Antonello Faretta intervistato da Rifrazioni

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di cinema che possa rappresentarmi il più possibile, mi vengono in mente numerose pellicole che in fondo sono avulse dal contesto nel quale sono cresciuto. Tanto amo il cinema di Ciprì e Maresco, Lynch, Malick, Petri, Rossellini, Sokurov, quanto più sono distanti dai luoghi dai quali provengo; a conti fatti però poco importa. Quando, invece, penso a quel cinema che rappresenta il lato più intimo, un collegamento (anche geografico e mentale quindi) con i miei luoghi di appartenenza, non posso non ricorrere al lavoro di Antonello Faretta. Il nostro rimane un “incontro a distanza” che doveva per forza di cose avvenire, vista la contiguità di persone/amici ad entrambi vicini, resosi necessario vista l’importanza di dare testimonianza di un uomo, e di una regione, che si sono tanto prestati a questo linguaggio.

affondi

Immagini: una fotografia di Antonello Faretta sul set di Montedoro.

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Immagini: una fotografia di Antonello Faretta sul set di Montedoro (2014).

Innanzitutto si deve considerare da un dato per me fondamentale: il lavoro di Faretta nasce e si sviluppa a partire dalla regione (la Basilicata) e dalla città nella quale opera (Potenza). Successivamente il suo raggio di azione si è allargato ai dintorni di questa magica terra (ma non solo), e qui il discorso si complica, e si fa più affascinante. Sono passati anni da quando m’imbattei per la prima volta nelle immagini di Nine Poems in Basilicata (2007), studio per volto e parole su una figura fondamentale della cultura statunitense, comunque molto vicina alla nostra, John Giorno. Anche qui, il poliedrico autore dei Poems, e sodale di Andy Warhol, William Burroughs e Allen Ginsberg, sbarca in quel lembo di terra per rivivere le atmosfere dei suoi avi (che avevano origini di Aliano, il paese nel quale rimase confinato Carlo Levi, e Tursi, dove nasce il poeta Albino Pierro) e viene immortalato dalla camera di Faretta, che cattura sul suo volto tutta la storia possibile di una terra che vanta un passato misterioso e di lotta – e qui penso ai rivoli di sangue e di tristezza che ne caratterizzano

l’ipotetico volto (l’allusione è al fenomeno del Brigantaggio ed alla forte migrazione verso nord avvenuta nel dopoguerra). Non va neanche dimenticato che, sovente, il suo è un cinema fatto di studi approfonditi sulle immagini, di abbozzi preparatori che col tempo assumono forma e indipendenza oggettiva che le fanno “crescere nella memoria”, nonostante non ci sia un apparente filo conduttore (Venti, 2003). Al contempo, si rende opportuno sottolineare la sottile vena poetica che caratterizza le sue opere, tutte indistintamente, e questa è forse la migliore delle peculiarità possibili, quella che spesso i cineasti mettono da parte in favore di un’oggettività delle immagini che col tempo tende a spersonalizzarle. Per essere franchi fino in fondo: non troverete davanti ai vostri occhi solo un film d’autore o una commedia tout court, bensì la pratica per immagini in quanto tali, in un continuo riversarsi della memoria (e dei sentimenti) su pellicola. Faretta, tra l’altro, incomincia a girare film come conseguenza di un brutto incidente stradale, che evidentemente lo costringe a ripensa247


re il suo ruolo nel mondo, e gli consente di immaginarlo in pellicola, questo “mondo”. Non è certo un caso che lui stesso a un certo punto si chieda, dubbioso, Da dove vengono le storie? (2003). Girato a Torino, questo lavoro è un tentativo di assoggettare alla macchina da presa un’idea che è aleatoria per definizione, ma che crea sogno e si fa poi realtà, relativamente, quando la si vede sul grande schermo. Decisiva è poi l’esperienza da documentarista e montatore col filmmaker iraniano Babak Payami, che è approfondita nell’intervista che segue questo articolo. Antonello Faretta può anche vantare un’importante collaborazione col regista russo (di origini moldavo-armene) Artur Aristakisjan, altra figura appartata di una cinematografia grande e complessa come quella che ha dato i natali a, solo per citarne alcuni, Sergei Ejzenštejn, Andrej Tarkovskij, Sergej Paradžanov e Otar Iosseliani. Lo ospita in un workshop organizzato dal Potenza Film Festival – correva l’anno 2008 – e cura, insieme a Enrico Ghezzi, l’edizione in dvd per la Raro Video dei suoi due film, Ladoni (Palms, 1993) e Mesto Na Zamle (Un posto sulla terra, 2001). Un paio di anni dopo s’impegna per promuovere un interessante e doloroso mediometraggio sulla figura di Marco Lopomo, giovane protagonista di The Garden of Hope (2011), altra storia fatta di lotta quotidiana alle barriere fisiche e mentali sotto forma di sognante e stranito “requiem per immagini”. Più recente (del 2013) un’altra operazione che si muove sempre sul filo della poesia e della musica, Nessun sole sorge senza l’uomo, testimonianza dell’opera dei Fratelli Mancuso, storico duo folk siciliano che da anni prosegue nella divulgazione (e ri-attualizzazione) di quella musica che ci appartiene 248

da sempre. I fuochi e le luci che circondano i calanchi (siamo a Sant’Arcangelo, in Lucania) fanno da cornice alle voci stentoree e sofferte dei due musicisti, come a voler circoscrivere e a cristallizzare un tempo che sfugge tra i ricordi. Decisivi, tra l’altro, l’apporto e la presenza del sodale Domenico Brancale, che agisce lesto tra fuochi con una performance vocale al limite dell’autismo, accompagnando quelle immagini di vampate e speranza. Infine si approda a Montedoro (2014), film che ha una storia lunga alle spalle, per il quale il regista ha speso tutte le energie a sua disposizione, proprio perché convinto della bontà del progetto, e della forte caratterizzazione della storia stessa. Montedoro è luogo immaginario e fantomatico per eccellenza, misterioso eremo nel quale la memoria e i fantasmi del passato si ritrovano per continuare a vivere, in eterno, quelle storie che li hanno condannati alla fine terrena. Un’opera che vede, tra gli altri, sempre la presenza del suo amico Domenico Brancale, in qualità di “banditore”, di colui che cioè porta il verbo, la parola, un Arcangelo Gabriele senza ali e dal viso spaventato, un piccolo uomo che zoppica vistosamente e parla come in uno stato di catalessi. Ma la storia portante del film è quella di Pia Marie Mann, che torna dagli USA per riappropriarsi del suo passato negato (da piccola era stata affidata agli americani), ma trova dinanzi a sé desolazione e solitudine, ben descritte nei volti dei personaggi che incontra. Sintomatico il suo approdo in quella terra brulla e argillosa, col tassista che l’accompagna perplesso in quel non mondo che è il deserto attraversato in lontananza da un fiume (di una bellezza abbacinante in certe inquadrature). Pensate ad una elegante e malinconica

Immagini: la locandina di Montedoro (2014) di Antonello Faretta.

eroina western che torna al paese dopo le mil- parlare però (quel tipo di cinema è piutle avventure passate nell’Ovest. tosto lontano dalle sue corde), quanto di necessaria testimonianza di come da Cinema della migrazione e in un certo senso quelle parti la poesia (dell’uomo in primentale, il suo, che però non smette mai di rimanere attaccato (non solo in forma di me- mis, e degli elementi che gli stanno attafora) a quella terra che lo ospita. In fondo si torno) sia sempre possibile. Insomma tratta di filmare sempre una “ferita”, e Faretta ci sono questa tensione e questo forcammina attorno a questa piccola voragine, te incanto attorno ai suoi film, presenti circondata da pali immaginari che giaccio- persino nelle pietre mute che riposano no lì impassibili e fieri, nella vana speranza di sulla terra, anche se comprendo che la circoscrivere un dolore che è antico quanto la cosa possa spiazzare lo spettatore. Ma, notte dei tempi. Non di donchisciottesca lotta a conti fatti, questo ci deve bastare, pernei confronti delle ingiustizie sociali si deve ché davvero le immagini parlano da sole. 249


Ciao Antonello. Ti chiedo subito a che punto è la finalizzazione è Montedoro, il tuo film più complesso e difficile da portare a termine. So che è quasi pronto, dopo una lunga gestazione e lavorazione, e che dovrebbe fare il proprio debutto in qualche festival prima di approdare, mi auguro, finalmente nelle sale cinematografiche.

outro e breve introduzione al regista Dicevamo in apertura delle affinità che ci legano. Ho ritenuto importante concludere (e completare) questo scritto proponendo una serie di questioni al regista stesso, proprio per meglio comprendere un mondo, il suo, che per la verità trovo piuttosto criptico, nel senso che ho la sensazione che il suo sia un lavoro che se ne sta in disparte, che ha bisogno di tempo per essere compreso. Senza precise chiavi di lettura rimane difficile provare a capirlo nella sua totalità. Non ho la presunzione di averlo compreso appieno, però conservo la sensazione di sentire sulla pelle una sorta di leggero brivido di freddo misto ad empatia nel vedere le sue opere. C’è un malessere che cova tra le pieghe dei suoi volti e frames, e nelle parole che gli attori pronunciano. Il suo è un cinema che somiglia ad un braciere che continua, come di nascosto, ad ospitare dei piccoli tizzoni che non smettono mai di bruciare. Come una sorta di metaforico ed eterno tepore, il lavoro di Faretta - e le sue parole - attraversano il tempo noncuranti delle possibili deviazioni/vampate, e ci accompagnano verso un tunnel della solitudine che affascina e riscalda con costanza membra e sinapsi. Immagini: elaborazione frames di Montedoro.

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Ciao Maurizio. Hai proprio ragione! Un parto davvero lungo, è stata una vera e propria impresa portare a termine Montedoro. A prescindere da quello che sarà il destino del film, è senza dubbio il lavoro più impegnativo che ho fatto in vita mia. Ho appena finito la color correction con il mio direttore della fotografia Giovanni Troilo, e mi appresto a chiudere il mix audio con il sound designer Marcos Molina.

Mi piacerebbe poter approfondire certi passaggi di Montedoro, ma preferisco lasciare il più possibile nel mistero chi andrà a vederlo (premetto giusto che il film, visto in uno stadio avanzato del montaggio, ha appunto parecchio di “misterioso”). A me, per esempio, ha suscitato numerosi ricordi legati all’infanzia. Com’è nata l’idea del film? Il film ha cominciato a germogliare, come dicevo, circa sei anni fa. Avevo girato un episodio di Nine Poems in Basilicata a Craco, la “città fantasma” in provincia di Matera. Questo luogo mi ha sedotto subito, e alcuni incontri che ho fatto qui nel tempo mi hanno dato elementi fondamentali per desiderare di farci un film. Ero partito con l’idea di fare un documentario su questo posto così affascinante e “oscuro”, abban-

donato in seguito ad una grande frana nel 1963. L’idea della frana la trovavo “necessaria” in questo momento storico. Viviamo in un mondo di rovine, di macerie, di scorie e una frana dalle dimensioni così grandi, in grado di spazzare via una comunità intera disperdendola tra Nord e Sud America, Svizzera, Germania, mi sembrava un modo per mettersi alla ricerca di un’identità nascosta, smarrita. Ricordo che, quando ho iniziato a studiare a fondo la storia di Craco e della sua gente, mi sentivo come una sorta di esploratore di una civiltà antica e sommersa. Come dicevo, all’idea iniziale del documentario si sono aggiunti altri elementi man mano che penetravo nella storia di questo luogo e nel suo territorio. Per anni sono andato lì a prendere appunti, intervistare la gente del paese nuovo e scattare tante fotografie, soprattutto al paesaggio in cui è immersa Craco e al cimitero. Inconsapevolmente stavo mettendo assieme Eros e Thanatos, due pulsioni diverse che mi suscitavano quel luogo. Quando ho scoperto poi che dall’altro lato della collina su cui giace Craco esiste una micro-comunità resiliente, una trentina di persone nate lì e che, dopo la grande frana, hanno resistito in quel luogo con un grande e morboso attaccamento alla propria identità e alle proprie rovine, ho trovato quello che mi sembrava un luogo idilliaco, un’Arcadia. Tante volte dopo quell’incontro mi sono recato a Craco Sant’Angelo – questo il nome del borgo – ad osservare quelle persone e ascoltare i loro racconti nostalgici su Craco. Lì ho conosciuto una donna speciale, Anna Di Dio, che è anche nel film. 251


Anna è una delle più giovani nella comunità del borgo, e si prende cura dell’anziana madre e dei tanti anziani lì. Anna va tutti i giorni al cimitero e lì si occupa anche di chi non c’è più. Quella costanza, quella perseveranza, quel rispetto e quella penitenza – Anna ha un problema alle gambe, e al cimitero ci va ogni giorno a piedi percorrendo forse due/tre chilometri – avevano qualcosa di mistico. Ogni volta che la osservo penso al suo coraggio e alla sua forza, come fa ad esistere una persona così oggi? Con lei ho scoperto questo cimitero a valle del paese abbandonato, dove la frana ha salvato miracolosamente dal suo impeto quelli che un tempo erano gli abitanti di Craco. Anche l’incontro con quel luogo ed i suoi morti è stato qualcosa che non dimenticherò facilmente nella mia vita. Questo luogo lillipuziano, adagiato in un fazzoletto di terra che traguarda dal basso verso l’alto l’antico abitato, tiene i morti in relazione con i pochi vivi, i resilienti in una piccola contemporanea Spoon River che attraversa un paesaggio di un’eroticità incredibile. Ma quel cimitero mi stava riservando un’altra sorpresa. Un giorno scoprii due anziane donne, forse sull’ottantina, vestite di nero – parevano due personaggi dostoevskijani – che pregavano di fronte ad una cappella in un perfetto italiano. Quando incrociai i loro sguardi rimasi folgorato, due donne con quel mistero nel volto, quel pudore e quell’eleganza, che cosa ci facevano in una comunità rurale come Craco? Tutta quella curata eleganza da dove saltava fuori improvvisamente? Le seguii e vidi che tornavano proprio al borgo dove vive anche Anna. Provai, mentre erano di spalle tenendosi a braccetto, a scattare una foto, che subito si voltarono imprecando contro di me intimandomi di distruggere quella foto. Avevano quasi una 252

repulsione nei confronti dell’immagine e della contemporaneità. Anna mi raccontò infatti che quelle donne vivevano chiuse in casa, senza elettricità, senza tv. Uscivano solo per andare al cimitero a commemorare i loro defunti. Ricordo che da quel momento in avanti sono diventato una loro ombra discreta. Le ho osservate per molto tempo, e ho cercato in tutti i modi di relazionarmi a loro. Tutto questo mentre spendevo giornate intere al cimitero a scattare foto ai volti dei defunti, per poi mostrarle ad Anna e farmi raccontare la storia di quelle persone quando erano in vita, quando a Craco c’era la vita. Non so quante migliaia di fotografie ho scattato in quel periodo, e quante centinaia di pagine di appunti ho preso. L’ultima scintilla che ha innescato il fuoco del film è stato poi l’incontro con la Craco Society e Pia Marie Mann. Un giorno ho ricevuto una mail da New York, era una donna che aveva visto Nine Poems in Basilicata e che mi chiedeva di Craco, il paese che vedeva alle spalle di John Giorno in uno degli episodi del film. È iniziata cosi una lunga corrispondenza tra noi, fino a quando ci siamo incontrati di persona proprio a Craco, durante la loro prima riunione con il paese da cui erano partiti i propri genitori, e che vedevano oggi per la prima volta. Ho avuto la fortuna di assistere al loro incontro con le case dei loro parenti, è stato qualcosa di molto emozionante. Anche quel giorno non lo dimenticherò facilmente. Poco dopo avrei incontrato Pia Marie Mann, quella che sarebbe diventata la protagonista del film, la cui storia è diventato il tassello mancante, quello in grado di unire tutti i fili che nel tempo avevo dispiegato. Pia tornava a Craco dopo cinquantacinque anni, mandata in adozione negli Stati Uniti all’età di cinque anni. Ritrovava lì per la

Immagini: elaborazione frames di Montedoro.

prima volta la madre naturale e i fratelli. Lascio a te immaginare quel momento. In quel preciso istante credo sia nato il film. Ne ho parlato subito con il mio socio producer in Noeltan, Adriana Bruno – una vera colonna per me e per Montedoro, che se esiste a lei deve tanto – e piano piano abbiamo cantierizzato il film.

Montedoro è stata anche l’occasione per vedere su pellicola il volto di un amico, il poeta Domenico Brancale. Come ti è venuta l’idea di coinvolgere Brancale nelle riprese? Te lo chiedo poiché conosco la sua idiosincrasia per il cinema… Con Domenico siamo molto amici. Conosco la sua preferenza per la parola rispetto all’immagine, ma è anche vero che Domenico lavora sull’immagine, le sue poesie sono

immagine e le sue performance pure. Credo che il progetto gli sia piaciuto fin dall’inizio, e sono molto contento che nel film ci sia Domenico, non solo come attore, ma anche come un prezioso collaboratore ai dialoghi del film e alle scenografie. Domenico, la sua poesia, le sue performance e i suoi dialoghi dettati al telefono quando ero sul set, sono stati una grande ispirazione per me. Pensa che alcune croci del cimitero che abbiamo ricostruito sulla collina di fronte Craco sono le croci originali usate da lui stesso in una sua vecchia performance. Le andai a prendere personalmente a Bologna nel suo studio sottoterra. Che gioia! Domenico attore invece ha una potenza rara, una verità rara, cosa che difficilmente un attore professionista ha. Sono sicuro che faremo un altro film assieme. 253


Facciamo un tuffo nel passato. La passione per questo linguaggio si oggettiva in modo particolare dopo un brutto incidente. Immagino però che lo amavi/praticavi prima di quell’evento o mi sbaglio? Quali erano i registi con i quali ti sentivi di più a tuo agio e che ti hanno in qualche modo ispirato? Prima del mio incidente credo che il cinema fosse per me quasi indifferente, nelle poche occasioni prima dei miei diciannove anni in cui andai al cinema credo di essermi annoiato molto. È stato proprio durante la riabilitazione che ho preso a guardare moltissimi film e ad avere desiderio di cinema, di arte, di espressione. Guardavo di tutto. Di quelle visioni innocenti, non viziate da una velleità, un’ambizione intendo dire, ricordo bene i film che ho sentito più vicini, come alcuni di Truffaut, Wenders, Tarkovskij, Kiarostami, Kieślowski, Buñuel, Antonioni, Solanas. Loro mi hanno confortato più che ispirato. L’ispirazione piuttosto è nata dalla voglia e dal desiderio di dare un senso alla mia vita, un senso artistico, espressivo. Penso che siano state alcune persone più del cinema a spingermi ad andare oltre, gente comune, incontri preziosi che mi sono capitati. Quando penso ad un film o a qualcosa di importante per me il mio pensiero va sempre a queste persone. Sono gli incontri che facciamo nella vita i veri fuochi.

E quando pensi ad un soggetto ti fai guidare da quelle che sono le esperienze legate al quotidiano, oppure decidi di lavorare più, diciamo, sull’invenzione dello stesso? Cerco di legare la mia esperienza vissuta alla mia immaginazione, e spesso il collante sono i libri, la lettura. Quando un’idea torna sovente nella mia mente vado ad esplorarla sul campo, sui luoghi, e prendo 254

un’infinità di appunti e fotografie. Incontro persone, ci parlo, studio mappe, libri, testi, mi documento molto approfonditamente mentre immagino e creo collegamenti. Mi piace sentirmi un esploratore con un libro, un taccuino e una penna, e una macchina fotografica al suo seguito. Mi piace la vita, non il professionismo. Credo in definitiva che in ognuno dei miei lavori ci sia molto di autobiografico, di quanto credo di conoscere meglio. Pensieri, appunti, folgorazioni poetiche di vita messe assieme nel tempo. E questo per me è un processo di lenta stratificazione, di accumulazione e verifica. Più che i soggetti dunque mi piacciono gli spunti e le divagazioni. C’è molto di questo nei miei appunti, in ciò che scrivo, che difficilmente si traduce in sceneggiature compiute. Le sceneggiature servono soltanto a cantierizzare un film. I film poi si scrivono con la macchina da presa, come ha già detto qualcuno.

Raccontami di come sei riuscito a “gestire” una personalità forte come John Giorno in Nine Poems in Basilicata. Com’è stato lavorare con lui sul set? Io lo vedo piuttosto vulcanico come essere umano, ma certamente molto sensibile alle immagini, vero? Fin dall’inizio con John è nata una vera folgorazione, una grande complicità artistica. Mi piaceva molto – e mi piace tutt’ora – parlare con lui della sua vita, dei suoi amici, e degli anni a cavallo tra la Beat Generation e la Pop Art, dei quali lui è stato protagonista, e più di tutto mi piaceva parlare con lui del suo amico William Burroughs e di Pasolini. Il film è nato con la stessa spontaneità. Poi mentre giravamo le prime scene mi sono reso conto della precisione e dell’attenzione che John aveva verso la sua immagine. Si affidava molto a me, ma mi chiedeva sempre dei quadri che intendevo

Immagini: elaborazione frames di Montedoro.

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usare, della luce e dei movimenti di macchina. Spesso era entusiasta delle idee che gli proponevo, altre volte storceva il naso. In quei casi, quando ero convinto di ciò che intendevo girare, usavo tre macchine da presa per creare attorno a lui una sorta di “spaesamento”. Gli dicevo che la macchina principale era quella a cui lui doveva far riferimento, e con il quadro convenuto poi in montaggio usavo quella che lo coglieva più spontaneo e meno preparato alla mdp. È questione di umori e di energie, e quando giro mi piace tenere il mood alto invece che fare inutili questioni e sprecare energie. È stata una bella esperienza quella con John, molto formativa per me. Quando alla fine ha visto il film era felice come un bambino. Credo che Nine Poems gli abbia dato una nuova vita artistica, e ricordo un episodio imbarazzante a proposito. Nel 2008 a New York il film aprì il prestigioso Pen/World Voices Festival diretto da Salman Rushdie e, al termine della proiezione, un tizio dal pubblico saltò in piedi e disse a John che non aveva mai visto una cosa così bella tra i suoi lavori. Per uno che è stato il protagonista di Sleep (1963) di Andy Warhol, un poeta rivoluzionario e una vera icona della Beat Generation, non credo fosse stato facile quel momento, e io l’ho vissuto con un bell’imbarazzo ma anche con grande orgoglio. Nel tempo Nine Poems in Basilicata è diventato un vero cult tra i film di poesia, e questo credo sia frutto del bel legame che si è creato sul set con John. Credo ci sia molta verità in quel film, una verità profonda che va ricercata tra la sua poesia e il paesaggio della Basilicata stessa che abbiamo attraversato. All’inizio del prossimo anno il film uscirà finalmente in dvd anche in Italia (all’estero è distribuito dalla Sixpack e dal Netherland Media Art Institute) con diversi extra, tra cui un documen256

tario che ho girato su John dal titolo My Poetry, in cui ripercorre tutta la sua carriera.

girato sul set. Lui mi disse “una settimana” e io sbiancai, ma mi misi in macchina e lo raggiunsi a Roma. Non è semplice lavorare con lui, è un regista molto esigente che non dà nulla per scontato, una di quelle personalità con cui mi piace molto confrontarmi. Quando ho visto tutte le immagini, ho pensato che dovevo provare a condensare in un documentario l’esperienza che avevano vissuto sul set durante la preparazione del film e la sua lavorazione, e cercare di restituire il modo di lavorare di Babak e la sua personalità. Ho pensato che dovevo farlo con semplicità, cercando di ordinare il caos di tutte quelle riprese e del racconto di un set, che è impresa cinematografica non semplice e comune.

E dimmi di più del backstage filmato durante la lavorazione di Silenzio tra due pensieri (2003), del regista iraniano Babak Payami. Ho trovato interessante l’idea del documentario, quella cioè di ri-costruire in un certo senso gli “atti” prima di iniziare a filmare un’opera. Di fatto sembra una sorta di lavoro preparatorio al film stesso. Come hai conosciuto Payami? E come ti sei trovato in quella specifica situazione? Ho conosciuto Babak nel 2004 tramite il montatore e attore Babak Karimi. Li invitai entrambi in giuria alla prima edizione del Potenza Film Festival. Durante il festival siamo diventati molto amici, e l’anno successivo, sempre a Potenza, ho inaugurato la serie di workshops internazionali per giovani filmmakers che organizziamo in Basilicata. Quello tenuto da Babak si chiamava “Finger Prints”. Ho avuto la fortuna di collaborare per diversi anni con Babak, di imparare molto da un bravo regista e produttore estremo come lui. Silenzio tra due pensieri è stato un’avventura per lui. Quando finì il lavoro il film venne confiscato dalle autorità iraniane e Babak venne arrestato. Si è sempre battuto molto per i diritti e per la libertà di espressione degli iraniani, e quel film non era un’opera “fedele alla linea” del governo iraniano. Sono stati anni molto duri per Babak. Quando doveva chiudere il backstage del film per l’edizione home video di Artificial Eye, mi chiamò chiedendomi di montarlo. Gli chiesi quanto tempo avevamo a disposizione per montare quell’infinità d’immagini che avevano

Vivi a Roma, se non erro, ma la Basilicata è certamente molto presente nella tua vita. Ci torni spesso? Mi parli anche della Noeltan Film e di Rete Cinema Basilicata?

Immagini: fotografie di Antonello Faretta e John Giorno.

Vivo in Basilicata per la precisione. La Basilicata è il mio centro, Roma è la periferia. Sono tornato qui a Roma in questi mesi per finire la lavorazione di Montedoro. La mia patria e la mia musa sono la Basilicata. Ci sono tornato nel 2000 dopo l’università a Roma, e alcuni cortometraggi sono girati proprio qui. Volevo rimettermi sulle tracce di me stesso, e andare via da un centro grande come la capitale e dal suo ambiente cinematografico, che al tempo mi davano non poco disagio. Avevo voglia di capire di più di me stesso, e di ciò che volevo fare davvero e di come farlo. Volevo andare a fondo. «I lampi in superficie non mi hanno mai attratto, devo andare sott’acqua e trattenere il fiato», come scrive Fitzgerald. Sono stati anni bellissimi, di grande libertà. Quella voglia doveva essere affiancata a strumenti per fare, così aprii il primo studio di produzione ci257


Immagini: una foto del Potenza Film Festival e di Antonello Faretta sul set di Montedoro.

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nematografica della città, il Noeltan Film Studio, e credo uno dei pochi in regione. A quello negli anni ho affiancato un festival internazionale, il Potenza Film Festival, che già alla seconda edizione era una delle realtà festivaliere europee più intense ed interessanti, e molti workshop di alta formazione cinematografica, dove si sono succeduti Babak, appunto, ed Abbas Kiarostami, Artur Aristakisjan, Jafar Panahi, Ben Gazzara, Michelangelo Frammartino. Anche questi workshop sono qualcosa di speciale, di unico. Grandi maestri del cinema neo-neorealista contemporaneo si confrontano con i migliori giovani registi che provengono da ogni parte del mondo in Basilicata, con le sue tradizioni, il suo paesaggio e le sue culture. Sono esperienze estreme di cinema ecologico, e credo che non ci siano dei simili in giro. Questo ha sempre creato cortocircuiti molto interessanti. Ecco, tutto questo è stata ed è la mia Università Permanente del Cinema. In definitiva, trovata la mia posizione, ho capito che dovevo creare una piccola comunità cinematografica. E così ho fatto, con l’aiuto di tantissime persone a cui va tutta la mia gratitudine. Credo di essere stato un pioniere in Basilicata, non che conti qualcosa certo, ma è ciò che m’interessa quando mi accingo ad una nuova sfida: lavorare a fondo e cercare sempre una mia voce personale, un mio stile, un registro. E devo dire che le strade tortuose mi hanno sempre affascinato molto. Rete Cinema Basilicata è una creatura nata spontaneamente qualche anno fa invece. In Basilicata si parlava da almeno una decina di anni di creare una film commission, e molti di noi operatori dell’audiovisivo sul territorio hanno sentito, tre anni fa oramai, di unire gli sforzi in un connettore di “energie cinematografiche”, diciamo, per mettere a disposizione della

regione occasioni di incontro e confronto e professionalità. Questo confronto ha contribuito non poco a velocizzare la nascita di una prima film commission, la Lucania Film Commission, che oggi ha circa un anno e mezzo, e a mettere assieme tante strutture e professionalità. C’è evidentemente ancora tantissimo da fare, ma la strada intrapresa è quella giusta.

Visto che ci sono, mi sai dire se ci sono stati in passato dei validi filmmakers della nostra regione che lì hanno girato dei film? Io, a dirti la verità, conosco solo Ruggero Deodato, che però come tutti sanno ha sempre operato da altre parti… Registi lucani che hanno girato in Basilicata? Considero l’appartenenza geografica di un regista più come un’appartenenza ad un luogo e a una cultura che si conoscono da vicino che un’idea romantica delle parentele lontane. C’è Luigi Di Gianni, per esempio, che ha origini lucane, e qui ha girato quasi tutti i suoi documentari, poi la Wertmüller, Papaleo… Anche se, ripeto, qui è facile cadere nell’equivoco, e io considero questi registi appartenenti alla terra dove sono cresciuti e dove il loro sguardo si è formato, ovvero registi che hanno girato in Basilicata, ma che non hanno vissuto a fondo la cultura lucana. Tra le giovani generazioni qualcosa si muove, alcuni giovani filmmakers lavorano sul territorio con molto impegno realizzando cose a volte sorprendenti, ma ciò che conta tanto è l’internazionalizzazione di quanto si fa e della visione, altrimenti il rischio è di adagiarsi alle ragnatele del passato o in uno sterile folclore. Il cinema, l’arte sono organismi, vivono, devono stare sempre in moto. «Il cinema è un atleta», come scrive Majakovskij. 259


A questo proposito, ti devo confessare che il cinema per me ha sempre rappresentato un luogo dove esercitare il “ricordo”, un luogo dove però le emozioni, e i ricordi stessi, si fanno ultimamente sempre più rarefatti e meno affascinanti (in parole povere, vado meno nelle sale e alcuni dei registi che ritenevo più coraggiosi li trovo meno tali). È un discorso complesso da affrontare, lo ammetto, ma in generale tendo a pensare che molto cinema di oggi sia troppo canonizzato, sta dimenticando cioè il lato più “poetico”, meno allineato delle immagini. Sono troppo pessimista? No, credo tu sia realista. Anche a me capita di andare al cinema sempre meno, e così nei festival. Anzi non sono mai stato un assiduo frequentatore. Negli ultimi quindici anni mi sono concentrato a portare il cinema e gli autori che mi piacevano in Basilicata. Quanto affermi va di pari passo con l’indolenzimento della società nella quale viviamo e l’imborghesimento dell’estetica, dove l’ipocrisia ha soppiantato il gusto narcotizzando una vera ricerca artistica che non debba necessariamente avvalersi di immagini shock per risvegliarci dal torpore. Ci sono pochi artisti liberi tra gli autori, se è questo che intendiamo. Pochi in grado di lavorare sul linguaggio. La maggior parte lavora sull’imitazione, sul déjà-vu. Gli artisti liberi sono sempre marginalizzati, trattati come homeless, persone senza una casa per loro stessi e per le proprie opere. Negli ultimi cinquant’anni in Italia ci sono state dinamiche che hanno concentrato gli sforzi di un paese intero verso logiche di potere che ci hanno condotto tutti a una deriva, non solo economica, ma soprattutto morale ed estetica. Al contempo, un’altra parte del nostro Paese, purtroppo una piccola parte, ha camminato sulle proprie gambe 260

e con la schiena dritta, coltivando una vecchia utopia chiamata libertà. In quell’utopia c’è qualcosa di veramente rivoluzionario che innesca il linguaggio dell’arte, quello delle immagini compreso. Mi sembrano pochi quelli che da noi portano con sé questa dote. Se non si è liberi d’altronde come può esistere la poesia?

Parlami del rapporto con la musica, che è molto presente nei tuoi lavori. Ho apprezzato l’uso che fai dei singoli pezzi nelle scene (quelli di Vadeco Schettini in Montedoro sono parecchio evocativi).

Immagine: illustrazione di Roberta Errani.

Quando avevo vent’anni avevo una band con mio fratello e qualche amico, i Bremen Nacht, una band punk-crossover. Io cantavo e facevamo tutti pezzi nostri, molti dei quali composti da Michelangelo, mio fratello. La musica, un certo tipo di musica, a casa mia è entrata proprio con lui, con i tanti album che mi ha fatto ascoltare, e con giornate intere in cui lui provava in casa e io avevo la fortuna di ascoltare i suoi virtuosismi alla chitarra e al basso. Successivamente, ho iniziato una mia ricerca grazie soprattutto ai suggerimenti e agli input del marito di mia sorella, Pino, vero cultore di 4AD e Crammed Discs, che aveva in casa una stanza piena zeppa di dischi di ogni genere. A loro due devo molto. Con Montedoro è la prima volta che uso della musica nelle scene, negli altri lavori l’ho usata prevalentemente nei titoli di testa o di coda. Con questo film mi sono avvicinato piano piano a ciò che mi soddisfaceva di più. Solo quando abbiamo ultimato la prima stesura di montaggio, abbiamo capito con la montatrice del film, Maria Fantastica Valmori, dopo aver valutato alcune proposte che altri musicisti mi avevano fatto, che bisognava seguire un’altra strada. Serviva una chitarra ipnotica e lancinante che, più 261


che commentare le immagini, squarciasse il ritmo del film. Così ho pensato subito al mio amico e socio brasiliano Vadeco, che è stato subito entusiasta del film e di lavorarci. Ha fatto un gran lavoro. Ma reputo anche la poesia di Domenico Brancale, le litanie funebri di tradizione locale interpretate nel film da Caterina Pontrandolfo e i suoni del posto come una partitura d’insieme nella colonna sonora del film. In generale parto sempre dai suoni che ci sono nella scena per poter immaginare una musica.

Consigliami qualche regista (o musicista, perché no?) che ti piace molto, che secondo te vale la pena di conoscere meglio.

Immagini: frames di Le Meraviglie (2014) di Alice Rohrwacher, The house of black (1963) di Forough Farrokhzad, Il Dono (2003) di Michelangelo Frammartino, Dell'ammazzare il maiale (2011) di Simone Massi e Su Re (2012) di Giovanni Colombu.

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Tra le ultime cose che ho visto ho trovato molto interessanti alcuni lavori di Albert Serra, Ben Rivers, Steve McQueen e Lisandro Alonso. Tra gli italiani il film che mi ha impressionato di più negli ultimi anni è Su Re (2012) di Giovanni Columbu. Poi ho apprezzato Il Dono (2003) di Michelangelo Frammartino e, tra i gli ultimi, Le Meraviglie (2014) della Rohrwacher mi ha sorpreso molto favorevolmente. Devo dire però che prediligo autori che lavorano in modo più personale, con una propria distinta cifra, e tra questi mi vengono in mente Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, due filmmakers che stimo molto. Mi sento di consigliarli, così come alcuni lavori di Carlos Reygadas, Béla Tarr, Pedro Costa, i due film di Aristakisjan, i film di animazione di Simone Massi, le opere di classici come Kiarostami, Herzog, Naderi, Tarkovskij, Buñuel, Bresson, Antonioni, Rossellini, Wenders, Gus Van Sant (quello indipendente) o, ancora, il film The House Is Black (1963) di Forough Farrokhzad, una musa per la nouvelle vague iraniana… Tra i musicisti non saprei, ascolto davvero tanta musica e, da quando ho scoperto il digital download nel mio te-

lefono, ne compro tanta e la ascolto in maniera anche bulimica. Alla fine ritrovo sempre il conforto nei miei porti sicuri, sia nella visione che nell’ascolto. Sono quelle opere scolpite dentro di me, dove spesso ritorno per una nuova visione o un nuovo ascolto. In quest’olimpo personale metterei in vetta il cinema di Tarkovskij, Wenders, Kieślovski, Herzog e la musica dei Talking Heads, Tuxedomoon, Laurie Anderson.

In ultimo, parlami dei tuoi progetti futuri, e se hai particolari sogni nel cassetto… Nell’immediato futuro, voglio finire al meglio la postproduzione di Montedoro, cercare di trovare spazio in qualche festival e distribuirlo. Sono molto curioso della traiettoria del film. Come ti accennavo, all’inizio del prossimo anno uscirà una bellissima edizione dvd di Nine Poems in Basilicata, col film tradotto in cinque lingue e un bel libro allegato. E poi spero di partire subito con un nuovo film, perché questa è la cosa che mi piace di più, dove mi sento più vivo.

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