In cucina con la Dirce - numero zero

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storie, luoghi, sapori

supplemento al n. 5 di “Promemoria” - novembre 2013

In cucina con la Dirce - supplemento al n. 5 di “Promemoria” - novembre 2013

In cucina con la Dirce

Ida Pazzini Bartolucci, Belvedere Fogliense. Da otto anni accoglie ospiti a cena in famiglia, in occasione di Un paese e cento storie

Storie

Luoghi

Sapori

Mamma Ida Osteria del Baffon Erica, Federica, Francesco

Belvedere Fogliense, Monteciccardo, Montefabbri, Sant’Angelo in Lizzola, Candelara

La cultura si mangia. Incursioni cucinarie tra i secoli XVI e XXI Stuzzicherie Oliveriane e le Madeleines della Dirce

e le cene in famiglia

guest star “La Dirce”!


Giovanna Patrignani, piccola testimonial dei biscotti Lazzaroni (collezione Giovanna Patrignani). In terza di copertina: annunci pubblicitari dell’Amarena Furiosi di Cantiano (anni Trenta del ‘900; Archivio Stroppa Nobili).


Un paese e cento storie dal

2005 la festa con le “cene in famiglia�!

ottava edizione 6 - 10 novembre 2013 Belvedere Fogliense, Case Bernardi, Padiglione e Candelara, Novilara, Monteciccardo, Montegaudio,Villa Betti, Talacchio, Montefabbri, Sant’Angelo in Lizzola

a r u t La cul ! a i g n si ma


In cucina con la Dirce storie, luoghi, sapori

Sommario Storie Un po’ di storia. Babette, e “La Dirce” 6 “Mamma Ida” 12 “Vale” e “la Dirce” 22 Ti ho invitato per allegria 30 Raccontare, raccontarsi 34 L’alchimista 36 Osteria del Baffon 44 Anima verde 48

Luoghi Belvedere Fogliense, novembre 2012 8 Belvedere Fogliense 17 Crocevia della luce 25 Monteciccardo, fichi, cardi e ficcanasi 28 33 Sant’Angelo in Lizzola, il segno della storia Montefabbri, piccolo borgo antico 39

Sapori Novembre 2012. A cena in famiglia. Belvedere Fogliense, Padiglione, Case Bernardi 18 Monteciccardo, Montegaudio, Sant’Angelo in Lizzola 21 La cultura si mangia 53 Stuzzicherie Oliveriane 64 Storia di pizzi, tuiles e torroni 70 Pizzeria Ventrella 74 I pelosi di nonna Cecilia 76 Il miacetto delle Donati 77 La crostata della Vera 78 Madeleine 79

“Servizio di credenza” Guida per l’impianto domestico. Annata 1889 4 La scatola dei ricordi 7

La Dirce, e i suoi amici Claudia Urbinati e Martina Paolucci 40 I produttori della Valle del Foglia 40 Alice e Andrea Aiudi 41 Stefano e Michela Basili 42 Francesco Bartolucci (e Pinocchio) 43 Campagna Amica - Coldiretti 51 2|

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Il ciambellone della nonna Pina Ingredienti 1/2 kg di farina 00; 250 gr di zucchero semolato, 125 grammi di burro; 1 bicchiere di latte; 4 uova; la buccia grattugiata di un limone; una bustina di lievito per dolci; una bustina di vanillina Preparazione Far fondere il burro a bagnomaria, tenendone da parte un po’ per ungere lo stampo; nel frattempo in una ciotola grande setacciare la farina insieme con lo zucchero e il lievito. In una terrina battere leggermente le uova con una forchetta. Unire il latte al burro fuso e quindi alle uova, mescolando con un cucchiaio di legno. Versare il composto nella ciotola con la farina e lo zucchero; amalgamare con il cucchiaio di legno o con le fruste per dolci a velocità bassa, fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo. Aggiungere la buccia di limone e il lievito, continuando a mescolare. Trasferire il composto nello stampo per ciambelle, ben imburrato; infornare a 180 °C per circa 40 minuti.


foto Where Lemons Blossom e raccolta Raffaella Corsini

Due sono le esperienze da cui nasce “In cucina con la Dirce”. Due progetti nati nel 2005 e sviluppatisi parallelamente, tra i quali ci sono profonde affinità: da un lato Un paese e cento storie, la festa con le cene in famiglia che negli anni ha saputo conquistarsi un pubblico affezionato, sempre più numeroso; dall’altro la ricerca sulla memoria del territorio tra Pesaro, la Romagna e il Montefeltro, avviata con la Memoteca Pian del Bruscolo e raccontata nella rivista semestrale “Promemoria”, di cui “In cucina con la Dirce” è - almeno per ora - supplemento. “In cucina” e non “di cucina”. Tutt’altro che sofistica la distinzione riferisce di una realtà precisa, rimanda a un luogo e a una modalità di incontro fortunatamente ancora assai viva che, incurante degli apericena, dei brunch, dei dinner party, è apprezzata sempre più anche come possibilità di trasmissione di una cultura. Ricorre su queste pagine il motto dell’edizione 2013 di Un paese e cento storie, “la cultura si mangia”. Un’idea forse non particolarmente originale, ampiamente discussa negli ultimi anni dopo l’inopportuna uscita di un ministro (che ebbe a dichiarare più o meno “la cultura non si mangia”), ma su cui è bene insistere anche nel piccolissimo di un’iniziativa come la nostra. Il nostro paese non può infatti tardare ulteriormente a riappropriarsi delle proprie radici, e a farne strumento di crescita economica, per esempio attraverso una promozione del turismo incentrata sulla sostanza del made in Italy. Tra memoria e sapori proviamo a concentrare lo sguardo sui racconti condivisi intorno alla tavola, sulle storie contenute in ciò che mangiamo e beviamo, in una parola, sull’idea che, fuor di metafora, un territorio lo si possa davvero assaggiare, assaporare. E la nostra personalissima madeleine (doveroso in chiusura l’omaggio a Proust) è il ciambellone della nonna, inzuppato in una tazza di caffellatte, per colazione ma anche per cena, come i nostri vecchi facevano con due fette di pane. Quanto alla “Dirce”, è la cuoca che orgogliosamente presenta in apertura i suoi manicaretti in forma di castello (una torta di pan di spagna al cioccolato, o di pasta margherita ricoperta di cioccolata, si è precisato negli anni), accompagnando sin dalla prima edizione Un paese e cento storie. è, come potrete leggere a pagina 6, il distillato di tutte le cuoche - e le nonne - dei nostri paesi, e sul suo vassoio c’è qualcosa di più di una torta: c’è la storia del nostro territorio e di chi l’ha costruito, le cento storie che con tutto il cuore offriamo ai lettori, agli ospiti della nostra cucina. Grazie a chi ha voluto contribuire a queste pagine, dagli autori dei testi ai fotografi, in particolare a Lorenzo Di Loreto che insieme con altri suoi colleghi ha seguito passo passo Un paese e cento storie 2012 regalandoci un reportage intenso e pregnante. Grazie, infine, a chi da otto anni porta avanti Un paese e cento storie, amministratori, famiglie, associazioni senza dimenticare, naturalmente, gli innumerevoli ospiti accolti a cena in famiglia. Buona lettura, dunque; o meglio, buon appetito. Cristina Ortolani concept e direzione Un paese e cento storie e In cucina con la Dirce


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Guida per l’impianto domestico, pubblicazione trimestrale, Catalogo generale illustrato dello stabilimento per l’impianto domestico di Carlo Sigismund. Milano - Torino 1889 (raccolta privata, Pesaro)

Guida per l’impianto domestico. Annata 1889


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Un po’ di storia. Babette, e “La Dirce” Belvedere Fogliense

di Tavullia,

Primavera 2005. L’ Ammi-

Ma per far festa a un posto così non basta ‘mostrare’. Meglio è provare a ‘vivere’ un’atmosfera che per naraccolta di testimonianze e documenti, allo scopo di tura sembra votata all’accoglienza. E allora, una sera realizzare una mostra e successivamente un volume per di Settembre, magari con un po’ di improntitudine, si festeggiare la fine dei restauri del butta là una proposta: perché non paese, protrattisi in verità piuttoinvitare tutti a cena, far assaporare L’idea di conoscere un paese sto a lungo. (toccare con mano, assaggiare, speripassando dalla cucina, Senza che nessuno lo chieda mentare) il genius loci di Belvedere, luogo dell ’ anima prima o lo decida, si finisce per ‘fare quella particolare attitudine all’inbase’ nel cortiletto di casa Barcontro senza troppi complimenti, ancora che del cibo, tolucci, da Teo e la Ida. I pomeil gusto di un paese? alla fine ha la meglio riggi sotto il pergolato si molL’idea di conoscere un paese passulla iniziale diffidenza tiplicano, ad attenderci ci sono sando dalla cucina, luogo dell’anima sempre una torta, dei pasticcini, prima ancora che del cibo, alla fine una crostata, accompagnati da ha la meglio sulla iniziale diffidenza un tè o da una crema di limoncello capaci di sciogliere (ma si va a casa di uno sconosciuto? e loro come fanno a ogni incertezza di quelle donne tra loro diversissime, sapere che siamo persone perbene?). radunate intorno al tavolo che sempre di più si affolla Il primo anno siamo tutti trepidanti, poi la voce si sparge di vecchie fotografie. e gli ospiti cominciano ad arrivare anche da fuori proDa subito si sente che non è questione di carta stamvincia. In sette edizioni solo uno su trecentocinquanta pata, che la mostra, il libro devono essere veicolo di si è presentato a mani vuote, solo uno ha dato forfait qualcosa d’altro. senza avvisare.Vorrà forse dire che la gentilezza, la buoLe case allineate su via Parrocchiale hanno le chiavi inna creanza tengono ancora nonostante tutto? filate nella porta, molte porte anzi sono aperte semSia come sia, l’idea è contagiosa, e nel 2012 i paesi che pre, e c’è chi dalla finestra si affaccia e ti offre un caffè. accolgono ospiti a cena in famiglia diventano dieci. Nei Dalla casa verde una signora esce col passo di chi non giorni affannosi del 2013 Un paese e cento storie si mette ha tempo da perdere, va verso il cimitero: ho pronti i alla prova e sperimenta una inedita modalità di promociambelloni, se vuole entrare, signorina. Ma no, grazie, non zione del territorio. Borghi e castelli della provincia di si disturbi... beh, almeno prenda due pastine [intende biPesaro, dirimpetto a Belvedere o dall’altra parte della scotti, gli anziani di queste parti dicono così]: sa, i wafer collina, accomunati dalla voglia di raccontarsi con parole li compro dalla Emma per i miei nipoti, si mangiano facile, semplici, gesti quotidiani, con l’affetto che al viaggiatore veh, basta spezzarli, li prenda, così li tiene da parte per la dice più di mille testimonial d’oltreoceano. Luoghi dai merenda. Voi ragazze d’oggi lavorate sempre, non avete nomi antichi, che da soli valgono una storia: Candelara neanche il tempo per mangiare. e Novilara, Monteciccardo, Montegaudio, Sant’Angelo in Il tempo per mangiare. Il tempo, tout-court. Lizzola, Talacchio e Montefabbri - uno dei “Borghi più Nel frattempo le immagini compongono il loro mosaibelli d’Italia”; frazioni che si snocciolano ai piedi dei caco, pochi sono gli spazi che restano bianchi, gli archivi stelli, un tempo campagna, oggi aree in rapido sviluppo: e i cassetti restituiscono disegni, parole, oggetti desueti, Padiglione, Case Bernardi,Villa Betti. Sullo sfondo, le coltutto insieme fa proprio una bella figura, manca solo la line del Montefeltro, che in autunno si tingono del rosso rocca, e il ritratto di Montelevecchie è quasi pronto. degli scotani e con la nebbia sono ancora più dolci (c.o.). nistrazione comunale promuove presso gli abitanti una

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“La scatola dei ricordi” - concept Cristina Ortolani; foto Antonio Zaffini per Un paese e cento storie 2005

I personaggi di belvedere fogliense, anni settanta del ‘900

Una cartolina degli anni venti del ‘900 con il disegno della rocca di montelevecchie, demolita nel 1886,

il borsellino della nonna zaira, 1910 circa

Quattro amici all’osteria Bartolucci, sulla via parrocchiale

scatola di latta di biscotti Lazzaroni, 1950 circa

La scatola dei ricordi in cucina con l a dirce

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Belvedere Fogliense, novembre 2012 fotografie

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Lorenzo Di Loreto

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l’arrivo degli ospiti

uomini e castelli

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la bottega di pinocchio

in cucina coi piccoli

la gara di briscola

Belvedere Fogliense di Tavullia (PU), immagini dalla settima edizione di Un paese e cento storie (7-11 novembre 2012). Dopo le cene in famiglia, l’intero paese si apre per la festa finale, realizzata grazie alla collaborazione tra Enti, Associazioni del territorio e cittadini.

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le cuoche del paese

i racconti di mamma ida

Arrivederci!

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la

Dirce, e le altre

“Mamma Ida” Il concept di Un paese e cento storie e di “In cucina con la Dirce” è nato a Belvedere Fogliense nel 2005, in casa di Ida Pazzini Bartolucci Cristina Ortolani*

foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie 2012

di

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Belvedere Fogliense, autunno 2013. “Un cuore dal respiro più grande”: deve essere questo che Ida Pazzini Bartolucci sente ogni mattina, quando apre la finestra della sua bella cucina-soggiorno affacciata sulla Valle del Foglia, che si adagia sotto le mura di Belvedere Fogliense, la frazione del Comune di Tavullia dove Ida vive ormai da più di sessant’anni. Quando sono arrivata qui il paese era devastato dalla guerra, macerie dappertutto, il freddo era tale che di notte tenevo i panni per il cambio dei bambini dentro il vestito, sul seno, per scaldarli un po’. Se oggi Belvedere Fogliense, dove le “cene in famiglia” sono nate nel 2005, è il borgo fiorente amato da molti, senz’altro lo si deve anche a Ida, che ne è un po’ il nume tutelare, e veglia su queste case antiche insieme con la sua famiglia e con gli altri abitanti, che hanno continuato caparbiamente, nel tempo, ad abitare il loro luogo d’origine. E’ un paese di donne, Belvedere (non a caso fino al 1922 si chiamava Montelevecchie), e lo si sente appena vi si mette piede: “accoglienza” è la parola d’ordine, e al visitatore che si attarda per strada accade di sentirsi offrire un caffè, e di sedersi da subito intorno a una tavola dove il tempo riacquista connotati profondamente umani. Quando la incontriamo, Ida è reduce dall’ultima ‘fatica’ delle donne di Belvedere: la festa per il gemellaggio delle parrocchie di San Donato e del Corpus Domini (rispettivamente di Belvedere e Rio Salso, Case Bernardi e Padiglione, frazioni di Tavullia) con la chiesa della Pace della diocesi di Århus, in Danimarca: un pranzo per una sessantina di persone, tutto preparato in casa, dalle lasagne fino a un tiramisù di quasi un metro

quadrato. Ad Åarhus mi conoscono un giorno intero davanti a me, un come ‘mamma Ida’, e io ne sono giorno nuovo tutto da vivere: non contenta perché in qualche modo ho fatto cose importanti, ma mi senl’ho proprio cullato, questo gemel- to realizzata, perché in tutto quello laggio: ogni nascita ha bisogno di che ho fatto ci ho messo il cuore. un grembo, aggiunge Ida, mentre ci E questo ti mette le ali, ti dà una racconta con orgoglio di questo patto grande forza. di amicizia, che si rinsalda ogni anno di più. Figurati Quando mi sveglio, che nella chiesa della Pace ogni mattina, penso che ho un di Aarhus hanno una parete giorno intero davanti a me, tappezzata di fotografie di noi di Belvedere: l’hanno un giorno nuovo tutto da vivere: inaugurata proprio durannon ho fatto cose importanti, te uno dei nostri viaggi di ma mi sento realizzata, perché incontro, e vederla è stata un’emozione grandissima. in tutto quello che ho fatto Allargare lo sguardo, e il ci ho messo il cuore. cuore: un’attitudine che Ida E questo ti mette le ali, non ha mai trascurato, nemti dà una grande forza. meno nei momenti in cui la famiglia assorbiva quasi per intero le sue giornate, con quattro figli e, per un periodo, Ida Pazzini Bartolucci è nata nel anche i suoceri e la cognata di cui 1928 a Villa Verucchio, dove suo occuparsi. Poi, quando i miei figli padre era custode di Villa Amalia, la sono cresciuti ho pensato che era residenza della bellissima cantante giunto il momento di guardare fuo- e soubrette Gea della Garisenda, al ri, fuori di me e della mia casa. Tra secolo Alessandra Drudi, nota oggi gli impegni di Ida c’è ormai da molti soprattutto per il suo maggior sucanni, circa trenta, anche il servizio cesso, A Tripoli -Tripoli bel suol d’adi volontariato con l’UNITALSI more, legato alla guerra italo-libica (Unione Nazionale Trasporto Am- del 1911-‘12. (Da segnalare che anmalati a Lourdes e Santuari Interna- che il nonno materno di Ida, Antonio zionali). Un’esperienza incredibile, Sorbini, era impiegato come custode sapessi quanta gioia ti dà accompa- di una residenza nobiliare, la villa gnare queste persone, quando torni detta l’Imperiale, proprietà del conhai una carica, un entusiasmo… un te Castelbarco Albani, sul colle San entusiasmo che brilla nelle sue pa- Bartolo, a Pesaro). role, testimoniato, se ce ne fosse bi- Ogni mattina la piccola Ida era insogno, dalle foto che ritraggono Ida caricata di destare la signora, intomentre accenna felice passi di danza nando una canzone tradizionale roal ritorno da Lourdes, insieme alle magnola, e porgendole un mazzo di sue colleghe volontarie. fiori che mia madre, ricorda, confeL’entusiasmo: è come la benzina zionava dentro una zucca ornamenche mi fa andare avanti ogni giorno, tale. Era importante per tutti che la gioia di fare le cose sempre con il la signora si svegliasse ‘in buona’, massimo dell’impegno. Quando mi perché come tutte le dive era un po’ sveglio, ogni mattina, penso che ho capricciosa… ma come le vere dive in cucina con l a dirce

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era anche capace di grandi slanci di generosità, aggiunge Ida: da bambina mi sono ammalata gravemente, mi avevano data per spacciata, e la signora mi ha tenuta con sé un mese, prodigandosi personalmente e impegnando la servitù della villa per le mie cure. Non solo: quando sono nata ha regalato a mia madre un bellissimo corredino, diciamo che ero un po’ la sua mascotte. Dal 1934 al 1939 la famiglia di Ida si trasferisce in Sardegna, dove al padre era stato assegnato uno dei poderi ricavati dalla bonifica della piana di Terralba (l’allora villaggio di Mussolinia, dal 1944 divenuto Arborea); nel 1939 mio padre ha deciso di tornare verso le sue terre, ma la guerra ci ha trattenuto a Roma, e ha trovato lavoro, sempre come custode, presso la villa del ministro Montemurri. La guerra l’ho presa tutta: tra i ricordi di Ida ci sono nove mesi di notti trascorse nelle grotte di Torre Gaia, dove ci riparavamo dai bombardamenti. Anche in quella situazione però cercavamo di non perdere la speranza, scavando avevo ricavato un

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piccolo altare in una parete, e oltre a pregare cantavamo, un piccolo segno di gioia anche in guerra. In quegli anni Ida, in vacanza a Pesaro presso una sorella, incontra il compagno di una vita, Matteo Bartolucci, conosciuto da tutti come Teo. Ida e Teo si sposano a Roma, nel 1952, e da allora saranno inseparabili, fino alla scomparsa di quest’ultimo, nel 2007. Anche da questo essenziale ritratto si intuiscono le linee di una vita intensa, arricchita da quattro figli (Francesco, Stefano, Chiara e Anna) e da quattro nipoti (Maria e Giovanni, figli di Francesco e Maria Grazia Stocchi e Giacomo e Paolo, figli di Stefano e Beatrice Biagiarelli). Sono l’ultima di tredici figli, commenta Ida, e ho sempre vissuto in famiglie numerose... Deve essere per questo che né Ida né le sue ‘ragazze’, nuore

e figlie, si perdono d’animo di fronte alla prospettiva di cucinare per dieci o venti persone, un piccolo esercito che ogni domenica o quasi affolla la grande stanza al piano terra di casa Bartolucci. Di nuovo, quell’entusiasmo che fa miracoli, e che rende leggero il peso del tempo, anche di fronte al ricordo di episodi e anni che si intuiscono duri, sui quali però Ida sorvola con un sorriso. Mi hai fatto senza fine, recita un verso di Rabindranath Tagore, livre de chevet di Ida; fammi essere | morbida creta | in mano | di sì grande vasaio, fa eco a Tagore la stessa Ida, che, come l’allodola, da tempo ferma i suoi pensieri in brevi poesie di tenace sensibilità. L’allodola canta | anche quando, | sente | il ramo spezzarsi, | perché | sa, | di avere | le ali scriveva Ida il 1° gennaio 1995. Ali che Ida ha davvero dispiega-


foto Luca Cardinali per Un paese e cento storie 2012; Cristina Ortolani; raccolta Ida Pazzini Bartolucci

Belvedere Fogliense di Tavullia, Ida Pazzini Bartolucci nella sua cucina durante le ultime tre edizioni di Un paese e cento storie (novembre 2010-novembre 2012). Nella pagina precedente, il ricettario di Ida.

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Dall’alto: Roma, anni Cinquanta. Ida Pazzini con il marito Matteo Bartolucci; durante un viaggio a Lourdes con l’UNITALSI; in Danimarca, per il gemellaggio con la parrocchia della Pace di Århus. Qui sopra: nella sua cucina, a Belvedere Fogliense di Tavullia, insieme con Vera Generali, Vanda Mariotti e Maria Generali, per Un paese e cento storie 2008 e, infine, a destra, nell’edizione 2012 dell’iniziativa.

* Con poche varianti la storia di Mamma Ida è stata pubblicata in Regine. Storie di donne nel ‘900 in provincia di Pesaro e Urbino, a cura di Cristina Ortolani (CNA Pesaro e Urbino, Pesaro 2010). 16 |

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foto Luca Cardinali per Un paese e cento storie 2012; raccolta Ida Bartolucci

to nel corso della sua vita, offrendo gioiosamente la sua collaborazione e la sua capacità di accogliere e consolare. Io dico sempre: vivere per ricordare, e, quando non puoi più fare, ricordare per ringraziare. Come acque | di passate stagioni, | freschi | scendono | i ricordi, | a rinverdire il cuore (Ida Bartolucci, Memorie, 20 giugno 1996). Accoglienza significa anche aprire la porta a chi vuole raccontare la tua storia, offrirsi allo sguardo dell’altro senza ostentazioni e senza false reticenze. Il nostro incontro con Ida Pazzini Bartolucci si conclude con una cena la cui portata principale sono le erbe di campagna, raccolte da Ida sulla collina poco distante dalla chiesa, accompagnate da pecorino e piadina. Per dessert, una torta rustica con cioccolato fondente e marmellata di arance, la cui ghiotta impronta è rimasta, a futura memoria, sul nostro quaderno di appunti.


La pentola delle storie: © Cristina Ortolani per Un paese e cento storie

luoghi

Belvedere Fogliense

S

ituato a poche centinaia di metri dal confine con

Romagna, il paese di Belvedere Fogliense (fraComune di Tavullia) è ancora oggi più noto, tra gli anziani ma non solo, col fascinoso nome di Montelevecchie. Documentato sin dal 1228, Mons Vetularum (Monte delle vecchie) è associato dalla tradizione popolare alla presenza di anziane cortigiane dei Malatesta poste ‘a riposo’ nella rocca, in realtà inviate quassù, bizzarre sentinelle, a controllare l’importante postazione di confine tra Rimini, Urbino, Pesaro. Archiviate le Vegliarde, Montelevecchie mutò il suo nome in Belvedere Fogliense nel 1922, a seguito di una richiesta inoltrata al re dagli stessi cittadini. La rocca, in possesso dei Malatesta almeno dal 1334, era ancora parzialmente in piedi nel 1851, quando Romolo Liverani la ritrasse da mille angolature descrivendone gli stemmi e le pitture presenti sulle pareti; fu atterrata nel 1886 dagli ultimi prola

zione del

prietari, dopo accese discussioni con i capifamiglia del paese che, racconta il ‘cacciatore di memorie’ don Giovanni Gabucci, più volte presero a sassate gli operai venuti per la demolizione. Della rocca restano oggi le mura, un torrione, e parte dei sotterranei, inglobati in una casa privata. I lavori di restauro conclusi nel 2005 hanno ripristinato i camminamenti sulle mura, riaperto il salone comunale, risistemato la piazzetta affacciata sulla Valle del Foglia. Spicca tra le abitazioni la casa appartenuta alla famiglia Olmeda che, grazie alla disponibilità degli attuali proprietari, i fratelli Gilberto e Menotti Macchini, diventa per Un paese e cento storie la Casa delle storie, accogliendo narrazioni e ricordi. La chiesa di San Donato, costruita in parte sulle mura della rocca, domina invece Via Parrocchiale, la via principale del paese. Documentata almeno dal 1290, e più volte modificata nei secoli, la chiesa di San Donato custodisce le spoglie del Beato Ugolino Malatesta delle Camminate, ritiratosi nel 1300 a vita penitente in un piccolo terreno isolato sul Foglia. La tradizione popolare vuole che lo stesso Beato Ugolino abbia scolpito la splendida statua lignea di Maria, conservata in una teca di fronte al corpo del santo. Alle spalle della chiesa, la strada scende verso Rio Salso, dove è ancora vivissima la memoria di Fabio Tombari e Angela Busetto e della loro casa, crocevia di incontri privilegiati per letterati, artisti, intellettuali; proseguendo verso Pesaro si incontrano le frazioni di Case Bernardi, con l’abitato della Peschiera a pochi passi dal Foglia, e Padiglione, dove le case coloniche degli antichi possedimenti della famiglia Toschi Mosca si mescolano a edifici più moderni, nati con gli insediamenti industriali del secondo dopoguerra (miss nettle). Info: www.comuneditavullia.it; 0721 477908. in cucina con l a dirce

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Novembre 2012. A cena in Belvedere Fogliense, Padiglione, Case Bernardi

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foto Luca Cardinali per Un paese e cento storie 2012; Simona Bartoli, Comune di Tavullia

n famiglia

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Novembre 2012. A cena in famiglia

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foto Luca Cardinali per Un paese e cento storie 2012

foto Federica Gresta - Comune di Monteciccardo

Monteciccardo, Montegaudio


foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie 2012

Sant’ Angelo in Lizzola

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a cena con la dirce

“Vale” e “la Dirce” Perché l’Amministrazione comunale del paese di Valentino Rossi ha scommesso sulla Dirce e sull’accoglienza in famiglia? La parola a Claudio Donati, assessore alla cultura di Tavullia di

Claudio Donati*

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2005 l’Amministrazione Comunale di Tavullia portò a termine i complessi lavori di restauro della frazione di Belvedere Fogliense: mura, camminamenti, strade, un “restyling” che coinvolse quasi l’intero borgo. Decidemmo di solennizzare l’avvenimento con una mostra e una festa: la mostra, dedicata alla storia recente di Belvedere, è documentata da un volume e da un dvd, pubblicati nel 2007; la festa si è sviluppata ed è cresciuta fino a diventare un format esteso ad altri Comuni, che dal 2012 hanno aderito a Un paese e cento storie. Le “cene in famiglia” furono nel 2005 poco più di un esperimento, un’idea originale nata dalle particolari caratteristiche del borgo di Belvedere e, soprattutto, dei suoi abitanti. La capacità di accoglienza delle famiglie di qui è qualcosa di speciale, difficilmente questo progetto si sarebbe potuto avviare altrove: pensate che su circa 300 abitanti ogni anno dieci-dodici famiglie aprono la loro casa per accogliere ospiti a cena, per un totale di oltre cento posti a tavola. La nostra Amministrazione è orgogliosa anche della lungimiranza e dell’entusiasmo che i cittadini di Belvedere e delle frazioni limitrofe (Case Bernardi, Padiglione, Rio Salso) hanno dimostrato invitando a partecipare a Un paese e cento storie gli abitanti dei paesi vicini. A sigillo di questo scambio, nel 2012 l’Amministrazione comunale ha voluto offrire a tutti i collaboratori dell’iniziativa una cena finale, organizzata nella canonica della parrocchia di San Donato: un momento molto significativo di incontro e racconto delle diverse esperienze. el

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Un progetto con questi valori non poteva non incontrare la nostra adesione e il pieno sostegno dell’Amministrazione. Nonostante i tagli che ogni anno subiscono i bilanci degli enti pubblici, abbiamo sempre mantenuto nella programmazione le risorse necessarie alla realizzazione di Un paese e cento storie. Questa è una delle iniziative più longeve tra quelle che abbiamo sostenuto, di questi tempi otto edizioni consecutive rappresentano un bel traguardo. Anche se è praticamente impossibile paragonare Un paese e cento storie a un fenomeno “planetario” come Valentino Rossi, posso affermare che sono sempre di più le persone che legano il nome di Tavullia, oltre che a “Vale”, alla “festa con le cene in famiglia”. In qualche modo credo di poter affermare che da otto anni, nel nostro piccolo, promuoviamo valori che oggi sono diventati di stretta attualità: il cibo a chi-


foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie 2012

lometro zero, l’agricoltura a filiera corta solo per citarne alcuni. Un altro aspetto da sottolineare con gratitudine è la partecipazione alla festa di Associazioni, parrocchie, circoli, un gran numero di persone che volentieri si adoperano per la buona riuscita di questa e delle altre iniziative che si svolgono nei nostri paesi. Anche alcuni dei miei colleghi assessori si impegnano attivamente nell’organizzazione di Un paese e cento storie, tra loro un ringraziamento particolare va ad Alfio Carpignoli, assessore ai Servizi Sociali e alle Politiche giovanili, per la sua dedizione e competenza. Infine, un grazie di cuore agli sponsor, il cui apporto è sempre fondamentale. Mi sta molto a cuore, infine, un aspetto fondamentale del progetto: la qualità del cibo. Oltre agli ingredienti, che nella maggior parte dei casi provengono dall’orto o

dal frutteto di famiglia, ciò che qui fa la differenza è la passione con cui le Cuoche cucinano per i loro ospiti. Li accolgono proprio come i parenti o gli amici più cari, la pasta fatta in casa è all’ordine del giorno, così come i piatti tipici dell’autunno, dalla cacciagione ai funghi al tartufo, per non parlare dei dolci, dove si assapora tutta la sapienza della tradizione. E’ un modo buono di gustare la vita. Nella mia esperienza di amministratore Un paese e cento storie occupa un posto particolare. Sono sicuro che momenti come Il Tè delle Cuoche o l’arrivo della torta finale, con i quali ogni anno festeggiamo le famiglie protagoniste della festa rimarranno nel mio cuore per sempre, come una indelebile testimonianza di civismo, oltre che di solidarietà. (*assessore alla Cultura del Comune di Tavullia)

Un paese e cento storie, novembre 2012. Sotto, da sinistra: Pesaro, Sala “Adele Bei” della Provincia di Pesaro e Urbino, Il Tè delle Cuoche; Belvedere Fogliense, Gran Caffè Montelevecchie (Salone Comunale), la torta finale dedicata alle Cuoche e alle famiglie; Tavullia, Osteria degli Ultimi, un momento della degusta-

zione offerta alla stampa e ai media. In alto: una veduta notturna di Belvedere Fogliense e, a destra, un’immagine della mostra Il mito in guardaroba, con le magliette del Valentino Rossi Fan Club. Nella pagina precedente, un ritratto di Claudio Donati, assessore alla Cultura del Comune di Tavullia.

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foto Cristina Ortolani; raccolta Famiglia Generali


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Crocevia della luce I colori dell’Angela, le parole di Fabio, le voci dei ‘matti’ di Frusaglia abitano ancora la grande casa di Rio Salso, fra Tavullia e Mondaino, dove tanti hanno imparato la vita

di

Una seggiola di legno si offre alla luce. La grossa catena che pende dal camino è pronta a ricevere il paiolo per la pasta. Lo smalto blu a cuori rossi dell’armadietto dietro la porta è vivido, come la pittura che modesta fa capolino dall’intonaco scrostato, due stanze più in là. Nessuno vi risiede più da molti anni ma certo non appare disabitata la casa del Rio. La natura entra dalle finestre, vince i pur solidi mattoni affacciandosi dagli interstizi; foglie e fronde si fanno largo attraverso qualche vetro rotto ma sono gentili, quasi a modo loro ricordassero l’Angela, Fabio, la Maria, che piante, animali e pietre ascoltavano come le persone.

Cristina Ortolani

Questa è la sala dove scrivevano, questa la cucina. Qui di sopra dormivano Fabio e l’Angela, questo era il regno dell’Emma e Gino: su quella parete c’era la libreria. Un camino in ogni stanza, oppure una stufa di coccio. Fabio naturalmente è Fabio Tombari, l’Angela - Busetto - è sua moglie, Maria loro figlia, Emma e Gino Ondedei i fedeli compagni di una vita, custodi della casa di Rio Salso dove la famiglia Tombari visse dagli anni Cinquanta del ‘900. Dorino Generali, insieme con il fratello Giorgio attuale proprietario della casa di via Pieggia e dei terreni circostanti, suddivisi per decreto della storia e per capriccio della natura tra i Comuni di Tavullia e Mondaino, ci accompagna a ritrovare uno dei luoghi più cari alla memoria di queste zone. Non c’è, a Rio Salso, quarantenne o giù di lì che non racconti d’aver fatto merenda con l’Angela (i compiti, anche), mentre della casa del Rio i più grandi ricordano soprattutto l’atmo sfera brillante e ricca di stimoli (scrittori, artisti del cinema, pittori, il fior fiore della cultura, e venivano tutti a trovare

Fabio e l’Angela. I nomi? Chi c’era dice Fellini, Tonino Guerra, Sergio Zavoli, Luigi Santucci: impossibile citarli tutti, compresi gli amici più giovani, come Francesco Scarabicchi o Alfredo Chiàppori). Intellettuali e persone semplici, dicono qui. E tutti portano nel cuore l’immagine sorridente di Fabio - così voleva esser chiamato - che, sole, pioggia o vento ogni giorno arrivava in cima alla collina per incontrare i ‘suoi’ alberi, salutare gli uccelli. Papà mi faceva regali bellissimi: ogni giorno tornando dalle sue camminate portava alla mamma un fiore di campo e a me un seme o una bacca colorata (Maria Tombari, febbraio 2001). Dalle carte in nostro possesso risulta che la casa nella sua struttura attuale è stata costruita nella seconda metà dell’Ottocento, e, successivamente, acquistata dal padre di Angela, Mario Busetto. La tradizione vuole che un tempo fosse adibita a stazione di Posta, anche se di questa notizia sinora non abbiamo trovato riscontro nei documenti, precisa Giorgio Generali. Di origine venein cucina con l a dirce

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ta (gallina padovana, si definiva data dal padre Livio, situato proprio esempio, ma quelle di solito le faceva Angela con ironia di gentildonna di fronte alla casa dei Busetto. mia madre. Il Venerdì qui al Rio da campagnola), i Busetto arrivarono Papà era lo scrittore, l’artista e sempre c’è il mercato: lei comprava da queste parti all’inizio del ‘900: mamma teneva i cordoni della bor- qualcosa in ciascuna bancarella: ancora oggi il nome della famiglia sa, ma mancando totalmente di Tutti devono vivere, diceva. è legato all’imprenditoria agrico- razionalità, sembrava sempre che Le sue specialità erano la cotognala, settore nel quale ha lasciato un fossimo poveri malgrado la cam- ta, la limonata (una volta abbiamo segno forte Ida Busetto (cugina di pagna e lo stipendio di papà. Sono anche allestito un chiosco per venAngela, sottolinea ancora Dorino), cresciuta a pane e filosofia (Maria derla lungo la strada, insieme con che dal 1953 condusse l’azienda di Tombari, gennaio 2001). i figli della Maria!), ma soprattutto Montecalvo in Foglia fondata dal L’Angela che corregge le bozze con lo sciroppo di rose, che diluiva con padre nel 1910. teutonico zelo; l’Angela che amo- acqua fredda per offrirlo agli ospiti, Per più di quarant’anni siamo stati revolmente organizza la giornata di specie d’estate radunati all’ombra come una grande famiglia, intervie- Fabio e ne tiene la corrispondenza7; dell’ippocastano. Davvero le si illune Liliana, moglie di Dorino, figlia l’Angela, che accompagna Fabio minano gli occhi quando torna agli di Emma Pagnoni e Gino Ondedei: a riconoscere l’orizzonte della fi- anni trascorsi con la Famiglia Tomsono nata a Pontevecchio, poco più losofia: non è qui il caso di tornare bari: Lucia Generali, figlia di Liliana su, ma sono cresciuta qui, insieme sull’apporto del raffinato ingegno di e Dorino, è forse più di tutti qui al con Maria; mio padre lavorava per Angela Busetto all’opera del marito. Rio fedele al ricordo di nonno Fabio Mario Busetto, e quando l’Angela Donna di gran carattere ed eleganza e nonna Angela. A lei, cauta adolee Fabio vennero a stabilirsi nella antica, Angela si era ritagliata al Rio scente, il tempo ha riservato l’emocasa qui al Rio assunse le mansio- la parte che più sentiva corrispon- zione di toccare con mano le parole ni di custode. Mia madre aiutava derle: per Fabio, una vera e propria dell’ultimo Tombari prima che fosl’Angela in cucina e nelle faccende compagna, che alla letteratura af- sero fissate nella pagina stampata, domestiche. Hanno vissuto insieme fiancava (probabilmente antepone- quasi a sbirciare nell’officina creatipiù d’una vita, sempre dandosi del va) la sapienza di chi conosce i fiori va del grande scrittore. Ormai anzia‘Lei’. Nella proprietà di Rio Salso (le rose dell’Angela!), sa rammenda- ni, nonno Fabio dettava all’Angela, abitavano anche i contadini di Ma- re, intrecciare fili (lavorava sempre poi io, che all’epoca me la cavavo rio Busetto, Maria e Gigi Giampri- a maglia: maglioni, sì, ma anche piuttosto bene con la macchina da vestiti, cravatte per Fabio) e, come scrivere, ricopiavo la prima bozza ni con i loro figli. La famiglia Generali è invece ori- vera castellana, conosce l’arte di da inviare all’editore, sempre sotto ginaria di Montecalvo in Foglia guarire - non solo con le erbe, delle la supervisione dell’Angela. Di soli(Monte del Tesoro la località, ed cui virtù era esperta. to lavoravano la mattina, guai a chi evoca leggende vicine a quelle ri- Cucinava, anche, prosegue Liliana: fiatava, quando scrivevano. Lucia, il chiamate da Montelevecchie, oggi da brava veneta il riso con le patate, cui nome è segnato sullo stipite della Belvedere Fogliense di Tavullia, poi le mele cotte, le marmellate. Cer- porta che misurava i progressi nella sopra Rio Salso): il nonno mater- to, anche la pasta, le tagliatelle per statura dei bimbi di casa insieme con no di Dorino e Giorgio era quelli di Giovanni, Anna ed Marco Ceccarelli, el tintor, Elena, figli di Maria ed EtPensar forte, scriver corto. È questo (1876-1958), qui noto antore Puglisi, rivede di Fabio il motto di Fabio Tombari, fin dalle cor oggi per le sue staml’umorismo, l’impazienza trentatre cronache della sua prima pe a ruggine. Dopo una nella curiosità, anche una vita trascorsa tra i motori, certa ruvidità. Era una perFrusaglia, che circa il 1930 lo fecero dalle trebbiatrici alle auto sona piuttosto appartata, di colpo celebre. D’Annunzio s’era ‘truccate’ per le Mille Micome se dopo un po’ sencompiaciuto di sete e damaschi; Tombari glia, Dorino è insieme con tisse il bisogno di ritirarsi. Giorgio da molti anni titoEra l’Angela a intrattenere scelse la rascia e la canapa. lare di un bell’autosalone le persone (Angelotta, la nato dall’autofficina fonchiamava lui), e Maria, la 26 |

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loro figlia purtroppo mancata qualche anno fa, ha ereditato questa sua infinita capacità di accoglienza. Arrivando da lontano trovavo la casa di Rio Salso, specie di domenica, sempre con qualche ‘satellite’ in visita. Qualcuno simpatico, ma qualcuno decisamente no e dicevo a papà: Ma come fai a sopportare tutti? E lui mi rispondeva disarmante e disarmato: Ma, Maria, in ognuno c’è il Cristo. Spesso concludevamo ridendo che era ben nascosto sotto una cotenna di lardo notevole. […] Sì, figli dell’anima. Tanti negli anni son passati per casa: il piccolo muratore, lo studente, l’universitario, il soldatino, il tormentato, lo sbandato. Tutti chiedevano un padre, un consiglio, una guida, un po’ di affetto e di luce (Maria Tombari, maggio 2001). Dopo pranzo si cantava l’opera, riprende Lucia riecheggiando una presenza forte tra le pagine tombariane; con la nonna Angela ho trascorso anche tante serate divertentissime davanti alla tv, un apparecchio piccolo che avevano nella sala del camino, a guardare Sandra e Raimondo, oppure le commedie di Macario.

In queste pagine: la casa di Rio Salso, tra Tavullia e Mondaino, dove per oltre quarant’anni Fabio Tombari e la moglie Angela Busetto vissero con la loro famiglia. Le fotografie a colori sono state scattate nell’aprile 2011. Nelle foto in bianco e nero, Tombari davanti alla porta della casa del Rio e nella grande cucina (1969): a destra, con il cappello, Angela; a sinistra Emma Pagnoni Ondedei.

L’Angela, vestita dei prediletti bianco, blu, azzurro, i suoi mobili smaltati di rosso. L’Angela col cerchietto a trattenere i capelli candidi. L’Angela, che - sorride ancora Liliana non credeva ai microbi. L’Angela, la cui eredità più preziosa è in quelle bucce di mandarino il cui profumo saliva per la casa dalla stufa di coccio, nel presepe allestito dentro il camino, nella coppa lavadita che - for-

Questo articolo è apparso sul n. 2 di “Promemoria” - storie e figure della Memoteca Pian del Bruscolo (maggio 2011). Fonti e tracce. Nota biografica, in Fabio Tombari, Tutta Frusaglia (a cura di F. Scarabicchi), Ancona 1999, pp. 15-16; Omaggio a Fabio Tombari (Fano-Rio Salso, 18-21 Gennaio 1989), Atti del convegno, Rimini 1999; M. Tombari, da “Lo Specchio della città” (Pesaro): Camminando con Fabio Tombari (Gennaio 2001); Viaggiando con Fabio Tombari (Febbraio 2001); Ricordando Tombari (Maggio 2001), estratti da www. lospecchiodellacitta.it (20-22 aprile 2011); Scomparsa Ida Busetto, rinnovò il mondo agricolo, da “Il Resto del Carlino”, 24 Marzo 2010, p. 19;A. Chiaretti, Un mondainese tra i grandi del XX secolo, in “La piazza della Provincia”, da www.lapiazzarn.it, data di pubblicazio-

se unica in tutta Rio Salso - passava tra i commensali a fine pasto. L’Angela, che non chiudeva le ultime lettere (alcune delle quali deliziosamente istoriate) senza un pensiero per gli abitanti del Rio. Un lascito di attenzione e di rispetto, quello dell’Angela, che risponde all’essenza della casa, e nel quale la pagina di Fabio si traduce tuttora in quotidiana verità. Sorseggiavo la limonata, avevo diciotto anni ed ero perso nel mare di parole dell’ultimo contemplatore di lucciole che immaginavo entrassero ed uscissero dai suoi libri, lucciole eterne con i loro lasciapassare perenni (Francesco Scarabicchi) .Lui non andava mai a dormire senza aver guardato le stelle. La mattina, la prima cosa che faceva era camminare scalzo sull’erba, per prender vigore dalla rugiada (Lucia Generali). La meridiana, incurante dell’ora legale, segna le quattro del pomeriggio. L’aria è fresca di Aprile. Anche le ragnatele restituiscono la luce, tra le pietre e i legni degli infissi.

ne 15 Luglio 2007 (estratto il 22 Aprile 2011, 16.15); S. Piscaglia in T come Tombari, Fabio, edito dall’Amministrazione comunale di Tavullia nel 2001, pp. 36-45. Il quaderno riporta le parole degli ospiti presenti alla festa in ricordo del centenario della nascita e decennale della morte di Fabio Tombari, Gli onori fatti in casa, organizzata dal Comune di Tavullia nei giorni 28-30 Gennaio 2000 presso la casa di Rio Salso, riaperta anche in quell’occasione grazie alla generosità dei fratelli Generali; F. Scarabicchi, La casa di Rio Salso, in Omaggio a Fabio Tombari, cit., p. 237; I segnali della natura. Una giornata di studi su Fabio Tombari, Comune di Fano, Biblioteca Federiciana, Quaderno n. 1, pp. 59-60, s.d. ma 1989. Le conversazioni con la Famiglia Generali hanno avuto luogo nel mese di Aprile 2011. in cucina con l a dirce

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Monteciccardo, fichi, cardi e ficcanasi

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A

dagiato sulla sommità di una collina

Monteciccardo

(384

metri s.l.m.),

dovrebbe proprio alla sua posizione pa-

foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie

noramica la nomea assegnatagli dalla voce popolare di

Sopra, una veduta di Monte Santa Maria, frazione di Monteciccardo. Viti e olivi sono tra le coltivazioni più diffuse sul territorio comunale, dove si concentrano anche numerosi produttori di formaggio, in gran parte di origine sarda, giunti su queste colline negli anni Sessanta.

“paese dei ficcanasi”. Discussa l’origine del toponimo, che alcuni vogliono legata al greco sykon (fico), altri al nome proprio Siccardo, altri ancora all’antico toponimo Castrum Montis Cardi, ipotesi avvalorata dal cardo raffigurato in un dipinto nell’antica chiesa della Misericordia. Citato sin dal 1283 tra i castelli pesaresi, dei quali seguì le vicende fino all’Unità d’Italia, il castello nel 1443 offrì rifugio al condottiero Niccolò Piccinino, alla guida delle truppe pontificie, dopo la sconfitta subita a Monteluro per mano di Francesco Sforza e Sigismondo Pandolfo Malatesta. Pochi i resti dell’antico castello, più volte rimaneggiato nei secoli e quasi del tutto distrutto dai bombardamenti della II guerra mondiale: addentrandosi nelle stradine del minuscolo abitato si arriva al torrione, recentemente restaurato, mentre scendendo lungo via Marconi si può vedere il vecchio lavatoio. Appena fuori dal borgo si trova la Chiesa parrocchiale di San Sebastiano, documentata dal XIV secolo e riedificata nel 1952. L’interno custodisce la Madonna in trono con bambino e San Sebastiano, San Pietro Apostolo, San Francesco d’Assisi e Santa Caterina vergine e martire (1508), opera di Bartolomeo Gentile da Urbino. Alle spalle della parrocchiale sorge il Monumento ai caduti (1927), sull’area un tempo occupata dalla chiesetta di Sant’Eracliano. Da vedere a poca distanza dal castello è il convento dei Padri Serviti di Maria (il Conventino), nato grazie al lascito del possidente Bernardino Fabbri. Costruito a partire dal 1520, il complesso raggiunse l’assetto definitivo solo sul finire del ‘700; dal dopoguerra utilizzato come abitazione, fu ristrutturato negli anni Ottanta del ‘900. Dal 1988, anno della riapertura al pubblico, il conventino è tornato a essere un punto di riferimento per Monteciccardo, sede di importanti eventi culturali incentrati sull’arte contemporanea e di fiere come quella che qui si svolge ogni anno, con rare interruzioni, almeno dal 1900. Molto antichi sono anche i castelli delle frazioni di Monteciccardo, Montegaudio e Monte Santa Maria. Del primo, costruito probabilmente come postazione di vedetta, resta oggi il campanone, la campana della torre fatta fondere nel 1507 da Giovanni Sforza. All’ingresso di Montegaudio sorge la pieve di San Michele Arcangelo, documentata dal 1290. L’attuale edificio risale ai primi del ‘600 e conserva tra l’altro un organo del XVI secolo, opera di Giovanni Cipro da Ferrara. Monte Santa Maria è un delizioso borghetto di poche case, da sempre dominato dalla chiesa di Sant’Agata, ricostruita dopo il terremoto del 1932. La campagna intorno a Monte Santa Maria diede rifugio nell’estate del 1944 a molti sfollati, tra i quali il celebre attore pesarese Annibale Ninchi (miss nettle). Info: www.comune.monteciccardo.pu.it - 0721 910586 in cucina con l a dirce

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La Dirce, e le altre

Ti ho invitato per allegria Erica Ceccaroli e Andrea Galli ospitano “Un paese e cento storie” a Villa Betti di Monteciccardo: l’allegria è di casa da questa giovane coppia che nel 2012 ha per la prima volta partecipato all’iniziativa conversazione di

Pesaro, ottobre 2013. Per la cena in famiglia ho inaugurato il servizio buono, di porcellana inglese, mai usato prima. Dopo undici anni di matrimonio. Esordisce con una risata Erica Ceccaroli, che nel 2012 ha per la prima volta partecipato a Un paese e cento storie, accogliendo insieme con il marito Andrea Galli ospiti a cena in famiglia. Sorriso aperto e modi sbrigativi, Erica è nata a Borgo Massano, una frazione di Montecalvo in Foglia, poco distante da Belvedere Fogliense, “patria” del progetto cene in famiglia; la famiglia di Andrea, artigiano nel settore delle coperture edili è invece originaria di

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Cristina Ortolani

Santa Maria dell’Arzilla, località di Pesaro al confine con Fano. Erica e Andrea abitano a Villa Betti, una frazione di Monteciccardo che negli ultimi anni ha conosciuto una notevole espansione: quando ci siamo sposati abbiamo scelto di abitare a Villa Betti per la sua posizione, e anche perché qui le case avevano prezzi più abbordabili per una coppia giovane. Io lavoro a Bottega di Colbordolo, gli spostamenti sono facili, in più Villa Betti non è lontana dalla città, e anche con i bambini ci troviamo bene. Incontriamo Erica e Andrea sulla tribuna del campo da rugby di Pesaro, dove entrambi i loro figli,

Gloria e Marco, rispettivamente 5 e 8 anni, sono intenti al loro allenamento di “formiche” nella squadra pesarese. L’autunno è ancora dolce e, forse anche per i colori che ci circondano il discorso va subito sui piatti che Erica ha offerto agli ospiti delle cene in famiglia. Avevo preparato il risotto con la zucca, una bella zucca rossa colta nell’orto dei miei genitori: faccio appassire la cipolla con un po’ d’olio, unisco la zucca tagliata a cubetti e regolo di sale. Poi lascio cuocere con un po’ di brodo. Quando la zucca si è ammorbidita aggiungo il riso, 80 grammi a testa, e mano a mano rabbocco il brodo, continuando a mescolare. All’ultimo manteco con qualche fiocco di burro e parmigiano grattugiato, ma va bene qualunque formaggio, anche il pecorino o un formaggio cremoso. Come tutte le famiglie che aderiscono a Un paese e cento storie anche Erica e Andrea sono molto attenti alla scelta degli ingredienti per i loro piatti: l’anno scorso, continua Erica, abbiamo servito formaggi, vino e pane di produttori del nostro territorio comunale, la carne del macellaio


Villa Betti di Monteciccardo (PU). Sopra: a cena in famiglia da Erica Ceccaroli e Andrea Galli, per l’edizione 2012 di Un paese e cento storie. Sotto: Villa Betti di Monteciccardo. Nella pagina precedente: Erica con i figli Marco e Gloria e durante un recente viaggio a Ibiza.

foto Federica Gresta-Comune di Monteciccardo; raccolta Erica Ceccaroli e Andrea Galli; Cristina Ortolani

di Sant’Angelo in Lizzola... Insomma, ci piace valorizzare ciò che di buono abbiamo vicino a casa, conclude Andrea. Il desiderio di valorizzare il proprio territorio accomuna sin dalla prima edizione tutte le famiglie di Un paese e cento storie. Noi abbiamo aderito sulla fiducia, confessa Erica, non sapevamo di cosa si trattava. Un giorno ci ha chiamati Federico Goffi, il sindaco, dicendo “mi dovete dare l’adesione per un’iniziativa. Una cosa bella, ma i particolari ve li spiego più avanti”. All’inizio pensavamo a una forma di solidarietà, magari rivolta ai meno abbienti, ma ci siamo fidati perché sappiamo quanto contano per la nostra amministrazione le attività culturali, e abbiamo accettato ‘a scatola chiusa’. E ne siamo stati contentissimi, interviene Andrea: è stata un’esperienza che ci ha molto arricchito, e infatti abbiamo deciso di partecipare anche quest’anno. Ad Andrea è toccato nel novembre 2012 il compito di andare a prendere gli ospiti al Circolo ARCI, il punto di ritrovo convenuto per Villa Betti: il sindaco non ci aveva avvisato che avrebbe offerto l’aperitivo al circolo, e temevo per il purè che soffre ad attendere troppo a lungo, ricorda Erica. Ma nonostante gli incidenti di percorso alla fine siamo stati benissimo: il caso ha voluto che a tavola con noi ci fossero Francesco Calcagnini con la moglie, amici di famiglia, insieme con Eugenio, un signore originario di Cesena residente a Roma. Il clima si è fatto subito conviviale, nota Andrea, la conversazione ha preso il via senza problemi e ha spaziato su tanti argomenti: Eugenio ci ha parlato di Roma nel dopoguerra, noi gli abbiamo raccontato delle nostre zone,. Ci ha fatto molto piacere ricevere l’invito di Eugenio, aggiunge Erica: si è fatto promettere che alla prima occasione lo andremo a trovare e il nostro rapporto continua, ogni tanto ci risentiamo. Ogni tanto ci risentiamo. Accade spesso che nascano nuove amicizie, a Un paese e cento storie. Dal 2005 a oggi nei giorni dell’iniziativa le case hanno accolto un migliaio di persone, e ogni anno si aggiungono famiglie curiose di sperimentare l’incontro con ospiti sconosciuti. Nel 2013 le famiglie di Un paese e cento storie sono una trentina, residenti in 12 località dell’immediato entroterra di Pesaro e Urbino. Come Erica e Andrea decidono di aprire le loro case per conoscere persone nuove ma anche, specie nel caso di coppie giovani, per partecipare alla vita del paese dove siamo venuti ad abitare o, ancora, per non perdere la tradizione dell’ospitalità. Sia come sia, il meccanismo funziona con pochi intoppi: vi si può forse leggere una piccola, significativa testimonianza di quell’Italia che, nonostante tutto, guarda al presente - e poi al futuro - con quotidiana fiducia.

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Sant’Angelo in Lizzola, novembre 2012. La porta d’ingresso al castello e piazza IV Novembre vista da via Morselli. Sul fondo, la torre civica e palazzo Mamiani, sede del Municipio; sulla sinistra la Collegiata di San Michele Arcangelo.

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Sant’Angelo in Lizzola, il segno della storia

L

uogo prediletto da artisti e letterati che da tempi lontani ne fecero meta di villeggiatura e teatro di svaghi, Sant’Angelo in

Lizzola accoglie gli ospiti con

i ritmi pacati di chi sa che il vero lusso è godersi un tramonto affacciati alle mura, o fare quattro chiacchiere al caffè della piazza senza troppo pensare ai

foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie 2012

minuti che scorrono. Sant’Angelo

è uno dei paesi che nel 2012 per la prima volta hanno aderito a Un paese e cento storie: l’idea ci ha subito conquistati, afferma il sindaco Guido Formica, e abbiamo particolarmente apprezzato la direzione verso la quale il progetto si orienta nel 2013, per promuovere in modo originale il nostro territorio. Nato dall’unione di due antichi castelli, Monte Sant’Angelo e Liciola, Sant’Angelo in Lizzola vanta una storia millenaria: al 1047 risalgono infatti le prime notizie sull’abitato di Liciola, compreso tra i possedimenti della vicina Abbadia di San Tommaso in Foglia. Dalla fine del XIII secolo Sant’Angelo seguì le vicende dei castelli del contado di Pesaro, soggetti alle dominazioni dei Malatesta, poi dei Montefeltro e quindi degli Sforza. Nel 1584 Francesco Maria II Della Rovere, Duca di Urbino, concesse Sant’Angelo in Lizzola in feudo a Giulio Cesare Mamiani, al quale si deve la costruzione del palazzo baronale che nonostante i danni della II guerra mondiale, domina tuttora l’abitato del capoluogo; ultimo conte di Sant’Angelo fu Terenzio Mamiani, intellettuale e letterato, tra i protagonisti del Risorgimento italiano. A fianco di palazzo Mamiani, la parrocchiale di San Michele Arcangelo custodisce alcuni pregevoli dipinti in gran parte di scuola locale. Da sempre caratterizzato da una notevole vivacità culturale, Sant’Angelo diede i natali anche a Giovanni Branca (1571-1645), architetto e ingegnere, al quale si deve una progenitrice delle moderne turbine a vapore ad azione. Da segnalare poi la presenza in paese di un’altra grande famiglia, i Perticari: nella loro residenza di campagna si riunirono tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’ ‘800 alcuni tra i più brillanti ingegni dell’epoca, radunati intorno a Giulio Perticari e sua moglie Costanza, figlia del poeta Vincenzo Monti; tra loro anche Gioachino Rossini e Giacomo Leopardi. Danneggiato dalla guerra e successivamente demolito, del complesso resta oggi la chiesa di Sant’Egidio. Già dal 1389 il territorio di Sant’Angelo in Lizzola comprende anche Montecchio e le preziose campagne circostanti. Secondo alcuni storici esistente sin dal 1069, il castello di Montecchio scompare dai documenti alla fine del XIV secolo, lasciando spazio al borgo sviluppatosi lungo la strada tra Pesaro e Urbino. Oggi Montecchio conta circa 8.000 abitanti (poco meno di mille i residenti nel capoluogo comunale), e rappresenta, nonostante le attuali difficoltà dell’economia italiana, uno dei principali poli produttivi della valle del Foglia (miss nettle). Info: www.comune.santangeloinlizzola.pu.it - 0721 489711. in cucina con l a dirce

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Raccontare, raccontarsi Per due anni ospite a cena in famiglia, nel 2013 Federica Goffi ha deciso di accogliere a sua volta amici sconosciuti: “per raccontare e raccontarsi”, come ci spiega in questa conversazione

conversazione di

E’ la prima volta che apre la casa alle cene in famiglia, ma non è nuova a Un paese e cento storie: per due anni, infatti, Federica Goffi è stata ospite di sconosciuti, prima a Belvedere Fogliense, nel 2011, e poi a Montefabbri di Colbordolo. Se avessi saputo che anche a Sant’Angelo in Lizzola si era avviata questa esperienza avrei aderito già dall’anno scorso come padrona di casa, sin dalla prima volta che ne ho sentito parlare da una mia amica mi è sembrata una bella idea. Trentanove anni, di famiglia santangiolese e da sempre residente nel suo paese di origine, Federica è laureata in ingegneria civile, e lavora presso uno studio ingegneristico di Pesaro. Con il marito Fabrizio Cerisoli e i tre figli Filippo di nove anni, Lisa di sette anni e mezzo e Veronica, cinque anni, ha deciso di partecipare a Un paese e cento storie per il piacere di conoscere storie e persone nuove. Insomma, per il piacere di raccontare, e di raccontarsi. La sua esperienza di ospite è insolita: sia nel 2011 sia nel 2012 non ci è mai capitato di mangiare i piatti tipici delle nostre zone, ricorda divertita. Il primo anno eravamo ospiti di una coppia giovane di Belvedere che ci ha proposto un menu quasi del tutto vegetariano, l’anno scorso a Montefabbri siamo stati da Olessia ed Enrico, e lei, che è originaria di Mosca, 34 |

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Cristina Ortolani

ci ha preparato i piatti della sua tradizione. Non è detto, infatti, che le cento storie del titolo della festa con le cene in famiglia siano sempre e solo nostrali. Se nel 2005 il progetto è nato sulla memoria di Belvedere Fogliense, via via i racconti scambiati intorno alla tavola si sono sempre più rinsaldati alle vicende personali, assecondando la tendenza verso una società variegata. E’ stato interessante, specialmente l’anno scorso, provare sapori diversi dal solito, anche se devo confessare che non ho osato accettare il bicchiere di vodka accompagnato secondo l’usanza russa da un cetriolo marinato, che Olessia mi ha proposto prima di cena. Il menu al quale stanno lavorando Federica e Fabrizio (a lui, diplomato cuoco, spetterà gran parte della preparazione della cena) si atterrà comunque alla tradizione delle nostre colline. Non è ancora definito, ci spiega Federica, ma abbiamo pensato a delle crêpes come primo, per secondo un coniglio in porchetta accompagnato dalle patate arrosto, mentre per antipasto serviremo gli affettati dell’azienda agricola di famiglia. E il dolce? Ancora non ho deciso, chissà, magari potrei cedere alla passione per il cake design, con una torta decorata. Lisa, che è presente all’intervista, annuisce convinta: spesso aiuta la mamma a guarnire gli splendidi dolci colorati che Fede-


rica ci mostra sul display della macchina fotografica. Peppa Pig o Winnie the Pooh troneggiano sopra trionfi di pasta di zucchero, preparata personalmente da Federica. Indovina quanta farina abbiamo comprato oggi? chiede Lisa con fare birichino. Non ne ho idea. Settanta chili! ride soddisfatta per il mio stupore. Sì, abbiamo approfittato di un’offerta speciale, noi facciamo il pane in casa, e anche le pizze, i panini, il ciambellone per la prima colazione... abbiamo fatto provviste per l’inverno.

foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie 2012

Ca’ Golino di Montefabbri, Colbordolo. Fabrizio Cerisoli e Federica Goffi con i figli, ospiti di Olessia Tambotseva ed Enrico Libanore (nella foto in basso a sinistra) alla “Fattoria del Borgo”, durante l’edizione 2012 di Un paese e cento storie. Insieme con loro ci sono anche Massimo Pensalfini e Sandro Tontardini, rispettivamente sindaco e assessore alla Cultura di Colbordolo. Sotto, una delle torte realizzate da Federica, appassionata di cake design.

In una soffice variante marmorizzata al cacao il ciambellone fa capolino dal forno. I dolci per la colazione sono compito di Fabrizio, di solito lui prepara il pranzo e io la cena, anche per via degli orari di lavoro. Prima di sposarci Fabrizio lavorava come cuoco, oggi è falegname insieme con il fratello che ha un’attività artigianale. Si sono fatte quasi le sette di sera, e al momento dei saluti arrivano anche Fabrizio, Veronica e Filippo. Perché non resti a cena con noi? Aggiungiamo un piatto, dividiamo quel che c’è: abbiamo un po’ di carne alla griglia, due pomodori dell’orto e un po’ di

affettati. L’invito è allettante, e il vociare affettuoso dei bambini vince la stanchezza di giornate convulse. Anche per serate come questa il gioco vale la candela, vien fatto di pensare, mentre Federica offre a conclusione della cena una fetta di pane caldo con uno spesso strato di Nutella. Facciamo sempre così, con il pane che abbiamo scongelato e che non consumiamo durante i pasti. Il largo sorriso alla cioccolata di Lisa dice più di mille parole la sostanza di Un paese e cento storie. La nostra casa non è una bomboniera, conclude Fabrizio, ma gli amici sono sempre i benvenuti.

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Tutti gli uomini della Dirce

L’alchimista “Un pasto è l’anima del cuoco fatta cibo”. Parole del teologo brasiliano Rubem A. Alves nelle quali Francesco Antonelli, cuoco delle cene in famiglia, si trova perfettamente a suo agio

conversazione di

Cristina Ortolani

Montefabbri, ottobre 2013. Si fa presto a dire “carbonara”. Ma quando il guanciale è ammorbidito a bagnomaria prima di sfrigolare in padella flambato con il brandy, quando l’uovo che amalgamerà i sapori si gonfia in una morbida spuma grazie a un goccio di latte, quando anche il pepe è selezionato tra mille per dare il la a un insieme dalle proporzioni già perfette, allora la cucina davvero si fa luogo di alchimia, dal quale è impossibile non uscire trasformati. La sensualità dei sapori che si sgranano, la gioia dei colori e dell’incontro tra ingredienti, uniti o accostati in una successione di percezioni irrompono dalle parole che Francesco Antonelli sceglie per raccontare la sua cucina. Nato a Osteria Nuova di Montelabbate nel 1975 da genitori originari di Coldazzo, frazione del comune di Colbordolo come Montefabbri, dove risiede da otto anni, dal 2012 Francesco è uno dei cuochi delle “cene in famiglia”. Attualmente impiegato come tecnico della produzione nel settore del legno, esperto informatico, dedica alla cucina gran parte del suo tempo libero: il sabato è riservato alla sperimentazione, nelle due o tre ore che il pomeriggio trascorro ai fornelli mi ricarico, è un modo per ritrovarmi oltre che per dare spazio alla mia passione. La compagna Franca fa da assaggiatrice, insieme con gli amici, che hanno imparato ad apprezzare l’attenzione per i dettagli che caratterizza i piatti di Francesco. Tutto parte dalla spesa: capita spesso che il menu sia completamente reinventato in seguito all’incontro imprevisto con un formaggio, una carne, un vino. Da qualche anno per gli acquisti mi rivolgo quasi esclusivamente ai produttori della zona. La storia di queste colline si fa gusto nell’olio o nella frutta che Francesco ricava dal piccolo appezzamento di terra di famiglia, gestito insieme con i fratelli. Quando nei giorni della vendemmia ti siedi, e bevi l’ultimo bicchiere del vino del precedente raccolto, in una frazione di secondo attraverso quel colore e quel profumo vedi passare un anno di 36 |

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“Cucinare è come dare il bacio magico che ridesta il piacere addormentato. Un pasto è l’anima del cuoco fatta cibo”. Il talento di Francesco non resterà a lungo contenuto tra le mura della casa antica di Montefabbri. Prima o poi arriverà qualcuno ad accendere la vocazione all’accoglienza di questo luogo silenzioso ma già ricco di slanci, e Francesco con la sua passione avrà parte importante nel valorizzare un microcosmo in cui si rispecchia, come avviene per tanti paesi del nostro entroterra, l’Italia intera. Almeno è ciò che gli auguriamo di cuore, dedicandogli in chiusura le parole del teologo brasiliano Rubem A. Alves, con le quali sin dalla prima edizione Un paese e cento storie si è presentato al pubblico.

foto Elena Fiorio e Stefano Paganini

lavoro. E’ impossibile non tenerne conto quando cucini. Il tempo. Ogni ingrediente ha i suoi tempi, ogni preparazione richiede il suo tempo: torna spesso sul tempo, Francesco, e gli brillano gli occhi quando paragona la cucina all’officina di Efesto - o, appunto, allo studio segreto di un alchimista. Ti faccio un esempio. Una mia amica è ghiotta dei miei fagioli. Cosa saranno mai i fagioli con le cotiche, uno si chiede. Dalle nostre parti si mangiano tutti i giorni. E invece no, perché io li preparo a pranzo e poi li lascio riposare fino all’ora di cena. Si intiepidiscono, e quando arrivano gli amici basta un ultimo tocco alla cottura, perché siano cremosi al punto giusto, e mantengano la loro consistenza senza spappolarsi. Sebbene gli uomini ai fornelli siano sempre meno rari anche tra le pareti domestiche, la competenza di Francesco ha connotati scientifici, si intravede una ricerca disciplinata dietro l’entusiasmo per la fragranza della menta dolce sui crostini al

pomodoro marinato, o per l’abbinamento tra il pane ruvido, il guanciale croccante e la mousse di cavoletti e pecorino in cui si annidano le chitarrine. Ho imparato i fondamentali guardando mia madre, capirai, sono il terzo figlio maschio, il più piccolo, e qualcuno doveva pur aiutare a cucinare, in casa. Poi ho continuato a “rubare con gli occhi” frequentando due miei amici cuochi, ai quali facevo “da sguattero”, e ho continuato a documentarmi, come faccio sempre per gli argomenti che mi appassionano. Oggi in casa a me spetta la cucina, mentre Franca si occupa del resto, ci siamo divisi i compiti in questo modo e devo dire che funziona alla perfezione. Agli ospiti delle cene in famiglia 2012, tra i quali anche Elena Fiorio e Stefano Paganini, autori delle foto di queste pagine, Francesco ha servito un antipasto di crostini misti (speciali quelli con fegatelli, profumati alla salvia e limone); come primo ho proposto lo gnocco ripieno al ragù: una sfoglia ricavata da un impasto simile a quello degli gnocchi di patate, arrotolata intorno a un ripieno a base di carne di maiale tritata ed erbe di campo, condito con un ragù nobile di maiale al pomodoro e completato da una spolverata di parmigiano. Anche qui c’è un segreto: a fine cottura aggiungo al sugo un poco di pomodoro crudo, che con il suo tono leggermente acidulo riequilibra la morbidezza della pasta di patate. A seguire medaglioni di filetto di maiale racchiusi in una fetta di pancetta tesa affumicata, aromatizzati all’alloro, serviti con funghi porcini e, per rispettare la tradizione, coniglio in porchetta con patate. Infine, una crostata guarnita con la marmellata di fichi che prepara la mamma di Franca, accompagnata dal vinsanto.

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foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie

Montefabbri di Colbordolo, le mura e alcuni scorci del borgo; nella fotografia in basso a sinistra si intravede il campanile della pieve di San Gaudenzio.

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luoghi

Montefabbri, piccolo borgo antico

E

ntrato nel

2006 a far parte del club dei Borghi

più belli d’Italia, Montefabbri merita a pieno titolo il prestigioso riconoscimento: le case strette intorno alle stradine acciottolate, il piccolo bar, la pieve, tutto concorre a fare di

Monte-

fabbri uno scrigno di pace e tranquillità, racchiuso nella

Sullo sfondo, il paesaggio che Raffaello portava nel cuore: poco lontano, a Colbordolo, comune del quale Montefabbri è oggi frazione, nacque infatti Giovanni Santi, padre dell’artista della divina pittura. Le prime notizie su questo castello dall’intatta struttura urbanistica risalgono al 1216. Appartenente alla famiglia dei Fabbri, che nel 1233 risulta proprietaria anche di parte del castello di Monte Santa Maria, secondo gli storici Montefabbri si sviluppò nel XIII secolo intorno alla pieve di San Gaudenzio, su impulso degli abitanti di un vicino castello, del quale non è nota l’esatta ubicazione. Come era avvenuto a Montelabbate nel 1540 con i Leonardi, e come avverrà con i Mamiani a Sant’Angelo in Lizzola nel 1584, nel 1578 anche Montefabbri fu concesso in feudo dal duca di Urbino a uno dei suoi gentiluomini di corte, l’architetto Francesco Paciotti (1521-1591), allievo di Girolamo Genga e noto progettista di strutture militari. Negli anni dei Paciotti Montefabbri conobbe un periodo di relativa prosperità, come testimoniano l’acquisizione da parte della famiglia del mulino di Pontevecchio, e l’apertura di una fabbrica di ceramiche, che contribuì a dare impulso alle attività arti-

cerchia muraria

gianali. La famiglia si estinse nel 1744. Montefabbri perse definitivamente l’autonomia nel 1869, quando divenne frazione di Colbordolo. Sull’arco d’ingresso, recentemente restaurato, si nota una formella con la Madonna del latte; all’interno c’è invece lo stemma dei Paciotti. La breve salita conduce alla pieve di San Gaudenzio, che domina il tessuto di stradine del paese.Visitabile su prenotazione, la pieve è citata per la prima volta in un documento della prima metà del Mille. Da segnalare all’interno della pieve le decorazioni in scagliola del XVII secolo, mentre nella cripta sono custodite le spoglie di Santa Marcellina, vergine e martire del III secolo. Ogni anno, l’ultima domenica di luglio l’urna con Santa Marcellina è portata in processione per le vie del paese. Il nome di Montefabbri è legato a quello di un altro santo molto amato nella nostra zona, il Beato Sante Brancorsini, che qui nacque nel 1343 e al quale è dedicato il santuario presso il convento dei Frati Minori di Scotaneto, presso Mombaroccio (miss nettle). Info: www.comune.colbordolo.pu.it - 0721 49621.


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Claudia Urbinati e Martina Paolucci Nel 2000 Claudia Urbinati decide di ‘inventarsi’ un nuovo lavoro, che le permetta di stare più vicina alla famiglia: nasce così, un po’ per caso, sorride Claudia, la Gelateria Torteria Polo di Petriano, divenuta oggi un punto di riferimento per i gourmet della zona tra Pesaro e Urbino. Ingredienti di stagione accuratamente selezionati, controlli costanti e attenzione alla cultura del territorio sono i punti di forza dei prodotti della Gelateria Polo, vincitori di numerosi premi in manifestazioni nazionali. Insieme con Claudia, che nel 2010 ha conseguito la qualifica di Maestro Gelatiere Specializzato, lavora da qualche tempo sua figlia Martina Paolucci. Nata nel 1986, diplomata all’Istituto alberghiero Santa Marta di Pesaro, sin da giovanissima Martina ha alternato studio e lavoro a fianco della mamma e, dopo un’esperienza biennale come receptionist in un hotel di Urbino, ha deciso di occuparsi a tempo pieno nella micro-azienda di famiglia. La sua specialità? elegantissime - e squisite - torte glamour personalizzate (info: www.gelateriapolo.it). Tra le prelibatezze in ‘stile Montefeltro’ della Gelateria Polo c’è anche la torta “Federico” (a sinistra), dedicata al Duca di Urbino, un raffinato semifreddo caratterizzato dall’aroma del visner, il vino liquoroso ottenuto dalle ciliegie visciole.

I produttori della Valle del Foglia L’Associazione Produttori della Valle del Foglia riunisce più di cinquanta imprese della provincia di Pesaro e Urbino operanti nel settore agricolo, accomunate dall’intento di valorizzare i prodotti del territorio e la loro cultura. Guidata dall’infaticabile presidente Luciano Baronciani, figlio, nipote e pronipote di agricoltori, l’associazione promuove attività di ricerca con l’apporto di specialisti del settore e fornisce agli associati assistenza tecnica e commerciale; nell’impegno di salvaguardare il patrimonio di relazioni e la cultura rurale del territorio di riferimento, i produttori della Valle del Foglia sono particolarmente attenti anche alle iniziative di promozione, come ben rileva lo Statuto dell’associazione. Luciano e l’Associazione Produttori della Valle del Foglia collaborano dal 2012 a Un paese e cento storie, sostenendo le degustazioni e gli assaggi di prodotti del territorio (info: info@agribaronciani.com). 40 |

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foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie

Alice e Andrea Aiudi “Montelippo 1910” si legge sulla pietra posta all’ingresso della proprietà, che da secoli le mappe registrano come “casino Montelippo”, forse memori di signorili battute di caccia del tempo che fu. Per tutto il Novecento abitato da famiglie di pastori, il casolare situato a Capponello di Colbordolo è stato acquistato dalla famiglia Aiudi nel 2004 e, dopo anni di accurati lavori di recupero, realizzati in gran parte secondo le regole della bioedilizia, nel 2011 l’azienda agrituristica Montelippo ha finalmente accolto i primi clienti. E’ un sogno realizzato, sorride Alice Aiudi, che insieme con il fratello Andrea e i genitori Giuliano e Ivana porta avanti l’attività. Un “sogno” in realtà saldamente poggiato sulla terra e sui suoi ritmi, costruito passo dopo passo, che si fa forte dell’esperienza di tutti i membri della famiglia. Giuliano sovrintende all’azienda agricola, mentre Alice si occupa in particolare dei duemila metri quadrati di piccoli frutti nella cui produzione la Locanda Montelippo è specializzata; Ivana segue l’amministrazione e Andrea porta in cucina la preziosa esperienza maturata in quindici anni di lavoro in Italia e all’estero, dove è stato executive chef di una prestigiosa catena alberghiera. Proprio la cucina è uno dei punti di forza di Montelippo: rispettati nelle loro caratteristiche essenziali, i piatti della nostra tradizione sono rivisitati da Andrea con lo stile del cuoco di razza, con un’attenzione alla qualità che gli ospiti non mancano di sottolineare, come dimostra l’ottima reputazione della locanda sul web. Seduti al fresco della veranda o, nella stagione autunnale, davanti al camino intorno al grande tavolo dello chef, gli ospiti della famiglia Aiudi possono gustare carni bianche e ovine prodotte in proprio insieme con opulente grigliate di carni rosse marchigiane allevate nei dintorni, accompagnate da verdure dell’orto situato a poca distanza dal casolare. Intorno alla locanda crescono anche le erbe aromatiche che profumano i piatti, mentre dal forno a legna escono ogni giorno arrosti, torte e focacce. Non manca naturalmente la pasta fatta in casa: passatelli, maltagliati, tagliatelle preparate da un drappello di esperte sfogline; completano la carta di Montelippo menu per vegetariani e celiaci. Su richiesta la sala ristorante può accogliere anche piccoli convegni e conferenze, grazie al wi-fi e all’impianto per videoproiezioni. Tra i dettagli che a Montelippo fanno la differenza ci sono le riproduzioni dei secenteschi acquerelli di Francesco Mingucci, raffiguranti i borghi e i castelli un tempo compresi nel territorio di Colbordolo; gli stessi luoghi dai quali le camere prendono i loro nomi suggestivi; infine, nel punto vendita aziendale si possono acquistare le delikatessen prodotte dalla famiglia Aiudi, come le confetture e le marmellate, i succhi di frutta, i sughi e le verdure sottolio. Nel 2012 la Locanda Montelippo ha ottenuto, primo nella nostra regione, il riconoscimento di Agriturismo Campagna Amica - Coldiretti, che certifica le strutture ricettive operanti nel rispetto della carta dei valori della Fondazione Campagna Amica e della carta di accoglienza di Terranostra, secondo un disciplinare che valorizza le produzioni locali e le reti di aziende agricole del territorio (info: www.montelippo.it). in cucina con l a dirce

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Se la Dirce quest’anno si è trasformata in un charm a edizione limitata lo si deve anche all’attenzione e alla competenza del gruppo Basili Gioielli di Bottega di Colbordolo, e alla creatività di Stefano e Michela Basili, che hanno suggerito questa inedita declinazione della nostra cuoca. In fin dei conti il laboratorio di un orafo non è così lontano dalle cucine di “Un paese e cento storie”, osserva Stefano: e il filo rosso che li unisce è il fuoco, che in entrambi i casi trasforma e accorda materie e colori. Nel nostro caso, poi, prosegue sul filo della magia, lavoriamo anche sulla qualità del fuoco stesso, “domato” nei cannelli fino a diventare strumento di incredibile precisione. Siamo di nuovo dalle parti dell’alchimia, anche se nulla ha di alchemico la professionalità che irradia da questi gioielli, realizzati grazie alla perfetta unione tra tecniche di lavorazione arcaiche e strumenti dalla tecnologia avanzatissima. Una ventina i collaboratori del laboratorio che, oltre a produrre per conto delle più grandi griffes del settore, propone pezzi unici di gioielleria d’artista e collezioni create personalmente da Stefano e Michela. Il mio intento è far rivivere i fasti dei grandi orafi del primo ‘900, commenta ancora Stefano, formatosi all’Istituto d’Arte di Pesaro e poi a sua volta per lungo tempo insegnante, artisti che possedevano solide basi di cultura artigianale e operavano in un clima di ricerca e sperimentazione, creando insieme con le loro maestranze capolavori capaci di sfidare il tempo. Il laboratorio accoglie il cliente in un’atmosfera che ricorda da vicino, con i debiti aggiornamenti, le botteghe artigianali di una volta: accanto a due laser in grado di incidere, modellare e saldare figure quasi invisibili a occhio nudo, ragazze e ragazzi provenienti da ogni parte d’Italia sono concentrati ai loro banchi a incastonare, laminare, lucidare, compiendo con passione gesti carichi di memoria. Non manca il punto vendita interno, al quale si accede su appuntamento. Realtà pressoché unica nella nostra provincia, il laboratorio Basili è in grado di eseguire l’intero ciclo della lavorazione di un gioiello: dalla scelta delle materie prime e delle pietre, tutte certificate anche riguardo alla sostenibilità etica e ambientale, alla realizzazione di prototipi, per i quali ci si avvale di sofisticati sistemi di progettazione CAD e stampanti 3D, senza dimenticare le innumerevoli fasi produttive intermedie (info: www.basiligioielli.it). A destra, una selezione di anelli caratterizzati dal motivo del cuore, scelti da Stefano e Michela per illustrare questa pagina in omaggio al décor del grembiule della Dirce.

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foto Basili Gioielli

Stefano e Michela Basili


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foto Bartolucci Francesco srl, Studio Picchio, Luca Cardinali per Un paese e cento storie 2012

Francesco Bartolucci (e Pinocchio)

Se la cucina di Mamma Ida ha visto nascere nel 2005 Un paese e cento storie, gli occhi curiosi delle creature di suo figlio Francesco Bartolucci ne hanno da subito accompagnato il cammino. Uccellini, angioletti, cuccioli di ogni tipo punteggiano le case di Belvedere Fogliense - e le immagini delle cene ‘in famiglia’ - affiancandosi a Pinocchio, che nell’antica Montelevecchie ha trovato una seconda casa, e che dell’impresa di famiglia è un po’ il simbolo. Proprio con un Pinocchio intagliato in un piccolo laboratorio sotto casa (la stessa dove oggi Ida accoglie gli ospiti di Un paese e cento storie) è partita nel 1981 l’avventura di Francesco, che in oltre trent’anni di successi ha portato il nome di Belvedere nel mondo; impossibile ripercorrerne qui tutte le tappe: ricordiamo solo che tra le attestazioni di stima di cui in ditta vanno più orgogliosi c’è, e a ragione, un biglietto di ringraziamento di Michelle Obama, le cui figlie hanno visitato durante il G8 del 2009 il punto vendita Bartolucci di Roma. Ma la storia di Francesco ha radici lontane: una fotografia del 1936 mostra suo padre e gli zii insieme con i dipendenti della fabbrica di fisarmoniche Bartolucci, la cui attività cessò negli anni della seconda guerra mondiale ma che è tuttora ben presente nella memoria del paese. In questa vecchia foto ci sono mio padre Matteo e i suoi fratelli Leopoldo, Ernesto e Silvio, gente semplice, bravi lavoratori dalle mani grandi come le mie. Sono fiero e orgoglioso di essere come loro: nelle mie vene c’è il loro sangue e le mie mani sono le loro mani,

commenta Francesco di fronte a questa immagine. “Famiglia” è una delle parole chiave di Un paese e cento storie, e anche uno dei valori grazie ai quali la Bartolucci Francesco srl è stata inserita nell’Archivio della Generatività Italiana (Istituto “Luigi Sturzo” - Alta Scuola in Media Comunicazione e Spettacolo), che raccoglie e testimonia casi esemplari di imprenditori capaci di unire nella loro quotidiana fatica economia, creatività, solidarietà, attenzione al territorio. Con Francesco lavorano le sue due sorelle Anna Maria e Chiara (il fratello Stefano è invece un affermato musicista), la moglie Mariagrazia Stocchi, che sovrintende alla gestione amministrativa dell’impresa, e i figli Maria e Giovanni; l’organico dell’azienda conta oggi trentacinque persone, cui si aggiungono altrettanti addetti alle vendite della Bartolucci Italy. Sin dalla prima edizione di Un paese e cento storie Mariagrazia è una delle cuoche di punta delle cene in famiglia, per le quali riesce immancabilmente a trovare tempo ed energie nelle sue giornate scandite da mille impegni. Già dal 2010 per Un paese e cento storie la ditta Bartolucci realizza i segnaposti personalizzati (a sinistra, “la Dirce” edizione 2012), oltre ad aprire al pubblico la bottega di Via Parrocchiale nella giornata conclusiva. Ma l’apporto della famiglia Bartolucci alla nostra festa è assai più grande, come ben sanno “la Dirce” e i nostri ospiti, che alla ‘casa di Pinocchio’ sono particolarmente affezionati (info: www.bartolucci.com). in cucina con l a dirce

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La Dirce, e gli altri

Osteria del Baffon A Candelara di Pesaro la Dirce ha trovato casa all’Osteria del Baffon, chiusa da molti anni ma che dal 2012 la famiglia Giorgi riapre eccezionalmente per accogliere “Un paese e cento storie” fotografie

Lorenzo Di Loreto

Tra le porte che si aprono per accogliere gli ospiti di Un paese e cento storie c’è anche quella dell’Osteria del Baffon di Candelara, borgo sulle colline di Pesaro, fino al 1929 comune autonomo poi unito al capoluogo. Ma cosa c’entra un’osteria con le “cene in famiglia”? C’entra eccome, risponde convinto Andrea Biancani, assessore ai Quartieri del Comune di Pesaro, che dal 2012 partecipa alla kermesse della Dirce. L’osteria in questione, infatti, è chiusa al pubblico ormai da molti anni, e proprio per Un paese e cento storie riapre eccezionalmente i battenti grazie all’impegno della famiglia Giorgi. Ermes, Stefano, Noemi e Paola Giorgi, nipoti di Odoardo, detto Baffon, sono tra gli artefici di una delle più attese serate della festa. Ci piace contribuire alla vita del nostro paese, sottolinea Ermes (per tutti Giorgio), specie se si tratta di iniziative che valorizzano la nostra storia, e che permettono anche a tanti abitanti del paese di ritrovarsi in amicizia. I racconti di Ermes sono popolati di figure bizzarre e di aneddoti: qui era un teatro tutti i giorni, ricorda, dalle due del pomeriggio fino all’avemaria l’osteria era sempre piena; sul tardi arrivavano gli uomini dopo il lavoro, Candelara era un paese di muratori... ne ho viste tante, tra scherzi e discussioni politiche ci sarebbe da riempire un libro. Proprio come in Amarcord di Fellini. Insieme con i fratelli Giorgi anima delle serate candelaresi di Un paese e cento storie è Alberto Paoletti, marito di Paola, appassionato raccoglitore di memorie locali. Siamo molto grati alla famiglia Giorgi, conclude Maris Galdenzi, presidente del Quartiere 3 “Colline e Castelli” del quale Candelara è parte, così come alle Associazioni che collaborano al progetto, dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso alla Pro Loco al Circolo ACLI: è anche grazie a loro che queste piccole realtà si sono mantenute nel tempo così vitali e attrattive anche per i turisti (c.o.). 44 |

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In queste pagine: immagini dell’anteprima di Un paese e cento storie 2012, all’Osteria del Baffon di Candelara. Nella pagina precedente, riquadrate, alcune fotografie dalla raccolta di Alberto Paoletti, esposta all’ingresso dell’osteria.

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Donne rurali

Anima verde Dal 1954 Teresa Bracci si impegna insieme con Coldiretti per un mondo migliore. Uno sguardo al femminile su quasi sessant’anni di vita nelle nostre campagne

Pesaro, 15 ottobre 2013. Elegantissima nel suo twin-set nocciola ravvivato da molteplici toni di rosso, impeccabilmente truccata e pettinata nonostante la pioggia battente e dotata di un savoir-faire di tempi lontani, che si sprigiona alla prima stretta di mano, la signora non sembra avere granché della “donna rurale”. Almeno secondo lo stereotipo. Mai fidarsi degli stereotipi, però: e infatti è proprio Teresa Bracci la giovane donna immortalata alla macchina da cucire sulla prima pagina del primo numero di “Donne rurali”, quindicinale Coldiretti, datato 30 dicembre 1954. A quasi sessant’anni fa risale l’ingresso di Teresa tra le fila di Coldiretti (ma in realtà collaboravo con l’Associazione già dal 1952, precisa), la federazione dei coltivatori nata nel 1944. Coldiretti per me è una seconda famiglia, afferma orgogliosa: non si fatica a crederle, scorrendo un’impressionante sequenza di cariche e ricono48 |

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scimenti ottenuti in oltre quarant’anni di attività, tra i quali alcune medaglie d’oro (assegnatele dall’E.P.A.C.A. - l’ente di patrocinio e assistenza Coldiretti, dalla Federazione Nazionale Pensionati Coldiretti e dalla Camera di Commercio di Pesaro e Urbino, quest’ultima per i quarant’anni di attività) e il titolo di Cavaliere del Lavoro, conferitole dal presidente Sandro Pertini nel 1981. Il suo impegno in Coldiretti continua tuttora: Teresa è oggi presidente provinciale e vicepresidente nazionale di Federpensionati, uno dei settori dell’Associazione. Nata a Pietrarubbia da una famiglia di coltivatori che, sottolinea subito, mi hanno trasmesso degli insegnamenti fondamentali, con i loro valori etici e morali, Teresa si avvicina a Coldiretti grazie a una conoscente. Negli anni in cui ero studente a Pesaro, presso l’Istituto Magistrale, stavo a pensione da una signora la cui figlia era impiegata al Provveditorato agli studi. Proprio da lei mi arrivò la proposta di


foto raccolta Teresa Bracci, Pesaro e Coldiretti, Pesaro e Urbino

frequentare, a Roma, il primo corso per insegnanti di economia domestica nelle campagne, che Coldiretti stava organizzando. Mi ero appena iscritta al corso per assistenti sociali a Urbino, e l’argomento mi apparve subito interessante: vengo da una realtà contadina, e già allora ero consapevole dell’importanza di istruire le donne, alle quali era affidata la gestione della casa ma che spesso svolgevano nei campi anche i lavori più pesanti. Tra le materie dei corsi, documentati tra l’altro da una bella raccolta fotografica ed emerografica custodita nell’archivio storico della sede Coldiretti di Pesaro, figurano puericultura, economia domestica, igiene e infortunistica, organizzazione sindacale e pollicoltura. Pollicoltura? Sì, nel dopoguerra la domanda di carne e uova aumentò, e l’allevamento dei polli era un’attività relativamente semplice da impiantare anche in spazi ridotti. Per le famiglie rappresentava un’entrata in più: spesso se ne occupavano proprio le donne. A Roma Teresa entra in contatto con molte personalità del periodo, tra le quali il fondatore e primo presidente di Coldiretti Paolo Bonomi, deputato democristiano alla Costituente e al Parlamento, vicino ad Alcide De Gasperi. C’era ancora

Pio XII, con la sedia gestatoria... quanti papi ho visto nella mia vita! si schermisce non senza un po’ di civetteria, ben sapendo che gli anni e le fatiche quotidiane assai poco hanno inciso su una vitalità per niente appannata dai casi della vita. Nel maggio scorso con i dirigenti Coldiretti siamo stati anche in udienza da Benedetto XVI. Quando sono tornata a Pesaro il direttore della sede provinciale mi ha proposto di organizzare un corso di economia domestica nel mio comune, da lì abbiamo tenuto lezioni un po’ in tutta la provincia, per esempio a Orciano, Carignano, Colombarone... Pur con qualche diffidenza - comprensibile in una società che solo nel 1946 aveva concesso il voto alle donne - i corsi riscuotono grande successo, e a Teresa viene offerto un posto in Coldiretti, dove era da poco stato istituito il patronato E.P.A.C.A. Era tutto da inventare, ricorda con fervore. Nel 1955, appena arrivata in ufficio, dopo un periodo di prova, trovai ad attendermi 700 pratiche, quasi tutte riguardavano i danni di guerra. In più era stata appena approvata la legge 1.136 (22 novembre 1954 n.d.r.), con cui si estendeva l’assistenza malattia ai coltivatori diretti: prima gli agricoltori stipulavano contratti personali con il medico o il veterinario, ma non tutti potevano permetterselo. L’altra grande conquista, la pensione ottenuta con l’estensione dell’assicurazione per l’invalidità e vecchiaia, arrivò nel 1957. Avevo uno stipendio di 22.000 lire al mese, 18.000 se ne andavano per pagare l’affitto della camera, lavoravamo anche dopo cena per non restare indietro con le pratiche. Nel 1958 divenni dirigente, ma pur avendo una quindicina di collaboratori (a Pesaro ricordo Annamaria Guerri e Filiberto Giunti), ho sempre mantenuto i contatti con il pubblico, il mio ufficio era sempre aperto.

Alcune tra le più significative tappe della vita lavorativa di Teresa Bracci. Sopra, in senso orario: Pietrarubbia, 1954. Primo corso per donne rurali: Teresa è in primo piano, con la giacca bianca. Roma,1974. XIV Convegno nazionale dirigenti E.P.A.C.A. Roma, 1955. Foto di gruppo per le allieve del I corso E.P.A.C.A. A destra: 1986, XXI Convegno nazionale dirigenti E.P.A.C.A., le prime quattro donne dirigenti del patronato. Teresa è a destra nella foto, con il tailleur nocciola. in cucina con l a dirce

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foto raccolta Teresa Bracci, Pesaro

“La donna rurale”, numero I, 30 dicembre 1954. Sulla prima pagina Teresa Bracci durante una lezione di cucito.

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Nel 1995 Teresa raggiunge l’età della pensione. In occasione della nascita di Giulia, la prima nipotina, lascia l’ufficio ma non l’impegno sociale: quasi subito, infatti, viene eletta presidente provinciale di Federpensionati. Un ruolo che mi ha permesso di mettere a frutto l’esperienza maturata in tanti anni, e che ancora mi dà tante soddisfazioni e stimoli. Compreso il “battesimo dell’aria”: sì, perché pochi anni fa per la prima volta sono salita su un aereo, per raggiungere Palermo, dove si teneva l’assemblea nazionale della nostra associazione. Spesso Coldiretti inseriva nei suoi programmi dei viaggi per i corrispondenti locali, ma un po’ per gli impegni di famiglia, un po’ perché avevo paura dell’aereo non ho mai colto queste occasioni. Impossibile elencare tutti i gruppi di studio e lavoro ai quali Teresa ha dato il suo apporto, dal Comitato provinciale INPS alle Commissioni Pari Opportunità della Regione Marche e del Comune di Pesaro, fino al gruppo di studio Coldiretti sulla legge Turco per il welfare, nei primi anni Duemila. Tra le esperienze più significative non esita a segnalare il viaggio a Lourdes con l’UNITALSI: davvero ci si sente più vicini al Signore, è un’incredibile lezione di vita incontrare i malati, si torna più sereni e grati per quello che abbiamo, noi che siamo abituati a lamentarci anche senza ragione. Domani Teresa sarà a Roma, insieme con i dirigenti della sede provinciale di Coldiretti. Per niente impensierita dalla levataccia (partiremo verso le cinque di mattina, osserva sfogliando l’agenda), corre a casa a preparare il pranzo per le sue “nipotine” Giulia (il nome di mia mamma), 18 anni e la dodicenne Elena, legatissime alla nonna. Due nipoti, due figlie (Susanna Maria e Nadia Maria), Giuseppe, un marito mancato troppo presto, e un numero imprecisato di pratiche portate a termine con successo: in mezzo, una vita impegnativa affrontata con il sorriso sulle labbra. Non esco mai senza rossetto, sarà perché sono sempre stata al pubblico, ma anche quando porto via la spazzatura o vado a fare la spesa cerco di avere un certo decoro. Il decoro, già. Dovremmo tutti tenerlo bene a mente (c.o.).


La Dirce, e i suoi amici | 6

Campagna Amica - Coldiretti Tra i meriti e gli obiettivi raggiunti dal progetto Campagna Amica, dai mercati degli agricoltori, c’è quello di aver creato uno dei pochi luoghi fisici in questo paese che fa star bene la gente. Perché la gente, nonostante le difficoltà e nonostante debba pagare, lì ritrova un po’ i valori in cui vorrebbe riconoscersi. E questo ha un valore materiale e immateriale enorme, soprattutto in questo momento. Le persone vogliono vivere in un ambiente pulito, dove lo sviluppo sia sostenibile, dove ci sia sensazione di giustizia e di democrazia economica, l’idea che quello che sta comprando lo paga il giusto perché dentro ci sono una serie di valori materiali e immateriali, anche di sicurezza, che lo rendono soddisfatto. Ecco, la gente vive di questo. Ci stiamo facendo un’idea nostra di quello che è il futuro dell’Italia. Ma la strada non è seguire le economie di scala perché questo non è compatibile con quello che vuole la gente, perché la gente vuole un reddito dignitoso, una casa, un ambiente civile, sostenibile, pulito, giusto. Noi stiamo insegnando a chi non lo vuole ancora capire che è possibile trovare una via italiana per la competizione, sia nel mercato interno, sia nel mercato internazionale: la via di arricchire tutto quello che facciamo con ciò che abbiamo di unico ed esclusivo. Sono molti i punti di contatto tra il format di Un paese

e cento storie e il modello di società tratteggiato dalle parole di Sergio Marini, presidente di Coldiretti, nel suo recente intervento al consiglio nazionale della Confederazione. Dal 2012 Coldiretti è partner di Un paese e cento storie, a cui partecipa anche attraverso l’apporto della Fondazione Campagna Amica, con la Bottega Campagna Amica di Pesaro: i valori di Un paese e cento storie sono anche i nostri valori, ribadisce Tommaso Di Sante, presidente provinciale Coldiretti, e abbiamo aderito con entusiasmo al progetto, anche per la sua capacità di aggregazione. Da tempo Coldiretti promuove un modello di agricoltura multifunzionale, capace cioè di produrre buoni cibi ma anche di essere utile alla società, con servizi e buone pratiche, conferma Giannalberto Luzi, che di Coldiretti è presidente regionale. In questa linea si colloca l’azione di Campagna Amica, che sostiene l’agricoltura italiana negli ambiti della vendita diretta al consumatore e del turismo, con particolare attenzione al tema dell’ecosostenibilità. Filiera corta, stagionalità, no OGM, provenienza dei prodotti e chilometro zero sono i punti intorno ai quali Campagna Amica ha costruito una rete di soggetti (aziende agricole accreditate, Botteghe e mercati) impegnati a far crescere la cultura di una spesa più consapevole. Una cultura che da sempre è la base della nostra tradizione alimentare, e che costituisce la vera essenza del made in Italy. La bottega Campagna Amica di Pesaro si trova in Strada dei Cacciatori, 9 (tel. 0721 281892). Info: www.coldiretti.it; www.campagnamica.it; pesaro@coldiretti.it in cucina con l a dirce

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foto Cristina Ortolani, Biblioteca Oliveriana, Pesaro


foto Archivio Stroppa Nobili, Pesaro

La cultura si mangia

incursioni cucinarie tra XVI e XXI secolo

La cucina è un luogo di trasformazione, nulla deve restare uguale. Il fuoco e i suoi alleati sono all’opera… Ciò che è duro deve essere intenerito; gli odori e i sapori che vi sono imprigionati devono rivelarsi: cucinare è come dare il bacio magico che ridesta il piacere addormentato. Ma da sola, la cucina è morta. Perché viva, occorre un’anima: il cuoco. Un pasto è l’anima del cuoco fatta cibo Rubem A. Alves, Parole da mangiare, 1998

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Karen Blixen, Il pranzo di Babette, 1952

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foto Archivio Stroppa Nobili; collezione Elio Giuliani; Biblioteca Oliveriana, Pesaro

Io sono una grande artista - disse. Aspettò un momento, poi ripeté: - Sono una grande artista, mesdames. ...Povera? - disse Babette. Sorrise come a se stessa. - No. Non sarò mai povera. Ho detto che sono una grande artista. Un grande artista, mesdames, non è mai povero. Abbiamo qualcosa, mesdames, di cui gli altri non sanno nulla.


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foto Lorenzo Di Loreto, Pesaro; raccolta Achille Vagnini, Sant’Angelo in Lizzola; Archivio storico Comunale, SAnt’Angelo in Lizzola


foto Lorenzo Di Loreto 56 |

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foto Lorenzo Di Loreto, Pesaro; collezione Cristina Ortolani; Carolyn Guyer; Elena Fiorio, Milano

A san Martino ogni mosto è vino

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foto Archivio di Stato di Pesaro; Archivio Stroppa Nobili; Cristina Ortolani, Pesaro; trascrizione documento a cura di Simonetta Bastianelli

Pesaro, 1851. Manicomio di San Benedetto. “Distinta del trattamento di vitto per gli Alienati, Impiegati ed Inservienti”

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Prima classe - Alienati Comuni Colazione: Pane e vino, ovvero Zuppa al brodo; Pranzo: Minestra, lesso, una piettanza; pane e vino; Cena: Piettanza, o insalata, e frutti; ovvero Zuppa e piettanza; pane e vino. Seconda Classe - Alienati Pensionarj Colazione: Caffè col latte, cioccolata, od altro che loro aggrada, e crostini di pane; Pranzo: Minestra, lesso, due piettanze, formaggio e frutti, pane e vino, e appresso Caffè, se non nuoce alla cura; Cena: una piettanza, insalata ovvero Zuppa al brodo, formaggio e frutti, pane e vino. Impiegati Colazione: Caffè col latte, o col cioccolato, e crostini di pane; Pranzo: Minestra, Lesso, una piettanza, formaggio e frutti; pane e vino; Cena: Piettanza, insalata e frutti; pane e vino. --------Il Cappellano in quei giorni che fosse obbligato di rimanere all’Ospizio per l’assistenza di qualche moribondo, sarà trattato secondo la indicata norma. --------Inservienti Colazione: Pane e vino; Pranzo: Minestra, lesso, una piettanza; e pane; Cena: Pane e vino. n.b. Invece della piettanza per la cena gl’inservienti ricevono un giornaliero compenso in denaro.


foto Archivio Storico Comunale, Pesaro in cucina con l a dirce

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Enzo Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione, 2010

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foto Archivio Stroppa Nobili, Pesaro; Famiglia Luigi Nobili, Monteciccardo

Di tutto il mobilio che arreda una casa, la tavola è forse l’elemento più eloquente. ...La tavola è il luogo privilegiato per la parola scambiata, per il dialogo: si comunica attraverso il cibo che si mangia e attraverso le parole che si scambiano. Se è degna di tal nome, la tavola si accende quando ci sono invitati.


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foto Lorenzo Di Loreto, Archivio Stroppa Nobili; Archivio Storico Diocesano, Pesaro


Opera di m. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di papa Pio V, in Venezia, appresso Alessandro Vecchi, 1598 (Biblioteca Oliveriana, Pesaro).

Raccolta Cristina Ortolani. Un paese e cento storie: da sinistra, il dolce alla ricotta con marmellata di mirtilli di Stefania Mariotti; una melagrana in casa di Marcella Ugolini (2011); la zuppa inglese di Loretta Mariotti e Bruno Sabbatini (2005). Campioni per abiti da sposa delle Manufactures de soyeries di Lione (1885 circa) e, infine, l’ospedale psichiatrico San Benedetto di Pesaro in una fotografia del settembre 2011.

Archivio Stroppa Nobili. Prima fila, da sinistra: Pesaro (?) anni Quaranta del ‘900; “Casciotta di latte”, 1835 (da un libro di spese di famiglia, ambito pesarese); Pesaro, il mercato sotto i portici di Corso XI Settembre, 1890 circa; Pesaro, Trattoria Milanese, ricevuta, 1904. Seconda fila, da sinistra: Pesaro, Trattoria del Piccione, ricevuta, 1921; Pesaro, 1813, “Assortimento da Tavola per dodici coperte di terraglie scadenti”, ordine alla manifattura di ceramica Casati e Callegari; cartolina postale con pubblicità dell’Emporio Garattoni di Sant’Angelo in Lizzola, 1914.

Collezione Elio Giuliani. Assunta Dori (Pesaro, 1847-dopo il 1865), Carciofi, tempera su carta (1865).

Raccolta Achille Vagnini. Sant’Angelo in Lizzola, fine anni Cinquanta del ‘900. Il frantoio Vagnini, ricavato alla metà degli anni Venti dalla chiesa seicentesca della Madonna del Carmine; a colori, l’affresco dell’altare maggiore della chiesa, oggi assai deteriorato.

Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta.

foto Fausto Schiavoni

Esodo, 12, 11, trad. CEI 2008

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Raccolta Concetta Mattucci, Pesaro. Costanza Croce Porta in una fotografia del Maggio 1860; una pagina del suo ricettario (1874) e, sullo sfondo, il Quaderno di ricette gastronomiche della nipote Luisa Carnevali Spada, iniziato negli anni Trenta del ‘900.

Archivio Storico Comunale, Sant’Angelo in Lizzola, “A conciar l’oliva verde”, manoscritto, fine XVI secolo.

Lorenzo Di Loreto, Un paese e cento storie 2012. Prima fila, da sinistra: Monteciccardo, le olive e i vigneti dell’azienda agricola “Il Conventino”; Sant’Angelo in Lizzola, una tavola delle cene in famiglia;Villa Caprile, sede dell’Istituto Agrario “A. Cecchi”, ritratto dell’esploratore Antonio Cecchi. Seconda fila, da sinistra: “Vigneti di Villa Caprile”, bottiglia per il vino prodotto dall’azienda agricola scolastica; un affresco delle sale interne; un trattore e i vigneti. Infine, SAnt’Angelo in Lizzola, un dettaglio di una delle case delle cene in famiglia. Elena Fiorio Un paese e cento storie 2012. Il “Trimpilin”, prodotto dall’Azienda Agricola Selvagrossa di Pesaro.

Carolyn Guyer, quilt realizzato con tessuti ricavati da biancheria da tavola segnata dall’uso.

Archivio di Stato di Pesaro. Manicomio di San Benedetto, Statuto, 1851.

Archivio Storico Comunale, Pesaro. Da sinistra: anni Sessanta del ‘900, il mercato di Piazza delle Erbe, nel chiostro dell’ex convento di San Domenico) e il Regolamento di Polizia Urbana, 1880.

Raccolta Luigi Nobili, Monteciccardo. Rinfresco e pranzo serviti in occasione dell’inaugurazione della fontana di Villa Ugolini, 1958.

Archivio Storico Diocesano, Pesaro. Sant’Angelo in Lizzola, 1923. Chichén de Chieveron, la famiglia del trattore Francesco Tucchi (Fondo G. Gabucci).

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Stuzzicherie Oliveriane di

Tra storia e cucina, divagazioni al gusto pop dai manoscritti della Biblioteca Oliveriana di Pesaro

Giovanna Pdi atrignani Autore

Non è facile scovare tra le migliaia di manoscritti Oliveriani documentazione riguardante cibi e gastronomia, perché scarsissima e ben nascosta tra intricati tomi miscellanei. Ne ho selezionati otto, tutti inediti, altrettanti flash sul settore culinario di Pesaro tra Seicento e Settecento, un ambito ancora insondato di ricerche, foriero di ulteriori scoperte.

“Nota di più sorta d’agrumi, che si trovano ne’ giardini di S.A.S.” BOP, ms. 949, 89, cc. [489r-v]

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Cedrati bianchini introdotti dalla buona memoria di Ferdinando/ Cedrati comuni/ Lumie di Valenza/ Tondini rossi di S. Ridino/ Limoni spongini/ Limoni spada fuori/ Limoni dolci grossi/ Limoni dolci piccoli/ Limoni pane di Pietra Santa da Piero Manetti/ Limoni a scorza di Pietra Santa da Piero Manetti/ Limoni di S. Domenico detti spada fuori bastardi fior doppio/ Limoncelli di Napoli grossi/ Limoncelli di Napoli di sorte piccola da Piero Manetti/ Limoni ponzini di Gaeta/ Limoni ponzini di S. Remo/ Limoni detti pomi di Adamo/ Limoni scannellati di Napoli da Giovanni Manetti/ Limoni a forma dei dolci piccoli, che sono agri/ Limoni detti ballottini di Genua/ Limoni detti il Paradiso/ Limoni detti calcedoni, che sono della sorte del bianchino/ Limoni di Sila/ Limoncello in canellata/ Limoncelli senza seme Diverse sorti di aranci Arance scorza dolce/ Aranci che scherzano maschi e femmine/ Aranci della Cina/ Aranci rigati/ Aranci rigati di bianco e verde/ Aranci a forma di pomi di Adamo da Giovanni Manetti/ Aranci dolci/ Aranci di Genua/ Aranci foglia crespa/ Aranci a stilla Melangole comune/ Melangole cristate Cedri diversi Cedri comuni/ Cedri grossi di Napoli/ Cedri grossi di Salò/ Cedri grossi di San Remo.

E’ un interessante elenco anonimo di varie piante di agrumi presenti nei giardini di Sua Altezza Serenissima, senza alcun riferimento a specifiche località; ma l’essere stato conservato in un manoscritto miscellaneo insieme ad altre memorie ducali roveresche datate tra XVI e XVII secolo ne attesta l’effettivo legame con i giardini dei duchi Della Rovere (il Barchetto e nelle ville dell’Imperiale, di Miralfiore, della Duchessa), che adornavano la città di Pesaro nel Rinascimento, al pari di quanto avveniva nelle altre corti italiane. Il manoscritto documenta l’ampia varietà delle diverse piante di agrumi presenti nei giardini rovereschi, secondo la moda dell’epoca, in un prodigioso assortimento di coltivazioni e ibridazioni diverse, con molte varietà storiche di specie botaniche dalle antiche denominazioni, ormai scomparse.

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“Settembre 1637. Pranzo all’Em. S.r Card. Santa Croce et a Mons.r Ill. Grimaldi V. servito a un piatto et doi servitj di Cred. et doi di Cucina” BOP, ms. 949, 90, cc. [491r-492v]

Nel settembre 1637, sei anni dopo la morte dell’ultimo duca Francesco Maria II della di ducato Autore Rovere, senza eredi, e la devoluzione del roveresco alla Santa Sede, fu imbandito, molto probabilmente a Pesaro, un sontuoso banchetto barocco a due altissimi prelati della Legazione d’Urbino: il cardinale Antonio Publicola Santacroce (Roma, 1598-1641), trasferito il 9 giugno 1636 alla sede metropolitana d’Urbino, e il cardinale Girolamo Grimaldi (Genova 1597 - Aix en Provence 1658), nominato nel 1636 vice legato del ducato di Urbino. L’inedito e interessantissimo manoscritto oliveriano ne documenta il particolareggiato menù costituito, secondo la moda gastronomica e cerimoniale dell’epoca, e come si addiceva a convitati di particolare rango e importanza, da due “servizi di credenza” (cibi freddi) e da due “servizi di cucina” (cibi caldi). La vastissima e interminabile sequenza di portate iniziava con “pasticcio di vitella reali […], cinque pollastrelli arrosto lardati di cedro condito, serviti di gelateria trasparenti di più colori […], un prosciutto di montagna cotto in vino dentro un lavoro di pasta […], lepre intiero in cima e testa, piedi et coda […], ricottini freschi panati”. Seguivano innumerevoli piatti caldi, fra cui “minestrino di polpettone di petto di capponi […], brodetto […], capponi bolliti in letti coperti d’ova freschi spersi nel medesimo latti, zuppa sotto di pani reali, zucchero et canella […], pagnotta ripiena alla genovesi di vitella battuta […], testa di vitella senz’osso ripiena di cervella del medesimo vitella o di lingua et cervello di capretti, fettolini di prosciutto, erbette odoriferi, parmigiano grattato, rossi d’ova, spetierie et suppa di fetti di pan bruschettati […], quaglie arrosto tramezzati di punti di fegato rivolti in reti con fetti di pan dorato, limoncelli et parti di botterio montano alla milanesi, petto di vitella bollito et poi rimesso in forma con capi di latti et ghiaccio di zucchero […], storioni o altro pesce nobile cotto […], tortoretta alla genovese col zucchero et acqua di fiori, piccioni sotto banco cotti allo spiedo rivolti in reti, serviti con salse reali, et osselletti alla milanesi […]”. Per concludere “frutti d’ogni sorti secondo le stagioni, formaggio d’ogni sorti […], doi boccioli di confetti a scelta in scattoli”. Infine i valletti porgevano ad ogni commensale un contenitore per “l’acqua alle mani” con “fiori profumati”.

“De’ fichi”

BOP, ms. 313, tomo I, 18, cc. nn.

Fin dall’antichità una delle eccellenze dell’agricoltura collinare pesarese sono stati i fichi: “duodecim restes ficuum aridorum”, dodici reste di fichi secchi da consegnarsi ogni anno in settembre era il canone simbolico richiesto da Francesco Maria II della Rovere a Giulio Cesare Mamiani conte di S. Angelo in Lizzola. Gli squisiti fichi pesaresi vengono ricordati da Bembo, Castiglione e Tasso, dalle guide straniere e dai viaggiatori settecenteschi del Grand Tour. Sui fichi in generale scrive tre paginette l’erudito Salvator Salvatori (1608-‘63) che, nato a Loreto, volle sempre chiamarsi “pisaurensis” e fu la personalità più rilevante della prima Accademia Pesarese, l’Accademia degli Ostinati, fondata nel 1626. Nel primo dei cinque farraginosi tomi manoscritti di appunti e spogli di letture fatte, intitolati Palinsesto o Zibaldone, cita i numerosi passi di classici latini e greci e di autori moderni in cui sono menzionati i fichi e riporta consuetudini, usi e costumi, aneddoti e curiosità legati a questo frutto prelibato.

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Il pane cornuto di Novilara “All’egregio Signor Conte Raimondo Santinelli| Contro il pane di Novillara| Capitolo” BOP, ms. 138, cc. 309r-v

Qui usa un certo pane benedetto| che a men non posso di non mormorare| ogni qual volta a tavola mi metto.| A Voi appunto, a Voi la vo’ contare,| caro il mio Conte amato Santinelli,| che siete un uom di quei da non burlare. […] | Io son qui (e questo vel sapete)| dal mio Signor Annibale Olivieri| con cui mi passo l’ore oh quanto liete.| E mangio del suo pane ad un taglieri| e del vin bevo, che Dio vel dica| se fa scordar tutt’i mesti pensieri, […] | Adunque vi dicea ch’io mangio il pane| di questo amico, il quale non è fornaio,| vo’ dir ch’egli non fa’ con le sue mane.| Ma un paggio manda leggiadretto e gaio, | il qual ballando ogni mattina il porta | caldo siccome vien dal focolaio,| over dal forno, che ciò poco importa;| e si fa con farina ed acqua chiara| in un castel, che mai non chiude porta.| Questo castel si chiama Novillara| e gli vorrei dar lodi a precipizio| per la situazion sua bella e cara;| se non avesse un certo pregiudizio| per la forma indecente, che al pane loro| mettono que’ fornai senza giudizio. […] | Fan di due guglie una manifattura| tondetta e acuta e voglion che s’adorni| ogni pane di questa figura.| Paiono veramente e son corni […].| Chi fu colui, che primo osò di porre| a la grazia di Dio sì trista insegna?| Un sciagurato ben si può supporre.[…] | Di pecore e di buoi quest’è l’incarco; […] | E chi è d’intelletto un poco sano| permetterà che tal ribalderia| venga ad onesti commensali in mano?| Confesso il ver che nel vederla in pria| m’ammutolii, mi strinsi nelle spalle,| poco mancò nella cacciassi via.| Or per finirla e abbreviare il calle| conchiuderò che usanze sì perverse| in buona legge convenia mutarle.| Se tribunale alcun colà s’aperse,| se v’ha governatore […] o dignità diverse,| un qualcheduno prenda il calamaro,| e scriva una scomunica solenne| contro de i corni, che finor s’usaro;| e prepari la forca o la bipenne| a chi dopo del termine prescritto| da fare il pan cornuto non s’astenne.| E Voi, che avete in orrore e in despitto| i gravi esempi e siete ognor mostrato| di zelo e di pietade esempio invitto,| Conte mio caro, nel vostro Senato| fate una demostenica invettiva| contro simil costume empio e malnato;| ch’io di qua griderò: oh bravo e viva. Nella sua prediletta villa di Novilara l’illustre erudito pesarese Annibale degli Abbati Olivieri Giordani (1708-‘89) ospitava il fior fiore dell’erudizione e dell’antiquaria dell’epoca. Agli aristocratici ed intellettuali commensali veniva servito il pane proveniente dal forno dell’ameno castello di Novilara: la forma del pane, provvista di protuberanze simili a corna, scandalizza uno degli habitués degli arcadici conviti, l’anonimo autore del componimento burlesco in terza rima contro il pane cornuto di Novilara, indirizzato al conte pesarese Raimondo Santinell i (1697-1774), noto per la sua probità, anch’egli abituale frequentatore di villa Olivieri, esortandolo a far cessare tale sconveniente usanza dei fornai di Novilara, contro cui invoca scomunica, forca e bipenne.

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“Pregio della cioccolata” BOP, ms. 247, c. 330r

Chi non dirà, che il ber la cioccolata non sia un atto pio e meritorio se l’anime del Santo Purgatorio l’han per loro suffragio a noi mostrata. Nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro sono conservati 91 tomi manoscritti inediti dell’erudito Giambattista Passeri (1694-1780), protagonista, insieme a Olivieri e Lazzarini, della fervida stagione culturale del Settecento pesarese. Nascosti tra le migliaia di suoi scritti ci sono anche alcuni versi dedicati ad argomenti attinenti la culinaria, che svelano un lato inconsueto e privato dell’illustre antiquario poligrafo, amante della cioccolata, bevanda di larga moda che nel XVII e XVIII secolo divenne un lusso enormemente diffuso tra la nobiltà reale e l’aristocrazia.

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“Lamento del prete per i salami rubati” BOP, ms. 248, sonetti 21-22, cc. n.n.

La perpetua di don Giovanni torna dalla cantina stravolta: “Pallida in viso […], non potea si fiatar per l’asma fiera e per l’affanno che l’avea distrutta”, essendosi accorta del furto di tutti i salami che costituivano la provvista fino al prossimo anno. “Quasi si disfece” anche il “povero prete” che, noncurante del perdono cristiano, augura ai ladri di “morire d’una schioppettata”.

“Ricetta del Rosolio inventato in Mercatello in occasione d’un nobile sposalizio e presentato alla signora sposa dal comitato della Camera alta” BOP, ms. 248, sonetto 573, c. n.n.

Prendi del mosto cotto antico e denso| granito per più lustri e ancor brillante,| stempral con acquavite penetrante,| ponvi pepe, garofali et incenso| per dargli d’amaretto un gentil senso,| stempravi un fiel di bove verdeggiante,| senape ancor per quel gentil piccante| e tutto bolla al lungo fuoco accenso.| Mistalo spesse fiate alla giornata| che s’incorpori bene, né faccia posa,| ma resti denso come farinata.| Gustalo, o vaga e leggiadretta sposa,| che è come te bevanda delicata| e dirai questa sa di| qualche cosa. Il rosolio (ros solis = rugiada di sole) è una soluzione liquorosa ottenuta dalla macerazione dei petali di rosa in alcool, acqua e zucchero. Detto “liquore del passato”, risale al periodo che va tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, quando veniva prodotto in casa e offerto agli ospiti in segno di buon augurio. Inizialmente preparato dalle suore che lo servivano per accogliere nei conventi ospiti importanti, è poi diventato il liquore delle signore per eccellenza, grazie al suo moderato grado alcolico. Antico liquore della tradizione italiana, confezionato in eleganti bottiglie e servito in preziosi bicchierini, era il liquore più utilizzato per ogni tipo di festività familiare, dai battesimi ai fidanzamenti e soprattutto, come conferma il sonetto, veniva offerto agli sposi novelli come buon augurio per una vita matrimoniale felice, poiché la tradizione associava al rosolio particolari proprietà afrodisiache.


“Un bambino regalato da un cardinale di un prosciutto di marzapane così parla” BOP, ms. 138, c. 122r

Nel mirar l’umido fiancho tutto nero e affumicato, che l’altr’ier mi fu donato per timore io venni manco. Perché il maestro mi avea detto che era un pezzo di cignale; e da un simile animale restò ucciso un giovanetto. […] Ma alla fine assicurato dalla cara madre mia, che far mal non mi potria, perché morto e disseccato, e che il Sacro Donatore ne toglieva ogni sospetto. […] Lieto appresso il labbro mio alla già temuta spoglia […]. Ma qual mai sapore io sento? Dolce, amabile, non salso; […] e in sembianza di prosciutto trovo un vero marzapane. Lieto corro al babbo, a cui il gentil disvelo inganno. […] terrò bene sempre in memoria et il dono e il donatore […]. Sono versi di anonimo settecentesco fatti dire da un bambino a cui un cardinale aveva regalato un prosciutto di marzapane. Inusuale regalo e originale tipologia per questa antichissima ricetta dolciaria, già preparata in Sicilia fin dal 1143 quando per il giorno di Ognissanti le suore della chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio crearono sorprendenti fruttini di vivacissimi colori, fatti con il marzapane e tinte vegetali provenienti da zafferano, pistacchio e rose: ebbero un tale successo, che divennero una tradizione dapprima sicula, poi diffusa in altre regioni. Da quell’anno ogni ricorrenza religiosa fu caratterizzata dal proprio soggetto di marzapane: pecorelle per Natale, agnelli per Pasqua, cavallucci per S. Antonio. Nel XIV secolo a Venezia erano già numerosi i pasticceri che confezionavano, con estrema abilità, dolci di marzapane dalle forme più varie, come minuscole opere d’arte.

Documenti: Biblioteca Oliveriana, Pesaro (BOP); magneti collezione Cesare Patrignani, Pesaro; servizio da rosolio collezione Giovanna Patrignani, Pesaro in cucina con l a dirce

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Storia di pizzi, tuiles e torroni La storia della boutique De Angelis di Pesaro si intreccia con quella del bar Gino nei ricordi di Simonetta De Angelis e di sua nipote Emilia (Milli) Filippetti di

Cristina Ortolani *

Pesaro, Corso XI Settembre 1. All’angolo del Palazzo del Governo, quasi a far memoria di una delle tante botteghe che un tempo animavano l’antica via dei Fondachi, due vetrine rimandano suggestioni di femminilità frizzante e raffinata. Sfumature rosa cipria e di lieve verde salvia si intravedono all’interno, dove una vetrata dal gusto liberty incornicia sete e pizzi che si intuiscono rari. E proprio da qualche metro di pizzo (Valencienne? Macramè? Chantilly? Meglio, forse, più nostrano sangallo) parte la storia di Simonetta De Angelis, attuale titolare insieme con la nipote Emilia Filippetti di una delle più rinomate boutiques della nostra città. I pizzi con i quali nonno Geremia incantava - immaginiamo - le signore di Borrano (frazione di Civitella del Tronto, nel Teramano), in Abruzzo, regione di origine della Famiglia De Angelis. Affabulatore sapiente, parlava anche un po’ di latino, ricorda Simonetta, Geremia De Angelis trasmette il mestiere al figlio Saverio, che appena sedicenne parte per gli Stati Uniti d’America dove intende raggiungere lo zio. Dopo il lungo viaggio a bordo del Canopic, Saverio sbarcò a Boston con soli otto dollari in tasca, come raccontano le ricerche svolte dai suoi famigliari. Ma in realtà Saverio la Merica la trova al suo ritorno in patria, nel 1927, quando la morte del fratello Mario lo induce a tornare a Fano, dove la sua famiglia aveva avviato un negozio di biancheria, e dove incontrerà Merìca Pierpaoli, 70 |

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che in breve tempo diverrà sua moglie. Verso la metà degli anni Trenta i miei genitori trasferirono l’attività a Pesaro, in un locale situato all’attuale numero 27 di Corso XI Settembre, e nel 1980 ci spostammo qui, negli spazi un tempo brulicanti degli avventori del caffè di piazza Vittorio Emanuele, in seguito affittati alla confetteria “Unica”. In quegli anni a Pesaro i negozi di biancheria si contano sulle dita di una mano, e i ricordi di Simonetta illuminano modi e consuetudini di cui oggi apprezzeremmo la sostenibilità: le liquidazioni si svolgevano esclusivamente a fine febbraio e fine agosto, e solo dagli anni Settanta, perché in precedenza al termine della stagione tutti i capi si riponevano in guardaroba, con le palline di naftalina, proprio come in casa. In negozio insieme con Simonetta c’è la sorella Giancarla, e con loro anche la simpaticissima Marta: sotto l’occhio vigile della signora Merìca, compongono un quadro tutto al femminile completato negli ultimi anni - dal 1992, e siamo così alla terza generazione - da Milli (Emilia) Filippetti, figlia di Giancarla, che con successo ha traghettato il nome De Angelis sui social network. Non avrei potuto fare altro, osserva Milli con la naturalezza di chi è ‘nato e cresciuto nel commercio’, e credo che oggi sia fondamentale, accanto al preziosissimo rapporto personale con le clienti, saper parlare anche alle generazioni più giovani, con i loro stessi mezzi. Oltre milleduecento a oggi gli “amici” Facebook di De Angelis Negozio, ai quali Milli ogni mattina dà il buongiorno e fornisce, accanto alle informazioni sulle novità della stagione, seguitissimi con-

sigli e suggerimenti di moda: anche questo significa sapersi adeguare ai tempi, sottolinea convinta. Un’evoluzione che si specchia nella sequenza di fotografie conservate da Simonetta e Milli in due ‘scrigni’ di latta decorata e velluto verde, scorrendo le quali, accanto alle vicende della nostra città, si legge una minuziosa e ben delineata storia del costume. Immagini di Simonetta e Giancarla bimbette, con gli appunti di Merìca per ricordare al fotografo i colori di un tenue ritocco; immagini aggraziate e spensierate di bagnanti che posano su una spiaggia ancora assai poco attrezzata, o di abbronzati fusti in stile Poveri ma belli, intenti a esercizi di equilibrio sul bagnasciuga. Mia madre mi raccontava di alcune signore pesaresi molto in vista multate per aver indossato il due pezzi, sorride Simonetta, naturalmente si trattava di modelli castigatissimi, ma subito dopo la guerra facevano scandalo. Ricordo ancora alcuni

costumi da bagno di lana, poi negli anni Cinquanta – Sessanta sono arrivati gli interi con il gonnellino e le stecche nel reggiseno, la silhouette era molto vicina a quella degli abiti. Poi, ancora, negli anni Settanta la rivoluzione dei bikini per allora ridottissimi, fino ad arrivare ai costumi da bagno sofisticati come vestiti haute couture, che ci siamo abituati a vedere a fianco di minuscoli triangolini di lycra e tessuti ipertecnologici. Impossibile, chiacchierando con Simonetta e Milli, non indugiare su tessuti, rifiniture, dettagli e parole (quante indossano oggi il prendisole?) attraverso i quali passa il vestire di un’epoca, lo stile di tre generazioni di donne per le quali “le De Angelis” sono più amiche che negozianti. Il nostro incontro è punteggiato da signore di diverse età (non mancano gli uomini, però) che si affacciano per un saluto, un’occhiata agli accessori da mare. “Nata nel commercio”, Milli auspica anche per sua figlia Flavia un avvenire in questo settore: sarebbe la quarta generazione commenta non senza una punta di soddisfazione. Con Milli, però, i ricordi di moda si profumano dei colori del marzapane, del miele, di scorzette d’arancia, e il set del racconto si muta pian piano, passando impercettibilmente dall’atmosfera ovattata della boutique di lingerie all’ambiente vivace del Bar-Pasticceria Gino, in via Giovanni Branca 43-45. in cucina con l a dirce

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foto raccolte Simonetta De Angelis ed Emilia Filippetti, Pesaro

Alcune fotografie dagli album di Simonetta De Angelis e Milli Filippetti (Pesaro). In questa pagina e nella pagina seguente: il Bar - Pasticceria Gino negli anni Cinquanta del ‘900. A destra: Gino è il signore sorridente con il grembiule bianco. A pagina 68: Simonetta sulla spiaggia di Pesaro alla fine degli anni Quaranta; a pagina 69: acrobazie anni Cinquanta.

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Una bimba sgrana gli occhi su un paiolone (in verità il nome in codice sarebbe “pozzo”) ricolmo di una pasta bianco avorio dal quale salgono profumi celestiali di albumi e miele: per il laboratorio della Pasticceria Gino è giorno di torrone, e la piccola Milli sa che al ritorno da scuola l’attenderanno mandorle da ‘rubare’ all’impasto, croccanti e ricoperte di questa goloseria che assomiglia a una mou. Proust e le sue madeleines si presentano puntuali alla mente, ma qui siamo più dalle parti della Fabbrica di cioccolato, e da un momento all’altro ci si attende l’arrivo, se non di Willy Wonka in persona, almeno di un mago dalle sembianze di Johnny Depp. Le parole di Milli non riescono a contenere l’entusiasmo di quella bimba cui era concesso il privilegio di far colazione in pasticceria, e che, in barba alla nonna, la burbera e temibile Nina, insieme con il fratello Franco sottraeva i gelati “Pinguini” prima che venissero confezionati, o rompeva le uova di Pasqua dei clienti per cercarne la sorpresa. In occasione del Natale i tavoli del bar erano riuniti al centro del locale, e dopo essere stati addobbati accoglievano trionfi di confezioni regalo e di torrone, grandi blocchi dai quali di volta in volta si prelevava la quantità richiesta dal cliente con uno scalpello. Prima di diventare “Gino” e basta, però, Gino Filippetti si era fatto le ossa a Roma, al Caffè Rosati di Piazza del Popolo, dove aveva conosciuto Emilia Calamita, detta familiarmente Nina, originaria di Sacrofano (Roma) e anche lei impegnata nel commercio, più precisamente nella gestione della rivendita di sali e tabacchi di famiglia; dal loro matrimonio nascerà nel 1934 Nerio, il babbo di Emilia. A Roma Gino apprende le basi dell’arte pasticciera, che continuerà ad affinare proponendo a Pesaro creazioni originali, dall’aspetto accattivante e di indimenticabile squisitezza.


La famiglia di mio padre tornò a Pesaro subito dopo la sua nascita, raccontavano di aver percorso tutto il tragitto Roma-Pesaro su un calesse. Prima di aprire il Bar Gino in via Branca mio nonno gestì per qualche tempo un’altra attività per il Corso, a fianco di Palazzo Perticari, insieme con Amedeo, un suo cugino; in estate con il fratello Dante (padre di Nardo Filippetti, fondatore del tour operator Eden Viaggi) attivavano un chiosco di gelati al mare. Purtroppo Gino venne a mancare nel 1959, e nonna Nina dovette prendere la guida dell’attività di famiglia, insieme con mio padre. Appassionato di calcio e grande tifoso della VIS Pesaro, insieme con gli amici del Bar Sport di via Branca Gino amava giocare tiri feroci ai sostenitori dell’avversaria squadra di Fano. La preparazione del torrone era impegnativa, riprende Milli, cominciava intorno alle cinque di mattina e finiva con l’impasto steso sui piani di marmo a pomeriggio inoltrato. Ma in pasticceria c’erano anche altre specialità la cui realizzazione era abbastanza complessa, per esempio il ‘pagliaio’, un profiterole elaborato, ricoperto interamente di fili di caramello che venivano ‘tirati’ con la saggina, proprio quella delle scope, oppure le pesche di marzapane, con il picciolo di cioccolato. C’erano anche i ‘manganelli’, piccoli torroni cilindrici ricoperti di cioccolato fondente, mentre tra i gelati era rinomatissi-

mo il gusto nocciola. Capolavori di alta pasticceria che Gino forniva anche a numerosi alberghi di Pesaro: da ricordare anche i cuori di marron glacé, souvenir, sottolinea ancora Emilia, degli anni trascorsi alla Pasticceria Rosati di Roma. Tra i clienti di Gino ci piace ricordare la - almeno per noi pesaresi - celebre Prima Paganelli, la Bolognese, che a lui affidava la perfetta riuscita del doposfilata nell’atelier di viale Corridoni. Presso la Pasticceria Gino si formarono alcuni dei migliori pasticcieri della città, da Germano, il cui gelato alla nocciola compare oggi su tutte le guide golose d’Italia a Franco Zidolani fino a Elio della Pasticceria Serafino; a completare il quadro di questo frammento di storia pesarese ricordiamo infine le Quattro stagioni, le decorazioni pittoriche di Nanni Valentini che ornavano il locale. Tra i ricordi e qualche tazza di tè è quasi ora di chiudere. Ci ripromettiamo di tornare, per farci ripetere da Milli i nomi delle paste, il cui elenco - di cui “crema e cioccolatte” non sono che un assaggio - saprebbe destare l’invidia di Guido Gozzano. Ultima nota golosa, per ora il tuile che fa capolino tra un bignè e un diplomatico: da non confondere con il cannolo siciliano, precisa Milli, rispetto al quale è più leggero e aereo, il tuile è un croccante ‘involtino’ di pasta di mandorle, cotto al forno, rivestito di cioccolato e riempito di panna montata.

* La conversazione con Simonetta e Milli De Angelis si è svolta nell’aprile 2011; il testo riprodotto in queste pagine è stato pubblicato nell’esposizione La stanza dei ricordi, allestita a Pesaro, presso Palazzo Mazzolari Mosca, nel settembre 2012.

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Pizzeria Ventrella Tra i “ragazzi di bottega” della Pasticceria Gino c’era anche Remo Fiorani, che aggiunge un’altra tessera al mosaico della memoria “cucinaria” di Pesaro, con una storia di pizza e dolci autarchici

Cristina Ortolani *

- Una pizzeria. - Una pizzeria, sì, una rivendita di pizzi. - No, veramente di pizza. - Pizza? “Par co’ fè”, qualcuno avrà detto. O forse “lascia gi’”, con quella vena di scetticismo che intride le migliori locuzioni dialettali pesaresi, quel tono di chi ha già visto tutto e nel migliore dei casi prende la vita con ironia (nel peggiore si lascia vincere dall’amarezza ma questo è un altro discorso). Il lungimirante imprenditore che negli anni Trenta decide di avviare una pizzeria - rosticceria nella centrale via Branca (l’antica via ‘dei Calzolai’) si chiama Ernesto Fiorani; a ricordarlo è suo figlio Remo, oggi titolare di una gastronomia e insegnante in seguitissimi corsi di cucina Nel racconto di Remo, corroborato dalle annotazioni di Gianni Pentucci e Giorgio Lucenti, grazie ai quali l’abbiamo conosciuto, via Branca torna ad animarsi, e sotto i nostri occhi scorrono almeno cinquant’anni di storia, riflessi nelle vetrine dei negozi, distillati nel gusto di un gelato o nel fumo di una sigaretta - Nazionale, possibilmente. Mio padre Ernesto proveniva da una delle più note famiglie di Ancona, esordisce Remo, i Fiorani 74 |

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erano titolari della Gelateria Norge, e arrivò a Pesaro grazie al matrimonio con Antonietta Ventrella, figlia di Michele, impiegato della Questura di Pesaro. Fu proprio il nonno Ventrella a adoperarsi per sbrigare le pratiche relative alla licenza per la rosticceria, che prese così il nome della famiglia di mia madre. Siamo nel 1937, e di rosticcerie se ne contano poche, non solo a Pesaro; pizzerie ancora meno: la novità ha successo, e in molti accorrono a vedere il primo forno elettrico installato in un esercizio pubblico. Il forno era un “Antonello Orlandi”, prosegue Remo, per l’epoca si trattava di strumenti all’avanguardia. Pochi anni dopo l’idea di Fiorani ispirerà Placido Moretti, che nel 1946 brevetterà il primo forno di sua creazione, avviando la storia di un’azienda divenuta oggi leader del settore. La Rosticceria Ventrella si trovava all’angolo tra via Giovanni Branca (l’antica via dei Calzolai) e via Carlo Cattaneo, accanto alla chiesa di Sant’Antonio. Della chiesa resta oggi il ricordo, nel ‘voltone’ che si apre su via Branca a fianco di palazzo Fronzi, attraverso il quale si accede a via Ercole Luigi Morselli. Con lo sguardo della memoria vediamo il Molino Albani, che occupa gran parte di via Cattaneo; dopo la guerra al suo posto Albani sorgerà un palazzo, nel quale si trasferirà il

foto raccolta Remo Fiorani, Pesaro

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Pesaro, anni Trenta del ‘900. La Rosticceria Ventrella. Nella pagina precedente: anni Settanta. Remo Fiorani apprendista nel laboratorio della Pasticceria Gino.

negozio di Umberto Lucenti e dei suoi figli Giorgio, Pietro e Remo. Le pizze salate, cos’erano quelle pizze salate sospira ridendo Giorgio Lucenti. E il castagnaccio? Non solo nelle pizze eccelleva Ventrella: tra le sue specialità vi era infatti un castagnaccio da leccarsi i baffi. Mio padre avrebbe voluto produrre anche dolci, ma inizialmente la sua licenza non lo permetteva. Aggirò l’ostacolo creando delle pizze dolci, alle quali col tempo si aggiunsero anche altri prodotti lievitati, come i panettoni che inviava in tutta Italia. Ma torniamo al castagnaccio. Sul finire degli anni Trenta, in piena autarchia, Ernesto Fiorani ‘inventa’ una nuova moda rieditando - diremmo oggi -– un dolce della tradizione contadina: la farina scarseggia, di lì a poco comparirà sul mercato la Vegetina Buitoni (ma nelle campagne torna il pane di ghiande), e anche la Rosticceria Ventrella deve adeguarsi. Ernesto

non si perde d’animo, parte per la Puglia, e torna con due vagoni di castagne. Le castagne però dovevano essere essiccate prima di portarle al mulino riprende Remo, operazione per la quale erano necessarie grandi fornaci che mio padre indivduò in quelle della PICA [industria di laterizi avviata nella seconda metà degli anni Trenta del ‘900 dagli imprenditori Pierangeli e Cangiotti, tuttora esistente]. Il babbo incaricò Grugén [carrettiere pesarese noto per certi suoi atteggiamenti bizzarri] di trasportarle, ma a destinazione arrivò solo la metà del carico giunto dalla Puglia: lungo il tragitto, infatti, Grugén gettava i sacchi dal carro, per lasciare un po’ di castagne anche ai più poveri. Fra i tanti prodotti di Ventrella famosa era la pizza Turca o meglio, secondo le enfatiche intenzioni dell’Italia imperialista, Assabese: una sorta di pizza dolce preparata con pasta frolla, crema pasticcera, pan di spagna inzuppato con alchermes, ricoperta e cotta in forno, una vera ghiottoneria. Ancora un’altra specialità di Ventrella erano i biscotti di ‘mandorla’ pelata,

allora di difficilissima reperibilità: grazie alla sua incredibile inventiva Ernesto trasforma in ‘mandorle’ dei comunissimi lupini, deamarizzati in acqua, macinati e confezionati ad arte, per ottenerne dei pasticcini che nulla avevano da invidiare ai veri biscotti di mandorle. Lupini e farina di castagne non rientravano infatti tra i generi razionati, e si potevano acquistare anche senza tessera annonaria. Negli anni di guerra Ernesto Fiorani vendette l’attività a Aldo Montesi, destinato a diventare uno dei nomi di riferimento della pasticceria pesarese dagli anni Cinquanta del ‘900; buon sangue non mente, e l’eredità di Ernesto, dal 1947-‘48 impegnato nella nuova impresa di famiglia, una falegnameria, fu raccolta nel 1977 dal figlio Remo, tredicesimo di una nidiata di piccoli Fiorani (mio padre amava i bambini, aggiunge sorridendo, e deve aver tenuto ben presente che Mussolini premiava le famiglie più numerose!). Le sue prelibatezze, offerte con chicche di ‘pesaresità’ da vero cultore del dialetto di Pasqualon, non fanno rimpiangere in città la rinomata pizza di Ventrella. Sull’iPad di Remo la foto della rosticceria si alterna, nel suo color seppia reso smagliante dalla superficie perfetta del display, a immagini che lo mostrano intento al lavoro, tra forni, sac-à-poche, cornetti, panini dall’aspetto appetitoso. Per mantenere la memoria dei miei genitori, dice lui.

* La conversazione con Remo Fiorani, Giorgio Lucenti, Gianni Pentucci e Giorgio Valchera si è svolta nel marzo 2011; il testo riprodotto in queste pagine è stato pubblicato nell’esposizione La stanza dei ricordi, allestita a Pesaro, presso Palazzo Mazzolari Mosca, nel settembre 2012. in cucina con l a dirce

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Madeleine | Ricette, 1 di

Giovanna Mulazzani

pelosi alla griglia di nonna cecilia

Ricettina Lavare ed asciugare bene il pesce, prendere la polenta fine (fioretto) e passare, come fosse una infarinatura abbondante, i “pelosi” uno ad uno. Passarli, quindi, su di una teglia ben calda per qualche minuto, sistemarli in un piatto e condirli con un pizzico di sale e abbondante olio d’oliva... quello buono!!! 76 |

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in cucina con l a dirce

foto raccolta Giovanna Mulazzani, Gabicce Mare

Tempo fa, dalle finestre dell’abitazione di mia madre sento uscire un profumo dimenticato. ...Gli anni della mia infanzia…. Con il sentimento di chi vuole ricordare, chiedo cosa ci fosse di buono sul fuoco e vedo adagiati su di una teglia dei piccoli pesci avvolti nella farina di polenta che si stavano abbrustolendo. Mia madre mi ricorda che sì... sono i “pelosi” passati nella farina di polenta e poi conditi con olio d’oliva… quello buono! …quelo della nonna Cecilia… !!!!! dice. Buonissimi! La storia della semplice ricetta risale al secolo scorso… ma agli inizi! E si tramandava dalle “mousegne” (italianizzato in musine). Donne delle famiglie dei pescatori (sorelle, mogli o mamme) che all’arrivo delle barche al porto di Cattolica, aspettavano di raccogliere l’ultimo pesce rimasto dopo la vendita ai proprietari delle pescherie, per sistemarlo su delle ceste di vimini e andare a venderlo. Io me le ricordo sedute sulle gradinate della vecchia pescheria di piazza del mercato; erano donne vestite di nero, con il capo coperto da fazzoletti anch’essi neri, che vendevano questo pesce freschissimo che sapeva veramente di mare.


Madeleine | Ricette, 2 di

Giovanna Patrignani

il miacetto delle donati

foto raccolta Giovanna Patrignani, Pesaro

Mia madre e ancor prima mia nonna la vigilia di Natale facevano sempre il “miacetto”, antico e tradizionale dolce natalizio di Cattolica, dove è tuttora molto diffuso, ma la cui conoscenza e preparazione non va oltre i confini cattolichini. Infatti è sconosciuto a Pesaro, dove nessuno lo fa, nessuno lo mangia e dove non si trova nemmeno nei migliori forni e pasticcerie della città. A Cattolica fin da antica data era un dolce popolare, in molte varianti di ricette, tra le famiglie del quartiere del porto. Tradizioni e usanze, anche culinarie, che accomunavano la gente di mare, a cui apparteneva anche mia nonna, Ezelma Donati in Rossi (1885-1961) che, pur pesarese, lo conosceva bene e lo faceva - squisito - immancabilmente ogni Natale. Faceva parte infatti dell’antica famiglia dei Donati, risalenti ad una plurisecolare stirpe di maestri d’ascia, documentati fin dal XVII secolo, attivi e fiorentissimi Gli ingredienti e la ricetta Due etti di noci sminuzzate grossolanamente; 2 etti di mandorle; 2 etti di pinoli; 2 etti di uva passa precedentemente ammollata in acqua calda e scolata bene; scorze di 2 limoni e di 2 arance tritate finemente; 2 etti di zucchero; 2 etti di farina. Amalgamare il tutto con acqua “finché il mestolo di legno rimane in piedi da solo” (dicevano mia madre e mia nonna). Cospargere di burro un’ampia teglia antiaderente, mettere in forno a 180° per circa 50 minuti. Estratto dal forno, versarvi sopra 2/3 etti di miele. Aspettare che sia completamente freddo prima di tagliarlo.

a Pesaro dagli inizi dell’Ottocento alla metà del Novecento nei rinomati cantieri navali Donati, da loro impiantati nei pressi dello squero vecchio del porto di Pesaro. La nonna Ezelma (nome insolito datole dalla madre anconetana Carmela Grassoni, che l’aveva trovato leggendo Les Misérables di Victor Hugo) era una dei sei figli di Cesare Donati (1843-1920) (a mio fratello è stato dato il suo nome), il capostipite del cantiere, da lui creato a Pesaro, dopo essere stato a Curzola, isola dalmata dei maestri d’ascia, per affinare il mestiere. Era anche la sorella di Aldo Donati (1877-1939), che ha continuato con successo ed incrementato l’attività cantieristica del padre, ed è stato l’ultimo armatore che ha diretto il cantiere che costruiva trabaccoli e velieri da traffico e da pesca in legno di quercia e pino, ricevendo ordinazioni da tutta la costa adriatica. Molti erano gli operai che vi lavoravano, provenienti anche da porti vicini, e veicolo di diffusione di tradizioni anche gastronomiche. Mia nonna Ezelma era molto fiera dell’attività cantieristica di famiglia: per i fratelli e per il padre ha acquistato dal Comune di Pesaro un tratto di cinta muraria ed il terreno sottostante e vi ha fatto costruire una tomba monumentale in stile di tempietto greco tutto in marmo, che ancora esiste nel cimitero centrale, con i ritratti dei Donati. Sia mia nonna che mia madre facevano il miacetto dosando gli ingredienti “a occhio”, che ho quantificato nella ricetta fapubblicata qui a fianco. in cucina con l a dirce

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Madeleine | Ricette, 3 di

Miss Nettle

foto raccolta famiglia Giunta, Belvedere Fogliense

la crostata della vera

Per lunghi anni titolare di una delle due osterie di Belvedere Fogliense, Vera Generali (1921 2009) ha imparato a cucinare da giovanetta, negli anni trascorsi come cameriera presso la famiglia Moscioni-Negri e al Circolo cittadino di Palazzo Gradari di Pesaro. A Belvedere - allora Montelevecchie - ha raccolto l’eredità della suocera Terza Giorgi, che avviò l’attività negli anni Venti rifocillando i muratori impegnati nel restauro delle mura del paese. In tempi più vicini a noi Vera è stata, sin dalla prima edizione, una delle protagoniste delle “cene in famiglia” di Belvedere Fogliense: la ricordiamo con la sua crostata di marmellata e noci (lei era della scuola della pasta frolla con il lievito, anzi, con la dose), e grazie a Lucia Giunta, che ci ha passato la ricetta della nonna.

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in cucina con l a dirce

Ingredienti ½ kg di farina 00; 150 grammi di burro; 250 grammi di zucchero; 3 uova (il tuorlo); 10 grammi di dose [lievito]; limone grattugiato [la buccia di un limone]; una bustina di vanillina; marmellata a scelta; una decina di gherigli di noce tritati Preparazione Per la pasta frolla: fare la fontana con la farina, aggiungere il burro tagliato a pezzetti (deve essere a temperatura ambiente), lo zucchero, il lievito la vanillina, la buccia di limone e i tuorli d’uovo e impastare. Lasciar riposare l’impasto in frigorifero per circa mezz’ora, quindi stenderlo con il matterello. Ritagliare qualche strisciolina di pasta per la decorazione, e trasferire l’impasto restante nella teglia imburrata e infarinata. Farcire con la marmellata, guarnire con le striscioline di pasta creando un disegno a piacere, cospargere con le noci tritate grossolanamente. Cuocere in forno già caldo a 180 - 200 °C per circa mezz’ora.


collezione Cristina Ortolani

Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati madeleines, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita... non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, Rizzoli, ed. digitale, 2010 in cucina con l a dirce

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foto Lorenzo Di Loreto per Un paese e cento storie 2012

In cucina con la Dirce Colophon

> “In cucina con la Dirce” - Storie, luoghi, sapori. Supplemento al n. 5 di “Promemoria” - periodico culturale; testata registrata presso il Tribunale di Pesaro, autorizzazione n. 578 del 9 Luglio 2010 > chiuso in redazione il 23 ottobre 2013 > direttore responsabile Cristina Ortolani > coordinamento editoriale, immagine e grafica Cristina Ortolani > hanno collaborato a questo numero Simonetta Bastianelli, Lorenzo Di Loreto, Giovanna Mulazzani, miss nettle, Giovanna Patrignani > si ringraziano Archivio Storico Diocesano di Pesaro Archivio di Stato di Pesaro Biblioteca Oliveriana, Pesaro Archivio Storico Comune di Pesaro Archivio Storico Comune di Sant’Angelo in Lizzola > per le immagini grazie a Bartolucci Francesco srl; Basili Gioielli; Luca Cardinali; Coldiretti - Campagna Amica; Istituto Agrario “A. Cecchi”, Pesaro; Raffaella Corsini; Elena Fiorio; Elio Giuliani; Famiglia Giunta; Stefano Paganini; Cesare Patrignani; Fausto Schiavoni; Archivio Stroppa Nobili; Gelateria-Torteria Polo; Achille Vagnini; Where Lemons Blossom > in copertina immagini Lorenzo Di Loreto, raccolta Giovanna Patrignani, Fausto Schiavoni, Archivio Stroppa Nobili > informazioni www.unpaesecentostorie.it - info@unpaesecentostorie.it Cristina Ortolani, via Avogadro 39 - 61122 Pesaro www.cristinaortolanistudio.it - cristina@cristinaortolanistudio.it > le immagini appaiono per gentile concessione e con l’autorizzazione degli aventi diritto > il materiale raccolto è stato inserito con la massima cura, tuttavia i responsabili della pubblicazione si scusano per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e restano a disposizione degli aventi diritto per le immagini di cui non è stato possibile rintracciare i titolari del copyright; > i testi sono rilasciati sotto la licenza Creative Commons “Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0” (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0); > la responsabilità dei contenuti dei testi è dei rispettivi autori. > stampa Ideostampa srl - Calcinelli di Saltara (PU) la carta utilizzata per la stampa di “In cucina con la Dirce” ha ottenuto la certificazione ambientale F.S.C. (Forest Stewardship Council), che identifica i prodotti contenenti legno proveniente da foreste gestite secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.

© Cristina Ortolani concept+image

con il patrocinio di

grazie a


Giovanna Patrignani, piccola testimonial dei biscotti Lazzaroni (collezione Giovanna Patrignani). In terza di copertina: annunci pubblicitari dell’Amarena Furiosi di Cantiano (anni Trenta del ‘900; Archivio Stroppa Nobili).


storie, luoghi, sapori

supplemento al n. 5 di “Promemoria” - novembre 2013

In cucina con la Dirce - supplemento al n. 5 di “Promemoria” - novembre 2013

In cucina con la Dirce

Ida Pazzini Bartolucci, Belvedere Fogliense. Da otto anni accoglie ospiti a cena in famiglia, in occasione di Un paese e cento storie

Storie

Luoghi

Sapori

Mamma Ida Osteria del Baffon Erica, Federica, Francesco

Belvedere Fogliense, Monteciccardo, Montefabbri, Sant’Angelo in Lizzola, Candelara

La cultura si mangia. Incursioni cucinarie tra i secoli XVI e XXI Stuzzicherie Oliveriane e le Madeleines della Dirce

e le cene in famiglia

guest star “La Dirce”!


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