San Foca, Roca, Torre dell'Orso e dintorni

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Giovanni Cisternino

San Foca Roca, Torre dell’Orso e dintorni storia religiosità filosofia

Prefazione di Prof. Fulvio De Giorgi


Il Salentino Editore Via Larghi Case Sparse, 3 73026 Melendugno Tel. 0832 834550 Cell. 392 4202079 www.ilsalentinoeditore.com info@ilsalentinoeditore.com ISBN 978-88-96446-18-8 Collana Radici diretta dal dott. Pantaleo Candido Radici

Finito di stampare ad agosto 2015 Stampato da Grafiche Giorgiani - Castiglione di Andrano (Le) Art director Douglas Rapanà www.douglasrapana.it Editing: prof.ssa Marinella Olivieri I servizi fotografici sono a cura della redazione. L’autore ha fornito le foto delle pagine: 5, 45, 51, 65, 67, 70-72, 7599, 104, 114  (foto in basso), 138, 144, 198 (foto in alto), 210, 216, 218, 240, 269, 296, 298, 300, 364. Con il patrocinio di

Comune di Melendugno

Lega Navale Italiana - Sezione di San Foca

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Invito a San Foca e alle marine di Melendugno

Dedicato a, mio zio, Mons Rosario Cisternino

Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in Me, anche se morto, vivrĂ ; e chi vive e crede in Me, non morrĂ in eterno. Credi tu questo? [Vangelo S. Giovanni, vv. 11, 25-26]



INDICE Prefazione del prof. Fulvio De Giorgi........................................................pag. 13 Presentazione dell’autore...................................................................................... 15

CAPITOLO I 1. San Foca di Melendugno - Un insediamento del mesolitico (12.000-6.000 a.C.)...........................................................pag. 17 2. Insediamenti preistorici - La grotta di San Cristoforo.................................19 3. Le Specchie e le Tombe.....................................................................................21 4. I trulli o “furnieddhri” presenti nelle campagne di San Foca e del litorale melendugnese.............................................................................24 5. La preistoria nella terra di Rocavecchia.........................................................28 6. Origini e filosofia evolutiva di Roca, San Foca e del Salento preistorico (a cura del prof. Angelo Santoro)..............................................................................30

CAPITOLO II IL PASSAGGIO DALLA PREISTORIA AI MESSAPI 1. Il villaggio eneolitico di Rocavecchia ed altri particolari siti.............pag. 43 2. I dischi solari di Rocavecchia..........................................................................47 3. I Messapi nel Salento e in area melendugnese.............................................50 4. Siro Ferecide e la Scuola Lupiense o di Rocavecchia...................................58 5. Sviluppo della civiltà messapica in Terra d’Otranto e a Roca....................60 6. L’architettura, l’arte decorativa e il confezionamento del pane.................66 7. I costumi dei Messapi.......................................................................................66 8. La scrittura ed il linguaggio dei Messapi......................................................67 9. Le strutture messapiche di Rocavecchia........................................................69


10. Thaotor Andi Rahas, il Dio della grotta-santuario di Syrbar (Rocavecchia) e altri lemmi.............................................................................76 11. La città messapica di Syrbar (Roca)................................................................78 12. Gli approdi-santuari di Rocavecchia e Torre dell’Orso, centri di culto e attività commerciali per i popoli greco-orientali, africani, romani e pugliesi............................................................................................................81 12. Sviluppo megalitico in area melendugnese (San Foca-Roca) visto in chiave filosofico-religioso (a cura del prof. Angelo Santoro)..................83

CAPITOLO III ROCAVECCHIA E IL SALENTO: DALLA DOMINAZIONE ROMANA ALLE INVASIONI DEL IX-X SECOLO 1. La crisi socio-politica dei Messapi favorisce la conquista romana del Salento. L’antica Salapya conquistata da Annibale viene ribattezzata dai romani Segine....................................................pag. 93 2. L’antica Salapya, probabilmente, non è Acaya ma Pozzo Seccato.............95 3. L’insediamento di Torre dell’Orso in età romana legata alla grotta-santuario.......................................................................................103 4. L’insediamento di San Foca in età romana..................................................107 5. L’insediamento di Lupiae (Roca) in età messapico-romana legata alla grotta-santuario e al Pritaneo.....................................................112 6. Lupiae “felicibus castris” in epoca romana e l’approdo di Cesare Ottaviano Augusto........................................................................116 7. Lycia (Lecce) in epoca romana......................................................................125 8. Il problema toponomastico di Lycia (Lecce) e Lupiae (Roca)...................131 9. I resti dell’antica via Traiana: la Mansio di Lupiae, la foresta iuxsta foeudum e un tempio al dio Mercurio...............................135 10. La Chiesa cattolica delle origini nel Salento e l’approdo di San Pietro apostolo, I Papa........................................................................144 11. Le sedi vescovili di Roca (Lupiae) e Lecce (Lycia).....................................155 12. Importanza della via Traiana-Sallentina dal V al XI sec. d.C. Passaggio e permanenza di San Cataldo, vescovo di Roca e Taranto.....158 13. Come il vescovo Cataldo giunge sui lidi del porto Adriano....................160


14. Lupiae (Rocavecchia) sede vescovile...........................................................164 15. L’evoluzione politico-religiosa nel Salento e a Roca tra il VI ed il IX secolo d.C.............................................................................168 16. San Cataldo possibile vescovo di Lupiae (Rocavecchia)?.........................170

CAPITOLO IV SAN FOCA, IL TERRITORIO MARITTIMO E INTERNO DAI NORMANNI ALLE STRUTTURE FORTIFICATE TURRITE 1. Il paludoso paesaggio di San Foca, Roca e Torre dell’Orso.............pag. 175 2. Il periodo che va dal XII al XV secolo prendendo in esame tutto il litorale marittimo melendugnese....................................................181 3. San Foca-Melendugno, trimillenaria terra di oliveti.................................184 4. La struttura delle torri costiere di Specchia Ruggieri, San Foca, Rocavecchia, Torre dell’Orso e Sant’Andrea...............................................187 5. Torre Specchia Ruggieri: la cinquecentesca torre di guardia....................198 6. San Foca: la cinquecentesca torre di guardia e alcuni fatti di cronaca accaduti presso di essa, negli ultimi 500 anni..........................199 7. Rocavecchia: la cinquecentesca torre di guardia........................................205 8. Torre dell’Orso: il passaggio dei Crociati, la cinquecentesca torre di guardia e l’istruttoria giudiziaria per alcuni fatti lì accaduti...............207 9. La Giudecca di Rocavecchia e una menorà scoperta a Torre dell’Orso....213 10. Torre Sant’Andrea: la cinquecentesca torre di guardia.............................216 11. Le masserie fortificate.....................................................................................217 12. Struttura della masseria fortificata...............................................................220 13. Possibilità di recupero delle masserie fortificate come sviluppo dell’economia locale.......................................................................................221 14. Le masserie fortificate poste nel territorio di San Foca.............................222 15. La masserie fortificate poste nei demani di Melendugno-Roca-Torre dell’Orso-Borgagne........................................227 16. Le invasioni turche e piratesche che da San Foca e Roca penetrarono nel territorio di Melendugno e casali limitrofi tra il XV ed il XIX secolo.....250


CAPITOLO V SAN FOCA SACRA 1. Il movimento cattolico nel XVI secolo nella contea di Lecce e a San Foca.............................................................................................pag. 271 2. La biografia di San Foca Martire e il culto nella omonima marina.........274 3. Evoluzione storica e religiosa della marina di San Foca...........................278 4. Il culto di San Foca nel Comune di Francavilla Angitola (CZ)................281 5. Evoluzione storica sulla fabbrica della Chiesa di San Foca......................284 6. Francesco Antonio Paladini, 10° barone di Melendugno e Lizzanello, costruisce nel XVII secolo una nuova Chiesa Matrice a San Foca...........286 7. Come la Chiesa di San Foca diviene sede parrocchiale.............................289 8. Organigramma dei parroci/curati di Roca Nuova e San Foca................292 9. Alcune attività religiose svolte dai prelati presso la Chiesa di San Foca......295 a)  Un decreto-anatema vescovile contro i pescatori di San Foca appartenenti alla Parrochia di Roca Nuova............................................................................295 b)  Una reliquia del santo martire San Foca viene portata in pompa magna nella Chiesa omonima........................................................................................295 10. Retaggio greco-bizantino nell’area di San Foca e Melendugno …e la Coliva.....................................................................................................298 11. La tradizione delle tarantate a San Foca......................................................301 12. Prima Santa Visita di S. E. Mons. Francesco Minerva il 18/10/1953 presso la Matrice di Rocanuova in San Foca...............................................305 13. Verbale di consegna del beneficio Parrocchiale di “Maria S.S. Assunta in cielo” di Roca Nuova all’economo curato don Niceta Sindaco.............311 14. Verbale di consegna del reverendo parroco don Niceta Sindaco del beneficio parrocchiale di Rocanuova in San Foca................................315 15. Relazione del parroco di Rocanuova in San Foca fatta negli anni pastorali 1972 e 1976/77..............................................................317 16. San Foca e la festa patronale: tra storia, tradizione, folklore e cultura...322


CAPITOLO VI SAN FOCA DALL’OTTOCENTO AI GIORNI NOSTRI 1. Il territorio demaniale ottocentesco che va da San Foca a Torre Sant’Andrea...............................................................................pag. 327 2. Relazione sul demanio del Comune di Melendugno con particolare riferimento a quello delle marine......................................330 3. Gli insediamenti urbani di San Foca e quelli di tutto il territorio costiero tra il XIX e l’inizio del XX secolo....................................................................337 4. La conformazione territoriale, l’economia del Comune di Melendugno e gli antichi lemmi in dialetto per individuare i vari siti di costa da Torre Specchia Ruggieri a Torre Sant’Andrea.......................................341 5. Usi, costumi e tradizioni popolari inerenti “l’arte della pesca” nella marineria melendugnese......................................................................353

BIBLIOGRAFIA......................................................................... pag. 367 GLOSSARIO............................................................................. pag. 378 DOCUMENTI........................................................................... pag. 401 BIOGRAFIA DELL’AUTORE...................................................... pag. 432 Sostenitori dell’opera editoriale................................................ pag. 434



prefazione

Con vero piacere e con beneaugurante affetto presento questo libro di mio cugino Giovanni Cisternino, che vanta ormai una lunga bibliografia di pubblicazioni storico-locali. Il piacere e l’affetto mi legano certo all’Autore, ma anche all’oggetto stesso del volume: San Foca e le terre ad essa limitrofe. Mio padre Antonio infatti è nato a San Foca: a questo centro (che io ricordo ancora nel suo recente passato di piccolo borgo), dunque, mi legano tante memorie in una continuità di frequentazione e di presenza che non si è mai interrotta. Ma la presentazione deve imporsi un carattere di garbata sobrietà: non solo per non esorbitare rispetto allo stesso lavoro che presenta, ma anche – nel caso specifico – per due evidenti differenze di taglio e di approccio tra presentatore e presentato. Voglio dire che, da una parte, io sono uno storico contemporaneo dell’educazione, che non ha le competenze per muoversi con padronanza rispetto ad un testo che ha invece l’ambizione di spaziare sul lunghissimo periodo (dalla preistoria ad oggi) e con una visione onnicomprensiva e quasi enciclopedica su tutti gli aspetti della vita storicamente documentabili. Dall’altra, sono uno storico professionale, che si inscrive, con autodisciplina necessariamente severa, nell’ambito e nei protocolli scientifici del proprio campo di ricerca, con restituzioni di risultati alla comunità scientifico-accademica che hanno strutture e sillabi molto diversi da quelli di un cultore locale, libero cittadino della patria storiografica, che si muove appunto con libertà su vari ambiti, seguendo i fili di ricerca che crede e raccogliendo materiali anche diversi e allotri, purché riferibili al territorio a lui vicino, sporgendosi senza problemi in congetture e ipotesi interpretative anche in forte discontinuità dai canoni consolidati, assumendo peraltro, in maniera disinvoltamente intercambiabile, codici linguistici diversi: da quelli aulici a quelli vernacolari. 13


Ma, appunto, il piacere e l’affetto colmano le difficoltà e superano le differenze di approccio. E allora, da semplice lettore, anch’io mi lascio piacevolmente attirare dalla curiosità su luoghi familiari, quasi con l’avidità e la passione che mi verrebbero dalla scoperta di un vecchio e sconosciuto album fotografico di famiglia. Sì, di famiglia: che tale carattere di familiarità è quello che più prende e avvince. E muoversi allora sul lunghissimo periodo, come qui ci viene proposto, è forse faticoso e sicuramente impegnativo, ma lascia una sensazione buona, un retrogusto dolce: perché si entra ben dentro un evidente amore per la propria terra e per le sue vicende, naturalmente oltre ogni superficiale campanilismo o estrinseco localismo, e si avverte un rispetto alto e quasi religioso e sacrale per una continuità viva di memorie: insomma una riverenza profonda, un culto dei Maggiori che alla fine commuove. L’Autore, anzi gli Autori (il libro, infatti, si compone pure di corposi interventi del prof. Angelo Santoro, dal taglio di antropologia culturale e filosofica) dicono, con vera ed encomiabile modestia, di voler mettere in mano ai turisti venuti nel Salento quasi una “guida”, che possa dare loro il modo di conoscere lo spessore storico di queste terre e consentirgli di orientarsi tra le vestigia di tale così illustre ed importante passato. In realtà, a lavoro finito, si ha l’impressione che sia molto di più e di diverso da una guida essenziale: un testo ampio che mira all’affresco totale, non disdegnando peraltro di tanto in tanto gli approfondimenti specifici e piccoli della miniatura; un volume che riporta con dovizia documenti e dati, molte notizie e informazioni, più destinate ad un lettore del luogo che ad un ignaro e occasionale turista. Se mai, il turista potrà considerare questo lavoro come uno dei ‘ricordi’ da portare a casa e da leggere con calma in tempi successivi alla sua visita, per riportarla alla mente e immergerla, nella lettura, in un favoloso passato storico. Termino allora queste righe di presentazione, che vogliono dire la mia gratitudine a Giovanni e al suo amico co-autore. E vogliono dirla con la leggerezza di un soffio di vento. Chi conosce San Foca sa benissimo che è esposta a tramontana e che chi non ama questo vento robusto e tagliente non può trovarsi bene sulle spiagge di questa marina e sul suo lungomare. Lo stesso santo, San Foca martire (santo bizantino, reso tridentino e barocco nell’iconografia sacra), è appellato – nel canto devoto – “signor dei venti”. Una folata di vento volti, dunque, senza indugio questa pagina della mia presentazione e il lettore passi subito alle dense pagine del libro. Fulvio De Giorgi Prof. Ordinario di Storia dell’Educazione Dipartimento di Educazione e Scienze Umane Università di Modena e Reggio Emilia e Direttore del Centro Studi e Ricerche “A. Rosmini” di Rovereto (TN) 14


PRESENTAZIONE DELL’AUTORE

Dopo aver pubblicato tre anni orsono, il volume “Roca Vecchia e Roca Nuova in Terra d’Otranto”, cerco ora di sviluppare un lavoro più organico che, oltre a indagare la storia di Roca e delle altre marine ricadenti nel territorio del Comune di Melendugno, porti all’attenzione dei residenti e dei tanti turisti che nel periodo estivo vi risiedono, la Marina di San Foca, che con il suo Porto, il centro storico, i lidi, le strutture ricettive e il lungomare, si è posta all’attenzione dei vacanzieri, come una delle più rinomate Marine del Salento. Mi corre l’obbligo di ringraziare tra i tanti sostenitori di questa iniziativa editoriale, l’Avvocato Francesco Mazzotta che in qualità di presidente della Lega Navale sezione di San Foca, mi ha spinto a realizzare questo progetto mettendo a disposizione un importante contributo. Come devo ringraziare anche il Sindaco e l’assessore al turismo e alla cultura che non mancano mai di sostenere le nostre iniziative. Questo lavoro è scaturito dalla considerazione che non esiste alcuna pubblicazione che tratti in maniera organica questo territorio soprattutto in rapporto alle altre località altrettanto importanti che sono presenti nell’hinterland. Questo lavoro, spero, possa servire come amichevole guida per tutti coloro che ne vorranno fare uso, sperando che venga apprezzato per la sua immediatezza di consultazione, per gli stimoli che può creare, per una eventuale individuazione di determinati percorsi da seguire nel visitare monumenti, grotte-ipogee, area archeologica, centri storici o per altri specifici input che possano soddisfare la voglia di conoscenza del visitatore. Mi piace sottolineare che in questo volume, oltre a indagare approfonditamente la storia di San Foca, tratta anche la prima parte della storia di Rocavecchia fino al IX-X sec. d.C. estendendo poi il discorso sulle origini della religiosità e del cristianesimo nel Salento. 15


Accanto alla ricerca storiografica, mi prefiggo di inserire, il pensiero filosofico-religioso dominante nelle varie epoche storiche, convinto come sono, che la storia sia monca se accanto ad essa non si colloca parallelamente la filosofia e la religiosità. La storia, la filosofia e la religiosità devono operare una reciproca integrazione interdisciplinare volendo, sotto forma di un concetto direi “romantico”, quasi naufragare in questo ….mare culturale salentino; quello che il mio amico Alberto Signore chiama: “culturanze”. Sono presenti all’interno, due contributi riguardanti il pensiero filosofico-religioso della preistoria roccano-salentina, stilati con pazienza certosina dall’amico prof. Angelo Santoro1. Uno sguardo sarà rivolto, inoltre, a quelle che sono le istanze più autorevoli che emergono, di volta in volta, nel corso dei secoli, grazie a personalità che hanno lasciato il segno del loro passaggio come Ferecide Siro, San Cataldo e San Donato, oppure parlare della tradizione antica della marineria di San Foca tra il XIX e la prima metà del XX secolo, o di altri argomenti che verranno via via scoperti dal paziente lettore. Mi sono accinto a scrivere questo testo con grande entusiasmo, conscio del fatto che qualsiasi studio si compia, è pur sempre provvisorio e contingente e mai esaustivo, soggetto sempre alla scoperta di nuove fonti che portano, inevitabilmente gli studi precedenti, a essere meno completi e arricchiti da quelli successivi. Mi auguro che questo testo serva a stimolare i giovani a incentivare lo spirito di ricerca e lo studio non solo sulla storia, la religiosità, la filosofia ma anche sulle tradizioni locali e popolari realizzando così, un quadro d’insieme e una visione del territorio e delle proprie origini più complessa e articolata. Melendugno, 01 agosto 2015 Laus Deo Giovanni CISTERNINO

Ringrazio anche il maestro, prof. Matteo Cisternino per la riscoperta e la trascrizione in forma scritta a partire dalla tradizione orale di un antico inno dedicato a San Foca che sembrava perduto per sempre dal momento che solo qualche anziana signora se lo ricordava.

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Capitolo I

CAPITOLO I

1. San Foca di Melendugno - Un insediamento del mesolitico (12.000-6.000 a.C.) Nell’era del Cretaceo risalente tra 135 e 65 milioni d’anni fa il Salento e, dunque, anche il territorio di San Foca-Melendugno si trovava sott’acqua. Questo lo possiamo ancora oggi rilevare all’interno delle nostre campagne dove, di tanto in tanto, si trovano fossili ittici di varie dimensioni. Allo stato attuale della ricerca, la frequentazione umana più antica, in area melendugnese, è quella risalente al mesolitico individuata a San Foca. A San Foca è stata riscontrata una frequentazione mesolitica anche alla luce di quello che di importante è stato evidenziato per i successivi periodi storici e che non possono essere frutto della casualità o di una frequentazione improvvisata; ogni situazione storica, come si sa, si può spiegare solo con una precedente. Al Paleolitico dunque, segue l’era del Mesolitico (inquadrabile all’incirca tra 12.000 e 6.000 anni a.C.) che sviluppa una nuova cultura detta Neolitica (6.500-3.000 anni a.C.) definita nell’ultima fase del suo sviluppo Eneolitica (3.000-1.700 anni a.C.). Alla fase del Mesolitico appartengono alcuni depositi, individuati nel 1970 da Attilio Giosa presso il centro di San Foca. A seguito di questa scoperta la prof.ssa Elettra Ingravallo nel 1971 effettua per conto dell’Istituto di Archeologia e Storia Antica dell’Università del Salento, una campagna di scavi per studiare e ben identificare il sito archeologico sanfochese. Ѐ evidenziato, verso la parte sud, un terreno sabbioso rossastro contenente fino a una profondità di 1,40 mt piccoli frustoli di carbone e un’industria litica molto diversificata. Ѐ individuata ancora, una continuità stratigrafica in tutto il giacimento, sia a sud che a est nei pressi della torre di guardia, dove è sedimentata un’industria litica senza notevoli variazioni di sorta. In questo giacimento appaiono anche, reperti litici del mousteriano(III) e industrie del neolitico e dell’età dei metalli. Sempre nel 1972 l’Università del Salento, procede alla catalogazione di 2.586 reperti relativi a lame e schegge che appaiono molto manomessi. Una parte della catalogazione fatta dall’équipe di studiosi risulta così composta: ▪ Industria Mesolitica: n° 134 ciottoli di selce di dimensioni varie; n° 4 pièces écailleés tutti a conformazione piatta; n° 69 lame ritoccate che sono rotte e quindi non se ne può stabilire la dimensione; n° 140 schegge ritoccate e raschiatoi piccoli e

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Giovanni Cisternino frammentati; n° 30 bulini a uno o due stacchi; n° 79 grattatoi; n° 141 dorsi piccoli e frammentati; n° 19 troncature; n° 5 geometrici; n° 11 punte; n° 32 strumenti a incavo sono a forma di schegge, scheggioline e lamette, spesso frammentate; n°  21 strumenti a becchi e puntine – alcuni hanno una puntina o un piccolo becco all’estremità, altre sono schegge con ritocco denticolato; n° 5 microbulini due micro bulini; n° 29 schegge di ravvivamento, quindici schegge sono di ravvivamento di nucleo altre quattordici sono schegge di ravvivamento di strumento.

▪ Industria Mousteriana: scheggiolina di selce con cortice parziale e piano di percussione a faccette minute, fortemente convessa. Raschiatoio, scheggia frammentata, strumento su scheggia di quarzite. ▪ Industria del Neolitico e dell’età dei Metalli: n° 4 lame e lamette; n° 1 troncatura; n° 1 microbulino; n° 2 elementi di falcetto; n° 3 cuspidi di freccia.

Presso la torre costiera è individuato altresì, un giacimento risalente al Paleolitico superiore. ▪ Industria del Paleolitico superiore: n° 8 ciottoli di selce; n° 44 schegge non ritoccate; n° 5 schegge ritoccate; n° 1 raschiatoio; n° 1 incavo; n° 1 bulino; n° 2 dorsi; n° 2 schegge di ravvivamento.

▪ Industria del Neolitico e dell’età dei Metalli: n° 6 lame non ritoccate; n° 2 lame ritoccate; n° 1 troncatura; n° 1 elemento di falcetto; n° 2 lame a ritocco invadente; n° 1 strumento in ossidiana. Dalla relazione effettuata dalla prof.ssa Ingravallo1 risulta che: “[…] Il nucleo principale dell’industria presenta caratteri sostanzialmente omogenei ed è nettamente distinguibile dagli scarsi elementi di età diversa. L’alto numero delle lame e schegge non ritoccate e dei nuclei rispetto agli strumenti veri e propri parrebbe testimoniare una lavorazione nel sito dell’industria ed è quindi probabile che si tratti di un insediamento, sebbene il numero dei manufatti essendo molto inferiore a quello di giacimenti analoghi come Torre Testa (BR) – possa far pensare che abbia avuto una durata piuttosto breve e un’estensione molto limitata. Non è escluso che si sia trattato anche di una frequentazione stagionale”. L’abbondanza dei manufatti non ritoccati dimostra inoltre, che, anche se può essere intervenuta un’eventuale selezione involontaria del materiale come avviene normalmente nelle raccolte di superficie, questa ha avuto effetti molto ridotti o è stata addirittura irrilevante. In genere il recupero dei manufatti può essere considerato molto accurato, tant’è vero che ha interessato anche le schegge più minute. Uno degli elementi più immediatamente evidenti è costituito dall’accentuato microlitismo particolarmente visibile nelle numerose scheggioline non ritoccate ma che si trova anche nel complesso degli strumenti e nell’abbondanza dei nuclei piccoli e piccolissimi che mostrano uno sfruttamento molto spinto del ciottolo di selce. Nell’ambito degli strumenti, il gruppo più numeroso è costituito dalle lame e schegge ritoccate che assumono un ruolo dominante nell’insieme dell’industria. Ѐ   “La stazione mesolitica di San Foca”, sta in “Studi di Antichità - Quaderni dell’Istituto di Archeologia e Storia Antica”, Congedo Editore, Galatina, 1980, pp. 59-60, 75, 77

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Capitolo I quest’uno degli elementi, che con maggiore chiarezza, accomuna l’industria di San Foca a quella di Torre Testa. […] Qui come nella stazione brindisina, le lame a dorso prevalgono nettamente rispetto alle punte a dorso. Sono ben rappresentate in ogni caso anche le punte a dorso, in genere molto strette e sottili, che spesso presentano un ritocco inverso invadente che tende ad assottigliarne l’estremità. In questo gruppo è particolarmente significativa la presenza delle punte a dorso doppio bipolare, spesso estremamente sottili, tendenti al tipo talora definito come spilli e recentemente considerati da alcuni autori come elementi tipicamente sauveterriano. Infatti è stato già più volte messo in evidenza, come la presenza di strumenti a dorso bilaterale sia un elemento tipico del romanelliana(IV) ed è significativo come nella nostra industria il doppio dorso compaia anche in due frammenti di lama e in due lame a dorso e troncatura obliqua. […] L’insieme dei tratti più evidenti nell’industria di San Foca tende a porre questo complesso in un momento avanzato del romanelliano […]. A San Foca, tuttavia, la spinta verso queste forme di specializzazione appare meno esasperata… Sono inoltre evidenti, i legami con molti dei tipi propri del romanelliano classico, valga ad esempio la forte presenza dei bulini poliedrici, perciò è possibile che l’industria di San Foca sia poco meno recente di quella di Torre Testa. […] La posizione in un periodo tardo del romanelliano pone, senza dubbio, questa stazione in un momento in cui sono ormai bene attestati (anche nei livelli delle grotte pugliesi, ad es. le Cipolliane e del Cavallo) quei fenomeni di raccolta dei molluschi marini tipici del mesolitico”. È possibile che il fiorire di numerose stazioni costiere in questo periodo sia in un certo senso legato a questo nuovo tipo di economia, anche se questa ipotesi non può per ora essere convalidata dal ritrovamento di resti faunistici. In San Foca, dunque, già dal mesolitico esiste una stazione dove la popolazione indigena non solo vive stabilmente, ma dà origine a un’industria litica che abbraccia, evidentemente, interessi commerciali e marittimi. Nel periodo che va dal mesolitico all’eneolitico (o età dei metalli) e soprattutto in quest’ultimo periodo, il territorio di San Foca si presenta completamente diverso da quello che si può vedere attualmente. Vi sono grandi boschi con alberi di alto fusto, dei giacimenti salini, come stanno a testimoniare molti siti della toponomastica locale e del circondario come Salapya, Salippi, Sapone (San Foca), Salnitro, Cesine (San Cataldo), Salento, Sant’Andrea Sapolone, Lursi (Torre dell’Orso). A San Foca vi era, fino a qualche anno fa, uno scoglio detto: scoglio del sale, attualmente incapsulato all’interno del nuovo porto. Nel sito di San Foca dal mesolitico in poi e a partire dal 4.000-3.000 a.C. si trova un villaggio preistorico, ormai ben identificato, dipendente dal vicino e più consolidato centro urbanizzato di Rocavecchia. 2. Insediamenti preistorici - La grotta di San Cristoforo A Torre dell’Orso tra gli insediamenti preistorici, oltre alle quattro grotte abbastanza ampie che si trovano sotto la torre omonima, vi è una grotta chiamata di San Cristoforo

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Giovanni Cisternino che è ubicata di fronte allo scoglio “le due sorelle” in alto, sul costone roccioso, nel lato sud della pineta di Torre dell’Orso. La grotta composta da due cavità, è stata scoperta nel 1958 dal gruppo speleologico salentino guidato dal prof. Montinaro. La prima cavità è caratterizzata da una colorazione delle rocce che, ricoperte da una singolare microfauna, assumono una tinta di verde smeraldo molto intenso. La seconda cavità, più ampia rispetto alla prima, è interessata nel suo interno da una penisoletta di roccia, che mostra all’osservatore una gamma variegata di stalattiti a forma inanellata colore alabastro che spesso tende all’ocraceo. Una falda stalagmatica a scaglie, che sembra ancora in formazione, ricopre la punta estrema della penisoletta che si prolunga fin quasi al foro del vano, interrotta a tratti, da ecrescenze stalagmitiche a forme mammellonate. Dal 6 al 16 maggio 1981 la grotta di San Cristoforo è analizzata dall’équipe del prof. Cosimo Pagliara per conto dell’Università del Salento e del Comune di Melendugno; gli archeologi rilevano frammenti di materiali ceramici pertinenti a fasi di frequentazione tardo arcaica (VI-V sec. a.C.), ceramica sub-geometrica messapica, frammenti di ceramica attica. San Cristoforo risulta essere una grotta artificiale aperta nella parete rocciosa che si eleva sul lato sud-est della baia di Torre dell’Orso. Nel passato l’antro di accesso, probabilmente doveva essere coperto con materiale recuperato dalla macchia mediterranea locale per proteggersi dagli assalti degli animali selvatici e dalle intemperie. Ѐ probabile che l’antro facesse parte di un complesso di cavità alcune naturali e altre artificiali oggi completamente scomparse a causa del crollo delle volte e delle pareti perché soggette alla incessante erosione del mare, alla furia degli elementi e Torre dell’Orso: grotta di San Cristoforo

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Capitolo I alla mancanza di manutenzione durante i lunghi periodi di abbandono da parte dell’uomo. Tracce dell’ancestrale utilizzazione delle grotte, però, si riconoscono ancora oggi. Nel sottosuolo, a vari strati, è stata rilevata la presenza di cocci, di ceneri di carboni, di valve di conchiglie marine, di ossa di animali; ad un ulteriore profondità gli archeologi hanno trovato sedici selci neolitiche ed utensili di creta preistorica2. Nella fase che va dal IV al III sec. a.C., nella escavazione della grotta a pianta rettangolare con ampia banchina risparmiata lungo il lato nord, sono stati identificati vasti tratti di depositi che a giudicare dalle chiazze di cenere e dalle tipologie vascolari (coppette monoansate, piccoli vasi) stanno a testimoniare la presenza dell’uomo. Si congettura che dal VI sec. a.C. con vari episodi di aumento della presenza umana la cavità fosse stata utilizzata come luogo di culto3. La baia di Torre dell’Orso in epoca messapica, fu uno dei naturali scali navali per l’importante centro di Syrbar (Roca) che insieme alla cavità sede del predetto culto pagano rappresentò, per i naviganti di passaggio e per la popolazione, un punto di riferimento sia per le attività commerciali che per quelle religiose. Come si vedrà la grotta avrà grande importanza anche nei secoli successivi. 3. Le Specchie e le Tombe Nel territorio di Melendugno e in quello della vicina Vernole, le Specchie a volte vengono identificate come apparati di difesa per l’avvistamento del nemico, in altri casi vengono segnalate come ripari in cui si può abitare e come tombe. Le Specchie nell’identificazione di tumuli sepolcrali Nel territorio oggetto della nostra indagine, vi sono delle strutture denominate “Specchie”. Si ricordano in area vernolese: Specchia Mezzana, Specchia dell’Alto e Specchia del Basso; Specchia Ruggieri invece è sita in area melendugnese. La specificità di queste strutture è che tutte le specchie comunicano a vista con le altre che sono disseminate lungo la costa. Il territorio, ad esempio, compreso tra Acaya, Vanze, Acquarica, Specchia Ruggieri e Roca ha una frequentazione risalente all’età del Bronzo. La rilevazione di tumuli sepolcrali dimostra che le popolazioni hanno lasciato il segno del loro passaggio, anche se, come dice il Drago4, questi non sono di chiara attribuzione, dal momento che è stata rilevata solo la presenza di contenitori ad impasto. Alcuni resti scheletrici sono stati rinvenuti nella loro attribuzione rituale, in alcune tombe a grotticella di Acquarica. Le sepolture si presentano con una struttura sepolcrale a forma di cassa, con una copertura a lastre, sormontata da altre lastre di pietra, e con dromos che si rifà al tipo   L. De Simone, “Studi storici in Terra d’Otranto”, p. 146.   C. Pagliara, “Note di epigrafia salentina, IV”, in Studi di Antichità, 2° quaderno dell’Istituto di Archeologia e storia antica dell’Università di Lecce, Congedo Editore, Galatina 1980, pp. 211-213, 218-219. 4   C. Drago, “Specchie di Puglia”, sta in B.P.I., 64 (1954-55), pp. 191-192. 2 3

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Giovanni Cisternino dolmenico di cui l’area limitrofa è fortemente interessata, se si pensa ad esempio, ai vicini dolmen di Melendugno dove insistevano due insediamenti preistorici. La cassa scavata nella roccia ha all’incirca la lunghezza di mt 1,50, il tumulo si estende per circa 15-18 mt, la specchia “Cisterna” di Acquarica ha le dimensioni di mt 24 di diametro e mt 1,50 d’altezza. Le tombe a tumulo con cassa litica, non a lastre tagliate, ma con una semplice copertura di pietrame, sono presenti a Vanze e sono strutturate con lastre calcaree naturali; esse hanno un fronte calcareo a nord, proprio come la tomba scavata la cui copertura risulta essere all’incirca di mt 6. La cassa è lunga 2 metri e larga 1 metro, le lastre risultano integrate da pietre secondo la tecnica ad aggetto; a sinistra della testata in una piccola delimitazione in pietre, il corredo rilevato consiste in: due contenitori ceramici in buono stato di conservazione, una tazza a carena alta e un boccale monoansato che ci riporta ad una fase antica dell’età del Bronzo. La medesima tipologia presenta la Specchia “Lenze”, nella cui cassa litica si rinvengono in deposizione sconnessa due individui adulti (la determinazione è effettuata dal prof. V. Scattarella, dell’Istituto di Zoologia dell’Università degli Studi di Bari). Negli atti del seminario di studi tenuto a Bari nel 19955 sull’età del Bronzo lungo il versante adriatico pugliese si riscontra come le strutture di Vanze e Acquarica, coeve a quelle rilevate in San Vito dei Normanni e a Statte presso Taranto possano essere riferite alla medesima fase cronologica di necropoli relative a insediamenti dell’età del bronzo. Il Drago6 e la prof.ssa Franco riportano le caratteristiche strutturali delle specchie dette Cisterna e Lenze e descrivono ciò che vi si è trovato7. Le Specchie identificate come luoghi di avvistamento o apparati difensivi Altri studiosi considerano le specchie come strutture similari o successive alle caratteristiche delle prime aventi lo scopo di apparati difensivi dello stesso periodo storico dei cosiddetti “paretoni”. Le specchie ed i paretoni(X) sono precipui di Terra d’Otranto e, d’altra parte i Messapi sono specifici proprio di questa regione. Posto ciò è logico sostenere che specchie e paretoni siano stati costruiti dai Messapi. Alcune correnti di pensiero sostengono che le specchie vengano edificate nell’età del ferro poiché non è possibile ritenere che l’enorme distesa di pietre, a volte di durissimo calcare compatto, che sono servite alla loro costruzione, si siano potute estrarre e spaccare con attrezzi di rame e bronzo. Poiché l’età del ferro nel Salento, comincia con i Messapi, non è possibile pensare che le specchie possano essere state costruite prima. Nemmeno si può comunque credere che possano essere state costruite dopo, poiché dopo i Messapi vengono a mancare le motivazioni per le quali esse sarebbero state costruite. 5   AA.VV., “L’età del bronzo lungo il versante adriatico pugliese” atti del seminario di studi, Bari, 1995, in “Taras”, rivista di archeologia, XV, 2, Bari, 1995, pp. 521-522, 524-525. 6   Op. cit. 7   M. C. Franco, “Brevi note sul megalitismo nel Salento”, in “Atti del convegno internazionale di Archeoastronomia, credenze e religioni nel mondo antico”, Roma, 14-15 maggio 1997, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1998, pp. 241, 243; e, G. Cisternino, “Acaya… nella storia”, pp. 19-20.

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Capitolo I I Messapi erigono a protezione dei loro centri urbani, delle cinte murarie (come erano Rudiae, Caballinum, Syrbar-Roca, Myron-Muro ecc.) e sebbene alcune comunemente attribuite ai Messapi – cioè quelle a grossi massi isodomi(XI) – sono probabilmente costruite in età romana, cioè dopo i Messapi, non vi è dubbio che quelle più antiche, a pietre informi(XII), siano state costruite dai Messapi. Come abbiamo già detto, i Messapi proteggono le loro città con potenti cinte murarie che costruiscono utilizzando sia pietre squadrate che pietre informi. Di conseguenza, è logico pensare che essi abbiano potuto erigere anche le specchie nel corso della loro storia durata più di quindici secoli. I Messapi sanno far uso di grossi massi isodomi, infatti molte specchie hanno alla base un muro circolare di grossi massi di questo tipo a sostegno e rinforzo della massa di pietre informi. Quindi, se essi nelle costruzioni usano grossi massi isodomi, perché non costruiscono delle piccole torri come posti di vedetta e si sobbarcano il lavoro immane della costruzione delle specchie? Forse perché la costruzione delle specchie riesce loro tecnicamente più facile, sebbene sia più laboriosa. Dalla sommità delle Specchie essi possono controllare un territorio molto vasto. Probabilmente le specchie, con la loro grande quantità di pietre, costituiscono una grande riserva di proiettili da lanciare, da far rotolare contro gli assalitori, da parte del gruppetto di uomini che vigila dall’alto. Quanto si è detto è confermato anche da illustri studiosi salentini come il Castromediano e il De Giorgi. Il Castromediano8 a proposito delle specchie dice: “…Non tombe ma eminenze da segnalarvi sopra eran le specchie, dove la notte coi fuochi e di giorno col fumo i nostri avi scambievolmente si avvisavano dei bisogni, dei pericoli e delle minacciate invasioni; e così molti secoli innanzi avevano preceduto i nostri telegrafi, e perciò stesso dette speculae o vedette…”. Anche il De Giorgi a proposito delle specchie afferma: “…Che queste rappresentino i ruderi di antiche gigantesche costruzioni eseguite con pietre informi ed a secco, somiglianti ai trulli pugliesi e ai nuraghi sardi mi sembra non possa mettersi in dubbio. Questi edifizi potevano servire a un duplice scopo, di abitazione e di difesa… Ma questi luoghi di difesa non avrebbero potuto opporre che una debole resistenza agli aggressori. Perciò noi vediamo alla prima seguire una seconda cinta di fortilizi collocati sulle colline e comunicanti visualmente con quelli costieri. Mi sembra quindi di scorgervi un intero sistema strategico messo in atto dalle popolazioni protostoriche di questo angolo d’Italia. L’epoca di queste costruzioni non può definirsi, perché le specchie sono state mute alle nostre ricerche; ma non è improbabile che siano sincrone con altri monumenti di tipo arcaico, come i menhir ed i dolmen, dei quali gli unici rappresentati in Italia esistono nella penisola salentina”. L’antica ipotesi sostenuta da Plutarco, sembra dunque, sostenibile. Egli infatti, equipara le specchie ai castellieri delle coste illiriche come torri di vedetta e ai nuraghi della Sardegna. Le specchie rimaste in Terra d’Otranto, che si sono potute vedere fino agli anni ’70 del XX secolo, sono un cumulo di pietrame dovuto al crollo di costruzioni a secco, probabilmente, abbattute dai Romani quando hanno conquistato il territorio.   Relazione della Commissione Conservatrice dei Monumenti Storici al Consiglio Provinciale, 1874/75, pag. 28.

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Giovanni Cisternino Questi complicati sistemi di difesa a torre conica e con scalette coclidi, unite da possenti murature a secco, che delimitano il territorio in tanti ampli appezzamenti – quasi a compartimento stagno – e che rendono inespugnabile la terra dei Messapi, sono da considerarsi i veri progenitori del trullo.(XIII) la più tipica manifestazione architettonica locale. Nel XVI sec. d.C. gli spagnoli hanno utilizzato per la costruzione delle Torri costiere nel sud d’Italia lo stesso sistema di difesa utilizzato dai nostri antichi antenati Messapi. Nel “Liber Coloniarum”, del quale non si conosce l’autore anche se molti lo attribuiscono a Giulio Frontino, si rileva come al tempo di Cesare Augusto il territorio lupiense (di Roca) sia definito con i parametri delle leggi graccane. Da ciò, si evince anche il fatto, che gli agrimensori romani tengano conto delle “specchie” come termine territoriale di un confine, come appunto è ancora oggi, la sopraddetta “Specchia di Acaya o Mezzana”, Specchia Ruggieri ed altre9. 4. I trulli o “furnieddhri” presenti nelle campagne di San Foca e del litorale melendugnese Il lemma “trullo” è una derivazione della parola greca tholos o dal latino turris, trulla o dal bizantino torullos che, in uno, hanno tutti il significato di “cupola”, a motivo della particolare caratteristica rappresentata dal tetto a forma di cono rovesciato. Si può ipotizzare che l’origine del trullo sia preistorica e che si collochi in età megalitica, nel primo periodo dell’età del Bronzo. Molto probabilmente questa caratteristica struttura abitativa è stata importata fino a noi tra i secoli XX-XIX a.C. dai Pelasgi, nome col quale si indicano diverse espressioni e gruppi etnici che hanno popolato l’Armenia, l’Asia Minore e tutta l’area del bacino dell’Egeo. Il tuddhru è una costruzione che si può paragonare a quelle di cui hanno parlato nell’antichità classica Trifonio e Agamede a proposito dei Tesori Micenei. Un’altra corrente di pensiero sostiene invece che i trulli, sono stati importati in Puglia da San Cataldo, vescovo e confessore di origine irlandese e patrono di Taranto. Egli giunse nel Salento intorno al 630 d.C. ma venne anche segnalato nel territorio di Locorotondo. Infatti, lo stile architettonico di questa cittadina, che si manifesta attraverso i suoi splendidi “Trulli”, si ritiene sia stato importato dai monaci al seguito di Cataldo. Il suolo del nostro comprensorio, fin dal tempo degli antichi Messapi (V sec. a.C.) è ricco di pietre lavorate; basti pensare alle “specchie” e ai “paretoni” da essi costruiti e, per questo, vennero soprannominati e conosciuti come grandi “mastri litotomi”. Per tale ragione, nel XIX sec. d.C., i nostri antenati contadini, eredi di una così lunga tradizione che si perde nella notte dei tempi, nell’opera di bonifica effettuata dai baroni D’Amely, divennero spaccapetre e ricavarono, dalle numerose rocce affioranti nelle campagne, un’ingente quantità di pietre informi. Essi adoperano questa incredibile massa di materiale a secco per definirne i confini nella necessaria suddivisione di appezzamenti di terreno e per la costruzione dei trulli detti nel nostro vernacolo furnieddhri.   G. CISTERNINO, “Acaya… nella storia”, pp. 21-22.

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Capitolo I

Agro di Melendugno: trullo tronco-conico

Anche oggi, in ogni campagna del nostro territorio, vi sono innumerevoli luoghi ripari fatti di pietre a secco. Ve ne sono alcuni a forma tronco-conica, altri a forma tronco-piramidale, altri così minuti da farli sembrare cucce di cani, altri infine, con forme svettanti e di grandi dimensioni. Tra la massima espressione dell’edilizia contadina spontanea, di svettanti furnieddhri, se ne ricordano alcuni: quello ubicato nei pressi della Masseria Mascure, che ha la caratteristica di possedere l’ingresso del trullo preceduto da un rustico vestibolo; un altro è sito nel tenimento detto Macchia del Barone – che, nella sua toponomastica, ricorda la medioevale foresta di Roccavecchia (foresta iuxta foeudum) che Gualtieri VI di Brienne (XIV sec.) e, soprattutto, Anton Giulio Acquaviva (XV sec.) percorse in lungo e largo, durante la sanguinosissima guerra contro i Turchi (1480). Tutto il territorio, oggetto dell’indagine, è disseminato di furnieddhri di varie dimensioni, tanto da far sembrare questo tenimento un collage. La costruzione a secco più mastodontica è certamente quella che più studiosi hanno esaminato e che si trova – quasi come un santuario – nel centro di una campagna denominata Craèddhre, sita nei pressi della Masseria Lizza. Per raggiungerla si prende una strada vicinale che parte a sinistra subito dopo il cimitero comunale e che sfocia sulla via detta lata della provinciale Melendugno-Vernole, la quale rappresenta anche il naturale confine tra i due Comuni. Il toponimo Craèddhre è una deformazione del nostro vernacolo craottu che sta a significare: buco, fosso. G. Rholfs10 a proposito della parola craèddhre ci dice che significa: “grossa buca, (vora), dove un tempo si buttavano le acque sporche (e confluivano quelle piovane)”. Nel descrivere questo trullo si nota subito la sua elevazione su di un ballatoio roccioso molto largo. La sua struttura è a forma tronco-conica ed è munito di una scaletta coclide con dei gradini molto stretti. Salendo sul tetto del trullo si ammira, con un   “Dizionario toponomastico del Salento – prontuario geografico e filologico”, Ravenna, editrice Longo, 1986, p. 58. 10

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Giovanni Cisternino bellissimo colpo d’occhio, un esteso panorama di selve d’ulivi. Su questo tetto i nostri antenati erano soliti far essiccare, durante la canicola estiva, i fichi come li fracazzani, li culummi, le fiche te li schimbordi, …te Roca, …te Sant’Asili, e te la free. Il trullo craèddhre, nel suo perimetro di base, è a forma circolare, il vano all’interno possiede una pseudo cupola ogivale al cui centro vi è un foro (coperto con due lastre di pietra leccese). Vi si entra dal lato nord-est e ha un muraglione di circa 4,10 mt. Un altro spessore successivo, coperto con architravi, sempre in pietra leccese, dà accesso al vano interno dove si possono ammirare cinque nicchie sulla cui base si depositavano derrate alimentari e oggetti per l’illuminazione come le lucerne. In tempi più recenti, nei trulli, i contadini hanno soggiornato durante il periodo estivo, per attendere ai lavori dei campi, per difendere le loro colture dall’attacco indiscriminato dei razziatori, oltre che per non tornare ogni giorno a piedi a casa. Durante il periodo invernale invece, hanno adoperato i trulli per depositarvi gli attrezzi. In generale si deve dire che la struttura costruttiva di un trullo presente nell’area melendugnese, si ottiene con la messa a nudo della roccia di base avente la forma circolare o rettangolare, a seconda se il trullo si preferisce a tronco di cono o di piramide. Si procede, successivamente, all’edificazione del muro verticale con successivi strati di pietra, con pareti larghe e robuste e il portale d’ingresso serve per entrare e dare, al tempo stesso, luce alla stanza, generalmente, ellittica. Gli strati di pietre poggiano su di uno strato anulare sottostante, la cui circonferenza si restringe progressivamente fino a lasciare un’apertura minima dove poggia una pseudo-cupola a forma conica. Bisogna ancora osservare, che l’ingresso del trullo è, a volte, composto da tre blocchi di roccia più o meno squadrata. Due monoliti collocati in posizione verticale fungono da stipiti, il terzo, che poggia orizzontalmente sopra i primi due, ha funzione di architrave. Si può altresì osservare, che per unire le varie pietre non si usa cemento o malta, ma si usa una pietra che ha la funzione di martello; è evidente che la manodopera è accompagnata da grande ingegno creativo anche se, il tutto, avviene attraverso contrasti laterali e tenendo conto del principio di gravità. Infine attraverso una robusta cortina muraria, si isola l’interno dei trulli dalla variabilità termica esterna11. Solitamente si costruisce anche una scala a rampe, con dei pezzi di pietra squadrati e infissi nella parete, per mezzo della quale si accede sul terrazzo. Dei Trulli ha parlato l’insigne letterato salentino dell’ottocento Sigismondo Castromediano, il quale definisce così i tuddhri; “…e dopo la digressione eccomi di ritorno ai tuddhri, modernamente chiamati pagliai o forni. Pur io ne dissi in altra ricorrenza…”, quasi a testimoniare che si tratta di un’unità costruttiva monocellulare. Nella campagna melendugnese molti sono i trulli che si trovano in ogni appezzamento di terreno, anzi, si può meglio dire che vi si trovano al centro, quasi a rappresentare la loro unità operativa così come era negli intenti degli antichi contadini. Sull’architrave di un Trullo sito nella masseria Capitano – che si trova lungo la strada che da Melendugno conduce a Calimera – si rileva come la data di costruzione sia il 11

G. Cisternino, “Insedimenti storico-architettonici nell’area melendugnese”, pp. 12-13.

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Capitolo I 1873 e sempre nell’hinterland melendugnese si rileva su di un altro trullo la data del 1896. Un altro Trullo, che era sito fino agli anni settanta, del XX sec. in contrada Serre, riportava il 1687 come data di costruzione e aveva inciso, sull’architrave dell’unica porta d’ingresso rivolta ad oriente, il sole nascente. I trulli, secondo il romanticismo letterario, rappresentano un linguaggio che fa riferimento ad archetipi e simboli e perciò vanno tutelati e conservati per una fruibilità che salvaguardi la memoria storica. I simboli che vi campeggiano hanno origini antiche che spaziano tra oriente e occidente e vanno dal simbolismo sessuale a quello magico e a quello cristiano. Lo stesso Mediterraneo è incluso in questa valle che è un insieme di destini e di storie che hanno lasciato il segno nei territori. L’immagine del Mediterraneo non è una metafora che viaggia tra i circuiti di un sentimento popolare. Ѐ una coscienza storica che è dentro la consapevolezza dell’identità dei popoli. I trulli sono memorie di pietra: si potrebbe dire che queste pietre siano fatte di sapere, di dure esperienze di vita e di riti. Bisogna difendere questo patrimonio cercando di difendere tutto il paesaggio. Dai casolari trulliformi a una vera e propria edilizia trullesca in un racconto tra paleolitico, neolitico, enelolitico in un quadro geografico che è salentino e mediterraneo. Il preistorico dei Trulli è un richiamo costante ad un territorio melendugnese e salentino che è dentro la coscienza dei luoghi. Il tempo dei riti, la cultura pastorale, il cerchio nella caverna sono concezioni di un sistema fatto di segni e di simboli che continuano a vivere nella cultura contemporanea. I simboli sono come un viaggio in un tempo labirintico che ci rimanda a un mondo contadino che ha assorbito tutti gli elementi di una realtà in cui, nel territorio melendugnese, l’orientalizzazione e l’occidentalizzazione significa comprensione di un Salento e di un Mediterraneo che resta nel destino dei popoli. Pietro Laureano ha scritto: “…un semplice cumulo di sassi o un tracciato sulla sabbia è sufficiente per creare un monumento… L’architettura non ha bisogno di strutture auliche e ridondanti: la sola teoria di pietre allineate nel deserto definisce un luogo più di alte muraglie, poiché con le forme ed i simboli si mira alle categorie del sentimento e della memoria…”. Progettare la valorizzazione, significa anche realizzare un legame tra gli spazi sul territorio, i luoghi del turismo locale e l’impresa di un valore aggiunto che si concretizza grazie a una sinergia di un sistema di identità, che esprime appartenenza. Non basta che i Trulli siano stati considerati beni del patrimonio mondiale dell’umanità tutelati dall’UNESCO; occorre che siano considerati realmente come sentimento dell’appartenenza di un popolo, che ha le sue caratterizzazioni nelle culture sommerse del luogo. Un avanzo, un piccolo reperto, un pinnacolo, un ornamento, un fregio sono segni che raccontano la memoria. Queste strutture architettoniche a secco di edilizia contadina spontanea che fanno parte del patrimonio della civiltà agreste, sono il segno tangibile delle ansie, degli sforzi dei nostri contadini, e garantiscono la conservazione e il perenne perpetuarsi delle tradizioni, degli usi e dei costumi della nostra gente.

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Giovanni Cisternino Noi non possiamo che essere fieri testimoni e custodi di ciò che i nostri avi ci hanno tramandato attraverso il tempo e il “silenzio” apparente delle pietre a secco che a noi tutti parlano facendoci conoscere uno spaccato della nostra storia12. 5. La preistoria nella terra di Rocavecchia Volendo fare una ricostruzione del vasto territorio roccano in età preistorica, possiamo focalizzare una frequentazione umana che pare convivesse con gli ultimi residui dei grandi animali della preistoria del Salento. Questa frequentazione umana, in un primo tempo, è una frequentazione di popolazioni indigene rappresentata dall’esistenza di un quadrilatero che comprende Melendugno-Roca-Acaya-Pisignano, dove insistono i menhir o pietrefitte, le specchie e la presenza di numerose zone paludose (Cesine, Santi Fucai-Torre dell’Orso). Una consistenza di un popolamento, stanziale, indigeno del neolitico si può riscontrare, per quel che si può ipotizzare in maniera prudente con il profilarsi di tracce composite ben connotate in località San Pietro di Acaya (dove attualmente vi sono i resti di una masseria fortificata), detta in antico San Pietro in paludibus (proprio perché vi è una vasta area paludosa), dove vi sono alcune grotte con tracce di graffiti e a Rocavecchia dove vi era un villaggio di capanne appartenente al neolitico, che hanno dato vita a Salapya e a Syrbar. Gli insediamenti dell’entroterra, molto probabilmente sono formati da raggruppamenti di capanne, sparsi in un ampia superficie di territorio per sfruttare al meglio il lavoro agricolo e divergono, non poco, da quelli siti sulla costa. L’abitazione dell’età del Ferro presenta una capanna di forma circolare o ovale che ha la parte elevata composta da materiale deperibile, con una struttura di sostegno fatta di pali lignei, con le pareti e il tetto fatto di canne, prodotte in loco, e di rami. Il tetto viene impermeabilizzato con uno strato di argilla. Quasi sempre all’interno vi è anche il focolare. Così, all’incirca, doveva presentarsi il villaggio di Rocavecchia per quanto compare negli scavi archeologici condotti negli anni ’90, del XX° secolo, dal prof. C. Pagliara. Questi villaggi preistorici in età neolitica, stabiliscono tra loro dei contatti di interscambio economico e di baratto, seguendo tre direttrici principali di massima: etrusco (ex villanoviana)-campana, greco-adriatica e magno-greca. Il maresciallo Antonio Mazzeo (di Melendugno) alcuni anni fa in un villaggio preistorico di Melendugno, sito in località “Capitano” ha rilevato la presenza dell’ossidiana ancora allo stato grezzo, che aspetta ancora dalla preistoria di essere levigata; e due altre lame lavorate dello stesso materiale molto affilate, che si adoperano per i vari tipi di intaglio, nonché, alcune punte di frecce. La presenza di oggetti come l’ossidiana che è di origine vulcanica, fa capire che essa è pervenuta dall’area campana o da quella siciliana, confermando in questo il fatto che gli interscambi commerciali seguono, in quel tempo, sia la via terrestre, che quella marittima. 12   Questo paragrafo è stato da me già pubblicato, come articolo, su “Il Melendugnese”, numero unico, del 15/09/1994, p. 11.

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Capitolo I

Rocavecchia: grotta Poesia Piccola

Il sistema stanziale indigeno subisce qualche mutamento quando nuove presenze culturali, magnogreche e greco-orientali si profilano all’orizzonte, ponendo così fine all’età della pietra e del bronzo e dando inizio a un cultura più complessa e variegata. Questo mutamento lo si può scorgere anche attraverso la leggenda, secondo la quale alcune popolazioni salentine indigene sono organizzate da Malennio, figlio di Dasumno (che proviene da Rodi), nipote di re Sale (il mitico re dei Messapi che dà il nome al Salento). Malennio, secondo i pareri di alcuni studiosi, è il primo a raccogliere gli aborigeni sbandati nella selva, nei boschi o abitanti nelle caverne, li organizza, dà loro delle leggi e fonda numerose città. Già dalla leggenda s’intravede come, nell’ancestrale marcia dell’uomo verso l’Europa, vengano ormai solcate le vie del mar Mediterraneo, molte correnti migratorie giungono sulle nostre coste vi sviluppano una civiltà e danno l’input a quella meravigliosa popolazione che si chiamerà dei Messapi. Il Maggiulli13 a tal proposito dice: “…quando dietro al capo d’Otranto scorgo il maggiore e impressionante raggruppamento di dolmens…certamente eretti da un popolo di stirpe mediterranea, quando nello stesso luogo e nelle campagne della regione idruntina specialmente veggo ergersi i più numerosi, solitari e misteriosi menhirs dell’età del ferro, monumenti speciali eretti sempre dalla stirpe mediterranea e non dai voluti italici e indoeuropei… e, come pare, anche dai primi Messapi, è evidente la grande importanza che ebbe quel luogo stesso nei primissimi tempi, e quindi nei tempi delle primissime correnti migratorie che, non dall’Illiria, ma dal bacino soprattutto sud-orientale del Mediterraneo drizzarono la prora su quel capo, sbarcando più facilmente nella rada idruntina per espandersi e quindi portare la luce della loro civiltà nell’interno della Japigia la quale a ragione fu poi denominata Terra d’Otranto”. 13

“La valle delle memorie”, p. 20.

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Giovanni Cisternino Le testimonianze di antichi scrittori risalenti al VI-V sec. a.C. si avvicinano molto ai resti archeologici che svelano una grande frequentazione nel basso Adriatico da parte di molti e diversi gruppi etnici greco-orientali come i Rodii, i Samii, i Cnidii, i Chioti. Ciò è dovuto certamente alla ricchezza dei prodotti agricoli del territorio, che la civiltà indigena coltiva in loco e che scambia con pregevoli manufatti dell’artigianato greco. Una prova archeologica molto sicura è data dai numerosi frammenti di vasi greci, trovati nel fondo marino della baia di Torre Santa Sabina (BR). A conferma di ciò anche il Galateo dice: “…prima che i Greci muovessero all’assedio di Troia, nel Salento fiorivano popolose città, i cui abitanti parlavano una strana lingua e scrivevano strani caratteri…”. Questi strani caratteri ora possono essere ammirati, in varie città pugliesi di origine messapica e soprattutto nella grotta della “poesia piccola” di Roccavecchia, dove è si trova un’incredibile biblioteca incisa sulla roccia che aspetta solo di essere decifrata. 6. Origini e filosofia evolutiva di Roca, San Foca e del Salento preistorico L’evoluzione e lo sviluppo dell’uomo hanno avuto inizio alcuni milioni di anni fa. Essi procedono dapprima molto lentamente e poi con ritmi sempre più accelerati, divenendo inarrestabili ai giorni nostri. Le conoscenze relative alla fase più antica, comunemente definita preistoria che va dal Paleolitico inferiore sino al Neolitico, negli ultimi decenni si sono sempre più arricchite in seguito all’intensificarsi delle ricerche e allo sviluppo dei metodi d’indagine. È possibile così ricostruire un quadro del nostro più antico passato, che, se non si può ancora considerare definitivo, permette tuttavia d’identificare, talvolta anche in dettaglio, quel progressivo processo che contraddistingue la nostra specie. L’inizio dello studio sulla preistoria del Salento risale ai due ultimi decenni del 1800 a seguito del ritrovamento vicino Lecce di antiche testimonianze di attività strumentale quali ciottoli fluviali e addirittura amigdala, una grossa pietra a forma di mandorla, usata come un’ascia manuale dai nostri primi antenati i quali popolarono il Salento fin dal Paleolitico inferiore-medio, come assicura l’archeologo Giuliano Cremonesi già docente di paleontologia all’Università del Salento. Al di là del problema di identificare con certezza il primo ominide che fabbrica strumenti, bisogna ricordare che costruire uno strumento dandogli una forma, a livello psichico, sottintende un processo logico e una consequenzialità nei gesti tipici dell’umanità. È da questo momento, che l’essere umano dotato di raziocinio, a mio avviso, è da considerare pensatore, filosofo; anche se la filosofia ufficiale vera e propria inizia con il pensiero greco con i pensatori Anassimandro e Anassimene. Anche se gli strumenti del Paleolitico inferiore sembrano a noi ancora troppo rozzi, è in questo periodo che inizia un nuovo rapporto uomo-ambiente. Delegare le capacità di difesa e offesa alle mani e agli oggetti da esse impugnati significa per il nostro genere e la nostra specie una forte espansione culturale e tecnologica che determinerà successivamente la conquista del globo. È possibile ricostruire una sorta di albero genealogico delle macchine odierne in generale e si può così verificare che in tutte o quasi tutte esistono elementi che taglia-

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Capitolo I no, incidono, segano, limano, parti insomma che, dal punto di vista delle funzioni, non sono poi molto dissimili dagli attrezzi fabbricati dai nostri lontani antenati. Gli studiosi di preistoria distinguono i nostri antenati in austrolopiteci, habilis e sapiens in base alle caratteristiche scheletriche dei resti, ma anche in base all’abilità nel fabbricare attrezzi. Non a caso gli antropologi hanno scelto, per indicare la prima specie veramente umana, le due parole latine Homo habilis. La capacità di modificare la forma degli oggetti, l’“abilità” di lavorare, è davvero un carattere distintivo. Per altro la pratica del lavoro ha avuto un effetto di retroazione sullo sviluppo anche fisico dell’uomo. Infatti, il lavoro è strettamente legato all’uso delle mani; perciò esso comporta che le mani siano libere da altre funzioni, come il partecipare agli spostamenti ad esempio nella marcia a quattro zampe, oppure nel trasporto del corpo sui rami degli alberi. Il coordinamento del lavoro delle mani è sempre stato strettamente dipendente da una particolare attività del cervello. Questo si è dunque notevolmente sviluppato rendendo sempre più efficienti i rapporti sociali e anche lo sviluppo di un’attività come il pensiero astratto. Se dunque è vero che si può valutare l’evoluzione delle forme umane osservando le particolarità dei resti scheletrici, le dimensioni e la struttura delle ossa e in particolare il volume della scatola cranica e quindi del cervello, è anche vero che occorre studiare attentamente gli oggetti fabbricati. Benjamin Franklin il grande inventore e filosofo ha scritto: “L’uomo è un animale che fabbrica strumenti”. Si tratta di una grande verità. Tutti noi siamo effettivamente animali, ma ci distinguiamo dalle altre forme del regno animale per la capacità di costruire, per la forza creativa. Ai nostri antenati preistorici le varie abilità operative sono servite a meglio garantire la sopravvivenza, cioè in pratica a migliorare l’approvvigionamento del cibo e a proteggere o difendere il corpo del singolo individuo o dei membri del proprio clan. Gli attrezzi di pietra, di corno e d’osso che rinveniamo negli scavi del Paleolitico ci raccontano un’avventura lunga due milioni di anni. Forse i primi ciottoli, scheggiati accidentalmente, sono soltanto raccolti dai primi ominidi ma poi l’operazione sugli oggetti diviene intenzionale. Con quest’atto di volontà, coordinato da un’intensa attività del cervello, integrato e strettamente legato alle capacità di comunicare e di elaborare pensieri astratti, l’ominide diventa uomo e con la razionalità, filosofo. Con questi primi oggetti taglienti, è il caso di dirlo, l’uomo taglia i suoi ultimi legami con gli altri animali e diviene appunto un animale culturale, creativo, un essere vivente in cui socialità e individualità si integrano come ottimo mezzo per conoscere e scoprire l’ambiente e la realtà che lo circonda. Al Paleolitico superiore, in tempi a noi relativamente più vicini, appartengono gli ulteriori scoprimenti. Tra Santa Cesarea Terme e Castro vi sono una serie di grotte tra queste famosissima è la Grotta Romanelli importante stazione preistorica del Salento prima attestazione di vita di gruppo in caverna. Dallo studio dei reperti fossili effettuato dal prof. Blanc sappiamo che nella grotta Romanelli si è utilizzato il fuoco, infatti alcune ossa all’analisi della racemizzazione(14) risultano esposte ad una forte sorgente di calore. Il fuoco modifica profondamente le abitudini dell’uomo, non solo in relazione alla cottura dei cibi, ma anche soprattutto in rapporto ai ritmi di vita. Il fuoco cambia con la sua illuminazione l’alternarsi del giorno e della notte. Certamente è un elemento

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Giovanni Cisternino socializzante attorno al quale lo scambio di esperienze o la programmazione delle battute di caccia rinsalda i vincoli dei componenti il gruppo. Nuove abitudini, nuove esigenze si creano tanto da accelerare il processo culturale. Infatti è grazie al fuoco se gli artisti del Paleolitico eseguono le loro pitture e graffiti nel buio pesto delle caverne. La grotta Romanelli a tal proposito offre manifestazioni artistiche quasi esclusivamente di natura naturalistica, la più reale è quella di un bue, ma vi sono anche in bella mostra simboli fallici e vi è pure stilizzata una grande vagina. Non è da escludere che questi simboli siano considerati come entità divine o oggetti di culto. Sono stati rinvenuti genitali maschili usati come amuleti con valore apotropaico ricavati da denti incisivi di ruminante che attualmente si trovano presso il laboratorio di paletnologia dell’Università del Salento. Agli occhi dei nostri progenitori che ritenevano il fallo fonte di energia universale, insinuare che in questa interpretazione vi sia qualcosa di indecente è come commettere una oltraggiosa eresia soltanto menti meschine e corrotte possono infatti pensare una cosa del genere. In questi tempi non esistevano falsi pudori, né ipocrisie, al cospetto delle realtà biologiche. Gli uomini del Paleolitico disegnavano i simboli del fallo e di quello complementare femminile e delle altre parti pudende in tutta innocenza o come sostiene Giambattista Vico in tutta “ingenuità”. Questa simbologia fallica è stata molte volte rappresentata, con arte, da quei lontani progenitori salentini, attraverso ossi lavorati di ornamento. Questi si trovano presso il Museo S. Castromediano di Lecce nella raccolta ornamentale di ossi lavorati nel giacimento, del neolitico medio, di Sant’Anna presso Oria e in altre industrie salentine. Il secondo libro della Scienza Nuova di Vico è intitolato “Della sapienza poetica”. Esso espone le forme di vita, le concezioni e modi di pensiero dell’età primitiva. Con Vico si ha la prima interpretazione dell’uomo primitivo dal punto di vista psico-antropologico. Si analizzano i primi miti, il linguaggio, l’immaginazione e la fantasia. L’uomo preistorico per Vico è anzitutto un essere attivo e dinamico, composto non solo di un corpo ma di un corpo e di un’anima, l’essere umano trova in quest’ultima un elemento dinamico, una fonte di energia e di attività. Anche la sua diretta derivazione da Dio ne fonda e ne conferma l’intima vocazione attivistica creatrice fino alla memorabile concezione sviluppata nella Scienza Nuova dell’essere umano come fabbro e artefice del proprio destino. Un altro motivo ricorrente in Vico è quello di vedere l’uomo primitivo come un essere animato non solo dalla ragione, ma anche da forti affetti. Paura, bisogno, desiderio sono alcune delle molle dell’agire umano sulle quali Vico insiste di più. Dice: “…se li uomini preistorici si aggregano in gruppi non lo fanno tanto per l’innata socievolezza quanto per motivi di utilità e convenienza…”. Scrive Vico in un altro celeberrimo passo della Scienza Nuova “…Li uomini prima sentono senz’avvertire, dappo avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura…”. Questa evoluzione scandita in tre fasi si correla appunto con lo sviluppo, anch’esso tripartito, delle diverse età dell’essere umano: la sensibilità immediata-ingenua è connessa alla fanciullezza tutta sensi e fantasia; la passionalità della seconda fase è tipica della giovinezza; la razionalità riflessiva è propria della stagione della maturità. Di particolare rilievo la sua analisi della sensibilità, dell’immaginazione, del candore e della fantasia funzioni, caratteristiche soprattutto dell’uomo della preistoria.

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GLOSSARIO I. Neolitica: (O nuova età della pietra). Ѐ la divisione più recente dell’età della pietra in cui comincia ad essere usata la pietra levigata. II. Eneolitico: Periodo intermedio tra l’età del Bronzo e la 2° età della Pietra in cui si intravedono già i primordi dell’industria del bronzo, si continua l’impiego degli utensili di pietra per gli usi comuni della vita.

III. Industria Litica: Si tratta di elementi che, in termini composti, fanno riferimento ai periodi dell’età della pietra, determinati dai periodi Paleolitico, Neolitico ed Eneolitico. Armi, utensili, oggetti di ogni tipo risalenti ai popoli preistorici dei periodi poc’anzi menzionati. I Messapi hanno ereditato l’arte e la cultura della lavorazione della pietra perfezionandola anche con l’utilizzo di nuovi materiali scoperti, come il ferro; per questa loro specificità, i Messapi sono stati sempre detti: “mastri litotomi”. IV. Mousteriana (Industria Mousteriana): In Europa si sviluppa nella seconda fase del penultimo periodo glaciale, cioè, all’incirca 190.000 a 70.000 anni fa. In quest’era l’industria litica a lame non è più bifacciale come nel Paleolitico inferiore. L’uomo di questa fase è detto paleantropo o meglio “uomo di Neanderthal”. Nel Salento ne è documentata la presenza nella Grotta dei Giganti che è è stata scoperta dal Gruppo Speleologico di Maglie guidato da Decio De Lorentiis. V. Romanelliano: Si riferisce alla frequentazione umana – scoperta dagli speleologi - e riscontrata all’interno della Grotta Romanelli sita presso Castro marina. Nel Salento, nell’era paleolitica, l’uomo ha avuto una gran cura nell’allevare il cavallo (bos primigenius), gobbuto e villoso che ha espresso vitalità e capacità lavorativa non indifferente e con l’equus caballus ha dominato il territorio salentino. Quest’animale non a caso si trova rappresentato nelle primitive arti figurative ed è visibile nella citata grotta “Romanelli” dove trafitto da zagaglie, troneggia su una parete rocciosa, forse come grafica invocazione di buon augurio per le sorti della caccia. Nella stessa grotta vi sono i graffiti rappresentanti un cinghiale e un felino delle caverne oltre a due buoi aratori che tirano un carretto agricolo.

VI. Conquista spagnola: Quando gli spagnoli capitanati da Fernando Cortez procedono alla conquista dell’America latina, gli Indios che non conoscevano affatto i cavalli ne sono stati terrorizzati. Quando videro un cavaliere montare e smontare di sella ad un cavallo (equus caballus), pensarono che quegli uomini dalla carnagione bianca a cavallo dovessero provenire dal cielo, e fossero capaci di sdoppiarsi in due esseri distinti. In molti scontri fra spagnoli ed Indios, bastava l’apparizione di qual-

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Glossario che cavaliere in sella a smunti e malconci ronzini perché le popolazioni di turno, Incas, Maya od Aztechi, fuggissero in preda al panico. Cortez, una volta scampò ad un disastro grazie ad una cavalleria composta da una dozzina di ronzini macilenti.

VII. Ossidiana: Questo minerale è una specie di pietra vulcanica che è stata trovata nelle grotte preistoriche poste lungo il litorale di Nardò. L’ossidiana assomiglia molto alle schegge di una bottiglia. VIII. Industria o Movimento del Megalitico: A questo periodo appartengono monumenti preistorici costruiti con pietre e macigni rozzi destinati, presumibilmente, a scopo abitativo, funerario e religioso. I monumenti megalitici presentano una molteplicità di tipi riuniti in gruppi contraddistinti con nomi particolari. A questo movimento sono legati i megaliti tipo Dolmenico, i Menhir, i Trulli ed i Paretoni. IX. Menhir: Pietra piantata nel terreno e drizzata verticalmente come rudimentale obelisco. I megalitici menhir di Terra d’Otranto vengono comunemente detti anche pietrefitte in quanto sono confitti al suolo, quasi sempre nella roccia.

X. Dolmen: Col nome bretone di dolmen (tavola di pietra), viene designato comunemente il monumento preistorico e megalitico, composto da poche pietre (3 o 5) grezze infisse dritte nel suolo che reggono una grande pietra posta in maniera orizzontale. In genere le pietre sono grezze nel lato esterno e lisce nella faccia interna della celletta che esse formano. Si pensa che in origine i dolmen fossero coperti da cumuli di terra, come lo erano le tombe a tumulo etrusche. Col passar del tempo la terra dispersa avrebbe lasciato la celletta di pietre a cielo aperto, dalla quale sono state poi asportate e disperse le ossa e gli oggetti funebri. XI. Paretoni: I Paretoni sono muraglie a secco composte da grossi massi informi che raggiungono un’altezza imprecisabile (i monconi più alti esistenti non superano i 3 metri) e uno spessore di 6 metri alla base. Sono stati meno studiati e purtroppo quotidianamente vengono distrutti. Nel limite esterno del territorio messapico la muraglia pare che fosse protetta da un fossato, un vero e proprio “vallum”. Sicuramente i romani hanno copiato dai messapi la tecnica di disporre dei “valli” al confine dei propri territori come, ad esempio, il famoso “vallum Adriani” in Inghilterra. Nel Salento questo “vallum” partendo dall’Adriatico, dopo San Vito dei Normanni, giunge fino a Manduria.

XII. Isodomi (Massi): Sorta di fabbrica (specchie, trulli), in cui gli ordini di pietre sono di uguale spessore. Ne ha trattato lo scrittore latino Vitruvio. XIII.

Pietre Informi: Pietre a secco senza una forma ben definita.

XIV. Trulli: Abitazioni in pietra di forma tonda con tetto conico tipiche della penisola salentina. Risalgono alla fine dell’età della pietra (Neolitico) e all’età del bronzo. XV. Racemizzazione: Soluzione di due sostanze aventi potere rotatorio uguale ed opposto. Si tratta di una vera e propria reazione chimica durante la quale vengono spezzati dei legami chimici.

XVI. Giunchi: Nella protostoria del Salento vi sono stati vari siti il cui habitat, per la presenza di numerose paludi, era idoneo alla coltivazione dei giunchi; tra i siti più significativi si ricordano: l’antica Salapya (Acaya), San Foca di Melendugno,

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Giovanni Cisternino Acquarica del Capo. Nel periodo della cosiddetta “civiltà contadina” - con i giunchi si costruiscono cesti (“sporte, canisci.”) di varie dimensioni, panieri (“Panari”) e funi “’nsarti” per i marinai ed i contadini. Questi cordami, nel nostro vernacolo sono detti anche “zzuche” e vengono intrecciati con dei filamenti di erba e di giunchi. La costruzione dei panieri, funi, cesti e sporte è una produzione antichissima che si perde, come si è detto, nella protostoria del Salento quando le paludi, dove la pianta del giunco cresce rigogliosa, erano numerose. La materia prima, la paglia della palude detta “palieddhru”, è una pianta con i gambi che hanno la lunghezza di oltre un metro ed è proprio nei bacini paludosi che trova il suo habitat naturale. Nei luoghi dove tuttora il giunco viene lavorato i maestri, che vengono chiamati “mastri spurtari”, effettuano la lavorazione del giunco dalla raccolta alla fase finale, con regole, rituali e gesti che hanno quasi del sacro. Non appena vengono tratti dal terreno, i filiformi giunchi, sono immersi in acqua bollente in enormi recipienti di terracotta detti: “furnaceddhre”. I giunchi dopo essere stati ripuliti dal fogliame superfluo vengono passati nello zolfo che li fa divenire quasi del tutto bianchi. Restano comunque molto resistenti e flessibili. Dopo di che i “mastri spurtari” dimostrano tutta la loro abilità creando, intrecciandoli, dei bellissimi ricami. Ovviamente per compiere questi lavori ci vuole molta applicazione e pazienza. Anche le donne, sedute per terra o appoggiate sui muri, lavorano il giunco facendo leva sulle ginocchia e sotto i piedi per tendere al meglio i fili e rendere il lavoro il più perfetto possibile. La pratica, del lavorare i giunchi, era molto radicata nell’era del Neolitico ed Eneolitico non solo nel Salento ma in tutta la Puglia. Infatti, nel settembre del 1998 un’équipe dell’università di Oxford ha rinvenuto alcuni reperti, nella grotta di “Santa Croce” a sette chilometri da Bisceglie (BA), risalenti ai primi artigiani pugliesi che hanno lavorato i giunchi 7.000 anni fa. La notizia è data sulla rivista “Archeologia viva” ove si riporta la scoperta di una cesta in fibre vegetali utilizzata probabilmente, dagli uomini del primo neolitico per il trasporto di frutta e verdura. Si tratta del più antico lavoro ad intreccio mai rinvenuto in Italia e uno dei più antichi d’Europa. Dopo molti anni di inattività la Soprintendenza archeologica della Puglia, in collaborazione con il Dipartimento di archeologia dell’università di Siena, ha ripreso gli scavi nella grotta, portando alla luce preziosissimi reperti preistorici: frammenti di ceramica con decorazioni impresse ed incise, strumenti litici (fra cui una lama ritoccata lunga 16 cm.) e numerose graminacee coltivate carbonizzate (molto probabilmente si tratta della sopra citata sorghum vulgare). Le datazioni al radiocarbonio 14 effettuate nei laboratori di Oxford collocano i reperti nella metà del V millennio a.C. e concordano con altre analisi scientifiche condotte sulle ceramiche nell’attribuire la loro produzione ad una fase evoluta del primo Neolitico. La scoperta più significativa è quella di una stuoia in fibre vegetali, in eccezionale stato di conservazione, di forma grosso modo ovale. L’intreccio è a spirale. Il bordo è rifinito da un filo attorcigliato in materiale vegetale diverso che si prolunga in una sorta di anello che poteva costituire un manico. L’archeologa Dr. Annamaria Ronchinelli spiega che la presenza dei manici può far pensare che la stuoia fosse usata come borsa floscia, adatta al trasporto di derrata varie.

XVII. (Proto)Villanoviani: La cultura villanoviana prende il nome da un sepolcre-

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Glossario to scoperto nel 1853 presso Villanova di Bologna e fa parte della prima età del ferro italiana (secoli IX-VIII a.C.). Le popolazioni di questo periodo avevano un’economia basata prevalentemente sull’agricoltura, abitavano in villaggi di capanne ovali o rettangolari e usavano tombe a incinerazione in urna contenuta in un pozzetto, spesso protetta da un doglio di terracotta o da una custodia di tufo, La ceramica è caratterizzata da urne biconiche con anse generalmente orizzontali, decorate con fasci di linee incise a pettine, da scodelle di copertura a bordo rientrante, da elmi di terracotta. Frequenti i vasi decorati con lamelle metalliche applicate. Oggetti di bronzo sono i bacini, le tazze, le situle, le fibule a disco e quelle ad arco ribassato, i rasoi lunati, le spade ad antenne o con lingua da presa e pomo circolare e gli elmi cresti e apicati.

XVIII. Sissizie: Le sissizie di cui accenna Aristotele e che il re Italo istituisce per primo, appaiono una novità in senso assoluto. Secondo il prof. Renato Peroni, le “sissitie” di aristoteliana memoria non sono un riferimento, precipuo, all’uso di consumare i pasti in comune o in famiglia (come avveniva fino ad una trentina di anni fa ancora nella civiltà contadina del nostro Salento), ma una sorta di creazione di riserve alimentari collettive. Una specie di ammassi annonari. Questa tradizione, se si riflette un po’, è stata tramandata nelle abbazie salentine, nei castelli e nelle masserie fortificate dove si possono ancora notare i grandi silos o cisternoni scavati nella roccia. In essi venivano depositate le derrate alimentari di mantenimento da utilizzare soprattutto nel periodo invernale, ma anche in periodi di siccità o di grandi guerre. XIX. Ferecide di Siro: Uno dei più antichi filosofi greci, vissuto nel VI sec. a.C. La sua fama è dovuta ad un’opera cosmogonica in cui spiega con immagini mitologiche le sue speculazioni e che dai cinque elementi dell’universo fu chiamata Pentèmychos (le cinque caverne). Un frammento scoperto da pochi decenni tratta delle nozze di Zeus con Ctonia (la Terra). L’ordine del mondo sarebbe per Ferecide la conseguenza di una lotta tra gli dei, in cui i vinti furono precipitati nel Tartaro, dove vi erano fumo e tenebre1.

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XXI.

Aggera: Detto di parti architettoniche; sporgere. Sinecistiche: Cavità a pareti proprie.

XXII. Isonomia: Parola determinata dal lemma Iso che in greco Isos significa, uguale, e dal lemma Nomia che in parole composte significa: governo, distribuzione razionale, autonomia. In altre parole qui si tratta di identificare le città messapiche come città-stato.

XXIII. Epigrammatica: s.f. Arte di comporre epigrammi. Genere letterario degli epigrammi. Insieme della produzione di epigrammi di un determinato periodo letterario.

XXIV. Meandriformi: Andamento serpeggiante di edifici, strade e similari. Motivo ornamentale costituito da elementi ripetuti e collegati fra loro. Intrico, tortuosità.

P. Tozzi, “Ferecide di Siro”, sta in “rendiconti dell’Accademia dei Lincei”, 1967; H. DIELS-W. KRANZ, “Frammenti dei Presocratici”, Bari, 1975.

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Giovanni Cisternino XXV. Nummologi: Sono coloro che studiano la numismatica. Scienza che studia e descrive secondo criteri storici ed artistici le monete e le medaglie antiche. È un importante ramo dell’archeologia ed è scienza sussidiaria della storia.

XXVI. Livio Andronico: Ѐ difficile dare un’inquadratura storico-biografica di Livio Andronico dal momento che le fonti ufficiali sono alquanto contrastanti. Si può supporre che Livio nasca a Taranto intorno al 280 a.C. A quanto afferma il sommo Cicerone, Livio viene condotto a Roma, come schiavo, da Livio Salinatore intorno al 260 a.C. Il “poeta” ha sicuramente un nome diverso da quello che avrà quando viene affrancato dal suo “padrone”. Una volta che il poeta tarantino fa conoscere il suo valore di letterato viene nominato precettore, per l’educazione dei figli di Salinatore. In Livio appare evidente che sua matrice culturale risenta dell’influsso di stampo magnogreco. I suoi maggiori punti di riferimento sono Euripide e Sofocle. La grandezza di Livio Andronico sta nel fatto che, con lui, la letteratura latina inizia ad avere dei contorni ben definiti. La data del 240 a.C. segna, perciò, l’inizio di due fatti molto importanti: a) l’inizio della letteratura latina vera e propria inaugurata da Livio con la rappresentazione di una sua fabula. b) il debutto di Livio come attore delle sue opere anche se pare che la voce non fosse la sua ma di una voce fuori campo. Forse l’invenzione di “doppiare” gli attori è da attribuire proprio ad Andronico. In occasione della vittoria dei romani presso il Metauro il senato riconosce all’ormai ottantenne poeta, l’istituzione del “Collegiun poetarum histrionumque” di cui egli è membro. Per riconoscenza, al gran vegliardo il senato consente le adunanze dei poeti nel tempio di Minerva posto sull’Aventino e concede a Livio l’onore grandissimo di abitare nel tempio stesso. Egli compone un’ode in onore della Dea Giunone regina, che intitola il “Partenio”. Il poeta forse compone questa ode per acclamare i primi colonizzatori che hanno fondato Taranto e per fare conoscere meglio a Roma la sua terra natìa. Questi suoi scritti sono cantati da 27 ragazze che indossano una lunga veste e sono divise in tre cori, durante una processione in onore della Dea Giunone, la cui statua precede la cantoria. Si attribuiscono a Livio otto tragedie: “Achilles, Aegisthus, Aiax mastigophorus, Andromeda, Danae, Equos Troianus, Hermiona, Tereus” e tre commedie: “Gladiolus, Ludius, Virgo o Vargus”. La maggiore opera che si ascrive ad Andronico è l’Odissea, stilata nel cosiddetto verso saturnio molto caro all’epica romana; molto probabilmente il poeta vuole diffondere quest’opera e non l’Iliade in quanto la ritiene un’opera più pedagogica. Orazio attesta di aver conosciuto l’Odissea di Livio dal suo precettore Orbilio “a suon di percosse”. Cicerone invece, ritiene che l’opera maggiore dell’Andronico sia un’opera alquanto scialba e che le sue tragedie siano degne solo di una lettura molto superficiale. XXVII. Municipalizzate: Fra le città municipalizzate dai romani si ha un documento che riguarda Otranto. L’epigrafe è incisa su un marmo che, rinvenuto in Otranto, si trova nel Museo del convento di Santa Maria della Libera (Domenicani) e Napoli. In italiano recita: “A Marco BASSEO figlio di Marco/della famiglia di Axsio/appartenente alla tribù Palatina/patrono della colonia (idruntina) e curatore/della Repubblica/ duumviro del Municipio procuratore augustale/della via Ostiense e Campana/tribuno militare della XIII legione Gemina/proconsole della Calabria/gode tutti gli onori in Capua/patrono della colonia Lupiense (Roca)/e del Municipio idruntino”.

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Glossario XXVIII. Vittorio Dé Prioli: Vittorio Dè Prioli nasce a Lecce nel 1538 da nobile famiglia di origine veneziana. A vent’anni sposa Giovanna Paladini, figlia di Luigi Maria, barone di Campi Salentina. Ѐ un profondo studioso e innamorato della storia di Lecce e del circondario, valente archeologo. Stringe amicizia sincera con Don Claudio Falconi, barone di Latiano. Esegue insieme col Falconi, poi suo parente, a quanto ci rivela G. Paladini2, profondi e sistematici scavi a Rudiae e Salapya e nel circondario salentino. Raccoglie un ingente patrimonio di reperti antichi. Il palazzo di V. Dè Prioli è stato individuato in piazza Peruzzi ed era una struttura nobiliare fatta costruire dal vescovo di Castro Angelo Giaconia nel 1546, dal cui Prioli lo acquista. Questo palazzo, oggi sede dell’Istituto Provinciale dei Ciechi, è un’opera attribuita all’architetto Gabriele Riccardi. Nell’interno del portone si potevano ammirare due porte di chiaro stile rinascimentale. Un ampio cortile, il vero impluvium, immette in uno splendido giardino, dove il conte Dè Prioli raccoglie e deposita, colonne, bassorilievi, iscrizioni latine e messapiche, statue, e quant’altro d’antico raccoglie. Questo prezioso materiale purtroppo, dopo la morte di Vittorio Dè Prioli, avvenuta nel settembre del 1623 va completamente perduto per l’incuria dei suoi eredi. Il corpo di Vittorio viene tumulato nella tomba di famiglia, nella cripta della cattedrale, ai piedi dell’altare dedicato alla Madonna di Costantinopoli. Gian Giacomo Dell’Acaya risulta essere cognato di Vittorio dè Prioli in quanto, entrambi, sposano due sorelle figlie di Luigi Paladini barone di Squinzano e marchese di Campi Salentina. Giovan Giacomo sposa intorno al 1550-55, in seconde nozze, Marfisa. Vittorio dè Prioli sposa nel 1558 Giovanna. Questo è il motivo per cui Anton Francesco Dell’Acaya, ultimo figlio legittimo ed erede di Gian Giacomo e Marfisa Paladini, risulta nipote di Vittorio dè Prioli. XXIX. Grotta di San Cristoforo: Il sito della grotta è una escavazione artificiale aperta nella parete rocciosa che si trova sul lato sud-est della spiaggia di Torre dell’Orso. Ѐ possibile che in passato la grotta facesse parte di un complesso di cavità naturali ed artificiali oggi scomparse per il crollo delle volte e delle pareti. Segni di utilizzazione nel passato delle rocce limitrofe sono ben visibili ancora oggi. Rinvenimenti di resti di ceramica preistorica testimoniano una frequentazione umana molto antica che si è stanziata sulla parte sud della roccia (lato sud della spiaggia). Sono stati rilevati frammenti decorati in terracotta del tetto di un tempio pagano, potrebbe essere il tempio, non ancora identificato, di Athenaion detto anche Porto di Afrodite (non a caso a San Foca una leggenda narra della “grotta dell’amore” e a Torre dell’Orso stesso vi sono le famose rocce dette “le due sorelle”. Un reperto dell’età augustea, costituito da una testa di divinità femminile con diadema (Afrodite?) individuato a San Foca, sottolinea, ancora una volta, la religiosità di questo sito)? I frammenti ceramici, comunque, testimoniano che, verso la fine del VI sec. a.C., un edificio di culto era stato costruito sul costone roccioso della città di Lupiae (Roca). Durante il IV sec. a.C. vi è un notevole incremento di popolazione e un’intensa attività edilizia, testimoniata dalla cinta di mura e fossati e dalle molte tombe rinvenute. Nella fase che va dal IV al III sec. a.C., nella escavazione della grotta a pianta rettangolare con ampia banchi  G. Paladini, “Guida storica ed artistica della città di Lecce”, editrice salentina, Lecce, 1952 pp. 225, 227-228.

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Giovanni Cisternino na risparmiata lungo il lato nord, sono stati identificati vasti tratti di depositi, che a giudicare dalle chiazze di cenere e dalle tipologie vascolari, (coppette monoansate, piccoli vasi) stanno a testimoniare la presenza dell’uomo. La grotta è interessata da un violento episodio sismico avvenuto nel V sec. d.C. La grotta e quanto restava delle terrazze antistanti sono state risistemate e nuovamente frequentate sempre a scopo cultuale.

XXX. Cavalieri del Sovrano Ordine Militare di San Giovanni di Gerusalemme o Gerosolimitani detti anche di Malta: Dalla grotta di San Cristoforo passano tra i secoli XI-XIV i Cavalieri detti, appunto, del Sovrano Ordine Militare di San Giovanni di Gerusalemme, i quali qui appongono il segno del loro passaggio. Dal tratto grafico caratteristico di queste croci si capisce che questi cavalieri appartengono al Sacro Sovrano Ordine Militare di San Giovanni di Gerusalemme. La caratterista della croce a quattro punte è che ogni punta termina nella sua parte finale con un angolo cavo ben appuntito verso l’interno. L’Ordine è fondato in Terrasanta nel 1099 dal beato Gerardo di Tune o di Tung nativo della Provenza. Nel 1118 la pia opera del beato Gerardo è costituita in un Ordine religioso di cavalleria da Raimondo de Puy e come tale è confermata da papa Callisto II nel 1120. L’Ordine di Malta, come più tardi viene chiamato, segue le vicende della riconquista mussulmana dei luoghi santi. Infatti, nel 1187 dopo la presa di Gerusalemme, i cavalieri si spostano prima in Fenicia a Magret e poi a San Giovanni d’Acri dove rimangono sino al 1291, quando per l’incalzare dei Saraceni si spostano nell’isola di Cipro, dove restano sino al 1309. Abbandonata Cipro i cavalieri si insediano nell’isola di Rodi, da dove vengono cacciati nel 1522 dal sultano Solimano II. Da Rodi vanno nell’isola di Candia, poi in Sicilia e finalmente nel 1530 a Malta che l’imperatore Carlo V ha loro ceduto. La grandezza dell’Ordine di Malta continua incontrastata sino al 1789 quando, sotto i colpi della Rivoluzione Francese, l’Ordine perde gradualmente tutte le sue proprietà. Nel 1798 Napoleone, in navigazione verso l’Egitto, occupa l’isola sottraendola all’Ordine e ottenendo l’abdicazione del Gran Maestro Ferdinando di Hompesch, che si ritira a Trieste. L’imperatore di Russia Paolo I, anche se non è cattolico, è riconosciuto Gran Maestro dell’Ordine e sino al 1805 la sede dell’Ordine è Mosca. Nel 1827 papa Leone XII trasferisce la sede dell’Ordine negli stati pontifici e sino al 1879 l’Ordine è amministrato da un luogotenente del Gran Magistero e da un Consiglio residente a Roma. Il 28/03/1879 viene ristabilita la dignità di Gran Maestro. L’Ordine è diviso in: Primo Ceto – Cavalieri di Giustizia e Cappellani Conventuali (Balì Gran Croce di Giustizia, Gran Croce di Giustizia, Commendatore di Giustizia, Cavaliere di Giustizia Professo di Voti Solenni, Cavaliere di Giustizia professo di Voti Semplici, Cavaliere ammesso al Noviziato, Cappellano gran Croce Conventuale Professo, Cappellano Conventuale Professo di Voti Solenni, Cappellano Conentuale Professo di Voti Semplici). Secondo Ceto – Cavalieri e Dame di Onore e Devozione. Terzo Ceto: Prima Categoria – Cavalieri e Dame di Onore e Devozione. Seconda Categoria – Cappellani conventuali “ad honorem”. Terza Categoria – Cavalieri e dame di Grazia e devozione. Quarta Categoria – Cappellani Magistrali. Quinta Categoria – Cavalieri e Dame di Grazia Magistrale. Sesta Categoria – Donati e Donate di Devozione. L’insegna dell’Ordine è costituita da una croce d’oro biforcata,

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Glossario smaltata di bianco, accantonata da quattro gigli d’oro e sormontata da una corona anch’essa d’oro; i cavalieri di Boemia al posto dei gigli hanno l’aquila bicipite. Il nastro è di colore nero3.

XXXI. Cavalieri dell’Ordine del Tempio o Templari: Dalla grotta di San Cristoforo passano tra il secolo XI e XIV i Cavalieri detti, appunto, Templari, i quali qui appongono il segno del loro passaggio. Dal tratto grafico caratteristico di queste croci si capisce che questi cavalieri appartengono all’Ordine del Tempio. La caratterista della croce a quattro punte è che ogni punta termina nella sua parte finale con un angolo curvato dolcemente all’interno. L’ordine nasce in Terrasanta nel 1118 alcuni ritengono ad opera del francese Hugues De Payns, altri sostengono fondato dall’italiano o meglio dal napoletano Ugo Dei Pagani, altri ancora sostengono che sia stato fondato da Goffredo de Saint-Amour e da altri sette gentiluomini. Questi uomini fondano l’Ordine con il fine di proteggere i pellegrini dagli infedeli, provvedere alla sicurezza delle strade e difendere il cristianesimo. Papa Onorio II, in un concilio svoltosi a Troyes nel 1128 riconosce l’Ordine e gli dà una nuova regola composta da San Bernardo di Chiaravalle in 72 capitoli. I Cavalieri del Tempio vestono una tunica bianca alla quale aggiungono una croce rossa. Essi innalzano uno stendardo bianco e nero, simboleggiante la devozione agli amici della religione e la fierezza contro gli infedeli. Sullo stendardo è posta la scritta: “Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo ad Gloriam”, con la croce rossa attraverso i due campi. Grazie alla pietà e al valore dei Cavalieri, l’Ordine riscuote gran fama in tutta Europa e numerosi sono i signori e nobili del tempo che entrano nell’Ordine, facendogli così acquistare forza, potenza e prestigio. Tutto questo però provoca l’invidia di altri ordini similari ed anche di alcuni sovrani che, dopo averli chiamati nei propri territori, iniziano ad agire contro di loro. Filippo IV di Francia nel 1307 inizia a perseguitare i Templari e nonostante l’opposizione del papa Clemente V, nel maggio 1309, dopo un processo sommario, il Gran Maestro ed altri 53 cavalieri vengono arsi sul rogo a Parigi. Nel 1312 viene pubblicata una bolla papale con la quale l’Ordine del Tempio viene abolito e tutti i suoi beni sono confiscati e ceduti all’Ordine di san Giovanni di Gerusalemme o di Malta4.

XXXII. Salario: Il sale come merce di scambio ha un’origine antichissima che risale agli uomini della nostra preistoria. I Messapi ma, soprattutto, i romani hanno utilizzato il sale per pagare alcune tasse e per pagare il “salario” alle proprie truppe. All’inizio del XIX sec. i Comuni sono abilitati a nominare dei funzionari fiduciari detti “Deputati del Sale”, che sono addetti alla riscossione delle tasse pagate con il sale che poi lo Stato borbonico rivenderà ai suoi stessi cittadini. XXXIII. Mutatio: Posto collocato sulle antiche vie romane e adibito al cambio dei

L. Faverzani, “Nobiltà – rivista di araldica, genealogia, ordini cavallereschi”, Istituto Araldico Genealogico Italiano, Numero straordinario dedicato alla storia della Chiesa e al Giubileo del 2000, Anno VIII, Milano, Novembre-Dicembre 2000, pp. 660-661. 4   L. Faverzani, “Nobiltà – rivista di araldica, genealogia, ordini cavallereschi”, Istituto Araldico Genealogico Italiano, Numero straordinario dedicato alla storia della Chiesa e al Giubileo del 2000, Anno VIII, Milano, Novembre-Dicembre 2000, pp. 667-668. 3

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Giovanni Cisternino cavalli.

XXXIV. Mansiones: Taverne, poste lungo le vie consolari romane, adibite come alloggio per il pernottamento e il vitto.

XXXV. Attico: Questa amicizia tra Cesare Ottaviano Augusto e Attico, si è probabilmente consolidata quando entrambi hanno avuto per qualche tempo la residenza in Grecia. È riportata da Cornelio Nepote nel suo lavoro “De viris Illustribus” in cui parla, appunto di Attico. Questo è il passo che ci interessa: “…Nata est autem Attico neptis ex Agrippa, cui virginem filiam collocarat. Hanc Caesar vix anniculam Tiberio Claudio Neroni, Drusilla nato, privigno suo, despondit: quae coniunctio necessitudinem eorum sanxit, familiaritatem redditit frequentiorem. Quamvis ante haec sposalia non solum cum ab urbe avesse, nunquam ad suorum quemquam litteras misit, quin Attico mitteret, quid ageret, quibusque in loci set quamdiu esset moraturus, sed etiam, cum esset in urbe et propter infinitas suas occupationes minus saepe, quan vellet, Attico frueretur, nullus dies tenere intercessit, quo non ad eum scriberet, cum modo aliquid de amtiquitate a beo requireret, modo aliquam quaestionem poeticam ei proponeret, interdum iocans eius verbosiores eliceret epistolas… – Ad Attico nacque una nipote da Agrippa, a cui aveva dato in sposa la figlia in prime nozze. Cesare, quando questa aveva appena un anno, la destinò in isposa al figliastro Tiberio Claudio Nerone, figlio di Livia Drusilla; questo legame suggellò la loro amicizia e rese più frequenti i loro rapporti. Comunque già prima di questi sponsali, Ottaviano non solo, travandosi lontano da Roma, non mandò mai lettere a nessuno dei suoi senza scrivere anche ad Attico per dirgli che cosa facesse, che cosa leggesse soprattutto ed in quali luoghi fosse e quanto a lungo vi sarebbe rimasto; ma anche quando era in città ed a causa degli infiniti suoi impegni meno spesso di quanto volesse godeva della compagnia di Attico, non passò giorno, senza grave motivo, che non gli scrivesse o per chiedergli qualche informazione sulla storia antica ora per sottoporgli qualche questione di poesia, qualche volta scherzando per strappargli lettere più lunghe…”. XXXVI. Quinto Ennio (Padre della letteratura latina): Il poeta nasce nella messapica Rudiae nel 239 a.C. e muore in Roma il 169 a.C. Ennio nasce da famiglia sicuramente agiata e studia non solo a Rudiae, ma anche a Taranto, per questo oltre al linguaggio volgare dei messapi conosce la cultura osca, greca e, infine, latina. Si può dire che egli sia uno dei primi poliglotti della storia e di ciò se ne vanta dicendo di avere tre anime e tre cuori (tria corda). Quinto Ennio, se non avesse partecipato alla guerra contro Annibale, non sarebbe sicuramente diventato il poeta che conosciamo, in quanto si deve all’incontro con Catone l’inizio della sua fortunata ascesa nell’olimpo della letteratura latina. Ennio all’età di ventitré anni è assoldato dall’esercito romano, nelle cui file combatte la famosa battaglia di Canne, dove i romani vengono sonoramente sconfitti ma, è il caso di dirlo, “la dea bendata” aiuta “il figlio di Rudiae” facendolo uscire indenne da quel pericolo. All’età di trentacinque anni, facendo parte del contingente messapico dell’esercito romano (composto da 50.000 fanti e 16.000 cavalieri messapi e japigi), è destinato in Sardegna (204 a.C.) a combattere contro i Cartaginesi e, per il coraggio dimostrato in battaglia, viene nominato Centurione delle coorti dal pretore romano Catone detto il Censore, il quale sbalordito dall’ardire, “di quel Messapo”, lo invita a Roma. Non si capisce come mai Catone, essendo un conservatore, amante della cultura e delle tradizioni romane, abbia fatto amici-

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Glossario zia con un personaggio così eccentrico come doveva essere Ennio, il quale, come esponente della cultura greca, non deve certamente apparire grato a un conservatore come il Censore. Successivamente Ennio va al seguito di Fulvio Nobiliore quando a questi viene affidato il compito di portare una campagna di guerra in Etolia. Dopo la vittoria, in onore del Nobiliore, il rudino compone un’ode (andata perduta), una specie di praetexta. A Roma, Ennio abita in una modestissima casa posta sull’Aventino conducendo una vita molto austera, coltivando nel suo orticello i prodotti che la terra gli può offrire. Frequenta, però e fa amicizia, forse anche per motivi politici, con personaggi influenti della Roma che conta come Scipione Nasica, M. Fulvio Nobiliore e l’Africano5. Intorno ai quarant’anni (198 a.C.) comincia a scrivere e a maturare il suo amore per la storia e la letteratura latina. Ennio dimostra una coscienza ed una profondità letteraria superiore rispetto ai suoi predecessori come il tarantino Livio Andronico ed il campano Nevio. Introduce, nella cultura romana, l’esametro e migliora la lingua. L’esametro è un verso di sei piedi, dei quali i quattro primi o dattili o spondei, il 5° dattilo, il 6° spondeo o trocheo. Talvolta, per armonia imitativa, il 5° piede è spondeo, ed allora il verso è detto spondaico. L’esametro esige una censura dopo il 3° mezzo piede (tritemimera) o dopo il 5° mezzo piede (pentemimera) o dopo il 7° mezzo piede (eftemimera). Ѐ il verso della poesia epica Greca e Latina. Ennio scrive molte opere ma la più importante di tutte sono gli “Annales”, in 18 libri. Dei 30.000 esametri, purtroppo solo 600 sono giunti fino a noi. Negli “Annales” Ennio racconta gli avvenimenti più importanti dalla fondazione di Roma fino al suo tempo seguendo come filo conduttore la cronologia storica degli avvenimenti celebrando, soprattutto, le casate nobiliari romane. Nella protasi degli Annales narra un sogno: Omero gli comunica che, tramite la metempsicosi, il suo spirito vive ormai in lui. Egli è consapevole che, in questo inizio d’opera, eccede in suggestioni letterarie (il prologo degli Aitia di Callimaco, incentrato sul sogno del poeta, che immagina di essere trasferito sull’Elicona) e filosofiche (Ennio è un cultore di credenze pitagoriche); ma è altrettanto fuori di dubbio il desiderio di Ennio di essere non un imitatore di Omero, ma un autentico “nuovo Omero”. Abbandona perciò per la sua epica il vecchio e rozzo saturnio e adotta l’esametro, più flessibile e ricco di possibilità espressive. Il saturnino è il verso che utilizza in un primo momento, della sua poetica, Quinto Ennio. Egli afferma che, secondo la tradizione romana, Saturno avrebbe governato in un’era molto lontana le popolazioni del Lazio e in ricordo dunque della divinità, i versi detti saturni, quos olim Faunei vatesque canebat, secondo la testimonianza di Ennio, il saturnio veniva anche chiamato faunius. Il saturnio, considerato già da Ennio un metro decisamente arcaico, è usato a scopo artistico anche da Livio Andronico nella traduzione della sua Odissea e successivamente da Nevio nel suo Bellum Poenicum. Si è molto discusso e si discute ancora oggi, semza aver trovato una soluzione, se la natura di questo verso, sia accentuativa o quantitativa. Nel periodo delle origini la distinzione tra prosa e poesia non era molto netta, ma in seguito i Romani, primo fra tutti Ennio, seguendo l’esempio dei Greci distinguono i due generi letterari. Negli “Annalese” si percepisce tutta l’humanitas di Ennio, che non loda esclusivamente il suo amico Scipione l’Africano ma   Cicerone, “Arch.” 9, 22.

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Giovanni Cisternino tutto il popolo romano. Catone il censore viene glorificato e vengono osannati gli esponenti delle famiglie Massimi, Marcelli, Fulvi ecc. Insomma gli Annales si possono definire il poema nazionale romano. Un verso, di quelli giunti fino a noi, valga per tutti: “…postquam Discordia taetra/belli ferratos postes portasque refregit…- dopo che la discordia orrenda della guerra ebbe spezzati gli stipiti ferrati e le porte…”; questi versi, dal grande Orazio che è un giudice critico e severo della poesia, vengono considerati un esempio di elocuzione poetica. La sua maggiore opera è, veramente, una panacea per gli ambienti aristocratici del suo tempo. Egli media la cultura filosofica della “sua” magna Grecia e n’espone il contenuto nella lingua ufficiale (latina) dell’ormai “prossimo venturo” Impero di Roma. Per questo suo modo enfatico di celebrare le gesta degli “eroi” romani e per essere stato l’anello di congiunzione tra la cultura latina e quella greca, viene considerato fra i padri della letteratura latina. Avrà, nel corso della storia molti imitatori, uno dei più famosi che ci piace ricordare è Giovanni Villani il quale nel XIV sec. scriverà la sua “Cronica” fiorentina anche se questa è più legata agli avvenimenti del suo tempo. Nel 184 a.C. Quinto Fulvio, in nome dell’amicizia che lega Ennio a suo padre, concede al poeta la cittadinanza romana. Crediamo che l’illustre poeta rudino in questa occasione, abbia assunto il nome col quale ora è conosciuto. In fondo anch’egli ha seguito la stessa sorte toccata a Livio Andronico e a tutti gli schiavi di Roma, infatti il “poeta”, è stato sicuramente affrancato con il nome del suo “padrone”. Infatti, proprio in occasione della sua investitura ufficiale di cittadino romano il poeta “messapico” scrive il famoso verso che sintetizza, identifica ed eterna nella storia il grande vate in questi termini: “Nos sumus Romani/qui fuimus ante/Rudini – Siamo Romani, noi che prima fummo Rudini”. Quinto Ennio rappresenta l’anello di congiunzione tra la cultura magnogreca e quella romana; attraverso la sua poetica si può affermare che se Roma ha vinto col ferro la Magna Grecia, da questa è stata soggiogata con l’arte e la cultura. Ennio, come esponente della cultura greca segue il pensiero filosofico di Pitagora e su questa linea scrive un libro di “Pensieri” e molte “tragedie” d’ispirazione greca. Delle molte tragedie di Ennio ci rimangono circa 400 versi e venti titoli. Del ciclo troiano si ricordano: Achilles, Aiax, Alexander, Andromacha, Hectoris lutra, Hecuba, Iphigenia, Telamo, Telephus; di altri cicli si ricordano: Alcumaeo, Andromeda, Athamas, Cresphontes, Erechtheus, Eumenides, Medea exul, Melanippa, Nemea, Phoenix, Thyestes. Nelle sue tragedie Ennio trova il modo di esplorare anche la delicata psiche femminile, sia per Medea esule, che dopo aver lasciato la sua patria fugge, che per Andromaca prigioniera di guerra, il cui lamento viene giustamente celebrato. Accanto ad opere solenni non disdegna però di trattare argomenti che interessano il “viver quotidiano” e, memore delle origini agricole dei Messapi, ricordando i tempi quando egli sull’Aventino coltivava i cavoli, ha parlato della “sua” cucina messapica, dei diversi condimenti da utilizzare sui pesci, delle prelibate “rape fumanti – ferventia rapa vorare”. Basandosi su un’ottima cultura elleno-pitagorica non può non tradurre l’”Odissea” del grande Omero, giungendo anche a dire di essere, lui stesso, la reincarnazione del grande vate greco (metempsicosi). Per capire quanto grande sia Quinto Ennio per la lingua e letteratura latina, si può affermare che, quello che Ennio è per Roma antica, Dante lo è per l’Italia. Infatti, i due grandi poeti non solo elevano il livello della loro lingua nazionale ma esaltano anche i diversi idiomi locali. Così come Ennio ri-

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Glossario valuta il greco, l’osco e il messapico, Dante rivaluta tredici tra i più importanti idiomi volgari italiani: tra cui il lombardo, il siciliano, il piemontese. Quinto Ennio viene anche encomiato da Giovanni Pascoli che, del rudino dice: “modellò la lingua latina, in modo che essa diventò la lingua parlata di tutta Italia, onde l’unità politica fu integrata da quella letteraria”. Può anche essere considerato l’inventore ante litteram della stenotipia se è vero, com’è vero, che si deve a lui l’introduzione in Roma dell’abbreviazione di quasi mille parole. Le sue opere sono rappresentate frequentemente e con successo nei teatri dell’impero di Roma, nell’arco di tutta la sua storia. D’altra parte le sue opere rievocano spesso la guerra annibalica che egli ha vissuto in prima persona per questo, l’autore, non può che ricevere ad ogni rappresentazione che “ingentes clamores” scroscianti applausi. Trascorre trent’anni della sua vita dedicandosi completamente alla letteratura e mentre, in occasione dei ludi (giochi) di Apollo, è intento a rappresentare la sua ultima tragedia “Tieste”, che compone ispirandosi all’“Agamennone” del grande drammaturgo greco Eschilo, muore a Roma intorno al 169 colpito da una crisi di gotta. Marco Tullio Cicerone nella sua opera “De Orationes” esalta frequentemente la grandezza di Ennio. L’oratore ricorda, specificatamente, Ennio6:citando questo verso “…quis ibi est vulneratus ferro Phryfio?…” da una tragedia sconosciuta di Ennio, forse l’Achilles (opera, andata purtroppo perduta). Da una tradizione poi raccolta da Cicerone, si sa che, per la grande amicizia che legava in vita Ennio a Scipione l’Africano, nel sepolcro, accanto alle statue dell’eroe romano, sorge anche quella del poeta di Rudiae.

XXXVII. Tabula Peutingeriana: Questa mappa prende il nome da Peutinger, il dotto che la scopre e la pubblica nel XVI sec. Essa viene compilata per la prima volta nel 366 d.C. e su di essa vengono tracciati gli itinerari verso tutte le parti dell’impero e sono persino indicate le giornate di marcia che occorrono per raggiungere le diverse località. XXXVIII. Cuzio LUPO: Cuzio LUPO è il questore inviato da Roma a governare la Messapia e viene ricordato da Tacito nei suoi “Annales, IV, 28” quando nel 24 d.C. deve intervenire energicamente per sedare una ribellione fatta scoppiare a Brindisi da Tito CURTISIO, ex pretoriano. Questo è quello che riporta Tacito: “Non soltanto (il detto Tito CURTISIO) contattò gli ergastula del posto (cioè le squadre degli schiavi), attraverso incontri clandestini, ma fece addirittura affiggere dei manifesti coi quali incitava alla libertà i rozzi e feroci schiavi sparsi per quelle contrade lontane”. L’imperatore Tiberio manda nel territorio messapico-salentino, a dar man forte a Cuzio LUPO e ad alcune navi che pattugliano il canale jonico (ora detto d’Otranto), il tribuno STAZIO ma quando questi arriva, scopre che la rivolta era già stata sedata. I capi della rivolta vengono infissi sulla croce e l’ex pretoriano CURTISIO viene flagellato e ucciso. XXXIX. Litotomi: Industria litica. Si tratta di elementi che, in termini composti, fanno riferimento ai periodi dell’età della pietra, determinati dai periodi Paleolitico, Neolitico, Eneolitico. Armi, utensili, oggetti di ogni tipo risalenti ai popoli preistorici dei periodi sopra menzionati. I Messapi hanno ereditato l’arte e la cultura della lavora “De Orationes pro Sexto Roscio Amerino”, Utet, 1983, pp. 255-256.

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Giovanni Cisternino zione della pietra perfezionandola anche con l’utilizzo di nuovi materiali, scoperti, come il ferro; per questa loro specificità, i Messapi, sono stati sempre detti “mastri litotomi”.

XL. Itinerari cartografici: Per avere un’idea di quelle che erano le problematiche inerenti alla geografia dei reticoli stradali, di navigazione e dei siti (che da Roma antica sono esistiti fino al medioevo) molti autori hanno scritto varie tesi ma alcune argomentazioni trattate dal Ranieri7 sembrano sintetizzare molto bene questo argomento. L’Itinerarium pictum, per esempio, era una striscia di pergamena lunga mt 6,80, che si portava arrotolata che contiene le strade principali dell’Impero, da occidente ad oriente, dall’Iberia alla Cina. Nell’età di Augusto, Roma ha avuto anche opere geografiche che riflettevano quella che poteva dirsi la concezione romana della geografia illustrata non tanto dall’arida descrizione del mondo che Plinio inserisce nella sua Historia Naturalis (libri II-IV) e neppure dalla Chorographia (esposizione succinta ed elementare delle conoscenze sul mondo abitato) di Pomponio Mela quanto dall’opera che secondo lo spirito romano ha scritto un greco del Ponto, Strabone (64 a.C. – 20 d.C.): la Gheographikà, la più vasta opera geografica (17 volumi) che la storia antica ci ha tramandato pressocché integra. Secondo Strabone la Geografia, lasciando all’astronomia, alla geometria, alla fisica le indagini sulla forma e le dimensioni del mondo, e in genere sui fenomeni naturali, e limitandosi ad accogliere i risultati generali (libri I-II), ha per intento principale di descrivere gli spazi accessibili della terra e del mare, che sono la sede dell’attività umana: illustra cioè i singoli paesi nella loro collocazione, nelle loro caratteristiche climatiche e biologiche, nei loro prodotti e in tutto quanto ha attinenza con gli abitanti, le loro istituzioni, i loro usi, la loro vita pubblica ecc. Il maggiore studioso di problemi fisici di quest’epoca è, però, Seneca il Giovane, autore dell’opera Quaestiones Naturales. Durante il dominio di Roma e fino al II sec. d.C., le cognizioni geografiche dirette si era estese dalle coste all’interno dell’Africa, fino ai “Monti della Luna”, ove erano poste le sorgenti del Nilo. Conosciuti erano il mar Arabico e l’oceano Indiano, fino alla Penisola di Malacca, la Cina meridionale, l’altipiano Iranico, la Russia meridionale e l’Europa settentrionale, dal Baltico alla Britannia e alla Scandinavia meridionale. Una carta del Mondo allora conosciuto (110 d.C.) è stata costruita da Marino di Tiro, in proiezione piano-rettangolare, con reticolato geografico di meridiani e paralleli. Ma essa è stata costruita in base al valore del circolo massimo calcolato da Posidonio (180.000 stadi), perciò risulta che le terre conosciute avessero un’estensione, da occidente ad oriente, di 122.500 stadi: misura assai maggiore della reale, che ha avuto, poi effetti assai negativi nell’epoca delle grandi scoperte geografiche perché risultava una distanza assai piccola tra l’Europa occidentale e l’Asia, attraverso l’oceano. La Geografia occidentale risente più direttamente gli influssi della cultura romana che, per la geografia faceva riferimento a quanto contenevano i libri sacri. In un primo periodo (G. patristica) con Lattanzio (morto nel 330) e Sant’Agostino (354-430), si è riteneva che la Terra fosse piana, ma in seguito fu accettata la dottrina aristotelica che faceva riferimento alla sua sfericità (G. scolastica). L’Anonimo Ravennate (VII sec.), in una sua Geographia, dà notizie dei paesi del mediterraneo e degli itinerari romani dei suoi tempi. Nel medioevo sono numerosi i mappamondi che rappresentano la terra abitabile, secondo la tradi  Op. cit., pp. 26-27, 32-34.

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Glossario zione romana, come una superficie piana cinta dall’Oceano circolare (orbis), col punto cardinale di levante in alto. Nelle carte più antiche, l’orbe è stato diviso in tre parti, di cui la maggiore in alto era l’Asia, che il Tanai e il Nilo dividevano dall’Europa e dall’Africa, separate a loro volta fra loro dal Mediterraneo. I mappamondi dopo il sec. XI, col risorgere della cultura classica, risentono delle fonti romane, dalle quali provengono il maggior numero di nomi, le figure, le città, i porti e delle fonti bibliche, col Sinai, il Giordano, l’arca di Noè e la torre di Babele. Il Paradiso terrestre è posto ad oriente della carta, come un’isola oltre l’Oceano. Il più importante mappamondo medioevale, che risale al 1270, è quello detto di Ebstorf, trovato in un convento di benedettine nella Germania settentrionale, il quale dà il quadro completo della concezione medioevale del Mondo. Mentre, intorno al IX sec. d.C. la scienza geografica illanguidiva, gli Arabi estendevano il loro dominio nel bacino del Mediterraneo, occupando l’Africa settentrionale, la Sicilia e la Spagna. Raccolgono il patrimonio filosofico dei Greci e degli Alessandrini – quanto dire dei periodi classico ed ellenistico, dei quali s’è detto innanzi. IBN RUSCHD, detto Averroè (1126-1198), filosofo e medico arabo di Cordova, è stato il più profondo commentatore non cristiano di Aristotele, le cui opere sono state tradotte in arabo come quelle di Tolomeo. La cartografia araba, fiorita fra il IX ed il XIV sec., ha avuto caratteri diversi da quella medioevale: il maggiore esponente è stato Mohamed el EDRISI (sec. XII), che è stato a lungo alla corte di re Ruggero II a Palermo. Di lui ci è rimasto, oltre ad una descrizione della Terra, un atlante di 70 carte, col sud posto in alto, e con meridiano fondamentale, quello di Arin, a ponente di Bagdad. Ma dopo l’anno 1000, col periodo delle Crociate e col fiorire delle Repubbliche marinare si ha l’introduzione della bussola per navigare, il cui uso era noto in Cina fin dai primi secoli dell’era volgare. Nell’Italia meridionale la bussola è stata introdotta e perfezionata, probabilmente ad Amalfi, nella prima metà del XIII sec. Ciò ha portato alla creazione di carte nautiche e portolaniche di singolare precisione, costruite senza proiezioni, in scala e disegnate su pergamene. Fra le carte nautiche pervenuteci, la più antica è la cosiddetta Carta pisana della seconda metà del sec. XII. Seguono poi quella di Pietro Vesconte del 1311, e la bellissima carta genovese di Angelino Dalorto del 1325. Esse rappresentano con molta fedeltà i contorni costieri del Mediterraneo, del mar Nero e delle coste atlantiche.

XLI. Foresta iuxta foeudum: “La Foresta” nel medioevo comprendeva un vastissimo territorio che circondava tutta la costa di Terra d’Otranto che, in epoca romana, doveva essere molto più vasta: da Brindisi scendeva verso Santa Maria di Leuca e arrivava fino a Taranto. Occupava vaste zone anche nell’entroterra salentino. Ѐ un territorio silvano e di macchia mediterranea che poteva essere utilizzato “…a tutti gli usi civici dei cittadini leccesi…” dal quale i cittadini né ricavavano pascolo, legna ecc. In questi boschi, i monaci basiliani costruirono i loro monasteri e le dipendenti grancie, dove tra la quiete, il silenzio e la meditazione si apprestavano alla preghiera ed al lavoro. La cosiddetta “Foresta” non venne mai infeudata ma, in effetti, su quel territorio venne esercitata una giurisdizione “abusiva e violenta” da parte dei Baroni della contea di Lecce, i quali imponevano tasse ed altre prestazioni feudali. Si ricordano, infatti, delle prestazioni che alcuni baroni …pretender voleano dai lor vassalli… come la tassa di forestaggio ed il diritto di scannaggio. Numerose erano

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Giovanni Cisternino le liti e le cause giudiziarie intentate tra baroni e baroni, tra baroni ed Università (Comuni). Generalmente l’oggetto del contendere non era solo una questione di possesso e di proprietà ma, soprattutto, vi erano contenziosi riguardanti i confini incerti delle varie Università. Nel “Libro Rosso della città di Lecce” viene riportato un contenzioso scoppiato nel XIV sec., secondo il quale Raimondello del Balzo Orsini conte di Lecce, è costretto a delimitare, attraverso un processo verbale, la “Foresta iuxta foeudum” di Lecce, rispettando i confini di altre Università; in questo modo: “I confini della città di Lecce furono delimitati dal territorio di Croce (Roca) verso il porto di San Giovanni a mare a Torre Chianca…”. Nel 1470 Jacopo Scisciò, figlio di Niccolò (che è castellano nel castello di Lecce), compra da Re Ferrante d’Aragona i feudi del “Parco e della Foresta di Lecce” in cambio del feudo di “Celle” (casale disabitato sito nei pressi di Taviano). Ѐ intorno al XVII-XVIII sec. che avvengono molte usurpazioni. Diversi baroni s’impossessano abusivamente di enormi zone di “Foresta”, si cerca in qualche modo di arrestare questo scempio attraverso un “bonifico” con la compilazione di un “Catasto Onciario” nella metà del settecento che pone la situazione sotto controllo. I Vernazza, per esempio, cercano di mettere in coltura molti terreni siti nei pressi di San Cataldo distruggendo diversi ettari di boscaglia. Con le leggi eversive della feudalità del 1806, numerosi territori boschivi vengono messi in coltura… la Foresta comincia proprio in questo periodo a diminuire d’estensione fino a giungere alla totale distruzione finale.

XLII. Quadro storico: Per quanto riguarda le tracce lasciate dalla presenza storica di Gesù Cristo e degli apostoli ci rifacciamo a quello che riportano alcuni autori del passato e recenti. Il primo dato che interessa tutti e a cui si uniforma e si interroga tutto il mondo è questo: in quale anno è avvenuta la nascita di Cristo? Quando inizia la datazione prima e dopo Cristo? Il primo dato storico disponibile è quello fissato dal monaco scita Dionigi il Piccolo (vissuto nel VI secolo d.C.). Come ormai è stato appurato, il calcolo cronologico della nascita di Gesù Cristo, fatto da Dionigi, che fissa l’evento della nascita nel 753 dalla fondazione di Roma è sbagliato di circa 7-5 anni. In realtà i vangeli attestano che Gesù nasce sotto Erode il grande, il quale muore nel 4 a.C. Il “primo censimento”, descritto e così definito dall’apostolo Luca (vv. 2,2), promulgato dall’imperatore Cesare Augusto, coinvolge anche il regno autonomo ed “esente” di Erode definito “rex socius et amicus / re alleato ed amico di Roma”. Secondo i dati, questo censimento avviene in Palestina intorno al 7 o 6 a.C. ed è un censimento amministrativo, attraverso il quale si “impone” ad Erode un giuramento di fedeltà all’impero di Roma che viene effettuato secondo il metodo tribale in vigore nella Palestina e fatto per ragioni di cautela politica. San Luca scrive che in quel periodo c’è Quirino come reggente con incarico speciale per la delegazione della Siria, poiché il governatore Sanzio Saturnino è impegnato in una guerra cruenta contro gli armeni. Quando Quirino diviene responsabile della Siria ordina un secondo censimento. Ѐ possibile supporre che il “secondo censimento (storico)” sia in effetti il “primo” effettuato in Palestina (come attesta San Luca), comunque sia la nascita di Cristo si deve spostare di qualche anno. Per quanto riguarda la presenza storica di Gesù in Terra di Palestina e dei primi cristiani ci riferiamo a quello che scrive il cardinale Gianfranco Ra-

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Glossario vasi8: “…Uno dei testi più antichi si trova in una lettera (10, 96) indirizzata da Plinio il Giovane, allora governatore della Bitinia (nell’attuale Turchia nord-occidentale), all’imperatore Traiano. Siamo negli anni 111-113, Plinio chiede come comportarsi nei confronti di un movimento di grande “pertinacia e inflessibile ostinazione”, quello appunto dei cristiani, accusati di essere disturbatori dell’ordine pubblico. Essi si riunivano “in un giorno stabilito, prima dell’alba” (forse la domenica), e innalzavano “un canto a Cristo come a un Dio”, vincolandosi al sacramentum, cioè al “giuramento” di non compiere malvagità. Famoso è, poi, il passo degli Annales di Tacito, storico romano vissuto tra il 55 ed il 125 circa, il quale attorno al 115-120, evocando l’incendio di Roma del 64, annotava che “Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più atroci coloro che il volgo chiamava Crestiani… che prendevano nome da Cristo, condannato a morte ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio” (15,44, 2-5). Un altro storico, Svetonio, nella sua Vita di Claudio (siamo intorno al 121 d.C.) ricordava che “i giudei, che tumultuavano continuamente per istigazione di Cresto, furono cacciati da Roma” (n° 25). Anche gli Atti degli Apostoli (18,2) rievocano questo provvedimento di espulsione degli ebrei da Roma; può darsi che Svetonio attribuisca a Cristo (Cresto) in modo anacronistico e sbrigativo la responsabilità delle tensioni causate dai cristiani, da lui confusi con gli ebrei della città. Altre piccole tracce possono essere rinvenute in alcuni scrittori romani del II secolo come il filosofo Epitteto, l’imperatore Marco Aurelio, il retore Frontone che, in un testo giunto a noi nella citazione di un autore cristiano, Minucio Felice, fu il primo a condurre una serrata critica secondo la prospettiva pagana al cristianesimo. Dei cristiani si parla sarcasticamente nella Morte di Peregrino e in Alessando, il falso profeta di Luciano di Samostata e persino in uno scritto del medico greco Galeno (II sec.), nonché in una citazione degli scritti del polemista e filosofo Celso presente alla replica che un grande maestro cristiano, Origine, preparerà per contestare l’accusa della nascita illegittima di Gesù dall’adulterio di sua madre con un soldato, un certo Panthera… Lo storico Giuseppe Flavio nel suo lavoro, Le Antichità Giudaiche, fa emergere…un ritratto di Gesù noto come Testimonium Flavianum: “…Dopo che Pilato, in seguito alla decisione presa dai maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo avevano amato. Apparve loro il terzo giorno di nuovo vivo, avendo i profeti di Dio detto queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie. Ancora fino ad oggi non è scomparsa la tribù dei cristiani che da lui prende nome…” (18, 63-64). Al medesimo ambito è da ricondurre una paragrafo del trattato Sanhedrin (43a) del Talmud babilonese, grande raccolta di tradizioni ebraiche (…), anche nei frammenti trovati nella grotta di Qumram, in uno dei quali si trovano minuscoli frammenti, noto con la sigla 7q5, O’Callaghan credette possibile far combaciare le poche lettere greche ancora leggibili (tredici per l’esattezza, distribuite su più righe) con alcune di quelle che appartengono a una frase del Vangelo di Marco (…). Nel panorama politico e religioso nel territorio del vasto impero romano, all’epoca del cristianesino delle origini in Italia e, soprattutto, nel Salento leccese, sono registrate le prime comunità che si riuniscono di nascosto in luoghi ipogei oppure nelle case di qualche persona più influente. Le chiese vanno via via sostituendo i templi pa  “La Buona Novella”, A. Mondatori editore, a. 1996, pp. 15-16.

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Giovanni Cisternino gani e le basiliche. A Roma continua l’eredità pagana, mentre l’Oriente è cristiano. In questo periodo appaiono le figure di grandi Santi che impronteranno la storia della chiesa fino ai nostri giorni. Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, San Martino di Tours, coevi ad essi appaiono le figure di San Niceta, per Melendugno e di San Brizio, discepolo di San Martino per Calimera. In Siria e in Asia Minore nascono nel IV sec. fiorenti centri ecclesiastici (da cui deriva in territorio di Melendugno il culto per San Foca, originario di Sinope), mentre in Occidente la diffusione e l’organizzazione del cristianesimo sono più lente a causa degli ostacoli posti da Roma. Il 25 dicembre del 329 a Roma nell’antica festa del Sole Invitto (Mitra) si celebra per la prima volta la festa del Natale cristiano [Il 3 novembre 387 il dies solis diventa dies dominicus, ossia domenica ( Cod. Theod. XI, 7,13) e si segue una vecchia legge promulgata da Costantino del 03/03/321 a proposito delle domenica, che è indirizzata al vicario dell’Urbe Elpidio. Secondo questa legge si chiede ai giudici, ai corpora di mestiere e alla popolazione di non lavorare durante il dies solis]. Nell’inverno del 331, i Goti attraversano il Danubio e invadono i Balcani. I Sarmati chiedono aiuto a Costantino che sconfigge i Goti nel 332 e verrà perciò chiamato Gothicus victor ac triumphator. In secondo tempo vinse anche gli stessi Sarmati che si erano ribellati.

XLIII. Papa Giulio pubblica un’enciclica, l’Anegnon, basata sulla fede nicena. Controsinodo degli ariani ad Antiochia, promosso da Eusebio di Nicomedia, che ordina il goto Ulfila vescovo dei cristiani della Gothia (attuale Romania). A Costantinopoli è eletto il vescovo Macedonia, che elabora una dottrina simile all’arianesimo, detta “macedonismo”. Nell’autunno del 332 viene indetto il Concilio di Sardica che conferma per la chiesa occidentale la fede nicena. Costanzo II, imperatore dell’impero romano d’Oriente nel 343 si schiera con gli ariani, appoggia il vescovo ariano Eusebio di Nicomedia e cerca di screditare la fazione nicena. Nel 348 il secondo concilio di Cartagine mette in guardia contro il culto tributato da alcune comunità a dei falsi martiri. Costanzo Gallo viene richiamato dall’esilio dal cugino imperatore Costanzo II. Il 17 giugno, ultima presenza di Costante a Milano. Nel 349 Dionigi è vescovo di Milano. Il 18 gennaio 350 viene ordita in Gallia una congiura contro Costante per iniziativa di Marcellino, comes rerum privatarum, cioè ministro delle finanze. Ad Autun al termine di un banchetto viene proclamato augusto Flavio Magno Magnenzio. Costante, in fuga sui Pirenei, sceglie il suicidio. Nel gennaio-maggio 355 si svolge il Concilio di Milano, organizzato dal prefetto Flavio Tauro nella nuova cattedrale a favore degli ariani. Il concilio è ricordato dagli antichi storici cristiani (Rufino, Socrate, Sozomeno, Teodoreto). A causa del tumulto popolare nella basilica del concilio, l’assemblea si trasferisce nel palatium. Qui è redatta da Valente e Ursacio una lettera sub imperatoris nomine e quanti non la sottoscrivono sono deposti ed esiliati. L’episcopato latino ne esce decapitato: Roma, Milano, Treviri, Cagliari, Vercelli, Napoli, Cordova perdono i loro vescovi. Dionigi di Milano è esiliato a Sebaste in Armenia, dove morirà, ed sarò sostituito da Aussenzio, un vescovo della Cappadocia, che resterà in carica fino al 374. Aussenzio proviene come formazione dalla scuola di Origene a Cesarea. Ignora il latino e questa ignoranza gli suscita l’ostilità dei milanesi, per cui il suo insediamento avviene sotto scorta armata. Aussenzio rifiuta con decisione la qualifica di “ariano”. Dal 28 aprile 357 e fino al 29 maggio, Costanzo II

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Glossario è a Roma per festeggiare i 20 anni del suo impero. Nel 358, Costanzo II tiene un sinodo a Sirmio, nel corso del quale papa Liberio e Fortunaziano, vescovo di Aquileia, sottoscrivono il credo ariano, contrariamente a Dionigi di Milano, che rimane in esilio. Martino è a Milano, ma Aussenzio lo fa scacciare. Nel gennaio 360 si tiene il Concilio di Costantinopoli, nel luogo dove risiede Costanzo II, nel corso del quale il goto Ulfila sottoscrive la professione di fede ariana, pur non distaccandosi dai vescovi cattolici, per cui può essere collocato nella corrente moderata di Eusebio di Nicomedia (m. 348). Il 3 novembre 361, a 44 anni muore Costanzo II a cui succede il cugino Giuliano, che si dichiara subito pagano, ricevendo il titolo di “apostata”. Il paganesimo di Giuliano provoca un forte turbamento nelle coscienze cristiane, abituate ormai a credere che l’imperatore sia il vicario di Dio. Nel 362 si indice il Concilio di Alessandria. Atanasio (295-373) tenta una conciliazione nella spiegazione del dogma Trinitario: Padre e Figlio, pur essendo “uno in sostanza”, in quanto partecipano dell’unica natura divina, sono persone che esistono individualmente. Secondo la tradizione, vennero richiamati dall’esilio alcuni vescovi antiariani, tra cui Eusebio di Vercelli, che si ferma presso Atanasio. Diodoro di Tarso (Antiochia 330 - Tarso 394) fonda ad Antiochia una comunità nell’intento di favorire gli studi religiosi e l’ascesi spirituale; fra i suoi allievi vi sono Giovanni, detto poi Crisostomo, e Teodoro di Mopsuestia. Diodoro partecipa all’elaborazione dottrinale del cristianesimo nell’epoca in cui questo tendeva a porsi come filosofia e a legarsi alla tradizione del pensiero greco. Contro le visioni e le interpretazioni neoplatoniche e in polemica diretta con Apollinare di Laodicea, Diodoro ammette in Cristo l’esistenza di due nature. Ai suoi scritti si ispirerà mezzo secolo dopo Nestorio. L’ultimo grande rappresentante della scuola d’Antiochia sarà Teodoreto di Ciro. Numerose sono, anche se non ordinate né volute dall’imperatore, le violenze compiute ai danni dei cristiani: chiese date alle fiamme, cristiani seviziati e uccisi. Il 27 giugno 327 Giuliano muore trafitto da una lancia nella guerra contro il re di Persia Sapore II presso Ctesifonte. Segue un breve interregno del generale Gioviano, un soldato trentenne, originario della Pannonia e cristiano. Il 17 febbraio 364 Gioviano è trovato morto a Dadastana presso Ankara. I capi militari decidono di nominare imperatore un tribuno della guardia imperiale, Flavio Valentiniano, anch’egli della Pannonia. Il 28 marzo Valentiniano nomina co-augusto suo fratello Valente, anch’egli ufficiale. La politica di Valentiniano I, che proclamava il principio di libertà religiosa, intende assicurare la pace fra cristiani e pagani. Nell’ottobre Valentiniano I fa l’ingresso solenne a Milano e vi si trattiene per un anno, poi trasferisce la corte a Treviri e la corte rimane senza imperatore a Milano fino al 375. Ilario di Poitiers a Milano porta in giudizio il vescovo Aussenzio davanti al questore, al magister e a una decina di vescovi, ma il processo si risolve con l’ordine di Valentiniano I a Ilario di lasciare Milano. Nell’anno 365, da Milano, Valentiniano I promuove una sistemazione dell’impero che genera un largo movimento di quadri nella burocrazia imperiale. La prefettura del pretorio Italiae Illyrici et Africae si trovava a Sirmio e il nuovo prefetto era Volcacio Rufino. Autunno Procopio, parente di Giuliano, si proclama imperatore per l’Oriente in competizione coi due fratelli Valentiano I e Valente. Procopio tiene in ostaggio la vedova di Costanzo II e la figlia Costanza. Il 21 settembre 366 alla morte di papa Liberio risultano eletti Ursino e Damaso. Lo scisma si trasforma presto in guerra civile e lo scontro tra le

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Giovanni Cisternino due fazioni, il 26 ottobre nella chiesa di S. Maria Maggiore provoca un centinaio di morti. Damaso viene accusato di omicidio davanti al prefetto urbis. L’accusa è riconosciuta falsa dal tribunale imperiale che, nel 372 assolverà Damaso che, già dal 370 era riuscito a farsi riconoscere come vescovo legittimo e quindi rimattà sulla cattedra di Pietro fino al 384. Damaso, spagnolo di origine, intellettuale di formazione e di gusto, non riesce a svolgere un’azione mediatrice tra le parti e questo fa sì che le sette e le fazioni fioriscano sotto il suo pontificato. Nel maggio del 367, Valente aderisce alla dottrina ariana, schierandosi col vescovo di Costantinopoli Eudosio. Il 24 agosto Valentiniano I si associa ad Amiens (Ambianum) il figlio di otto anni Graziano. Nel 369 Valentiniano I sposa Giustina. 370, Si celebra il famoso processo di Antiochia, in cui centinaia di persone appartenenti a diversi ceti sociali vengono torturate e condannate per alto tradimento e pratiche magiche. L’accusa sostiene che i congiurati vogliono sostituire l’imperatore Valente con Teodoro, un giovane di famiglia e posizione sociale elevate. Come conseguenza una grande quantità di codici e volumi sospetti di magia vengono messi al rogo. Lo stesso clima inquisitorio si ha a Roma, dove anche parecchi senatori subiscono le torture per pratiche di magia. Gli “inquisitori” sono Massimino e Simplicio. La persecuzione terminerà dopo l’ambasceria di Vetio Agorio Pretestato. Basilio di Cesarea scrive le sue principali opere contro l’arianesimo. Nell’ottobre del 374 muore Aussenzio e a Milano scoppiano dei tumulti fra cattolici e ariani per la successione. Nel 375 gli Unni provenienti dalle steppe asiatiche invadono l’Europa,. Distruggono il regno dei Goti nella Russia meridionale, provocando una migrazione di massa. Graziano sposa a Treviri Costanza Postuma. Il 17 novembre, muore Valentiniano I a 55 anni nel campo militare di Brigetio (O Szony in Ungheria) per un colpo apoplettico. Gli succede Graziano, sedicenne, di credo niceno. Dal febbraio 376 fino ad agosto Graziano è impegnato nelle regioni alpine ad arginare l’invasione degli Alemanni favorita dall’attacco gotico nei paesi danubiani. Nel giugno Graziano, mentre si reca a portare soccorso allo zio Valente, si ferma a Sirmio, dove incontra Ambrogio che organizza con Anemio il concilio anti-ariano, che si aprirà in luglio. Il 9 agosto Valente muore bruciato nel disastro di Adrianopoli combattendo contro i Goti, una delle campagne militari più drammatiche della storia romana. Ѐ una carneficina: 20.000 soldati romani muoiono sul campo. Ammiano Marcellino, pagano antiocheno, nei suoi Annali dice che i Romani davano carne di cane da mangiare ai Goti. In dicembre su pressione dei Goti la corte di Sirmio si rifugia a Milano. La preoccupazione per l’imperversare dei barbari in tutta la penisola è fortissima e la si avverte anche nella predicazione del vescovo Ambrogio. Il 19 gennaio 379 a Sirmio Teodosio è nominato augusto per la parte orientale dell’impero, Macedonia inclusa. Ѐ un ispanico, nato l’11 gennaio 347 presso Segovia. Teodosio pone la sua sede a Salonicco, da dove organizza la campagna contro i Goti. Il 2 luglio entra in vigore la Legge di Graziano contro chi dà rifugio alle reclute che disertano e si nascondono nei fondi. La pena prevista è il supplizio del fuoco (Cod. Theod. VII 18,2). In questo caos, molto probabilmente leggi affini a questa, vengono fatte proprie anche dai Goti e sotto una di queste cadrà poi Niceta (protettore di Melendugno). Nel novembre Teodosio entra trionfalmente a Costantinopoli e avvia una persecuzione sistematica del clero di fede ariana e dei seguaci delle altre eresie ritenute pericolose. Il 10 gennaio 381 Teodosio pubblica un editto

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Glossario per l’Oriente che vieta a tutti coloro che non accettano il credo di Nicea di radunarsi all’interno delle città. Il vecchio re goto Atanarico entra a Costantinopoli accolto con onori regali da Teodosio, ma muore il 25 gennaio 387. L’imperatore per placare i Goti è costretto a cedere loro il comando militare dell’Illirico. Ѐ una decisione scioccante per la mentalità dei romani, che non riescono a spiegarsi le ragioni profonde del disastro. Nel maggio-luglio del 381 nel Concilio di Costantinopoli, che reintegra il credo niceno dopo anni di arianesimo, si discute sull’identità sostanziale del Padre e del Figlio. Graziano avrebbe voluto un concilio ecumenico, ma gli orientali avevano già tenuto il loro. Più che di un sinodo si tratta di un processo nel quale Ambrogio accusa i vescovi illirici di collaborare coi Goti. Arriva a Milano, ospite della corte ariana, Mercurino Aussenzio, vescovo di Durostorum (Silistra), deposto nel 383 da Teodosio. Era stato discepolo del vescovo goto Ulfila, del quale aveva scritto la biografia, perciò conquista la simpatia dei numerosi goti che formano lo stato maggiore delle truppe alle dipendenze di Valentiniano. Il 17 giugno 386 il vescovo Ambrogio ritrova presso la basilica dei SS. Nabore e Felice, grazie ad una rivelazione, i resti dei corpi di Gervasio e Protasio (Epistola XXII) e li trasla nella nuova basilica che fa costruire, collocandoli sotto l’altare, dove avrebbe trovato posto anche il suo corpo. “Poiché non ho meritato personalmente di essere martire, ho almeno ottenuto questi martiri per voi” (Epistole, 22, 12). Questa affermazione assume un tono polemico in quanto Ambrogio aveva fatto predisporre solo per sé, che la sua tomba fosse posta sotto l’altare maggiore. Solo in seguito, per pressanti richieste della popolazione contraria a questa insolita disposizione, Ambrogio decise di condividere la sepoltura con due martiri e fece perciò scavare un altro loculo continuo al suo sotto l’altare. Il comportamento da lui avuto in merito alla scoperta e all’appropriazione delle reliquie diventerà rapidamente un modello per l’occidente latino (Sidonio Apollinare, Epistole, VII, I, 7). Le inventiones dei martiri assumeranno una connotazione anti-ariana dal momento che gli ariani negavano i meriti dei martiri. In occasione delle inventiones si hanno casi di persone ritenute invasate dai demoni, è ciò contribuisce a convalidare l’autenticità dei corpi dei martiri.

XLIV. Limitone dei Greci: Sono stati scoperti nel territorio del Comune di San Donaci, in località Monticello, i resti di un tempio dedicato a San Miserino. Questo edificio ha una copertura a cupola e risulta essere uno dei pochi esempi di architettura paleocristiana del VI-VII sec. d.C. Intorno all’edificio appaiono resti scultorei e lastroni di tombe, chiaro esempio della presenza di un antico casale scomparso, situato lungo un’arteria stradale identificata con il Limitone dei greci, antica via percorsa forse anche dai messapi e romani. Questo antico tratto del Limitone è stato identificato come uno dei segni di demarcazione fra i possedienti longobardi e bizantini. XLV. Grano: Nome che si dava ad una moneta usata nel Regno di Napoli e di Sicilia equivalente a poco più di 4 centesimi.

XLVI. Massari: Dal latino Massa-ae che significa: massa, ammasso di cose. Nel nostro territorio venivano così chiamati coloro che presiedevano all’amministrazione di grandi patrimoni baronali e alla coltivazione dei poderi, non solo del latifondo terriero. Essi dirigevano le case coloniche dove venivano fatte e ammassate colture agricole e prodotti della pastorizia. Per cui da Massae, cioè le strutture architetto-

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Giovanni Cisternino niche, vengono denominate Masserie. In seguito verranno bastionate e diveranno Masserie fortificate e coloro che vi abitano verranno chiamati le Massari.

XLVII. Carlini: Monete già in corso in varie provincie d’Italia. A Napoli ed in Sicilia, 1 carlino d’argento valeva circa 9 soldi. Il De Giorgi9 afferma che un carlino equivale a 10 Grana= £. 0,42489 (£. 0,43).

XLVIII. Tetto Ebricato Coperto di embrici (tipo di tegola in laterizio, a forma di lastra trapezoidale con i due orli rialzati.

XLIX. Conchiglie (Blasone): L’Ordine di San Giacomo fu fondato nel 1290 da Filippo V, conte d’Olanda e venne anche chiamato Ordine della Conchiglia poiché il collare, dal quale pendeva l’immagine del Santo, era formato di conchiglie d’oro. Le origini blasoniche delle conchiglie vengono fatte risalire ai primi fedeli che si recavano al santuario di Compostela. Questi pellegrini, dopo aver pregato sulla tomba di San Giacomo, si spingevano poi fino al mare dove finiva il mondo conosciuto, Finisterre appunto, e lì, oltre al rito di bruciare gli abiti ormai consunti, si nutrivano del prezioso e saporito frutto del mare conservando la conchiglia come ricordo e, allo stesso tempo, prova dell’avvento pellegrinaggio. [N.d.A.: Alfonso DELL’ACAYA avrà chiamato il figlio Gian Giacomo, per questa ragione e devozione?]. Le conchiglie portate dalle onde del mare venivano conservate oltre che per testimoniare di essere stati nei luoghi santi, anche per entrare in contatto diretto o indiretto con le acque che avevano trasportato il corpo di San Giacomo. Nel “Codex Calixtinus” si narra che un giorno un cavaliere, mentre è in sella al suo destriero, venne disarcionato dall’animale imbizzarrito e trascinato nelle acque agitate dell’Oceano. Dopo attimi di terrore e di ansia da parte dei suoi compagni di viaggio ecco che, come per incanto, il cavaliere salvato da San Giacomo, riapparve dalle acque sano e salvo. Era completamente ricoperto di conchiglie quasi a testimonianza dell’aiuto che esse avevano dato al Santo per il suo salvataggio. Ѐ possibile ritrovare la conchiglia in tutte le sculture del medioevo dedicate al pellegrino. Simbolicamente rappresenta l’amore di Dio e del prossimo. Per gli antichi greci è il simbolo della nascita di Venere e per i buddisti della buona riuscita di un viaggio. Assume quindi, toni e significati beneauguranti ed inoltre, ma di questo le fonti storiche riportano poche ed incerte notizie, doveva avere un carattere pratico non indifferente; poteva servire al viandante stanco per dissetarsi. Per i cristiani laici, la conchiglia, ha un simbolo di “protezione” tanto che Gian Giacomo, per rafforzare questa interpretazione, vi aggiunse nelle sue opere, un elemento prettamente religioso “il cherubino”. Comunque stiano le cose, la definizione letterale la si può trovare nel “Liber Sancti Jacobi” dove testualmente è scritto “…per la medesima ragione per cui i pellegrini che tornano da Gerusalemme portano palme, coloro che tornano da Santiago portano le conchiglie…”, per cui la palma sta a testimoniare il “Trionfo” e la conchiglia “le opere buone”. L. Spaccapetre (it. Cavamonti): A Melendugno esistevano due particolari figure di cavamonti la prima è detta spaccapetre, la seconda ‘zzoccatore. L’attività di spaccapetre

“Op. cit.”, Vol. I, p. 350.

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Glossario era utile per estrarre la pietra dai terreni agricoli o dalle zone edificatorie, nei punti dove si doveva livellare il terreno per costruire una casa. Successivamente le pietre estratte potevano essere buttate o riutilizzate per fare dei riempimenti, per livellare il basamento degli edifici o per riempire delle buche. Lo‘zzoccatore, invece, faceva un lavoro più rifinito perché la pietra estratta dalla cava doveva diventare un blocco (vern.: piezzu) perfettamente squadrato a mano perché doveva essere utilizzato per costruire una casa. Quella di ‘zzoccatore è, dunque, un lavoro più professionale perché implica la rifinitura a mano e l’uso di misurazioni precise.

LI. Sporte: In italiano: cesti di vimini. Le sporte erano fatte con i giunchi (vern.: sciunci) che crescono spontanei e rigogliosi lungo tutto l’arco costiero delle marine di Melendugno.

LII. Uscia cu lle sarde: La uscia cu le sarde è una grossa pagnotta detta puccia, che si apre da un’estremità, si estra più della metà della mollica e lo spazio si riempie con sarde salate. Se l’olio non è sufficiente, si condiscono le sardine con altro olio di oliva e infine si richiude la puccia (detta uscia) con la mollica che si era tolta.

LIII. Rotola o rotolo: Il lemma deriva dal latino rotulum. Al tempo della regina Maria d’Enghien (XV sec.), contessa di Lecce e regina di Napoli, 1 rotolo equivaleva a once 33 e 1/3= 1000 trapesi= ch. 0,89 (v.: Statuta et Capit. Florentissimae Civ. Litii, p. CX, X). La Pesa valeva 20 rotoli (Kg. 17,80) e veniva usata per il formaggio e la lana. Nel medioevo il formaggio fresco costava 21 rotoli a peso, a causa dello Sfriddhu cioè del calo. Sfriddhru è l’equivalente italiano di sfrido, che è l’equivalente latino-medioevale dello sfridum; il senso complessivo, di tale parola, è diminuzione di peso, e figurativamene, abbassamento, rovina.

LIV. Poppa: La parte posteriore dei navigli, di solito arrotondata o quadrata, dove stanno il timone e la bandiera. Ecco alcuni esempi in cui questa parola viene usata: Albero di poppa. Avere il vento in poppa cioè favorevole, cosicché navigare è agevole e spedito.

LV. Staminali (in vernacolo Corve): Pezzo dell’ossatura della nave o della barca dove la curvatura è maggiore. Si usa specialmente al plurale. Specificatamente, sono le assi di legno accuratamente incurvati nella misura desiderata che determinano la struttura e la misura nella costruzione di una barca di legno. Gli staminali nel vernacolo melendugnese sono dette Corve. LVI. Calafatare con la canapa: (Dall’arabo galaf). Riempiere di stoppa le connessure di una nave o di una barca e coprirle di catrame, per non far entrare l’acqua. Esempi: Barca calafatata. Ristoppata. Stoppare, ristoppare, impegolare, impeciare. Nel vernacolo melendugnese si pronuncia calaficare cu ‘lla stuppa. LVII. Proprietari di barche o “a giornata”: Ѐ chiaro che i proprietari di barche erano le persone più agiate, mentre i marinai “a giornata” erano quelli meno abbienti.

LVIII. Taulu o Mattrabbanca: La differenza tra il tavolo propriamente detto e la mattrabbanca è la seguente: lu taulu ha tutta la sua superficie di base (superiore) utile, fissa, ed è utilizzata per deporvi qualsiasi cosa ma, soprattutto, qui la famiglia si riunisce per consumare la colazione, il pranzo e la cena. Immediatamente, sotto al tavolo, in uno dei lati più lunghi e al centro, vi è generalmente un piccolo cassetto per deporvi le posate.

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Giovanni Cisternino La superficie di base della mattrabbanca viene utilizzata con le stesse mansioni di normale tavolo fisso; la differenza sta nel fatto che tutta la sua superficie di base, rigida, è attaccata da un lato alla struttura sottostante con delle cerniere per sollevarla. All’interno c’è una grande cassa nella quale si può depositare e conservare qualsiasi oggetto sia di cucina, che di arredo. Entrambi sono fatti esclusivamene di legno.

LIX. Ardurazzu: Nel vernacolo di Melendugno non è altro che il placton che di notte forma una scia fluorescente visibile all’occhio umano quando vengono smosse le acque del mare.

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DOCUMENTI IL RITO BIZANTINO SI RADICA IN TERRA D’OTRANTO Durante la dominazione bizantina in Italia, solitamente si annovera la chiesa di Otranto fra gli arcivescovati autocefali, mentre questa fin dal 968 è eretta in metropoli. Mentre la parte sud del Salento si può considerare come una regione con un episcopato greco, per la diocesi di Lecce mancano notizie riguardanti il periodo bizantino. Verso la metà del IX sec. il dominio bizantino, in seguito alle invasioni longobarda ed araba, registra la sua minima estensione territoriale comprendendo allora, oltre ad una parte assai esigua della penisola salentina intorno ad Otranto e Gallipoli, la sola Calabria, che, però, era permanentemente razziata dai Saraceni e dove le parti settentrionali di territori come Cosenza o Cassano Ionio, che si trovano in mano longobarda, sfuggivano al controllo del governo bizantino. Vi sono pochissime notizie per il periodo che va dall’VIII al XI secolo d.C., epoca in cui ci fu la conquista Normanna, e si è scoperto che in questi territori ex bizantini anche le chiese fossero rette da vescovi greci. Si possono indicare le metropoli di Reggio Calabria, Santa Severina con le rispettive sedi suffragane, fra cui Gallipoli e le sedi degli arcivescovati autocefali di Rossano in Calabria e Otranto nel Salento. Tutte queste sedi erano soggette al patriarcato costantinopolitano fin da quando nel 723-733, vennero sottratte alla giurisdizione romana dall’imperatore Leone III l’Isaurico a causa della resistenza che i papi romani Gregorio II e Gregorio III opposero al divieto del culto delle immagini. Fra gli ecclesiastici pugliesi del X-XI sec. si annoverano dei nomi prettamente greci, fra i quali gli arcivescovi Crisostomo di Trani (981-999), Eustasio (o Eustachio) di Oria e Brindisi (1051-1060) e Dionigi di Taranto (1007-1028). Quando il conte Ruggiero I prese Palermo nel 1072, un arcivescovo andò incontro ai vincitori Normanni. Per la diocesi di Lecce mancano delle notizie riferite all’epoca bizantina. Nel periodo normanno si trova quasi inaspettatamente un vescovo greco, Teodoro, di cui riconosciamo la firma in due documenti rispettivamente del 1092 e del 1101. Teodoro pare sia stato vescovo di Lecce in carica fino al 1101, ma per il XII sec. la serie cronologica dei vescovi è molto lacunosa e perciò si può dire poco su quale rito fosse prevalente. I suoi successori saranno però tutti latini. Gallipoli, invece, fin dai primi tempi del dominio normanno appartenne alla provincia ecclesiastica di Otranto e il rito greco si conservò fino al 1513. Ciononostante, nel 1115, il primo vescovo dopo la conquista, di cui si ha memoria, si chiamava Bal-

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Giovanni Cisternino drico ed era senza dubbio un latino. Invece l’unico titolare gallipolino conosciuto nel sec. XII portava il nome Teodosio ed era greco. In più manoscritti del Liber censuum della chiesa romana, compilato alla fine del sec. XII, accanto al vescovato di Gallipoli è riportata infatti la nota: grecus est. Per Otranto il passaggio dall’episcopato greco a quello latino è più difficile da individuare; forse siamo alla presenza di una specie di scisma locale. L’arcivescovo Hypatios nel 1054 assiste al sinodo costantinopolitano di Michele Cerulario. Egli stesso o un suo successore è presente anche nel 1066 ad un sinodo patriarcale. Ma già nel 1067, nel 1068 e nel 1071 troviamo l’arcivescovo idruntino Ugone presso papa Alessandro II, mentre ancora nel 1079 un Giovanni di Otranto firma a Costantinopoli, un tomo sinodale. Non si sa se quest’ultimo prelato abbia mai potuto prendere possesso della propria sede ma può darsi che il suo caso sia simile a quello di Basilio di Reggio. Per il tempo che segue sono noti gli arcivescovi Guglielmo del 1088 (morto il 30/09 dello stesso anno o del 1089) e Berardo dal 1090 al 1101. Un titolare idruntino, di cui non è detto il nome, partecipa al sinodo romano del 1112. Poi conosciamo un Pietro dal 1118 al 1126. Tutti questi arcivescovi erano senza dubbio latini. Ѐ da notare che anche l’episcopato di Lucano dal VIII al XI sec. fa parte della metropoli di Otranto, ma dal periodo normanno in poi è inquadrato in un’organizzazione gerarchica completamente diversa. Prelati greci sono noti solo per le chiese di Acerenza e Tursi1. REGOLA DELL’ORDINE BASILIANO E SUO PROPAGARSI NEL MERIDIONE D’ITALIA Per cercare di comprendere meglio la forma mentis dei monaci che seguono la regola di San Basilio magno nel mondo greco-bizantino e quella che, nel meridione d’Italia, in Terra d’Otranto e presso l’Abbazia di Melendugno greco-bizantina, era lo specifico modo di agire e comportarsi sia rispetto ai fermenti storico-sociali, che nella vita quotidiana abbaziale e rispetto alla pratica religiosa, ci piace riportare un estratto di un lavoro fatto ad hoc dal PERTUSI2. I monaci basiliani potevano ritirarsi a vita ascetica o anacoretica, solo con il permesso del superiore che eleggono “a giudizio e a scrutinio” e diviene il loro egumeno “secondo la tradizione del santo padre Teodoro Studita”. Essi seguono con grande rigore le leggi sui digiuni, quelle dell’ufficiatura, e quelle che riguardano la comunanza di vita e l’amministrazione dei beni. Ѐ importante mettere in evidenza quanto San Bartolomeo di Simeri, su ispirazione di S. Teodoro Studita, ordina ai suoi monaci in merito alla promozione di un egumeno: “Dopo un digiuno di tre giorni, a partire dalla morte del precedente egumeno, perché lo Spirito Santo illumini sulla scelta, l’elezione venga fatta dinanzi ai S. Vangeli; l’eletto sia ortodosso, onesto, esperto di amministrazione, riconosciuto degno e capace di conservare la disciplina e lo stato del monastero, con più di 33 anni e precedentemente non sposato.   D. Girgensohn, “Dall’episcopato greco a quello latino”, vol. I, pp. 27, 38, 40-41.   “Monachesimo Italo-greco e bizantino”, pp. 479-520.

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Documenti Sia eletto da tutta la comunità; in caso di dispersione dei voti, si concentrino i voti su tre candidati e si scelga da essi. L’elezione dovrà essere ratificata dal re e il neo-eletto dovrà impegnarsi per iscritto verso i confratelli a reggere il monastero secondo le regole prescritte, a non innovare o depravare i canoni e l’ufficio ecclesiastico”. Per quanto riguarda la commemorazione dei santi locali, quale si può redigere, essa si può estrapolare da codici come il Typikon( l’ordinamento dato ad un monastero dal suo fondatore). Cassinense, come quello calabro-siculo del Vat. Gr. 1877, e come quello anch’esso calabro-siculo del Messan. Gr. SS. Salv. 115 oltre che da quello criptoferratense, indicati qui rispettivamente con le seguenti sigle: TCas, Tvat., Tmess., TCrypt. I Tipika calabro-siculi derivano o sono affini al Typicon del S.S. Salvatore di Messina datato da Luca nel 1133. Dalla descrizione del Mancini3 appare chiaro che il Typikon messinese iniziando come il Typikon di Jena sia molto vicino al Vat. Gr. 18774 con riferimenti al Typikon di Casole. Vi sono dei Typika appartenenti all’area otrantina e quindi anche melendugnese, derivanti o affini al Typikon di S. Nicola di Casole dato da Giuseppe, primo egumeno, tra il 1098-99, anno di fondazione di tale monastero e il 1124, anno della morte di Giuseppe. Il codice, meglio il palinsesto, è scritto da Jeroteo, monaco e prete. Sulla base delle copie barberine del “Typikòn” di Casole5. L’egumeno Nicola (1152-1174), sia ad Otranto che a Melendugno, scrive dei testi ora conservati a Torino [Taur. Gr. 216, a. 1175]6. I cenobi ortodossi avevano anche un elenco incredibile di santi locali che venivano commemorati con tutti gli onori. Questi si possono rilevare confrontando i testi Typ. Cas., quello calabro-siculo del Vat. Gr. 1877, quello Criptoferratense indicati con le sigle Tcas, Tvat., Tmess., TCrypt. A questi si possono inoltre aggiungere il Menologium Cryptense, Synaxarium Constantinopolitanum (per i Santi entrati in tutti i sinassari, anche quelli costantinopolitani), Synaxarii Italiae Meridionalis (che sono quelli appartenenti al gruppo C del Delehaye). Sebbene se ne citano tanti, neppure questi comunque possono essere considerati definitivi, ma ci fanno capire la vastità del fenomeno. Tra le centinaia di Santi commemorati né citiamo qualcuno a noi vicino come: 27 - Ottobre - San Nicola di Casole – Tcas (manca in BHG); 10 - Maggio - San Cataldo (Cod. Crypt. T.α VI); 15 - Giugno - San Vito Modesto e Crescenzio, compagni di Lucania – Tmess. Vi è un Giovanni che raccoglie nel Liber de miraculis numerose vite di santi greci7 e tutto ciò già nei secoli X-XI.   “Codices graeci monasterii messanensis S. Salvatoris”, sta in Atti della R. Accademia Peloritana”, 22, 2 (1907), pp. 180-182. 4   Dmitrievskij, “Opisanie…”, pp. 836 e segg.. 5   J.m. Hoeck R. – J. Loenerrtz, “Nikolaos-Nektarios von Otranto Abt von Casole,, Beitrage zur Geschichte der ost—westlichen Beziehungen unter Innozens III. Und Friedrich II”, Ettal 1965 (“Studia patristica et byzantina”, 11), 9 n° 3. 6   CH. Diehl, “”Le monastère de S. Nicolas di Casole près d’Otrante, d’après un manuscrit inédit», «melanges d’archéologie et d’histoire», VI, (1886), pp. 173-188; H. Omont, «Le Typikon de S. Nicolas de Casole près d’Otrante», «Revue des études grecques», 3, (1890), pp. 381-391 (estratti). 7   A. Pertusi, “Monasteri e monaci italiani all’Athos nell’alto medioevo”, sta in “Le Millenaire du Mont Athos”, 963-1963, Etudes et Mélanges, I, Chevetogne, 1963, pp. 234-237. 3

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Giovanni Cisternino Certo si deve evidenziare che nell’incontro-scontro che avviene, dal VIII al XVI secolo, tra il rito latino e quello bizantino spesse volte ci si confronta, ci si scontra e/o si fanno confusioni che arricchiscono l’agiografia dei santi bizantini con l’inserimento di santi latino-occidentali come vescovi e monaci. Spesso avviene anche un tentativo di introdurre regole di rito latino, come la Regula Sancti Benedicti, nell’organizzazione monastica bizantina. Questa commistione, è bene sottolinearlo, avviene anche nel campo opposto e cioè nel rito latino. La situazione religiosa nel meridione d’Italia nell’ultimo ventennio dal IX sec. in poi appare molto complicata, specialmente nelle zone della Calabria e in Terra d’Otranto, dove zone d’influenza latina confinano con le zone d’influenza greca. A Taranto si registra in questo periodo un tentativo di sottomettere la sede vescovile all’autorità del patriarcato di Costantinopoli. Il vescovo di Oria, Teodosio, tiene un sinodo in cui definisce i canoni contro la rilassatezza della disciplina ecclesiastica latina. Appare chiaro che in questa zona, pur essendo gli abitanti sottomessi al potere di Bisanzio, non si accettano innovazioni né in merito alla consacrazione dei vescovi, né riguardo gli usi disciplinari e liturgici che rimangono latini. L’episodio dell’assassinio dello stratega Ursoleone in Longobardia da parte dei Pugliesi con l’aiuto di Landolfo, principe longobardo capuano, nel 921, è molto significativo per comprendere i sentimenti della popolazione e del clero dell’area otrantina. Dalle lettere che il patriarca Nicola I il Mistico invia fra il 921 ed il 922 a Landolfo, “anthypatos”, ai vescovi preti, ai magistrati della Longobardia, all’arcivescovo di Otranto e al “protospatario” Gaidon8, si vede chiaramente come il popolo ed il clero pugliese approvino pienamente l’uccisione del governatore bizantino. Solo molto più tardi, verso il 968, ci sarà un altro tentativo bizantino di rompere a proprio favore l’equilibrio religioso. La popolazione grecofona era aumentata anche a causa delle immigrazioni e l’imperatore Niceforo Foca, se si deve dare fede a Liutprando, promulga due decreti: col primo intima al patriarca Poliuto di interdire in Puglia, come in Calabria, le celebrazione iliturgiche in latino, col secondo eleva la sede di Otranto ad arcivescovado effettivo con le diocesi suffraganee di Acerenza, Gravina, Matera, Tricarico e Tursi9. Un’altra disputa scoppia tra i vari vescovi latini e greci, intorno il 1053, in merito ad una lettera enciclica sulla questione degli azimi e del digiuno nei sabati di quaresima. Il vescovo Ippazio d’Otranto si schiera dalla parte di Bisanzio e appoggia le tesi sotenute dal patriarca Michele Cerulario. Il vescovo di Otranto anzi, partecipa al sinodo patriarcale del 1054, in cui viene lanciato l’anatema contro la scomunica dei legati papali10. Dopo il vescovo latino Ugo di Otranto (c. 1067), il suo successore greco Giovanni, nel 1079, sottoscrive un tomo sinodale del patriarca Cosma I e poco dopo Paolo, vescovo di Gallipoli, riceve nel 1081, dietro sua richiesta, istruzioni dal patriarca di Costantinopoli, forse Cosma, riguardo alla proscomidia. Da tutto ciò appare chiaro da quale parte si schierino i membri del clero secolare e regolare delle zone sotto la dominazione bizantina.   Grumel, “Les regestes, 1, 2, pp. 183-186, nn° 696, 698-701.   Grumel, “Les Regestes cit.”, I, 2, 226 n° 792. 10   Grumel, “Les Regestes cit., 1, 3, 7-8 n° 869. 8 9

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Documenti Nel XIII secolo, al tempo in cui in Grecia è sotto l’occupazione occidentale dei re francesi e degli angioini del regno di Napoli, con i vari conti e duchi, si registra in Tessalonica, nella seconda metà del 1205, la presenza di un cardinale latino nella persona del card. Benedetto di Santa Susanna assieme a Nicola Nettario d’Otranto, abate di Casole, quest’ultimo presente come interprete11. Pare che nel 1213 papa Innocenzo III prenda sotto la protezione della Sede Apostolica i monaci ortodossi del monte Athos, vedendosi in questo un’infiltrazione della chiesa romana, nel rito ortodosso. Dalla lettera di Innocenzo III del 1213 sembrerebbe anzi che i monaci dell’Athos avessero richiesto la protezione del papa contro le malversazioni dei baroni latini (come potevano essere i Brienne, i duchi di Atene, i conti di Lecce e i signori di Firenze) e del vescovo latino di Sebaste. Nel XIII secolo le polemiche riprendono e partono proprio dall’Italia meridionale, sulla questione della formula battesimale12 e successivamente si acuiscono sui punti di dissenso di ordine teologico, disciplinare e liturgico tra le due Chiese. Il Pertusi ci fa sapere che il nuovo motivo di discussione sono i tentativi di unione dopo il 1204. In tale ambito è da porre l’attività di Nicola d’Otranto, alias Nettario di Casole, su cui grazie al benemerito lavoro dei PP. Hoeck e Loenertz13, si è ben informati. Questo italo-greco (Nicola d’Otranto), dopo aver dato prova, già prima del 1198, delle sue conoscenze del latino, del greco e dell’ebraico, con traduzioni della Liturgia di San Basilio14 e di altri testi liturgici e disciplinari su invito dell’arcivescovo Guglielmo d’Otranto, e con un’operetta geomantico-astrologica(LV) piuttosto curiosa, partecipa a fianco del card. Benedetto di Santa Susanna, in qualità di interprete, alla missione esplorativa del 1205-1207 e alle discussioni che si svolgono con i teologi greci ad Atene, a Tessalonica e a Costantinopoli. Qualche anno dopo, nel 1214-1215, prende parte all’altra missione del card. Pelagio Galvani di Albano. Dopo di esser divenuto (Guglielmo) abate di Casole (1219) è inviato nel 1223-1225 dall’imperatore Federico II in missione presso il patriarca Germano II, allora a Nicea. Infine, “quasi come imputato” va a Roma alla corte papale nel 1232, per difendere le posizioni della spiritualità greca della Puglia e della Calabria. Frutto delle sue discussioni con i Greci è l’opera teologica intitolata Tria syntagmata, che è in sostanza un “dossier” antologico di “excerpta”, in cui a fianco delle traduzioni dei testi latini messi a sua disposizione dal card. Benedetto egli aggiunge le tesi dei Greci, mutuandole soprattutto da Nicola di Metone e da un’operetta pseudo-foziana15. Sono trattate le questioni: la processione dello Spirito Santo, gli azimi e la Pasqua, il digiuno del sabato, la Messa dei presantificati in periodo quaresimale e il celibato ecclesiastico. Che Nicola d’Otranto propendesse per le posizioni greche ci è chiaramente testimoniato dalle epistole che Giorgio Bardane gli scrive subito dopo il suo 1Hoeck-Loenertz, “Nikolaos-Nektarios…cit.”, pp. 34-35.   C. Giannelli, “Un documento sconosciuto della polemica tra Greci e Latini intorno alla formula battesimale”, sta in “Orientalia christiana periodica”, 10 (1944), pp. 150-167. 13   “Nikolaos-Neltarios cit.”, pp. 88-109. 14   A. JACOB, “La traduction de la Liturgie de Saint Basile par Nicolas d’Otrante”, sta in “Bullettin de l’Institut historique belge de Rome”, 38 (1967), pp. 49-107. 15   Hoeck-Loenertz, “Nikolaos-Nektarios cit,”, pp. 88-109. 11

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Giovanni Cisternino ritorno prima da Nicea e poi da Roma e più ancora nella lettera che lo stesso Bardane invia ad un certo Nicola, figlio forse, di Giovanni d’Otranto, all’indomani della scomparsa dell’abate di Casole (1235). Nelle epistole 11- 11a si allude chiaramente ad una difesa sostenuta da Nicola “ingenue et intrepide” a Roma “cum adversariis”, “ut omnino non quasi iudicandus, sed iudicaturus potius et damnaturus accesserit pravos hereticorum errores”, “veritatem segregans a mendacio”, ergendosi anzi come fuoco “depravantes dogmata… combusturus”, per correggere “eorum cogitationes obliquas”16. Nell’epistola 14 si dice che tale disputa “mirabilem illum (Nicola) manifestavit coram illo praesidentiun coetu et supercilium attollente circumcirca et conante mysterium nostrae perfectionis conculcare”; e si specifica che egli prende posizione “adversus eos qui Spiritui Sancto bellum inferunt terribilem”. In verità non si è sicuri che questo ultimo accenno sia da riferire alla “disputatio” romana, perché nella frase che segue si allude chiaramente alla sua opera contro i Giudei17. Comunque le frasi di Bardane sono più che sufficienti per chiarirci che la presa di posizione di Nicola d’Otranto riguarda più punti delle tesi in contrasto fra la Chiesa greca e quella latina, e particolarmente la questione della formula battesimale e della cresima. Tale “disputatio”, in effetti, come ci consta attraverso la lettera inviata da papa Gregorio IX all’arcivescovo Marino di Bari, si verifica a seguito del tentativo del papa di indurre i Greci “ad observantiam uniformem” circa l’uso della formula battesimale18. Nicola, secondo la lettera di Bardane, ne sarebbe uscito vincitore, sarebbe cioè riuscito a salvare la formula bizantina leggermente diversa da quella latina. La nota del Vat. Gr. 1541, riprodotta anche nel Vat. Pal. Gr. 361, di origine calabrese, contro la formula latina, è da inserire molto probabilmente nel contesto di tale disputa19. Ѐ in occasione di un viaggio in Italia, avvenuto dopo la morte di Nicola d’Otranto, quindi verso il 1235-1236, che Giorgio Bardane, fermatosi nel monastero di Casole perché ammalato, ha una disputa con frà Bartolomeo dei Minori, tra il 15 ottobre ed il 17 novembre. Fra Bartolomeo è incaricato da papa Gregorio IX di una missione per l’unione delle Chiese e rendendo visita al vescovo bizantino a Casole gli pone un quesito: “Qual’è il pensiero dei teologi greci sulla sorte di coloro che muoiono prima di aver potuto compiere la penitenza imposta dal confessore?” Pare che Bardane non abbia capito molto dell’esposizione che il francescano fa della dottrina latina in merito alla purificazione nel Purgatorio, perché il vescovo greco crede che fra Bartolomeo sostenga non soltanto l’esistenza del Purgatorio, ma anche una retribuzione immediata dopo la morte. Comunque dalla discussione nasce un tratterello di Bardane, molto polemico nei confronti della dottrina latina, che egli si affretta a comunicare al patriarca Germano II e che dà l’avvio ad una nuova polemica su quest’altro punto controverso tra le due Chiese. Ѐ chiaro che questa ultima posizione polemica ha alla sua base il pensiero di un greco e non di un italo-greco, anche se amico di Nicola d’Otranto. È bene os  Hoeck-Loenertz, “Nikolaos-Nektarios cit,”, pp. 193-197.   Ivi, pp. 201, e 201 nota alle linee 37-43. 18   Giannelli, “Un documento cit…”, pp. 158-161. 19   Ivi, pp.166-167. 16 17

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Documenti servare che il trattarello, sotto forma quasi di verbale della discussione, svoltasi nel monastero di Casole, è inserito nel Vat. Barb. Gr. 297, scritto nel 1236 da Giovanni di Nardò e contiene anche una parte di Syntagmata di Nicola20. Ciò non significa che a Casole si condividano le idee di Bardane, ma è certo che la questione attrasse profondamente la curiosità dei monaci di quel convento. Pare in sostanza, che il giudizio del Giannelli circa l’atteggiamento degli Italo-greci, a partire almeno dal sec. XI: “è lo stato d’animo di chi si sente estraneo alla Chiesa romana, ostile alla sua disciplina canonica e non la considera più, anche se la parola non è pronunciata, ortodossa21”. In questo giudizio comunque non c’è alcuna condanna, ma piuttosto la constatazione di un fatto; anzi, forse, di uno stato di difesa delle posizioni greche di fronte alla “Rekatholisierung” delle regioni italo-greche. Si registrano ancora, come afferma il Pertusi22, pellegrinaggi di monaci italo-greci verso l’oriente, Gerusalemme ed Alessandria, verso il Peloponneso e la Tessaglia, verso Costantinopoli e Salonicco che permettono loro di porsi in diretto contatto con le popolazioni ed i monaci delle regioni bizantine. Ciò naturalmente influenza la storia del monachesimo e della cultura monacale dell’Italia meridionale e della Sicilia, anche se oggi è difficile determinarne i limiti e la portata. Ѐ da pensare che buona parte dei codici greci di origine orientale, che si trovavano nelle biblioteche dei monasteri greci della Sicilia, della Calabria e di Terra d’Otranto, siano stati portati dall’oriente o da monaci italo-greci emigrati verso Bisanzio o da monaci venuti dall’oriente in pellegrinaggio “ad loca sancta” cioè a Roma. Per capire questo concetto e limitandoci all’epoca in cui fiorisce il monachesimo italo-greco, si può ricordare un San Gregorio decapolite (morto nell’842), che entra in rapporto con San Giuseppe innografo, che compie il suo pellegrinaggio a Roma partendo da Salonicco, passando per Corinto e Reggio Calabria, e poi di ritorno per Siracusa e Otranto, dove ha contatti con le comunità italo-greche23. A conclusione di questo tentativo di analisi dei rapporti tra il monachesimo italo-greco e quello bizantino, allargato ad una valutazione del loro atteggiamento di fronte ai Latini, si riporta la testimonianza di Teofilatto di Ochrid, quaranta o cinquant’anni dopo lo scisma di Cerulario. Essa vale per noi tutti, dell’Oriente greco e dell’Occidente latino: “Se il mio discorso, dice Teofilatto, non richiamasse di prendere le proporzioni di un lungo racconto, metterei sotto ai vostri occhi cento esempi di condiscenza dei Patri antichi circa gli usi, allo scopo di attrarre dei fratelli alla fede. Essi sapevano rinunciare alla soddisfazione del loro amor proprio per compiacere il prossimo e per edificarlo. Ecco invece che ora, tronfi, ci domandiamo: chi è il mio prossimo?… Ogni parola uscita dalla nostra bocca, magari la più grande sciocchezza, vogliamo imporla come un oracolo divino, degno delle orecchie di Mosè o di Aronne… E non ci accorgiamo che così facendo ci rendiamo doppiamente ridicoli; sia perché abbiamo iniziato col dire una sciocchezza, sia perché ce la mettiamo tutta a difenderla. Felice colui che non ha peccato di parola, ha detto qualcuno.

Devreesse, “Les manuscrits…”, 50 n° 4.   Giannelli, “Reliquie cit…”, p. 104. 22   “Monachesimo Italo-greco e bizantino”, pp.477-520. 23   F. DVORNIK, “La vie de S. Grégoire le Décapolite et les Slaves macédoniens au IX siècle”, Paris, 1926, pp. 41, 58. 20 21

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Giovanni Cisternino Ed io proclamo degno di lode colui che, dopo aver peccato, riconosce il suo fallo e lo rigetta con orrore come un mostro generato nelle tenebre… Non imiteremo dunque l’umiltà del Signore, che non ha cercato la sua propria soddisfazione, ma il nostro vantaggio?… Io mi domando se, volendo escludere i nostri fratelli dalla Chiesa, non chiudiamo a noi stessi le porte del Regno dei Cieli”24. IL CULTO DELLE ICONE E DEGLI AFFRESCHI SUI SANTI BIZANTINI IN TERRA D’OTRANTO Un altro tratto caratteristico dei monaci bizantini è quello di averci lasciato la tradizione delle icone e degli affreschi. Bisogna immediatamente dire che nel periodo che va dal VIII al XVII sec. d.C., gran parte della popolazione è ignorante, non è, dunque, in grado di leggere e scrivere, per cui nasce da parte del clero greco-bizantino la necessità di farsi capire. Ecco allora che i monaci escogitano l’espediente di comunicare col volgo attraverso la rappresentazione di scene su icone o affreschi, all’interno e all’esterno delle chiese. Si può affermare per certo che le icone bizantine siano le antesignane (le immagini pionieristiche) di quello che oggi rappresentano le fotografie, le diapositive, i film e le immagini computerizzate. Sulla base di questo discorso, bisogna perciò distinguere i luoghi di culto e le icone propriamente dette. Per quanto riguarda i luoghi di culto, in Terra d’Otranto ve ne erano moltissimi; Il GUILLOU25 ha scritto un’opera su questo argomento, ma per entrare nello specifico del discorso si elencano e se ne ricordano alcuni, tra i più significativi: - Il Battesimo di Cristo è rappresentato a San Pietro in Galatina26 ma la paleografia contesta al primo colpo d’occhio l’autore di questo affresco del XII sec. Il Guillou27 afferma che si tratta di un lavoro in preparazione e mai finito.

- La Cena del Signore è dipinta ad Otranto all’inizio del X secolo, a Santa Maria della Croce a Casaranello nella seconda metà del XIII secolo, ed a San Simone “in Famosa” a Massafra28. - Vi era anche il Lavaggio dei piedi di Cristo, risalente al X secolo, che si trova a San Pietro in Galatina.

- La tradizione rispetto a Giuda si intravede appena, dalla calce che la ricopre nella chiesa dell’antico monastero di San Maurizio a Gallipoli (prima metà del XIII secolo)29.   PG 126, pp. 245-249; e JUGIE, “Le schisme…”, pp. 245-246.   “Art et religion dans l’Italie grecque médiévale”, vol. II, pp. 735-750. 26   Marasco, “Affreschi medioevali…”, fig. 3. 27   Art. ... cit., p. 740. 28   C.d. Fonseca, “Civiltà rupestre in Terra Jonica”, Milano-Roma, 1970, p. 140. 29   A. Prandi, “Il Salento provincia dell’arte bizantina”, sta negli “Atti del convegno internazionale sul tema: L’oriente cristiano nella storia della civiltà”, Roma, 1964 (Accademia Nazionale dei Lincei, 1964, Quaderno 62), p. 697, fig. 24. 24 25

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Documenti - La Crocifissione, d’iconografia latina in generale, si trova a Lizzano, nel Santuario dell’Annunziata del XV sec.30 ed in molte cappelle rupestri di Matera del XIV sec. (Madonna delle Tre Porte con una leggenda greca, Cristo della Selva, San Nicola a Chiancalata, Madonna de Idris, Madonna delle virtù, San Nicola dei Greci). A queste scene, che si devono considerare in molti casi come miseri resti di affreschi (quasi scomparsi) dei cicli di cui si parla, si aggiunge il ciclo di scene della vita di Cristo (infanzia, miracoli, passione) che un artista greco affresca nella chiesa di Santo Stefano a Soleto nel 1376. Lo stesso pittore senza dubbio vi rappresenta delle scene della vita di Santo Stefano, una delle rare vite di santi che si sono conservate, altre scene erano quelle riferite a Santa Margherita a Sant’Antonio di Laterza risalenti al XIV secolo. L’affresco del Giudizio Universale è conosciuto soltanto a Soleto31. L’illustrazione del dogma della Trinità con Dio Padre, il Crocifisso e la Colomba, si trovano ancora a Soleto, e nel Santuario della Favana a Veglie (XV sec.), a San Procopio a Fasano dove la scena è arricchita dalla presenza d’un altro santo del XIII secolo. Sotto forma di antico affresco circondato con i simboli degli evangelisti a San Biagio di San Vito dei Normanni (1196). Si possono ancora vedere una Deesis in vari posti in Terra d’Otranto ma per quel che ci riguarda si segnalano quelli della grotta di Parabita (XII-XIII sec.) e quelli nella cappella del S.S. Salvatore a Gallipoli32. Questo tipo di iconografia spesso apporta qualche variante alla specificità bizantina corrente, ma il clichè è sempre lo stesso, per esempio, a Poggiardo (XI-XII sec.), presso il Santuario di Sant’Elena a Uggiano la Chiesa (fine XI-XII sec.), nel caso della Madonna delle Tre Porte a Matera (XII sec.) e dell’Assunzione della Vergine a Soleto (XIV sec.)33. Il culto per l’Arcangelo Michele ha molto successo, dopo l’XI-XII sec. (Poggiardo, Santa Maria, Otranto, Sant’Angelo, Vaste, Santi Stefani), dove si conoscono una ventina di immagini; solo due per l’arcangelo Gabriele (Poggiardo, Santa Maria, XI-XII sec., Matera, Peccato originale). I profeti Abdias, Nahum e Abacuc, a San Maurizio a Gallipoli (prima metà del XIII sec.), Zaccaria presso i Santi Stefani di Vaste (XII sec.), presso la cripta della Celimanna a Supersano (XIII sec.), San Gioacchino e Sant’Anna sono affrescati nella chiesetta di Santo Stefano a Soleto (1376)34. Se si consultano i fogli manoscritti degli antichi sinassari provenienti dal meridione d’Italia, si nota che nella innumerevole schiera di Santi orientali un certo numero di essi appartengono alla tradizione delle chiese cristiane del bacino del mediterraneo occidentale. La commemorazione dei santi locali perciò, quale si può redigere, si può ricavare dai Typikon Cas., da quello calabro-siculo del Vat. Gr. 1877, dall’altro, anche cala  Medea, I, p. 200.   Diehl, pp. 101-110. 32   Medea, Op. cit., pp. 192-193, 246-247. 33   Diehl, pp. 98-99. 34   Ivi, p. 96. 30 31

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Giovanni Cisternino bro-siculo del Messan. Dal Gr. SS. Salv. 115 e da quello criptoferratense, indicati qui rispettivamente con le seguenti sigle: TCas, Tvat., Tmess., TCrypt. Molte commemorazioni di santi occidentali contenuti nei sinassari italo-greci, sono comuni al sinassario di Costantinopoli e si riferiscono a santi dell’occidente introdotti nel calendario bizantino. Fra i testi agiografici riportati nei codici italo-greci, appaiono alcune traduzioni di leggendarie narrazioni latine come quella di San Maurizio, un martire di origine libica, venerato nella città di Gallipoli e in altre parti d’Italia. Fra i santi occidentali venerati a Bisanzio e in oriente, si possono ricordare i S.S. Pietro e Paolo, Lorenzo, Cecilia, Leone magno, Martino di Tours, Ambrogio e Marina, vergine siciliana. Tra le icone più importanti affrescate nelle varie cripte-ipogee del Salento si ricordano: San Giovanni la cui più antica immagine è quella di Santa Maria di Poggiardo (XIXII sec.); Sant’Andrea, la sua più antica immagine è quella che si trova nella cripta della Celimanna a Supersano del XIII sec.; San Marco la cui più antica immagine è quella che risale al XII sec. e si trova nella cripta del Carmine di Ruffano; San Filippo che si trova nella cripta dei S.S. Stefani di Vaste del XII sec.; Sant’Antonio l’anacoreta, conosciuto dopo il XIII sec. a San Maurizio di Gallipoli con una leggenda greca, e a San Nicola dei greci a Matera con una leggenda latina; San Giorgio si trova dopo l’XI sec. a Erchie; San Gregorio Nazanzieno a Poggiardo e a Vaste; Maria Maddalena a Soleto del 138635. Onofrio, l’anacoreta, si trova presso Sant’Onofrio vicino Taranto e a Soleto e risalgono al XIV sec.36. L’immagine di Sant’Agata, la vergine di Catania, risalente al 1376, si trova a Soleto e anche Santa Tekla, martirizzata a Iconium si trova a Soleto37. A Melendugno tra i santi greco-bizantini vi è San Niceta, martire goto, che è il patrono locale, ma vari santi sono affrescati all’interno dell’abbazia come San Rocco, Sant’Apollonio, San Basilio: Vi sono anche varie immagini della Madonna col Bambino e Cristo in croce. Tutti questi santi sono d’origine orientale, sono iscritti nel sinassario di Costantinopoli risalente al IX secolo e hanno una innografia greca antica38. Gli affreschi che appaiono in molte cripte bizantine sono accompagnate da iscrizioni esegetico-votive scritte in greco. Non sono rintracciabili i nomi dei committenti se non i rari casi; le iscrizioni votive che sono state individuate nelle cripte di Carpignano Salentino, Sternatia o Rocavecchia sono quasi sempre espresse con la formula greca: ΜνήσΘητι ΚǘριЕ δοǘλου σου… che significa: Ricordati Signore del servo tuo… A Carpignano Salentino nel 6467 (datazione bizantina che corrisponde all’anno latino 959 d.C.) il presbitero Leone e sua moglie Crisolea commissionano al pittore Teofilato un Cristo in trono collocato al centro di un’Annunciazione. Alcuni anni dopo nel 6509 nella stessa cripta si trovano due altre iscrizioni votive ricordano un presbitero, il cui nome è sconosciuto, insieme ad alcune icone dipinte da un pittore di nome Costantino.   Diehl, p. 96.   Ivi, p. 95. 37   Ivi, pp. 96-97. 38   E. Follieri, “Santi occidentali nell’innografia bizantina”, pp. 251-271. 35 36

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Documenti Nel 6528 Elia Musopolo, protopapa, insieme a sua moglie ed ai suoi figli restaura la cripta di Carpignano e l’abbellisce, incaricando il pittore Eustazio che dipinge un Cristo in trono. Infine, un’iscrizione greca datata 7090 (1581) si trova nella cripta di “Santa Cristina” il cui donatore risulta un tal Aprile. A Sternatia nella cripta di “San Sebastiano” compaiono tre iscrizioni in greco di cui una ricorda un protopapa Pasquale e due sono datate al 7018 (che corrisponde all’anno 1509 d.C.) ma non sono riconoscibili i nomi dei donatori. Nel 7038, nella stessa cripta un devoto si fa rappresentare ai piedi di un Santo non individuato con la formula latina “Memento famulo tuo do. Phoeregrino Ricardo de Sternatia – MDXXX. Lo stesso schema del “memento famulo tuo…” accompagna un’epigrafe funeraria che ricorda un santo monaco vissuto nella pace e nel silenzio del diserto di Rocavecchia, nell’alto medioevo (XII sec.). Quest’epigrafe, che è attualmente conservata presso il museo S. Castromediano di Lecce, così recita: “Signore Gesù Cristo, Dio mio, che hai accolto benignamente il gemito del pubblicano… e di me peccatore BASILIO con la potenza della tua onorabile croce, proteggi, custodisci, difendi il tuo servo”39. Il Guillou riserva una sua indagine particolare agli affreschi di Santa Caterina di Galatina, non lontano da Soleto. Gli affreschi sono in effetti tardivi (prima metà del XIV secolo) ed eseguiti da artisti venuti dalle Marche e dall’Emilia, come Francesco d’Arezzo che nel 1435 esegue un Sant’Antonio abate e dipinge un San Gerolamo; vi sono degli affreschi la cui iconografia (sacramenti, allegoria della Chiesa, coro degli Angeli, scene dell’Apocalisse, ecc.) è d’origine latina, e lo stile sembra occidentale40. MEMORIE DELLE CHIESE GRECHE IN TERRA D’OTRANTO Di notevole importanza risulta nel XVI sec. la bolla di papa Leone X (1513-1521), riconosciuto amico dei greci e del rito greco nel meridione d’Italia e in Terra d’Otranto, nel periodo in cui domina incontrastata, nel mar Adriatico, la flotta della potenza veneta. In questa Bolla, promulgata il 18/03/1521, ratificata successivamente anche da papa Clemente VII (1523-1534) ed indirizzata ai vescovi latini del meridione d’Italia e, in particolar modo, a quelli di Caserta ed Ascoli Satriano, si dà ampio spazio ai preti greci a cui si permette di celebrare il santo Battesimo e la confezione del pane fermentato per l’Eucarestia secondo il loro rito. Si concede inoltre la vita coniugale ai papàs e gli si permette perfino di mantenere l’uso della barba lunga, mentre si criticano rigorosamente gli interventi dei vescovi latini nella chiesa greca e il loro continuo tentativo di latinizzare le parrocchie41. Con una missiva del 23/12/1550 il cardinale di Sant’Angelo e penitenziere maggiore, Rainunzio Farnesio, fa sapere ai sacerdoti ed al capitolo della chiesa greca della parte nord occidentale di Terra d’Otranto che possono usare la lingua ed il culto “gra  Inventariato al n° 52 del Museo di Lecce.   A. Putignani, “Il tempio di S. Caterina in Galatina”, p. 87. 41   Z.N. Tsirpanlis, “Comunità e chiese greche in Terra d’Otranto”, vol. II, pp. 846-848, 851-876. 39 40

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Giovanni Cisternino eco more” in ampia libertà, come si faceva da tempi immemorabili per l’ufficio divino di San Giovanni Crisostomo, San Basilio e San Pietro42. Nella zona di Gallipoli il rito greco si estingue il 10/01/1513 allorquando muore la madre del gallipolino Francesco Camardario ma, in effetti, lo studio della lingua greca è cessato già da un po’ di tempo. Ad Otranto il rito greco si mantiene fino all’inizio del XVI secolo ma nella sua diocesi si registra il mantenimento, di tale rito, in epoca posteriore, come in San Pietro in Galatina dove, secondo il Rodotà, il rito scompare nel 1507 a causa delle pressioni fatte dal conte di Lecce Raimondo Del Balzo Orsini marito di Maria d’Enghien, poi regina di Napoli. Tuttavia sui registri della SS. Visita Pastorale di Mons De Capua si legge che il rito greco a Galatina si mantiene anche fino al tramonto del XVI sec., se in un atto del 10/04/1570 inviato al vescovo otrantino De Capua, c’è la richiesta di sostituire il defunto cantore greco diacono Messenzio Silvestro con il giovane diacono Nicolao Morrona. L’atto porta la firma di 15 ecclesiastici e 2 laici: 3 di essi firmano in greco. Durante la SS. Visita Apostolica dell’arcivescovo di Otranto Mons Lucio De Morra (1606-1623) egli annota che in 13 paesi della sua diocesi vi sono ancora religiosi che utilizzano il rito greco. Nella seconda metà del XVI sec., gli ecclesiastici greci di Corigliano d’Otranto presentano documenti della loro ordinazione per mano di vescovi latini. Durante la S.S. Visita Pastorale di Mons Pietro Corderos (1579-1585), egli reperisce un Anthologion (che è la traduzione del Breviario romano in greco) scritto e tradotto dall’arciprete di Soleto Antonio Arcudi. Il 18/03/1580 il vescovo di Otranto Corderos lo invia al cardinale Santoro per averne o meno l’approvazione. A Corigliano si registrano, con 450 fuochi greci e latini insieme, 8 preti greci quasi tutti sposati; i loro nomi sono: De Angelis Lupo, Asicore Valerio, Campa Antonio, che presenta al vescovo una bolla della sua ordinazione (bulla clericalis tonsurae) ricevuta nel 1592 da Mario Farallo, vescovo di Castro, Indrini Alessandro, Lega Pietro Antonio, ordinato il 05/06/1574 dal vescovo di Castro Luca Antonio Resta, Lollus Antonio, De Mattheis Ferdinando e Renna Christaldo. L’esistenza di questi preti a Corigliano attesta la grande attività che svolge la nobildonna locale, d’origine spartana, Maria Bucali (figlia di Teodoro), moglie di Giovan Battista DE MONTI, barone di Corigliano d’Otranto43, verso la seconda metà del XV sec., con l’intenzione di far ritornare a Corigliano sacerdoti greci di grande dottrina e pietà. Antonio Indrini (o Indrimi) è l’ultimo sacerdote greco di Corigliano, alla morte del quale (verso il 1683) il rito greco si estingue in questo paese44. La famiglia Indrimi viene descritta, comunque, come cospicua famiglia baronale in diversi casali della contea di Lecce. Nel casale di Giurdignano ci sono 4 preti greci. I loro nomi sono: Bellus Giovanni Andrea, Benedetto Polinorio, Colella de Alessandro ed Evangelista Antonio45.   J.m. Hanssens, “La liturgie romano-byzantine de Saint-Pierre”, pp. 235-258.   G. Cisternino, “Acaya nella storia”, p. 124. 44   Rodotà, “Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia”, Roma, 1758, vol. I, p.386.. 45   P. Coco, “Vestigi di grecismo in Terra d’Otranto. Appunti e documenti”, pp. 40-45, 50-52. 42 43

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Documenti Un breve apostolico di papa Gregorio XIII spedito da Tuscolo il 20/04/1575 al presbitero greco “loci Giordignani, Hidruntinensis diocesis”46 Florio Lanzilao è significativo del passaggio graduale ma definitivo dei preti greci al rito latino. Il detto papàs Lanzilao, ordinato da un arcivescovo latino e sposato, secondo il rito greco, che è ministro a Giurdignano, dopo la morte della moglie, decide di passare al rito latino. Il pontefice accetta la decisione di Florio Lanzilao. La stessa cosa accade alcuni anni dopo (luglio-agosto 1581) per il papàs Giovanni Battista Curchi di San Pietro in Galatina e per un altro di nome don Marsilio47. Nel casale di Muro Leccese con 280 fuochi latini vive 1 chierico greco Marco Troceus. In quello di Giuggianello, con ottanta fuochi di rito latino, vi è il prete greco Antonio Rizzus. Per quanto riguarda il cognome, il sacerdote Вαπτίστα Ρίζσ, figlio del papàs Antonio, risulta copista di un codice greco (1476) proveniente da Soleto48. Verso la seconda metà del XIV sec. nei casali di Muro e Giuggianello vi erano dei protopapàs greci, come risulta da una riscossione della decima del 1373-1374. A Palmariggi si ricorda l’ultimo arcipresbitero greco Francesco Antonio Federico. A Melpignano nel XV sec. (1448 e 1495) Antonio e Roberto Мαϊσράνσς, sacerdoti greci, scrivono due codici in cui sono contenute opere aristoteliche49 e nel secolo successivo della stessa famiglia troviamo Nicola, bibliotecario greco alla Vaticana e poi vescovo di Molfetta (1553-1566)50. Ancora in Melpignano l’arcivescovo otrantino Mons. Morra trova il clero greco della chiesa di San Nicola formato da 5 ecclesiastici ammogliati: De Aloysio Elias, Barbaro Vincenzo, Brano Giovanni, l’arcidiacono Fenestra Giovanni Luca e Specchia Troiano. Anche presso il casale di Martano con tanti lemmi di origine greca e con dieci chiese greche dedicate alla S.S. Trinità, a Santa Sofia, a San Nicola, a Santa Maria Costantinopolita, a Santa Lucia, a San Giorgio, a San Biagio, a Santo Stefano, alla Madonna della Candelora e a San Teodoro, l’arcivescovo otrantino trova 4 ecclesiastici greci, tutti ammogliati: Christoforo e Stefano Gallo, Carolo Messedettino e Cesare Vara51. Un maggiore numero di preti si incontrano a Castrignano dei Greci, a Calimera e a Martignano, così suddivisi: Nel casale di Castrignano dei Greci si trovano 9 papàs: Desacola Sabati, Dranghus (Δράχσç?) Martino, De Elia Costa, Galasso Angelo, Palma Gregorio, Petrelli Marco, De San Nicola Antonio, Saraceno Pompeo, Villano Ioannes. Nel casale di Calimera si trovano 12 papàs: Candelieris Scipione ed Ottavio, Colaci (Kσ(υ)λάχηç) Nicolaos, Licei Ottaviano, l’arcipresbitero De Mattheis Sigismundo, Mintenarus Ioannes Antonio, Marsilio, Micus e Roberto, Palumbus Desino. Com’è noto alla medesima famiglia Palumbo di Calimera appartiene il grecista Vito Domenico Palumbo (1854-1918), autore di numerosi scritti sulle colonie greco-salentine. È anche traduttore in italiano di poemi di autori greco-bizantini come   Vat. Lat. 6198, f. 174r-v.   Krajcar, “Cardinal Giulio Antonio Santoro and the Christian east”, p. 44. 48   A. Vaccari, “La Grecia nell’Italia meridionale – Studi letterari e bibliografici”, p. 317. 49   Vaccari, “La Grecia…”, p. 312. 50   P. Maggiulli, “I Basiliani e i loro codici”, p. 129. 51   P. Coco, “Vestigi cit.”, pp. 40, 41-43, 50-51. 46 47

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Giovanni Cisternino Valaoritis, Paparigopulos, Drossinis, Costis Palamàs ecc.; sul Palumbo ha fatto un ottimo lavoro il Gabrieli52. In questo casale - che da come si evince sono presenti più papàs rispetto a molti casali salentini - si conserva il rito greco. Il passaggio al rito latino avviene nel 1663, dopo violenti e sanguinosi tafferugli avvenuti all’interno del paese, allorquando l’ultimo protopapàs greco viene assassinato e vengono dati alle fiamme gli archivi della parrocchia greca53. Nel terzo casale, in esame, quello di Martignano, vi è il papàs Natale (Nατάλισς Μάρσоς) il quale il 04/12/1579 completa la copia del codice greco 41.E.29 ora depositato presso la Biblioteca Corsiniana o Accademia dei Lincei, dove è riportato il divino uffizio di San Giovanni Crisostomo, il lezionario e gli Evangeli, il Menologio e diverse preghiere. Lo Zacharias annota che la scrittura del codice è chiara e il copista usa indifferentemente l’inchiostro nero e rosso (per le rubriche). In questo testo si rileva come nel Credo, scritto dal copista, è aggiunto lo Spirito Santo che procede dal Figlio; ciò attesta che i greci di Martignano ammettono il relativo dogma in vigore nella chiesa latina. Nel codice54 si trovano i nomi di altri papàs di Martignano come Аντώνιоς Μάρσоς, padre dell’amanuense, e gli arcipreti greci Donato Casella (+1577) il fratello Giovanni Maria55. L’arcivescovo di Otranto, Mons Morra, in occasione della SS. Visita Pastorale incontra 10 preti greci, quasi tutti ammogliati, aventi i seguenti nomi: Casella Marsilio, Costa Antonio, Criti Cataldo, Demetrius Daniele, Ferrante Andreas, Jannuzzus Donato, De Marco Jacobo, Palma Antonio, Rauna Nicolaos, Saliente Antonio. Dalla fine del XVI sec. e l’inizio del XVII sono presenti in Martignano le seguenti chiese greche dedicate: a San Giorgio, a San Nicola, ai S.S. Sergio e Bacco, alla Madonna della Candelora. Il rito greco si estingue in Martignano nel 166256. A Sternatia vive il prete greco Angelo Costantino, copista di due codici, contenenti il primo la “Retorica di Aristotele” (1516?) e il secondo “Le questioni di Alessandro d’Afrodisia” (1523)57. Il vescovo Morra menziona inoltre i nomi di 11 ecclesiastici greci, fra i quali l’arcipresbitero Andreas Martianus e il sacerdote Nicolaos Riccardus (i nomi degli altri 9 preti non vengono citati). Quattro sono le chiese greche che esistono a Sternatia e sono dedicate: a San Nicola, a Santa Maria della Candelora, a San Luca e a Santo Stefano, mentre altre 5 chiese erano site fuori l’abitato del paese. Il rito greco si estingue a Sternatia nel gennaio 162258, di opinione contraria invece è il De Simone, il quale afferma che il rito greco a Sternatia si estingue nel 1664. 52   Vito Domenico Palumbo, ultimo rappresentante della cultura greco-salentina”, sta in “Roma e l’oriente”, 15 (1918), pp. 156-170, e, dello stesso autore “Gl’Italo-greci di oggi”, sta in “l’Europa orientale”, 4 (1924), pp. 328-331, 338-340 (dove vi è l’elenco delle pubblicazione del Palumbo. 53   L. De Simone, “Gli studi storici in terra d’Otranto”, sta in “Archivio storico italiano”, 6 (1880), pp. 100, 109, 316, 331. 54   fg. 36v. 55   P. Coco, “Vestigi cit.”, 16 (1918), p. 44. 56   L. De Simone, Op. cit., p. 316. 57   M. Vogel-V. Gardthausen, “Die griechischen Schreiber des Mittelalters und der Renaissance”, p. 6. 58   P. Coco, “Vestigi cit…”, pp. 44-45.

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Documenti Nel casale di Zollino sono presenti 5 preti greci: i chierici Arsius Giacomo, Fremi Cesare e Stilus Nicolaos Maria, il sacerdote Maius Leonardo e l’arcipresbitero Fremi Ottaviano59. In questo paese il rito greco si estingue nel 168860. A Cursi, secondo l’arcivescovo Morra, i fuochi greci sono 160 ed i papàs, tutti ammogliati, sono 5 e sono: Bocca Agostino, cantor Nuzzus Achille, Russus Angelos, l’arcipresbitero Pisicci Giorgio e il chierico Rubi Giacomo61. Una presenza greca si riscontra, in alcuni atti dell’arcivescovo di Brindisi Mons Giuseppe De Rossi, risalente agli anni 1551 e 1558, in Leverano dove esiste una chiesa intitolata a Santa Maria della Greca62. dove vivono un papàs di nome Felice Greco (1551)63 ed un diacono Antonio Petrello (1558)64. Ancora durante la S.S. Visita pastorale dell’arcivescovo di Brindisi ed Oria Mons Giovanni Carlo Bovio, risalente al 1565, risulta che a Leverano oltre al sacerdote Felice Greco e ad Antonio Petrello (che ha, in questo periodo, il titolo di arcipresbitero), vi sono i sacerdoti Geronimo Greco, fratello di Felice, Scipione Macedonius, Lucas Greco, Pietro Greco, Gregorio Greco, Giacomo Macedonius, Prospero Greco, Salvatore Arcudio. Sempre nel detto volume 2° della visita pastorale di Mons. Bovio, si viene a conoscenza del “locus dictus la Chisura de li Greci iuxta olivas Andreae Graeci”, quando vengono registrati i beni della chiesa di Santa Maria della Greca65. Soleto tra i secc. XV-XVI risulta uno dei più rinomati centri del grecismo, posto nella diocesi di Otranto. Qui vengono scritti tre memoriali per mano di un arcidiacono facente parte della famiglia Arcudi, originaria di Corfù. Il 30/06/1577 questi memoriali vengono presi e conservati dal cardinale di Santa Severina, Giulio Antonio Santoro. Questi testi hanno lo scopo di aggiornare i cardinali che compongono la Congregazione dei greci per aiutarli al riconoscimento del rito greco nella forma originale sviluppata nel Salento nei secoli precedenti. I memoriali fanno sapere che i greci-salentini creano un sentimento nazionale locale, misto al vanto della gloriosa origine greca fatta risalire, addirittura, all’epoca dei miti, poiché essi si credono Italo-greci stabilitisi colà da tempo immemorabile, proprio come gli ateniesi, oriundi da Micene e Diomede re di Creta. Questi greci sottolineano che non hanno niente a che vedere con le colonie Slave, Albanesi o Cretesi. Si distinguono da essi per il modo con cui celebrano il loro culto e dipendono completamente da vescovi latini, dai quali vengono ordinati.   P. Coco, “Vestigi cit.”, pp. 51-52.   J. Gay, “Etude sur la décadence du rite grec dans l’Italie méridionale à la fin du XVIe siècle”, p. 490. 61   P. Coco, “Vestigi cit.”, pp. 40-41, 52. 62   Arch. Curia Arciv. Brindisi, “Regestum omnium bullarum archipresulum Brundusinorum, quas jussu ill.mi et rev.mi domini d. Josephi de Rossi, azrchiepiscopi Brundusini, in unum collegit ab anno 1513 ad 1677 Hannibal de Leo u.i., et sanctae theologiae doctor et metropolitanae ecclesiae Brundusinae canonicus theologus”, I, ff. 146r-v, 160r-v, 168r-v, 169r-v, 179r, 172r-v. 63   Arch. Curia Arciv. Brindisi, “Regestum omnium cit”, ff. 180r-181r. 64   Ivi, f. 172-v. 65   Arch. Curia Arciv. Brindisi, “Acta Sanctae visitationis habitae in metropolitana ecclesia Brundusina et Uritana ab archiepiscopo Io. Carolo Bovio. Ann. Chr. MDLXV, vol. II, ff. 376r, 377v, 378r, 381r, 383r, 385v, 389v, 390v-391r, 399r, 402v-405v, 407r, 413r, 415v, 416v, 417v; e, N. T. ZACHARIAS, “Comunità e chiese greche in Terra d’Otranto”, sta in “La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo”, Atti del convegno storico interecclesiale (Bari, 30/04 - 04/05/1969), vol. II, pp. 871, 873. 59 60

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Giovanni Cisternino Verso la fine del XVI sec. il vescovo Corderos riunisce nella diocesi di Otranto i preti greci e constata che ve ne sono almeno 20066. Nel casale di Soleto, Mons Morra, nel XVII sec., elenca 500 fuochi greci, 22 ecclesiastici, dei quali 14 sacerdoti, 1 diacono e 7 chierici, dei quali 16 sono ammogliati, 2 sono celibi e 4 vedovi67. In conclusione si può dire che nella regione salentina, nel 1565, la Numerazione dei fuochi, già esistente nel Grande Archivio di Napoli, dà un totale di 2586 famiglie quindi convenzionalmente (se si considera come numero medio, a fuoco, 5 componenti), si hanno 12.830 anime circa, per gli otto paesi principali abitati da Greci (ma il paragone numerico medio si può fare anche con 6 o 7 componenti a fuoco)68 dove sono riportati e confrontati con altri, i dati statistici qui riferiti. Gli otto paesi greci sono: Calimera, Castrignano dei Greci, Corigliano d’Otranto, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia. Ma i centri salentini dove alla fine del XVI sec. si conserva ancora il rito greco sono molti di più. Il Peri69 afferma ancora che ammontano a circa 40.000 unità i fedeli che in Italia custodiscono il rito greco nel trentennio intercorrente tra il 1566 ed il 1596. Quanto alle circoscrizioni diocesane latine nei cui confini essi erano distribuiti, si può desumere dalle lettere dei vescovi e dalle norme sinodali; risulta un elenco di 37 diocesi del meridione d’Italia e tra queste vi sono Alessano, Lecce, Nardò, Otranto ed Ugento, ma anche Brindisi, Taranto e molte altre. Risultano anche lontane città come Livorno e Venezia segno evidente che il rito greco influenza, non poco, tutta l’Italia. Se poi si pensa che anche nell’arco alpino lombardo risultano delle colonie di derivazione magno-greche come Dervio (fondata da abitanti di Delfi), Corenno (fondata da abitanti di Corinto) allora bisogna a questo punto ripartire da zero e riscrivere completamente la storia. Rigoroso è l’ordine impartito dall’arcivescovo di Brindisi, Mons Giovanni Falces de Santo Stefano, all’inizio del XVII sec., ai cappellani greci di Tuturano affinché aboliscano la consuedine delle donne greche che per 40 giorni dopo il parto non accettavano nessun sacramento70. Come si apprende dai documenti, infine, il rito greco si estingue irreversibilmente in Terra d’Otranto nel XVII secolo, epoca in cui i preti di questo rito vivono in completa ignoranza. Significativa, per questo fatto, è una lettera dell’arcivescovo greco di Durazzo Simeone Lascaris71 scritta da Napoli il 12/10/1660 ai cardinali della Propaganda Fide. In essa si legge: “…Essendo dunque capitato qui in Napoli un sacerdote greco ordinato dall’arcivescovo d’Ottranto, antecessore del presente, andò a celebrare messa nella chiesa parrocchiale greca, ove io mi ritrovavo presente, e cominciando la messa non sapeva proferire nemmeno un periodo bene, e se non fosse agiutato dagl’altri sacerdoti, che ivi si ritrovavano presenti, non haverebbe nemmeno potuto proferire le parole della consecratione, e di questa simil incapacità dè sacerdoti è piena la provincia d’Otranto, ove sono delle terre greche; e questo inconveniente proviene, perché non vi   Zacharias “Comunità e chiese greche cit”, p. 864.   L. De Simone, Op. cit., pp. 242-243. 68   O Parlangeli, “Sui dialetti romanzi e romanici del Salento”, Milano, 1953 (Memorie dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. Classe di lettere, scienze morali e storiche, XXV, 3), 157, n° I. 69   “Chiesa latina e chiesa greca”, sta in “La Chiesa……… ecc.” vol. I, p. 331. 70   N.t. Zacharias, Op. cit., p. 876. 71   G. Hofmann, “Bizantinische Bischofe und Rom”, sta in “Orientalia christiana”, 22 (1931), pp. 137-139. 66 67

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Documenti è soggetto, che li gl’istessi essaminatori fanno fede, che gli ordinandi siano idonei, e vengono promossi all’ordine sacerdotale da’ vescovi latini, li quali non hanno cognitione della lingua greca, né del rito istesso; di più, la Messa che loro dicono è varia da quella di S. Gio(vanni) Chrisostomo, e non si sa chi fosse colui che l’havesse corrotta e guasta. Fu interrogato da me nelle materie spettanti all’ordine sacerdotale, e non sa rispondere cosa alcuna, dicendo che non vi è chi a loro insegni questo, e che a pena si ritrova alcuno habile che possi rettamente leggere72. REGOLE E DIFFERENZE RELIGIOSE TRA IL RITO GRECO E QUELLO LATINO Vi è un “Trattato degli abusi di Greci, superstitioni et heresie” raccolto e scritto da Frà Antonino CASTRONOVO, dell’ordine de S. Agostino theologo; questo Trattato viene propagandato nel 1579 dell’Illustrissimo e reverendissimo don Luiis de Torres, arcivescovo de Monreale (PA). Il testo, di cui ai punto a) e b), nel suo decennale appare con la calligrafia dell’autore. Da questo testo si possono comprendere la forma-mentis che sottende il rito greco e le varie problematiche che intercorrono tra questo rito e quello latino. Bisogna sottolineare in verità, che il Trattato considera le problematiche esistenti in terra siciliana ma tuttavia da esso si possono estrapolare notizie inerenti il rito greco anche nel Salento. “TRACTATO CONTRA GRECI” di Antonino CASTRONOVO Li Greci di Levante per la lunga conversatione havuta con Turchi, et per conservare molti di loro alcune reliquie della loro antica pazzia scismatica, pare che poco conto tengano delli riti romani, non stimando il sommo pontefice romano et disprezzando molte cerimonie de Latini. Li Greci de Albania ritirati nella Sicilia in diverse terre et ville, similmente li Greci Rodioti che sono in Malta, sono alquanto lontani da certe impertinenze et schiocchezze usate da Greci di levante, et pare che s’accostino più al stilo romano che gl’altri: però facilmente li prelati loro li possano governare, estirpandole molte superstitioni, et reducendoli al viver cattolico. La differenza tra Greci et Latini consiste in tre cose, nel’uso de Sacramenti, negli Dogmi, et nelle osservanze particolari, et quando sono ripresi, o dimandati de loro abusi, subito rispondeno che quello che fanno lo possono fare perché tanti pontefici cel’hanno concesso, né considerano che cosa et in che modo li sia stata concessa. Et per venire alle cose particolari raggionarò prima del’uso et administratione de Sacramenti. Problema del Battezzare 1. Li sacerdoti greci nel battezzare adoprano acqua calda. Che l’acqua del battesmo sia calda o fredda non importa quanto all’essenza et verità del battesmo, et Innocentio IV nel Breve de Greci ragionando di questo rito 72

Arch. Prop. Fide, SOCG, 272, f. 281r-v.

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Giovanni Cisternino determinò che non importa, l’usare acqua calda o fredda: perché il battesmo fa il medesimo effetto, dandosi con acqua calda, come fa dandosi con acqua fredda. Li theologi diceno che l’esser l’acqua fredda o calda è cosa accidentale, però non varia né muta l’essenza et verità del battesmo. Questo rito si può sopportare senza scrupolo; perché li Greci diceno che non lo fanno per superstitione, ma acciò il fanciullo essendo tenero, non incorra in qualche infermità per la freddezza dell’acqua con la quale si lava. 2. L’acqua del battesmo si benedice ogni volta che s’ha da battezzare et se qualche volta occorre battezzare diversi, si conserva per dui giorni et non più; et a quell’acqua mettemo un poco d’acqua calda, per farla tepida et se ne serveno per battezzare.

Questa cerimonia non dimostra superstitione, né muta l’essenza del sacramento del battesmo, perché non si richiede come necessaria la medesima acqua.

3. L’olio de catecumeni lo benediceno et fanno li semplici sacerdoti né vogliono riceverlo da vescovi latini. Lo fanno invocando lo Spirito Santo, prima soffiando et nominando il Padre, poi soffiando et nominando il Figliolo, 3° soffiando et nominando lo Spirito Santo, poi diceno l’oratione dello Spirito Santo.

È tanto l’odio scismatico che hanno li Greci contra li Latini, che li pare le lor cose esser sante et efficaci, et l’opere delli Latini le tengano in poco prezzo; onde non si curano né vogliano l’olio che fanno li vescovi latini, et così per questa pertinacia non mutano gl’olii ogn’anno; et fanno contra il capitolo Litteris vestris, De consecratione, dist. 3: talché a questo si deve dar remedio che non havendo loro ogn’anno l’olio consecrato da loro vescovi greci cattolici, che l’habbino a pigliar ogn’anno da vescovi latini, alli quali sono soggetti.

4. L’olio de catecumeni lo metteno prima nel fronte, dicendo: ungitur (Petrus) oleo exultationis in nomine Patris; poi ongeno il mento dicendo: et Filii; poi ongeno ambe le guance, dicendo: et Spiritus Sancti; poi subito metteno il figliolo nella conca a battezzare.

Il modo d’adoperare l’olio de catecumeni giudico potersi concedere, et non mutarlo, però non dirò altro.

5. Nel battezzare usano differente forma dalla latina, dicendo: si battezza il tale (dicendo il nome del battezzato) servo di Christo nel nome del Padre amen, del Figliolo amen e del Spirito Santo amen. Altri diceno: si battezza il servo di Dio etc. Altri aggiongeno dicendo: si battezza con le mie mani; però questa ultima forma non è usata così frequentemente.

Questa forma seben pare alquanto differente dalla nostra, non di meno nelle parole essentiali è conforme alla nostra forma latina, et con questa loro danno vero sacramento di battesmo; così determinò Eugenio papa IV nel concilio Florentino nel Decreto della unione d’Armeni; perché questa loro forma exprime l’atto del battezzare, et nomina la causa principale del battesmo, quale è la Santissima Trinità

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Documenti et il soggetto battezzato. È differente la loro forma dalla nostra in tre cose, prima perché non esprimeno la persona del ministro battezzante come facciamo noi; 2° perché noi mettemo la persona battezzata in casu accusativo, dicendo: baptizo te, et loro metteno nel nominativo dicendo: biptizetur Franciscus etc.; 3° perché noi esplicamo il verbo con modo indicativo, et loro lo esplicano con modo soggiuntivo, o optativo. Benché l’una et l’altra forma sia buona, non di meno la forma de Latini è megliore per esser più perfetta, et più conforme alle parole dell’Evangelio, che non è la greca. Questa loro forma fu usata nella primitiva chiesa, per confondere li Giudei, che persequitavano Christo et per imprimere il nome di Christo nelle menti de battezzati; loro l’usano per fuggire l’errore antico di coloro che credevano il battesmo haverlo con più grandezza, et megliore, quando l’havevano d’alcun Santo, o nobile, onde loro mostrano non attribuire la virtù al ministro, ma a Christo. Onde San Paulo diceva a quelli che si vantavano d’haver miglior battesmo per esser stati battezati da ministri più degni (primae Cor., p. o) (a): Quidam dicunt: Ego sum Pauli, ego sum (omissis punti 6 e 7). 8. Quando il marito è greco, et la moglie è latina, li figlioli si battezzano secondo il rito greco; et così viveno alla greca; et per il contrario, quando il marito è latino et la moglie è greca, li figlioli si battezano alla latina, et viveno secondo il rito latino come il padre.

Questo costume si deve tollerare, perché, come dice San Paulo (primae Cor. 11 et Ephes. 5) (a), l’homo è capo della donna, et deve reggere; però li figlioli possano licitamente sequitare il rito del padre; et il figliolo è più constretto ubidire al padre che alla madre.

9. Li figlioli delli Latini qualche volta in caso di necessità, non vi essendo sacerdoti latini, si battezano da sacerdoti greci e poi viveno secondo il rito greco.

Questo costume mi pare che si debba rimover affatto; perché dandosi il battesmo in caso di necessità da chi si voglia, non è obligato il battezato a sequitare il vivere del battezante; altrimenti sequitarebbe che quando batteza un heretico per caso di necessità, che il figliolo dovesse vivere come l’heretico che l’ha battezzato; il che è empio a credere et dire (omissis)73. Problema della Consacrazione e del pane fermentato

1. Questa opinione di doversi adoperare nella consecratione il pane fermentato et non l’azimo, la chiesa greca sempre l’ha difesa; et benché le sue ragioni siano frivole, nondimeno il concilio Fiorentino et altri l’hanno permesso, purché credano che ancora in azimo si faccia vera consecratione, et tenghino che la materia essentiale sia pane di frumento, o sia azimo o fermentato. Così dice Eugenio IV nel Decreto ad Armenos; Alezandro I nella epistola prima Ad omnes, etc.; Giulio I, De Consecratione   D. Minuto, “Il Trattato contra Greci”, sta in “la Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo”, in Atti del convegno storico Interecclesiale (Bari, 30/04 - 04/05/1969), editrice Antenore, Padova, 1973, vol. III, pp. 1015-1018. 73

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Giovanni Cisternino dist. 2 cap. Cum omne; il concilio III Cartaginese cap. 24; il concilio Africano sotto Bonifacio nel cap. 4; l’Altisiodorense cap. 8: il Braccarense III, cap. I; Vormatiense IV; Triburiense sotto Arnolfo imperatore cap. 19; et molt’altri. Onde l’esser azimo o fermentato non leva la verità della transubstantione; così li Greci deveno credere, et se altrimenti credeno si debbeno punire; così dice De Consecratione dist. 2 cap. In sacramento, et Santo Thomaso nel Opuscolo I cap. 61. Et benché nel tempo di Leone papa fusse istituito si dovesse consecrare in fermentato, questo fu per levare al’hora l’heresia d’Ebioniti, i quali dicevano che si giudaizava, usandosi l’azimo. Tale heresia essendo spenta, tornò la chiesa romana al primo suo costume, et Santo Thomaso dice che Christo consacrò in azimo, et così tiene tutta la chiesa latina. Però questo rito greco di consecrare in fermentato (a) si può licitamente permettere; ma (b) se un sacerdote latino consecrasse in fermentato, si dovrebbe punire: così è scritto De celebratione missarum, cap. Litteras tuas. 2. Nel giovedì santo li Greci fanno la pasta, et la stringeno molto bene, poi cuoceno quel pane, dicendo che per esser la pasta così stretta, il pane non si corrumperà: consacrano poi quel pane il giovedì santo, et lo serbano per tutto l’anno sotto pretesto di communicarne di quello gl’infermi.

Innocentio IV prohibì questa riservatione per un anno, et gl’ordinò che per 15 giorni et non può lo serbino (omissis)74. Il rito della celebrazione della S. Messa

26. (Omissis i precedenti numeri) Quando altri sacerdoti stanno presenti alla Messa, diceno le parole con voce bassa, et si communicano alla Messa con le loro mani, né voglino ricever la communione dal celebrante, se il celebrante non è patriarca o vescovo, o arciprete vecchio, et un sacerdote semplice non si lascia communicare per mano d’altro sacerdote semplice.

Li vescovi latini ascoltano la Messa con devotione da un semplice sacerdote et li mostrano riverentia benché sia loro inferiore, et il papa, benché sia capo generale di tutto il christianesimo, non di meno s’inginocchia quando si confessa ad un semplice sacerdote, et ascolta la Messa et tace quando si diceno li secreti; et li sacerdoti greci hanno tanta alterezza che non vogliano humiliarsi ad un altro sacerdote, il quale communicando tiene luogo di Christo, che certo mi maraviglio di tale loro abusione. Il dire le parole loro insieme col sacerdote, non mi pare che convenga, ché solo questo è concesso al tempo dell’ordinatione, quando il vescovo celebra, et dà gl’ordini sacri, però non in altro tempo, benché più sacerdoti possino consecrare la medesma hostia, come dice Santo Thomaso nella III parte quest. 82 art. 2 et IV Sent. Dist. 13 quest. I art. 2 quest. 2. Onde potrebbono loro lasciare questo loro costume et humiliarsi a chi celebra.

74   D. Minuto, “Il Trattato contra Greci”, sta in “la Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo”, in Atti del convegno storico Interecclesiale (Bari, 30/04 - 04/05/1969), editrice Antenore, Padova, 1973, vol. III, p. 1028.

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Documenti 27. Diceno l’hore differentemente dalle nostre et celebrano qualche volta prima che habbiano detto il mattutino.

Innocentio IV ordinò che li sacerdoti greci secondo il loro costume dicessero l’hore canoniche; ma che non presumessero celebrare prima che avessero finito l’officio del matutino. Et così si deve osservare, come diceno li summusti d’accordo.

28. Havendo li sacerdoti greci a celebrare, rare volte si confessano. Beato è quello che è così mondo di peccati che non ha bisogno di spesso confessarsi; però dice Santo Giovanni in I epistola cap. I (a): chi dice esser senza peccato dice bugia. Onde tanto li Greci, come Latini, havendo a comunicarsi devono confessarsi havendo copia del confessare, et non li basta solo la contrizione, come disse il Gaetano. Questa è determinatione del sacro concilio Tridentino. 29. Le donne in alcuni luoghi vanno all’altare a servire il sacerdote quando celebra. Innocentio IV proibì a Greci che le donne non servissero all’altare, ma omninamente fussero rimosse da tal ministerio et solo n’andassero li ministri dell’altare. Così anco ordinò il concilio Laodicense cap. 19 et 44, similmente Gelasio papa nella I epistola cap. 28. Né anco le donne, ancorché siano sacrate, possano offerire incenso all’altare, né incensare col turibolo; così ordinò Sotero papa nell’epistola II. Così è scritto nelli canoni, dist. 33 cap. Sacratas. 30. Li spurii non possano accostare all’altare per servir Messa.

Uno che non sia legittimo non si deve ordinare, se prima non è dispensato dal

vescovo, quanto alli ordini minori, et quanto all’ordini maggiori dal papa, o con l’ingresso di religione approbata; per il ministrare all’altare, come laico, non lo trovo prohibito; ben vero che, per una certa condecentia, è bene che essendo uno tenuto per spurio pubblicamente, non accosti a servire all’altare acciò non dia occasione di considerarsi il peccato di suo padre; però li Greci in questo mostrano troppo rigore.

31. Non diceno Messa li sacerdoti, né alcun laico si communica, innanzi il bagno, né doppo il bagno.

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Loro diceno che questo lo fanno per riverentia del santo Sacramento, hevendosi toccato le parte vergognose, o vero per dubbio che per deboleza non tramortissero; questo rito mi pare pietoso, però se gli potrebbe lasciare (omissis).

Per quanto riguarda l’Olio santo il Minuto75 riporta (dal detto “Tractato…”) che il rito dell’olio santo è contra tutti li dottori, quali diceno la materia del sacramento dell’estrema ontione esser olio d’oliva consecrato dal vescovo et a questo modo esser di necessitate sacramenti; così particolarmente tiene Santo Thomaso nella III parte quest. 72 art. 3; et nel IV delle Sentenze dist. 2 quest. I art. I quest. 2 ad 2m; et dist. 23 quest. I art. 3 quest. 2 et 3 et art. 4 qeust. I ad 3m ; anzi Santo Thomaso nell’Opuscolo 65 cap. 7 dice: “si sacerdos deprehenderit se errare ex errore de   Op. cit., p. 1052.

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Giovanni Cisternino

alio oleo unxisse, debet adhuc de alio oleo debito ungere et supplere quod omisit”; dove chiaramente mostra che è de necessitate sacramenti che l’olio sia consecrato dal vescovo. Onde si deve prohibire che non lo faccino più li sacerdoti semplici.

3. Nel dare l’estrema ontione diceno sette Evangeli et 7 epistole. Questa cerimonia è buona, né si deve levare, ma confermare. Del Sacramento del Matrimonio 1. Nel numerare li gradi di consaguinità seguitano il modo della legge civile, numerando tanti gradi, quante persone sono, quale loro chiamano faccie. Et prohibisceno li matrimonii insino al 7° grado inclusive; nell’octavo grado li concedeno: quale 8° grado secondo la legge canonica è grado 4° prohibito; et così fanno liberamente li matrimonii in 4° grado.

Benché più volte a Greci sia stato comandato che nel fare li matrimonii sempre numerassero li gradi di parentela secondo li sacri canoni, nondimeno per quello ch’io ho trovato, par che tal precetto sia stato dato a sordi o a disobedienti. Ma perché loro si potrebbero scusare o difendere dicendo che è prohibito solo il matrimonio insino al settimo grado et non più oltre, così è scritto nella I sinodo Nicena, come testifica Felice vescovo de Sicilia, scrivendo a Gregorio papa I, similmente Giulio I, come è scritto 35 quest. 2 cap. Nullum, et Gregorio II nella epistola 8, et Nicolò I nel sinodo Romano, come si referisce 35 quest. 2 cap. De consanguinitate: ma non s’accorgeno che questo 7° non è secondo l’arbore loro, ma è più distante et appresso loro sarebbe 13°. Il modo di numerare li gradi di parentela già è determinato diffusamente nel cap. Ad Apostolicam. Di più potrebbeno dire che Gregorio I, come è scritto nel lib. XII del Registro epistola 31, non separa li popoli inglesi congionti in 4° grado. Ma non considerano che papa Gregorio li concesse tal cosa per esser loro novamente battezzati. Però il concilio Magontiaco sotto Carlo Magno cap. 54 et il concilio Vuormatiense cap. 78 separano li congionti in 4° grado, et finalmente il concilio II Lateranense cap. 50 prohibisce la congiontione in 4° grado de consanguinità et di affinità, assegnando l’ordine che si deve osservare dicendo: prohibitio coppule coniugalis 4m consanguinitatis et affinitatis gradum de cetero non excedat quoniam in ulterioribus gradibus iam non potest absque gravi dispendio huiusmodi prohibitio generaliter observari, etc”; et (a) Innocentio IV nella Bolla dice: “quoniam inter eos consueverunt contrahi matrimonia inter personas contingentes se iuxta eorum computationem in 8° gradu qui, secundum computationem et distinctionem graduum quam nos facimus, apud nos quartus habetur: ne id p(rae) sumatur, deinceps prohibemus districte p(rae)cipientes ut, cun in ulterioribus gradibus licite matrimonia contrahantur, in praedicto quarto consanguinitatis gradu coppulari ulterius non p(rae) sumant, statutum in hoc generalis concilii observantes, Illos autem qui iam gradu huiusmodi contraxerunt, dispensative permittimus in sic contracto matrimonio permanere”. Onde è bene levarli questo abuso.

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Documenti 2. Alcuni non tengano per impedimento li gradi d’affinità in primo genere, onde si maritano con le sorelle delle moglie morte, et con le cugine delle moglie, senza farsene scrupolo, et credono non restar l’affinità doppo la morte della moglie.

Questo è espressamente contra li canoni et concilii, summisti et theologici: però non occorre si dichi altro senonché se gli prohibisce sotto pene gravi.

3. Altri, come ho veduto in Malta, tengano per impedimento l’affinità non solo in primo genere, ma ancora in 2°, et in 3° genere primi gradus, al modo antico.

Questo ben s’osserva anticamente, come è scritto nei canoni 35 quest. 3 cap. Porro; però poi fu dilatato et mitigato che fosse prohibito solo in primo genere primi 2i, 3i, et 4i gradus, non tamen in 2° et 3° genere, et così li Greci devono osservare.

4. Sogliano alle volte totalmente separare li matrimonii, benché li contrahenti siano vivi, et diceno concedersi per diverse cause: prima, quando la donna è adultera, 2° quando li puza la bocca, 3° quando urina nel letto, 4° quando è imbriaca, 5° quando è lunatica, 6° quando è heretica.

Per alcune di queste cause concedeno licenza al marito di maritarsi con altra, lasciando la prima viva, et cossì separano li matrimonii fatti.

Questa questione propose Eugenio IV nella fine del concilio Fiorentino, alla quale il vescovo Mitilenense non seppe rispondere, benché havesse dimostrato sodisfare ad alcuni altri quesiti. Li Greci di Sicilia diceno che tale separatione non si fa legitimamente nella Grecia, ma contra la volontà dei vescovi, alli quali alcuni con orgoglio di mandano licenza di separar il matrimonio per pigliar altra moglie o vero di farsi Turchi, et così fanno come li piace. Ma per intender meglio il negotio, dico che Santo Ambrosio pare che sia stato di questa opinione, che per causa d’adulterio si potesse separare il vinculo del matrimonio: però il Maestro delle Sentenze nel IV dist. 35 dice: sed hoc verbum non ab Ambrosio sed a falsariis additum esse credimus. La qual parola del Maestro non volse considerare il Gaetano; però, sopra San Matteo, disse l’opinione di Santo Ambrosio esser vera et cossì tenne. Non dimeno si deve tenere che se ben per alcune cause è permesso separarli di matrimonio il marito dalla moglie, non però si concede in conto alcuno che l’uno de contrahenti possi pigliare altra moglie, essendo viva la prima: così dice il concilio Elibertino cap. 9; Innocentio papa I epistola III cap. 4; il concilio Melivetano cap. 17, il quale commanda che questo anco s’osservi come legge imperiale; il concilio Venetico, cap. 12; il concilio I Anglicano, cap. 10; il concilio I Arelatense, cap. 10, il Decreto dato da Eugenio IV agl’Armeni, nel concilio Florentino; et finalmente il concilio tridentino (a) sess. 24, canone 7. La ragione è nell’Evangelio: Quos Deus coniunxit, homo non separet. Non si può disfare il matrimonio per qualsivoglia infermità sopraveniente; così dice il concilio II Aurelianense cap. 11. Né per causa che il marito o la moglie sia fatta schiava in guerra; così dice Innocentio papa I epistola IX. Né per pazzia o ferite o mutilazione de membri, o acciecamento, né per vizio di frigidità sopraveniente doppo il matrimonio consumato. Così diceno: Nicolò

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Giovanni Cisternino papa I, com’è scritto 32, quest. 8, cap. Hi qui; et Gregorio papa III nell’epistola IV, et il concilio Triburiense sotto Arnolfo imperatore cap. 41. Però quelli Greci che alla forma predetta separano li matrimonii si deveno punire gravemente.

5. Quando il sposo et la sposa vanno alla chiesa, porta ogn’un di loro una corona in capo di rose, o lauro, o rosmarino, o fiori, o di vite con l’uva, et questa è più solenne, et li putti et altri mangiano dell’uva che pende dal capo delli sposi.

Il matrimonio è sacramento, però è cosa santa, et santamente s’ha da trattare; però non è bene interporre queste buffonerie, massime in chiesa.

6. Nel sacramento del matrimonio credeno contrahersi cognatione spirituale come nel battesmo. Il modo è questo: quello il quale vuol essere compadre porta dua anelli, uno lo mette al sposo, l’altro alla sposa; poi muta l’anello dello sposo et dallo alla sposa, et quello della sposa al sposo; et poi torna gl’anelli come stavano; poi muta la seconda volta, poi li mette come prima; poi la terza volta muta gl’anelli dell’uno, dandoli all’altro; et poi li restituisce come prima li pose. Fatto questo, piglia la corona del sposo et mettela alla sposa, et quella della sposa al sposo; poi la tornano a ciascuno la sua; poi la muta et rimette la seconda volta; poi la muta et rimette la terza volta; et quello che muta tre volte gl’anelli dell’un all’altro et tre volte anco muta le corone, si dice haver contratto cognatione spirituale con li sposi, et si chiamano compadri. Et se otto o dieci fanno questo, tutti si tengano per compadri.

Questa cognatione spirituale per il matrimonio non so dove li Greci l’habbino cavato, et perché questo costume in Sicilia s’osserva; però sarà bene a levarlo come impertinente.

7. Alcuni Greci, si come non concedeno le seconde nozze alli chierici, così anco non vogliano concedere alli laici, onde le tengano per prohibite; altri concedeno le seconde nozze, però le terze nozze non le fanno senza licentia del vescovo, quale licentia non si dà se non per causa necessaria; oltra le terze nozze non vogliano admettere altre.

Manicheo et Eustachio heretici damnavano tanto le prime come l’altre nozze, come appare nel I concilio Braccarense cap. 11; et Gangrense cap. I et in ep(istu)la p(rae) liminari. Novato et Montano heretici dannarono solamente le seconde nozze, come appare nel I concilio Niceno, cap. 7 et 8. Però tutti s’ingannavano perché non solo le prime, ma anco l’altre nozze sono lecite, né si incorre infamia alcuna; questo si raccoglie da San Paulo, il quale dice: mulier mortuo viro soluta est a lege viri, et in Domino nubat cui voluerit. Similmente Gelasio papa nella I epistula, cap. 24 et Alessandro III nel cap. 2, par. 9; et più chiaramente Innocentio IV nella Bolla de Greci quando disse: quia secundum apostolum mulier mortuo viro ab ipsius est lege soluta, et nubendi cui vult in Domino liberam habet facultatem, secundas et tertias et ulteriores etiam nuptias Greci non reprehendant aliquatenus nec condemnent, sed potius illas approbent, inter personas quae alias ad invicem licite iungi possint. Onde questo tal costume de Greci si debbe rimovere come falso (omissis).

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Documenti Questione dello Spirito Santo

(Omissis)

Questo gl’attribuisce Santo Thomaso, parte I quet. 33 art. I ad primum et 2m argumentum; III Sent. Dist. II art. I ad secundum; De Potentia Dei, quest. 10 art. I ad 8m et 9m argumentum; quale opinione è scrupolosam anzi falsa.

12. Loro chiamando il Padre principio, chiamano tanto il Figliolo come lo Spirito Santo principiati.

D’Alcune Osservanze et Cerimonie de’ Greci 1. Li Greci sogliano tenere per immonde le vivande, et liquori tocchi da animali o da cose immonde: et se prima erano benedette, le ribenedicono insieme con li vasi, né li mangiano, né beveno; et se un topo o gatto, o altro animale, casca et muore dentro una cisterna o pozzo, non beveno quell’acqua, se prima non cavano 40 secchi, poi li metteno dell’acqua benedetta ordinaria, o vero dell’acqua benedetta nell’Epifania.

Pare che a guisa di Giudei giudicassero certe irregolarità nel toccare li morti o leprosi o altre cose. Loro per scusarsi diceno che questo cavar d’acqua lo fanno per fuggire la nausea; però il numero di 40 et il ribenedire, et il buttare acqua benedetta mostra superstitione.

2. Non mangiano ranocchie né testuggini, né lumache, né carne di volpe, né cani, né gatti, dicendo che tutte queste sono cose sporche.

Loro si scusano dicendo che per la nausea lo fanno; però questa nausea non credo che sia generalmente in tutti Greci, onde la tengo per superstitione.

3. Non vogliano osservare le feste dè Latini comandate. A questo si deveno constringere con pene ardue come appare per la bolla di Pio IV, data die 6 februarii 1564. 4. Hanno diverse feste oltra le nostre, et molte delle nostre le transferiscono in altri tempi (omissis). È bene et è necessario che sua Santità ordini il calendario de Greci, determinandoli quale feste, et quando le debbano osservare. 5. Fanno molte feste de Santi del Vecchio Testamento.

Augustino d’Ancona nel libro De potestate papae nella questione De canonizatione sanctorum, dice che non si suol far festa de santi del Vecchio Testamento, perché non introrno subito in gloria, ma furno trattenuti nel Limbo finché furono liberati da Christo; et la chiesa romana non fa festa se non degl’Innocenti, di S. Giovanni Battista, et di S. Gioseppo, perché questi furono al tempo di Christo, et hebbero pienezza di gratia più degl’altri passati. De Maccabei anco si fa festa; la causa l’assegna San Gregorio Nazanzeno per la magnaminità loro, che mostrorono in defendere le leggi della patria, prima che Christo venisse; dunque che cosa haverebbono fatto doppo Christo, havendo gl’esempi di tanti martiri! Però sarebbe

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Giovanni Cisternino cosa buona a Greci in questo darlii ordine, perché lasciano spesso li santi del Testamento Nuovo per fare festa de santi del Vecchio Testamento. 6. Nella festa dell’Exaltatione della Croce bagnano la croce con acqua odorifera, et tra tanto si diceno dalli diaconi a dua chori cinquecento volte Kyrie eleyson. Poi, adorata la croce, la danno a baciare a tutti; et il sacerdote a quelli che vengano a baciare li asperge nel fronte di quell’acqua odorifera con un mazzo d’herba basilico, quale tengano con la croce.

Le cerimonie che usano li Greci nell’adoratione della Croce sono devote et belle; et adoperano quell’herba basilico, perché diceno che quella fu trovata da Santa Helena nel luogo dove stava la croce nascosta. Però quel dare l’acqua odorifera nel fronte, mi parve una cosa alquanto lasciva, che può facilmente disturbare la devotione del sacerdote o di qualche persona che andasse con devotione; et mi rimetto a miglior giuditio.

7. Li notari fanno contratti in giorno di festa.

Questo se gli deve prohibire, non ostante qualsivoglia consuetudine, quale è più presto abuso.

8. Li Greci che serveno li Latini lavorano nelle feste greche, perché il Latino non si cura di feste greche, et per il contrario un Latino quando è servitore d’un Greco levora nelle feste de Latini, perché il Greco non si cura di far lavorare nelle feste de Latini.

Li prelati, per rimovere questa confusione, deveno riformare il calendario de Greci delle feste d’osservarsi; et osservando li Greci le feste de Latini comandate come deveno, non farebbono lavorare li servitori latini nelle feste de Latini. Et per più securezza di conscientia è bene quanto più si può d’impedir che Greci non s’impaccino a servire Latini, né latini a Greci, acciocché ogn’uno liberamente osservi il suo rito.

9. Li Greci hanno diverse quaresime. La prima è la ordinaria nostra, chiamata la Quaresima Grande, la seconda è degl’Apostoli, quale varia secondo la Pasqua; comincia doppo l’octava di Pentecoste il lunedì et dura insino a S. Pietro et Paulo. La terza comincia dal 1° agosto et dura insino all’Assumptione della Madonna. La quarta è nell’Advento, comincia 14 di novembre per finire 40 giorni et dura insin’a Natale. Ogni mercodì et venerdì non mangiano né carne, né ova, né latticini, né pesci con sangue, ma pulpi, calamari, seccie, patelle, ostreche, ricci di mare, cappe et herbe, le quali cose chiamano cose pure; non gustano olio, né beveno vino, così anco fanno tutti li giorni della quaresima grande; negl’altri giorni dell’altra quaresima mangiano tutte sorte di pesci, senza gustar latticini.

Questi digiuni et astinenze che fanno li Greci sono sante et devote, massime l’astenersi dal vino: la qual cosa approba il concilio Gerundense cap. 3 et il IV concilio Toletano, cap. 10.

10. Nel venerdì non mangiano mele, né zuccaro, né cose dolce né fanno zuppe con vino per devotione et memoria della passione di Christo.

Questa astinenza anco è laudabile, però se gli può approbare.

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Documenti 11. Nella quaresima grande non sogliano digiunare li giorni del sabbato.

Il concilio Elibertino, cap. 26 alittera ibi dice: sabbato quolibet ieiunemus considerantes apostolos eo die quando Dominus erat sepultus, in moerore fuisse, et propter metum Iudeorum se occuluisse.

Così dice anco Innocentio papa nella epistola I cap. 4 et il padre Augustino nell’epistola 89 et 118 c. 2. Ma questo non è precetto universale, ma più presto consiglio, dove non è consuetudine: così scrive il padre Augustino ad Ianuarium, et le sue parole sono registrate dist. 12, cap. Illa autem. Così anco espone la Glosa quel capitolo Sabbato, De consecrat., dist. 3. Ma se ragionamo del digiuno della quaresima, dico che il digiunare il sabbato è precetto, però nel concilio IV Aurelianese cap. 2 et Agathese cap. 12 (come è scritto De consecrat. Dist. 3, Placuit) così è stato determinato: placuit ut omnes ecclesiae, exceptis diebus dominicis in quadragesima et die sabbati sacerdotali oratione, id est nona, finita et discretionis communione percepta, ieiunent. Et San Gregorio nella homelia comanda doversi digiunare 40 giorni continui, includendo i sabbati et eccettuando solo le domeniche, come si recita De consecratione dist. 5 cap. Quadragesima. Ma li Greci poco si curano di questi statuti, però Innocentio IV nella Bolla trattando di questo negotio, disse: de ieiunio die sabbati quadragesinali tempore, quamquam honestius et salubris Greci agerent, si sic toto illo tempore abstinerent, ut nec unico die institutum ieiunium violarent, teneant et observent pro libito morem suum. Quale parole par che siano conforme a quelle di San Hieronimo Ad Lucinum: si omni tempore ieiunare possemus melius esset, tamen quaelibet provincia abundet in suo sensu, et praecepta maiorum apostolicas leges arbitretur; dist. 76, cap. utinam. Però secondo il detto d’Innocentio, li Greci in questo si possano tollerare.

12. Il sabbato mangiano liberamente carne, come negl’altri giorni della settimana.

L’astenersi dal mangiar carne nel giorno del sabbato, non vedo che generalmente sia precetto, ma più presto monitione, et conseglio, come si dice De consecratione, dist. 3 cap. De esu carnium ; et dist. 5 cap. Quia dies, dove la Glosa dice esser conseglio et monitione ; ma dove è consuetudine astenersi, ivi è peccato mangiarla ; così dice la Silvestrina, tit. Ieiunium paragr. 28 et altri. Et perché li Greci non hanno per consuetudine tale astinenza, però si possano escusare.

13. Sogliano anco mangiar carne il venerdì di carnevale, il venerdì doppo la Pasqua et tutti li venerdì che occorreno tra il Natale et la Epifania.

Questo è abuso introdotto da gulosità, però se gli deve prohibire, perché l’astenersi da carne il venerdì è precetto: De consecratione, dist. 3 cap. De esu carnium.

14. Li Greci qualche volta il sabbato, invitando li Latini, li danno a mangiare carne, et quelle mangiano, non si curando dal loro costume latino. Li Greci peccano inducendoli al male, et li Latini peccano, facendo contra la loro santa consuetudine, come si può vedere dist. 12, cap. Illa autem; et dist. 76, cap. Utinam. Onde si deveno acerbamente castigare.

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Giovanni Cisternino 15. In chiesa rarissime volte s’inginocchiano, et quando vogliano fare il segno della croce, una gran parte di loro non la sa fare, né curano d’imparare la doctrina cristiana, né Credo né Pater Noster.

Quando all’inginocchiarsi in terra, è bene farli più frequenti. Dice il concilio Turonense celebrato sotto Carlo Magno, cap. 37: oraturus hami corpus suum prosternat semper et genua figat, exceptis diebus dominicis, et illis solemnitatibus quibus Ecclesia ob precordationem dominicae resurrectionis solet stando orare; così anco dice il Padre Augustino epistola 118. Quanto alle cose della doctrina christiana, non possiamo dire come disse San Paulo: graeci sapientiam quaerunt, ma: graeci ignorantiam quaerunt: Si devono constringere che imparino il Credo, et il Pater Noster et l’Ave Maria a mente, et le dicano spesso. Così è scritto nel VI concilio Constantinopolitano, cap. 7; nel Maguntiaco, cap. 45; nel Remense, cap. I et 2; nel IV concilio Toletano, cap. 9; dove si riprendeno coloro che dicevano il Pater Noster le domeniche sole.

16. Il sacerdote nella Messa prega per li principi christiani, per li vescovi cattolici et per il loro patriarcha constantinopolitano Hieremia, ma non sogliano pregare per il papa.

Loro sempre hanno mostrato poco conto fare del pontefice romano, però poco si curano pregare per lui, immaginandosi non esserli soggetti; et li Greci che sono in Sicilia fanno l’istesso, perché s’ordinano in Levante et ivi imparano questo stesso, perché s’ordinano in Levante et ivi imparano questo abuso; però se gli debbe rimovere tale negligenza o abuso.

17. In presenza de vescovi et arcivescovi nessuno sacerdote dà beneditione, ancorché il vescovo lo conceda.

Il concilio II Hispalense, cap. 7, par che prohibisca alli sacerdoti benedire in presenza di vescovi; però questo s’intende quando il vescovo non lo concede, però concedendolo è lecito; così accenna il concilio Agathense, cap. 47, il I Aurelianense, cap. 28 et Nicolò papa I scrivendo a Michele imperatore, onde non si deve tener per cosa prohibita.

18. Non sogliano tener libri spirituali in lingua volgare.

Questa è cosa dannosa a loro, perché si privano di sapere molte cose che imparerebbono nelli libri spirituali catholici.

19. Tengano alcuni libri apocrifi et forse anco prohibiti.

Li vescovi et altri loro superiori debbeno esser diligenti in levarli via tali libri reprobati o suspetti.

20. Alli morti prima che li seppeliscano li buttano dell’olio della lampada, che sta accesa dinanzi il Santissimo Sacramento o d’altra lampa; et l’olio lo metteno al capo, alli piedi et spalle in segno di croce, dicendo: col segno della tua croce, pietoso Dio, la morte si mortifica, et noi ci siano vivificati; benedetto sii tu Iddio, al quale così t’ha piaciuto. Altri li buttano adosso acqua et vino.

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Eugenio IV nella fine del concilio Fiorentino, dimandò alli Greci perché causa facessero tali ontioni a morti; et non li seppero rispondere. Io questo lo giudico per suspettione che debba levarsi via.

21. Quando un morto si porta alla chiesa, all’hora li parenti portano nella chiesa gran quantità di pane, vino et formento cotto; et ogn’uno di quelli che ha accompagnato il morto, mangia et beve almanco una volta in chiesa, et diceno farlo acciocché quelli che hanno mangiato preghino Dio per l’anima del defunto.

Il portar pane et vino sopra le sepolture, par che sia secondo le parole dette da Tobia a suo figliolo (Tob. 4): panem et vinum super sepulcrum iusti constitue. Però all’hora li morti li seppellivano nei campi, adesso non è bene mangiare né bevere in chiesa; ma tale elemosina per li morti ben si può distribuire fuora di chiesa in qualche luogo commodo, et così si deve ordinare, a ciò la casa di Dio non paia hostaria pubblica, né luogo di conviti; così accennano il concilio III Cartaginese cap. 30 et Aquisgranense cap. 19; et il padre Augustino lib. VI Confessionum, cap. 2 racconta che Santo Ambrosio prohibì agli infedeli che non portassero nelle chiese pane né vino né companaggio, acciò non si dasse occasione d’imbriacarsi, et si mostrasse una similitudine dei Gentili nelle feste de parenti.

22. Non vogliano seppellire li morti nelle sepolture communi, ma cavano ogni volta la terra separatamente.

È ben vero che è scritto: non sepeliatur mortuum super mortuum nisi prius cadaver sit marcidatum: così dice il II concilio Mantisconense cap. 17 et Altisidiorense cap. 15; però questo si fa per levare l’horrore et puzza; ma loro lo fanno per superstitione. Di più s’ha da considerare che quelle costitutioni de concilii sono fatte a ciò uno non levi il luogo della sepoltura all’altro et non per altra causa, come si vede nel decreto 17 del secondo concilio Mantisconense. Però quello che questi concilli ordinorno per conservar pace fra popoli, li Greci applicano a superstitione.

23. Di quello che è restato nella lampa si butta in terra in segno di croce, dove è sepolto il morto; et il sacerdote piglia un poco di quella terra mescolata con l’acqua della lampa, et butta sopra il morto, dicendo le parole del Genesis (Genesis, 3): terra es et in terram ibis; et poi dice una lectione di Iob, di quelle che noi habbiamo nel officio de morti; gl’altri sequitano poi buttando terra sopra il morto.

Questa cerimonia è sopportabile, perché mostra alli circostanti la miseria humana per il peccato d’Adamo.

24. Doppo tre di che uno è sepolto, fanno dire le Messe del 3° giorno, del 9° e del 40°, dicendo: sì come il corpo si va formando in questi giorni, così nelli tre primi giorni perde il colore, nelli 9 la carne si dislega, si disfà et resta solo il cuore, nelli 40 si disfa il cuore.

La cerimonia delle Messe nel 3° nel 9° et nel 40° giorno è buona, et è usata nella chiesa romana; però la ragione è detta con poco fondamento.

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Giovanni Cisternino 25. In alcuni luoghi s’usa che quando uno è morto, viene una donna ogni mattina per 40 giorni, et li butta acqua addosso, dicendo alcune parole; l’ultima mattina li spezza quel vaso, lasciando li pezzi sopra il morto, et se ne fugge via correndo senza voltarsi adietro.

Questa è superstitione chiara, però si deve attender a levarla via et castigare a chi l’osservaria.

26. Li sacerdoti Greci nutrisceno la barba et li capelli, né mai li tagliano, dicendo che vanno a guisa di Christo, solo tagliando di sopra un poco. Non si tagliano li mostacci, onde nel sumere il sangue, li peli si bagnano di sangue.

Quanto al portar la barba è prohibito nel IV concilio Cartaginese, cap. 44, et nel III de decretali De vita et honestate cleri, cap. Siquis ex clericis, et cap. Clericus. Quanto alli capelli, papa Aniceto nella epistola decretale gliele prohibisce; similmente il concilio predetto Cartaginese nel predetto luogo; l’Aquisgranense, cap. I; l’Agathense, cap. 20 et Gregorio III nel concilio Romano cap. 17. Ma perché li Greci si potrebbono scusare dicendo che non nutrisceno tutta la chioma, ma quelli capelli della corona et quelli sopra del capo li tagliano, però odano quello che dice contra loro il IV concilio Toletano, cap. 40: Omnes clerici detonso superius capite toto, interius solam circuli coronam relinquant, non sicut hucusque in Galiciae partibus facere lectores videntur, qui prolixis ut laici comis in solo capitis apice modicum circulum tondent; ritus enim iste in Hispanis haereticonum fuit. Unde oportet ut pro amputando ab ecclesiis scandalo hoc signum dedecoris auferatur, ut sit una tonsura vel habitus, sicut totius Hispaniae est usus. Qui autem hoc non custodierit, fidei catholicae reus erit. Si che è bene levargli via questo costume de Nazareni et far tagliar un poco li mostacci, che quasi li portano alla turchesca.

27. Li vasi et ornamenti che appartengano al servitio della chiesa, li tengano sporchi, senza alcuna politezza.

Ben disse San Paulo, scrivendo a Tito nel I° capo: Cretenses semper mendaces, male bestiae, ventres pigri; onde si come sono pigri nell’altre cose, così sono pigri nelle cose della chiesa; però è bene che li prelati li faccino solleciti, et diligenti.

28. Li monaci Greci poco si curano degl’ordinationi, et statuti regulari, fatti da santi padri, intorno alla vita et stato loro. Innocentio IV li comandò che gl’ordinationi et statuti regulari de santi padri della vita et stato de monaci s’osservassero inviolabilmente tanto da gl’abbati, come da monaci greci, et così si deveno fare. 29. Essendo maritato un Greco con una Latina, o un Latino con una Greca, qualche volta il marito comincia a vivere secondo il rito della donna; qualche volta la donna sequita il rito del marito, lasciando il suo.

Se la mutatione si facesse accostandosi ambi dua al rito latino, sarebbe buonissima cosa; il che non potendo farsi, ogn’uno doveria sequitare il suo rito; et non potendosi far questo, giudicarei che più presto la donna dovesse sequitare il rito del marito, perché San Paulo dice (Ephes. 5; I Cor. 11) che l’homo è capo della donna,

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Documenti et deve regger la donna; ma il meglio sarebbe impedire che Greci non contrahano matrimonio con Latini né Latini con Greci. 30. Li sacerdoti nelli conviti de nozze sono li primi a invitar a bere, et a far imbriacare, et cantano et fanno peggio delli laici.

Li sacerdoti chierici et monaci non deveno andar a conviti di nozze; così diceno il concilio Agathense, cap. 30, il Venetico, cap. 11, l’Altisiodorense, cap. 24, Laodiceno, cap. 53. Et se vi andassero, non deveno ivi cantare: così dice il concilio Altisiodiorense, cap. 40; et cantando debbeno esser puniti et rimossi dall’officio; così dice il concilio IV Cartaginese, cap. 62; et imbriacandosi debbeno esser puniti: clericis quos ebrios fuisse constiterit, triginta dierum spatio negetur communio, aut corporale infligatur supplicium: così dice il concilio Agathense cap. 4 et il Venetico cap. 13. Quanto all’invitar a bere et far brindisi, nel concilio II Lateranense sotto Innocentio III cap. 15 è scritto così: illum abusum quo in quibusdam partibus ad potus equales suo modo se obligant potatores, et ille iudicio talium plus laudatur, qui plures inebriat et calices fecundiores exhausit, decernimus penitus abolendum; siquis autem super his culpabilem se exhibuerit, nisi a suo superiore commonitus satisfecerit competenter, a beneficio vel officio suspendatur. Però è bene correggere in questo li sacerdoti greci, vetandoli che non vadino a nozze.

31. Hanno li Greci un certo costume di farsi fratri de santi et sorelle de santi, mettendosi le mani l’uno sopra dell’altro sopra l’altare; et il sacerdote dice alcune orationi et poi si baciano, talché un homo alle volte per basciar una donna finge volerla per sorella de sancti.

Questa cognatione spirituale non nascendo per causa di sacramento, è nulla; onde è bene levargli questa ignoranza: perché quando si maritano, stanno con scrupolo; et si levaria questo abuso di baciar le donne sotto pretesto di santità.

32. Li Greci nelle immagini di crucifissi depingeno Christo inchiodato con quattro chiodi, mettendo un chiodo per ciascun piede.

Il dire che Christo fu chiodato con tre chiodi, è opinione più comune; però questo non importa tanto, perché solo le pitture antiche sono con quattro chiodi, ma le moderne tutte con tre; et così giudico doversi tenere, et levar via l’abuso in contrario, perché nel conto che fanno li Greci de chiodi di Christo, vi metteno uno, quale non fu vero chiodo, ma fatto a similitudine d’un chiodo vero.

33. Nelle loro chiese non vogliano tener imagini de santi di rilievo, né di pietra né di legno.

Se si muoveno per il comandamento di Dio nell’Exodo: non facies tibi sculptile, deveno anco leggere appresso che dice: neque omnem similitudinem; dunque, né anco doverebbono usare immagini. Però, sì come Iddio ivi prohibì l’imagini di dei antichi, così anco prohibì le sculture et statue degli idoli, et dei antichi: sì che questa loro consuetudine mostra nascer da ignoranza76.

D. MINUTO, “Il Tractato contra Greci – di Antonio Castronovo (1579)”, sta in “La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo”, Atti del convengno storico interecclesiale (Bari, 30/04 - 04/05/1969), editrice Antenore, Padova, 1973, vol. III, pp.1001-1002, 1006-1011, 1013-1015, 1018, 1028, 1044-1045, 1052-1056, 1061-1073. 76

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Giovanni Cisternino

BIOGRAFIA DELL’AUTORE Giovanni Cisternino è nato a Melendugno (LE) il 14 dicembre 1956. Diplomato all’Istituto Magistrale “P. Siciliani” di Lecce, nell’anno scolastico 1974/75, successivamente ha frequentato il 3° anno del corso di laurea in materie letterarie presso l’Università degli Studi di Lecce. Ha svolto il servizio militare di leva in Marina Militare dal 27/02/1977 al 31/08/1978 in qualità di Sergente Furiere “D”. Nel 1999 è stato insignito a Roma del titolo di: Guardia d’Onore del Pantheon. Il 26 ottobre 2002 è stato insignito col titolo di Accademico dei Normanni, dato a Roma dall’Academy Norman (city of Miami State of Florida – U.S.A.) con decreto n° 040/D/2002. Insegnante elementare, attualmente è impiegato statale presso la Corte di Appello di Lecce. Ha scritto nel 1981 una commedia in vernacolo melendugnese in quattro quadri dal titolo “La Strata”. Nel maggio 1983, quale Insegnante, insieme ai ragazzi di 5^ della scuola elementare statale di Melendugno, gli è stato conferito un “Premio Nazionale” dal Gruppo Stabile Folkloristico Teatrale di Barletta (BA), in occasione della rassegna nazionale di musica, canti e danze popolari, organizzata sotto il patrocinio del Ministero della Pubblica Istruzione. Ha partecipato a diverse rassegne poetiche nazionali come il Concorso Nazionale “Merate (CO)” nel 1987; al 3° Premio Nazionale di poesia-narrativa-saggistica “Cinque Terre” di La Spezia nel 1988; al 10° Premio Nazionale “Agosto Leonfortese (EN)” nel 1988 ed altre. Nel 1989 ha scritto un lavoro inedito sulla storia di Lambrugo (CO), che ha donato alla Biblioteca Comunale di quella località. Ha pubblicato poesie con la casa editrice “Il Quadrato” di Milano – nella collana “Presenze” e nel 1990 ha pubblicato, con la stessa casa editrice, una cassetta con poesie di autori italiani e stranieri, tra cui “…Montale, Verlaine, Ezra Pound, Lee Masters, Thomas Stearns Eliot ed altri” tra cui due sue poesie “L’Emigrante e Lungo la strada… spirito puro” con annessa recensione. La stessa casa editrice “Il Quadrato” gli ha conferito nel 1991 l’“Oscar dell’Arte”, che come è riportato sulla pergamena è scritto: per la sua qualità di lavoro che ne ha fatto per Sonoaggio e artista di valore internazionale. Ha pubblicato degli articoli su giornali come il “Quotidiano” di Lecce, “Vento del Nord” di Erba (CO), oltre a diversi articoli su giornali locali come “l’Alveare”, “Il Melendugnese” e “Il Malandrino”. Nel 1992 ha scritto un libretto dal titolo “Storia di soldati-eroi melendugnesi nella guerra di liberazione” dedicato ad Antonio Petrachi, classe 1916, ed ai soldati della prima guerra mondiale, in occasione del ritrovamento, da parte sua, nella parrocchiale locale di un ex voto a San Niceta ma, il lavoro vuole essere anche uno spaccato della realtà melendugnese.

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Documenti Pubblica dal 1994, a più riprese, lavori di prosa e poesia su “Presenza Salentina”, rivista periodica di poeti e scrittori, diretta da Antonio NAHI, edita da Zane Editrice di Melendugno. Nel 1995 ha pubblicato un libro di storia dal titolo “Insediamenti storico-architettonici nell’area melendugnese” con allegato un libretto di poesie, dedicato ai monumenti in degrado del comprensorio di Melendugno dal titolo “Motacci”, Zane Editrice. Nel 1996 ha pubblicato, insieme all’amico Antonio PETRACHI, una monografia storica dal titolo “Il baronato dei D’Amely nella Melendugno tra il XVIII ed il XX secolo”, Zane Editrice. Tra il 1995 ed il 2005 ha scritto dei saggi di presentazione critica ai seguenti libri: - Ada CARACCIOLO, “Dove vanno le stelle” (raccolta di poesie); - Giovanni PASTORE, “Riflessi dell’anima” (raccolta di poesie); - Angelo PETRACCA, “Logie ed ipotesi” (trattato filosofico-religioso). - Oliviero CARLINO, “Nel Cuore dei Vivi” (raccolta di poesie). - Nel 1997 ha pubblicato, insieme all’amico Antonio NAHI, un lavoro storico dal titolo “Melendugno e Borgagne tra le due guerre mondiali – I reduci raccontano…”, Zane Editrice. Nel 1997 ha pubblicato, ancora, insieme all’amico Giovanni PASTORE, un lavoro storico-fotografico dal titolo “Lecce si racconta…”, Zane Editrice. Il 3 agosto 1998 ha pubblicato un lavoro storico dal titolo “Acaya nella storia”, Zane Editrice, presentato di fronte a S. Eminenza Salvatore DE GIORGI, Cardinale di Palermo, di Mons. Donato NEGRO, vescovo di Molfetta, di Mons. Giuseppe SEMERARO, vescovo di Oria e di Mons. Rosario CISTERNINO, parroco di Acaya. Nel settembre 1998, insieme ad altri amici autori, ed in occasione delle festività patronali di San Niceta in Melendugno, ha pubblicato un lavoro storico dal titolo “Il Santo patrono Niceta”, Melendugno, Zane editrice. Nell’agosto 2000 ha pubblicato “San Foca e Torre dell’Orso nella storia”, Melendugno, Zane editrice. Nel novembre 2000 ha pubblicato “De Bello Lupiaensi – ovvero la guerra di Roca”, Lecce, Liber Ars editrice. L’8 dicembre 2000 ha pubblicato, insieme all’amico G. Pastore, “Caprarica di Lecce” edito con delibera del Consiglio Comunale di Caprarica di Lecce. Nel maggio 2001 ha pubblicato “La Cappella della Madonna del Buon Consiglio”, Melendugno, Zane editrice. Nel dicembre 2002 ha pubblicato “La Toponomastica antica di Melendugno (18092002) ovvero Dizionario Toponomastico con notizie storiche ed artistiche”, Melendugno, Zane editrice. Nel gennaio 2007 ha pubblicato “Terra di Acaya e Roca ovvero L’Abbazia greco-latina di San Niceta in Melendugno e le sue grancie”, Melendugno, Zane editrice. Nel maggio 2011 ha pubblicato “Nicetino Montinaro – La vita e la fede di un uomo semplice”, Melendugno, Il Salentino editore. Nel giugno 2012 ha pubblicato “Rocavecchia e Rocanuova in Terra d’Otranto”, Melendugno, Il Salentino editore.

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