Pool Academy 005

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L’arte della felicità Intervista al regista Alessandro Rak

High-Tech Realtà virtuale: il mondo non basta

Pool Awards 2013 Visioni, ascolti e interazioni: il meglio dell’anno



06 Università: una battaglia da vincere ai punti’ 08 Aiuto! Mi hanno chiesto il CV! – Strategie per prepararsi al mercato del lavoro
 10 Vita da fuoriesce – Mangement della noia ferroviaria
 12 Ricerche per il benessere – I brevetti di Biofordrugi 13 Architetture bidimensionali – Un volume racconta gli edifici storici di Uniba

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Anatomia di un’artista – Silvia Giambrone

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Fatti (strafatti) e interpretazioni – Quello che ancora non sai della Realtà Aerei di carta

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La Focàra – Tra sacro e profano, si accende il grande falò di Novoli Le ricette di Cucina Mancina – Zuppa bicolore di cavolfiore Giramondo – Alla scoperta delle birre trappiste tra Belgio, Olanda e Austria Pool Awards 2013 – Visioni, ascolti e interazioni: il meglio dell’anno

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In taxi verso la felicità – Intervista con Alessandro Rak Visioni in chiaro – Il 2013 dell’Apulia Film Commission Verso il cinema del futuro – Azione/Reazione del Circuito D’Autore Carta da rock – Nasce a Bari la prima emeroteca musicale italiana Visioni a confronto – Doris Lessing e Anne Fontaine My Mad Fat Diary – Una serie tv terapeutica Video Killed The Radio Stars? – Video + music = art

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C’è qualcosa di Twee a Roma Nord – Intervista a I Cani Black American Music – Il jazz oggi a New York

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Next stop: virtual reality – Fra intrattenimento e e- learning


Editoriale #005

Lavoro: uno scontro fra generazioni In un 2013 che ha mostrato i segni pungenti di una inarrestabile crisi sociale e culturale, il lettore più assennato ha invocato a gran voce un senso narrativo a questa beffa quotidiana. Se la politica, il lavoro, la Pubblica Amministrazione e il cosiddetto “potere precostituito” mancano di qualunque risposta convincente, ci si aspetterebbe almeno che gli intellettuali e l’arte forniscano una traccia da seguire, un filo conduttore che permetta di interpretare questo caotico e inutile affaccendarsi nelle questioni quotidiane. Si torna così alla necessità della narrazione, dello storytelling, che riempie le pagine dei volumi di studio come dei social network. Tutti lì, a raccontare le minuzie del presente in tweet da 140 battute, parole pronunciabili in un sol respiro quando sarebbe necessario bloccarsi per cominciare un discorso coerente che richieda tutta la nostra capacità polmonare.

La vita quotidiana ci consegna la parcellizzazione delle nostre esistenze, racchiudibili in sintetici messaggi di stato o in foto sfocate su Instagram. E così reagisce il mercato culturale, affogato nei singoli radiofonici, negli speciosi instant book o nelle speciali proiezioni cinematografiche da unica serata. Un arraffa e fuggi che muta la stessa produzione culturale in una corsa a chi arranca di più. E dunque addio alla programmazione a lungo termine, addio alla formazione continua, addio al dialogo fra Istituzioni e attività produttive. Adesso c’è da correre, da chiudere progetti che scadevano avantieri, da aggiornare il profilo LinkedIn nella speranza di una proposta che non arriva mai, da presenziare a ogni evento per fare chiacchiere nella retrovia, da scaricare giga di roba che mai ascolteremo e mai consulteremo. Questo, insomma, sembra il tempo di sbarcare il lunario, perché a immaginare un futuro lungo cinque anni non basterebbe un sabba con Tiresia, le Moire e Cassandra. Eppure un punto di partenza ci può essere: accorciare le distanze fra Istituzioni e mondo produttivo, incrociare i fabbisogni delle imprese con i percorsi di formazione, dare insomma reale riscontro ai sacrifici di decine di anni di studio e preparazione che le nuove generazioni hanno affrontato. Perché questo presente assume sempre più le sembianze di una farsa gattopardesca, in cui tutto muta a una velocità frastornante affinché nulla cambi nelle dinamiche socio-culturali. È tempo di nuovi modelli di lavoro, e le soluzioni sono a portata di mano, riposte nelle necessità della vera forza dinamica del nostro tempo: le nuove generazioni. Basta avere la volontà di ascoltarle. Perché è questo il tempo di essere sempre, realmente, contemporanei. Michele Casella


Mutamenti in azione Cambiamento. Sembra essere questa la parola d’ordine che da nord a sud riecheggia in tutto il territorio italiano e che ha caratterizzato anche gran parte delle vicende legate alla nostra università. La mossa che ci ha spinti a iniziare questo percorso con i colleghi e gli studenti universitari era quella di dare una rappresentazione diversa di quello che accade in un Ateneo come il nostro, di costruire e costituire una coscienza critica differente da quanto raccontano i giornali e tutti i media, in un tam-tam rituale anche se solo tecnologicamente avanzato. Eravamo stanchi della solita lamentela, della solita narrazione negativa e acritica. Desideravamo dare spazio a uno sguardo positivo, critico e realista, che non dimentica i tanti lati oscuri ancora da correggere, ma che guarda anche a questi lati con una prospettiva nuova. E questo lo abbiamo chiesto agli studenti, e abbiamo chiesto loro di allargare lo sguardo anche a quanto succede al di là dei confini regionali. Pensiamo che solo così si possa e si debba fare informazione culturale. Raccontare la bellezza della vita legata all’università e alla cultura del nostro territorio: è stato questo il nostro unico obiettivo e non sarebbe stato vano questo nostro tentativo se in qualche modo ci fossimo almeno in parte riusciti. Cambiamento. Abbiamo cambiato il modo di raccontare il nostro “spazio”, e contemporaneamente sono cambiate molte situazioni attorno a noi e, in modo speciale, all’interno della nostra Università. Abbiamo un nuovo rettore che si è subito posto in difesa delle azioni “punitive” nei confronti degli atenei meridionali, che sta dando nuovo spazio ai giovani ricercatori, che punta a una nuova idea di internazionalizzazione, che – ne siamo certi – vorrà dare nuova linfa ai servizi per gli studenti, perché sono loro, i nostri studenti, al centro del nostro interesse. Non ci sarà cambiamento vero all’interno degli atenei italiani senza porre al centro la figura dello studente, perché le nostre principali missioni sono rivolte a loro. Siamo chiamati a una didattica “impegnata” e non soltanto formalmente parametrata alle misure richiesteci dal ministero o da agenzie ministeriali. Non ci interessa solo adeguarci a parametri. I nostri docenti sono più che “adeguati”: hanno passione per l’insegnamento, così come per la ricerca. Vorremmo mettere al centro dei prossimi numeri questa passione, raccontarla per poterla spiegare e tramandare. Cambiamento. Non facciamoci ingannare da quanti propongono mutamenti senza memoria, ringiovanimenti di genere senza giudizio. Mutamenti di questo tipo non porteranno la nostra società ad alcun giovamento, ma soltanto a una supremazia dell’apparire. Per cambiare occorre pazienza, riflessione, dialogo: virtù proprie di chi il tempo lo ha già in parte vissuto e conosce il valore delle cose e delle parole a esse connesse. Saremo ancora capaci di ascoltare i nostri “Nelson Mandela”? Paolo Ponzio

REDAZIONE
 Michele Casella Direttore Responsabile
 Paolo Ponzio Direttore Editoriale Carlotta Susca Caporedattrice Cristò Chiapparino Caporedattore I
 rene Casulli Fashion Editor DIREZIONE CREATIVA Vincenzo Recchia Creative Director Giuseppe Morea Multimedia Developer Baseneutra Copertina COMITATO SCIENTIFICO UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ‘ALDO MORO’ Michele Baldassarre, Angela Carbone, Marina Castellaneta, Grazia Distaso, Giuseppe Elia, Daniele Maria Pegorari, Ines Ravasini, Annarita Taronna, Paola Zaccaria, Giovanna Zaccaro. MANDACI I TUOI RACCONTI BREVI scritture@ipool.it PER COLLABORARE SCRIVICI A academy@ipool.it PARTNER Gianfrate.com

COLLABORATORI Maddalena Candeliere, Bianca Chiriatti, Daria D’Acquisto, Stella Dilauro, Antonella Di Marzio, Enrico Godini, Leonardo Gregorio, Gabriella Indolfi, Antonella Mancini, Lello Maggipinto, Valeria Martalò, Claudia Morelli, Michela Panìco, Lorena Perchiazzi, Laura Rizzo, Luca Romano, Serena Sasanelli, Marianna Silvano, Monica Tarricone, Gianfilippo Tribuzio, Marilù Ursi. STAMPATO PRESSO Ragusa Service S.r.l. Bari

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Università: una battaglia da vincere ai punti Uricchio e i rettori del Sud in difesa degli studenti a cura di Carlotta Susca Lo scorso 28 novembre Antonio Uricchio e altri rettori di università del Sud hanno incontrato a Roma il ministro dell’Istruzione, università e ricerca Maria Chiara Carrozza per discutere del decreto 713/2013 sui punti organico, che penalizza tutte le università meridionali. La proposta unanime è quella di rivedere i criteri di attribuzione delle risorse agli Atenei introducendo parametri basati sui risultati che le università si impegnano a raggiungere sin dal 2014, anche attraverso la stesura di un patto nazionale per l’istruzione e la ricerca. Intervistiamo Uricchio, rettore dell’Università di Bari ‘Aldo Moro’, per capire quali aperture ci sono state da parte del ministro e come si prospetta il futuro dell’Università italiana in genere e dell’Ateneo barese in particolare. Come si è svolto l’incontro con il ministro Carrozza? È possibile essere ottimisti riguardo alla revisione del decreto sui punti organico? L’incontro è stato ampio e serrato, ma anche costruttivo. In oltre tre ore di dialogo con il ministro abbiamo avuto modo di sottoporre tutte le proposte elaborate dai rettori pugliesi, molisani e meridionali in genere; il ministro ha mostrato particolare attenzione

a tutte le proposte e ne ha condivise alcune, soprattutto riguardo alle regole di finanziamento del sistema; ha manifestato poi l’intenzione a procedere nella direzione di riforme più profonde, attraverso una nuova legge delega per l’università. L’impegno in tal senso è stato assunto davanti a noi e manifestato pubblicamente. Quali argomenti sono stati trattati nell’incontro? Abbiamo proposto l’introduzione del criterio del costo standard per studente, costruito attraverso una serie di indicatori che valorizzino i fabbisogni e gli output formativi; un costo ricavo che tenga conto innanzitutto della numerosità degli studenti che vivono gli atenei e che sono destinatari dell’attività formativa, ma rispetto ai quali bisogna anche misurare l’efficienza degli interventi formativi. Altro tema fondamentale è quello dell’introduzione degli indici di coesione, che possano operare in funzione di perequazione delle risorse: abbiamo denunciato una profonda iniquità del sistema, che avvantaggia alcune università e ne punisce altre, soprattutto perché utilizza la formula Isef, che – il ministro è d’accordo – sarà abbandonata. Si utilizzeranno altri parametri correttivi di coesione che


dovranno essere collegati al tema del costo standard. Tutto questo quadro dovrà essere inserito in una riforma finanziaria dell’Università che contempli il budget anziché i punti organico. In base alla nostra proposta, quindi, scompare l’Isef e scompare il punto organico, tutto viene riportato al budget; attenzione ancora maggiore deve essere riservata alla sostenibilità finanziaria: tutti i bilanci devono essere certificati, e dovremo impegnarci molto su questo tema. Allo stesso tempo, nel misurare l’efficienza (ricavo standard, costo standard e sostenibilità finanziaria), dovremo necessariamente inserire parametri per il reclutamento di qualità. Con i punti organico della graduatoria Isef, tuttora in vigore, l’unico parametro di valutazione è quantitativo: questo penalizza le università con le tasse più basse e gli stipendi più alti? Il criterio Isef è fortemente iniquo e legato al numeratore e alle tasse, non ha nulla di meritocratico; oltre a richiederne l’eliminazione, è necessaria una riforma della contribuzione universitaria, di cui ho parlato anche alla Camera dei deputati: il sistema delle tasse universitarie dovrà essere ripensato, dato che attualmente è molto sbilanciato; alcuni atenei applicano tasse molto basse e alcuni molto alte. L’autonomia non deve implicare l’assenza di regole, dovrebbe esserci un approdo normativo su questo tema. Il tetto del 20%, prima introdotto, poi eluso, per come è stato interpretato è rivelatore di regole non del tutto applicate; viene avviata oggi una riforma forte del modello di finanziamento dell’Università attraverso una riscrittura delle regole della contribuzione. La valorizzazione delle situazioni di contesto è la battaglia portata avanti da noi dal Sud; occorre introdurre parametri che tengano conto dei bisogni, quindi optare per la sussidiarietà come principio fondamentale, sebbene prima completamente estraneo. Che tipo di risposte avete ricevuto dal ministro Carrozza? Siamo all’inizio di un percorso di riforma di sistema. Il ministro ha detto che il decreto sui punti organico non si può abolire: le regole sono quelle ereditate dal precedente ministro Profumo, pure con il venir meno della clausola di salvaguardia. La mancata attuazione della clausola ha penalizzato ancor più i nostri atenei, ma sono moderatamente ottimista, perché se le

riforme vanno in questa direzione, quella di riconsiderare le esigenze di perequazione, di rivedere i parametri di contesto, di legare a criteri di sostenibilità finanziaria l’intero modello della nostra Università, le riforme potranno essere anche salutari e positive. Il rischio principale, se non dovesse cambiare nulla rispetto alla situazione attuale, è quello della chiusura di corsi di laurea? Come Conferenza dei rettori abbiamo chiesto – e sono stati unanimi i rettori del Nord, del Centro e del Sud – di rivedere i requisiti di sostenibilità dei corsi. Oggi per aprine uno servono nove docenti. Il numero aumenta sulla base del numero di ore che ciascun docente può impartire. Abbiamo chiesto di ridurre da nove a cinque il numero di docenti proponenti, pur con una clausola di salvaguardia: quella di non aumentare il numero dei corsi di laurea, ma di preservare l’esistente, perché negli ultimi tre anni abbiamo perso circa trecento docenti per i pensionamenti, e senza turn over sono a rischio i corsi esistenti; allo stato attuale non saremmo in grado di garantire tutta l’offerta formativa. Se i requisiti di sostenibilità fossero attenuati, i corsi sarebbero salvi, anche se questo significherebbe un carico di lavoro molto oneroso per chi resta per garantire la tenuta dei corsi. La speranza per il futuro è di avere un turn over più alto, e il ministro si è impegnato a garantire per il prossimo biennio il passaggio dal 20 al 50% come turn over di sistema; oggi vige la media del 20%, ma l’Ateneo barese ha diritto al 6%. Se le regole venissero riscritte si potrebbero inserire dei meccanismi di perequazione. Come è possibile tutelare gli studenti in questa fase così delicata per l’Università? Non possiamo dismettere un livello di qualità, che resta imprescindibile: dobbiamo porre tutti gli studenti nella condizione di affrontare i propri impegni di natura didattica con un supporto che preveda anche l’utilizzo delle nuove tecnologie come l’e-learing e con un servizio di tutoring. Ho dato una delega al Benessere degli studenti, che devono essere supportati nell’impegno quotidiano con le condizioni migliori di strutture e servizi.


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Aiuto! Mi hanno chiesto il CV! Strategie per prepararsi al meglio al mercato del lavoro a cura di Michela Panìco Il livello ‘pro’ Ti sei laureato ed è arrivata l’ora di cercarti un lavoro. O non ti sei ancora laureato ma ti stai già chiedendo da dove iniziare, e non ne hai la minima idea. Qual è il bandolo della matassa? C’è qualcosa da cui è meglio partire? Innanzitutto aggiornarsi a un livello ‘pro’. Come nei videogiochi. Il mondo del lavoro attuale, infatti, richiede di essere sempre più propositivi e proattivi, in modo da adattarsi al contesto, sempre più dinamico. L’ansia e l’incertezza non devono sconfiggerci, anche se ci sentiamo come quando stanno per esaurirsi le vite in un videogioco a un passo dal raggiungimento del livello successivo. Imparare a collocarsi nel mondo del lavoro è il primo passo verso la crescita professionale e la realizzazione personale. Tutto sta nel maturare una adeguata capacità di employability per trovare, conservare e – scongiuri a parte – essere pronti a cambiare lavoro.

Visita la sezione Job Placement del sito Uniba http://bit.ly/1cGwYM9

Orientamento al lavoro e job placement Farsi aiutare potrebbe essere la soluzione. Il settore Orientamento al lavoro e job placement dell’Università di Bari ‘Aldo Moro’ prevede interessanti interventi di consulenza per la carriera, come supporto a neolaureati e laureandi per poter fronteggiare la transizione dalla rassicurante condizione di studente a quella di giovane in cerca di lavoro. Oltre a offrire consulenza specialistica e orientamento al lavoro attraverso tirocini e stage di formazione, l’ufficio offre anche altri strumenti, come i laboratori formativi sulle varie fasi del processo di selezione per una posizione lavorativa. A partire dal CV.

CV what? Avete rintracciato in Rete un’offerta di lavoro che potrebbe fare al caso vostro. C’è scritto che per candidarvi dovete inviare una mail con in allegato il CV. Aiuto, cos’è? ‘CV’ sta per ‘Curriculum Vitae’ e rappresenta una delle attrezzature indispensabili per chi intenda collocarsi nel mercato del lavoro. Non si tratta semplicemente di una elencazione di titoli ed esperienze di lavoro, ma di una presentazione di se stessi, in termini di competenze possedute, di esperienze lavorative, di obiettivi professionali perseguiti e da perseguire, di interessi professionali e non. Il tutto possibilmente realistico ma allo stesso tempo accattivante, completo ma necessariamente sintetico. Scrivere un CV è come risolvere un puzzle: avendo a disposizione una serie di ‘tessere’ si deve comporre un’immagine. In questo caso, si tratta della propria immagine professionale. Quali sono allora le ‘tessere’, i contenuti da prendere in considerazione? In quale ordine sistemarle? È meglio presentarsi in prima o in terza persona? Vale di più un linguaggio immediato, personale, accattivante o sofisticato, tecnico, specialistico? Abbiamo chiesto alla dott.ssa Cristina Epifani di indicarci le caratteristiche che un buon curriculum deve avere, quantomeno per non essere cestinato ancor prima di essere letto.


Completezza Fai attenzione affinché contenga tutte le informazioni che possano essere di un certo interesse. Se si è neolaureati, è fondamentale inserire le varie esperienze di lavoro, anche se solo temporaneo o di volontariato. Non dimenticare, poi, di segnalare le lingue e il loro grado di conoscenza. Mantieni il CV sempre aggiornato. Non serve crearlo una volta nella vita e continuare a usarlo a oltranza. Brevità Completezza non è prolissità. Nel curriculum si esprimono le capacità di sintesi e non le abilità discorsive di un candidato; il CV non dovrà superare la lunghezza di due pagine. Anche se sei laureato in Lettere, non è una buona occasione per scrivere il libro della tua vita. Perfezione formale Un primo criterio di selezione si basa proprio sull’aspetto formale del curriculum, è necessario perciò che venga redatto al computer e che sia privo di errori o correzioni e ben impaginato. La sintassi e la grammatica, infine, devono rispettare almeno le regole di base della lingua italiana. Chiarezza Non deve essere di difficile comprensione, chi lo avrà tra le mani dovrà saper cogliere nell’immediato gli elementi della tua formazione che reputi più importanti.

Contenuto Deve corrispondere a verità. Non barare! I selezionatori hanno occhi attenti e sanno reperire informazioni sul tuo conto in tempi rapidissimi. Non inserire alcun riferimento alla retribuzione attesa, se ne parlerà al colloquio orale. È più utile che gli obiettivi professionali vengano trattati nella lettera di presentazione piuttosto che all’interno del curriculum stesso. Stile di tipo professionale Mantieni uno stile professionale. Ricordati che la lettura del curriculum deve stuzzicare l’attenzione del selezionatore, ma anche solleticargli l’idea che potresti essere tu la persona adatta alla posizione lavorativa libera. CONTATTI Orientamento al lavoro
 Palazzo Ateneo – piano terra 
tel. +39 080 571 4991-4892 Lunedì-venerdì: 10,00-12,00; lunedì: 16,00-17,30


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Vita da fuorisede Management della noia ferroviaria Rubrica pratica di consigli di sopravvivenza per Cenerentoli e Cenerentole di provincia a cura di Antonella Di Marzio Illustrazione a cura di Francesca Chilà

Hanno appena revocato lo sciopero dei treni, e già sospirate di sollievo? Sarà quello il momento in cui la vostra – non dubitiamo – intensa vita interiore deciderà d’incrociare le braccia. Svanirà il sonno, il cellulare esalerà l’ultimo beep; e i ferrovieri, che per queste cose hanno un sesto senso, decideranno di marciare sì, ma molto più lenti del normale. Dimenticavo: non troverete consolazione nella lettura. Lasciati libri e riviste a casa, anche i free press abbandonati sui sedili saranno oggetto di misteriosa sparizione. Che fare dunque, per non soccombere allo spleen del viaggio incessante, evitando di oscillare tra il dolore e la noia? La risposta non è dentro di voi: concentratevi piuttosto su quello che accade fuori, e non avrete memoria delle vostre miserie. C’è chi rimpiange quell’era pre-smartphone i cui i compagni di viaggio si guardavano negli occhi e addirittura parlavano tra loro. Buon per voi se militate tra quei nostalgici, ma fate molta attenzione alla gente con cui attaccate bottone: le chiacchiere tra conoscenti sono una piaga sociale diffusa. L’oggetto della conversazione si mantiene sul superficiale andante, e non potete nemmeno

inventare dettagli fantasiosi per vivacizzarla: queste persone sanno chi siete e cosa fate, ma soprattutto cosa non siete (ancora) riusciti a fare. In quella zona grigia tra amicizia e distacco si annida gente che spesso – in buona fede o meno – si rivela molto abile a pescare nel torbido; evitatela in blocco se non volete sciorinare la vostra sfilza d’insuccessi, veri o presunti che siano. Ma quando la situazione dovesse inchiodarvi senza scampo, cercate di coglierne il potenziale catartico, e aprite i rubinetti della lagna come non avete mai osato con nessuno. Senza pietà per l’interlocutore: se l’è andata a cercare. Se poi pensate che conversare sia un’attività sopravvalutata – senza per questo reputarvi misantropi – cercate di coinvolgere i compagni di viaggio in attività ricreative. Quei treni dotati di tavolini v’invitano spudoratamente a giochi di carte e da tavolo; e non è necessario che tutti i giocatori siano facce conosciute. Tirate fuori il vostro mazzo di carte intercettando gli sguardi curiosi dei vicini; senza risultare invadenti, sentitevi liberi d’invitare chiunque si dimostri interessato. Perdere miseramente a briscola con


DOs & DON’Ts dell’Università a cura di Antonella Di Marzio Scontatezze e ovvietà di cui la vita vera non potrà mai fare a meno Post-Lauream (detto anche: ‘E mo’ che faccio?’) DO: Tenere la vostra misantropia per quando sarete top manager. L’annuncio ricerca persone «solari»? Voi sarete persone solari. DON’T: Utilizzare per primi aggettivi triti e ritriti come quello di cui sopra. State scrivendo una lettera di presentazione, non il tema libero ‘Parlami di te’. qualche amabile vecchietto significa abbattere, in un colpo solo, svariate barriere generazionali; se invece siete più infidi, la ricerca del ‘quarto’ diventa un’occasione per approcciare senza dare nell’occhio. Ma se anche questo non dovesse accadere, recuperare il vostro agonismo servirà a darvi un po’ d’animo per affrontare la giornata o il rientro. Nel caso siate più inclini all’osservazione, analizzare quel che accade attorno a voi è un buon diversivo; e i viaggiatori sono un ottimo campione inconsapevole per strampalate ricerche degne del Premio IgNobel. Potrete approfondire il legame tra fisionomia del pendolare e probabilità che il bigliettaio gli controlli l’abbonamento; o comparare il grado di apertura delle vocali dei passeggeri per uno studio filologico dei dialetti nei paesi della tratta ferroviaria. Se amate cimentarvi nella scrittura, vi va ancora meglio: il popolo del treno offre materiale umano di notevole pregio. D’altronde, come pensate che sia nata la rubrica che state leggendo?

DO: Far girare le informazioni in maniera intelligente. Prima di scartare un annuncio, fatevi venire in mente un amico a cui poterlo segnalare. Se le cose vanno bene, ci rimediate un caffè – o perlomeno qualche punto stima. DON’T: Sbandierare le vostre candidature ancor prima di ottenere qualcosa di concreto. In un colpo solo, aumenterete concorrenza, tirapiedi e persone a cui rendere conto. DO: Essere un po’ malpensanti. Non fidatevi troppo di annunci generici che non contengano il nome dell’azienda; e se vi è stato fissato un colloquio, effettuate prima una piccola ricerca sul web. I forum antitruffa traboccano di testimonianze: la dicitura ‘esperto marketing’ in un annuncio è spesso un eufemismo per ‘venditore porta a porta’. DON’T: Cazzeggiare su Internet senza ritegno. Vantarvi pubblicamente di quanto bevete il sabato sera può far colpo sugli amici (che razza di gente frequentate?), ma distrugge la vostra credibilità professionale. Sapete, i recruiter sanno usare Internet meglio di voi: ripulite con cura i vostri profili social.


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Ricerche per il benessere I brevetti di Biofordrug, spin-off dell’Uniba a cura di Antonella Mancini Biofordrug è nato dall’attività di ricerca di Nicola Colabufo, Roberto Perrone, Francesco Berardi e Marcello Leopoldo. «Lo spin-off è la terza dimensione dell’Università», spiega Colabufo, «ovvero è l’innovazione tecnologica dopo la ricerca di base e la formazione. Biofordrug è una società dell’Università nell’Università. Per poter competere deve registrare brevetti che difendano la proprietà intellettuale compiendo anche delle scelte etiche. Noi non prendiamo in considerazione studi su farmaci come integratori o cosmetici per la bellezza. Nasciamo come ricercatori che devono dare eticamente delle risposte a delle problematiche poste secondo la mission e lo statuto dello spinoff». Biofordrug sta assolvendo pienamente all’estrusione della terza dimensione: ha assunto a tempo indeterminato tre persone, ha offerto sei contratti a progetto a ricercatori che si sono interfacciati col team per tesi di laurea e dottorati di ricerca ed è riuscita a registrare importanti brevetti affacciandosi a nuove frontiere della medicina. Ecco alcuni risultati: – Brevetto del kit per la diagnosi precoce dell’Alzheimer: un test di laboratorio sul sangue dei pazienti per misurare la quantità di rame libero entrata in circolo nell’organismo creando tossicità. Il rame libero può accelerare la deposizione nel cervello delle placche beta-amiloidi che sono i costituenti dell’Alzheimer. Dalla quantità di rame libero nel sangue si può capire con anticipo se una persona è a rischio. Il kit è oggi commercializzato da Canox4drug SpA. – Brevetto di radiotraccianti PET per lo studio della diagnosi precoce dell’Alzheimer: si stima la quantità di Glitoproteina-P che contribuisce a rimuove fisiologicamente le placche beta-amiloidi. «Quand’anche si formino le placche esiste un

sistema di pulizia da parte del cervello che le elimina» spiega Colabufo, «Quando questo meccanismo perde colpi però le beta-amiloidi aumentano e con i radiotraccianti PET brevettati da Biofordrug si riesce a valutare questa inefficienza». – Test per la malattia genetica di Wilson: il rame libero, in quantità ancora maggiore rispetto all’Alzheimer, crea neurotossicità nei bambini affetti da Wilson creando grossi problemi neurologici. Per loro si può usare il kit proposto per la diagnosi precoce dell’Alzheimer. – Brevetto farmaci teragnostici: il professor Leopoldo si occupa di patologie legate al neurosviluppo – autismo e sindrome di Rett – battendo la nuova frontiera della teragnostica. Biofordrug vuole arrivare a brevettare composti che fungano sia da terapia che da diagnosi. – Identificazione di biomarker nella diagnosi del carcinoma del pancreas mediante l’individuazione di microRNA: i microRNA sono filamenti genetici che svelano sia la predisposizione a una patologia sia la capacità di risposta che l’individuo avrebbe al farmaco. Biofordrug sta svolgendo tali studi di frontiera clinico-sperimentali per il carcinoma del pancreas.


Architetture bidimensionali

Un prezioso volume racconta gli edifici storici dell’Università ‘Aldo Moro’ di Bari a cura di Bianca Chiriatti Un vero patrimonio di architettura, pittura e arte è quello conservato negli edifici storici dell’Università ‘Aldo Moro’ di Bari. E dal momento che le varie sedi, compresa quella distaccata di Taranto, hanno subito nel corso degli ultimi anni restauri e riqualificazioni, l’Università ha deciso di rendere noto il lavoro svolto, realizzando uno splendido volume, edito da L’Orbicolare, dal titolo Gli edifici storici. Il tomo, pubblicato grazie al contributo di UBI – Banca Carime, è stato realizzato in collaborazione con i tirocinanti del settore editoriale e redazionale dell’Università. Corredato da alcuni testi riguardanti le bellezze artistiche delle sedi dell’Ateneo barese (autori Gioia Bertelli, Christine Farese Sperken, Gianfranco Ferrara Mirenzi, Luigi Forte, Mimma Pasculli Ferrara, Emilia Pellegrino, Paolo Ponzio, Luigi Todisco, con la traduzione inglese di Sarah Jane Christopher), il libro, realizzato grazie alla collaborazione di Annalucia Leccese e Mario Colonna, si distingue soprattutto per le tante e splendide fotografie provenienti dagli archivi dell’editore e del fotografo Luigi Todisco. Il pregiato volume, finito di stampare nell’ottobre 2013, contiene approfondimenti su otto edifici storici dell’Università ‘Aldo Moro’: si parte

dall’imponenza del Palazzo Ateneo, con un occhio di riguardo per i suoi cortili interni e alcune splendide immagini di dettagli pittorici dell’Aula Magna e del Salone degli Affreschi; un’altra sezione è dedicata al Centro Polifunzionale per gli Studenti, ex Palazzo delle Poste e Telegrafi di Bari, recentemente riqualificato: il tomo illustra tutte le fasi del restauro e mostra il modo in cui è stato reso perfettamente funzionale alle attività legate all’ambito universitario (è infatti sede di importanti iniziative). Altre magnifiche fotografie illustrano le bellezze del Palazzo in Strada Torretta, del Dipartimento di Scienze dell’Antichità, del Museo Orto Botanico, all’interno del Campus Universitario, e della già citata sede distaccata di Taranto, inaugurata nel 2011, sita nel maestoso edificio del convento di San Francesco. La sezione finale del volume illustra la collezione archeologica dell’Ateneo, esposta nei corridoi del Rettorato, che conserva in quattordici vetrine una serie di reperti di età paleolitica, neolitica e preromana rinvenuti nell’hinterland barese.

Nella foto: Aula Magna Aldo Cossu. Copyright Edizioni L’Orbicolare


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Anatomia di un’artista Silvia Giambrone e i vincoli ricamati sul corpo della donna

a cura di Monica Tarricone «Finché ci sarà un battito cardiaco da ascoltare ci sarà sempre molto da dire col corpo e sul corpo. Mi piace citare Pina Bausch che diceva: danziamo, danziamo o siamo perduti». Si è soliti associare le ultimissime ricerche artistiche ai nuovi media, in cui l’esperienza virtuale spesso sostituisce quella reale: non è in questa direzione che si colloca Teatro anatomico. La performance di Silvia Giambrone è stata premiata lo scorso settembre alla Biennale di Kaunas, in Lituania, e sembra recuperare una danza antica e addirittura costitutiva dell’essere umano. Pur adattata a una musica moderna, come ci racconta l’artista stessa, «le danze cambiano e anche i ritmi e le orecchie che li seguono, ma il corpo vuole danzare, sennò è perduto». Visita il sito di Silvia Giambrone http://bit.ly/19AqsX5

Durante l’esibizione, realizzata al MACRO di Roma nel 2012, la Giambrone, siciliana, si è fatta cucire addosso un colletto di pizzo riuscendo a mantenere

quella gravità d’espressione che si addice a un rituale religioso. «Naturalmente non ho potuto fare nessuna prova», rivela l’autrice, «pertanto il risultato era ignoto anche a me. Non sapevo cosa sarebbe successo né come l’avrei presa io, se avrei retto con grazia il dolore, a che grado di dissimulazione sarei arrivata e quanto la dissimulazione stessa sarebbe stata appropriata ed in armonia con il senso stesso della performance. Non sapevo se mi sarebbero rimasti dei segni o altro ma sapevo perché ero lì e cosa stavo facendo e ho trovato la concentrazione e la fermezza in questo, il resto è venuto da sé». Nonostante la Giambrone non sia propriamente una performer, è riuscita a condensare alcuni tòpoi della sua ricerca in un’azione che prende lo spettatore allo stomaco. Innanzitutto c’è il merletto, un oggetto che ha accompagnato prima l’infanzia dell’artista – spesa fra «case di zii e nonni piene di centrini, merletti, pizzi» – e poi la sua ricerca, che è


diventata protagonista di lavori come Il pizzo e Made in Italy. «Il ricamo era uno dei pochi lavori e dei pochi svaghi concessi alle donne, si trova ancora ora tra le cosiddette ‘arti femminili’ e mi sono chiesta perché le donne aderissero a questo tipo di attività, ottenendo degli effetti piuttosto ambigui, perché se da una parte era appunto uno dei pochi svaghi concessi, dall’altra andava a rinforzare una certa cultura di genere». Il pizzo dunque come simbolo di libertà condizionata, come elegante manifestazione fisica di una condizione mentale subordinata. Ma una riflessione sulla condizione esistenziale della donna non può non considerare il tempo. Certo, niente meglio del pizzo può rappresentare la trama di un tempo passato a tessere anziché a vivere. Però ciò che rende superbo il Teatro anatomico è la considerazione del pizzo in confronto al tempo della Storia: uno strumento di attuazione di quel biopotere individuato da Michel Foucault. Non a caso la

Giambrone parla di «un’archeologia culturale fatta di oggetti apparentemente insospettabili che invece hanno costituito una stratificazione culturale» la cui analisi può creare un nuova percezione della realtà. Per esempio aumentando la consapevolezza di quanto alcuni oggetti connotino il nostro corpo più di quello che pensiamo. Una finalità che l’artista ha deciso di perseguire usando in via del tutto eccezionale il corpo, lo strumento con cui è possibile «raggiungere un certo grado di intensità». Teatro anatomico, progetto di un’artista che normalmente non si interessa all’arte performativa, risulta essere senza dubbio un lavoro ‘classico’ che si collega alla Storia non solo nei temi ma anche nella forma, quella stessa utilizzata negli anni Sessanta, quando gli artisti ci mettevano non solo la faccia ma tutto il corpo.

Foto di Alessandro Calzetta. Un ringraziamento particolare alla Galleria Doppelgaenger


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Fatti (strafatti) e interpretazioni Quello che ancora non sai della Realtà a cura di Cristò Parlando di libri, per quanto mi riguarda ricorderò il 2013 come l’anno in cui il dibattito New Realism vs Postmodernism, che aveva riempito i paginoni degli inserti letterari per tutto il 2012, è stato risolto in teoria e in pratica. Nella pratica da Efraim Medina Reyes e Antonio Moresco, in teoria da Walter Siti e Franca D’Agostini. Partiamo proprio dal libro di quest’ultima, autrice del saggio Realismo? Una questione non controversa (Bollati Boringhieri) che mette ordine nella questione smontando i luoghi comuni e le mistificazioni che, spesso, sono stati gli unici argomenti del dibattito. Un libro che finalmente riesce a dimostrare, con il rigore del linguaggio filosofico, che esistono sia i fatti che le interpretazioni. Walter Siti, invece, affronta la questione dal punto di vista letterario nel suo breve saggio Il realismo è l’impossibile (Nottetempo) definendo il realismo come forma di innamoramento, ovvero come uno specchio deformante, una descrizione che coglie impreparata la realtà stessa. Proprio la possibilità di cogliere la realtà impreparata è uno dei temi dominanti nel libro La lucina di

Antonio Moresco (Mondadori), in cui la solitudine del protagonista si fa sostanza nei dialoghi col mondo vegetale e animale, nelle sue domande agli insetti sul loro affannarsi quotidiano, nell’osservazione costante che diventa racconto del minuscolo e dell’infinito, di tutto ciò che esiste ed è reale anche al di là della percezione umana. Anche in Quello che ancora non sai del Pesce Ghiaccio di Efraim Medina Reyes (Feltrinelli) il periodare perentorio prende spesso e volentieri posizione sull’argomento («il mio unico nemico mortale è la realtà, il resto o mi commuove o non ha importanza») e la vicenda narrata sembra analizzare tutte le possibili deformazioni di una realtà che, per quanto percepita da un io narrante non propriamente lucido (tanto da cercare con ostinazione «un colore più scuro del nero»), sembra esserci a priori. Città Immobile esiste al di là del protagonista, e anzi lo confonde contraddicendo le sue interpretazioni; «La realtà è il meccanismo che controlla il giocattolo che siamo. Non è un mistero, siamo lì, qui, prigionieri della realtà. Possiamo seguire gli eventi di cui facciamo parte e quelli a cui siamo estranei allo stesso modo in cui un lampo segue la pioggia».


Aerei di carta a cura di Cristò

Thomas Pynchon Bleeding Edge Einaudi Euro 20,00 – 500 pagine marzo/aprile 2014 Una detective story ambientata nella Silicon Alley che Jonathan Lethem ha definito “un libro esemplare, affascinante e divertentissimo”.

Sam Lipsyte La parte divertente minimum fax Euro 15 – 250 pagine febbraio 2014 Una raccolta di racconti che descrive la mediocrità della middle class con una rara carica grottesca e irriverente. Una delle penne più pirotecniche e sovversive della nuova letteratura americana.

Uno e molteplice George Saunders torna con i racconti di Dieci dicembre a cura di Carlotta Susca

Kawakami Hiromi Le donne del signor Nakano Einaudi Euro 18,50 – 200 pagine gennaio 2014 La bottega del rigattiere Nakano dista anni luce dai frenetici quartieri commerciali di Tokyo. È qui che nasce la storia di due giovani impiegati. Hitomi e Takeo, per un romanzo lieve e intenso sulle relazioni umane.

Nel discorso tenuto quest’anno ai laureandi della Syracuse University (e che sia stato chiamato a tenerlo è un sigillo di autorevolezza), George Saunders ha voluto sfatare alcuni dei «malintesi innati» con cui veniamo al mondo; fra questi: «Noi siamo il centro dell’universo (in altri termini, la nostra storia personale è la storia più importante e interessante al mondo. Anzi, in realtà è l’unica storia che conti)». Quanto sia importante smettere di crederlo e, allo stesso tempo, crederlo quanto basta per prendersi adeguatamente cura di sé, è qualcosa che impariamo tutti faticosamente col tempo, a spese nostre e di chi ci sta intorno. Quanto conti che uno scrittore sia in grado di

mantenere questo equilibrio per raccontare storie è evidente nei racconti ben riusciti, come in quelli di Dieci dicembre (minimum fax 2013). Saunders, che già con il racconto Parlo anch’io© si era distinto per la capacità di descrivere il presente proiettandolo in un futuro distopico ma non cupo, solo un po’ crudele, conferma nell’ultima raccolta di avere la capacità di mantenersi saldamente al centro dell’universo del testo e allo stesso tempo di decentrarsi nei suoi personaggi, calandosi nei loro panni con una capacità mimetica straordinaria e godibilissima.



Un falò di 25 metri di altezza e 20 metri di diametro: è il fuoco più grande del bacino del Mediterraneo che viene acceso a Novoli (Lecce), nel cuore del Salento nella magica notte della ‘Fòcara’. Costruita con migliaia di fascine di tralci di vite secchi provenienti dai feudi del Parco del Negroamaro, sapientemente posate con tecniche tramandate di padre in figlio, la ‘Fòcara’ tornerà a bruciare il prossimo 16 gennaio 2014 in occasione delle celebrazioni della festa di sant’Antonio Abate, patrono della città. U 
 na tradizione secolare che si ripete ogni anno e che vede una lunga preparazione: dall’8 dicembre, a Novoli, inizia la costruzione del grandissimo falò che si chiude con la sua accensione la sera del 16 gennaio, vigilia della festa del Patrono e giorno in cui la ‘Fòcara’ è la vera e unica protagonista.
La mattina del 16 gennaio si compie il rito antichissimo della bardatura che vede una catena umana issare sulla cima del falò l’immagine di sant’Antonio. Nel primo pomeriggio della stessa giornata si celebra la benedizione degli animali e appena scende la sera un avvolgente fuoco pirotecnico accompagnato da musica innesca l’accensione della ‘Fòcara’. Mentre il fuoco brucia ininterrottamente, anche per più giorni, nella notte intorno alla Fòcara si balla e si degustano specialità tipiche ai ritmi di un concerto inedito che anima la piazza. La festa racconta l’identità culturale di questa terra con un evento unico e carico di simboli legati alla cultura popolare e contadina del territorio, che si muove tra sacro e profano.

La Fòcara

Tra sacro e profano, ogni 16 gennaio si accende il grande falò di Novoli Ogni anno si rinnova a Novoli di Lecce la suggestiva tradizione popolare in onore di sant’Antonio Abate. Tra sacro e profano torna a bruciare la ‘Fòcara’ il fuoco più grande del bacino del Mediterraneo. Un grande e atteso evento che si festeggia con musica, arte, tradizione ed enogastronomia.

Visita il sito di Puglia Events http://bit.ly/18TWXLS


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Zuppa bicolore di cavolfiore Le ricette

Questa zuppa è un primo piatto leggero e nutriente, ricco di vitamine e… colorato! Ideale per le fredde sere d’inverno, ti avvolgerà con la sua morbida e vellutata consistenza. Cosa ti serve per prepararla? Ingredienti per 2 persone: 1 cavolfiore (arancione oppure bianco) 1,5 bicchieri di latte di riso ¼ di cavolo cappuccio 1 porro coriandolo in polvere curcuma in polvere pepe verde in polvere olio q.b. sale Tempo: 30 minuti

Visita il sito di Cucina Mancina http://bit.ly/1hF6i3m

Versa in due ciotole di terracotta e decora il piatto con le verdure saltate e gli alberelli del cavolfiore. Completa il tutto con una spolverata di pepe e un filo d’olio. Curiosità: il cavolfiore arancione è ricco di betacarotene e quindi ha un maggiore apporto di vitamina A. È stato scoperto per la prima volta in un campo di cavolfiori bianchi in Canada circa 30 anni fa.

Come la cucini? 1) Lava e taglia le infiorescenze (o alberelli) del cavolfiore, quindi mettili a bollire in abbondante acqua salata per circa 10 minuti.

Mancinità: no glutine, no lattosio, no soia, no uova, pochi zuccheri, poco sodio, vegano.

2) Scola il cavolfiore e tieni da parte alcune delle infiorescenze. Metti a cuocere per altri 10 minuti la restante parte con il latte di riso, un pizzico di coriandolo e di curcuma in polvere.

Come nasce questa ricetta? Questa ricetta è stata partorita nell’angolo ortofrutta di Whole Food, a San Francisco, dove eravamo state attirate dalla voglia di sperimentare i prodotti locali californiani, ed è stata cucinata nel nostro appartamentino a Castro. Flavia Giordano l’ha preparata, Lorenza Dadduzio l’ha fotografata ed Elvira Greco l’ha validata dal punto di vista nutrizionistico.

3) Nel frattempo, taglia il cavolo cappuccio a striscioline e il porro a rondelle e saltali per circa 5 minuti in una padella con un filo d’olio. 4) Lavora con il frullatore a immersione il cavolfiore sino a ottenere una purea.


Giramondo Alla scoperta delle birre trappiste tra Belgio, Olanda e Austria

a cura di Lello Maggipinto Ricca di storia e tradizioni, l’Europa continentale è meta ideale per viaggi tematici caratterizzati da percorsi magici e affascinanti. Coniugando storia, spiritualità e gastronomia, per esempio, si potrebbe programmare un on the road alla scoperta delle birre trappiste. Fiore all’occhiello dell’intero mondo birrario, la bevanda omonima è fabbricata dai monaci trappisti o sotto il loro diretto controllo. L’ordine dei trappisti fu fondato nel diciassettesimo secolo in reazione al rilassamento dei costumi: fra le regole imposte, quella del lavoro manuale, anche per la produzione di birra, la cui popolarità è cresciuta vertiginosamente, tanto che in molti provano a sfruttarne il nome. Per questo motivo, nel 1997 venne fondata l’Associazione Trappista Internazionale (ITA) e contestualmente il logo ‘Authentic Trappist Product’, garanzia di qualità e osservanza di precisi criteri di produzione. Oggi, dei 171 monasteri trappisti sparsi per il mondo, solo otto producono birra

trappista originale, e sono collocati tutti in Europa: sei in Belgio, uno in Olanda e uno in Austria. Le birre in questione si distinguono per aromi e complessità di sapore, sono prodotte con ricette antiche di secoli e meticolosamente tenute segrete da ciascuna abbazia. Alcune di esse presentano una tale particolarità al palato da essere catalogate come ‘birre da meditazione’. Per poter programmare al meglio un viaggio alla scoperta delle birre trappiste, dunque, le mete da prendere in considerazione sono: in Belgio l’abbazia di Saint Remy a Rochefort; l’abbazia di Scourmount, a Forges (Chimay); per gustare la Trappiste d’Achel occorre recarsi nell’abbazia di St. Benedictus, a 20 km da Eindhoven; nella regione storica della Gaume è l’abbazia di Notre-Dame de Orval il luogo da visitare. È possibile trovare ottima bevanda al luppolo a Westmalle presso l’abbazia di NotreDame de la Trappe du Sacre Coeur, mentre la birra trappista di Westvleteren,

considerata la regina della sua categoria e la più difficile da reperire, è prodotta nell’abbazia de Notre-Dame de Saint Sixte. L’unica birra trappista di origine olandese è fabbricata dai monaci dell’abbazia di OnzeLieve-Vrouw Van Koningshoeven a BerkelEnshot, mentre quella di Engelszell è l’abbazia austriaca (nei pressi di Engelhartszell) che produce la Gregorius, entrata a far parte della famiglia da poco più di un anno. Senza abbandonare l’Europa, è possibile programmare quindi un on the road tra Belgio, Olanda e Austria alla scoperta delle eccellenze del mondo birrario approfittandone per degustare piatti preparati utilizzando le stesse birre e per visitare le diverse abbazie: posti magici, caratterizzati da tranquillità e ideali per distendersi fra un esame e l’altro o per concedersi una meritata vacanza post lauream.


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Pool Awards 2013 Visioni, ascolti e interazioni: il meglio dell’anno

La grande bellezza di Paolo Sorrentino Un film bello e doloroso, che fotografa l‘Italia dei nostri giorni e il fallimento di una generazione. La regia di Sorrentino è mirabolante, ma Toni Servillo sfiora la perfezione.

Breaking Bad È stato l’evento del 2013, una serie di culto già entrata nella storia. Su tutti, due nomi: Vince Gilligan, ideatore e deus ex machina, e Bryan Cranston, nel suo ruolo della vita.

King Krule – 6 Feet Beneath The Moon (XL Recordings) Suoni di ricerca e slang di strada, avanguardia jazz e hip-hop, derive indie e beat ballabile. King Krule pubblica il suo debut album, il disco più sorprendente dell’anno. VIDECLIP Savage Marshal dear Di Gergely Wootsch http://bit.ly/1c4Qoum

Maker Bot Vorresti creare il tuo gioiello, si è rotta la dentiera della nonna, ti senti uno scultore nato? Grazie a Makerbot puoi trasformati in Michelangelo 2.0. http://bit.ly/1dT39He

George Sauders Dieci dicembre (minimum fax) Come zoomare nelle teste dei personaggi, assistere a un racconto in campo e controcampo, sbirciare nel futuro e godersi ogni singolo racconto.


Venere in pelliccia di Roman Polanski Come se Escher scrivesse una sceneggiatura. Travolgente, vertiginoso, imprevedibile, e tutto con due attori e un palco (senza manierismi).

Daughter – If You Leave (4AD) Quando eccellenti liriche si incrociano alle sonorità 4AD può nascere un connubio di eterea magnificenza. Il primo disco di un trio londinese destinato a entrare nell’animo.

Antonio Moresco La lucina (Mondadori) Il più controverso scrittore italiano in una novella sorprendente che celebra il rapporto tra uomo e natura; dalla singola foglia all’immensità dell’Universo. Mother Una grande madre che si preoccupa della vostra salute, della vostra sicurezza e vi ricorda di prendere le medicine. Si chiama Mother e si prende cura di voi. http://bit.ly/1kZ4v5E

Tunetrace Disegna nel mondo reale, fotografa e con Tunetrace trasformi il tutto in musica. http://bit.ly/1kZ592V

House Of Cards Se Kevin Spacey vi guarda dritto negli occhi per rendervi complici dei suoi intrighi al potere, e la regia e la sceneggiatura sono impeccabili, perché perderlo?

Evernote Evernote è un’applicazione che ti aiuta a ricordare tutto in tutti i dispositivi che utilizzi. Organizzati, salva le tue idee e migliora la produttività! http://bit.ly/1ceHQmr VIDECLIP Sour Life is music Di Masashi Kawamura + Kota Iguchi http://bit.ly/1i4UYNa


24 VIDECLIP The Paper Kites Young Di Darcy Prendergast http://bit.ly/18UztWY

The Black Angels – Indigo Meadows (Blue Horizon) La psichedelia invade il garage rock in un disco coinvolgente ed entusiasmante. Una raccolta lisergica ma dal taglio decisamente indie.

Vrase Uno schermo da indossare sul viso, ma per il tuo inseparabile dispositivo mobile. Basta infilare il telefono nel case e ti proiettano in un altro mondo. http://bit.ly/19AVXA6

Efraim Medina Reyes Quello che ancora non sai del Pesce Ghiaccio (Feltrinelli) Un romanzo fiume che ci riporta nei meandri di Città Immobile vista dagli occhi di un ragazzo malato di lupus che sogna di fare il comico.

Procreate La migliore app per trasformare il tuo device in una tavoletta grafica. http://bit.ly/1kZ4Tkt

Mood Indigo La schiuma dei giorni di Michel Gondry Una Amélie dai risvolti cupi. Onirico, iperbolico, romantico: non fa rimpiangere Eternal Sunshine…

Finzioni - Progetto di lettura creativa www.finzionimagazine.it TV = Breaking Bad Don’t cry because it’s over, smile because it happened. CINEMA = Gravity di Alfonso Cuarón Potrebbe stare tutto in quei primi 17 minuti di piano sequenza. LIBRO = La caduta di Diogo Mainardi:


Ben Fountain È il tuo giorno, Billy Lynn! (minimum fax) Una giornata che Billy Lynn non potrà dimentica, in cui gli Stati Uniti mostrano la totale spettacolarizzazione di ogni aspetto della vita. Guerra, amore e finanza.

Homeland Una thriller mozzafiato che mostra le contraddizioni del sistema americano, ma soprattutto uno specchio dello stato di perenne inquietudine che attaglia i nostri tempi. Geniale Claire Danes.

Matana Roberts – Coin Coin Chapter Two: Mississippi Moonchile (Constellation) Un esempio di contaminazione di altissimo livello, che unisce jazz, rock e avant-garde. Un volo pindarico di straordinario impatto emotivo.

VIDECLIP Beach House Wishes Di Eric Wareheim http://bit.ly/19fS9X7

Blue Jasmine di Woody Allen Woody Allen al cubo: lascia intravedere percorsi per poi cambiare strada. E ogni personaggio è protagonista di un film a parte che potete solo immaginare.

Arrested Development Torna la serie dal geniale screenplay e dalle grande interpretazioni. Un intreccio di battute fulminanti e veri colpi di genio, per una commedia quasi prodigiosa.

Leap Motion Interagire con Mac e Pc senza toccarli: l’interazione vista e rivista al cinema è racchiusa in una scatolina Il futuro dei controller sono i nostri gesti, i nostri movimenti. http://bit.ly/1fJfAYb

Badland Badland porta i platform a scorrimento laterale al livello successivo, con un gioco basato su una fisica innovativa, una grafica strepitosa e un audio entusiasmante. http://bit.ly/19AWfqL


26 2013: un anno di ricette mancine www.cucinamancina.com PRIMAVERA
 - Focaccia alle ciliegie, di Amula degustaçion 
Il dolce della ciliegia, il rosa salato dall’Himalaya per una focaccia in cui un pezzo tira l’altro. Attenzione: extremely addictive! 
 http://bit.ly/18LuvvF
 
ESTATE - 
Gazpacho di anguria, di il-clan-destino
 Un succo prodigioso, ricco di vitamine ed odori balsamici. Fresco sollievo di una sera d’agosto, con la luna, i grilli e un pezzo di Giuni Russo in lontananza. 
http://bit.ly/19sJ2jT

 AUTUNNO
 - Crema di lenticchie e cavolo rosso, di Mara di Noia
 Profumo di spezie orientali, morbide cremosità, riccioli purpurei, in una ricetta di raffinati equilibri. Da gustare con un calice di negramaro.
 http://bit.ly/18QD5wj INVERNO
 - Patate farcite di topinambur, di Antonella Michelotti
 Meraviglia di radice, bitorzoluta, ma con un vanitoso parasole giallo oro. Sapore di carciofo, dolcezza di patata, in una ricetta semplicemente unica. 
 http://bit.ly/1ei4xYr TUTTO L’ANNO

 - Maccheroni in paella senza pesce, di Francesca De Santis
 Rosso fuoco, peperoncino scoppiettante: un classico della tradizione spagnola reinventato come solo una mancina innamorata sa fare. 
 http://bit.ly/1k7Pd0D

Caterham Bikes Il marchio britannico presenta le sue prime tre moto concept, la multiuso Brutus 750 e le due E-Bike elettriche. Le vedremo tutte in strada durante il 2014. http://bit.ly/1kn48UW

Arcade Fire – Reflektor (Merge Records) Sempre riconoscibili anche in sonorità decisamente più dance, senza dimenticare raffinatezza stilistica ed effetti speciali. Al massimo su doppio vinile 180 gr.

Solo Dio perdona di Nicolas Winding Refn Il regista firma una regia in cui le ombre risvegliano memorie lynchiane. Una fotografia impeccabile per un film che unisce rabbia ed eleganza, sangue e romanticismo.

John Barth L’algebra e il fuoco (minimum fax) Quello che pensa della letteratura uno dei grandi maestri della scrittura statunitense. Un libro per chi vuole scrivere e leggere in maniera consapevole.

Speciale cover Mark Lanegan – Imitations (Vagrant Records) La prova sulla fondatezza del luogo comune secondo cui “Lanegan con quella voce può cantare ciò che vuole”. Un album di cover acustico, nostalgico, perfetto.


Vyclone Quando il video diventa partecipativo e social. Dalla mente creativa del bassista Joe Sumner, figlio della rockstar Sting http://bit.ly/1fq8sPD

VIDECLIP Yeah Yeah Yeahs Sacrilege Di Megaforce http://bit.ly/1hoY4ZA

Love and Dishwasher Tablets www.ldwt.net Album: John Grant – Pale Green Ghosts (Bella Union) Film: A Band Called Death di Mark Christopher Covino e Jeff Howlett Libro: Autobiography di Morrissey Video: James Blake – Overgrown diretto da Nabil Miglior artwork: Kurt Vile – Wakin’ On A Pretty Daze; artwork di Stephen Powers (aka ESPO)

American Horror Story Asylum Lo scontro tra scienza e fede in un manicomio degli anni ’50. Grande cast e atmosfere decisamente angoscianti grazie a fotografia e colonna sonora di altissimo livello.

Narcisisti e teledipendenti Ecco cosa raccontano di noi le parole dell’anno di Monica Tarricone Tutti gli anni l’Oxford Dictionary stila una classifica delle parole più usate, e la vincitrice del 2013 è «selfie». L’autoscatto condiviso fa la sua comparsa nel 2004 con Flickr ed esplode con Instagram, generando addirittura sottocategorie come il «drelfie» (drunken selfie). Il suffisso in –ie sostituisce la tradizionale ortografia in –y, e non a caso. La forma vezzeggiativa smorza il senso di egocentrismo originariamente compreso nel significato del termine. Come se la rivoluzione social sdoganasse l’antico peccato di vanità. In classifica si piazzano anche parole che si riferiscono a qualcosa di inusuale o completamente sconosciuto prima, è

tale novità sostanziale a far impennare l’uso della relativa parola: è il caso della moneta virtuale «bitcoin», e di «olinguito», il piccolo mammifero carnivoro scoperto ad agosto. Ma nella lista ci sono parole che rivelano nuovi particolari sul rapporto fra gli utenti e la Rete. Innanzitutto che non riusciamo a controllarci: il «binge-watching» è letteralmente l’abbuffata di serie tv, quell’abitudine di guardare una puntata dopo l’altra finché non si esauriscono. Il termine risale agli anni Novanta, con la diffusione dei primi cofanetti di telefilm in dvd, e oggi trova ampia diffusione grazie allo streaming. Infine, fra le parole dell’anno ce n’è una che sembra suggerire che in fondo Internet non ci ha cambiato poi così tanto, ed è «twerk». Sì proprio lui, il ballo sensuale reso celebre da Miley Cyrus. Il sesso, anche solo accennato, rimane un evergreen delle ricerche su Google e delle conversazioni fra i navigatori. A quanto pare, anche se passano gli anni, su certi interessi si può mettere la mano sul fuoco.


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In taxi verso la felicità

Intervista con Alessandro Rak, regista dell’Arte della felicità

a cura di Stella Dilauro

Visita la pagina Facebook de L’arte della felicità http://bit.ly/1kmfbxv

In occasione del suo fortunato esordio come regista dell’Arte della felicità abbiamo intervistato Alessandro Rak, fumettista napoletano e creatore, assieme ad Andrea Scoppetta, dello studio di animazione ‘Rak&Scop’, che dal 2001 si occupa di animazione, fumetti e character designing. Proveniente dalla scena underground campana e particolarmente legato a gruppi come 24 Grana e Bisca, che hanno fatto la storia della musica di questa regione, Rak parte dal mondo delle nuvole parlanti per stupire con la sua personalissima poetica visuale. L’arte della felicità ha collezionato premi e consensi, sia di pubblico che di stampa, ed è stato scelto per l’Evento Speciale d’apertura della ventottesima settimana della Critica all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Un progetto che ha anche il merito di aver coinvolto giovani disegnatori e musicisti della scena partenopea, creando un’opera di particolare rilevanza per il panorama italiano dell’animazione. Alessandro, nella tua carriera ti sei cimentato col fumetto e con il videoclip, sperimentando molteplici registri per sviluppare i tuoi racconti per immagini.

Come sei arrivato al progetto del tuo film d’esordio? Quale spinta emotiva ti ha proiettato verso questa storia? Mi è stato proposto da Luciano Stella, che era venuto a conoscenza dei miei lavori. Lui voleva racchiudere in un film d’animazione nove anni della manifestazione L’arte della felicità, un evento che prevede incontri aperti tra il pubblico e personaggi illustri provenienti da vari ambiti come scienziati, sociologi, uomini di religione e filosofi. Non c’erano grandi risorse a disposizione, solo tanta buona volontà. Io ho accettato, ma più che altro ho combattuto in questi anni al fianco di Luciano, e poi di seguito con tutti gli altri, affinché questa ‘operazione’ avesse un senso, un senso in linea con quel titolo così altisonante. Ci siamo divertiti, insomma, e gli abbiamo dato l’anima. Ho combattuto con le mie armi, ovviamente. Ho fatto tesoro delle mie esperienze e di quelle degli altri colleghi e musicisti.


L’arte della felicità di Alessandro Rak (Italia, 2013) Il film L’arte delle felicità va ben oltre la storia che racconta, partendo dalle vicissitudini del protagonista, Sergio Cometa. È un’opera che raggiunge, con grande capacità evocativa, la dimensione esistenziale più atroce, quella della separazione e della perdita, un luogo oscuro dove tutti, prima o poi, ci ritroviamo, chiedendoci se mai potremo

Quali tecniche hai utilizzato per la realizzazione questo lungometraggio? Abbiamo cercato e trovato soluzioni di tutti i tipi, a seconda della scena, calibrandole su problematiche artistiche, narrative, ma anche economicoproduttive. Abbiamo integrato contenuti 2D e 3D, ogni volta con criteri diversi, e abbiamo anche fatto qualche filmato nella nostra stanzetta per farci un’idea. Ognuno di noi animatori si è prestato a farsi filmare per interpretare fisicità diverse, ma si trattava fondamentalmente di filmati amatoriali. La musica ha sempre avuto un posto importante nel tuo lavoro, che ruolo assume nello svolgimento della storia? Un ruolo centrale. Sia perché il protagonista è un musicista (per quanto sia finito fuori strada e precipitato in un taxi!), sia perché abbiamo ‘sfruttato’ la generosità dei musicisti napoletani per la colonna sonora. Modificare un po’ la storia

fare ritorno e se davvero esiste un senso del nostro errare con le spalle ricurve per il peso di questo immenso dolore. Con questo stato d’animo Sergio rinnega aggressivamente la sua natura di musicista, perché non disposto a suonare (e a vivere) senza l’accompagnamento del suo amato fratello maggiore, deceduto nelle lontane terre dell’India. Protesta contro il suo destino decidendo di comprimere la grandezza del suo animo in un taxi che guiderà senza sosta per le strade di una Napoli piovosa e

per dare maggiore valore narrativo ai pezzi che ci avevano concesso (integrarli, insomma) era il minimo che si potesse fare per ricambiare. E poi sono arrivate anche le musiche originali di Fresa e Scialdone a chiudere il conto... Bellissime. Il tema della separazione è di centrale importanza, quali sono i suggerimenti del film per affrontare questo dramma umano? Non credo si possa tradurli in parole, perché altrimenti non esisterebbe il cinema. Quest’arte riesce a passare (più della letteratura) una descrizione accurata di un moto dell’anima senza (apparentemente) codificarlo. Ovvero è capace di darti una dritta senza che ti resti nella mente solo una frase sciocca o teorica o retorica. Ti concede degli strumenti di appropriazione degli stati d’animo, insomma. E poi è la testimonianza della smania di condividere dei tuoi simili. E questo può rincuorare...

soffocata dai rifiuti. Ma il suo taxi diventerà il catalizzatore del bene e del bello che deriva dal contatto con le vite altrui, alle quali scoprirà di essere misteriosamente connesso. Un viaggio spirituale impreziosito da suggestive immagini di speranza, in cui il potenziale poetico dei disegni raggiunge il suo perfetto climax grazie al riuscito intreccio con la colonna sonora. L’arte della felicità è un film che coinvolge e commuove, conforta e riscalda l’animo come un abbraccio sincero. (S.D.)

Accostato al lutto c’è anche il degrado di una città, di una generazione, se non di un’intera umanità che si dirige verso l’apocalisse. Potrebbe una ritrovata ‘cultura del bello’ farci risorgere dalle ceneri? Dire che viviamo nel degrado è per certi versi un’affermazione tendenziosa, perché presuppone che una situazione, piuttosto che essere valutata per ciò che è, o in funzione delle possibilità che esprime, debba invece essere inquadrata in relazione con una situazione precedente, di ‘grado superiore’, che la ponga all’interno di una parabola discendente. Chiaro che da questo approccio si determini una visione depressa del presente da cui può scaturire poi un desiderio di apocalisse (che ponga fine alla sofferenza) o di salvezza. La cultura del bello è senz’altro in controtendenza con questo perché coltiva gli aspetti migliori del presente che ci spetta, ce lo fa apprezzare e ci fa sognare orizzonti luminosi. Ci fa sentire già salvi, perché nessuno è così pazzo da volersi salvare dal bello.


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Visioni in chiaro Il 2013 dell’Apulia Film Commission: tra produzioni internazionali e cinema d’autore Nella foto: uno scato dal set del film Il Ritorno diretto da Olaf Kreisen

Il 2013 è stato l’anno del definitivo trionfo dell’immagine e dello streaming, di un racconto in perenne stato di avanzamento che utilizza lo strumento audiovisivo con inedita forza di penetrazione. La narrazione filmica si è dunque rivelata in tutta la sua forza attrattiva, condizionando scelte e consumi, ma anche caratterizzando il sistema produttivo di singoli territori. L’Apulia Film Commission ha presentato i dati di questo 2013 e di un progetto che si è sviluppato su più linee di intervento. A raccontarci il lavoro dell’ente è il suo direttore Silvio Maselli, che analizza i risultati ottenuti, propone una nuova formula di coinvolgimento del pubblico e spiega la sua posizione sulla televisione italiana. 
Nel 2013 Apulia Film Commission ha finanziato ben 55 progetti filmici, quali sono stati i parametri per la scelta ed i risultati ottenuti? I parametri sono stati misti, basati fondamentalmente su dinamiche di natura quantitativa e calcoli matematici. Il CdA, sulla base di quanto previsto dai regolamenti per il Film Found, è tenuto a esprimersi con un sì oppure con un no sui progetti arrivati. Di conseguenza, se una

candidatura per un finanziamento viene accolta, essa ottiene il 20% delle economie sostenute in Puglia. Questa cifra non può superare i 300.000 euro sia che si tratti di lungometraggi che di fiction televisive. Eravamo consapevoli che varare un fondo automatico avrebbe portato risultati importanti, ma siamo comunque sorpresi di quel che è accaduto. Queste scelte ci hanno permesso di non fermare la realizzazione di film girati in Puglia, perché il problema principale è quello del confronto con la realtà del mercato. Nonostante la bellezza del territorio e la professionalità delle maestranze, la Puglia smetterebbe di essere attrattiva per le produzioni internazionali se non disponesse di un fondo finanziario. La competizione europea è davvero serrata e si basa anche sul contributo erogato. La Grecia e la Spagna, ad esempio, sono concorrenti molto validi, sia per sostenibilità dei costi che per qualità della vita. Con 2.454.238 euro di finanziamento la Puglia ha beneficiato di 10.477.840 euro di impatto sul territorio, come è stato effettuato il calcolo e come si arriva a questo risultato? Il calcolo è abbastanza chiaro: essendo ammissibili


tutte le spese effettuate in regione e trattandosi di un fondo automatico con 20% di contributo per un massimo di 300.000 euro, i conti si fanno con facilità. Si tratta di un metodo infallibile, in cui il rapporto di base è di 1 (di contributo) a 5 (di investimento da parte delle produzioni), in linea con le migliori esperienza internazionali di founding per l’audiovisivo. Quali sono le necessità più frequenti richieste dalle produzioni che vogliono girare in Puglia? Generalmente al territorio viene richiesta la facilità di accesso alle location, l’accompagnamento per il foto scouting ed un aiuto nella fase di lavorazione iniziale. Per le produzioni, infatti, non serve soltanto scegliere il luogo nel quale possano girare, ma è necessario studiare quali sono le vie d’accesso e di fuga, in che posto realizzare la fase dedicata al trucco e parrucco, dove avere uno spazio per le prove di recitazione, e così via. Di conseguenza è necessario fornire un aiuto anche per il disbrigo di tutte le necessità legate ai permessi di occupazione di spazi pubblici e privati, così come per lo studio dell’impatto della produzione sul territorio nell’eventuale smaltimento di rifiuti, per il

pernottamento della troupe o anche per trovare una location sicura che sia dotata di cassaforte. In Puglia vi è stato un grande aumento del lavoro per le maestranze del cinema, un comparto in netta controtendenza rispetto al trend nazionale e che sta beneficiando di un grosso incentivo per la propria professione… Per il lavoro in una troupe cinematografica non c’è miglior scuola della strada, perciò l’Apulia Film Commission ha deciso – non avendo delega alla formazione diretta – di creare occasioni di lavoro direttamente sulle location. In questo campo, infatti, più ti impegni sui set più aumenta la probabilità di scalare la piramide professionale. Ciononostante abbiamo anche pensato al lifelong learning, la formazione permanente, realizzando corsi di aggiornamenti per lo sviluppo di sette profili professionali a cura di altrettanti enti di formazione (tutti selezionati tramite bando fra gli enti accreditati). Infine, stiamo insistendo su un aspetto a cui crediamo molto, la formazione della domanda. Di primo acchito può sembrare un esperimento eccentrico, ma assieme alla presidente Antonella Gaeta abbiamo deciso di puntare sulla costruzione


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Nella foto: uno scatto dal set Amiche da morire diretto da Giorgia Farina

di un gusto audiovisivo e cinematografico.
 In che modo avete pensato di costruire questo percorso di formazione della domanda?
Abbiamo investito molte energie, suddividendole fra tre assi: i cineporti, ora presenti a Bari e Lecce ma con la previsione di aprirne un terzo a Foggia per presidiare efficacemente un territorio lungo e stretto come la Puglia; la Mediateca Regionale, la cui gestione ci è stata affidata dall’assessore Godelli; infine, una lunga e interessante serie di attività di aggiornamento e networking internazionale, realizzata anche grazie a risorse del fondo Creative Europe. Apulia Film Commission è così diventata partner di ‘Enter Europe’, il programma di formazione continua del MEDIA a sostegno dell’industria audiovisiva europea e di ‘Euro Screen’, un progetto europeo della durata di tre anni che si propone di allineare le buone pratiche esistenti nel settore del cineturismo. Abbiamo inoltre realizzato ‘Closing The Gap’, il programma di alta formazione rivolto a produttori cinematografici, televisivi e crossmediali, a sostegno della strategia dell’industria audiovisiva e della divulgazione della Puglia e della sua cultura nel mondo. C’è poi stato ‘Puglia Experience’ per l’aggiornamento degli sceneggiatori internazionali, ‘I Make’ per la formazione artistica di giovani talenti locali, il Bifest

per interessare il vasto pubblico che ama il cinema qualità, la Festa del cinema di Specchia dedicata al documentario, il Festival del Cinema Europeo di Lecce... In poche parole, abbiamo provato a realizzare una lunga serie di iniziative che mirano a creare gusto per il cinema di qualità. Proprio in questo senso, il cinema d’essai ha trovato spazio in Puglia attraverso il Circuito d’Autore. Qual è stata l’evoluzione di questo progetto? Lo scopo del Circuito d’Autore è duplice: da un lato provare a salvare e valorizzare le sale delle città e le piccole multisala di provincia, in modo da permettere loro di contenere la forza e l’appeal commerciale del grande esercizio cinematografico extraurbano. Quattro anni fa infatti, quando è nato il Circuito d’Autore, ci siamo accorti che troppe sale stavano morendo, poiché i piccoli esercenti erano schiacciati dallo switch verso il digitale. Abbiamo allora mirato a proteggere almeno un decimo delle sale pugliesi, poiché su 210 schermi regionali d’Autore ne rappresenta 21. Il secondo obiettivo è quello di dare la possibilità al pubblico di conoscere un prodotto filmico inconsueto. Proprio per questo abbiamo scelto di affidare ad Angelo Ceglie la curatela del Circuito, dato che in quindici anni la sua


Tecnicamente definito “rebate”, il meccanismo di rimborso dei fondi per le produzioni funziona così: le cifre stanziate vengono erogate solo dopo la presentazione della rendicontazione completa agli uffici di Apulia Film Commission (fatture e buste paga con allegate le distinte di pagamento a cui si allega l’asseverazione di un consulente iscritto all’Ordine). A differenza delle altre filmcommission, in Puglia le produzioni sono tenute a rendicontare tutte le spese sostenute sul territorio e non solo quelle relative l’importo ricevuto. Il rapporto fra finanziamento del Film Found e la ricaduta sul territorio regionale deve essere di 1 a 5. Nel 2013 Apulia Film Commission ha sostenuto 56 progetti filmici di cui 19 lungometraggi, 8 documentari, 10 cortometraggi, 2 serie televisive, 8 tv show, 1 serie web, 5 videoclip, 1 web movie e 2 spot.

rassegna Filmaker ha formato due generazioni di cinefili. Cerchiamo di far vedere un prodotto mai domo e ordinario, che possa stupire lo spettatore, che possa fornirgli gli strumenti per apprezzare un cinema “altro” rispetto alla banalità del cinema convenzionale. Il 2013 è stato l’anno della definitiva consacrazione delle serie tv, che specialmente negli Stati Uniti stanno cambiando i parametri della narrazione per immagini. Perché l’Italia è così enormemente distante da questi standard qualitativi? L’Italia oggi non è in grado di realizzare delle serie di qualità perché il sistema televisivo è dominato dai sette nani, come li ha chiamati il prof. Stefano Balassoni. Abbiamo sette televisioni generaliste che si spartiscono il 90% delle risorse sui canali free e che hanno ancora la pretesa di parlare a tutto il pubblico. Una roba che non succede in nessun sistema radiotelevisivo maturo. Questa strutturazione è servita nel periodo “tutti contro Berlusconi” per tenere in piedi uno schema politico predefinito e per fronteggiarsi ad armi pari. Ma questo sistema comporta una povertà di mezzi per i produttori indipendenti, l’impossibilità di investire in prodotti e servizi innovativi nonché una debolezza generale del settore. La Rai ha addirittura

L’apertura alle attività cinematografiche e culturali dei Cineporti di Bari e Lecce e della Mediateca ha portato: circa 30.000 spettatori, oltre 90 giornate di lavorazione di attività di pre-produzione cinematografica e televisiva, più di 150 eventi culturali. Attraverso il Circuito D’Autore, l’Apulia Film Commission compie una politica culturale a favore del cinema di qualità con film e rassegne proposte nelle 21 sale sparse su tutto il territorio pugliese. Nel 2013 sono stati 150 titoli i d’autore in programmazione (di cui 40 in esclusiva regionale), 400 eventi gratuiti, 50 eventi d’autore tra rassegne e iniziative speciali e numerose presenze di ospiti internazionali.

16.000 dipendenti ed un bilancio che si regge al 50% con il canone annuo e per il restante 50% con la pubblicità. Tutto questo drenaggio di risorse pubbliche serve solo a mantenere uno staff che oggi non è in grado di stare al passo con la concorrenza. Per realizzare cose belle si deve avere il coraggio di smantellare lo stato televisivo in vigore, è arrivato il momento di dire che la Rai con tre canali generalisti non ha più senso. Il canone deve servire a pagare un servizio pubblico privo di pubblicità, come ha avuto il coraggio di fare Nicolas Sarkozy in Francia. Con questa televisione generalista continuiamo a sorbirci una serie infinita di fiction ad ambientazione storica, con santini laici o cattolici che invadono il prime time delle serate per casalinghe e che ammorbano il pubblico dai 50 anni in giù. La Rai fa poi di tutto per detenere il 100% dei diritti quando fa cinema e fiction, questo significa togliere valore al mercato e non permettere la circuitazione dei prodotti su altre piattaforme. Perché ad oggi esiste un solo mercato, quello di Rai e Mediaset. Solo un loro indebolimento permetterà all’Italia di risultare concorrenziale nel mondo dell’audiovisivo.

Nella foto: uno scato dal set del film Il Ritorno diretto da Olaf Kreisen


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Verso il cinema del futuro Azione/Reazione: la nuova iniziativa del Circuito D’Autore a cura di Leonardo Gregorio Nella foto: un frame di Blue Valentine

Visita il sito del Circuito d’Autore http://bit.ly/1kmfbxv

«Circuito D’Autore», spiega il direttore artistico Angelo Ceglie «si trova spesso a fare esercizio di profondità, a sentire la necessità di alzare l’asticella. L’idea di Azione/Reazione nasce anche perché la fruizione passiva è, almeno per certi versi, una forma ormai inattuale, c’è una crescente esigenza del pubblico di intervenire, che viene però inevitabilmente sacrificata. Ecco, con questo progetto si chiama direttamente in causa la partecipazione dello spettatore, per cercare di portarlo al centro dello spettacolo e della riflessione sul cinema». Gioca con il terzo principio della dinamica, la nuova iniziativa del Circuito di sale di Apulia Film Commission, cercando un punto d’incontro più saldo fra lo schermo e chi guarda. A partire, dunque, dalle immagini, quelle che sempre di più troviamo ovunque, in ogni momento, in ogni luogo, su strumenti tecnologici e apparecchi mobili, mentre la sala resta solo una fra le altre possibilità, spazio e modalità di visione fra le diverse forme di fruizione. Di recente, sulla rivista «8½» (11, novembre 2013), Gianni Canova ha scritto che «la differenza che c’è fra vedere un film in sala o su un altro dispositivo è simile a quella che intercorre fra un amplesso e una

masturbazione. In sala si è sempre almeno in due, in tv o sul computer ci sei solo tu, illuso di poter bastare a te stesso. Beninteso: entrambe le esperienze (l’amore a due e l’amore solitario) producono piacere. Ma sono piaceri diversi». Se Circuito D’Autore dalla sua nascita tenta di proteggere quell’amore di coppia, Azione/Reazione vuole evitare la routine e arricchire, rendere anche più complesso il rapporto, inseguendo in qualche modo direzioni inedite. Partito innanzitutto dai social network, da una comunicazione attorno a una semplice parola (Reagisci!), cercando così di captare maggiore curiosità e al contempo le prime risposte, i primi segnali di partecipazione del pubblico, il progetto si è articolato inizialmente in una rassegna di sedici film, svoltasi fra il 30 novembre e Il 12 dicembre nella sala del cinema Il Piccolo di Bari Santo Spirito, otto appuntamenti («sette più una bonus track») scanditi ogni sera dalla presenza di due film diversi, proiettati in successione, un classico e un altro titolo in qualche modo a esso legato, direttamente o indirettamente ‘debitore’, anzi − sottolinea Ceglie − che rappresenta proprio una sorta di ‘reazione’ all’opera che lo


precede. Ecco allora, in un viaggio di traiettorie e sguardi diversi, nella geografia del cinema, le assonanze, i cortocircuiti, i riflessi e le fughe fra – soltanto per ricordare alcuni dei film presenti – Casablanca di Michael Curtiz e Provaci ancora Sam di Herbert Ross, Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu e Goodbye South, Goodbye di Hou Hsiao-hsien, Faces di John Cassavetes e Blue Valentine di Derek Cianfrance, Gangster Story di Arthur Penn e Cuore selvaggio di David Lynch, o ancora, la «bonus track» composta da Blow-Up di Michelangelo Antonioni e Blow Out di Brian De Palma. Ma è soprattutto a un livello ulteriore che un progetto come Azione/Reazione si fa più interessante, più stratificato: diffusa in principio solo nell’ambito della rassegna tenutasi al Piccolo, è attualmente in distribuzione gratuita anche nelle altre 20 sale del Circuito una pubblicazione corredata degli scatti del fotografo Roger Ballen, equilibrista fra realtà e finzione, il cui lavoro ha intercettato apprezzamenti internazionali, dal Centre Pompidou di Parigi al MOMA di New York. L’’azione’, in un certo senso, è rappresentata da sette citazioni, pensieri sul cinema e l’arte, che intervallano le foto e appartengono ad

altrettanti artisti e intellettuali (Wolfgang Tillmans, Colum McCann, Robert Bresson, Jean François Lyotard, Francis Bacon, Enki Bilal e Carl Theodor Dreyer). La ‘reazione’ è quella del pubblico, di fronte a queste parole e alle immagini (quello sullo schermo e quelle di Ballen); le riflessioni, le idee, gli umori del pubblico scritti sulle apposite pagine bianche del testo, da inserire in una scatola collocata in sala. Più avanti, in un’altra pubblicazione a tiratura limitata, Reazione/Azione, verranno ospitate le considerazioni più incisive e stimolanti del pubblico e le ‘risposte’ a queste da parte di sette intellettuali. Magari (anche) per capire dove il cinema sta andando e come il nostro sguardo sta mutando. Perché «privato del grande schermo», come ha scritto Gabriele Pedullà nel suo libro In piena luce. I nuovi spettatori e il sistema delle arti (Bompiani, 2008), «il cinema del futuro sarà inevitabilmente diverso da quello che abbiamo conosciuto sino ad ora. E diversi saranno gli spettatori». Eppure la sala può continuare a vivere, ma se vuole farlo, rimanendo se stessa pur cambiando, forse deve ripartire − e in diverse forme − proprio da loro. Da noi.

Nella foto: un frame di Casablanca


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Carta da rock Nasce a Bari la prima emeroteca musicale italiana dedicata alla cultura rock, pop ed elettronica a cura di Marilù Ursi Abituati ad esaudire ogni nostro desiderio di ascolto musicale, dovremo forse sforzarci un po’ per comprendere una fruizione sonora lontanissima dall’era Spotify. Facciamo un salto indietro e ricordiamoci di quando Napster ci permetteva di scaricare in maniera lenta, ma assolutamente sorprendente, mp3 che intasavano la linea telefonica non ancora raggiunta dall’adsl; e ancora a ritroso, verso la richiesta del pezzo in radio da registrare tramite il mangianastri. A voler continuare questo viaggio nel passato delle abitudini di pirati e musicofili rockettari si arriverà al momento in cui la supremazia della cultura musicale era sicuramente di stampo cartaceo. La rivista musicale, il gioiello che i cultori sfogliavano con estremo rispetto, ha catalizzato l’attenzione e le curiosità di intere generazioni che spesso, soprattutto in provincia, erano fuori da ogni possibile commercio di vinili. Storiche riviste specializzate in ambito musicale, e più in genere attente a movimenti e correnti nella cultura di massa, sono raccolte a Bari nella sede della Mediateca Regionale: da periodici internazionali come «Rolling Stone U.S.A.», «The Face», «Mojo», «Vox» e «Interview» all’italianissima «Ciao 2001», memorabile fanzine nazionale di questo genere.

L’idea di ‘MEM – Mediateca Emeroteca Musicale’, la prima emeroteca musicale italiana dedicata alla cultura rock, pop ed elettronica, ha preso forma dopo la generosa donazione di Luca De Gennaro, dj, conduttore radiofonico, giornalista e docente all’Università Cattolica di Milano nel corso di programmazione musicale. Il ruolo della Mediateca si consolida dunque nella raccolta, catalogazione e diffusione di materiale proveniente da collezioni private al fine di renderlo pubblico e accessibile a studiosi, appassionati e curiosi. Dopo la raccolta di riviste cinematografiche, VHS e materiali cinematografici privati, la Mediateca Regionale diventa la casa anche di questa sostanziosa raccolta di riviste musicali. Una piccolissima parte di materiale, esposto per tre giorni nel padiglione della Fiera del Levante di Bari durante il Medimex, ha dato un assaggio dell’interessante progetto che Apulia Film Commission porta avanti sulla continuità storica di materiali e supporti tradizionali legati allo sviluppo di nuovi media e imponendo una riflessione sull’uso consapevole che di questi, fruitori e addetti ai lavori devono imparare a fare. La curiosità di sfogliare storiche edizioni di una


rivista come «Rolling Stone» e leggere le recensioni sugli esordi di band che hanno fatto la storia della musica rock mondiale si accompagna alla sorpresa, per chiunque non abbia vissuto quegli anni, di avere tra le mani una rivista come «Ciao 2001». Fondata nel 1968 e destinata a diventare il magazine di culto per il pubblico musicale italiano – all’epoca ancora troppo lontano dal mercato statunitense – è proprio questo giornale a essere diventato una delle prime fonti imprescindibili da cui ogni appassionato poteva nutrirsi per avere il maggior numero di informazioni su un artista, un particolare LP o semplicemente per essere aggiornato sulle correnti musicali e culturali che si sviluppavano al di là dei propri confini regionali. In un periodo in cui la musica rock (escludendo centri nevralgici come Roma, Milano e Bologna) assumeva dei tratti carbonari, si può intuire l’importanza che tali riviste hanno avuto nelle mani dei ragazzi d’allora e quanto tuttora, sfogliandole, possano aiutarci a comprendere determinate mode e strategie massmediatiche giovanili dell’epoca, o semplicemente aiutarci a riflettere su un’arte, quella musicale, che assumeva da quegli anni in poi un’accezione marcatamente commerciale. Riviste come «The Face» e «Interview», senza dimenticare la stessa «Rolling Stone», associavano infatti un certo tipo di cultura

musicale a tendenze di costume molto più ampie e dall’eco tuttora imponente. Come tutti i progetti che vivono tra le stanze della Mediateca, anche il MEM si proietta verso l’ampliamento e la condivisione del materiale già raccolto, invitando chiunque voglia a donare il proprio materiale aderendo alla crescita virale di un progetto votato alla condivisione della cultura sonica. Anche su questo fronte la Mediateca terrà aperta la sua innovativa visione di digitalizzazione dei materiali catalogati tramite l’adesione al progetto MLOL (Media Library On Line), rendendo possibile la consultazione digitale del patrimonio conservato in sede. Interessantissimo sul fronte dell’innovazione nel campo della trasmissione dei beni al pubblico è il progetto su cui sta lavorando il CETMA di Brindisi, capofila di una cordata di aziende che, tramite il bando Living Labs, ha risposto a un fabbisogno della Mediateca, iniziando così a progettare un’applicazione di tipo museale. Non è quindi una fantasia pensare che a breve le copertine delle riviste raccolte nell’emeroteca possano diventare punti di accesso per una navigazione all’interno di contenuti interamente digitalizzati.


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Visioni a confronto

Doris Lessing, Anne Fontaine a cura di Antonella Di Marzio Gran parte delle interviste a Doris Lessing, scomparsa lo scorso novembre, si è concentrata su femminismo e autobiografia, colonialismo e impero; niente di strano, considerato il background della scrittrice britannica – nata in Persia (l’attuale Iran) e vissuta tra Rhodesia (oggi Zimbabwe), Sudafrica e Inghilterra – ma pare che il Premio Nobel per la Letteratura 2007 avesse finito per annoiarsene.

Le nonne di Doris Lessing Guarda il video in cui Doris Lessing presenta Le nonne http://bit.ly/1dS2LZD

Va detto, però, che non sempre è possibile prescindere dall’elemento (post)coloniale presente nella sua opera; ce ne si rende conto quando si tenta di sradicarlo. È il caso di Two Mothers (2013), adattamento cinematografico di Le nonne, il racconto d’apertura dell’omonima raccolta pubblicata da Feltrinelli nel 2006. I luoghi e le loro suggestioni appaiono poco più che una bella cornice nel film di Anne Fontaine con Robin Wright e Naomi Watts, ambientato in un’Australia contemporanea che potrebbe essere qualunque luogo; non così nel racconto, in cui si allude a un Sudafrica in cui il sentimento di marginalità è ancora percepibile. Ciò appare tanto più significativo quanto più sono forti le vicende narrate: Roz e Lil, due amiche in età matura, intraprendono ognuna una relazione di lunga durata con il figlio adolescente dell’altra. La parte oscura dell’impero racchiude anche la parte più oscura del sé – compresa una tensione omosessuale suggerita, seppur mai confermata – e non è casuale che parte degli avvenimenti si svolga sotto gli occhi dell’Occidente. La doppia storia segreta, infatti, viene alla luce davanti a una giovane cameriera inglese (assente nel film), letteralmente innamorata di un quadretto composto da Roz e Lil, dai loro figli e dalle loro nipoti, ma non dalle madri delle bambine. È proprio questa scena familiare ad aprire il racconto, contribuendo a costruirne l’ossatura psicologica; la composizione ad anello, inoltre, allude a una condanna inesorabile, che però rimane interna alla narrazione e non necessariamente si trasforma in giudizio morale da parte del lettore. Più che nella scrittura, è quindi nella struttura che va cercato l’elemento perturbante: lo stile asciutto della Lessing non risente di sbavature, e fa sì che una storia potenzialmente scabrosa non vada a stimolare facili ammiccamenti e pruderie. Anche la trasposizione cinematografica appare improntata alla sobrietà, al punto però che l’intreccio non sembra suscitare troppo scalpore né interesse. Dipende forse dai nostri tempi, che a donne come Roz e Lil riservano l’epiteto di cougar; dalla lentezza del film – che diluisce in 111 minuti il ritmo serrato di un racconto di nemmeno cinquanta


Two Mothers di Anne Fontaine

pagine –, o dall’aspetto levigato delle due protagoniste, che non produce il giusto contrasto con quello dei loro giovani amanti. Né il film sembra costituire quell’«insolita esplorazione della psiche femminile» promessa dalla locandina: lo straniamento del racconto si trasforma in una sensazione di estraneità rispetto alle vicende narrate, che in nessun modo risultano plausibili; e non aiuta il setting australiano che vorrebbe replicare uno scenario fuori dal mondo. È anche da ammettere che il materiale di partenza sia di non facile trattazione, e che la lettura di Le nonne sembri acquisire pieno senso solo alla luce della raccolta in cui è inserito. Pur trattando di tutt’altre vicende, gli altri due racconti del volume edito in Italia (uno in meno rispetto a The Grandmothers: Four Short Novels, l’edizione originale) contestualizzano il pezzo d’apertura, sviluppando i motivi della marginalità e dell’esclusione, del rimosso e dell’esotico. Ambientati tra Inghilterra, Sudafrica e India, i racconti, incentrati sui temi della guerra e dell’esclusione sociale, rendono credibili situazioni che, al riparo delle nostre tranquille esistenze, siamo tentati di percepire come inaccettabili.

Guarda il trailer di Two Mothers http://bit.ly/1kYlIfm


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Memorie (anche musicali) dagli anni Novanta My Mad Fat Diary: una serie tv terapeutica a cura di Valeria Martalò


La televisione britannica ultimamente ci sta regalando serie tv di pregio (spesso purtroppo inedite in Italia), come la recente My Mad Fat Diary, già rinnovata per una seconda stagione (prevista per il 2014). La serie è ambientata negli anni Novanta nel Lincolnshire, ed è tratta dalla vera storia di Rae Earl, oggi scrittrice, che ha raccolto i diari della sua adolescenza – strumento terapeutico suggeritole dallo psichiatra – per farne una trasposizione fedele sullo schermo. Il telefilm è un onesto e sincero ritratto di cosa sia in realtà la vita degli adolescenti, al di là delle semplificazioni della tv nostrana. Dimenticate I Cesaroni, dimenticate le fiction italiane in cui il disagio adolescenziale quasi non esiste e il passaggio all’età adulta è vissuto senza traumi: My Mad Fat Diary mostra la realtà delle cose, senza filtri. Certo, la storia è ambientata nei lontani anni Novanta, ma i ragazzi di oggi non faticheranno a riconoscersi in Rae, che cerca disperatamente di lottare contro i suoi demoni interiori. Perché il vero nemico di Rae è proprio Rae. La protagonista è una sedicenne obesa, appena uscita da un istituto psichiatrico dopo un tentativo di suicidio. Non ha veri amici, nessuno sa cosa le sia successo, tutti la credono a Parigi per un viaggio. Ma al ritorno a casa, Rae proverà a inserirsi in un gruppo di suoi coetanei, sempre divisa a metà tra la sua nuova vita, bella ma falsa, e quella dell’ospedale, in cui di tanto in tanto ritorna per la terapia. E a volte la scissione sarà così forte da farla cadere in frantumi. Ma My Mad Fat Diary non è solo questo: è ironia, humour nero, ciò che davvero ha salvato la protagonista da disordini alimentari e ansia patologica. Rae sa di non doversi prendere troppo sul serio: «Nessun principe mi porterà via con sé al tramonto… il motivo, ovviamente, è che non sembro

la sua principessa, ma il suo cavallo». Assai lontano dagli eccessi di Skins (altro teen drama britannico) questa serie mostra con sincerità e semplicità, senza cliché, cosa significhi attraversare i difficili anni dell’adolescenza, spesso magnificati nel ricordo degli adulti. Ogni adolescente si potrà riconoscere nelle paure di Rae, nel suo isolamento, nella bassa o nulla autostima. Anche la colonna sonora gioca un ruolo importante, sottolineando gli stati d’animo della protagonista: quando la sofferenza è troppa e rischia di far ricadere Rae nella dipendenza dal cibo (la dispensa la chiama come se fosse una sirena odissiaca) o nell’autolesionismo, ci saranno canzoni in grado di portarle sollievo. Gli appassionati di musica degli anni Novanta troveranno pane per i loro denti: britpop, poster degli Oasis, canzoni degli Stone Roses, dei Pulp e dei Verve. Precursore dei social network, il diario è per la protagonista un modo per sdrammatizzare la sua situazione, e per esprimere i suoi desideri più profondi, tra la voglia di essere accettata dagli altri e quella di isolarsi da tutto e da tutti. Come in Girls, che si rivolge a un pubblico più adulto, viene mostrata finalmente anche in tv cosa sia la vita reale degli adolescenti, fatta di giorni, ore, solitudini, divertimento, amici, paure. Alcuni critici hanno definito la serie «terapeutica». «Voglio che le persone ammettano che non sono perfette; io la chiamo ‘sicurezza nell’essere insicuri’. Tutti abbiamo i nostri demoni», dice Rae Earl, quella vera. La storia di Rae ci dimostra come, nonostante i nostri difetti e le nostre paure, si possa diventare degli adulti realizzati e sereni, senza mentire su ciò che si è.

Visita il sito di My Mad Fat Diary http://bit.ly/19AsM0c


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Video Killed The Radio Stars? I nuovi nomi dell’arte filmica incontrano il meglio della musica indipendente

a cura di Love and Dishwasher Tablets

Visita il sito di Love and Dishwasher Tablets http://www.ldwt.net

Musica e immagini. Pensate per un attimo al modo in cui quotidianamente ascoltiamo musica, e non sarà difficile che nella maggior parte dei casi a fare da chiavistello alla scoperta di nuovi artisti o semplicemente a ravvivare l’interesse per quelli già conosciuti sia un videoclip, consumato attraverso il consiglio degli amici sulle pagine di un social network. Molto più di quanto è successo per decenni con le copertine dei dischi – tutti riconoscerebbero la banana di Warhol, indipendentemente dal fatto che poi abbiano davvero ascoltato i Velvet Underground – i video hanno costruito l’immaginario delle ultime generazioni. E viceversa, dai musicarelli ai documentari, il ruolo di semplice accompagnamento o di colonna sonora che spesso affidiamo idealmente alla musica nella realizzazione di opere cinematografiche si è rivelato col tempo assai limitato e limitante. Del resto, il cinema muto non era affatto ‘sordo’ (come il successo del recente The artist ha dimostrato) e la storia del cinema è costellata da sublimi tentativi di mettere la musica in primo piano, rendendola partecipe della stessa elaborazione visiva o semplicemente facendone oggetto della narrazione. In principio fu Russell Mulchay, un australiano (poi

creatore della saga di Highlander) che candidamente ammise «volevo fare il regista, ma nessuno mi dava un budget sufficiente per un film; ma questi soldi erano più che sufficienti a fare videoclip». Nacque così il primo video trasmesso da MTV. Video Killed The Radio Stars. The British Invasion. Il luccichio farlocco del pop contro la finta purezza del rock. Take On Me. Ma in oltre trent’anni, parecchio è cambiato. I toni marroni del clip di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana, la moltiplicazione assurda del volto di Aphex Twin in Windowlicker hanno dimostrato che il connubio tra musica e video non è solo roba da teen idols. O meglio, che quel connubio può diventare vera e propria arte. Il processo è tuttora in evoluzione, e secondo almeno tre direzioni assai interessanti. La prima, che forse rimane oggi meno conosciuta, è quella della sonorizzazione di opere cinematografiche. Talvolta esperimento di improvvisazione dal vivo come se si trattasse di un lavoro di impressionismo pittorico, talvolta immaginato come lavoro di intimo completamento di capolavori del muto, sono sempre di più gli artisti che si cimentano, dai Mouse On Mars ai British Sea Power. Se proprio dobbiamo scegliere un titolo del 2013, allora sia The Epic Of Everest del


compositore britannico Simon Fisher Turner, scritto per accompagnare la versione restaurata del film dallo stesso titolo, che documenta la drammatica spedizione britannica tra i ghiacciai dell’Himalaya capitanata da John Noel nel 1924.

per la canzone; in quanto film, può avere tutto e non solo una sequenza di immagini. Creare un contesto alla musica rende la stessa ancora più potente. E diversa. E devo ammettere che tutto ciò che è differente mi attrae».

La seconda direzione, ormai la più tradizionale, è quella del videoclip. Ma è proprio qui che la creatività e la più competitiva disponibilità della tecnologia consentono la realizzazione di cortometraggi sempre più interessanti, superando spesso la stessa qualità della musica per la quale sono immaginati. Basti pensare, a solo titolo di esempio, che per mettere in video l’album più celebrato dell’anno, Reflektor degli Arcade Fire, si sono già spesi Roman Coppola, Spike Jonze e soprattutto Anton Corbijn, con i suoi testoni di cartapesta e la palla disco nel mezzo della campagna canadese. Dietro di loro si muovono veri e propri cineasti del videoclip, come il giovanissimo AG Rojas, autore tra l’altro dei dieci strazianti minuti di Hey Jane degli Spiritualized, o Scott Cudmore, regista per Fucked Up e The National, che in poche battute ci ha riassunto lo spirito che anima questi autori: «preferisco pensare al video come un film piuttosto che ad una pubblicità

La terza strada è quella del documentario. A partire da Dig! di Ondi Timoner, vincitore del Gran premio della Giuria al Sundance del 2004, la musica è tornata a essere spesso attrice protagonista, non solo attraverso la documentazione cinematografica di concerti, ma raccontando storie, come quella del giovane punk rocker Jay Reatard in Better Than Something di Ian Markiewicz e Alex Hammond, o quella degli studi di registrazione Sound City raccontata con passione nel documentario dallo stesso titolo da Dave Grohl, in apparenza elogio del rock dell’era pre-digitale, in realtà tributo alla passione dei musicisti e dei tecnici che da quegli studi hanno contribuito a forgiare la coscienza e la cultura popolare americana. E che in occasione del documentario, si sono ritrovati per incidere nuova musica. Il cerchio si chiude.

Nella foto: un frame del mini-film interattivo Just a reflektor, girato da Anton Corbijn per gli Arcade Fire


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C’è qualcosa di Twee a Roma Nord Intervista a Niccolò Contessa, leader dei Cani di Carlotta Susca Foto di Chiara Di Dio

Ascolta I Cani su Soundcloud http://bit.ly/1cdRKon

Dopo Il sorprendente album d’esordio dei Cani, la band romana ha appena concluso (a Bari) il tour di presentazione di Glamour (42records). Gruppi sempre più numerosi di fan considerano i testi di Niccolò Contessa un manifesto generazionale, si ritrovano a coltivare velleità per sopravvivere al presente, a svolgere lavori decisamente senza glamour e a trovare rifugio in una patetica, inadeguata felicità. Chiediamo al leader dei Cani le motivazioni delle scelte della band, per quanto disoneste possano essere le parole. Hai detto che l’anonimato (le foto di cani sul profilo, l’uso del sacchetto in testa) era una reazione alla sovraesposizione di immagini e all’importanza che rivestono nella nostra società; la vostra risposta è quindi quella di adottare un atteggiamento ironico (penso ai ‘titoli di coda’ alla fine del concerto, fra cui compariva un «Follow us on YouPorn»)? Sì, più che ironia, anche se serve, la questione è che se tutti stanno andando in una certa direzione, è sempre più interessante provare ad andare nell’altra, o provare a sottolineare gli aspetti più contraddittori di questa direzione verso cui stanno andando tutti. Sono stato molto colpito qualche anno fa dal vedere sui mezzi trasporto pubblici scritte come «Follow us on Twitter»; il mio modo di affrontare la cosa e la mia riposta sono provare a portarla alle estreme conseguenze o provare ad andare al contrario,

tentare di realizzare tutto l’opposto. Qualche anno fa c’era stata un’invasione di servizi fotografici, di foto dei gruppi, e abbiamo provato ad andare in direzione contraria. I testi delle tue canzoni contengono molte citazioni e molti riferimenti alla strettissima attualità: non credi che questo possa condizionarne la fruizione legandola eccessivamente al presente? Non sarà difficile fra qualche anno cogliere tutti i riferimenti? È una scommessa, capisco, è lecito pensare questo, però per due anni dal primo album sembra che le canzoni abbiano retto bene, anche se è sempre difficile dirlo in anticipo. Senza paragonarmi a Battiato, ci sono suoi testi con riferimenti incomprensibili a tanti anni di distanza, però se si recepisce la tensione che c’era nel raccontare certe cose, la canzone funziona. Una delle caratteristiche comuni a vari artisti italiani contemporanei è una sorta di sconcerto per la propria stessa fama, la consapevolezza dei quindici minuti di celebrità e del fatto che possano scadere da un momento all’altro (è una sensazione che si avverte anche in Zerocalcare): credi che i venti-trentenni di oggi siano abituati a credere che sia tutto transitorio? Il mondo dello spettacolo, o, se vogliamo, della cultura pop, da sempre è precario per sua stessa


definizione: la fama è transitoria. La novità è che nella mia generazione, chiunque vive la precarietà come un dato di fatto, e chi lavora in quest’ambito lo sente ancora di più. La vostra etichetta, la 42records, sembra avere una cura particolare per i suoi artisti, e sembra dosare la possibilità del download gratuito con l’organizzazione di live. Come credi che sia possibile fare delle musica un lavoro (come recitava lo slogan del Medimex)? L’aspetto più propriamente discografico è chiaramente in enorme crisi. La nostra etichetta usa il download gratuito in maniera complementare a mezzi più o meno tradizionali: dal vinile al disco su iTunes o su Spotify; per esempio, non ci sono dischi interi in download gratuito dei Cani, mentre c’è quello con i Gazebo Penguins [I cani non sono i pinguini non sono i cani, ndr]. Che il modello tradizionale non regga più lo vediamo con le vendite dei dischi, che sono molto basse. Su quello che succederà non ho una risposta, nel frattempo sicuramente il live diventa una fonte più importante (molto prosaicamente) di reddito per chi suona. È strano dire che la musica indipendente è un lavoro perché si fonda molto fortemente – almeno in teoria – sull’assoluta libertà dell’artista, che non subisce pressioni di tipo commerciale, e quindi deve mettere in conto il fatto che ciò che fa possa piacere o non piacere, vendere o non vendere, interessare o non interessare: è molto difficile aspettarsi un riscontro economico immediato. Diverso è per chi fa il musicista per lavoro: usciamo dall’ambito artistico ed entriamo in quello della professionalità. Penso che tutto il lavoro abbia dignità e non mi fa paura l’idea di fare lavori di altro tipo, come ho già fatto. Torniamo a parlare dei Cani: come altre band in Italia avete un approccio alla canzone recitato, letterario. Credi che questo sia legato a una caratteristica della musica italiana, che si presta

meno di quella anglosassone al cantato? È un circolo… non so se dire vizioso o virtuoso, un sistema che si autoalimenta, la lingua italiana rende difficile trovare delle soluzioni musicali, lavorare in modo musicale, ci sono artisti che ci sono riusciti benissimo, come i CCCP, ma anche il cantautorato classico, che attribuisce grande importanza alla parola: se quelle sono le influenze, si tende a fare quello, è un cane che si morde la coda. Nel mio caso mi trovo particolarmente bene con le parole, e quindi trovo naturale avvicinarmi alla canzone dal lato del testo più che da quello musicale. Però i punti di riferimento della band sono più vari, c’è anche l’elettronica. Gli ascolti sono molto trasversali, in realtà non ho mai ascoltato tantissima musica italiana, i riferimenti vanno dall’elettronica dei Daft Punk e dei Justice, fino all’indie rock americano classico, con cui sono cresciuto, come i Nirvana, i Sonic Youth… e comprendono anche il rap, sia italiano che non, per la denuncia dell’attualità nei testi. Potresti indicare ai lettori di «Pool Academy» un libro, un film, un disco e una serie tv rappresentativi del 2013? Come serie tv indubbiamente Breaking Bad, che è finito quest’anno e a cui mi sono veramente appassionato; per quanto riguarda il libro, suggerisco È il tuo giorno, Billy Linn, di Ben Fountain, edito da minimum fax, una storia molto ben scritta sull’Iraq, ma anche sull’America di oggi, in cui si parla anche di Beyoncé; di film te ne dico uno che non mi è piaciuto: La grande bellezza, che sta avendo un grande successo, anche all’estero, ma non condivido i giudizi positivi. Quanto al disco: prima ho detto che non ascolto molta musica italiana, però un disco che è uscito quest’anno e che mi è piaciuto moltissimo è Fantasma dei Baustelle.


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Black American Music Il jazz oggi a New York a cura di Michele Casella Nella foto: Nicola Gaeta fotografato a New York da Gianni Cataldi

Se la musica è specchio della vita contemporanea e il suono è vibrazione di relazioni e tensioni prettamente sociali, allora l’intreccio fra culture è elemento imprescindibile della scena sonora contemporanea. È da questo punto di partenza che Nicola Gaeta riannoda le fila del jazz attraverso un viaggio che è diventato un ambizioso progetto editoriale pubblicato dall’editore Caratteri Mobili. BAM è infatti il racconto di un mese passato a New York attraverso le sue vie, i suoi cibi, le sue contraddizioni, i suoi club e soprattutto i suoi artisti afroamericani. Ma è anche un’opera focalizzata sul presente, una preziosa istantanea di un’intera generazione di musicisti che vuole affrancarsi dalla vecchia idea della musica jazz per trovare nuovi linguaggi e nuove derive. Una miscellanea piena di sorprese, raccolta in un corposo e interessante volume – corredato dalle splendide foto di Gianni Cataldi – oltre che in un ebook con ben 64 interviste. Ne parliamo con l’autore Nicola Gaeta, ascoltatore, critico e già autore del libro Una preghiera tra due bicchieri di gin. Come è nata l’idea di pubblicare questo libro e di realizzare sia un ebook che un volume cartaceo con contenuti complementari? In effetti non ho pensato a niente, ho preso un biglietto per andare a New York e viverci un mese. Volevo davvero realizzare questo libro e ho cercato di non perdere mai di vista l’idea di scrivere ogni giorno. Quando ho finito, mi sono accorto di aver di accumulato molto materiale. Mi sono allora

incontrato con i tipi di Caratteri Mobili e abbiamo riflettuto su come pubblicare un lavoro così corposo. Abbiamo dunque deciso di dividere il lavoro in due fasi, pubblicando prima un ebook che contenesse le 64 interviste che ho fatto New York ai musicisti più attivi della scena contemporanea. Con il resto del materiale ho invece trovato le basi per scrivere un libro costruito come un reportage narrativo e che racconta la scena attraverso le parole del mio alter ego, una canaglia che va in giro per New York a immergersi nel jazz. Questo volume meritava di essere editato e pubblicato in forma cartacea e completa il nostro esperimento progettuale e artistico. A tuo parere cosa distingue in maniera più chiara quel che accade a New York rispetto al resto del mondo? Dal punto di vista del mercato, le differenze non sono molte, oramai la globalizzazione ha imposto un modus comportamenti uguale in tutto il mondo: chi vuole vivere di musica deve fare i conti col web e con la crisi del mercato. Per quanto attiene alle differenze artistiche, invece, le differenze fra New York e l’Italia sono le stesse che ci sono fra Milano e l’ultimo quartiere della periferia di Ruvo di Puglia. L’assunto del mio precedente libro Una preghiera tra due bicchieri di gin riguardava il fatto che per me, vecchio appassionato di musica, parlare della scena jazz italiana era una roba un po’ sovradimensionata. Molti italiani, grazie al loro modo di approcciare la musica, hanno la capacità di mostrare un talento molto


personale, ma parlare addirittura di jazz italiano mi sembra una forzatura. Con questo viaggio a New York ho avuto la netta percezione di avere ragione. Attraverso il tuo lavoro di ricerca sei arrivato a conoscere la sigla BAM e a comprendere le dinamiche artistiche del nuovo jazz. Ci spieghi di cosa si tratta? BAM è un acronimo e sta per Black American Music. È la sigla con cui alcuni musicisti americani chiamano la musica che stanno suonando perché vogliono prendere definitivamente le distanze dall’annacquamento del jazz e dall’impoverimento creativo di questo genere. Al pari della musica classica, infatti, il jazz si sta sempre più avvicinando all’entertainment istituzionale e al contempo allontanando dal suo vero spirito artistico. Si tratta di un assunto che mi trova d’accordo e guardo con molta simpatia a questo approccio. Soprattutto in Italia ci sono un sacco di fighetti del jazz e vedo musicisti sempre più preoccupati di promuoversi e apparire piuttosto che di suonare e sviluppare il loro talento. Questo è il senso di BAM, un senso di ribellione di chi si vede aggredito dal mercato. Coniando questo nome si vuol mettere assieme il jazz e tutto il panorama contemporaneo dell’universo afroamericano, dal soul al funk per arrivare all’hip-hop. Nel tuo libro anche i club newyorchesi diventano protagonisti della storia, in che modo funzionano le dinamiche culturali e sociali americane legate alla musica dal vivo?

La politica culturale a New York è molto semplice: non esiste. Nel senso che se uno vuole aprire un club, lo apre, mette su uno staff che lo gestisce, sceglie una direzione creativa e cerca di farlo funzionare. Ma affinché questo avvenga, chi ci lavora si deve davvero spaccare la schiena per cercare gli artisti che suonano bene e scoprire i linguaggi più innovativi, altrimenti la gente non compra il biglietto e non entra nel locale. Non funziona come qui da noi, dove il direttore artistico aspetta le pappine dei soldi pubblici e solo dopo prepara il programma dei live. A New York, se vuoi lavorare nella musica, devi saper suonare ed essere creativo. Anzi! Devi pure essere bello e saperti presentare, altrimenti sei fuori. Quali sono stati, a tuo parere, i dischi e gli artisti più rappresentativi del 2013? È molto difficile da dire, sento molte cose interessanti, ma c’è un artista che sta codificando un linguaggio di cui si sentirà parlare anche nei circuiti intellettuali. Si tratta di Matthew Shipp, un pianista abbastanza tosto di New York che suona in ambito avant-garde. Qualunque suo disco va ascoltato con attenzione, ma la cosa migliore è vederlo dal vivo. Un disco che invece ho ascoltato grazie all’esperienza di BAM è quello di Derrick Hodge, bassista di Robert Glasper, che si intitola Live today. Non lo definirei il disco dell’anno, ma certamene mi ha molto colpito.


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Next stop: virtual reality Le nuove frontiere dell’intrattenimento e dell’e-learning Immagini di proprietà del Consorzio CETMA. Tutti i diritti sono riservati.

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La vita di condivisione cambia aspetto e modalità di comunicazione; i primi protagonisti di questo mutamento sono i più giovani. Nonostante la particolare attenzione per il ruolo che l’entertainment sta avendo in questi anni, sono invece i temi della formazione e della cultura a essere di altissima importanza. L’interazione con strumenti tecnologici permette un passaggio dalla passività al coinvolgimento del soggetto ricevente, per un deciso rinnovamento dell’iter di conoscenza. Realtà aumentata e realtà virtuale concorrono entrambe a disegnare un nuovo ambiente di apprendimento che porta ad una maggiore interazione. È dunque attraverso questa ‘immersione’ tridimensionale che Italo Spada*, responsabile dell’area New Media del Consorzio CETMA, ci guida nel percorso di innovazione del virtual learning. Una sfida che investe moltissimi settori anche produttivi, in primis quello dell’editoria e del mondo mediatico. L’avvicinamento dei giovani alle materie umanistiche ed all’arte è spesso interpretato come qualcosa di noioso e vetusto. In che modo la fruizione tramite realtà virtuale può stravolgere positivamente questo modello interpretativo? Partiamo dal presupposto che la realtà virtuale (VR), non può stravolgere un modello interpretativo, ma al contrario lo può supportare attraverso l’integrazione di soluzioni tecnologiche nelle quali l’utente aumenta l’interazione con il contenuto proposto, che sia esso museale o didattico. La realtà virtuale è una tecnologia che simula la realtà e ha la potenzialità di ricostruire situazioni, luoghi, contesti del passato e del futuro. Impossibile però sostituire il rapporto emozionale che si crea osservando un’opera d’arte conservata nel tempo

per mezzo di un sistema tecnologico che riproduce un contenuto digitale; forse è però possibile attrarre utenti meno interessati, proponendo loro un contenuto culturale affiancato da performance digitali ad alto impatto visivo ed interattivo. Sono convinto che l’utente giovane possa trovare maggiore interesse nell’arte o nella cultura solo a patto che il contenuto proposto superi i tradizionali schemi di fruizione. La realtà virtuale, intesa come interazione simulata 3D di un contenuto, può sicuramente supportare questo processo proponendo nuovi modelli d’apprendimento nei quali una game console o occhialetti stereoscopici 3D diventano strumenti di studio o d’approfondimento. Proprio per questo motivo, progettare sistemi di realtà virtuale o contenuti digitali immersivi non significa solo progettare teatri interattivi, ma vuol dire approfondire la cultura in senso lato, cercando di interpretare l’utente finale in termini di tendenze, costumi e nuove generazioni hi-tech. Alla base della fruizione in realtà virtuale vi è un innovativo approccio esperienziale, ma il tutto non si limita ad un aspetto ludico. Che tipo di studi vi sono alle spalle e quali ricerche scientifiche convergono nel suo sviluppo? La realtà virtuale nasce dalla consapevolezza di voler interagire con un contenuto digitale per poterlo manipolare secondo le abitudini dei nostri sensi. Le origini di questa tecnologia risalgono a circa 50 anni fa e il primo simulatore VR sperimentato in America permetteva a più utenti di camminare in una città ricostruita in 3D in tre differenti modalità: estate, inverno o attraverso una fitta rete poligonale che costituiva il modello geometrico fruito. Oggi la realtà virtuale è un


termine che entrato a far parte del nostro linguaggio e che, in veste tecnologica, viene utilizzata in molti settori: nell’industria, per facilitare le operazioni di revisione o validazione di un componente; nello spettacolo, dove scenografie tradizionali sono state sostituite da proiezioni 4D e audio sperimentale; ma anche nell’educazione, dove libri e lavagne vengono affiancati da tablet o schermi tattili. La realtà virtuale è l’era digitale e l’era digitale è la vita che stiamo vivendo, una vita nella quale i nostri sensi necessitano di un’interazione sensoriale, che sia essa un telefonino o una televisione 3D. Coinvolgimento attivo significa anche maggiore consapevolezza e maggiori possibilità di apprendimento; in che modo l’e-learning si sta evolvendo grazie alla realtà aumentata? Se la realtà virtuale è la simulazione della realtà tramite ricostruzioni e animazioni 3D interattive, la realtà aumentata si serve di un dispositivo come tablet o telefonino per aumentare ciò che a occhio nudo non riusciremmo a percepire e che spesso trattasi di contenuti bidimensionali o tridimensionali. Il modello di e-learning ad oggi utilizzato si è dimostrato fallimentare e spesso più che convenzionale: migliaia di documenti remoti in PDF fruiti da piattaforme molto complesse e spesso non funzionali ai processi d’apprendimento. Stiamo progettando applicazioni per l’e-learning che permetteranno all’utente di inquadrare con il proprio cellulare il ‘patetico documento PDF’ e visualizzare oggetti digitali 3D, che ne animeranno il contenuto in una nuova modalità esperienziale e a supporto della didattica. Vorremo dare vita a contenuti e testi, condividerli con i nostri utenti in

rete e poterli modificare in via collaborativa. Vorremmo dare all’utente in formazione la possibilità di approfondire un learning object attraverso divertenti e accattivanti soluzioni tecnologiche sfruttando il device digitale dal quale oggi è veramente difficile separarci. In tutto ciò, chiediamo a docenti e formatori di supportarci nello sviluppo di nuovi linguaggi per l’insegnamento smart. L’immagine di un libro, se inquadrata dalla fotocamera di un dispositivo, si trasforma in un modello animato 3D comprensivo di schede d’approfondimento e guide audio. Sono certo che questo tipo d’iterazione, utilizzata da un utente di età compresa tra i 6 e i 70 anni, accrescerebbe il suo grado di interesse e comprensione del contenuto. Anche il puro intrattenimento, che pure sta scoprendo nuove formule a grande velocità, si confronta con realtà virtuale e aumentata da molto tempo. A che punto siamo e cosa sta per cambiare? Credo che quello che cambierà sarà l’approccio ad un contenuto, qualunque esso sia. Potrò provarmi i vestiti del mio guardaroba senza spogliarmi ma guardando il mio avatar in uno specchio digitale, potrò interagire in tempo reale con contenuti condivisi in ambienti collaborativi semplicemente con il pensiero, potrò navigare in un mondo che non esiste più semplicemente pensando la direzione o muovendo le mie mani. La cultura digitale sta cambiando il modo di osservare e vivere la vita. *Responsabile Area New Media Divisione di Design del Consorzio CETMA, Centro di Progettazione, Design e Tecnologie dei Materiali. www.cetma.it


FAME

Un racconto di Giuseppe Ceddia Estraendo la spina dal dito medio un’acquosa goccia di sangue cadde sulla tovaglia bianca. Con l’indice asciugò la goccia sulla tovaglia, con l’anulare e col pollice sfregò nervosamente una mollica che stazionava accanto alla macchia rosso chiaro sul bianco immacolato. Con il mignolo si stuzzicò i baffi che gli prudevano, perché arrivavano a provocargli il labbro superiore cicatrizzato e lievemente gonfio sul lato sinistro interno. Osservò prima il dito medio con una punta rossa che, ancora fresca, attirava la sua attenzione. Poi spostò lo sguardo sulla tovaglia e si rese conto di come il rosso, filtrato dal cotone bianco, assumeva sfumature più chiare che sfociavano nel rosa, nel colore dell’epidermide. Si spostò sulla poltrona di pelle nera. Erano giorni che non mangiava, la stanchezza era troppa, anche uscire per andare a far la spesa sembrava una vera e propria prova di forza, la pigrizia immergeva la sua mente e il suo corpo in calde spire di beatitudine. La debolezza delle sue membra, derivante dall’assenza di cibo, si faceva sentire ora più nettamente, lo stomaco era una caverna vuota dove l’eco del digiuno urlava il poema della solitudine. Si alzò dalla poltrona con grande sforzo e si avvicinò alle tende chiuse che proteggevano le finestre, fortunatamente pioveva e il cielo era grigio come i ratti delle fogne, il sole era un ricordo di tempi lontani. Qualche tuono, saltuariamente, fungeva da colonna sonora al quadro espressionista della sua esistenza in bianco e nero. Non si avvide di una falena che, impazzita, urtava il lume che sprigionava una fioca luce all’interno della sala, non si accorse della caduta dell’insetto, bruciato dal calore della lampada. Doveva mettere qualcosa nello stomaco, qualcosa di sostanzioso, non poteva saziarsi con del pane raffermo e della frutta vecchia di giorni, non ne aveva voglia. Pensò ai tempi andati quando la crisi era solo un’utopia dell’esistenza, quando ogni giorno si nutriva abbondantemente, quando la società lo saziava e lui, giullare incontestabile, esaltava le sue doti alle belle di turno, facendo impallidire di gelosia gli altri uomini, schiacciati dal peso enorme del suo ego e del suo istrionismo, seppur mal temperato.

Erano finiti quei tempi, ora la fame mordeva i muscoli del tempio organico del suo corpo e del suo spirito, la cassa toracica era una bara di legno marcio, tarlato, secco come i rami degli alberi sotto il sole. Chiamare un amico e farsi portare del cibo? Ma no, quali amici ormai ornavano la sua esistenza, la solitudine era regina incontrastata della sua vita, solitudine donna, solitudine amante divoratrice delle sue tediose giornate in poltrona, il buio compagno di giochi, i pensieri trottole impazzite che urtavano i bordi della calotta cranica. Si avvicinò di nuovo al tavolo, vide la piccola chiazza rosa sulla tovaglia bianca, vide la piccola spina estratta dal suo dito che moriva a pochi centimetri da essa, osservò il suo dito, la ferita non si era rimarginata del tutto, sangue fresco ancora ornava il dito medio. Fame. Aveva fame e non aveva cibo. Non aveva la forza per uscire e procurarselo. Fu un attimo, i canini guizzarono come scintille bianche elettriche e lacerarono la carne del dito medio, la bocca gustava le falangi con ardore immenso, estremo, il sangue decorava con i suoi fiotti la tovaglia, regolari fuoriuscite di liquido rosso truccavano le labbra. La fame si calmò, mangiò se stesso fino al polso, utilizzò la tovaglia per tamponare il moncherino sanguinante, raggiunse la poltrona e sedette su essa. Tra poco lo avrebbe atteso il sonno, il sole era vicino.

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