applicando i teoremi sui limiti, avendo, quindi, che lim (1 − √đ?‘Ľ ) = lim (1) − lim ( √đ?‘Ľ ) = lim (1) - √ lim (đ?‘Ľ) = 1 – 0 = 1. Nei đ?‘Ľâ&#x;ś0

đ?‘Ľâ&#x;ś0

đ?‘Ľâ&#x;ś0

đ?‘Ľ â&#x;ś0

đ?‘Ľâ&#x;ś0

passaggi sono stati applicati i ben noti teoremi sui limiti. L’unica osservazione ulteriore che va fatta è su lim (1) = 1. Questo modo di scrivere è intuitivo la funzione è costantemente eguale đ?‘Ľ â&#x;ś0

a 1 per ogni x, quindi anche per x = 0 e anche in un intorno simmetrico. In generale se k è una costante reale per la funzione costante y = k sia ha che lim (đ?‘˜) = đ?‘˜, per ogni h ∊ R. Per la data đ?‘Ľ â&#x;śâ„Ž

f di ha che domf = [0 , 1). Nella terminologia dell’anlalisi 0 = min dom f e 1 = sup dom f. Da questo esempio concreto si ottiene la seconda tipologia di funzione avente una discontinuità eliminabile in �0 . L’esempio attiene a �0 = 0. Per esso si ha f(0) = 0 ma lim �(�) = 0. Generalizzando si tratta di un caso per il quale f(�0 ) ≠lim �(�).

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ľ0

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ľ0


20. Definizione di spazio metrico Ăˆ dato un insieme non vuoto A e una funzione d : A X A â&#x;śđ?‘… + . L’insieme A e la relazione che associa ad ogni coppia di elementi di A un numero reale costituiscono una struttura algebrica detta spazio metrico se sono verificate le seguenti condizioni: ∀ x, y ∊ X si ha: 1) d(x, y) ≼ 0; 2) d(x, y) = 0 â&#x;ş x = y ; 3) d(x, y) = d (y, x) [proprietĂ di simmetria]. La distanza tra i due punti deve essere intesa in valore assoluto e non in senso orientato, quindi relativo. ∀ x, y, z ∊ X si ha: 4) d(x, y) ≤ d(x, z) + d(z, y) [Tale diseguaglianza è detta diseguaglianza triangolare] Giova osservare che se i punti x, y, e z sono allineati e x < z < y allora si ha il caso dell’eguaglianza d(x, y) = d(x, z) + d(z, y). La funzione d(.) è detta metrica o distanza nell’insieme X. No è detto che X = R. Ho trovato molto istruttivo l’esempio riportato a pag. 49 del Soardi (Analisi matematica, nuova edizione) che esemplifica un caso di spazio metrico nella modalitĂ seguente. Sia X = R e d(x, y) = |x - y|. y in questo caso non ha il significato di y = f(x). x e y vanno infatti considerati come due distinti punti di R e quindi due distinti punti in quello che nel L’ANGOLO DEL FISICO ho definito đ?‘…1 . Quindi x e y sono due punti della retta e x può essere anche interpretata come la distanza tra il punto x e il punto cui corrisponde il numero 0, analogamente per il punto y. Pertanto la distanza tra i due punti è ben definita da d(x, y) = |x y| Vorrei essere un poco piĂš pedante del prof. Soardi, che certo è conciso, e dimostrare che anche questo modo di definire la distanza obbedisce ai punti da 1) a 4) appena definiti. Il punto 1) è in re ipsa. Infatti il modulo di un numero è evidentemente tale che (per definizione) d(x, y) = |x - y| ≼ 0. Anche la proprietĂ 2) è immediata avendosi che d(x, x) = |x - x| = |0|= 0. Ciò vale per ogni x ∊ R. Pure la proprietĂ di simmetria è immediata in quanto |x - y| = |y - x| â&#x;ž d(x, y) = d(y, x) con x ≠y.


Si evidenzia pure che |x - y| ≤ |x - z| + |z - y|. Nel caso x < z < y si ha |x - y| = |x - z| + |z - y|.

21. La metrica euclidea Come secondo esempio vien riportato quello per il quale X = đ?‘… đ?‘› con d = || x - y|| , ove ||.|| è la norma, che possiamo intendere come un valore assoluto, anche se formalmente viene definita ad hoc. L’ANGOLO DEL FISICO chiarirĂ le questioni per il caso particolare n = 3, ovvero per đ?‘…3.

22. Da đ?‘šđ?&#x;‘ a đ?‘šđ?’? Le formule de L’ANGOLO DEL FISICO relative alla distanza euclidea tra due punti di đ?‘… 3 sono generalizzabili al caso di đ?‘… đ?‘› con n > 3 e intero. Se i due punti dello spazio đ?‘… đ?‘› sono x = (đ?‘Ľ1 , đ?‘Ľ2‌‌., đ?‘Ľđ?‘›âˆ’1 , đ?‘Ľđ?‘› ) e y = (đ?‘Ś1 , đ?‘Ś2‌‌., đ?‘Śđ?‘›âˆ’1 , đ?‘Śđ?‘› ) di ha d(x, y) = √∑đ?‘›1 │đ?‘Ľđ?‘– − đ?‘Śđ?‘– │2 = ||x – y ||.

23. Intorno Assegnato uno spazio metrico (X ,d) viene definito un intorno circolare quando si considera un punto p dell’insieme X e un numero reale positivo r > 0. L’intorno circolare di centro p (detto centro dell’intorno) e di raggio r è l’insieme dei punti x la cui distanza da p (stabilito e quindi dato del problema) è strettamente minore di r. Quando si pone X = R e si utilizza la metrica euclidea (essa in vero non è l’unica possibile e utilizzabile) si arriva a definire il consueto intorno simmetrico di centro p = đ?‘Ľ0 come il luogo dei punti x tali che │ p – x │< r â&#x;ş p – r < x < p + r. Nel caso di đ?‘… 2 e di đ?‘… 3 con questo modo di procedere vengono definiti intorni riconducibili a cerchi e circonferenze ma anche in questi casi bisogna ricordare che la diseguaglianza è stretta, con il simbolo <, non sostituibile da ≤.


24. Limite di una successione GiĂ dalla “pillolaâ€? di gennaio venne introdotto l’importante concetto di successione numerica. Ora come allora – ipotesi peraltro rimuovibile – si suppone che si tratti di successioni di numeri reali. Come noto le successioni possono essere studiate nel primo e nel quarto quadrante cartesiano. Esse sono facilmente interpretabili come funzioni da N a valori reali. Il dominio è discreto, costituito dai numeri interi assoluti (o naturali) e il codominio è pure discreto. Quindi la rappresentazione grafica non è una curva continua bensĂŹ un insieme infinito di coppie (n, đ?‘Žđ?‘› ) in cui đ?‘Žđ?‘› dipende da n. Ciò premesso, possiamo dire che anche alle successioni è applicabile la nozione di limite. Determinare il limite (se esiste) vuol dire studiare il comportamento della successione per valori progressivamente maggiori di n, al limite per n â&#x;ś + ∞, o come piĂš comunemente si scrive per n â&#x;ś ∞. Ăˆ ben evidente che non ogni soluzione ammette un limite finito. Basti ricordare cosa si disse per 1/n al crescere di n in N. Altro esempio lo posso trarre da un esercizio supplementare di cui non è data la dimostrazione, tratto dal testo dello Spiegel piĂš volte citato. L’autore chiede di dimostrare che lim (−1)đ?‘› n non esiste. đ?‘Ľâ&#x;śâˆž

Senza appesantire troppo il tutto si può dire che il numero (−1)đ?‘› è pari per n = 2k, con k intero, ma esso è dispari per n = 2k + 1, ovvero per n dispari. Ma pari e dispari si alterano (il successivo di un pari è un dispari‌.), quindi poichĂŠ n > 0 (variando esso nei naturali) allora al variare di n la coppia (n , (−1)đ?‘› đ?‘›) sarĂ nel quarto quadrante poi nel primo quindi nel quarto poi ancora nel primo indefinitamente potendosi però osservare che |(−1)đ?‘› đ?‘›| cresce al crescere di n. Ma N è illimitato superiormente, quindi immediatamente si rileva la non limitatezza della data successione. Ăˆ ben evidente che non si può per la successione data parlare di un limite. Esiste poi una successione piĂš semplice, quella del tipo (−1)đ?‘› . đ?‘ƒđ?‘’đ?‘&#x; essa valgono le considerazioni date piĂš sopra. L’assenza della n fa si che essa degeneri in una successione infinita di - 1 e di +1. Essa è contrariamente alla precedente limitata. Essa però non ammette un limite ed è detta oscillante. Fatte queste semplici premesse è bene dare la definizione formale di limite di una successione infinita. Se esiste un N (qui trattasi di un numero e non dell’insieme dei naturali) tale che N


=N(đ?œ€), con Îľ > 0, per il quale è |đ?‘Žđ?‘› - u | < Îľ allora il numero reale u è detto limite della successione e si scrive formalmente che lim (đ?‘Žđ?‘› ) = u < Âąâˆž. đ?‘›â&#x;śâˆž

Dalla definizione e dai precedenti esempi, coordinandosi logicamente, è chiaro che non vi è coincidenza tra esistenza di un limite finito e successione limitata. Il caso della successione oscillante è emblematico. Una successione che ammette un limite finito è detta convergente.

25. Teoremi sui limiti di una successione numerica Anche per le successioni esiste un preciso elenco di teoremi per i quali date due successioni limitate la somma o la differenza di esse è limitata, il prodotto è limitato. Per il quoziente bisogna spendere un poco di tempo. In generale per il rapporto di due successioni limitate (i cui limiti sono A e B) il passaggio al limite porta al risultato A/B, quando B ≠0. Quando B = 0 e A = 0 il limite può esistere o meno. Per B = 0 e A ≠0 il limite non può esistere. In vero esistono altri due teoremi ma in prima battuta possono essere tralasciati. Bisognerebbe comunque pensare di introdurli in ambito di approfondimenti.

26. đ??Ľđ??˘đ??Ś đ?’‚đ?’? =Âą ∞ đ?’?â&#x;śâˆž

Anche in questo caso non vorrei appesantire. Il senso della scrittura dovrebbe intuitivamente essere immediato.

27. Monotonia e limitatezza delle successioni Per le successioni valgono le stesse osservazioni fatte nel n. 1 per le funzioni monotone, monotone strettamente, limitate. Bisogna avere l’avvertenza che il dominio di esse è N. Ăˆ forse il caso di ricordare un importante teorema: â€?ogni successione limitata nonotona, sia essa crescente che decrescente, ha limiteâ€?.


28. Estremi (superiore e inferiore) Il numero reale M è detto estremo superiore di ( đ?‘Žđ?‘› ) se đ?‘Žđ?‘› ≤ M e per ogni ∊ > 0 almeno un termine della successione è maggiore di M - ∊. In questo paragrafo le parentesi (.) indicano che ci si riferisce alla successione mentre la scrittura đ?‘Žđ?‘› indica il particolare valore assunto per un dato n. Ăˆ ora possibile passare alla definizione di estremo inferiore di una successione ( đ?‘Žđ?‘› ). Il numero reale m è detto estremo inferiore di ( đ?‘Žđ?‘› ) se đ?‘Žđ?‘› ≼ M e per ogni ∊ > 0 almeno un termine della successione è minore di m + ∊.

29. Teorema di Bolzano e proprietĂ di permanenza del segno Questo teorema è molto intuitivo. Si parte dall’ipotesi di una funzione f continua in [a , bâŚŒ con f(a) e f(b) aventi segni opposti. Da ciò si vuole dimostrare che esiste almeno un c ∊ (a, b) per il quale f(c) = 0. Il numero c reale è detto radice o zero reale di f. In realtĂ per dimostrare tale teorema occorre premettere la proprietĂ di permanenza del segno per le funzioni continue in ragione della quale data una f continua e dato un punto c tale che f(c) ≠0 allora esiste un intervallo simmetrico e infinitesimo (c – δ, c +đ?›ż) in cui la funzione ha lo stesso segno di f(c). Credo che in prima battuta il teorema di Bolzano possa essere accettato come una veritĂ intuitivamente giusta, senza appesantire dimostrandolo. Comunque, le dimostrazioni sono facilmente reperibili.

30. Intervalli strettamente decrescenti Si considerano, al variare di n, l’insieme i cui elementi sono [ đ?‘Žđ?‘› , đ?‘?đ?‘› ] per il quale [ đ?‘Žđ?‘›+1 , đ?‘?đ?‘›+1 ] ⊂ [ đ?‘Žđ?‘› , đ?‘?đ?‘› ] per ogni n. Se per questa ipotesi si ha pure che lim ( đ?‘Žđ?‘› − đ?‘?đ?‘› ) = 0. đ?‘›â&#x;ś+∞

Detti intervalli sono detti strettamente decrescenti.


31. Criterio di convergenza di Cauchy Assegnata una successione N â&#x;ś R sia essa âŚƒđ?‘Žđ?‘› ⌄ essa è convergente se fissata una quantitĂ arbitraria Îľ > 0 per la quale può stabilirsi un N =N(Îľ) in ragione del quale è possibile trovare due interi tali che N < q < p per i quali sia │đ?‘˘đ?‘? - đ?‘˘đ?‘ž │< Îľ.

32. Nozione di serie numerica đ??´đ?‘˜ = ∑đ?‘˜đ?‘›=1 đ?‘Žđ?‘› è una forma compatta per designare la somma đ?‘Ž1 + đ?‘Ž2 + đ?‘Ž3 + --+đ?‘Žđ?‘˜âˆ’đ?‘– + ----- + đ?‘Žđ?‘˜ . Se i numeri đ?‘Žđ?‘› ∊ âŚƒđ?‘Žđ?‘› ⌄ ovvero se è assegnata una f: N â&#x;ś R. viene definita una nuova successione detta serie numerica e la si indica formalmente come âŚƒđ??´đ?‘˜ ⌄. Il numero đ??´đ?‘˜ è detto somma parziale k-esima della serie. Formalmente la serie di termine generale đ?‘Žđ?‘› viene indicata con il seguente formalismo ∑+∞ đ?‘›=1 đ?‘Žđ?‘› . Va ricordato che poichĂŠ N è illimitato superiormente i termini di una serie sono infiniti.

33. Serie convergente In molti casi è possibile osservare che │ lim (đ??´đ?‘˜ = ∑đ?‘˜đ?‘›=1 đ?‘Žđ?‘› )│ = A < ∞ . In questi casi la đ?‘˜ â&#x;ś+∞

serie ha un limite finito e si dice che essa è convergente. Nello studio della teoria delle serie si vedrĂ che in alcuni casi le serie hanno limiti eguali a Âąâˆž e in questo caso esse sono dette divergenti, ma non mancano neppure i casi di serie oscillanti.

34. La funzione derivata La derivata f’(x) in đ?‘Ľ0 di una funzione f(x) continua in un intorno di đ?‘Ľ0 è il seguente limite finito (se esiste) f ′ (x) = lim(đ?‘“(đ?‘Ľ0 + h) – f(đ?‘Ľ0 ) )/ h â„Ž â&#x;ś0

Quando tale limite esiste si dice che la funzione è derivabile. Esistono diverse notazioni per le đ?‘‘đ?‘Ś

derivate quali đ??ˇđ?‘Ľ detta notazione di Cauchy, e đ?‘‘đ?‘Ľ detta notazione di von Leibnitz.


35. Derivata destra e derivata sinistra A rigore si dovrebbero introdurre una derivata destra e una sinistra, cosĂŹ definite. La derivata destra đ?‘“′+ (x) in đ?‘Ľ0 di una funzione f(x) continua in un intorno di đ?‘Ľ0 è il seguente limite finito (se esiste) đ?‘“′+ (x) = lim(đ?‘“(đ?‘Ľ0 + h) – f(đ?‘Ľ0 ) )/ h. â„Ž â&#x;ś0+

Analogamente si definisce la derivata sinistra đ?‘“â€˛âˆ’ (x) = lim(đ?‘“(đ?‘Ľ0 + h) – f(đ?‘Ľ0 ) )/ h. â„Ž â&#x;ś0−

Quindi |đ?‘“′+ (x)| = |đ?‘“â€˛âˆ’ (x)| < ∞ con đ?‘“′+ (x) = đ?‘“â€˛âˆ’ (x) = u â&#x;ž f ′ (x) = lim(đ?‘“(đ?‘Ľ0 + h) – f(đ?‘Ľ0 ) )/ h â„Ž â&#x;ś0

=u

36. La derivabilitĂ di una funzione in un punto e in un intervallo La derivata è sostanzialmente un limite e quindi non sfugge alla definizione di esistenza di un limite finito. Condizioni di derivabilitĂ di una f in un punto sono che la f sia definita in quel punto che sia continua in esso e che il f ′ (x) = lim(đ?‘“(đ?‘Ľ0 + h) – f(đ?‘Ľ0 ) )/ h = u, ove |u| < ∞. â„Ž â&#x;ś0

Ricorda l’Apostol (Calcolo, vol.1) che f’(x) è un numero e si chiama anche tasso di variazione di f in x. Ma egli ricorda pure che “il passaggio al limite che produce f’(x) a partire da f(x)ci da la possibilitĂ di ottenere una nuova funzione f’ da una funzione data f. Ăˆ anche possibile definire la derivabilitĂ in un intervallo.

37. La derivata e la retta tangente Geometricamente f ′ (x0 ) - derivata della funzione f nel punto đ?‘Ľ0 - è la misura della tangente goniometrica della retta tangente la f nel punto đ?‘Ľ0 . Ăˆ nota l’equazione della retta passante per il punto (đ?‘Ľ0 f(đ?‘Ľ0 )) nella forma f(đ?‘Ľ0 ) = f’(đ?‘Ľ0 )đ?‘Ľ0 + b. b è l’ordinata dell’origine della retta tangente la curva nel punto (đ?‘Ľ0 f(đ?‘Ľ0 )). Questo modo di intendere si discosta da quello canonico, ma mi pare sensato in quanto consente di ricavare la ordinata dell’origine b quando sia noto che la f è derivabile in đ?‘Ľ0 avendosi immediatamente che b = f(đ?‘Ľ0 ) - f’(đ?‘Ľ0 )đ?‘Ľ0. b è univocamente determinato.


Nei termini piĂš generali nella manualistica (per esempio il citato Spiegel) viene utilizzata una distinta formula nella quale non compare il parametro b. L’equazione generale della retta è y = mx + b. Essa va interpretata nel senso che assegnato x il valore della y ne consegue univocamente quando sia noto m e sia assegnato b. Due punti (x , y) e (đ?‘Ľ0 , đ?‘Ś0 ) appartengono al luogo se e solo se sono verificate le condizioni y = mx + b e đ?‘Ś0 = mđ?‘Ľ0 + b. Da esse si ha y - đ?‘Ś0 = mx + b - ( mđ?‘Ľ0 + b) = ax + b - mđ?‘Ľ0 - b = m( x - đ?‘Ľ0 ). Ma m = f’(đ?‘Ľ0 ) quindi la relazione solitamente usata y – f(đ?‘Ľ0 ) = f’(đ?‘Ľ0 ) ( x - đ?‘Ľ0 ). Implementando una serie di passaggi esplicativi dello Spiegel si può dire che nel caso della retta (funzioni lineari e affini) si ha che dy/dx = lim đ?›Ľđ?‘Ś/đ?›Ľđ?‘Ľ = Δy/Δx (per ogni coppia di đ?‘Ľđ?‘– ). đ?›Ľđ?‘Ľâ&#x;ś0

Ma per la generalitĂ delle curve dy/dx = lim đ?›Ľđ?‘Ś/đ?›Ľđ?‘Ľ ≠Δy/Δx (per ogni coppia di đ?‘Ľđ?‘– ). đ?›Ľđ?‘Ľâ&#x;ś0

(sempre nei casi di esistenza della derivata in đ?‘Ľ0 ).

38. Monotonia e valore della derivata Assegnata una funzione continua e monotona per x ∊[a , bâŚŒ, è data per x ∊ (a , b) la funzione derivata prima. Se f è decrescente strettamente allora f’(x) < 0 ∀ x ∊ (a , b). Se, per contro f è strettamente crescente allora f’(x) > 0 ∀ x ∊ (a , b).

39. Continuità e derivabilità Derivabilità e continuità non sono sinonimi. Una funzione può essere continua in un punto ma ivi non derivabile. Un esempio celeberrimo è la funzione y = |x|. Essa è continua in ogni x anche in x = 0. Applicando la definizione di derivata destra e di derivata sinistra in x = 0 si evidenzia che esse sono diverse. Quindi la funzione valore assoluto non è derivabile in x = 0. Si dimostra invece che una funzione derivabile in un punto è ivi continua. Ciò vale anche quando si ragiona su intervalli.


40. Differenziale di una f Assegnata una f si ha che Δf = đ?‘“2 - đ?‘“1 = f(đ?‘Ľ1 + Δx) – f(đ?‘Ľ1 ). Tale quantità è definita incremento della funzione. A questo punto occorre verificare se la funzione f è derivabile nel punto x = đ?‘Ľ1 . Se ciò è possibile allora si ha Δy = f’(x)dx + Îľdx (Îľâ&#x;ś0+ quando si era posto đ?›Ľđ?‘Ľ â&#x;ś 0. Formalmente viene definito il differenziale di f, detto anche “la parte principaleâ€? di f. dx è detto il differenziale di x.

41. Funzioni con derivata non continua Vorrei riportare un esempio di funzione derivabile ovunque ma con derivata non continua. Si tratta, ad esempio, della funzione f(x) = đ?‘Ľ 2 sin(1/x) per x ≠0 e f(x) = 0. Si può facilmente dimostrare (usando il teorema della derivata della funzione composta) che f’(x) = 2x(sin(1/x)) – cos(1/x). Si evidenzia poi che lim đ?‘“ ′ (đ?‘Ľ) non esiste anche se applicando la definizione di đ?‘Ľâ&#x;ś0

funzione derivata nella notazione di Fourier si ottiene che f’(0) = 0. Si può dimostrare che alla stessa logica obbediscono le funzioni del tipo f(x) = đ?‘Ľ 2đ?‘˜+2 (sin(1/x)) per x ≠0 e f(x) = 0

42. Derivate elementari e teoremi delle derivate In astratto le derivate possono essere determinate a partire dalla definizione di derivata. PoichĂŠ ciò è molto spesso particolarmente laborioso si preferisce l’utilizzazione di particolari teoremi. Come primi esempi di derivate si hanno i seguenti. f(x) = c â&#x;ž f’(x) = 0. Ciò segue immediatamente dalla definizione nella notazione di Fourier per la quale – comunque sia k reale - si ha f(x+h) – f(x) = (c – c)/h = 0. f(x) = mx + b â&#x;ž f’(x) = m. Infatti da (f(x + h) – f(x)) /h = (m(x + h) + b – mx – b)/ h = mh/h = m Queste due “dimoâ€? sono state ricavate da Apostol (cit, pag. 200 e seg.). questi sono gli unici due casi in cui il ragionamento fila sia per h discreto sia per h infinitesimo, ovvero per h â&#x;ś 0+ Per le dimostrazioni successive ci si deve riferire esclusivamente al limite nella notazione di Fourier.


Le successive dimostrazioni dell’Apostol sono semplici da comprendere. Sarà bene allegare al presente elaborato una tabella contenente tutte le principali funzioni derivate a partire da date f. Anche per i teoremi sulle derivate sarà opportuno introdurre una tabella ricapitolativa.

Le derivate delle principali funzioni sono immediatamente reperibili in rete. Tra le tante “raccolteâ€? ne segnalo una particolarmente completa dell’UniversitĂ di Parma.

43. Derivate e primitiva Data una funzione f essa ammette, almeno per i casi pratici e concreti, una funzione detta derivata prima, questa a sua volta può essere derivata a sua volta, ottenendosi una derivata seconda di f, etc. Ăˆ bene ricordare che f’(x) è una funzione e come tale essa è studiabile secondo i criteri di studio tipizzati per f. Tra le funzioni f e f’ vi sono delle evidenti relazioni. Una f è derivabile, ovvero ammette la derivata, se |

đ?‘‘đ?‘Ś đ?‘‘đ?‘Ľ

| < ∞. Se si ragiona in termini di funzione derivata si può

dire che la derivata di una funzione è unica. Ad una funzione derivata possono corrispondere infinite funzioni di partenza. Per esempio da f’(x) = m (funzione costante) non si ottiene una funzione di partenza bensĂŹ infinite, nel senso che ogni f(x) = mx + b derivata conduce a f’(x) = m. Tali funzioni sono infinite una per ogni valore di b ∊ ( - ∞, + ∞). La funzione f che derivata riproduce f’ è detta primitiva. Trattasi di una primitiva. đ??ˇđ?‘Ľ f = f’


44. Derivata della funzione composta La dimostrazione del teorema della derivata della funzione composta è piuttosto laboriosa e una piana è data in Apostol (op. cit.). Esiste quindi una regola di derivazione che è la seguente. f(x) = v(u(x)) â&#x;ž đ??ˇđ?‘Ľ f (x) = đ??ˇđ?‘Ľ v(u(x)) = u’(y)v’(x), ove y = u(x). Gli esercizi sulla derivazione di funzioni composte chiariranno le problematiche.

45. Significato fisico della derivata prima In termini fisici la derivata prima ha il significato di una velocitĂ . Se f(t) è la funzione di posizione che indica la posizione di un corpo al tempo t la derivata f’(t) della funzione f denota la velocitĂ del corpo al tempo t, ovvero f’(t) = v(t) denota la funzione velocitĂ scalare. Essa è pure detta velocitĂ istantanea. La variabile t è preferibile alla variabile x per evidenziare che lo studio avviene nel dominio del tempo. t è quindi la variabile indipendente. Ăˆ però opportuno ricordare che in relazione al moto in đ?‘… 2 e in đ?‘… 3 è opportuno usare funzioni particolari dette vettoriali che saranno in futuro introdotte nell’ANGOLO DEL FISICO.

46. Significato fisico della derivata seconda La derivata seconda di una funzione f(t) definisce la grandezza fisica chiamata accelerazione. In pratica sono possibili due casi f’’(t) = a(t) = costante, oppure a(t) ≠cost. Se a(t) = 0 il moto è uniforme e rettilineo, quando si opera in una dimensione. Anche in questo caso in relazione al moto in đ?‘… 2 e in đ?‘… 3 è opportuno usare funzioni particolari dette vettoriali che saranno in futuro introdotte nell’ANGOLO DEL FISICO. In questi casi si dovrĂ parlare di accelerazioni vettoriali e di modulo di esse.

47. Problemi di massimo e di minimo Vi sono punti di f in corrispondenza di �0 per i quali la retta passante per (�0 , f(�0 )) risulta parallela all’asse delle ascisse. Tali punti sono detti in generale punti critici e sono rispettivamente o punti di massimo o punti di minimo, relativi o assoluti. Per poter stabilire se esistono punti critici occorre calcolare la derivata prima di una funzione e imporre eguale a


zero tale funzione. Formalmente sono punti critici gli đ?‘Ľ0 tali che f’(x) = 0, se esistono. A questo punto siamo a metĂ dell’opera. Per stabilire se un punto critico è di massimo o di minimo bisogna procedere alla determinazione della derivata seconda. Quindi per risolvere questi problemi occorre partire da funzioni che oltre alla derivata prima ammettano pure la derivata seconda. Se si vuole comprendere bene i due punti è possibile disegnare nel piano una parabola di equazione đ?‘Žđ?‘Ľ 2 + bx + c con a > 0. In questo caso se il disegno è ben fatto si vedrĂ che il vertice della parabola è un punto di minimo per la funzione. Siano đ?‘Ľđ?‘‰ đ?‘’ đ?‘Śđ?‘‰ le coordinate del vertice della parabola. Ăˆ immediato constatare che con riferimento ad un intorno simmetrico di đ?‘Ľđ?‘‰ per esempio (đ?‘Ľđ?‘‰ − đ?›ż ; đ?‘Ľđ?‘‰ + đ?›ż) f’(x) da valori negativi si passa allo zero per poi ottenere valori positivi . Questa variazione di f’(x) altro non è che f’’(x) studiata in (đ?‘Ľđ?‘‰ − đ?›ż ; đ?‘Ľđ?‘‰ + đ?›ż). Mi ero fatto questa ricostruzione molto naive per ricordare meglio. δ > 0 va inteso, in questo caso, in senso discreto e non di quantitĂ infinitesima. Per i massimi consideravo una parabola di equazione đ?‘Žđ?‘Ľ 2 + bx + c con a < 0. Per massimi e minimi si deve andare alla derivata seconda. Apostol, ad esempio (op. cit.), evidenzia un interessante caso in cui f’(x) = 0 cui non corrisponde nĂŠ un minimo nĂŠ un massimo di f(x), come avviene per f(x) = đ?‘Ľ 3 per la quale f’(0) = 0. In realtĂ , come vedremo, esistono altri punti particolari detti punti di flesso (o di interflessione). A volte, al minimo di una funzione non corrisponde f’(x) che proprio non esiste! Vedi il caso di f(x) = |x|.


ESERCIZI

0. Tra gli esempi definizioni di funzioni monotone il Soardi cita l’esponenziale y = đ?‘Ž đ?‘Ľ . Si potrebbe chiedere di “studiareâ€? tale funzione. Questo in effetti potrebbe essere un esercizio, almeno di ripasso. Si potrebbe ad esempio considerare la questione in questi termini. đ?‘Ž đ?‘Ľ ha significato di numero reale quando a > 0. 0đ?‘Ľ invece non ha significato, cosĂŹ come non avrebbe significato per a < 0. Quindi la scrittura (−3)đ?‘Ľ non ha significato. Poi ci si potrebbe chiedere cosa succede quando a = 1, allora si avrebbe y = 1đ?‘Ľ . Vorrei osservare che 1đ?‘Ľ = 1 identicamente per ogni x reale anche per x = 0. Ecco perchĂŠ solitamente i testi contemplano le condizioni a > 0 e a ≠1. a = 1 è ammissibile ma conduce ad un luogo degenere, una retta di equazione y = 1 (parallela quindi all’asse delle x). Pertanto, nel caso generale, occorre introdurre queste “limitazioniâ€? su a. La quantitĂ a non è una variabile, bensĂŹ un parametro, che può assumere, di volta in volta, ogni valore reale con le restrizioni introdotte, come giustificate. Ăˆ ben evidente che la scrittura y = đ?‘Ž đ?‘Ľ , pur con le imposte limitazioni su a, non definisce una curva ma una intera classe di curve, esistendo una curva per ognuno dei possibili valori assegnabili ad a. Pertanto per a = đ?‘Ž0 si ha una particolare curva. Per esempio potrebbe essere 1

đ?‘Ž0 = 1/3 avendosi il luogo di equazione y =(3)đ?‘Ľ . Tra i possibili valori attribuibili ad a vi è sicuramente e, base dei logaritmi di Nepero, avendosi per conseguenza il seguente formalismo y =đ?‘’ đ?‘Ľ . Vorrei spendere qualche riga – che peraltro integra la parte teorica della precedente pillola – per ricordare che dom f = R. Didatticamente vengono distinti due casi 0 < a < 1 e a > 1. Vorrei considerare uno dei due casi, per esempio a > 1. Ăˆ ben evidente che anche ammettendo a > 1 esiste una intera classe di funzioni esponenziali. Ma ciò consente comunque una trattazione generale – indipendente, quindi, dal particolare valore assunto da a, con a > 0. Dominio della funzione: il continuo reale; Intersezioni con gli assi. Esse si ottengono ponendo x = o per ottenere l’intersezione con l’asse delle y. Si avrebbe y = đ?‘Ž0 = 1. Quindi il luogo interseca l’asse delle ordinate nel punto 1, il punto (0,1) è un punto del luogo. Pertanto tutte le curve di equazione y = đ?‘Ž đ?‘Ľ passano per il punto (0, 1). Si potrebbe pensare di fare lo stesso ragionamento con l’asse delle x ponendo y =


0 per avere 0 = đ?‘Ž đ?‘Ľ ma tale equazione non è mai verificata, quindi la curva non interseca l’asse delle x. Segno della funzione: le funzioni y = đ?‘Ž đ?‘Ľ sono tali che y > 0 per ogni x reale. Infatti per x > 0 ciò è evidente (in astratto ciò andrebbe dimostrato rigorosamente), per x = 0 si ha y = 1 > 0. A risultato analogo si arriva per x < 0. Se si ammette che sia x = đ?‘Ľ0 < 0 per esempio x = - 3. In 1

1

questo caso risulta y = (đ?‘Ž)|đ?‘Ľ0| quando đ?‘Ľ0 < 0. Ma (đ?‘Ž)|đ?‘Ľ0 | > 0 (anche qui deve essere a > 0). In definitiva y > 0 per ogni x. Crescenza o decrescenza: per a > 0 la funzione è crescente. Ciò segue immediatamente dalla teoria dei numeri. Per a > 0 si ha infatti che đ?‘Ž đ?‘Ľ1 < đ?‘Ž đ?‘Ľ2 ⇔ đ?‘Ľ1 < đ?‘Ľ2 . Pertanto ogni funzione y = đ?‘Ž đ?‘Ľ con a > 1 è crescente. Monotonia: nella parte teorica avevo giĂ ricordato la infettivitĂ di detta funzione, pur riferendomi alla sola funzione đ?‘’ đ?‘Ľ . Quanto in allora detto vale sicuramente per đ?‘Ž đ?‘Ľ , con a > 1. Calcolo di limiti: in questo caso rilevano due soli limiti, quello per x â&#x;ś +∞ e quello per x â&#x;ś ∞. Consideriamo il primo limite, avendo quindi lim đ?‘Ž đ?‘Ľ = + ∞. Ciò può essere dimostrato đ?‘Ľâ&#x;ś+∞

rigorosamente ma credo sia sufficiente, almeno per il momento, farsi un’idea intuitiva del fatto che x può assumere via via valori sempre piĂš elevati ed essendo a > 0 (fosse 0 < a < 1 sarebbe il contrario e tale limite sarebbe 0+ ). Ăˆ immediato determinare il limite per x â&#x;ś -∞. In questo caso si ha lim đ?‘Ž đ?‘Ľ = 0+ . Ciò è intuitivo perchĂŠ per x negativo e a fortiori per x â&#x;ś đ?‘Ľâ&#x;ś −∞

1

∞. Questo perchĂŠ per x < 0 si ha đ?‘Ž đ?‘Ľ = (đ?‘Ž)|đ?‘Ľ| . PoichĂŠ a > 1 allora (1/a) < 1 . Ma |x| > 0 Pertanto al crescere modularmente di x la quantitĂ (1/a) si avvicina allo zero da valori positivi, ovvero da desta. Pertanto per a > 1 lim đ?‘Ž đ?‘Ľ = 0+ . đ?‘Ľâ&#x;ś −∞

Ăˆ bene ricordare che questi due limiti possono essere dimostrati piĂš rigorosamente e formalmente. Comunque la sostanza delle cose non cambia. Asintoti: l’asse delle ordinate è un asintoto verticale della funzione come di deduce dal lim đ?‘Ž đ?‘Ľ = 0+ .

đ?‘Ľâ&#x;ś −∞

Ci si potrebbe proporre di studiare il caso per cui 0 < a < 1. Al momento mi astengo dal considerare la continuitĂ e la derivabilitĂ cui ho dedicato altri esercizi.


Esercizi sulla continuitĂ e sulla derivabilitĂ di funzioni reali di una variabile reale

Quanto alla continuitĂ propongo i seguenti esercizi supplementari (non risolti) tratti da Analisi matematica dello Spiegel (McGraw Hill cit.).

1. Dimostrare che f(x) = đ?’™đ?&#x;? - 3x + 2 è continua per x = 4 f(4) = 42 – 3*4 + 2 = 16 -12 + 2 = 6 Per il teorema di linearitĂ del limite si ha lim đ?‘Ľ 2 − 3x + 2 = lim đ?‘Ľ 2 - lim 3x + lim 2 = 16 – đ?‘Ľâ&#x;ś4

đ?‘Ľâ&#x;ś4

đ?‘Ľâ&#x;ś4

đ?‘Ľâ&#x;ś4

12 + 2 = 6. PoichĂŠ | f(4)| < ∞ e lim f(x) = f(đ?‘Ľ0 = 4) allora la f(x) è continua in đ?‘Ľ0 = 4. đ?‘Ľâ&#x;ś4

2. Dimostrare che f(x) =1/x è continua (a) in x = 2, (b) in 1 ≤ x ≤ 3. Per la parte (a) si procede similmente al caso 1. Per quanto riguarda il punto (b) si ha che deve dimostrarsi che la funzione è continua per ogni x tale che 1/|x| < ∞. Quindi bisogna dimostrare che essa è pure continua in x = 1 e in x = 3. Giova osservare che la funzione è definita per ogni x ≠0. Quindi anche la funzione f(x) =1/x è definita sempre quando x ∊ [ 1 , 3âŚŒ. Pertanto sotto questa limitazione tale funzione è sempre definita e monotona strettamente decrescente, come immediatamente si dimostra. Infatti se đ?‘Ľ2 > đ?‘Ľ1 si ha 1/đ?‘Ľ1 > 1/đ?‘Ľ2 . Ăˆ immediatamente spiegata anche la monotonia. Per x ∊ (1 , 3) si ha 0 < 1/|x| < ∞. Dalla esistenza di f(x) per x ∊ (1 , 3) e da 1/|x| < ∞ discende la continuitĂ di f(x) per 1/|x| < ∞. Non resta che calcolare il valore della f(x) per x = 1. Si ha f(1) = 1/1 = 1. Formalmente è possibile determinare lim+ 1/đ?‘Ľ = 1/ lim+ x = 1/1 = 1. Pertanto, essendo la f(.) definita per đ?‘Ľ0 đ?‘Ľâ&#x;ś1

đ?‘Ľâ&#x;ś1

=1 ed essendo finito il limite pure pari a 1, allora la funzione f(.) è continua per x = 1. Analogamente si evidenzia che la funzione f(x) è definita per x = 3. Essa assume il valore f(3) = 1/3. Per il calcolo del limite, occorre calcolare il limite sinistro, avvicinandoci quindi al valore 3 da valori minori (infinitesimamente) di 3. Formalmente è possibile determinare lim− 1/đ?‘Ľ = đ?‘Ľâ&#x;ś3


1/ lim− x = 1/3. Pertanto, essendo la f(.) definita per đ?‘Ľ0 = 3 ed essendo finito il limite pure đ?‘Ľâ&#x;ś1

pari a 1/3, allora la funzione f(.) è continua per x = 1.

Ho rinvenuto tra gli interessanti esercizi supplementari proposti dallo Spiegel (cit.) questi due seguenti (sulla continuitĂ ).

3. Se f(x) e g(x) sono funzioni polinomiali, dimostrare che f(x)/g(x) è continua in ogni punto x = đ?’™đ?&#x;Ž in cui g(đ?’™đ?&#x;Ž ) ≠0. Se per ipotesi si ammette (f(x)/g(x) sia continua in x = đ?‘Ľ0 e lo stesso dicasi per g(x) per x = đ?‘Ľ0 allora (tesi) f(x) è continua in x = đ?‘Ľ0 . Per quanto si ha in ipotesi g(đ?‘Ľ0 ) ≠0. Per i dati del problema il numero f(đ?‘Ľ0 )/g(đ?‘Ľđ?‘œ ) è reale anche fosse f(đ?‘Ľ0 ) = 0, ovvero fosse đ?‘Ľ0 uno zero di f(x). Dall’ipotesi della continuitĂ di f(x)/g(x) discende ex se che f(đ?‘Ľ0 )/g(đ?‘Ľđ?‘œ ), quindi pure reale deve essere f(đ?‘Ľđ?‘œ ) ∈ R. Dalla inesistenza del numero f(đ?‘Ľ0 )/g(đ?‘Ľđ?‘œ ) sarebbe discesa la non continuitĂ in x = đ?‘Ľ0 della funzione fratta f(x)/g(x). Per le ipotesi di partenza si deve ammettere che đ?‘Ľ0 ∈ dom f. La funzione f(x) è polinomiale, quindi essa è continua in tutto il dominio, ivi compreso un x tale che f(x) = 0.

4. Dimostrare che ogni funzione polinomiale è continua in ogni intervallo finito. Ăˆ quindi assegnata una funzione del tipo f(x) = đ?‘Žđ?‘› đ?‘Ľ đ?‘› + đ?‘Žđ?‘›âˆ’1 đ?‘Ľ đ?‘›âˆ’1 + ‌‌. + đ?‘Ž0 đ?‘Ľ 0 , con đ?‘Žđ?‘› ≠0. Dalla teoria elementare delle funzioni risulta che tale funzione è definita per ogni x reale. Essa è pure continua in R e in ogni punto di R. L’esercizio chiede di dimostrare che la funzione è continua in [Îą , βâŚŒ ⊂ R. La dimostrazione è solo laboriosa e viene fornita a grandi linee. Si considera đ?‘Ľ0 ∊ (Îą, β). Si applica il limite per x â&#x;ś đ?‘Ľ0 ∊ (Îą, β) a f(x) = đ?‘Žđ?‘› đ?‘Ľ đ?‘› + đ?‘Žđ?‘›âˆ’1 đ?‘Ľ đ?‘›âˆ’1 + ‌‌. + đ?‘Ž0 đ?‘Ľ 0 . In relazione al secondo membro si applica il teorema di linearitĂ evidenziando che tale limite finito è eguale a f(đ?‘Ľ0 ). Quindi si determina il valore f(Îą) e si determina lim+ đ?‘“(đ?‘Ľ) . SarĂ đ?‘Ľâ&#x;śđ?›ź

immediato constatare che f(Îą) = lim+ đ?‘“(đ?‘Ľ). In modo del tutto analogo si dimostra che la f(.) è đ?‘Ľâ&#x;śđ?›ź

definita per x = β, avendosi f(β) = lim− đ?‘“(đ?‘Ľ). đ?‘Ľâ&#x;śđ?›˝


In buona sostanza si opera in modo analogo, seppure con un formalismo un poco piĂš complesso, come nel caso (b) del precedente esercizio n. 2. Un altro esercizio supplementare sembra fatto su misura per spiegare il significato dell’esercizio precedente. Esso è il seguente.

5. Dimostrare che f(x) = đ?’™đ?&#x;‘ è continua in ogni intervallo finito. Ăˆ ben evidente che tale esercizio (la numerazione è la mia, quella originale è ovviamente diversa, essendo l’esercizio supplementare n. 73 del Cap. II) è un caso particolare di quello precedente quando si pone n = 3, đ?‘Ž3 = 1 e đ?‘Žđ?‘– = 0 per 0 ≤ i ≤ 2. Ciò premesso, si possono fare le considerazioni giĂ fatte in generale (esercizio 4). Ăˆ forse piĂš istruttivo, almeno per esercitarsi, considerare un caso particolare per esempio riformulando il quesito nel modo seguente.

6. Dimostrare che f(x) = đ?’™đ?&#x;‘ è continua per x Îľ [ −đ?&#x;? , đ?&#x;?âŚŒ Tale funzione è evidentemente definita in ogni punto dell’intervallo, estremi compresi. Infatti anche la radice cubica è definita per ogni x reale. La funzione è dispari. Per esempio per x = - 2 si ha f(-2) = - 8, mentre f(2) = 8. In generale f(-x) = - f(x). Con riferimento al dato dominio la funzione è strettamente crescente. f(0) = 0. Pertanto il luogo passa per (0, 0). Tale funzione ha andamento strettamente monotonico. Ăˆ ben evidente che |f(x)| = |đ?‘Ľ 3 | = |đ?‘Ľ|3 < ∞. Ma si ha pure che lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = ( lim đ?‘Ľ)3 . đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ľ0

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ľ0

Se đ?‘Ľ0 ∊ ( - 2 , 2) tutto è immediato avendosi | lim đ?‘“(đ?‘Ľ) | = |( lim đ?‘Ľ)3 | = |f(x)| = |đ?‘Ľ 3 | = |đ?‘Ľ|3 < đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ľ0

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ľ0

∞. Se đ?‘Ľ0 = - 2 allora deve essere considerato il limite destro, avendosi |( |đ?‘Ľ 3 | = |đ?‘Ľ|3 = 8 < ∞.

lim

đ?‘Ľ â&#x;ś(−2)+

đ?‘Ľ 3 | = |f(x)| =


Analogamente per x = 2. Pertanto la funzione definita per x ∊ [ −2 , 2âŚŒ è pure continua in detto intervallo.

Esercizi sulla derivabilitĂ di funzioni

7. (esercizio supplementare n. 47, Spiegel, Cap. IV, op. cit.). Data f(x) = x|x| è richiesto di determinare la derivata destra e quella sinistra in x = 0. Per essa si ha f(0) = 0 (legge di annullamento del prodotto 0*0 = 0) Per x > 0 si ha f(x) = đ?‘Ľ 2 Per x < 0 si ha f(x) = –(đ?‘Ľ 2 ) = - đ?‘Ľ 2 Ci si potrebbe chiedere il perchĂŠ di quel meno che precede đ?‘Ľ 2 quando x < 0. Formalmente per x < 0 possiamo dire che f(x) = x|x| = - |x||x| = - |đ?‘Ľ 2 | = - đ?‘Ľ 2 c.v.d.. Tale funzione è ovviamente continua in x = 0. Ciò lo si prova calcolando i due semplici limiti destro e sinistro ed evidenziando che essi sono eguali. Partiamo da quello di destra. Si tratta di osservare (cosa dimostrabile rigorosamente) che lim đ?‘Ľ 2 = 0+ ma anche che lim− ( −(đ?‘Ľ)2 ) = 0−

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘œ +

đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘œ

Al di lĂ dell’appesantimento tali limiti valgono 0. Ma 0 è proprio il valore della funzione per x = 0. Quindi la f è continua per x = 0. Esiste quindi una condizione necessaria ma non sufficiente per la derivabilitĂ in x = 0. Per vedere se la f è derivabile in detto punto si può procedere come segue. Si determina la derivata prima di f per x > 0. Quindi si ha f(x) = đ?‘Ľ 2 â&#x;ž f’(x) = 2x. A questo punto si determina il seguente limite lim+ 2đ?‘Ľ = 2 lim+ đ?‘Ľ = 2*0+ = 0. đ?‘Ľâ&#x;ś0

đ?‘Ľâ&#x;ś0

Quindi si considera la derivata prima di f per x < 0. Quindi si ha f(x) = - đ?‘Ľ 2 â&#x;ž f’(x) = - 2x. A questo punto si determina il seguente limite lim− (− 2đ?‘Ľ ) = - 2 lim− đ?‘Ľ = 2*0− = 0. đ?‘Ľâ&#x;ś0

đ?‘Ľâ&#x;ś0


PoichÊ i due limiti sono eguali si conclude che la funzione, continua per x = 0, è ivi pure derivabile. Alternativamente si sarebbe potuto procedere considerando la funzione proposta come una funzione prodotto di due funzioni.

8. Sia f(x) = 2x – 3 per 0 ≤ x ≤ 2 e f(x) = đ?’™đ?&#x;? - 3 quando 2 < x ≤ 4. Studio della continuitĂ e della derivabilitĂ . (49 dello Spiegel, Cap IV). Per đ?‘Ľ0 ∊ [0 , 2] è continua. Infatti è sempre definita avendosi f(đ?‘Ľ0 ) = 2đ?‘Ľ0 - 3. Per il passaggio al limite si può scrivere che lim đ?‘“(đ?‘Ľ) = f(đ?‘Ľ0 ). Occorre considerare il seguente limite lim+ đ?‘“(đ?‘Ľ) = đ?‘Ľâ&#x;śđ?‘Ľ0

đ?‘Ľâ&#x;ś0

2*0+ - 3 = 2*0 – 3 = - 3. Tale limite esiste ed è finito. Una complicazione potrebbe nascere avuto riguardo a come sono definiti i due intervalli. Credo che la soluzione ottimale sia ragionare in un semi intorno di 2, considerando i due limiti e verificare se essi sono eguali. PoichĂŠ la funzione per x = 2 vale f(2) = 2*2 – 3 = 4 – 3 = 1, occorre, ai fini della continuitĂ , limitarsi a dimostrare che lim+ đ?‘“(đ?‘Ľ) = 22 - 3 = 4 – 3 = 1, verificando l’eguaglianza tra questo đ?‘Ľâ&#x;ś2

ultimo limite destro e f(2). Quindi la funzione è continua per x = 2. Ăˆ banale dimostrare la continuitĂ per x ∊ (2, 4] in modo formale. Per il punto x = 4 è sufficiente considerare il limite sinistro ovvero per x â&#x;ś 4− . Per quanto riguarda la derivabilitĂ vorrei osservare che essa va studiata per x â&#x;ś 2. Per x â&#x;ś 2− si deve calcolare la derivata f’(x)= đ??ˇđ?‘Ľ (2x – 3) = 2. Per x â&#x;ś 2+ si deve calcolare la derivata f’(x)= đ??ˇđ?‘Ľ (đ?‘Ľ 2 – 3) = 2x = 4. Poichè le due derivate sono finite ma diverse la f(x) non è derivabile per x = 2.

Da un testo che ho acquistato recentemente di seconda mano (Galigani, LaganĂ , Mazzone, Esercitazioni di analisi matematica, Ecig, 1987) ho rinvenuto il seguente esercizio che mi sono deciso di risolvere.

9. Trovare il polinomio P(x) si grado n = 3 tale che P(0) = P(1) = - 2 P’(0) = - 1 e P’’(0) = 0.


Questo tipo di esercizi si trova su quasi tutti i testi anche se in versioni che non contengono le derivate prima e seconda. Sia dato quindi un polinomio di grado 3 ove a, b, c e d sono parametri reali. p(x) = ađ?‘Ľ 3 + bđ?‘Ľ 2 + cx + d p(0) = d = - 2 p(1) = a + b + c – 2 = - 2 â&#x;ž p(1) = a + b + c = 0 Da p(x) calcolo la derivata prima p’(x) = 3ađ?‘Ľ 2 - 2bx + c. Ottenuto p’(x) si può agevolmente determinare p’(0) = c = - 1. Da queste informazioni posso giĂ dire che p(x) = ađ?‘Ľ 3 + bđ?‘Ľ 2 - x – 2. Ma a + b + c = 0 â&#x;ž a + b = - 1 â&#x;ž a = - ( b +1). Calcolo quindi la derivata seconda di p(x). Essa è la derivata prima di p’(x). La derivata seconda è p’’(x) = 6ax – 2b. Determino ora p’’(0) = - 2b = 0 â&#x;ž b = 0. Da a = - (b +1) per b = 0 si ha a = - (0 +1) = -(1) = - 1. Riunendo i risultati si ottiene che il polinomio di grado tre che soddisfa le condizioni del problema. Esso è p(x) = (-1)đ?‘Ľ 3 + 0đ?‘Ľ 2 - x - 2 = - đ?‘Ľ 3 - x - 2.

10. Studiare la derivabilitĂ di f(x) = ln│x + 2│ La funzione considerata è ovviamente una funzione composta e poichĂŠ l’argomento del logaritmo contiene valore assoluto il dominio della f è dom f = R. Anche per x = 0 si ha f(0) = ln│2│ = ln(2). Ăˆ bene ancora una volta considerare gli step che definiscono la composizione đ?œ?

│.│

ln(.)

di f(.). In questo caso si ha x → x + 2 → │x + 2│→

ln │x + 2│.

đ??ˇđ?‘Ľ = đ?‘‘đ?‘Ľ (ln │x + 2│)đ?‘‘đ?‘Ľ │x + 2│= (1/│x + 2│)(đ?‘‘đ?‘Ľ (x+2)) (│x + 2│/x+2) = (1/│x + 2│)(1) (│x + 2│/x+2) = 1/(x + 2).


La funzione f’(x) non è continua in un intorno simmetrico infinitesimo di x = 2. Infatti per x = 2 si avrebbe una forma 1/0 non ammessa. La funzione considerata è continua in R/âŚƒ2⌄.

11. A proposito di funzioni composte vorrei ricordare alcuni piccoli esercizi che ho tratto da Citrini, Analisi matematica, 1, BB. Si richiede di determinare le funzioni f e u nella derivata seguente. A) đ??ˇđ?‘Ľ [ cos(2đ?‘Ľ 2 − 1)] = - sin(2đ?‘Ľ 2 − 1)(4x) đ??śđ?‘&#x;đ?‘’đ?‘‘đ?‘œ di dover rimanere fedele allo schema da sempre utilizzato per le funzioni composte, per poter affermar che ci si trova in presenza di una funzione cosĂŹ composta. đ?‘˘

�(�)

x → 2đ?‘Ľ 2 − 1 →

cos(2đ?‘Ľ 2 − 1) , ove u = u(x).

Vorrei osservare che, stante quanto detto nella parte teorica, la funzione cos(2đ?‘Ľ 2 − 1) non è l’unica funzione che derivata rispetto alla x conduce a g’(x) = - sin(2đ?‘Ľ 2 − 1)(4x). Vorrei osservare che ogni funzione cos(2đ?‘Ľ 2 Âą đ?‘˜), con k ∊ đ?‘… + , ammette la medesima derivata. Queste funzioni costituiscono una classe di primitive della funzione - sin(2đ?‘Ľ 2 − 1)(4x). Basta ricordare che đ??ˇđ?‘Ľ φ = 0 per ogni φ ∊ R. In modo analogo si discutono tutti gli altri casi ivi considerati.

12. Massimi e minimi assoluti di f(x) = (1 – x) √đ?’™ in [0, 1] Per il dominio di studio considerato [0, 1] la funzione è ben definita in quanto [0, 1] contiene reali non negativi. In generale dom f = [0, 1]. Ăˆ possibile scrivere che f(x) = (1 – x) √đ?‘Ľ = √đ?‘Ľ − đ?‘Ľ 2 . Per il particolare dominio la realtĂ del radicale è garantita. Si hanno due punti critici evidenti . Per x = 0 si ha f(0) = √1 − 12 = 0. Si ha anche che f(1) = 0 (per banale sostituzione). Ma √đ?‘Ľ − đ?‘Ľ 2 ≼ 0. Ăˆ poi noto che la f(x) è continua in detto intervallo. Mettendo insieme queste informazioni si dovrebbe desumere che esiste un punto đ?‘Ľ0 tale che f(đ?‘Ľ0 ) = max f(x). f(0) e f(1) sono punti di minimo assoluto. Il metodo piĂš semplice per determinare đ?‘Ľ0 tale che f(đ?‘Ľ0 ) = max f(x) è quello di applicare i teorema per il quale f’ = g’h + gh’ (dovuto a Liebnitz).


đ??ˇđ?‘Ľ f = (đ??ˇđ?‘Ľ g )h + (đ??ˇđ?‘Ľ h )g = đ??ˇđ?‘Ľ (1 – x ) √đ?‘Ľ + (đ??ˇđ?‘Ľ √đ?‘Ľ) (1 – x)= - 1√đ?‘Ľ + (1-x) (1/2√đ?‘Ľ ) = − √đ?‘Ľ + (1x) (1/2√đ?‘Ľ ). Il punto di massimo si trova imponendo đ??ˇđ?‘Ľ f = 0, risolvendo quindi una semplice equazione contenente radicali ovvero √đ?‘Ľ = (1-x) (1/2√đ?‘Ľ ) da cui x = 1/3 e il punto di massimo sul luogo è (1/3; √2 /3) Un ulteriore approccio al problema potrebbe essere quello di considerare la f come una đ?œ?

đ?œ‘

funzione composta (x → x - đ?‘Ľ 2 → √ x − đ?‘Ľ 2 ) đ?‘’ applicare il teorema della derivata di funzione composta.

13. Un esercizio sulle successioni. Questo esercizio (Spiegel Cap III, Successioni, n. 46, op. cit) chiede di “dimostrare che la successione di termine n-esimo đ?’‚đ?’? = √đ?’? /n+1 è nonotona decrescente, è limitata sia superiormente che inferiormente ed ammette limiteâ€?. Per togliermi dagli impicci formali ho preferito effettuare la seguente sostituzione √đ?‘› â&#x;ś t avendosi quindi la đ?‘Žđ?‘Ą = t/đ?‘Ą 2 + 1. Ăˆ possibile dividere per t ≠0 avendosi 1 / t + đ?‘Ą −1 . Credo che questa formulazione evidenzi icto oculi il carattere monotonico e strettamente decrescente della successione. Infatti al variare di t o meglio al crescere di t cresce anche il numero t + đ?‘Ą −1 . Una riflessione sulla monotonia può farsi semplicemente osservando che per t’ ≠đ?‘Ą . Infatti ciò posto si ha t + đ?‘Ą −1 ≠t’ + đ?‘Ąâ€˛âˆ’1 . la trasformazione e la successiva divisione per t ≠0 della successione consente di determinare agevolmente il limite per t â&#x;ś +∞ (che è la stessa cosa per n â&#x;ś + ∞). Ora si che si possono applicare i teoremi sui limiti. Infatti si ha lim 1 / t + đ?‘Ą â&#x;ś+∞

đ?‘Ą

−1

= 1/ lim đ?‘Ą + lim (1/đ?‘Ą) = 1 / ∞ + 0 = 1/ ∞ = 0. PiĂš rigorosamente sarebbe lim 1 / đ?‘Ąâ&#x;ś+∞

đ?‘Ąâ&#x;ś+∞

đ?‘Ą â&#x;ś+∞

t + đ?‘Ą −1 = 0+ . La successione ammette un massimo per n = 1. Per n = 1 si ha đ?‘Ž1 = = √1 / 1+1 = ½ Giova osservare che che inf âŚƒđ?‘Žđ?‘› ⌄ = 0. Ma 0 ∉ Imm âŚƒđ?‘Žđ?‘› ⌄.

14. Vorrei determinare alcuni limiti di successioni (es. 45, Cap III, Successioni) che credo utili per introdurre ancora questo punto informalmente il concetto di equivalenza asintotica. Considero per esempio

lim

đ?‘› â&#x;ś +∞

(4−2đ?‘› −3đ?‘›2 ) 2đ?‘›2 + đ?‘›

. Questo limite si può calcolare agevolmente


dividendo ambo i polinomi in n per đ?‘›2 e poi dire che se è vero che lim 1/đ?‘› = 0+ a fortiori è đ?‘› â&#x;ś+∞

2

+

vero che lim 1/đ?‘› = 0 . Applicando poi la linearitĂ del limite si ottiene che detto limite vale đ?‘› â&#x;ś+∞

– 3/2. Ma si può procedere ancora piĂš speditamente. Ăˆ ben evidente che per n arbitrariamente grandi si può ammettere che 4 − 2đ?‘› − 3đ?‘›2 ≃ −3đ?‘›2 ma anche che 2đ?‘›2 + đ?‘› ≃ 2đ?‘›2 . Si dice che per n arbitrariamente grande la funzione

(4−2đ?‘› −3đ?‘›2 ) 2đ?‘›2 + đ?‘›

è “asintoticamente

equivalenteâ€? alla funzione −3đ?‘›2 / 2đ?‘›2 . Pertanto è possibile ammettere la eguaglianza dei limiti avendosi

lim

đ?‘› â&#x;ś +∞

(4−2đ?‘› −3đ?‘›2 ) 2đ?‘›2 + đ?‘›

=

lim

đ?‘› â&#x;ś +∞

−3đ?‘›2 / 2đ?‘›2 = -(3/2) lim

đ?‘› â&#x;ś +∞

đ?‘›2 / đ?‘›2 = - 3/2

lim 1. = - 3/2.

đ?‘› â&#x;ś +∞

Ăˆ appena il caso che riflessioni del genere non sempre si possono fare. Per esempio un ragionamento del genere con lim (√đ?‘›2 + đ?‘› - n). Se si ragionasse come sopra si potrebbe đ?‘›â&#x;ś+∞

2

dire che per n molto grande đ?‘›2 + đ?‘› ≃ đ?‘›2 essendo tentati da passaggi del genere √đ?‘›2 = n â&#x;ž lim ( đ?‘› - n) = 0. Vorrei incidentalmente ricordare che ove si operasse su numeri reali si

đ?‘›â&#x;ś+∞

dovrebbe scrivere √đ?‘Ľ 2 = │x│. In realtĂ questa che si ricava dall’esercizio è una forma indeterminata del tipo ∞ - ∞. A rendere problematica la questione è l’argomento del radicale che è đ?‘›2 + đ?‘›. Ăˆ facile convincersi che se l’argomento del radicale quadratico fosse semplicemente đ?‘›2 tale limite pacificamente varrebbe 0. Esiste anche una tecnica algebrica di razionalizzazione abbastanza laboriosa che consiste di moltiplicare e dividere l′ argomento (√đ?‘›2 + đ?‘› - n) per il numero (√đ?‘›2 + đ?‘› + đ?‘›) e poi lavorare sull’espressione ottenuta applicando quindi i teoremi sui limiti. Questi esercizi sono sempre molto utili anche a ricordare proprietĂ algebriche elementari. Nel caso che segue sono utili le proprietĂ delle potenze. Sembra trattarsi di un “mostroâ€?. In realtĂ il tutto è abbastanza tranquillo. lim ( 4 ∗ 10đ?‘› - 3*102đ?‘› / 3*10đ?‘›âˆ’1 + 2*102đ?‘›âˆ’1 ) = lim ( - 3*102đ?‘› / 2*102đ?‘›âˆ’1 ).

đ?‘›â&#x;ś+∞

đ?‘›â&#x;ś+∞

Questo primo step è elementare e giustificato dalla prevalenza di - 3*102đ?‘› e di 2*102đ?‘›âˆ’1 đ?‘&#x;đ?‘–đ?‘ đ?‘?đ?‘’đ?‘Ąđ?‘Ąđ?‘–đ?‘Łđ?‘Žđ?‘šđ?‘’đ?‘›đ?‘Ąđ?‘’ al numeratore e al denominatore, essendo nella logica ∞/∞, tecnicamente una delle forme di indecisione. Ma a questo punto è immediato poter lavorare sulla quantitĂ - 3*102đ?‘› / 2*102đ?‘›âˆ’1 = (-3/2) (102đ?‘› / 102đ?‘› * 10−1 ) = (-3/2)( 10) = - 15.


15. Vorrei infine considerare qualche semplice esercizio sulle successioni risolto tra quelli proposti nelle Esercitazioni (op. cit). 15.1 đ??Ľđ??˘đ??Ś √đ?’? – đ?’? . In questo caso “si razionalizzaâ€?. Quindi la quantitĂ (√đ?‘› – đ?‘› ) viene đ?’? â&#x;śâˆž

moltiplicata e divisa per √đ?‘› + n, avendosi (√đ?‘› – đ?‘› ) ((√đ?‘› + n) / (√đ?‘› + n)) â&#x;ž n - đ?‘›2 / √đ?‘› + n. Con la sostituzione √đ?‘› = t. Per t arbitrariamente grande si può scrivere (đ?‘Ą 2 - đ?‘Ą 4 / t + đ?‘Ą 2 ) âˆż đ?‘Ą 4 / đ?‘Ą 2 = - đ?‘Ą 2 . Ăˆ ben evidente che lim √đ?‘› – đ?‘› = - ∞. đ?‘› â&#x;śâˆž

15.2 đ??Ľđ??˘đ??Ś đ?’”đ?’Šđ?’?(đ?’?) non esiste. Si possono dire le stesse cose di sin(x). In particolare │sin(n)│≤ đ?’? â&#x;śâˆž

1. In effetti una successione è un tipo particolare di funzione e propriamente una f : N â&#x;ś R. đ?&#x;?đ?’?

2đ?‘›

15.3 đ??Ľđ??˘đ??Ś √đ?&#x;–đ?’?+đ?&#x;? . Si ha lim √8đ?‘›+1 = √ lim đ?’? â&#x;śâˆž

đ?‘› â&#x;śâˆž

2đ?‘›

đ?‘› â&#x;śâˆž 8đ?‘›+1

denominatore della frazione sotto radicale si ha √ lim

. Dividendo per n ≠0 numeratore e

đ?‘› â&#x;śâˆž

2

2

=√ 8+1/đ?‘›

1 8+ lim ( ) đ?‘› â&#x;śâˆž đ?‘›

2

= √8+ 0+ = √1/4 =

½.

Ho deciso di posticipare lo studio delle forme di indecisione alla prossima pillola nella quale verranno introdotti i teoremi per la loro risoluzione detti di De l’Hospital – Bernoulli. Credo sia anche utile considerare di dover approfondire in futuro l’equivalenza asintotica.


I GRANDI MATEMATICI DEL PASSATO

CARLO FEDERICO GAUSS

Carlo Federico Gauss fu precocissimo e si narra che all’età di sei anni sbalordÏ il maestro, calcolando la somma dei primi cento interi in pochi secondi, con ogni probabilità facendo un ragionamento che sta alla base della dimostrazione della somma di n termini posti in progressione

aritmetica.

Come

per

altri

grandi

matematici sarebbe velleitario volerne ricordare tutti i contributi in poche cartelle. Egli comunque fu sempre conciso e scrisse poco, contrariamente a Eulero. Dette sempre grande importanza ai numeri, tanto è che gli si attribuisce la celebre frase per la quale “l’aritmetica è la regina della matematicaâ€?. Vorrei ricordare che a Gauss si devono – inter alia – due importanti contributi. Intendo riferirmi alla curva normale – detta anche gaussiana – e le congruenze lineari. Ăˆ ritenuto poi il “creatoreâ€? del teorema fondamentale dell’algebra. Vorrei partire dalla curva gaussiana detta anche normale. Ăˆ ben evidente che la sua trattazione, il suo significato, specie con riferimento all’area sottesa da essa richiedono nozioni abbastanza avanzate di statistica. Ma credo che essa possa essere introdotta anche come mero oggetto matematico, come una funzione matematica. Essa ha una forma particolarmente complessa ma quando la si capisce diventa abbastanza “normaleâ€? ricordarla a memoria. La sua espressione algebrica è la seguente 2

y = (N/Ďƒâˆš2đ?œ‹ ) đ?‘’ −((đ?‘Ľâˆ’đ?‘€)

/2đ?œŽ2 )

In essa sono presenti due costanti matematiche quali i numeri Ď€ ed e. Ma in essa fanno la loro comparsa anche N, M e Ďƒ. Per ora esse possono essere considerate delle quantitĂ sperimentali e nel proseguo si avrĂ modo di vedere che N indica il numero degli elementi di un collettivo


statistico, Ďƒ una grandezza detta scarto quadratico medio ed M una tranquilla media aritmetica. 1

Lavorando sulla quantitĂ ((đ?‘Ľ − đ?‘€)2 /2đ?œŽ 2 ) per x â&#x;ś Âąâˆž e tenendo conto đ?‘’ −đ?œ? = (đ?‘’)đ?œ? > 0 âˆ€Ď„ ∊ 2

đ?‘… + . Si potrĂ agevolmente comprendere che lim (N/Ďƒâˆš2đ?œ‹ ) đ?‘’ −((đ?‘Ľâˆ’đ?‘€) đ?‘Ľâ&#x;śÂąâˆž

/2đ?œŽ2 ) =

0+ .

Ăˆ per riflessioni puramente algebriche che si definisce il segno della funzione gaussiana, avendosi y > 0. Vorrei osservare che le quantitĂ M, N e Ďƒ sono delle costanti sperimentali, valide per un dato esperimento. Per esperimenti diversi possono valori numerici diverse per esse. Geometricamente N assume il significato di area al di sotto della curva. Per x = M si ha max y. Ăˆ evidente che variando i parametri sperimentali (M, N e Ďƒ) si hanno distinte curve gaussiane. Per ragioni di operativitĂ , ponendo N = Ďƒ = 1 ed M = 0 si ottiene una curva normale detta standardizzata che assume la seguente forma 2

y = (1 / Ďƒâˆš2đ?œ‹) đ?‘’ −(đ?‘?)

/2

Si avrĂ modo di ritornare su questa curva quando verrĂ avviata la rubrica “Sul piano statisticoâ€?, prima dell’estate.

Per l’elaborazione di questa parte ho attinto da un bel volumetto di introduzione alla statistica elaborato nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Genova dalla prof.ssa Valeria Maione (Appunti di statistica descrittiva, nuova edizione). In essa sono contenute tre belle rappresentazioni grafiche che danno visivamente conto delle variazioni grafiche della normale l variare di N, di M e dello scarto quadratico medio.


A Gauss è poi attribuito il metodo dei minimi quadrati. Non è possibile illustrare il metodo, che pure sarĂ oggetto di intervento, o nella rubrica fisica o in quella statistica, anche se può essere introdotto il problema nelle linee essenziali. Due fenomeni statistici (o due grandezze fisiche) pongono essere relazionati nel senso che se una grandezza Y, assume, quando la grandezza variabile X i valori đ?‘Ľđ?‘– , i valori đ?‘Śđ?‘– , introducendo una funzione f per la quale y = f(đ?‘?đ?‘– ), ove i đ?‘?đ?‘– sono i parametri che caratterizzano tra le infinite curve teoriche dello stesso tipo (lineari, quadratiche, esponenziali, etc.) quella che meglio si adatta ai valori empirici. In buona sostanza cosa si fa? Si collocano nel piano cartesiano (specie in statistica si opera nel I quadrante) le coppie (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘Śđ?‘– ) cui corrisponde un punto di đ?‘… 2 . I punti (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘Śđ?‘– ) sono punti sperimentali, ricavati da ricerche sul campo o da misurazioni di grandezze fisiche. Per esempio le đ?‘Ľđ?‘– potrebbero essere misure di intensitĂ di corrente elettrica e le đ?‘Śđ?‘– potrebbero essere le corrispondenti d.d.p. ai morsetti di un resistore lineare. A questo punto bisogna dare un senso a questi (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘Śđ?‘– ) sperimentali. Credo ci voglia anche un poco d’occhio per capire come sono “collocatiâ€? questi (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘Śđ?‘– ). Ciò è essenziale per scegliere che tipo di funzione di interpolazione usare. Nel caso dell’esperimento citato piĂš sopra come esempio occhio (e senno del poi, conoscendo la prima legge di Ohm) impongono una funzione lineare. Per altri casi l’intuito potrebbe, ovviamente, portare ad altre funzioni, e tra esse una di uso in statistica, detta “semilogaritmicaâ€?, la cui espressione analitica è y = a + b ln(x). Stabilito di usare la funzione lineare si procede oltre. E vedremo come. Ăˆ ben ovvio che da come sono disposti i punti (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘Śđ?‘– ) risulterĂ piĂš o meno sensato usare una funzione affine, ovvero del tipo y = ax + b. Stabilito di voler usare la funzione affine, bisogna stabilire quale particolare curva usare. Insomma bisogna dire quale funzione affine tra le infinite di equazione y = ax + b meglio si accorda con i risultati sperimentali dati dall’insieme i cui elementi sono i punti corrispondenti a (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘Śđ?‘– ). Ăˆ bene ricordare che y = ax + b individua infinite rette una al variare di (a, b). Per avere una sola retta (diventerebbe la retta interpolante) bisogna considerare una ed una sola coppia, chiamiamola (đ?‘Ž0 , đ?‘?0 ) di equazione y = đ?‘Ž0 x + đ?‘?0 . Il punto sta proprio in questo, come si determina la coppia (đ?‘Ž0 , đ?‘?0 ) ? In realtĂ esiste una interpolazione “per puntiâ€? distinta da una interpolazione “tra puntiâ€?, ma la sostanza non cambia. Si tratta di ottenere una curva che per quanto possibile dia conto della distribuzione dei (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘Śđ?‘– ) sempre affetti da errore. La migliore rappresentazione funzionale si avrĂ quando ∑đ?‘˜đ?‘–=1(đ?‘Ž + đ?‘?đ?‘Ľđ?‘– − đ?‘Ś1 )2 = minimo. Ăˆ bene ricordare che gli (đ?‘Ľđ?‘– , đ?‘Śđ?‘– ) sono dati del problema. K è il numero di misurazioni. Tra tutti i possibili (a, b) bisogna trovare quelli che minimizzano la suindicata espressione. Torneremo nel proseguo sulla soluzione del problema, che presuppone le tecniche del calcolo differenziale.


Ulteriore fondamentale contributo dovuto al matematico tedesco fu il concetto di congruenza lineare. Questo concetto è alla base dell’aritmetica modulare e fu introdotto da Gauss nelle “Disquisitiones Arithmeticae”. Occorre partire dal formalismo e dalla definizione. Ci si può imbattere nella scrittura a ≡ b (mod n). Bisogna innanzitutto spiegare di cosa si tratta. a, b ed n sono numeri interi con n ≠ 0. Essa si legge “a è congruo modulo n a b”. Tale scrittura è vera se e solo se (a – b) è un multiplo di n. Possiamo formalizzare nel modo seguente a ≡ b (mod n) ⇔ (a – b) = kn, per un k intero. Non è detto che a e b siano entrambi positivi. Se così è essi (ovvero i numeri a e b) hanno lo stesso resto quando sono divisi per n. Sarà bene ricordare l’algoritmo di Euclide della divisione per il quale in generale x/y = q + r ovvero x = yq + r. Una trattazione piana dell’aritmetica modulare è contenuta nella voce “Aritmetica modulare” di Wikipedia. In essa sono esaminate le proprietà – ivi comprese quelle di invarianza – per giungere alle “classi di resto modulo n”. Relazioni di equivalenza e insieme quoziente saranno oggetto di approfondimento. Come si può notare dalla fonte precitata la divisione euclidea è ponibile nella forma a = kn + r ma anche come a – r = kn. Possono pertanto definirsi n classi (sottoinsiemi propri di N) per i quali l’intero a è equivalente a r (mod n) quando (e solo quando) il numero (a – r) è un multiplo relativo di n. Il rigore imporrebbe di definire i concetti di relazione di equivalenza e di insieme quoziente. Vorrei rimanere sul generale (ma poi non tanto vago…) ricordando che questa costruzione colloca i naturali in sottoinsiemi a due a due disgiunti nessuno dei quali vuoto e tali che la loro


unione (in senso insiemistico( riproduce) N. Tutti ricorderanno che si tratta di un concetto noto in algebra degli insiemi come partizione. Da quanto detto e da quanto a fortiori potrete leggere nella citata voce di Wikipedia comprenderete che un intero può appartenere ad una ed una sola classe di resto modulo n. Una classe di resto è semplicemente un insieme in cui sono collocati infiniti interi. Per esse è data una scrittura del tipo [r] individua oltre al numero r pure tutti gli interi del tipo a =kn + r, con k intero relativo. Trattasi di un insieme quoziente quindi r è sostanzialmente l’elemento rappresentativo quando sia noto n (modulo della congruenza). I limiti di spazio non consentono di andare oltre. Non è possibile riferire della complessità dell’opera di Gauss ma vorrei concludere queste brevi considerazioni ricordando che il grande matematico tedesco fu per certi aspetti colui che aprì per primo la porta alle geometrie non euclidee e che a Lui è attribuibile il merito di avere introdotto con rigore il concetto di curvatura, argomenti fondamentali nello sviluppo della fisica del XIX secolo. In ultimo gli si deve la dimostrazione del teorema fondamentale dell’algebra che sarà oggetto di una scheda nei prossimi mesi.


L’ANGOLO DEL FISICO Una prima introduzione alle leggi della meccanica classica

1. Digressione vettoriale Avevo concluso il precedente intervento ricordando che un corpo è in quiete quando non varia la sua posizione rispetto ad O ≥ (0, 0, 0) o comunque rispetto ad un altro osservatore in quiete rispetto ad 0. Ăˆ stato pure definito il vettore spostamento. Ma bisognerĂ molto affinare le questioni perchĂŠ lo spostamento “fotografaâ€? due posizioni, nulla dicendo sul percorso (detto propriamente traiettoria). Ăˆ bene ricordare che un oggetto può spostarsi tra due punti di đ?‘… 3 in infiniti modi. Vorrei introdurre la base ortonormale dei versori i, j, k. Prendiamo l’asse delle x. Il segmento di estremi 0 e 1 definisce un vettore unitario (la distanza tra i due punti è 1), di origine 0 e di estremo 1. In realtĂ le cose sono formalmente piĂš complesse perchĂŠ il vettore è l’elemento rappresentativo della classe dei segmenti orientati equipollenti, ma la impostazione può essere accettata. i è quindi un vettore di lunghezza unitaria (versore) avente la direzione dell’asse delle x e il verso quello delle x positive. In modo del tutto analogo, in relazione agli assi delle y e delle z, possono essere definiti i versori j e k.

A un corpo puntiforme collocato in (đ?‘Ľ0 , đ?‘Ś0 , đ?‘§0 ) può associarsi graficamente un vettore passante per (0, 0, 0). Tale vettore in termini dei versori della base ortonormale può essere scritto come P = đ?‘Ľ0 đ?’Š + đ?‘Ś0 đ??Ł + đ?‘§0 đ??¤. Lo stesso formalismo è applicabile ad ogni grandezza


vettoriale, quindi anche allo spostamento vettoriale avendosi D = (đ?‘Ľ2 − x1 )đ?’Š + (đ?‘Ś2 − y1 )đ??Ł + (đ?‘§2 − z1 )đ??¤. Gli indici 1 e 2 attendono ai tempi finale (2) e iniziale (1). Il formalismo della base ortonormale è utilizzabile anche in relazione alla somma vettoriale avendosi ovviamente che S = (đ?‘Ľ2 + x1 )đ?’Š + (đ?‘Ś2 + y1 )đ??Ł + (đ?‘§2 + z1 )đ??¤. Questa notazione sarĂ utile nello studio delle forze che essendo grandezze vettoriali obbediscono alle leggi standard dell’algebra vettoriale, come si è iniziato a considerare.

Giova osservare che il vettore D = (đ?‘Ľ2 − x1 )đ?’Š + (đ?‘Ś2 − y1 )đ??Ł + (đ?‘§2 − z1 )đ??¤ ha parimenti il significato di una distanza quando venga modificato con l’introduzione dei valori assoluti, nel modo seguente d = (|đ?‘Ľ2 − x1 |)đ?’Š + (|đ?‘Ś2 − y1 |)đ??Ł + (|đ?‘§2 − z1 |)đ??¤. Sorge spontanea una domanda. Un corpo che corrisponde al punto (đ?‘Ľ0 , đ?‘Ś0 , đ?‘§0 ) a quale distanza dall’origine (0, 0, 0) si trova? La domanda è importante. Se si fosse su un asse e si operasse in đ?‘…1 la risposta è immediata: un corpo in đ?‘Ľ0 dista proprio đ?‘Ľ0 unitĂ lineari, per esempio metri, da O. In đ?‘… 2 vale quanto detto per il piano di Gauss (o Wessel-Argand). Si applica il teorema di Pitagora. In đ?‘… 3 si usa una generalizzazione del teorema di Pitagora e si ammette pacificamente che la distanza del punto (đ?‘Ľ0 , đ?‘Ś0 , đ?‘§0 ) dall’origine vale |d| = √ đ?‘Ľ0 2 + đ?‘Ś0 2 + đ?‘§0 2 > 0. Analogamente è possibile definire la distanza tra due punti qualunque ottenendosi banalmente che essa è |d| = √ (|đ?‘Ľ2 − x1 |)2 + (|đ?‘Ś2 − y1 |)2 + (|đ?‘§2 − z1 |)2 > 0. La scrittura |d| è detta modulo del vettore e quindi d ∊ đ?‘… + . La distanza è sempre un numero positivo ( o nullo nel caso i due punti coincidano). Il modulo di un vettore è la componente scalare di una grandezza vettoriale e caratterizza ogni grandezza vettoriale.

2. La massa inerziale I corpi della fisica classica sono dotato di una proprietà intrinseca detta massa inerziale. Nozionalmente la massa è la quantità di materia di cui è costituito il corpo. Se esso è puntiforme si ammette che essa sia concentrata in un punto e si parla di corpo puntiforme.


Nel S.I. la massa è una grandezza fondamentale e la sua unità di misura è il chilogrammomassa.

3. La legge di inerzia Il primo principio della dinamica è dovuto a Galilei. Esso ha una formulazione molto semplice ed è dovuto alle sue prime sperimentazioni. Basta fare due osservazioni ideali. Un corpo in quiete resta in quiete a meno che non intervenga qualche azione esterna perturbatrice. Queste azioni perturbatrici in fisica sono dette forze. Un corpo in quiete resta in quiete quando esso non è soggetto ad alcun tipo di forza, oppure quando gli effetti delle singole forze si elidono. Più oltre vedremo il senso di questa affermazione che va precisata correttamente. Può però capitare che un corpo si muova su una retta con una velocità scalare costante. In queste condizioni di moto possono non agire forze sul corpo in moto. Astrattamente il corpo potrebbe essere descritto in moto rettilineo e uniforme (ovvero a velocità scalare costante) da un osservatore in moto (rettilineo e uniforme) rispetto al corpo in quiete rispetto all’origine 0 del sistema di riferimento. Se il corpo si muove rispetto ad O di moto rettilineo uniforme è però possibile che agiscano forze i cui effetti si elidono.

4. Le forze Anche il concetto di forza è abbastanza empirico ed intuitivo. Credo sia legittimo definire una forza come una qualunque perturbazione che agisce sul corpo determinando alterazioni dello stato cinematico. Le forze sono grandezze vettoriali, quindi la loro composizione obbedisce alle regole dell’algebra vettoriale. Questa grande scoperta e la sua formulazione è dovuta al genio di Newton. Nell’introdurre il II principio della dinamica avremo modo di definire pure l’unità di misura delle forze che in onore di Sir Isaac Newton è appunto nomata newton. In genere le forze sono applicate in un punto dato, detto punto di applicazione. Per il resto si applicano i principi vettoriali (direzione, verso, modulo o intensità).


5. Il II principio della dinamica Le forze agiscono sui corpi. Come? Variando il loro stato cinematico. Se una forza agisce su un corpo in quiete lo mette in movimento. Ma anche un corpo in moto rettilineo e uniforme che subisce una forza muta la propria condizione cinematica. Esso non si muoverĂ piĂš di moto rettilineo e uniforme. Se un osservatore ideale potesse misurare la velocitĂ del corpo vedrebbe che essa varia nel tempo. Come si dice abitualmente il corpo subisce una accelerazione. In prima battuta l’accelerazione misura una variazione della velocitĂ nel tempo. Se potessimo operare sperimentalmente e potessimo ragionare in termini puramente scalari potremmo dire che l’accelerazione la massa e la forza sono legati dalla seguente relazione a = F/m. In termini vettoriali si avrebbe a = F / m. La massa m è una grandezza scalare e la sua misura non varia al variare delle condizioni di moto relativo. Solitamente la relazione è messa nella forma F = ma.

6. L’astrazione di đ?‘šđ?&#x;? Se si ipotizza che si operi in una dimensione è per certi aspetti piĂš ragionevole continuare a ragionare in termini vettoriali. La prima ipotesi è che il corpo sia in quiete, quindi sia x(t) = đ?‘Ľ0 . Esso rimane in quiete quando non agiscono forze su di esso, oppure quando le forze si fanno equilibrio. In đ?‘…1 la condizione di equilibrio è particolarmente semplice anche nel caso della presenza di forze. Per avere equilibrio è necessario e sufficiente che le due forze – che necessariamente agiscono nella medesima direzione – abbiano lo stesso valore in modulo e versi opposti. Pertanto x(t) = đ?‘Ľ0 se e solo se è verificata una delle seguenti condizioni 1) non agisce alcuna forza sul corpo; 2) le forze sono in equilibrio, nel senso che la loro somma vettoriale (nomata “risultanteâ€?) è nulla. PoichĂŠ si agisce in una sola dimensione la condizione di risultante nulla è immediata. Assunto convenzionalmente come positivo il verso di una forza la risultante è nulla se l’altra forza ha verso opposto ed eguale valore in modulo. Se x(t) = đ?‘Ľ0 il corpo è in quiete e la sua velocitĂ vale 0 m/sec. La condizione di equilibrio x(t) = đ?‘Ľ0 si ha anche quando le due forze sono nulle ovvero quando đ?‘“â&#x;ś = đ?‘“⤎ (il significato che ho inteso dare alle freccette è intuitivo). Quando le due condizioni di equilibrio delineate non sono verificate la condizione x(t) = đ?‘Ľ0 non è verificata. Il simbolo â&#x;ś è corrispondente al verso delle x crescenti. Ammettiamo che al tempo t = 0 il corpo sia in đ?‘Ľ0 . Formalmente si ha x(0) = đ?‘Ľ0 . Ăˆ possibile anche che sia đ?‘Ľ0 = 0, ma non è detto potrebbe anche essere đ?‘Ľ0 ≠0.


La cinematica è essenzialmente vettoriale. Lo può essere anche in una dimensione. Ad esempio si potrebbe dire che un punto materiale che all’inizio dell’esperimento si trova in đ?‘Ľ0 = 0 si muova con velocitĂ costante da sinistra verso destra con velocitĂ di v m/sec, con v > 0. Se non intervengono effetti esterni esso si continuerĂ a muovere con velocitĂ costante di v m/sec (principio di inerzia). Il moto è anche descrivibile settorialmente. Il vettore che lo descrive è đ??Żâ&#x;ś e il modulo di detto vettore è v. Ammettiamo che il corpo sia soggetto per un certo periodo di tempo, per esempio per t secondi, ad una forza costante. PoichĂŠ si opera in un universo semplificato di una sola dimensione il vettore che definisce la forza avrĂ la direzione della retta. Ma sono possibili due distinti versi per F, definiti dai due vettori đ?‘­â&#x;ś e đ?‘­â¤Ž di immediata interpretazione. Considero il caso che la forza applicata, supposta per semplicitĂ costante nel tempo, sia esprimibile con il vettore đ?‘­â&#x;ś . In questo caso dal Ď„ istante nel quale inizia ad essere applicata detta forza il corpo muta la condizione cinematica e la sua velocitĂ , fino ad allora costante, varia.

7. L’accelerazione A questo punto occorre ricordare che non si opera piĂš nel contesto di velocitĂ costanti, bensĂŹ in quello di velocitĂ che variano nel tempo. Deve essere definita quindi una nuova grandezza fisica, detta accelerazione, che è definibile come la variazione di velocitĂ nell’unitĂ di tempo. In termini discreti la accelerazione è data da a = Δv/Δt. Tale grandezza viene anche detta accelerazione scalare media. GiĂ da questa prima relazione si evince che l’accelerazione si misura in mđ?‘ đ?‘’đ?‘? −2 . Ciò è vero quando la velocità è misurata in m/sec e il tempo in secondi. Quando Δt â&#x;ś 0 si definisce la accelerazione istantanea. Con il formalismo delle derivate essa è đ?‘Žđ?‘–đ?‘ đ?‘Ą. = dv/dt = đ??ˇđ?‘Ą đ?‘Ł(đ?‘Ą), da intendere quindi come lim Δv /Δt. Δtâ&#x;ś0

Anche in đ?‘…1 è possibile definire vettorialmente l’accelerazione, avendo un vettore a, ma piĂš propriamente i vettori đ?’‚â&#x;ś e đ?’‚⤎ . Vorrei osservare che il verso del vettore a, dipende dal verso del vettore F. In termini vettoriali si avrebbe a = (1/m)F.


8. Quando la velocitĂ aumenta Vi è un evidente caso che giustifica il modo impreciso di esprimersi tipico del titolo di questo paragrafetto. Nell’ipotesi v(t) = costante per 0 ≤ t < Ď„ e sotto la condizione v = đ?’—â&#x;ś sempre per 0 ≤ t < Ď„, l’ applicazione di una forza F = đ?‘­â&#x;ś , supposta in modulo costante nel tempo, induce una accelerazione che in termini vettoriali è data dalla seguente equazione vettoriale đ??šâ&#x;ś =

đ?‘­â&#x;ś m

.

Credo sia abbastanza intuitivo comprendere, a partire dalla definizione di accelerazione, giungere a comprendere come varia, temporalmente, la velocitĂ . In termini scalari una accelerazione è banalmente data da a = v/t ovvero v = at. Questa ultima è meno banale perchĂŠ se a = costante (ex F = costante) si può scrivere che v(t) = at. Questo stato di cose evidenzia che per effetto di đ?’‚â&#x;ś per t ≼ Ď„ opera una componente addizione di velocitĂ đ??Żâ&#x;ś sommabile vettorialmente a v. Pertanto la velocitĂ di un corpo è la somma di due velocitĂ , quella iniziale, definibile anche come inerziale, e di quella variabile nel tempo dovuta all’accelerazione. La velocitĂ v(t) = costante per 0 ≤ t < Ď„ è una condizione iniziale e per un osservatore solidale con O. Pertanto la velocitĂ del corpo è đ?‘˝â&#x;ś = đ?’—đ?’Šđ?’?đ?’†đ?’“ â&#x;ś + đ?’—đ?’‡đ?’?đ?’“â&#x;ś . Per t 0 ≤ t < Ď„ v(t) = v(o) = v0 ove | viner â&#x;ś | = v0 Per t ∊ (Ď„ , Ď„fin âŚŒ l’equazione scalare della velocitĂ diviene v(t) = v0 + at. In buona sostanza la velocitĂ aumenta fino al valore massimo v(Ď„fin )= v0 + aĎ„fin Giova osservare che se si volesse misurare la velocitĂ si dovrebbe porre Ď„ = 0. Questo è essenziale perchĂŠ si ammette che la forza inizi ad agire dopo φ secondi dall’inizio degli esperimenti. Si ammette sia a = cost. Per un t ∊ (Ď„ , Ď„fin âŚŒ in realtĂ sono passati t + φ secondi. Ma la forza agisce solo da t secondi. Altrimenti i risultati risulterebbero sfalsati.

9. L’impulso di una forza Si è considerato il caso di una forza che agisce per un intervallo di tempo e risulta costante nel tempo. In fisica viene data ampia rilevanza ad una ulteriore grandezza fisica vettoriale, detta impulso. Trattasi di una grandezza vettoriale scrivibile come I = Ft. Questa è una grandezza generale che si utilizza anche quando |F| non è costante nel tempo.


11. Le unitĂ di misura per le forze e l’impulso Dalla equazione scalare F = ma si evince che la forza unitaria costante è quella che esercitata su un corpo di massa unitaria (1đ??žđ?‘”đ?‘šđ?‘Žđ?‘ đ?‘ đ?‘Ž ) determina una accelerazione unitaria, ovvero di 1 mđ?‘ đ?‘’đ?‘? −2 . Questo è vero quando la forza F ha la stessa direzione del vettore di modulo a. PiĂš correttamente la forza F (causa) determina una accelerazione (effetto) avente la stessa direzione e lo stesso verso di F. La forza unitaria – definita in modulo – è detta di 1 newton. In realtĂ le forze sono grandezze vettoriali, quindi il modulo di F non è sufficiente a definirle. Bisogna sempre considerare un punto di applicazione, una direzione e un verso. La corrispondente relazione dimensionale delle forze è [FâŚŒ = [L đ?‘‡ −2 đ?‘€âŚŒ. Moltiplicando una forza F per un tempo t (tecnicamente sarebbe un ΔT = intervallo di tempo tra due istanti, uno iniziale di applicazione delle forza, e l’altro finale, in cui cessano gli effetti della forza) si ottiene una grandezza vettoriale detta impulso. Formalmente I = F*t . I due vettori hanno la stessa direzione e lo stesso verso (essendo t > 0). Come si vedrĂ negli sviluppi della geometria si tratta di due vettori linearmente dipendenti. Non è ancora definita una unitĂ di misura per l’impulso (o meglio per il suo modulo). Pertanto esso viene misurato in newton*sec. Ciò premesso è possibile addivenire [IâŚŒ =[FâŚŒ [TâŚŒ = [L đ?‘‡ −2 đ?‘€âŚŒ [TâŚŒ = [L đ?‘‡ −2+1đ?‘€âŚŒ = [L đ?‘‡ −1 đ?‘€âŚŒ. Questa ultima relazione riveste una certa importanza perchĂŠ l’ultima relazione dimensionale trovata per I evidenzia che il modulo di tale grandezza può essere “scorporatoâ€? come segue, avendosi [IâŚŒ =[FâŚŒ [TâŚŒ = ‌‌. = [L đ?‘‡ −1 đ?‘€âŚŒ = [L đ?‘‡ −1 âŚŒ [đ?‘€âŚŒ = [đ?‘€âŚŒ[L đ?‘‡ −1 âŚŒ.

12. La quantitĂ di moto classica Le riflessioni dimensionali a conclusione del § 11 consentono di introdurre nella fisica classica una ben nota grandezza: la quantitĂ di moto. Si è infatti evidenziato con argomentazioni piĂš logiche che fisiche che le dimensioni fisiche della grandezza detta impulso sono riportabili al prodotto di una massa per una velocitĂ . Infatti, si era detto che [IâŚŒ = ‌.. = [đ?‘€âŚŒ[L đ?‘‡ −1 âŚŒ. Si era pure detto che l’unitĂ di misura dell’impulso era il newton/sec. Ora si può dire che per esso una unitĂ di misura equivalente è il đ??žđ?‘”đ?‘šđ?‘Žđ?‘ đ?‘ đ?‘Ž metri đ?‘ đ?‘’đ?‘? −1.


Quello che è piĂš importante è il poter evidenziare che da [đ?‘€âŚŒ[L đ?‘‡ −1 âŚŒ è possibile definire una nuova grandezza fisica. Tale grandezza è evidentemente vettoriale perchĂŠ la velocitĂ la intendiamo sempre vettoriale. La quantitĂ di moto solitamente è indicata con la lettera q e possiamo scrivere che q = mv. Nella fisica classica vera quando |v| << c, ove c è la velocitĂ della radiazione elettromagnetica nel vuoto ( c ≈ 3*108 m/sec), si ammette che m = costante, o meglio che qualunque osservatore – qualunque siano le condizioni di moto – potrĂ dire che m è la stessa. Se si ragiona in đ?‘…1 si può dire che q(t) = cost. quando, essendo m(t) = cost1 (per ogni osservatore) quando |v(t)|= cost2. A sua volta questa condizione si ha quando la somma vettoriale delle forze applicate è il vettore 0. Quanto detto potrebbe sembrare paradossale in quanto lavorando su Ft si è giunti ad ottenere una grandezza mv, per poi dire che mv si conserva quando F (in termini vettoriali) vale 0. Credo per ora sia sufficiente rimanere su đ?‘…1 . Questo consente di “scalarizzareâ€? la relazione vettoriale nel modo seguente Ft = mv. Vorrei rimarcare l’attenzione su v. Questa quantitĂ denota lo scalare della velocitĂ al tempo t (se la forza agisce da Ď„ = 0, fino a Ď„ = t). Ma è facile convincersi che possiamo riscrivere Fđ?›Ľđ?‘Ą = mv. Detto in termini semplici se una forza costante F è applicata ad un corpo di massa m, supposto puntiforme, per un intervallo di tempo Δt = đ?‘Ąđ?‘“ - đ?‘Ąđ?‘– la velocitĂ del corpo al tempo đ?‘Ąđ?‘“ (istante in cui cessa l’effetto della forza F costante) è đ?‘Łđ?‘“ = Fđ?›Ľđ?‘Ą/m. ovvero đ?’—đ?’‡ = F(đ?›Ľđ?‘Ą/m). Credo ora sia piĂš evidente che l’impulso esprime sostanzialmente la variazione della quantitĂ di moto, potendo compattare come segue I = Δq. La đ?’—đ?’‡ = F(đ?›Ľđ?‘Ą/m) ricavata è sicuramente vera ed effettiva quando per t ∊ [0, đ?‘Ąđ?‘– ) si ha v(t) = 0. Ma la condizione di inerzia non è incompatibile con una v(t) ≠0 per t ∊ [0, đ?‘Ąđ?‘– ). Sia v(t) ≠0 e sia per esempio v(t) = đ?‘Ł0 . Sotto questa condizione iniziale la velocitĂ che il corpo avrĂ all’istante đ?‘Ąđ?‘“ il valore v = đ?‘Ł0 + đ?’—đ?’‡ = đ?’—đ?&#x;Ž + F(đ?›Ľđ?‘Ą/m). In termini analitici è possibile scrivere che Fdt =mdv da cui algebricamente si ottiene una ben nota relazione F/m = dv/dt ovvero a = dv/dt. Ma poichĂŠ Fdt = madt = mdv è possibile considerare madt = mdv potendo dividere ambo i membri per m ≠0, ottenendosi anche in questo caso a = dv/dt.


In generale F(t) non è costante. In đ?‘…1 la non costanza di F(t) discende dalla non costanza di |F(t)| oppure dalla variazione del verso di F(t). In questi casi si ha formalmente I(t) = F(t)Δt .

13. Il terzo principio della dinamica Esso è pure detto principio di azione e reazione. Presuppone l’esistenza di due corpi A e B. Quindi se un corpo A agisce su un corpo B con una forza (azione) đ??&#x;đ??€â&#x;śđ?? allora il corpo B esercita una forza (reazione) eguale in modulo e contraria in verso đ?’‡đ?‘Šâ&#x;śđ?‘¨ tale che đ?’‡đ?‘¨â&#x;śđ?‘Š + đ?’‡đ?‘Šâ&#x;śđ?‘¨ = 0, o anche đ?’‡đ?‘¨â&#x;śđ?‘Š = - đ?’‡đ?‘Šâ&#x;śđ?‘¨ risultando pure |đ?’‡đ?‘¨â&#x;śđ?‘Š | = |đ?’‡đ?‘Šâ&#x;śđ?‘¨ |. Le due forze hanno la stessa direzione, data dalla retta (unica) passante per A e B, ammessi puntiformi.

14. Ricapitolazione Il moto è stato studiato in una dimensione. In assenza di forze un corpo resta in quiete. Alla stessa condizione di quiete si resta se le forze applicate hanno una risultante nulla. Si è evidenziato che l’applicarsi di una forza F determina una accelerazione a = F/m. Senza nessuna capziositĂ si può immaginare che F in luogo di una singola forza sia la risultante vettoriale delle forze đ??…đ??˘ applicate al corpo. Si è evidenziato come tale forza risultante determini una accelerazione, quindi una variazione di velocitĂ nell’unitĂ di tempo. Si è evidenziata la grandezza vettoriale impulso I evidenziando la corrispondente variazione della quantitĂ di moto.


DIAMO I NUMERI Dai naturali, tra “creazione divina� e assiomatizzazione, ai razionali.

(foto di Giuseppe Peano) Il punto di partenza della teoria dei numeri è costituito dal concetto di numero naturale, che per lungo tempo è stato assunto senza particolari approfondimenti. La definizione dello zero “0â€? come numero risale al periodo matematico arabo. Per ora partiamo dai numeri interi, 0, 1, 2, ‌.., (n-1), n. Fino a Peano, matematico italiano dell’Ottocento, si parlava di numeri naturali con una certa naturalezza. Con Peano viene introdotta la assiomatizzazione dei naturali, con l’introduzione dei cinque assiomi. In pratica essi costituiscono un modo di costruzione dell’insieme N, che solitamente denota i naturali. Il primo assioma ammette che il numero zero “0â€? sia elemento di N, o come si scrive concisamente che 0 ∊ N. Il secondo postulato afferma che ogni elemento di N ammette un successore. In termini piĂš sofisticati viene introdotta una funzione che definisce il successore. Tale funzione solitamente viene definita con il seguente formalismo S: N â&#x;ś N alla quale è associabile il seguente ulteriore formalismo đ?‘†

n → n+1. CapiterĂ di trovare il terzo postulato di Peano nella forma x ≠y â&#x;ž S(x) ≠S(y). Tale notazione certo non turba, in quanto giĂ vista a proposito delle iniezioni. S è una funzione iniettiva. Una implicazione operativa è che due distinti naturali x e y hanno due distinti numeri successivi. Si può ora introdurre il successivo assioma, il quanto, per il quale S(x) ≠0 per ogni x ∊ N. In termini di coppie ordinate la detta funzione S è cosi definita ( n, n+1). Dal che si osserva che per n = 0 si ha n+1 = 1 e che in generale n +1 ≠0 sempre! In altri termini il dom S = (0, 1, 2, ‌‌ ) mentre Im S = (1, 2, ‌‌.. ). Partendo da zero non si arriverò mai tramite S a ottenere lo zero. Esiste un ulteriore assioma, il quinto, detto anche principio di induzione matematica, che ha una formalizzazione molto astratta del tipo: ∀V ⊆ N essendo lo zero un


elemento di V, ovvero formalmente 0 ∊ V e se assegnato un x tale che x ∊ V sia S(x)∊ V allora V = N. In sostanza se 0 è un elemento di V e se da x ∊ V si ha che S(x)∊ V. Ciò vale anche per x = 0. La coincidenza degli insiemi (due insiemi sono eguali se sono lo stesso insieme) è evidente perchĂŠ V ed N contengono lo zero. Per essi esiste la funzione che genera il successivo ma la generazione del successivo (ragionando in parallelo sugli insiemi V ed N) nei due casi genera sempre lo stesso successivo e in entrambi i casi non potendo essere 0 ∊ Im S e neppure 0 ∊ Im N essa avviene indefinitamente senza che mai si abbia in particolare 0 ∊ Im S. In buona sostanza V neppure può essere limitato superiormente, ovvero avere un massimo. In questo caso si avrebbe un đ?‘Ľđ?‘šđ?‘Žđ?‘Ľ per il quale sarebbe S(đ?‘Ľđ?‘šđ?‘Žđ?‘Ľ ) = đ?‘Ľđ?‘šđ?‘Žđ?‘Ľ + 1 ∉ V, in quanto V è costituito da ogni intero x ≤ đ?‘Ľđ?‘šđ?‘Žđ?‘Ľ . In definitiva V = N. Un interessante approfondimento si trova in Assiomi di Peanoâ€? tratto da Wikipedia Questo ultimo assioma è noto pure come principio di induzione matematica. In termini molto elementari si ammette che una proposizione sia vera per x = 0, ammesso che essa sia vera per x = k occorrerĂ dimostrare che essa è vera per x = k +1. Ăˆ possibile fare un esempio applicativo del principio di induzione. Questa è la mia risoluzione a un quesito per concorso per Matematici e fisici della Scuola Normale Superiore (settembre 2013). Problema 3 (per fisici, matematici, etc). Al variare di n intero positivo si consideri il numero Sn di sequenze crescenti di interi, alternativamente pari o dispari, che cominciano con 0 e terminano con n. Per esempio per n = 3 si hanno solo le due sequenze: 0,1,2,3,4 e 0,3, per cui S3 = 2. Si dimostri che i numeri Sn sono i numeri di Fibonacci. (Si ricorda che la successione dei numeri di Fibonacci, Fn 1, 1, 2, 3, 5, 8 ‌‌ si costruisce ponendo F1 = F2 e imponendo ricorsivamente che ogni termine, dal terzo in poi, sia eguale alla somma delle precedenti). Risoluzione. Il primo step della risoluzione consiste nel verificare che S1 = S2 = 1 come è per la successione di Fibonacci. Per n= 1 si ha una unica successione. Essa è la seguente: 0,1. Pertanto S1 = 1. Per n = 2 si ha la seguente successione 0, 1, 2 (non essendo ammissibile la successione 0, 2). Per n = 3, come si evince dal testo, sono ammissibili solo due soluzioni, pure riportate, e pertanto si ha S3 = 2. Si osserva che S3 = 2 = S1 + S2,


coerentemente con la logica delle successioni di Fibonacci. La risposta sembra banale e sembra derivare dalla modalità di “costruzione” delle successioni al variare di n. Se considero la successione S2 e aggiungo ad essa i numeri 3 e 4 (operazione legittima in quanto un dispari deve essere succeduto da un pari) e faccio la stessa cosa con le due successioni ottenute per il caso n = 3 aggiungendo il solo numero 4 alle successioni date (operazione legittima in quanto al tre finale è aggiungibile 4, che è pari). La risoluzione in via generale del problema la si ha utilizzando il principio di induzione matematica per il quale se si è provato che S4 = S3 + S2 è possibile dire che lo si è provato per un qualche K (per K =4 lo si è appena provato). Il passo induttivo è al di là del formalismo il medesimo usato per S4. Alle successioni ricondotte a (k-1) si aggiungono i numeri k e k+1, mentre alle successioni ricondotte a k si aggiunge il numero k+1. Tali aggiunte sono legittime in quanto nelle successioni che si generano è garantita l’alternanza pari-dispari. Pertanto Sk+1 = Sk-1 + Sk. Ovvero Sn = Fn, ove Fn è il n-esimo numero della successione di Fibonacci.

I numeri naturali vengono solitamente indicati con la lettera n e l’appartenenza di un numero naturale all’insieme N dei naturali con la scrittura n ∊ N. Può capitare che in particolari circostanze l’insieme dei naturali venga privato dello zero, avendosi N* =N/{0}, come si vedrà nello studio dei razionali. I naturali pari sono del tipo n = 2k ove k è un naturale, mentre i numeri dispari sono del tipo 2k + 1. Il numero 0 non è né pari né dispari. Lo step successivo è la costruzione dell’insieme dei numeri razionali assoluti. È a tutti nota la scrittura a/b, o con i numeri scritture del tipo ¼, 2/3, etc. Si tratta delle ordinarie frazioni, a tutti note. Quindi si tratta del rapporto tra due numeri interi. Tassativamente deve essere b ≠ 0. a può essere eguale a zero, quindi è possibile avere numeri del tipo 0/b = 0, ∀b ∊ N. Basta una osservazione elementare per comprendere che anche i numeri naturali sono un tipo particolare di numero razionale: basta osservare che n = n/1. Queste osservazioni possono essere spiegate più rigorosamente ma la sostanza delle cose non cambia. Solitamente i numeri razionali sono scritti nella forma scolastica a/b, ma non mancano – ben ricordo il mio manuale di Aritmetica razionale (Leccese, ed Loecher) – che dava una sistemazione formale per essi,


considerandoli come coppie ordinate (a, b). In questi casi i numeri razionali sono elementi di un insieme costituito da (i cui elementi sono) coppie ordinate, potendo ricorrere quindi al concetto di prodotto cartesiano. Solitamente tale insieme si indica con la lettera Q. Quindi Q = N X N*, in quanto la seconda componente della coppia ordinata deve essere diversa da zero. Tutti sanno fare le operazioni sui razionali nel modo scolastico. Esse sono le seguenti. Ho deciso di “metterle a fronte” con la notazione di essi mediante coppie ordinate. (a/b) ± (c/d) = (ad ± bc)/bd = (a, b) ± (c, d) (a/b) (c/d) = ac/bd = (a, b) ( c, d) (quando a = b ≠ 0 si ha un teorema detto degli equimultipli, o di Cantor). 1/ (a/b) = b/a ; 1/(a, b) = (b, a) (per a ≠ 0 e b ≠ 0 ) Solitamente i razionali si denotano con lettere greche α, β, γ, δ, etc. Credo si evinca abbastanza immediatamente che la somma, la differenza, il prodotto e pure la divisione tra numeri razionali porti ad un risultato che è comunque un numero razionale (proprietà di chiusura). Tale proprietà vale solo in alcuni casi per i naturali. Basti ricordare che in N la differenza è definita e si scrive a – b, se e solo se a ≥ n. La chiusura non è data per la divisione se non nel caso particolare che il numeratore sia un multiplo intero del denominatore. Mi riservo nel prossimo DIAMO I NUMERI di delineare le proprietà degli insiemi numerici N e Q (o meglio, delle operazioni sugli elementi di essi). Poiché in questo appunto ho introdotto una nozione che potrebbe essere poco nota vorrei spendere qualche parola per definirlo, ampliandolo dall’angustia dei naturali. Il prodotto cartesiano. Bisogna immaginare di avere un insieme numerico, per esempio l’insieme N dei naturali. I soliti due assi ortogonali che si intersecano in O. I numeri 1, 2, 3, …, (n-1), n possono essere collocati sui due assi. Con il solito metodo delle coordinate (questa volta sono numeri interi) si possono trovare tutti i punti (a, b) coordinate dei punti di intersezione della retta verticale x = a e della retta verticale y = b ≠ 0. Ogni punto (a, b) di intersezione delle due rette definisce un punto cui corrisponde univocamente il numero razionale (a, b) = a/b. Pertanto è definibile come razionale ogni numero elemento dell’insieme Q = N X N* =⦃(a, b) ∊ N X N* ⦄.


Nel prossimo numero completerò la trattazione dei numeri naturali e dei numeri razionali considerando in parallelo le relative proprietà. Darò per “sinonimi” i concetto di numero naturale e di numero intero assoluto. Questo si può ammettere anche se formalmente i due insiemi sono diversi. Ritornerò sulla distinzione quando dovrò considerare i morfismi. Lo step successivo sarà l’introduzione dei numeri negativi. Per semplificarmi la vita ho deciso di ammettere che ogni intero assoluto e ogni razionale abbiano un corrispondente per il quale per esempio in riferimento ai razionali sia β + β’ = 0 evidenziando, per esempio, che se β ∊ Q allora β’ ∉ Q.

La prossima “puntata” si concluderà con l’introduzione geometrica del numero √2, della cui irrazionalità tutti i testi riferiscono ben dimostrabile per assurdo (reductio ad absurdum).

Proprietà letteraria e intellettuale Nell’elaborare il presente documento ho inevitabilmente attinto a fonti. Esse sono indicate nel testo, di volta in volta. Per quanto attiene alle “figure” – utilissimo supporto – queste sono state estratte da Internet nella presunzione che quanti le hanno collocate ne avessero titolo. In questo caso non mi è stato possibile citare la fonte. Preciso che questo elaborato non è prodotto con finalità di lucro.



pubblicazione a cura di Pascal McLee

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